venerdì 13 gennaio 2012

aldo schiavone libro

ITALIANI SENZA ITALIA
Aldo Schiavone

Capitolo primo
IL PRIMO SECOLO

1. Noi, che vi siamo nati preferiamo da tempo non parlarne più

Di tutti i posti della terra non ve n’è uno che abbia avuto una vicenda così lunga, intensa e determinante per il resto del genere umano, da reggere il confronto con la morbida penisola mediterranea, che da un’età lontanissima si chiama Italia.

In contrasto con la resistenza e la tenacia evocate da tanta durata, non smette di colpire la dolorosa fragilità del paese che tutti i giorni conosciamo, e che siamo costretti sempre daccapo a fronteggiare.

La sensazione di vivere in una società a rischio.

Sta accompagnando gli italiani in una fine secolo meno tranquilla di quanto molti di loro non avessero sperato.

Ma tutti insieme condividono una sorda insoddisfazione – una scontentezza ora latente.

L’immagine di un popolo minato dalla sfiducia – che spesso, per ragioni polemiche, si tende a presentare come dominante – è però ingannevole, e comunque soltanto parziale.

Le scelte e le strategie di quella miriade di segmenti sociali in cui si è frantumato, da noi più che altrove, il monolitismo delle classi d’una volta – ceti, organizzazioni, gruppi – non hanno mai smesso di esprimere in questi anni una tensione sorprendente, una disponibilità all’invenzione e al rinnovamento, un’attitudine a imparare, un gusto della sfida, che hanno pochi eguali nel panorama europeo.

Torneremo poi sul senso della contraddizione che sembra delinearsi molto più che un semplice scarto tra pessimismo pubblico e ottimismo privato.

E’ sufficiente per ora notare come anche un sol colpo d’occhio sul disagio e insieme sulla vitalità dell’Italia contemporanea permetta di intercettare un altro motivo conduttore della nostra storia: la presenza di un ricorrente ondeggiare, nel sentire degli italiani, che non smettono di raffigurarsi, fra primato e decadenza.

Di colpo, il paese ha dovuto affrontare, nello stesso tempo, due mutamenti: culturale, ed economico l’uno, condiviso con il resto dell’Occidente, ma che ha imposto a noi – ultimi arrivati, e dio sa con quanti problemi, nel giro delle grandi potenze industriali – gli sforzi più aspri; politico e istituzionale l’altro, solo italiano, provocato dalla fine del particolare status democratico che ci aveva protetto per quasi cinquant’anni.

In pochi anni – e senza averlo davvero voluto – il paese s’è trovato così a dover cambiare riferimenti ideologici, baricentro politico, asse economico: insomma a recidere il filo di mezzo secolo. Nella tensione che si è sprigionata, i problemi non sciolti, ma solo accantonati lungo un tormentato cammino, si sono ripresentati insieme nelle forme più diverse – spesso anche come microtaumi dell’esperienza quotidiana – ma con il tratto comune d conti non chiusi, di ferite non sanate. Alcuni, li avevamo dimenticati, perduti sotto la coltre che ci aveva coperto durante l’intero dopoguerra; altri, pensavamo di averli superati una volta per tutte; di altri ancora, semplicemente ignoravamo la portata. La consistenza della nostra identità collettiva; la diversità fra Nord e Sud e il carattere duale del nostro capitalismo; la frantumazione localistica; lo spessore reale della modernizzazione, oltre il velo delle apparenze; la tenuta intellettuale ed etica delle classi dirigenti; la tenuta intellettuale ed etica delle classi dirigenti; la tenacia dell’impronta lasciata dalla Chiesa sulla stratificazione delle coscienze e nelle stereotipe dei comportamenti; la forza dello Stato, le sue basi di consenso e la sua effettiva capacità di comando e controllo; l’orientamento professionale e civile dell’amministrazione pubblica; lo spirito di solidarietà “nazionale” che siamo in grado di mostrare: come capita spesso nei momenti difficili di una persona o di un popolo, tutto il peso del già accaduto sembra aver deciso di precipitarci addosso concentrato in una sola sequenza, per presentare la sua lunga lista di debiti e di inadempienze.

Più complicato e imprevisto si rivela il presente, più inquietante e sconosciuto è il passato che esso lascia intravedere dentro di se.

2. Quasi nessuno lo ricorda: ma il secolo che sta finendo è il primo e l’unico che l’Italia abbia passato per intero in forma politicamente ricongiunta, dopo una divisione durata circa mille e quattrocento anni. La testa di un giovane Stato, piantata sul corpo di un paese antichissimo: associazione assai rara, che evoca profili di figure mostruose.
L’idea dell’unità – meglio, di una nuova unificazione, sulle orme di quella antica, romana – aveva attraversato a lungo la nostra cultura, da Dante ai romantici del primo Ottocento: ma più come motivo intellettuale e retorico che come reale prospettiva politica, o autentico sentimento di popolo.

Paradossalmente, dopo tanta attesa, il risultato fu anche, in parte, casuale, almeno rispetto alle intenzioni del protagonista: sino alla fine, infatti, Cavour aveva avuto in mente una soluzione diversa, meno impegnativa e più gradualistica: l’abbozzo di un’ipotesi confederale, cui rinunciò solo all’ultimo, sotto l’incalzare degli avvenimenti.

Se dovessimo raccontarle distesamente, le vicende politiche dopo l’unificazione si potrebbero raccogliere in tre blocchi, interrotti da altrettante cesure: dal 1861 al  1915; dal 1922 al 1943; dal 1948 al 1992: l’Italia dei padri fondatori (sarebbe improprio scrivere “liberale”, perché, liberale davvero, il paese non fu mai, sempre prigioniero dello statalismo delle sue classi dirigenti); l’Italia fascista; l’Italia della repubblica democristiana, o, se si preferisce, della guerra fredda interna. Fra loro, tre brevi ma intensi periodi di trasformazione, sebbene di portata e peso diseguali: 1915-22, con il conflitto mondiale e la crisi che condusse al fascismo; 1943-48, con la sconfitta, la Resistenza e la costruzione della Repubblica culminata nella stabilizzazione moderata, dopo le elezioni del 18 aprile; e infine gli anni dal 1992 ad oggi, con il crollo del predominio democristiano – in seguito alla conclusione della guerra fredda sia interna sia nel mondo – l’esaurirsi dell’equilibrio costituzionale che ne era derivato, il cedimento del vecchio sistema dei partiti, e la faticosa ricerca, per nulla completata, di un nuovo ordine repubblicano.

E’ poi importante osservare come, in ognuna delle tre fasi, le spinte decisive per il cambiamento siano state indotte da eventi esterni.

Il medesimo compito è stato svolto dalla fine dell’esperienza politica del marxismo e dalla disintegrazione dell’Unione Sovietica, che hanno bruscamente reso inattuale l’armamentario ideologico delle Democrazia cristiana, cancellando il suo ruolo di scudo anticomunista e di garante della posizione internazionale dell’Italia.

Essi diedero sempre vita a sistemi bloccati, ipnotizzati dalla continuità e dal conformismo politici, la cui esistenza si reggeva sul carattere totalizzante e, per così, corazzato, dalle maggioranze che esprimevano.

Questa incapacità spiega quel particolare aspetto di “crisi di regime” (come è stato definito da Massimo Salvadori), assunto dal concludersi di ognuno dei tre cicli.

Essi seppero inchiodare sempre le opposizioni al rischioso dilemma (o alla schisi strategica)  fra il ruolo estremo di un “anti Stato” sovvertitore dell’ordine costituito, e una collaborazione più o meno diretta e palese.

Costruire sistemi bloccati, superabili solo con l’aiuto di spinte arrivate dall’esterno, sembra dunque una nostra peculiare vocazione.

Abbiamo avuto la Controriforma (o come altrimenti la si voglia chiamare) senza mai provare una vera Riforme e i progetti rivoluzionari, da quelli napoletani del 1799 alle cospirazioni mazziniane, alla spallata operaia del 1919-20, sino allo stesso fascismo delle origini (diremo più avanti della Resistenza), sono sempre finiti in rivoluzioni fallite o tradite, che è poi la medesima cosa.

3. Alle soglie dell’Europa, ci scopriamo incerti sul senso e la forza della nostra unità.

Si tratta di una percezione fondata su una realtà incontestabile: un persistente brivido di disunione sta increspando la superficie della nostra convivenza.

Nel malessere dobbiamo distinguere almeno tre soglie. Innanzitutto, una specie di disagio unitario (non saprei come altro chiamarlo), una sorta di rinnovato e generico rancore verso lo Stato, che attraversa l’intera Italia,  nutrendosi nelle diverse realtà di alimenti differenti, talvolta statii, altre volte freschissimi. Poi, un’insofferenza anticentralistica più mirata, con accentuati contenuti di ribellismo fiscale (un vecchio motivo italiano), particolarmente acuta in alcuni contesti di provincia, fra Ticino e l’Adda. Infine, una febbre veneta (fin troppo illuminata da un’informazione sommaria), indotta da elementi legati alla storia sia lontana sia recentissima dei luoghi: dove un’impetuoso sviluppo economico, seguito a una lunga stagnazione, sta mescolando residui di passati non sufficientemente digeriti a una crescita che ha saltato, per un singolare corto circuito, tutti i gradini intermedi morali e sociali, dell’industrializzazione classica, creando una situazione difficile, con vistosi stress culturali.

Quel che l’opinione pubblica sembra aver colto è che, al di là dei modesti successi dei gruppi secessionisti, e dell’irrealismo delle loro parole d’ordine, una divisione del paese è già in atto, e non ha bisogno, per manifestare i suoi effetti, di ulteriori successi.

Un atteggiamento mentale che si va facendo strada, dovunque, al Sud come al Nord, e che prima non esisteva, di rassegnazione indifferente (o cinica) alla disunità.

Ci si rassicura per l’inanità dei proclami, e intanto si accoglie in silenzio l’ineluttabilità di distanze, di estraneità, di barriere, che pensavamo di aver superato per sempre. Aumenta e si rafforza un sentimento di reciproco distacco, un arrendersi alla frantumazione dei destini, che non ha nulla del vecchio localismo storico: ma piuttosto collega a rivendicazioni senza passato l’idea che ciascun pezzo d’Italia debba entrare per proprio conto, come può e come sa, nel gran giro dell’Europa e del mondo. Il rifiuto abbastanza convinto delle forme di intolleranza più estreme, come degli obiettivi politici più radicali, non impedisce a un distillato di micidiali veleni d’infiltrarsi sottilmente nel tessuto della vita comune: invenzioni di pseudaidentità regressiva (la zolla e il sangue), soprassalti di egoismi ringhiosi, razismi fondati (immancabilmente) su interpretazioni storiche aberranti (abbiamo dovuto persino sentire dei “padani” come discendenti dei celti).

La possibilità che il paese possa tornare formalmente a dividersi risulta abbastanza remota: cominciamo però ad abituarci al pensiero che l’unità, per molti, non appaia un fondamento intoccabile, ma solo, in una versione debole e minimalista, come una circostanza cui acconciarsi in mancanza di meglio; e che comunque essa vada valutata più sul piano della sua (eventuale) utilità, e dei vantaggi politici ed economici, che non su quello di un essenziale patrimonio collettivo, da preservare e arricchire. L’Italia, insomma, come male minore o (tutt’al più) come opportunità da non perdere; non come valore in cui riconoscersi.

E’ ben possibile che corrano verso il disastro politico loro, e dei loro più diretti seguaci, ma la sorte della piccola e mal attrezzata barca che stanno guidando è cosa diversa dalla forza della corrente che la trascina.

Lentamente, la verità si fa strada: siamo di fronte a un cedimento grave dei legami che avevano assicurato la tenuta del paese nell’epoca della ricostruzione e del “miracolo”, e che avevano ancora retto alle prove degli anni settanta: il terrorismo, gli sconti sociali, i problemi economici. Non c’è retorica che possa nascondere questo dato di fatto.
Un certo grado di sofferenza nella coesione degli Stati nazionali è problema, ormai, abbastanza esteso, dalla Francia alla Gran Bretagna, alla Spagna, al Canada. Lo si può far discendere, in parte, dalla mondializzazione delle economie, delle idee, dei consumi (non solo materiali): e in Europa, anche dalle nuove prospettive unitarie (vi ritorneremo). Il localismo (o il regionalismo) possono sembrare – in contesti di particolare sollecitazione – gli antidoti più a portata di mano contro la perdita del senso dei confini, e lo spaesamento da implosione degli spazi e delle culture. In Italia, però, il disagio s’è sprigionato con un’intensità altrove sconosciuta. Vi senti premere dentro ragioni lontane.

Capitolo secondo
LA REPUBBLICA, NON LO STATO

1. La repubblica, al suo esordio, aveva ereditato una situazione difficile. La frattura fra governanti e popolo, che aveva segnato il percorso del Risorgimento, non si era mai ricomposta: Gramsci e Chabod vi hanno scritto sopra pagine memorabili. L’estraneità non riguardava soltanto le masse contadine, il nascente proletariato o le plebi urbane, ma la maggior parte di quel poco di piccola e media borghesia allora esistente, e, per certi versi, gli intellettuali.

Nella precoce (e sorprendente, da parte sua) denuncia di Crispi – ottenemmo soltanto “la polizia” e il “il prete”. Da un lato la repressione come nel mezzogiorni, dove nell’illegalità del ribellismo confluivano elementi di autentica lotta di classe, insieme a forme di “banditismo sociale” e residui di antico regime.

Il successo fu pagato. Si innescarono trasformazioni sociali, tensioni di classe e spinte emotive incontrollabili all’interno del ristretto quadro conservato dalla monarchia. La pressione operaia si scontrò con un fondo autoritario – protezionista e colonialista – che si era accompagnato sin dalla fine del secolo precedente all’incerto cammino della nostra tradizione liberale. Si creò un nodo che l’assediata cittadella giolittiana non si dimostrò capace di sciogliere.
Il fascismo ne divenne la conseguenza diretta. Esso fu un’invenzione assolutamente originale; l’autentico ‘modello italiano’ nella politica del Novecento: la prima (e precoce) risposta di destra alla nuova combinazione fra masse, partiti, Stato e leadership venuta fuori dal magma incandescente della rivoluzione d’ottobre.

L’alchimia che ne determinò il trionfo fu tutta nell’aver stabilito un rapporto fra modernizzazione e critica da destra alla democrazia; nel mostrare cioè come un regime reazionario, potesse essere, a suo modo, marcatamente industrialista e perseguire un ambizioso progetto di modernità: una prospettiva su cui, nonostante le fini intuizioni di Silvio Lanaro, non abbiamo ancora riflettuto a sufficienza (nemmeno Renzo De Felice e i cosiddetti “revisionisti” mi pare abbiano colto davvero il punto, peraltro già nebulosamente intravisto da Gramsci nei Quaderni).

La strada intrapresa, dopo qualche ondeggiamento, legò sviluppo produttivo, sostegno al grande capitale privato, diffuso intervento statale, demagogia populista, ipertrofia burocratica e sagacia repressiva in una miscela senza eguali – una specie di inconsapevole keynesismo autoritario e paternalistico – che, nonostante le molte ricerche di questi anni, aspetta ancora di essere indagata in caratteri e conseguenze essenziali.

Il  fascismo non solo non aveva concluso l’opera  di educazione nazionale delle masse contadine, operaie e piccolo borghesi lasciata incompiuta dall’Italia “liberale” ma aveva finito con il compromettere anche i modesti risultati.

Adesso, la cornice etica che aveva fatto da collante a quell’unione, offrendole uno sfondo ideologico e un’indicazione di valori – il mondo da De Amicis a Giolitti, per intenderci – non esisteva più.

La catastrofe militare del 1940-43, culminata nel cupio dissolvi dell’8 settembre, rivelò la profondità dei guasti. Il collasso fu qualitativamente diverso rispetto alle ricorrenti crisi militari della nostra storia recente (Custoza, Lissa, Adua, Caporetto, certo anch’esse sintomi di cadute  non occasionali.

Dove finisce il fascismo, e dove cominciamo gli italiani, in quella tragedia?
A disfarsi, fu l’intera nostra storia dal 1861, tutta l’intelaiatura pubblica della nazione.

Solo la Chiesa restò in piedi, al suo posto: confermando gli italiani nella consolidata convinzione che essa fosse l’unico scudo disponibile in grado di resistere sempre, e di superare qualunque prova.
Si spegneva così nella tragedia il ciclo iniziato con l’unificazione.

La Resistenza fu, senza dubbio, nel Nord, una lotta di dimensione assai ampie, culminata in un’insurrezione – la più importante, e forse addirittura l’unica della nostra storia – pur se, a imbracciare regolarmente le armi, rimase sempre e solo una minoranza. Questo carattere di popolo è ormai scritto nella memoria collettiva – nel genio dei luoghi, vorrei dire – di intere regioni, e ne ha segnato in modo inconfondibile la successiva esperienza civile.

Meno semplice è cogliere, oggi, l’ispirazione complessiva del movimento, nell’eterogeneità delle componenti e in rapporto alla piega che poi avrebbero preso i fatti.

Ma obiettivo comune alle diverse tendenze fu anche il tentativo di imporre (finalmente, si pensava) una discontinuità irreversibile, di determinare una svolta definitiva.

L’esito della guerra, insomma, qualunque esso fosse, sembrava obbligare in ogni caso a un rivolgimento assoluto il cui sogno coinvolgeva entrambi i fronti.

2. Le cose andarono però in modo diverso. Appena la pace fu raggiunta, i partiti che stavano nascendo.

Con freddezza, scambiarono la possibilità di ottenere un’adesione di massa, capillarmente  cercata e organizzata su tutto il territorio nazionale, al Nord come nel Mezzogiorno – in questo consisteva la loro novità, rispetto alle formazioni politiche prefasciste – con la pronta sottomissione a un vincolo continui sta e formalistico.
Scesero così subito a patti con la vecchia società e con il vecchio Stato che intanto, finito il peggio, stavano riaffiorando dalle rovine che li avevano sepolti (non bisogna mai sottovalutare l’inerzia aut conservativa delle nostre organizzazioni pubbliche.

Essi valutarono insomma di dover legare le loro fortune a un’ennesima riproposizione continuistica dei caratteri sociali e morali della storia d’Italia.
La monarchia venne liquidata (per una manciata di voti): e tuttavia la nuova legalità repubblicana si confuse ben presto con il salvataggio del precedente quadro burocratico e amministrativo dissepolto dalle sue stesse macerie.

Ma il suo impatto fu attenuato da una coltre di studiati rinvii, di cautele interpretative e di vere e proprie lacune d’applicazione, che la avvolsero subito in una polverosa patina di conformismo giuridico e civile.

E’ davvero sconcertante come un simile punto – voglio dire il rapporto ambiguo  che legò Resistenza e partiti sul tema  della continuità tra ordine repubblicano e conservazione del vecchio Stato (uomini, idee, corpi separati, poveri) – sia subito finito in una zona d’ombra della nostra memoria (per non dire del nostro dibattito politico e storiografico). Si tratta invece di un nodo che tiene stretta l’intera storia italiana dell’ultimo mezzo secolo.

Lo schermo fra Resistenza e (futura) Repubblica esercitano dai partiti sin dalla primavera del ’45: un filtro mirante a ridurre in modo indolore il trauma della guerra partigiana nei termini di una continuità istituzionale che non si voleva a nessun costo spezzare.

Perché non si avviò – in quei mesi cruciali – diciamo fra la primavera del ’45, prima e durante i lavori della Costituente – un’opera di rifondazione dello Stato al di fuori di ogni compromesso con i resti degli antichi regimi, sia fascista, sia monarchico liberale? Per quali ragioni non si determinò una spinta abbastanza forte da sostenere la nascente Repubblica su basi diverse rispetto a quelle offerte dalla riesumazione degli apparati, dei centri di potere, della legalità e della macchina burocratica trasmessi dal passato?

Quale ostacolo non permise di orientarsi verso una rottura dell’impianto statale ereditato dal disastro liberale e da quello fascista, pur senza mettere in forse il carattere capitalistico della ricostruzione?

Essi strinsero un compromesso che riproponeva il moderatismo come punto di partenza e come prima sostanza del nuovo ordine.

Il terreno dell’accordo fu innanzitutto la continuità dello Stato.

Ma ciò non toglie che nello sciogliere di stare insieme, pur essendo così lontana.

I partiti esprimessero, ciascuno per la sua parte, una domanda  di coesione e di guida allora profondamente avvertita. Un’esigenza e di pace.

La Costituzione fu la figlia nobile e precoce di questo sentimento. La soluzione moderata ne diventò ben presto l’esito inevitabile.
Il risultato elettorale del 18 aprile 1948, che fisso nei volti l’egemonia democristiana sulla Repubblica e chiuse la transizione.

Trent'anni dopo, fra il '76 e il '79, il medesimo schema tattico sarebbe stato ripetuto (consapevolmente?) dagli eredi di De Gasperi, incalzati dall'iniziativa e dal successo di Berlinguer, che aveva proposto una rinnovata edizione del compromesso fondatore della Repubblica, intuendo la crisi in cui stavano cominciando ad avvitarsi istituzioni e partiti. Di nuovo tre mosse, in rapida sequenza: accordo con i comunisti; coinvolgendo entro una stabilizzazione moderata in cambio di un avallo a governare; successiva esclusione, sancita da una conferma elettorale, appena superato il momento critico.

L'annodarsi dei fili che riportavano l'impalcatura statuale e la sostanza giuridico-amministrativa della Repubblica ai precedenti regimi italiani piuttosto che alle indicazioni della Resistenza si fece sempre più evidente con il consolidarsi del potere democristiano dalla fine degli anni quaranta al pieno del decennio successivo.

La sconfitta socialcomunista non cancellò tuttavia il compromesso tra i partiti che tra il '45 e il '47 aveva nello stesso tempo consentito la stesura della nuova Costituzione e proiettato un'impronta continuista sulla nascente Repubblica.

Adesso tra la fragilità dello Stato e la domanda politica che emergeva dalla società – in un inedito ruolo di garanti e di protettori – stavano, ben saldi, i corpi e le articolazioni dei grandi partiti di massa, autentici principi del nuovo ordine. Erano loro i custodi della democrazia e i difensori – sia pure in mutate condizioni – del patto che l’aveva vista sorgere.

Nel cammino verso la democrazia, i partiti, con i loro stati maggiori già selezionati, e il loro peso organizzativo già aggregato, figuravano – per funzione e storia – come un presupposto e non come conseguenza; un “prius” e non un “posterius” rispetto all’edificio costituzionale, come direbbero i giuristi.

Sia chiaro: questa strada fu, in parte, un percorso obbligato, anche dal punto di vista costituzionale. Una democrazia senza partiti sarebbe apparsa impensabile (allora come oggi); e i partiti erano stati davvero (sebbene non tutti allo stesso modo e egual misura) alla testa della lotta di liberazione; non potevano che ritrovarsi al fondamento della Repubblica.
Si aggiunse, però, qualcosa di più, e non fu poco. Vale a dire la spinta, presto irresistibile, a farne non soltanto i collettori del voto elettorale, e gli organizzatori della rappresentanza politica nelle assemblee, ma i “veri dirigenti di tutta la vita nazionale” (sono parole di Togliatti).

Il risultato fu presto sotto gli occhi di tutti. Una politicizzazione integrale sia della società civile, sia di quelle istituzioni che avrebbero dovuto rimanere per essenza neutrali: purtroppo entrambi fronti non abbastanza forti da opporre valide resistenze all’invasione. Dalla scuola alle banche, alle ferrovie, alle poste, alle università, all’associazionismo, alla magistratura, agli enti pubblici: nulla fu risparmiato, in un crescendo di voracità senza eguali nei sistemi occidentali. Si iniettò così un pericoloso germe di degenerazione nel costume politico repubblicano che ha raggiunto il suo culmine fra gli anni settanta e ottanta, e che in larga misura perduta tuttora (coperto a suo tempo anche dalle ardite concettualizzazioni intorno al “primato della politica” di una parte della cultura marxista; insomma: teoria comunista, pratica democristiana).
Del resto (vi abbiamo già accennato), le nostre classi dirigenti avevano alle spalle una tradizione di interventismo statale che risaliva sin dalle origini dell’unità – e ancor prima, addirittura alle scelte del governo sardo.

Il nostro “Stato sociale” nasceva così, sin dall’inizio, come “Stato sociale dei partiti”.

La proposta, per così dire, di una democrazia ‘disciplinata’, di una “società di figli” invece che di cittadini, in grado di riscattare nell’ubbidienza l’inguaribile fragilità dei singoli.

4. Ottenemmo così la Repubblica, ma perdemmo ancora una volta lo Stato: la possibilità di rifondarlo, e di collocarlo sullo stesso piano dei compiti che si profilavano, e che la stessa nuova Costituzione gli stava assegnando.

Invece che riformare, decisero piuttosto di conquistare (la “lottizzazione” nell’efficace immagine inventata più tardi da Alberto Ronchey), lasciando che strutture e funzioni pubbliche marcissero nell’isolamento e nella debolezza.
Lo Stato unitario, già nato come un centro effimero e lontano, non smetteva di esserlo nemmeno nella sua nuova vita repubblicana; la versione originale era solo slittata verso una variante direttamente appoggiata al sostegno della Chiesa: un modello “cattolico-mediterraneo” (come è stato definito), paternalistico, protettivo, inefficiente, disponibile a tollerare (quando non a promuovere) perfino un certo grado di anarchia individuale, pur di frammentare blocchi di interessi troppi rigidi. Le nuove classi che attraverso l’esercizio della democrazia stavano comunque entrando nel mondo della politica si accostavano non alle istituzioni, ma ai partiti.

Dopo la monarchia e il fascismo, nemmeno la Repubblica riusciva a ‘nazionalizzare’ le masse italiane (come pure aveva sostenuto Rosario Romeo).

Certo, l’unificazione avveniva in modo sempre polarizzato, dialettico: lungo due assi, marxista e cattolico. Ma poiché questa diversità aveva trovato un suo modo di coesistere, l’effetto fu una solida costruzione binaria dell’Italia, che si integrò come mai era stato sino ad allora.

I valori guida avevano sempre un contenuto cosmopolita.

Pesava inoltre la congiunta e genuina ripulsa per il disastro del patriottismo fascista: una grottesca ostentazione di muscoli che il sentire popolare aveva trovato ridicola, prima di doverla subire come tragica.

La ‘nazionalizzazione’ della società civile era abbandonata in cambio di una sua completa sostituzione con le ideologie dei partiti, che divennero il tratto dominante della vita politica italiana.

L’atteggiamento del Pci aveva tutt’altre ispirazioni. Lo alimentava quella che potremmo definire un’idea storicista e antigiacobina (se si vuole, antiromantica) della rivoluzione, come unica strategia adeguata alla realtà italiana.

L’anima di una vita democratica “progressiva” era tutta (sosteneva Togliatti) nell’organizzazione politica delle masse in partiti; e quindi nella capacità formativa dei “quadri” dirigenti; innanzitutto del Pci, cui toccava per definizione un ruolo di avanguardia.

Dalla conclusione degli anni quaranta il continuiamo del ceto politico – per quanto con motivazioni assai diverse – divenne lo scenario condiviso dell’intera politica italiana, e rappresentò lo sfondo sociale e morale nel quale venne condotta la modernizzazione produttiva (si cambia tutto perché nulla cambi davvero: lo strepitoso successo del Gattopardo, un decennio più tardi, fu dovuto anche all’autorappresentazione folgorante che vi si suggeriva per una società in cui ogni elemento mutava nel quadro materiale della vita – le città, le abitazioni, le merci, l’uso del tempo, il rapporto stesso fra popolazione e territorio, in seguito all’emigrazione di massa verso il Nord – e nulla sembrava modificarsi nei rapporti etici e di potere).
La sensazione di immobilità era accentuata dal blocco nel ricambio delle classi dirigenti, dopo le illusioni del primissimo dopoguerra.

E la geografia dei poteri che esprimevano la società civile e i corpi dello Stato – dalla magistratura alle Università, all’industria – ripetevano i nomi di sempre.

Il “sistema dei partiti” (un’espressione, non a caso, cara alla sinistra, che vi mitigava l’esclusione subita dopo il 1948) fu la cerniera che assicurò la tenuta sociale della trasformazione economica anche nei momenti di più acuto scontro di classe, sormontando ogni divisione: forse una palestra di dissimulazione e di doppiezza, ma anche di misura e di dialogo, pur nell’asprezza dei conflitti, che è stata quanto di meglio l’Italia moderna abbia conosciuto in fatto di educazione al confronto e alla tolleranza. Perché di lacerazioni ce ne furono; e il decollo industriale – con i primi segni di rivoluzione dei consumi e degli stili di comportamento – le esaltava, in una crudezza mai prima tanto diffusa e visibile: squilibri di potere nelle fabbriche; conformismo repressivo nelle scuole, nella magistratura, nell’amministrazione; il Mezzogiorno sottoposto a una sistemica spoliazione di risorse e di manodopera; le persistenti durezze della vita operaia e contadina nelle metropoli cresciute a dismisura, e nelle campagne non ancora mutate dall’agroindustria.

Il tenace interclassismo cattolico, e il cauto (nei fatti) classismo comunista riuscirono tuttavia a mantenere i conflitti in limiti che non compromisero prima lo sforzo della ricostruzione, e poi il “miracolo” degli anni Sessanta. Un protocollo silenzioso fissava rigidamente i limiti oltre i quali non bisognava forzare lo scontro, nel Parlamento e nel paese, e disciplinava l’uso del potere di governo, da parte di chi ne deteneva l’uso del potere di governo, da parte di chi ne deteneva il monopolio. Era quello che si sarebbe chiamato il consociativismo italiano; più correttamente dovremmo dire: la versione ‘debole’ e ‘diseguale’ dell’originario compromesso costituente.

Esso rimedio, insieme, a due mancanze essenziali: quelle di uno Stato credibile e di un’alternativa praticabile.

5. Anche se la loro catastrofe si consumò nel giro di pochi mesi, la crisi dei grandi partiti costruttori della Repubblica aveva avuto una gestazione molto lunga, per quanto quasi del tutto inavvertita.
Il ’68 ne fu l’autentico inizio, il momento in cui si rese evidente, per la prima volta, che era possibile fare politica – e in massa – al di fuori delle organizzazioni tradizionali, o addirittura contro di esse; e si mostrò a un’opinione pubblica sempre più inquieta che i partiti – tutti, al di là dei loro conflitti – tendevano a svolgere una funzione stabilizzatrice e franante rispetto ai cambiamenti di costumi e di tendenze che stavano ridisegnando il profilo mentale della società italiana.

Le spiegazioni del declino vanno cercato nella mancata capacità da parte dei gruppi dirigenti comunista e democristiano (per il Psi il discorso sarebbe in parte diverso) di percepire gli effetti della modernizzazione seguita al balzo industriale, all’aumento dei consumi, a un contratto più immediato fra le giovani generazioni dell’Occidente reso possibile dal diffondersi di una cultura musicale senza precedenti, che strutturava una nuova e comune sintassi dei gesti, dei corpi e delle emozioni.

Il nostro ’68 (molto diverso da quello francese o americano), fu soprattutto l’imporsi di un’esigenza di adeguamento fra vissuto interiore e forme di condotta, che nel mondo studentesco assunse i tratti di una vera e propria rivolta per l’autenticità e la libertà.

Il movimento degli studenti riuscì ad avere un carattere di massa fino a quando seppe coprire la sua confusione politica dietro gli obiettivi di una lotta per l’emancipazione, senza precisi connotati di classe, ma con forti caratteri individualistici e generazionali.

Si aprì così una frattura fra società reale e rappresentanza politica che non si sarebbe più ricomposta, e che ci ha portato dritti alle vicende degli ultimi anni. Anche la vittoria del Pci alle elezioni del ’75 e del ’76 (con il partito ben al di sopra del trenta per cento dei voti) va letta in questa chiave. Quel risultato non segnava l’improvvisa conversione al marxismo da parte di milioni di elettori, ma era la marea del ’68 che sommergeva i vecchi equilibri politici, ritornati addirittura al centrismo, e la mancanza d’iniziativa e di coraggio del Psi, immobilizzato dalla subalternità ai democristiani e dai primi segni di un dilagante corrompersi, dopo un avvio generoso e ricco di idee.
I nuovi voti del Pci non chiedevano un drastico cambio della guardia, bensì una versione più avanzata del centrosinistra che includesse le forze di Berlinguer (venne interpretata così dal senso comune la proposta del “compromesso storico”), giudicate non a torto come le uniche in grado di portare energie nuove in un sistema di potere apparso già allora logoro e senza riserve, provato dall’inattesa crisi economica dei primi anni Settanta.

Il modo di produzione capitalistico, dato in Europa per agonizzare o quanto meno per irrimediabilmente malato agli inizi degli anni settanta, entrava così anche in Italia nella sua terza rivoluzione. Quasi dovunque, era la politica a farne le spese, minacciata da una clamorosa caduta d’importanza delle sue scelte, rispetto a una redistribuzione di poteri  che assegnava ad altri centri l’ultima parola sul futuro individuale e collettivo dei cittadini, sulle forme concrete – consumi, bisogni, stili, informazioni – della vita che sarebbe stata concessa di vivere.

La sconfitta del Pci – che aveva coinciso con l’arrivo della nuova onda economica – provocò per contrasto una prolungata  serrata dei partiti di governo, impegnati a difendere ed estendere una posizione insperatamente rafforzata. L’asse si costituì intorno a un rinnovato accordo fra democristiani e socialisti, ma con il Psi in un ruolo aggressivo come mai in passato, nemmeno agli inizi del centrosinistra: una versione dell’alleanza che la Dc accettò non senza esitazioni, consapevole tuttavia di dover offrire qualche briciola di novità a un paese in trasformazione vorticosa.

Decise perciò di gettarsi nel nuovo vento, ritenendosi in grado di farsene l’interprete politico.
In parte, Craxi vi riuscì davvero. Egli seppe con ruvida spregiudicatezza sottrarre i suoi all’improvvisa  crisi dell’idea di cui portavano il nome, e fu capace di rispondere in qualche modo alla tensione crescente tra un sistema politico senza ricambio, costretto a recitare sempre il medesimo copione (tanto più adesso, dopo la sconfitta del Pci), e una società febbrilmente dinamica, che viveva il suo secondo “miracolo”, e sostituiva alla vecchia dialettica delle classi un nuovo ordine sociale, fondato sull’espansione fortissima e veloce di un inedito ceto medio, senza radici culturali né politiche, e privo di una formazione borghese alle spalle.

L’idea, come abbiamo visto, non era originale: l’invenzione di uno Stato dei partiti risaliva in qualche modo ai Costituenti; è la sovrapposizione di politica ed economia alla Dc erede della gestione fascista.

Da organizzazioni collettive a forte motivazione ideologica (in qualche modo “pubbliche” anch’esse, abbiamo detto), dove si svolgevano una supplenza dello Stato e una maledizione economica certo anomale, ma pur sempre abbastanza trasparenti e legate a un disegno strategico, essi si trasformarono in spregiudicate agenzie d’affari, al servizio delle diverse correnti e dei loro gruppi dirigenti.
Particolarmente micidiale fu la combinazione che si produsse tra gestione pubblica dell’economia e segreterie politiche.

I cittadini erano espropriati due volte: dai partiti della politica, ridotta e oscura combine di oligarchi; e dallo Stato della legalità, mille volte rinnegata e calpestata.

Completa assenza di diritto, e soprattutto caduta di ogni distinzione fra denaro pubblico in senso stretto, guadagni ottenuti attraverso il mercato ma sfruttando agevolazioni illecite, fondi dei partiti (dichiarati e no) e ricchezza originariamente personale.

Al tramonto delle ideologie - già allora ben visibile - si voleva fa seguire il tramonto dell’etica pubblica.

Strappati finalmente i veli, l’unico imperativo era di farsi valere in tutti i modi, di governare comunque, e di arricchirsi.

Il Pci s’era aspettato una crisi generale del capitalismo (Berlinguer vi aveva creduto fermamente), e si ritrovava invece a dover fare i conti con quella del socialismo, e con una rivoluzione produttiva che toglieva di scena il soggetto storico cui aveva legato sino ad allora la sua esistenza: la classe operaia del grande sistema di fabbrica (evento sancito in Italia dalla sconfitta nel referendum sulla “scala mobile”).

Ancora all’esordio di questo decennio, nonostante le grandi novità internazionali, nessuno tuttavia prevedeva il collasso che si stava preparando.

Al rischio del tracollo finanziario, si accompagnò - con la sparizione dell’Unione Sovietica - la fine del vecchio regime di ‘libertà vigilata’, e la caduta di ogni residuo vincolo ideologico. I tempi erano maturi per il crollo del nostro terzo regime”: iniziava la cosiddetta “rivoluzione italiana”.
L’espressione è in effetti impropria. Nessuna incertezza tuttavia può nutrirsi sulla vittima principale del rivolgimento: l’intera organizzazione dei partiti, letteralmente spazzata via; prima decapitata dai giudici; poi, cancellata dal voto popolare.

Cos’era, dunque, la Repubblica senza i partiti che l’avevano fatta nascere? Nella formulazione stessa della domanda, emerge, drammaticamente allo scoperto, il nudo retroterra della storia d’Italia.
Il vuoto che abbiamo tutti sentito è quello dell’assenza di un rapporto vitale fra identità civile e legame politico. Per dire meglio, quel che manca è un’identità che abbia saputo trasformarsi in legame politico, in autentico patto fra i cittadini e le istituzioni che li governano.

La minaccia è il tributo che stiamo pagando per l’obiettivo mancato nel nostro cammino unitario; dare davvero un’Italia agli italiani.

7. Eppure, il fallimentare bilancio dell’esperienza statuale non può impedirci di vedere che altri conti sono per noi in attivo, e non di poco alla fine di questi cento anni. L’aspettativa di vita per i nostri ragazzi è cresciuta come nei paesi più avanzati del pianeta.

Anche l’intelligenza italiana ha fatto molta strada, e la presenza delle nostre idee e della nostra cultura si è allargata e non ristretta nel mondo, rispetto agli esordi del novecento.

La lingua - che per il suo carattere storico-naturale è una spia obbligata - si è mantenuta creativa e vitale.

Con il percorso che va dal noerealismo a Visconti e Fellini abbiamo lasciato nel cinema un’impronta incancellabile. L’organizzazione scientifica del nostro sapere ha superato prove e confronti in condizioni quasi impossibili: nella fisica, nella matematica, nella ricerca storica, nell’architettura, nella biologia, abbiamo raggiunto risultati di rilievo assoluto.

Siamo riusciti, soprattutto, a non chiuderci mai.

E da qui - da questa ansia - che è nata la nostra cultura d’impresa, l’inventiva tecnologica, la qualità della ricerca. Senza questo patrimonio di attitudini, sarebbe stato impossibile reggere le sfide degli ultimi anni.
Torna in tal modo a ricomporsi quell’orizzonte di contrasti da cui siamo partiti, trasformati in autentici enigmi interpretativi. Cosa ci rende, insieme, così fragili e così resistenti, così esposti e così protetti? Quanto lontano dobbiamo guardare, per ritrovare il nostro autentico fondo?

Capitolo terzo
COME SI FORMA UN CARATTERE E NON SI FORMA UNA NAZIONE

1. Per due volte, separate da quasi un millennio, l’Italia è stata protagonista assoluta nella storia dell’occidente.
La prima occasione fu antica, romana: tra l’ultimo secolo a.c. e il secondo d.C., quando la Penisola si trovò al centro di un dominio imperiale capace di unificare quasi tutto il mondo che si riusciva allora a vedere dal Mediterraneo. La seconda, fra dodicesimo e sedicesimo secolo, culminata nel Rinascimento (ma è una periodizzazione che ha fatto versare agli storici fiumi d’inchiostro), quando indicò all’Europa, dopo una crisi spaventosa, il percorso economico, civile, intellettuale che avrebbe portato alla modernità.

A differenza di quella  medievale, l’Italia romana fu una costruzione politicamente compatta dalla pianura padana allo stretto di Messina.

Roma, però, non si identificò mai con il paese che l’aveva vista nascere.

Conquistò l’Italia; poi la considerò alleata; infine - dopo una guerra breve e sanguinosa - concesse ai suoi abitanti uno status paritario di cittadinanza; ma non vi si sciolse mai del tutto.

Elementi etruschi, latini, sabini, greci, sanniti, umbri, liguri - un’impressionante mosaico mediterraneo - furono combinati sapientemente con apporti della città egemone (demografici, economici, linguistici, amministrativi) in un quadro d’insieme dove la frantumazione originale si uniformava, senza annullarsi ma addolcendosi molto, entra una comune appartenenza italica, riflessa e dilatata nel prisma di quella più forte, specificamente romana.

Roma preferì l’impero all’Italia la prospettiva universalistica della città nel suo splendido isolamento egemone, rispetto alla completa integrazione in un ordinamento più vasto. L’ottica rimase duplice: romana e italica; di una Roma ben radicata in un ambiente unito dal suo dominio, ma pur sempre diverso; e di un’Italia incapace di risolvere davvero la capitale dentro di sè.
Per interpretare lo scarto, Andre Giardina ha scritto di un’Italia romana dall’”identità incompiuta”.

L’Italia romana fu, per antonomasia, già nello sguardo dei contemporanei, una terra di città.

Nacque allora l’immagine dell’Italia turrita, del paese dalle centro città, destinata a diventare un modello iconografico di lunghissima durata.

2. Quando, nel II77, i rappresentanti delle città lombarde intrarono a Venezia papa Alessandro III,e ribadirono le ragioni della rivolta contro Federico Barbarossa, essi dichiararono senza esitazioni d’averlo fatto “per l’onore e la libertà dell’Italia”.

Che cosa spingeva gli ambasciatori lombardi a mettere insieme quelle tre parole - Italia, libertà, onore - per esprimere il contenuto e il significato di quanto era accaduto?

La Penisola era ormai scivolata da secoli lontano dal centro del mondo. Ve l’avevano già spinta una crisi economica all’inizio strisciante, poi sempre più grave, apertasi fra primo e secondo secolo, forse favorita dalla politica universalistica del principato; e dopo, la scelta delle classi dirigenti tardo antiche, nel tentativo disperato di arginare il collasso dell’impero spostandone gli equilibri verso oriente e l’interno. Ma il colpo definitivo era arrivato fra quinto e ottavo secolo. L’Italia pagava il prezzo più alto nel disfarsi dell’occidente: deserte e incolte le campagne; svuotare e annientate le magnifiche città, trasformate in “cadaveri”.

Non era soltanto una continuità politica durata oltre un millennio a esaurirsi: si disintegrava una civiltà, un modo di vivere e di pensare, una costruzione del mondo, capace di proiettare un’immagine tanto piena e compiuta di se, da fissarsi nella memoria europea come un modello ineguagliabile: il mito del “classico”.

Ma per la ragione più stringente che - distanza di oltre cinque secolo - proprio in Italia si sarebbero per la prima volta manifestati, con la vita economica e civile delle repubbliche fra undicesimo e dodicesimo secolo, quei segni di ripresa destinati ad aprire il percorso dell’Europa moderna.

Dovremmo giudicare fortuita la coincidenza? Se la ripresa si mise in moto là dove la traccia s’era interrotta, non vi sarebbe da credere se non ai capricci di una ripetizione clamorosamente ingannevole? La spinta avrebbe potuto realizzarsi altrove - in Francia, in Spagna per esempio?
Oppure bisogna ammettere che vi fu, nonostante tutto, una trama a tener insieme - in Italia , e solo in Italia - i due lembi della storia spezzata, e a proteggere e aiutare il nuovo inizio?
Credo in una risposta positiva. Qualcosa d’importante fu capace di resistere: anche se la presenza del legame - a lungo silenzioso e, in certo senso, periferico rispetto alla forza delle pressioni devastatrici - non riduce in nulla la portata della frattura; anzi, per contrasto, ne accentua il peso e l’impatto, e consento addirittura di riconoscerla e valutarla meglio.
A sopravvivere, furono quelli che potremmo chiamare due tratti mentali: nella storia della specie umana, si sa i pensieri durano più delle pietre. Aspetti tenacissimi di un’antropologia romana, destinata a conservarsi trasformati in caratteri della storia d’Italia.
Indicherei il primo come la forma mentale - non fisica - della città e della sua autonomia, rivelatasi subito determinante nel nuovo percorso (vi è in questo senso una luminosa intuizione di Carlo Cattaneo, a torto sottovalutata o fraintesa dalla storiografia). La funzione latente e diffusa - costruita, smarrita, ritrovata - di una socialità urbana forte e integrata, spazialmente definita, dove il vincolo comunitario concentrato nel territorio si tramuta in rapporto politico esclusivo, e la rete di relazioni interpersonali - di ceto, di parentela, di scambio, di reciprocità, di cooperazione produttiva - diventa proiezione istituzionale: milizia locale e assemblea di popolo chiamata a votare e decidere.

Individuerei il secondo aspetto nella forma mentale - conservata esilmente nella memoria dei colti e di lì ritrasmessa verso un pubblico più vasto - dell’Italia come soggetto unitario (al di là dei confini che di volta in volta le si attribuivano): l’immagine di un sistema globale di connessioni, sospeso fra geografia e storia, orizzonte incancellabile, sia pure non determinato politicamente, sullo sfondo dell’agire particolare di ciascuna comunità.
Ebbene, questi due elementi si possono scorgere insieme nelle parole attribuite agli ambasciatori dei comuni vittoriosi contro Brabarossa. La “libertà” e l’”onore” rimandavano con limpidezza al campo di una ricostituita autonomia cittadina, consapevole della propria forza e del proprio diritto. Il riferimento all’Italia stabiliva subito una popolarità, che permetteva di inserire l’emergente particolarismo comunale e le finalità della sua azione in una cornice più vasta, sul piano della memoria e su quello della prospettiva.

3. L’autosufficienza originaria dei comuni cittadini - economica, sociale, istituzionale - fu elemento essenziale della loro fortuna; e spiega anche la successiva trasformazione dei più importanti, come Firenze o Milano, in quei principati “regionali” a base territoriale ma sempre centrati sul primato della città fondatrice, che se rappresentarono il precoce contributo italiano alla nascita dello Stato moderno, si sarebbero rivelati presto decisivi nell’impedire l’unificazione del paese.
Le nostre città erano già fra il Duecento e il Trecento le più avanzate d’Europa, tanto da suggerire a Braudel un ardito confronto con i grandi centri del mondo contemporaneo: Parigi di inizio secolo, o New York degli anni sessanta. La loro vita era scintillante: laboratori dove si costruiva, un pezzo dopo l’altro, la modernità dell’Occidente.

Nell’immagine si celava tuttavia un contrasto. Un approsimazione efficace può far ricorso, per descriverlo (sviluppando uno spunto abbozzato da jacques le Golf), allo schema di un persistente e duplice dissociarsi di elementi sulla scena italiana. In primo luogo, a una scissione  fra civiltà e potenza (invenzione artistica, filosofica, giuridica, scientifico-tecnologica, di gusto, da un lato; forza politico-militare dall’altro), e poi, su un diverso piano, a una seconda separazione, connessa alla precedente, questa volta fra ricchezza (commerciale, produttiva, finanziaria) e potenza.

La seconda non scompare mai dal nostro sguardo; ed è proprio sulle sue conseguenze, sul suo penoso e ricorrente manifestarsi, che si arrovella tutto il pensiero politico italiano da Dante a Machiavelli: quella tradizione che trova nell’epilogo del Principe, con l’appassionata invocazione al “redentore”, e la citazione petrarchesca della battaglia decisiva “virtù contro furore”, il suo punto conclusivo e più alto (“profetico” ha appena scritto Corrado Vivanti).
L’origine della scomposizione va ricercata nell’irriducibile particolarismo delle nostre repubbliche, e negli esiti da esso implicati.

Era una questione (possiamo chiamarla) di ‘massa critica’: le dimensioni cittadine, che si dimostravano le più idonee a favorire lo sviluppo intellettuale ed economico di società a forte legame comunitario e politico (nella Grecia antica o nell’Italia medievale), costituivano un fattore di successo diplomatico e militare solo fin quando il confronto con avversari di peso maggiore implicava grandi squilibri di organizzazione e di cultura (la lega ateniese contro la Persia; i lombardi contro Barbarossa). Ma si trasformavano in limiti paralizzanti, non appena gli antagonisti riuscivano a congiungere alla quantità agli spazi anche risorse di civiltà non troppo diseguali, grazie ai benefici di un irradiamento partito proprio da quei luoghi di libertà, divenuti per questo oggetti di un inestinguibile desiderio di possesso (come nel caso delle potenze europee del sedicesimo secolo, che posero fine all’equilibrio italiano, o alla repubblica imperiale romana, che ridusse la Grecia a una sua provincia).
Nell’antichità, Roma – non Atene, né le altre poleis greche – era riuscita a quadrare il cerchio: a restare, in qualche modo, una città e conquistare il mondo (anche da ciò nasceva la sua straordinaria fortuna nel pensiero politico fra umanesimo e rinascimento: dall’aver conciliato l’inconciliabile). Ma nel nuovo contesto l’esempio non si poteva più “limitare” (per dirlo con una parola cara a Macchiavelli). L’Italia – che era stata il serbatoio prezioso e il retroterra indispensabile del primato cittadino romano – non era più quella antica. Esisteva ormai un complesso sistema peninsulare, dove si intrecciava il senso maturo di una comune identità (lo abbiamo già visto) accanto a differenze marcate, e soprattutto congiunto al consolidarsi di un irresistibile pluralismo, fissato da peculiarità storiche non meno che dalla diversità dei quadri geografici. Nessuna città – né Firenze, né Milano, né Venezia – avrebbe potuto più fare dell’Italia quel che ne aveva fatto una volta Roma. Né erano più quelli antichi il Mediterraneo e l’Europa, trasformati in parte proprio perla diffusione dei saperi, delle tecniche e del senso del bello italiani.
C’era poi la ricchezza. La superiorità dell’Italia fra Medioevo e Rinascimento fu anche una supremazia econmica, per quanto intaccata da recessioni e crisi.

Il successo italiano era produttivo, manifatturiero – e in settori d’avanguardia, come quello tessile, o delle costruzioni navali – non soltanto commerciale (e finanziario); e dava vita a un’articolazione sociale e di ruoli  professionali senza eguali nell’Europa del tempo, incomparabile con quella antica.

Anche in questo caso, sino a un certo momento, la frammentazione del ‘sistema Italia’ giocò a favore della crescita, incrementando diversificazioni, specializzazioni, maggiore flessibilità, ricerche ostinate di nuovi mercati. Ma già nella seconda metà del sedicesimo secolo la spinta si arrestò in maniera definitiva. I piccoli stati non erano più in grado di far fronte alle iniziative delle grandi monarchie, e finirono col cristallizzare le attività produttive e mercantili entro schemi superati. Il centro della vita economica si spostava altrove: prima, fugacemente, verso l’Olanda, poi in direzione del nord della Francia e dell’Inghilterra, che ancora alla fine del quattrocento era da questo punto di vista un paese senza qualità. Iniziava la seconda caduta italiana, che avrebbe portato in breve l’intera penisola – agricoltura, commerci, manifatture, vita civile – in condizioni di evidente degrado. Ancora alla fine del sedicesimo secolo si potevano cogliere segni di vitalità ( l’ultimo Cinquecento “fu l’estate di San Martino dell’economia italiana” nella felice definizione di Carlo Cipolla), ma alla metà del Seicento il paese era del tutto uscito di scena, nonostante il Barocco, la grande musica e Galilei; precipitato in un’oscura marginalità.

4. Gli storici hanno riempito intere biblioteche per spiegare il declino. Sono state seguite molte tracce: la Controriforma, accusata di spegnere la creatività dell’intelligenza italiana; lo spostamento dell’asse economico verso l’Atlantico responsabile dell’emarginazione commerciale; il cambio di scala imposto dalla formazione di grandi Stati nazionali – la Francia, la Spagna, l’Inghilterra – che avrebbe messo fuori gioco un’Italia ancora divisa.

Osservata ancora fra gli anni sessanta e ottanta del Quattrocento, il volo dell’Italia sembrava inarrestabile. Cosa le impedì di proseguire?

Senza dubbio nel corso del quindicesimo secolo una vera e propria furia anticipatrice dominò la storia italiana e invase con la luminosità dei suoi traguardi l’intera Europa.

Il mutamento delle antiche repubbliche nei nuovi principati territoriali – in Lombardia, in Toscana – o il consolidamento dei domini veneziani in terraferma furono un laboratorio significativo per la nascita del centralismo statale europeo: dalle finanze all’amministrazione, alla diplomazia.

L’assetto istituzionale della Penisola arrivava a coincidere, in parte, con il quadro etnico e ambientale del suo regionalismo storico, limpidamente aggiornato e riproposto, a metà del secolo, in un ritratto diviso fra geografia antica e ricognizioni moderne, da Flavio Biondo, nel “de Italia illustrata” (vi si individuano diciotto regioni e quattrocento città).
Ma in breve lo slancio si arrestò contro ostacoli insuperabili. Il pluralismo al centro del modello “mercantil comunale” (la definizione è di Ruggiero Romano), sopravvissuto – per quanto in modi spesso contraddittori – all’interno dei nuovi Stati regionali, sbarrò la via verso soluzioni più avanzate, ormai indispensabili.
Nell’Italia del quindicesimo secolo, mantenere la spinta avrebbe significato una nuova relazione fra spazio e grandezza (uso la terminologia di Braudell),  dove le antiche tradizioni comunali potessero sciogliersi in una costruzione meglio articolata, con vincoli più moderni tra città e campagna e tra nobiltà e “borghesie”, in grado di risolvere in un compromesso più favorevole la resistenza dei lacci feudali.

La possibilità di costruire uno Stato forte e centralizzato era fuori questione, in quel contesto. Ma siamo sicuri che fosse l’unica strada? Vedere come sola via d’uscita un’unità fortemente strutturata rischia d’essere non più della proiezione di quell’ottica risorgimentale, che avrebbe voluto De Sanctis al posto di Guicciardini, e la Firenze dei Medici con i colori della Torino savoiarda, per completare davvero il Rinascimento; o quanto meno appare il tentativo di misurare l’Italia con un metro francese o spagnolo, e di identificare lo Stato moderno soltanto con una costruzione rigidamente accentrata.
Forse, sarebbe bastato qualcosa di più vicino alle nostre esperienze e tradizioni, per aprire una prospettiva originale. Voglio dire, una maggiore integrazione nel ‘sistema-Italia’ già allora esistente, che avesse rispettato la sua intrinseca e incomprimibile pluralità.

Che forza capace di creare una spina dorsale più salda, di connettere la trama di un disegno meno incerto. Se non si percepisce lo spessore di questa possibilità, non si riesce a valutare né il disperato realismo del Principe, né il significato della distanza che separa l’ottimismo del cuore dimostrato da Macchiavelli mentre lo scriveva, del pessimismo sallustiano dello stesso Guicciardini, pochi decenni dopo, quando si rendeva ormai conto che il dado era tratto, e che la storia d’Italia era entrata in una lunga notte.
Sta di fatto che il passo non fu compiuto. La percezione di una condivisa appartenenza italiana non riuscì a spostarsi dal terreno delle idee, della cultura, degli esperimenti linguistici, della religione, delle tradizioni - da un’immagine socialmente intellettualmente alta, ma politicamente povera, dell’Italia, a quello degli interessi e dei bisogni di strati più vasti: ceti mercantili e imprenditoriali, corporazioni cittadine, aristocrazie urbane e burocrazie delle corti.
Il paragone non va forzato oltre il dovuto. Sembra tuttavia innegabile che per la seconda volta - come già nell’occasione antica - il primato dell’Italia si spense nell’incapacità, senza cancellarne l’autonomia (esattamente il problema intravisto da Guicciardini), di dare spazio alle forze centripete dell’aggregazione non rinunciando alla ricchezza di una multiformità incomparabile, dove pure convivevano da tempo, sia pure su un piano non politico e non “nazionale”, unità e pluralismo.

Il fallimento aprì la strada alla regressione. Se durante un mutamento veloce si determinano le possibilità di un ulteriore salto, e non si colgono, accade che si paghi con un blocco anche definitivo l’obiettivo mancato. L’”uomo nuovo” del Rinascimento - gli intellettuali, gli imprenditori, i mercanti, la nobiltà fra città e campagne, le burocrazie degli Stati regionali, - non riuscì a farsi cellula costitutiva di una futura classe dirigente borghese.

La tensione fra soggettività comunali (e regionali) e identità italiana, che avrebbe potuto risolversi nell’invenzione di una via originale all’integrazione (a una forma peculiare di organizzazione non centralistica, diversa da quella spagnola, francese, o inglese), - si esaurì invece in un accentuarsi delle lacerazioni.

La patria, insomma, non si trasformava - come adesso avrebbe potuto, a differenza della situazione antica - in ‘nazione’ (secondo la formula proposta, con altri riferimenti, da Silvio Lanaro.

La sfida che allora perdemmo non fu di trapiantare la Francia in Italia, ma di inventare una soluzione che esprimesse un modello misurato su una realtà in cui le autonomie cittadine non solo avevano avuto uno sviluppo e una funzione come in nessuna altra parte d’Europa, ma erano ancora – pur con i loro limiti – i motori più importanti della crescita economica.
E senza Stato, niente nazione (nel senso moderno, forte della parola, bene illuminato da Eric Hobsbawn e Silvio Lanaro). Perché null’altro è una nazione se non un popolo, già identificato in una patria, che prende corpo all’interno di un’istituzione, e trasforma i suoi legami culturali, religiosi, linguistici, simbolici, in un vincolo, che liberamente accetta di preservare. Gli italiani non riuscirono allora a sentirsi nazione, perché, nel momento più alto della loro storia, non furono capaci di costruire una forma  politica all’altezza della civiltà che aveva saputo elaborare. Questa sconfitta ci avrebbe segnato per sempre, inchiodando a un perenne debito di statualità tutto il nostro cammino.

La Chiesa cattolica e la  Controriforma furono, “post res perditas”, le guide del nostro tramonto.

Al posto di una coscienza nazionale che non era  riuscita a formarsi, fummo investiti dall’onda di una normalizzazione religiosa che non lasciava respiro: la geografia civile e mentale del Rinascimento ne restarono sconvolti.
L’impatto congiunto del fallimento politico, della regressione economica e della disciplina cattolica – moltiplicato dal reciproco incrociarsi – ebbe effetti calcolabili.

Qualcosa che si avvicina ai risultati di un’involontaria  ingegneria antropologica; insomma, la qualità di un mondo interiore di lunga durata.
Se ne distinguono visibilmente i tratti, in una specie di radiografia morale dell’abdicazione e della sopravvivenza.

La propensione alla continuità, e l’orrore del salto e del cambiamento.

L’immagine dello Stato – di qualunque Stato – come un possibile nemico, del quale diffidare sempre. L’attitudine alla sopportazione e alla pazienza: la duttilità di piegarsi, per non spezzarsi mai.

La Chiesa ebbe poi la ventura di rimanere l’unica forza attiva nella Penisola che fosse riconducibile a una genealogia italiana, anche se gestita in una prospettiva universalistica; e una giunta operante secondo modelli ispirati alla gerarchia e al centralismo. Fini con l’assumere perciò un ruolo di supplenza scopertamente politica, ben al di fuori dei confini dei suoi domini temporali; in molte occasioni, di difesa e di protezione locale – o almeno di velo – contro l’invadenza straniera.

L’identità religiosa italiana rivestì un ruolo alternativo rispetto al formarsi di una coscienza nazionale. La spiritualità cattolica post-tridentina potè intervenire in modo così intenso nella costruzione del nostro carattere, proprio grazie all’incapacità di dar vita a uno Stato unitario. Mettemmo la parrocchia, insomma, al posto dell’Italia.

Ricordarle, è sfogliare un libro di famiglia: la tecnica della meditazione come momento risolutivo di ogni antagonismo, capace di tenere insieme qualunque coppia di opposti frammentandoli in una ragnatela spaziale e temporale di distinguo, di intersezioni e di attese. La prevalenza costante della morale privata su quella pubblica (un meccanismo già chiaro a Manzoni), destinato ad alimentare, nel suo versante peggiore, il familismo delle classi popolari e il cinismo dei gruppi dirigenti. La dissoluzione privatistica – tendenzialmente anarchica – di ogni struttura collettiva. Fino alla costante disponibilità trasformista e al relativismo.

Fu unicamente da noi che la forma barocca sarebbe diventata, attraverso la felice rielaborazione cattolica, la forma stessa della politica.
5. La crisi che ci ridusse a paese marginante mise anche un definitivo sigillo sul nostro carattere.

La precocità della ripresa medievale aveva formato da noi in anticipo uno strato di attitudini, di comportamenti e di idee che avrebbe potuto ben costituire la base di un tessuto comune. Esistevano diversità, naturalmente. L’organizzazione territoriale e verticistica del regno di Napoli, in cui si erano accumulate presenze bizantine, normanne, angioine, aragonesi presentava aspetti non assimilabili a quelle del centro nord toccato dall’esperienza delle repubbliche cittadine. Ma le differenze non costituivano ancora un divario (riprendo il lessico di Luciano Cafagna) non rappresentavano una barriera.

Il fallimento interruppe il processo a metà. Sull’abbozzo già formato di un nucleo di caratteri italiani – tendenze intellettuali, mercantili, civiche, burocratiche, selezionate dal precedente e veloce percorso – fece cadere il trauma delle invasioni, della recessione, della marginalità; e infine la pesante normalizzazione della Controriforma. La costruzione avviata nello slancio si completò nella crisi. Le differenze divennero fratture, dualismi diseguali, i tratti rimasti comuni  furono spesso solo il risultato di selezioni negative. La tradizione cittadina del centro nord finì sotto un cumulo di macerie, ma era durata abbastanza da lasciare una traccia incancellabile: quella stessa che, pur dopo una decadenza secolare, avrebbe ancora incantato Cattaneo. La statualità meridionale – che dai tempi di Federico II aveva conosciuto stagioni di notevole creatività e innovazione – degenerò invece completamente, stravolta – già durante la dominazione spagnola – dalla rete feudale delle clientele e della corruzione, che lasciavano alla legalità un valore soltanto residuale, in mancanza di meglio: del sostegno e della protezione dei potenti.

L’unità d’Italia si realizzò in un’epoca di incontestabile rarefazione culturale, sociale e produttiva del paese, molto lontana dalla pienezza che aveva riempitori  dell’ultimo primato italiano.

L’Ottocento fu invece per noi un secolo oscuro, prima e dopo l’unificazione, almeno sino al suo quindicennio conclusivo: un’età di involuzione e di crisi, dove di disseccarono e svanirono (quando tutti quei motivi e spunti riformatori che pure avevano trovato la forza di esprimere nella seconda metà del secolo precedente.

Il declino iniziato tanto prima non s’era mai davvero arrestato, in nessuna  parte del paese (tranne che in Piemonte e, parzialmente, in Lombardia). Rovinata la base produttiva, sia agricola, sia manifatturiera; impoveriti e incolti i ceti popolari (con livelli di analfabetismo che raggiungevano, nel 1861, il 75 per cento dell’intera popolazione); e soprattutto compromessa la nascita di una solida borghesia, senza di cui – l’esperienza europea qui non temeva smentite – era impossibile consolidare uno Stato e una nazione.

Un’interpretazione fuorviante della nostra arretratezza – che risale quantomeno agli anni stessi del Risorgimento – ha indotto a scambiare la povertà civile ed economica del paese al momento dell’unificazione, con una presunta condizione “infantile” – in qualche modo aurorale – della nostra società, è in particolare delle classi popolari: una materia vergine, tutta da plasmare, in attesa dei patrii educatori, degli zelanti architetti di italianità. La battuta famosa “abbiamo  fatto l’Italia, ora restano da fare gli italiani” riflette in pieno questa convinzione, e credo rispecchi anche molto dell’ideologia della Destra storica, almeno fino al tempo di Crispi. Era un completo abbaglio: suggerito dalla falsità identità – di derivazione romantica – fra “nazione” e “carattere”. Gli italiani un’identità se l’erano formata da tempo, come avevano saputo e potuto, date le circostanze. Un nucleo, espressione di durate e di profondità, selezionato dai punti critici di un tormentato percorso, filtrato attraverso una stratificazione ininterrotta, e fissano da almeno tre eventi decisivi: il primato cittadino; il trauma della perdita di controllo sul proprio destino, in seguito all’incapacità di tradurre in potenza una superiorità sentita per altri versi come schiacciante; il serrato disciplinamento della Controriforma nell’ora della sconfitta.
La difficoltà perciò non era di rendere finalmente “adulto” un popolo “bambino”; ma – al contrario – di costruire, in un presente desolante, uno Stato e una nazione capaci di controllare e di proiettare in avanti un sistema sociale a pezzi, avviluppato da una densa struttura di condizionamenti, di reazioni, di scelte. Il problema, in altri termini, di uno scarto, di un distacco tra formazione della nazione e formazione del carattere (ci fu del resto chi lo capì subito: “la nazione non è una materia grezza sulla quale ciascuno possa scrivere, quando vuole, quello che vuole; a nazione è una materia che noi troviamo già formata con certe tendenze, con certi indirizza. Credete voi che si possa tutto ad un tratto cancellare quello che è li, e mettersi il sigillo che noi vogliamo?” così De Sanctis, fin dal 1862).
Il senso dell’infelice motto di spirito attribuito a D’Azeglio andava quindi semmai rovesciato: non gli italiani erano da costruire; quelli, nel bene e nel male, esistevano già. Era piuttosto l’Italia, in quanto Stato, identità nazionale, legame politico e pubblico, che andava elaborata dalle fondamenta. 

Era piuttosto la fortunata e insperata conclusione diplomatico militare dell’operazione, a rivelare la pochezza dell’ambiente da cui era nata.
Il ‘processo’ al Risorgimento è un genere storiografico molto frequentato: con intelligenza e dignità discontinue, almeno da Gramsci in poi. Tirate le somme, credo sia difficile immaginare, in quella situazione, esiti molto diversi da ciò che infine fu realizzato. L’aspetto assunto dall’unificazione, molto più una conquista sabauda, che un autentico movimento popolare (anche se in alcune interpretazioni contemporanee si carica di un’enfasi forse eccessiva il ruolo dell’esercito e della monarchia piemontese), fu una conseguenza inevitabile della fragilità del paese.

Una nazione (dicevamo) non si costruisce senza uno Stato. E’ uno Stato  - per giunta in ritardo – non si poteva formare senza un’idea del paese, un pensiero giuridico in grado di misurarsi con la modernità capitalistica e con la disciplina di un’amministrazione complessa (forse con la sola eccezione di Romagnosi); senza una salda direzione borghese della società,  e una burocrazia intellettuale in grado di elaborare un’etica della cittadinanza e del servizio.

Capitolo quarto
IL FILO SALVATO

1. Improvvisata, senza una trasformazione borghese alle spalle, priva di un disegno strategico, l’unità riuscì tuttavia ad arginare il declino italiano,e, nell’arco di un trentennio, a invertire la tendenza.

Per valutarlo nella sua giusta prospettiva, dobbiamo abbandonare l’idea del Rinascimento come punto di arrivo, epilogo vittorioso di una stagione di ripresa.

Il ricongiungimento dell’Italia fu una combinazione fortunata, ottenuta grazie a un’opportunità internazionale, all’appannarsi delle antiche individualità cittadine e regionali), e alla partecipazione attiva, accanto alla macchina militare-burocratica piemontese, di un’esigua minoranza di patrioti, impreparati ad assumere compiti di direzione nazionali. Ma fu anche un risultato prezioso, che comunque ci salvò - forse nell’ultima ora utile - da un disastro che avrebbe potuto spingerci in maniera definitiva fuori dalla storia d’Europa.

Cominciò ad aprirsi così nelle nuove istituzioni “nazionali” uno squilibrio tra funzioni e strutture che non si sarebbe mai più riproposto: un vero principio di dannazione dell’ultima storia italiana: con le prime sempre crescenti e debordanti, rispetto alle risorse e alle possibilità delle seconde. In questo clima si innalzarono i pilastri del protezionismo: grano, industria tessile, siderurgia, e la nostra prima incerta borghesia d’impresa scoprì la sua peculiare vocazione allo Stato come cliente e come erogatore di privilegi, senza tuttavia sentir mai davvero la responsabilità della sua conduzione; mentre nasceva un capitalismo che né da pubblico né da privato sarebbe mai riuscito a diventare adulto, e a prescindere dai rapporti di forza politici.

Come sia potuto venir fuori, da questa realtà, il mito di una grande epopea della destra italiana, che sarebbe riuscita a formare in pochi anni un’autentica statualità liberale e nazionale, rimane un mistero, se non pensando all’esigenza - del tutto strumentale - di abbellire retrospettivamente gli inizi unitari, anche per opporre alle tragedie che sarebbero presto arrivate, la leggenda di una romantica età dell’oro, agli esordi della “nuova Italia”.

Non c’è da stupire se lo stesso distacco fra Nord e Sud con l’assumere nelle classi popolari del Mezzogiorno la forma di un rifiuto totale dello Stato, con scatti di autentico ribellismo anarchico.
Eppure, l’unità non aveva alternative: e  questa evidenza aiutò non solo il paese a reggere, nonostante le immediate sconfitte militari (Lissa, Custoza, Adua) e le difficoltà economiche aggravate da una sfavorevole situazione europea, ma indusse anche cambiamenti che modificarono l’oscurità del quadro di partenza. Non è al versante pubblico che bisogna guardare, dove il deficit originario - l’improvvisazione di uno Stato senza idee e senza storia, figlio del tentativo “grossolano piuttosto che insolente, di piemontizzare politicamente l’Italia” (parole scritte in anni lontani da Carlo Donisorti) - non poteva condurre (come sarebbe accaduto) che in un vincolo cieco. E’ dal lato opposto, che si deve fare attenzione: a una costruzione privata molecolare, della società che cominciò a prendere sostanza; a un nuovo modo di svilupparsi delle individualità, trasversali alle classi, che iniziò a diffondersi verso la fine del secolo, rielaborando risorse e tratti fissati dal passato; a una microtrasformazione della mentalità collettiva, comune sia ad ambienti urbani sia contadini; a una differente socialità che si imponeva, per quanto con esiti e prospettive diseguali, in rapporto alle diverse parti del paese.
L’unità, insomma, agì come moltiplicatrice delle opportunità dei singoli, piuttosto che sull’avvento di un nuovo spirito pubblico.

Antiche operosità civiche trovarono la strada per rimettersi in circolo: talenti imprenditoriali sepolti sotto cumuli di polvere; attitudini a una manualità sapiente e creativa (a volte persino appassionata), duttile patrimonio delle classi popolari destinato a diventare la base di una solida etica operaia del lavoro, presente sin dagli inizi del nostro movimento operaio e contadino.

Gli anni novanta (in particolare la seconda metà) rappresentarono il punto di svolta. Una periodizzazione non subalterna a pregiudizi risorgimentali dovrebbe far iniziare da allora l’avvio di un nuovo ciclo, dopo tre secoli di crisi quasi ininterrotta.

Tra il 1896 e il 1908 il saggio annuo della produzione industriale crebbe del 6,7 per cento - con livelli fra il 12 e il 13 per cento nei settori di punta della chimica, della meccanica, della metallurgia - per poi diminuire al 3,8 (valore comunque rispettabile) nell’arco fino al 1913, ormai alla vigilia della guerra.

La chiave di questo disegno si trova nella assoluta peculiarità del rapporto che si strinse fra Stato e lavoro (vi abbiamo accennato all’inizio).

La valorizzazione individuale non veniva più collegata al successo sociale della propria fatica e del proprio ingegno, ma si immaginava raggiunta solo mediante la conquista del privilegio, del favore, della rendita.
Dove si arrivava a toccare lo Stato, si perdeva l’anima e l’etica.

In effetti pare davvero di ritrovare qualcosa se non proprio di antico, almeno di premoderno in una assenza tanto completa di spirito pubblico, in tanta incapacità a riconoscere nel carattere astratto dello Stato il volto medesimo della comunità, rischiarato dal patto che insieme libera e vincola chi lo accetta. Vi si potevano scorgere ancora le tracce del percorso fallito fra Quattro e Cinquecento; il perdurare di un limite, di un blocco, la tendenza all’egoismo particolaristico, alla rappresentazione autosufficiente di sé, la mancata abitudine a trasformare un’identificazione storica in legame politico.

Si aggiungeva una componente più recente. L’esperienza, formatasi durante i secoli della decadenza e delle preponderanze straniere, che associava l’immagine dello Stato alla presenza dell’invasore, il potere pubblico con l’estraneo, la forza con il saccheggio. In Italia, il contratto con gli apparati del potere politico - almeno con una loro versione forte - non si accompagnava da lungo tempo (tranne forse che per Venezia) ad alcuna percezione ‘nazionale’, ma anzi, regolarmente, al suo contrario: all’evidenza di una sopraffazione della propria identità: poco importava ne fossero responsabili Parigi, madrid o Vienna.

Per questo lo Stato italiano, quando finalmente si formò, non riuscì ad essere vissuto come lo Stato ‘degli italiani’; nessun elemento scattò a rendere plausibile l’identificazione. L’inattesa figura arrivava sulla punta delle baionette sarde; con la macchina militare e burocratica di un principe che preferiva parlare francese; e si presentò subito come la continuazione della legalità e della costituzione piemontese. Se in più aggiungiamo il carattere ricostretto della rappresentanza parlamentare (ne abbiamo già detto: nel 1861, su una popolazione di quasi 22 milioni di abitanti, solo poco più di quattrocentomila cittadini avevano il diritto al voto - meno del 2 per cento - e di essi solo 240.000 lo esercitarono effettivamente), il quadro si fa completo.
Ma la storia, talvolta, ama correggersi. Quasi cent’anni dopo, lo spiraglio per capovolgere la tendenza, e far nascere davvero una nazione si sarebbe ancora aperto per un attimo, come sappiamo. L’incontro fra Resistenza e partiti di massa, dopo il ’45, offrì la possibilità di dare finalmente alle istituzioni unitarie l’adesione popolare che era mancata al momento dell’esordio. Questa volta la liberazione del fascismo e dall’occupazione tedesca, dopo la tragedia della guerra, aveva avuto un respiro e una coralità ben lontane dall’angusta vicenda del Risorgimento. Sarebbe stato necessario, però, con la Repubblica e la Costituzione, almeno avviare un’opera di risanamento  di rigenerazione dello Stato che invece di nuovo mancammo, capace di seppellire davvero il vecchio ordine dissoltosi nel ’43.

Sia i dirigenti comunisti e socialisti, sia quelli democristiani più vicini alle gerarchie ecclesiastiche si ritrovarono congiunti nella paura di introdurre una vera discontinuità nella storia d’Italia.

I tratti planetari e sconvolgenti della nuova guerra, l’esperienza della dittatura, l’inasprirsi silenzioso dello scontro di classe, fecero scattare differenti associazioni simboliche, proiettarono immagini meno positive sullo schermo delle coscienze, lasciarono emergere le tracce d’altre condotte, e d’altri bisogni.

Quello che Salvatore Satta (e Galli della Loggia con lui) ha chiamato, forse impropriamente, “la morte della patria”, noi diremmo: la fine del tentativo iniziato col Risorgimento di diventare una nazione.

5. Al di sotto delle tempeste della politica, abbiamo visto che la lunga rincorsa alla modernità è stat il motivo conduttore - possiamo dire strutturale - del nostro Novecento.

Lo sforzo ha fissato l’ultimo strato - il più superficiale e insieme il più visibile - del nostro carattere. Ha implicato cambiamenti rilevanti: e per primo quello legato all’estinguersi del mondo contadino e del suo riverbero sugli stili di vita; e tuttavia esiterei a parlare di una mutazione epocale e antropologica, come credeva Pasolini.

A una cultura d’impresa malcelata e senza capacità di relazioni industriali, a una politica dei ceti dominanti priva di vocazione democratica e alla continua ricerca di “scorciatoie” miracolose si opponeva una coscienza operaia spinta dalle asprezze padronali e dalla miopia dei governi a identificare la difesa e lo sviluppo della propria soggettività con l’adesione sempre più convinta a una strategia rivoluzionaria.

La fragilità borghese si trasferì - già dagli anni Ottanta del secolo scorso - nella scelta di un percorso rischioso, scambiato con la strada migliore per la modernizzazione sociale e produttiva del paese: il nazionalismo (cosa ben diversa dalla formazione di una coscienza nazionale), lo statalismo protezionista, il restringimento della sovranità popolare, la tentazione autoritaria, l’avventura colonialista.

La percezione di un’intrinseca debolezza portò i ceti dominanti alla ricerca costante (e contraddittoria) dell’appoggio di una Chiesa regolarmente percorsa da fremiti antimoderni.

Il fascismo fu la conclusione di questo cammino: un esito annunciato più di quanto non si sarebbe poi ricostruito da tanta storiografia liberale; l’invenzione di una tragica variante lungo un’itinerario già tracciato, per tamponare il pericolo rosso, e accellerare nello stesso tempo la ripresa produttiva.

Un’eredità così ingombrante - debolezza borghese contro estremismo operaio (pur se ovattato dalla prudenza di togliatti) - pesò in modo determinante sulla nascita della Repubblica. L’Italia divenne l’unico paese d’Europa dove la ricerca della modernità industriale esaltato insieme fascismo e comunismo, in un ruolo assolutamente dominante. La polarizzazione del quadro era proporzionale alla radicalità dello scontro: e quest’ultimo, all’antica destrutturazione della società civile.

A guerra finita, la necessità di evitare altre ferite in un corpo che aveva già subito tali lesioni, rese indispensabile il ricorso alla mediazione cattolica e alla presenza mondana della Chiesa: antica risorsa del nostro passato di sconfitti.

Non la storia del fascismo, né del comunismo, ma quella della Dc rispecchia la vera autobiografia politica del paese e la mentalità dei suoi gruppi dirigenti.
L’ultimo tratto, appena compiuto, della nostra lunga rincorsa ci ha finalmente sottratto alle antiche contradizioni.

La parte finale dell’inseguimento ci ha irrobbustito, ha moltiplicato ricchezze e talenti, ha temprato fibre e intelligenze produttive, anche se il tessuto civile continua ad apparire debole rispetto alle energie dimostrate. Pesa quel che noi siamo stati, e quel che ancora, in fondo, vogliamo essere: un popolo senza nazione, ma con una identità remota, e capace di sentirsi unito; con un rapporto disturbato (ma comodo) nei riguardi dell’autorità e del potere; attraversato da un’incontenibile pluralismo di luoghi e di culture che crea opportunità ma moltiplica squilibri, portato a vedere nello Stato un distruttore di risorse e di privilegi, mai a ritrovarsi un legislatore e un conduttore inflessibili.

Lo scompenso tra forza individuale e impotenza collettiva, l’abitudine a non sentire la comunità nazional come qualcosa di diverso dalla somma inerte delle singolarità coinvolte spiega quell’ambigua atmosfera di prorompente vitalità e di sfinita debolezza che continua a circondare le nostre vicende.

Nel contrasto si nasconde l’ombra della grandezza e del decadimento italiani: virtù private e pubblici degradi; cultura del lavoro e sovversione fiscale, socialità civiche e inadempienze statuali.

E’ come se l’antico straniamento fra ragione e potenza non avesse mai smesso di seguirci, per riproporre adesso sotto altre spoglie la sostanza storica della sua scissione: uno scarto insuperabile fra la cura che sappiamo avere di noi, e l’incapacità di appropriarci, in quanto popolo, sino in fondo del nostro destino, e di trasformare la conquista in potere condiviso, in disciplina, in identità e architettura civili, fondate su un riconoscibile patto fra i cittadini.

Per quasi centocinquant’anni l’unità e la tenuta nazionali sono state assicurate prima della stessa disarticolazione degli scenari ricongiunti dalla monarchia piemontese; poi, da una prova bellica di inaudita asprezza, seguita da una rigida dittatura accentratrice; infine da una capillare presenza organizzativa e ideologica dei partiti di massa, e da un contesto internazionale ferreamente organizzato in blocchi contrapposti. Oggi, per la prima volta, nessuno di questi elementi è presente in campo, e in un ambiente altamente instabile: per trasformazioni culturali, per la caduta di credibilità della rappresentanza politica, per una crisi diffusa dello Stato-nazione.

L’insieme delle tendenze conferma un dato, che possiamo considerare un’autentica costante della nostra storia: solo un’Italia depressa (o soffocata) non pone ostacoli al suo accentrarsi. Un’Italia in avanzata prima o poi finisce sempre con l’affermare le ragioni del suo pluralismo. E si trova proprio qui il fondo della disunione che, sta scuotendo il paese: quasi il dilatarsi degli orizzonti e delle occasioni avesse reso all’improvviso insopportabile e aliena l’armatura di uno Stato senza qualità e senza consenso.

3. La caduta dei partiti e del ceto politico repubblicano agli inizi degli anni novanta è stata la conseguenza di una perdita di legittimazione in appartenenza improvvisa fino all’incredibile. Nella percezione comune, l’ordine delle cause è apparso tuttavia rovesciato. In realtà, non è stata l’azione della magistratura a provocare il cedimento; ma il consumarsi del consenso ha reso possibile il precipitare delle inchieste.

Anche da noi c’era stato un blocco politico che assomigliava a un regime, impiantato su una “nomenclatura” corrotta (sebbene, e non è poco, in condizioni di sostanziale tenuta democratica); anche qui la sovranità dei cittadini era apparsa a lungo manipolata, quasi sequestrata, da rigide opzioni ideologiche - rafforzate da un decisivo vincolo internazionale - che avevano finito col coprire un debordante circuito di privilegi, nato dal terreno della gestione pubblica dell’economia.

Una comune predisposizione alla rottura da parte di strutture politiche senza ricambio, quando il blocco di potere costituito smette (per ragioni diverse) di presentarsi attraverso l’immagine di una necessità ideologica e storica incontrastabile, e comincia ad apparire come il risultato dell’arbitrio egoistico di una minoranza senza scrupoli
In Italia, la liquidazione del vecchio gruppo dirigente democristiano e socialista ha preso la forma - ben presto diventata famosa in tutto il mondo - di una inconsueta decapitazione giudiziaria, condotta nel nome di una riscossa e di un riarmo morali.

E’ stato nondimeno però impressionante il corto circuito stabilitosi subito fra giudici e popolo: come la sovranità dei cittadini si fosse identificata e concentrata all’improvviso nell’esercizio dell’azione penale, interpretata come uno strumento di liberazione.

Quando sono scattate le prime manette, sotto l’occhio incanagliato della televisione, quel sistema aveva già i giorni contati, minato da ben altro che dalla Procura di Milano (sia detto con tutto il rispetto dovuto a quei funzionari intelligenti e coraggiosi).

L’attenzione sulla magistratura ha però distolto dal cuore del problema, che era altrove: il paese si trovava improvvisamente senza gruppi dirigenti, e proprio mentre doveva fronteggiare una congiuntura economica e internazionale assai ardua.

La loro traumatica uscita di scena - necessaria, per il punto cui s’era arrivati - privava l’Italia di un patrimonio difficilmente ricostituibile nel breve periodo, e lasciava scoperto uno spazio nevralgico, d’immagine e di potere. E’ stata questa mancanza - unita al discredito che ha sommerso in modo indistinto la vita pubblica - ad aprire la strada verso “la supplenza dei giudici”(come è stata definita), non l’arroganza o l’ambizione delle Procure. E sarà solo il suo superamento - il ripristino di una dignità delle istituzioni e la formazione di un nuovo ceto politico - a risolverla; non l’invenzione di lacci e pastoie in cui imbrigliare l’autonomia degli inquirenti.

Il vuoto politico al centro del sistema produceva intanto un ulteriore effetto: consentiva alla sinistra di acquisire una notevole posizione di vantaggio, del tutto insperata.

Nelle elezioni del 1996 il raggruppamento di centro-destra ha ottenuto oltre duecento mila voti in più, ed è risultato sconfitto solo grazie ai dispositivi del meccanismo maggioritario.

Vi si può scorgere un tema dominante nella storia italiana del Novecento: la condizione strutturalmente minoritaria - persino nelle circostanze migliori - di qualunque organizzazione politica con un’ispirazione (o un’origine) riconducibile al movimento socialista.

La fine dei grandi partiti ha lasciato nuda la Repubblica - una parola e una forma sospesi nel vuoto, senza più rapporto con i loro contenuti storici - ed esposta e scoperta la stessa Costituzione. Senza quel centro e quella protezione, lo Stato rivela per intero cosa sia e da dove venga: una maschera scomposta e slabbrata, concentrato della nostra storia peggiore. La medesima unità del paese sembra a rischio.

Da sempre, la democrazia è visibilità, mentre il potere è per sua natura opaco. Una volta, il potere si concentrava nella politica; e una democrazia padrona della politica poteva sperare di ridurre il potere - o almeno una sua parte cospicua - nel raggio della propria luce. Ma da qualche tempo la democrazia sta stringendo un guscio vuoto: il potere scappa sempre più lontano, via dalla politica; si  è come smaterializzato, al pari dell’economia, dove ora ama nascondersi. Bisogna dunque iniziare una nuova partita.

Innanzi d’essere un dato istituzionale, il bipolarismo politico è uno stato mentale e una costruzione culturale: implica l’idea del confronto radicale all’interno di un tessuto di regole condiviso, della scelta netta, senza paura della sua inevitabile unilateralità, del vincitore e del vinto (che ha tuttavia la certezza di potersi rifare; include, in qualche modo, una concezione agonistica della politica.

Ogni schieramento politico continua a immaginare di vincere non approfondendo le ragioni della sua identità, ma solo se riesce, per così dire, a catturare e sommare quante più idee e motivi possibili, compresi quelli propri dell’avversario, per poi lasciarlo inerme, ai margini della competizione e del sistema. E’ questa tendenza totalizzante che rinnova ogni volta i rischi di regime - prima che l’occupazione indiscriminata delle cariche - e rende il trasformismo e la mediazione l’essenza del calcolo politico italiano: con la destra che cerca di farsi sinistra, e la sinistra, destra, alla resa dei conti, vale soltanto la trama di potere che si difende e si accresce, principio e fine di ogni azione.

4. Il faticoso rinnovamento italiano sta avvenendo sullo sfondo di un Occidente ancora impegnato ad assorbire gli effetti della sua ultima trasformazione. Due eventi dominano la fine del secolo: la rivoluzione tecnologica, e l’unificazione del mondo intorno a una sola potenza e a una sola economia.

Quasi senza accorgecene, ci siamo ritrovati immersi in un’orgia di capitalismo (l’espressione non è mia). L’unica cosa che possiamo dire su di essa con certezza, è che come è cominciata, finirà.

La rete delle nuove connessioni si stende infatti per ora soprattutto attraverso i consumi, e passa per il mercato delle merci, dell’informazione, delle mode e dei servizi. Essa induce perciò a una fruizione atomizzata e iperindividualistica della globalità, che salta come irrilevante la mediazione degli Stati (al fenomeno sfugge solo la soggettività americana, alimentata sia da un patriottismo ancora molto giovane, sia dalla confusa percezione del primato imperiale). E spinge invece verso un bisogno di microidentità più leggeri, svincolati delle vecchie rappresentazioni nazionali, avvertite come contenitori inadeguati a filtrare esperienze di spaesamento e di rilocalizzazione sempre più personali, che avvengono attraverso percorsi intricati e non prevedibili. Anche la nostra “disunione” respira la stessa aria.

5. Siamo arrivati lontano. Ma dovevamo, perché e impossibile pensare a un grande paese - al suo sviluppo, ai suoi problemi - senza vederlo ricongiunto al tracciato del mondo.
Le previsoni degli storici non sono quasi mai di buona lega. Le loro, sono profezie sul passato (esecizio, per la verità, già abbastanza difficile), non intorno al futuro. Ma pure l’inquietudine della ricerca può spingere sino a un punto, dove penetrare nei fatti che abbiamo alle spalle non è consentito senza proiettare la mente dell’interprete oltre la linea degli eventi già accaduti.
Il destino dell’Italia e della sua unione dipende da come sapremo sottrarre la nostra identità allo scacco dello Stato che avrebbe dovuto rappresentarla e proteggerla. Da come sapremo impedire a un fallimento così grave - che ci appartiene, perchè esprime il lato debole e oscuro del nostro passato - di trascinare con sé anche la parte migliore di noi, quella che è stata capace di imprese intellettuali e civili uniche nell’itinerario dell’Occidente, e forse dell’intera umanità. In altri termini: se riusciremo a utilizzare ancora una volta in modo vantaggioso quell’insuperata asimmetria fra italiani e Italia, autentica croce della nostra storia.
L’idea, ripetuta fino a diventare un lugo comune, che il nostro compito sarebbe di ricostituire proprio adesso, con tanto ritardo e dopo tanti appuntamenti mancati, nel cuore di una crisi mondiale di quest’esperienza, una vera nazione - nel senso forte, storico, della parola - mi sembra completamente insensata: un anacronismo illogico. La riprova (se ve ne fosse bisogno) è che, al di là di qualche esercitazione retorica, questa prospettiva non riesce a mobilitare energie né pensieri. Bisogne rassegnarsi: quel treno è perduto, e per sempre.
Possiamo avere dei buoni governi (o cattivi, o soltanto mediocri); possiamo darci nuove regole costituzionali (migliori o peggiori di quelle avute finora); possiamo architettare una nuova legge elettorale, più conseguente o più compromissoria dell’attuale. Ma non è possibile condurre, clamorosamente fuori tempo, un’opera di fondazione istituzionale e di educazione delle coscienze, che altri hanno compiuto secoli fa, in una congiuntura dove tutto cospirava a favore dell’impresa; mentre oggi faremmo fatica anche solo a contare i venti contrari.
Il corpo storico dello stato italiano è irriformabile: troppe incrostazioni, detriti, incultura; e soprattutto una distanza troppo vasta fra le ragioni della sua struttura separat e del suo stremato legalismo, e quelle di una società sempre più esigente, di cittadini sempre più abituati a vivere in connessione col mondo, per sperare di colmarle. Chiunque vi abbia provato, è stato sconfitto. Nella situazione in cui siamo, sarebbe più facile liberarsi di una tale savorra, che trasformarla.
E la questione è tutta qui: siamo sicuri che dovrà accompagnarci per sempre? Le tradizioni pesano, e costringono l’attenzione a ripetersi. Ma se si osserva senza pregiudizi, credo che oggi si stia profilando per l’Italia l’occasione di una salto di prospettiva: non più cercare di costruire una nazione all’altezza dei tempi, ma semplicemente, per dir così, oltrepassarla, aggirare la meta, e portare il nostro popolo - tutto intero - in una nuova dimensione del suo sviluppo.
E’ l’idea dell’Europa - se vi crediamo - a obbligarci a un viaggio mentale al di là dello Stato-nazione: un compito che non possiamo eludere, per quanto imponga esercizi difficili. Ma se cominciamo davvero, ci imbattiamo subito in una scoperta sorprendente: in questo ordine di pensieri noi italiani ci troviamo in un isperato vantaggio: perché, in un certo senso, lo abbiamo sempre coltivato. Per noi, in fondo, si tratta di un’abitudine. Siamo gli unici, in Europa, ad aver avuto come momento più alto della propria storia l’esperienza - diventata come un’impronta genetica - di una civiltà intrinsecamente pluricentrica, realizzata tutta al di fuori di ogni accentramento “nazionale”.
E’ stato (in parte) già intuito: il futuro quadro europeo sulla via dell’unificazione non fa che riprendere e svolgere - dilatando in sistema un’antica traccia abbozzata solo per schegge - quel modello di equilibrio unitario, virtuoso e concorde fra Stati regionali che, fondandosi si radici ancora più remote, abbiamo visto animare progetti e speranze alla fine del nostro Quattrocento. Un insieme di piccole patrie, congiunte nella comune appartenenza a un’identità più vasta, ricca di cultura e di memoria, che non schiaccia le individualità al suo interno (la contraddizione colta da Guicciardini), ma la esalta, nel gioco alterno delle autonomie e dei legami.
Vi è un filo prezioso nella nostra storia: l’attitudine a elaborare un’identità e un carattere, al di fuori di quella gabbia statual-nazionale da noi prima mancata, poi non amata, ma che oggi in Europa dobbiamo tutti dimostrarci capaci di superare.
Per uno di quegli incastri di cui talvolta il tempo si compiace, questo nostro carattere, a lungo vissuto come una mancanza, può diventare un’opportunità impareggiabile: se saremo capaci di determinare con intelligenza le condizioni sostanziali e il quadro formale di una nuova unità repubblicana, “nazionalmente” debole, ma culturalmente solidale e forte, che guidi un piano di slittamento dolce verso l’Europa, e depotenzi e svuoti progressivamente il nostro Stato - che non ha mai coinciso con la nostra vita - senza farci rinunciare a restare noi stessi. Eravamo italiani molto prima di cercar d’essere una nazione, lo saremo per molto oltre, c’è da augurarsi.
Ci salveremo se sapremo inventare uno spazio sempre maggiore per la nostra vocazione europea: un sentimento profondo, diffuso in modo omogeneo nel paese, eredità di un antico cosmopolitismo, che è fra gli elementi più belli delle tradizioni italiane. E insieme, se daremo respiro e dignità al riemergere del nostro particolarismo, segno di ritrovata sicurezza e benessere, non di smarrimento e di frantumazione, ove lo si strappi alle tentazioni di un micronazionalismo meschino, figlio di frustazioni e paure recenti - connesse alla povertà del nostro Stato - e non alle intensità e alle aperture del nostro passato. Se avremo la forza di non interpretare le spinte alla diversificazione come un attentato all’unità, ma come la nascita di una nuova forma, finalmente adeguata alla realtà che meglio ci esprime. E’ così che si vincono le tentazioni secessionistiche, guardando più lontano e più in fondo, non coltivando velleità anacronistiche, o con l’armamentario di una retorica di cui abbiamo sempre trovato il modo di ridire (e anche questo è assolutamente italiano).
Non tocca agli storici dare indicazioni politiche; l’ambizione di capire il mondo è già grande a sufficienza, per unirle anche quella di cambiarlo. Ma si possono promuovere idee, e poi affidarle al loro destino.
Una rivoluzione municipale ed europea nello stesso tempo, che riducesse il corpo dello Stato nella tenaglia di una doppia translazione di poteri e di competenze, locale e continentale, solleverebbe certo problemi enormi di gradualità, di intersezioni, di assetti, di differenze. Ma è difficile sfuggire all’impressione che solo nel crogiuolo di questa inedita e avanzata connessione sarebbe davvero possibile ritrovare il filo del rapporto - da noi finora mancato sul piano nazionale - tra identità civile e legame politico, e fissare i termini - sostanziali e formali - di un nuovo patto tra i cittadini.
I nodi che aspettano il paese avranno una soluzione europea, o non l’avranno affatto: una riforma dell’economia pubblica, che ci conduca da un Welfare statico e “negativo” (capace di proteggerci soltanto nelle emergenze) a uno dinamico e “positivo”, fondato sul rischio e sulle opportunità; un’etica capace non solo di essere in rapporto con la politica, ma con l’economia; la quadratura del cerchio tra benessere, coesione sociale e democrazia politica, in un ambiente postborghese e postoperaio, senza più le tradizionali architetture di classe a far da ammortizzatori e da collanti (osservazioni preziose si trovano negli spunti di Ralf Dahrendof). Lo schieramento politico che sarà in grado di additare da subito il cammino, e di collegare con indicazioni precise, costituzionali e di programma, il futuro europeo a una valorizzazione del nostro particolarismo civile, e del qudro storico delle sua autonomie, si candiderebbe ad aprire un nuvo ciclo nella modernità dell’Italia.
Non siamo abituati a pensarlo: e tuttavia la nostra storia - quella parte a lungo sepolta che dopo molto tempo sta appena tornando a vivere con noi - è una risorsa essenziale per il nostro futuro. Bisogna sapere cercare e riconoscere, e darle spazio e orizzonti. Smettere di guardare verso le reliquie di una statualità e di una noazionalità risorgimentali che non ci hanno mai davvero scaldato il cuor, né sono mai diventate autentica tradizione repubblicana. Più indietro si deve saper tornare, per ridare un fondamento alla nostra Repubblica: al moltiplicarsi sempre diversa delle nostre città, alle loro infinite riserve di una socievolezza senza eguali, al segreto del loro misterioso rapporto tra funzioni e bellezza, non solo nel nord, ma anche a Napoli, a Palermo (se appena le liberiamo dalla stretta micidiale della speculazione e della mafia), o nei piccoli centri della Basilicata e della Puglia, dove ancora riesce a vivere e a rinnovarsi il remoto strato contadino del passto; alla storia millenaria del nostro lavoro, che ha umanizzato con la sua fatica il paesaggio italiano come nessun altro al mondo (forse solo in qualche tratto della Provenza, della Borgogna, del Kenti o della Svevia si può trovare qualcosa di simile, ma rinunciando ad avere accanto Firenze o Venezia); a uno stile e a uno dolcezza di vita e di convivialità rimasti inimitabili.
Per una straordinaria ventura, il terreno dove siamo più deboli, è probabile che potrà essere in breve abbandonato. Sarà l’occasione per ritornare in una casa migliore e più grande - e per farlo in piedi e a testa alta - perché noi stessi, tutti insieme, abbiamo contribuito a costruirla, e non avrebbe speranze senza di noi.


   



 












Nessun commento:

Posta un commento