venerdì 13 gennaio 2012

avoledo 1 libro romanzo

LO STATO DELL’UNIONE
Tullio Avoledo

1 .Tutti gli americani di una certa età

Tutti gli americani di una certa età dicono di ricordarsi dov'erano e cosa facevano quando Kennedy è stato assassinato a Dallas.
Immagino che lo stesso valga per 1'11 settembre del 2001, o per il 10 ottobre del 2005.
Per conto mio, quando l'assessore regionale alla cultura Enrica Martinelli, e con lei i Celti, e con loro tutti i guai che ne seguirono, '1llando tutto questo mi capitò in casa un martedì sera verso la fine di aprile, io, nel mio piccolo, ricordo benissimo che la situazione era questa: Gaia e io stavamo cambiando l'acqua alla vasca del pesce rosso, mia moglie lavorava alla sua tesi al computer e la badante polacca era da qualche parte in giardino col piccolo Matteo.
Ricordo che erano le sette e un quarto. Si può dire le sette e un quarto in punto?
Ricordo che il campanello del portoncino d'ingresso suonò I re volte.
Già al primo squillo Gaia aveva mollato la presa sul pesce rosso Ignazio, che ricadde nell' acqua sporca con uno scodinzolio indignato e un gran vibrare di pinnette.
«Vado io» gridò mia figlia, attraversando il salotto con l'effetto devastante tipico di una bambina di sei anni. Carte e pastelli, pezzi multicolori di Lego, gambe di bambola finirono macinati sotto i piedini veloci come al passaggio di un ciclone. Gaia si arrampicò sullo sgabello che teneva sempre vicino al citofono per emergenze del genere.
«È una signora, papi» disse, e nel momento in cui lo diceva mi sembrò di sentire le antenne di mia moglie puntare nella mia direzione, dallo studio. È un senso ancestrale, forse un residuo dei tempi in cui i suoi antenati, e immagino anche i miei, cacciavano per sopravvivere.
Mi avvicino al videocitofono, una delle tante innovazioni condominiali alle quali mi sono invano opposto nel corso degli anni.
L'immagine si distingue a malapena. La donna è troppo vicina alla lente: la faccia è distorta, sembra abbia un naso enorme. Gli occhi a palla ricordano quelli di Ignazio, che in questo momento sta sicuramente meditando un'azione legale per abbandono di pesce rosso.
«Chi è?» domando a voce volutamente più alta del dovuto, per farmi sentire anche da mia moglie.
«Sono Enrica Martinelli. Si ricorda? Ci siamo parlati al telefono l'altro ieri».
Schiaccio l'interruttore del portone. «Settimo piano» dico. Tolgo il grembiule plastificato e i guanti di gomma. Mi muovo a passi felpati verso la porta d'ingresso, ma mia moglie mi intercetta a metà strada.
«Chi è?».
«Roba di lavoro».
«Fra un quarto d'ora si cena».
«Lo so. Ho visto il microonde». Riprendo a muovermi verso la porta.
«Devi proprio portarti il lavoro a casa?» mi grida dietro Marta.
«Se voglio mantenere il Circo Mendini è il minimo che possa fare».
Gaia è al mio fianco come una guardia d'onore, quando mi piazzo sulla soglia per accogliere Sua Maestà l'assessore regionale alla cultura Enrica Martinelli, vale a dire la donna che secondo le mie aspettative dovrebbe fornire a me e alla mia famiglia il pane e il companatico per i prossimi mesi, tenendo lontani gli spettri della miseria e degli ufficiali giudiziari.

L'assessore ha le gambe lunghe. È stata questa, immagino, la prima cosa che mia moglie ha notato.
Appena messo piede in casa mia, neanche il tempo di stringerci la mano, l'assessore si è chinata sulla mia bambina, sorridendo. La gonna corta le ha scoperto ancora un po' di gamba da ex atleta olimpica.
«Guarda che bella bimba. Ma proprio bella. Come ti chiami,
Piccola?». «Gaia».
«Come la dea della terra. Bravi».
Gaia la guarda perplessa.
«Veramente il nome non viene da Il» preciso.
La Martinelli stringe gli occhi a fessura. «Ah no? E da cosa veniva?
<<È una lunga storia» taglia corto Marta, piazzandosi al mio fianco.
Le due donne si stringono la mano con una solennità da tavolo di pace, ma anche con tutta la circospezione di chi si chiede 'l' riavrà indietro la mano, dopo. Marta è tutt'altro che piccola, l'l'a parentesi è leggermente più alta di me, ma l'assessore la supera di tutta la testa. Entrambi i miei bambini sono, al momento, più bassi della media. Immagino che la colpa sia mia. A giudicare dai ritratti e dalle vecchie foto in bianco e nero, le donne nella famiglia di Marta hanno instaurato una lunga tradizione nello scegliersi mariti più piccoli.
Quando Gaia sente odore di tempesta, di solito si stringe a me e, anche stavolta, non fa eccezione. Si aggrappa alla mia gamba, e in quel gesto è come se abdicasse (anche se solo temporaneamente) a quel po' d'indipendenza e sicurezza faticosamente raggiunte in sei anni. Le appoggio la mano sulla spalla.
«Mi scuso per l'ora e perché non ho chiamato» fa la Martinelli, sorridendo al massimo di apertura possibile del diaframma.
Peccato che con mia moglie questo genere di carinerie faccia semmai l'effetto contrario.
«Ma si figuri» dico, più o meno a nome di tutti. «Si accomodi».
Anche se a malincuore, Marta si scosta dalla soglia. La Martinelli fa il suo ingresso trionfale nel nostro appartamento.
I suoi occhi cerulei percorrono le pareti della stanza. «Dio, che bello quel quadro. Proprio una copia perfetta. È un Mirò, vero?».
«Veramente è un Matisse. E non è una copia» sorride mia moglie, mostrando un po' troppi denti.
«Ma dai. Un originale. Ma non mi dica. È proprio vero che a volte si trovano le cose più inaspettate nei posti più inaspettati». «Già. Mi sa che è proprio questo, il concetto di inaspettato» fa Marta.
La temperatura emotiva della stanza è crollata a picco. C'è un momento di imbarazzo collettivo quando la nostra ragazza polacca, che una volta avremmo definito colf e adesso invece è una badante e domani chissà, la bionda e diafana ma non troppo esile Malgorzata, sbuca dalla porta dell'ascensore trattenendo a fatica in braccio Matteo, il nostro piccolo selvaggio.
«Anche lui è figlio vostro? Complimenti, avete fatto la coppietta».
«Abbiamo anche il pesce rosso» fa Gaia.
Matteo, tre anni, è più interessato a captare odori di cibo nell' aria. Sembra deluso. «Posso avere un Minibon?» chiede, scuotendo la zazzera bionda come il Re Leone.
«SÌ» rispondiamo all'unisono io e Malgorzata.
«No» fa mia moglie.
Ed è no, quindi. Praticamente all'unanimità.
Credo sia l'ora di dare un taglio alle presentazioni. «Preferisce che adiamo in salotto o nel mio studio?» domando all'assessore. Ogni tanto mi piace interpretare la parte del gentiluomo di campagna russo, tipo Tolstoj: ecco, questa è la mia bella famiglia, e questa è la mia dacia, semplice ma ospitale. Venga, entri. Mi casa es su casa, o come cavolo si dice in russo. Spezziamo il pane e lecchiamo un po' di sale.

Marta scuote la testa, con le braccia in croce. «No, guarda, nello studio ci sto lavorando io. Semmai andate in salotto». «Ma in salotto ci sono io» geme Gaia, con enfasi struggente ',lll1'io. «Fra poco cominciano le Bràtz».
L'assessore sembra in imbarazzo. «Mah, per me un posto o l’altro è lo stesso».
Mi guardo intorno, come se l'appartamento fosse un castello , trecento stanze. «Andiamo in cucina, allora. Sa com'è». «Non c'è problema. Tanto non ci mettiamo molto. Arrivederci, signora».
Ma Marta è già sparita nello studio. Colgo appena un guizzo di marrone: il bordo del mio cardigan di lana shetland tutto bucato, che si è infilata addosso come fa sempre quando lavora al computer. Anche Gaia è già sparita, a occupare la sua posizione in salotto nell'evenienza di un mio ripensamento.
Sembra che il sorriso sia un tratto permanente dell'assessore. .,Sua moglie sembra arrabbiata».
«No. È che sta lavorando alla sua tesi. È un po' nervosa perché non è che le rimanga molto tempo». «In cosa si laurea?».
«Psicologia. Non rida».
«Perché dovrei ridere?».
La guardo fisso negli occhi. Sembra sincera.
«Per quello che ha visto. Non siamo proprio una famiglia normale».
«A me sembra di si. Come tutte, voglio dire». «Posso offrirle qualcosa? Un caffè, una bibita?».
«No, grazie. Come accettato. Non prendo mai niente a quest'ora».
L'assessore si guarda intorno. «Bella anche la cucina. E che soffitti alti. Non sembra neanche di stare in un condominio». «È un palazzo di altri tempi. E poi gli inquilini non hanno problemi di soldi. Quando scende dia un'occhiata al giardino». «Il giardino?».
«Il giardino interno. L'hanno fatto ristrutturare da un esperto giapponese. Prima che arrivassi io, per fortuna. C'è anche un giardino di rocce».
«Ma non mi dica. Ecco spiegata la sabbia». «Che sabbia?».
«Suo figlio. Aveva le scarpe piene di sabbia. Non se n'era accorto?».
Mi faccio un appunto mentale di parlarne con Malgorzata. ,<Accidenti, che razza di frigo! Ma non consuma un' esagerazione.».
Guardo il frigo della GeneraI Electric come se lo vedessi per la prima volta. Alzo le spalle. "Mah. Non credo. E poi ai bambini piace veder cadere i cubetti di ghiaccio nella Coca Cola ... ».
"Be', adesso, se non le dispiace, vorrei parlare di affari, come si dice».
"Certo».
"Allora, a grandi linee Severino dovrebbe averle già spiegato tutto. Quello che avremmo in mente, insomma».
"A grandi linee».
<Abbiamo pensato a lei per via del Coltellino Svizzero». "Ah».
"Secondo me quella è stata un'idea geniale. Cioè, io non ne avevo mai sentito parlare, ma quando mi hanno detto di cosa si trattava ho capito subito che era un'idea geniale. E anche lo slogan per il candidato della sinistra ... ».
"Sa, i pubblicitari sono un po' dei mercenari ... ».
«Perché dice un po? Siete dei mercenari fatti e finiti. Anzi, l'l'I qualcuno siete anche peggio. È per questo che ho deciso di rivolgermi a lei. A me non interessa cosa pensa o per chi ha votato. Ha presente quello che diceva Mao, che non gli interessava ',l,il gatto era nero o grigio, bastava che gli prendesse i topi?».
«Mi sembra che l'abbia detto Deng Xiaoping».
"Ah si? Non mi pare. Va be', comunque non ha importanza. Quello che volevo dire è che contiamo su di lei per la nostra campagna».

"È che non ho ancora capito cosa avete in mente, di preciso».
"Di preciso, tutto e niente, appunto. Guardi, abbiamo deciso di assumere un consulente proprio per mettere a fuoco tutte le idee che ci vengono in mente e decidere le strategie da attuare e realizzarle al meglio. Lei che idea si è fatto del progetto? E visto che dovremo lavorare assieme, cosa ne dici se ci diamo del tu.
"Va bene».
"Bene. Allora, Alberto, cosa pensi del progetto?». «Bhe è, come dire, non saprei, molto ambizioso». «Vero».
«Ci sarà un bel po' da lavorare».
"Mi sa di si».
"Certo, la sfida mi attrae, ma in questo momento avrei diverse altre proposte ... » mento, incrociando le dita dietro la schiena.
« Noi però ti vorremmo in esclusiva, Alberto. Fai tu il prezzo.
Per averti solo per noi».
« ln esclusiva» ripeto, mentre mi girano in testa file di numeri
"Quattro zeri. «Per quanto tempo?». «Quanto tempo ti serve?».
«Ci vorrà ... Be', non so, ci vorranno almeno sei mesi». «Va bene. Tu di solito quant'è che guadagni, in sei mesi?».
Che domanda brutale. Spiazzante. Me l'avesse fatta un altro mi sarei offeso. Dipende dall'anno, dovrei risponderle. Quest' anno, meno di quello che prenderei facendo il bidello. Il disastro della Puritan ha lasciato il suo segno.
«Sui centocinquantamila, direi. Più o meno» sparo.
Il cielo non mi cade sulla testa. L'assessore non batte ciglio. «Certo che ne puoi fare di ghiaccio per i tuoi figli, con trecentomila euro all'anno».
Sembra rifletterei su. Con l'indice e il pollice della destra si accarezza il mento. Poi sorride. Il suo collaudato, impareggiabile sorriso ,alla Martinelli.
«Affare fatto» conclude.
«Cosa vuoi dire, affare fitto?».
«Se ti va, e se riesci a liberarti da questi altri impegni che hai, da oggi lavori per me. Faccio preparare il contratto, okay?».
Sono rimasto senza parole. Da quando è entrata in casa mia saranno passati dieci minuti, al massimo un quarto d'ora, e mi ritrovo già più ricco di centocinquantamila euro.
«Scusa, ma non so se ho capito bene. Mi stai dicendo che la Regione mi pagherà centocinquantamila euro per un contratto di consulenza della durata di sei mesi?».
«Cos'è, non ti sembra abbastanza? Credevo di s1». «Netti?».
«Ma non so, non mi ci raccapezzo in queste cose. Mettiti d'accordo con Severino. Fai tu. Euro più, euro meno. Quello che importa è il successo dell'iniziativa. Contiamo molto su di te, te ne sarai accorto ... ».
Credo che poi mi abbia parlato ancora, e credo di averle risposto. Insomma, tra noi c'è stata senz'altro una conversazione. Solo che non ne ricordo nulla, dato che mentre lei parlava, ed evidentemente anche mentre io parlavo, il mio cervello continuava a calcolare quanto facessero centocinquantamila euro in termini di spese condominiali arretrate, conti del dentista lasciati in sospeso e rate del fuoristrada. E il mutuo. Soprattutto la rata del mutuo, la mannaia che cala puntuale due volte l'anno, ad aprile e in ottobre. Il rumore del mio cervello - che macinava e macinava _ doveva essere così assordante che mi meraviglio abbia potuto sentirci tra noi.
La prima cosa di cui ho concreta memoria siamo noi due sulla porta dell'appartamento, che ci stringiamo la mano. L’assessore ha un buon profumo.

"Scusami con tua moglie per il disturbo. Dille che non lo farò più».
"Ma figurati. Nessun problema».
Ti chiamo l'ascensore. È una cabina nuova, che non stonerebbe in un albergo di lusso di New York. Ha inciso per quasi , settecento euro sulle mie spese condominiali. La Martinelli sorride. La porta dell'ascensore si chiude, morbida e precisa. Dietro il vetro smerigliato vedo che l'assessore mi fa ciao con la mano.

Quando rientro, Marta sbuca di sorpresa da dietro la porta. Grazie, mi fa.
"Grazie di cosa?».
"Dicevo alla tua amica. Dato che ha promesso di non farlo più”
"N on è mia amica. È una cliente. Cos' è, hai origliato?».
Marta alza le spalle.
"Andiamo a tavola?» domando. "Non c'è niente di pronto».
E quello che c'era nel microonde?».
"Bruciato. È in fondo alla pattumiera. Non te lo consiglio». "Be', qualcosa dovremo inventarci. Abbiamo ancora quei surgelati della Buitoni? I Quattro Salti in Padella?».
"Buitoni fa la Cucina Creativa. I Quattro Salti in Padella sono Findus».
"Quello che è».

* * *

Solitamente le nostre cene sono scandite dalle domande di questo o quel quiz televisivo. Matteo impazzisce se il televisore non è sintonizzato su un gioco a premi. Da qualche tempo il suo modo di mangiare si è fatto disordinato. Invece di sedere compostamente a tavola si mette in punta di sedia, come se da un momento all'altro dovesse scattare a prendere un treno. Sua sorella non perde occasione per punzecchiarlo.
«Scoreggione» . «Scoreggiona tu».
«Papi, Matteo mi ha chiamato scoreggiona». «Hai cominciato tu, mi pare».
«Perché mi dà fastidio. Mi fa impazzire». «Mangia gli spinaci, per favore».
«Non ho voglia».
«Non ti ho chiesto se ne hai voglia. Ti ho detto di mangiarli». «Mangia, scoreggiona» sibila Matteo.
« Visto?».
Mia moglie alza lentamente gli occhi dal libro. Fissa Gaia negli occhi e pronuncia due sole sillabe. «Mangia».
Le ganasce di Gaia si mettono in movimento prima ancora che la parola abbia finito di vibrare nell' aria.
Matteo ridacchia. Blocco con lo sguardo mio figlio prima che aggiunga altra benzina al fuoco.
«Così hai trovato lavoro» mugugna Marta, fra un boccone e l'altro.
«Così pare». «Quanto ti danno?».
«Cento mila» rispondo, deducendo un trenta per cento abbondante che andrà a pagare certi debiti di cui non ho mai detto niente a Marta.
«Gentomila?» ripete mia moglie, smettendo di masticare. «Allora posso avere il GameCube» esulta Gaia. «Vedremo» dico.
"Il GameCube è escluso» precisa Marta, ma senza troppa energia.
Finisce di masticare il boccone che ha in bocca. Poi sorride, anche se solo con un angolo della bocca. «Centomila» ripete ancora, come se sentisse la parola per la prima volta.
“Si”
“Suona bene. E cosa dovresti fargli, per una somma del genere”

"Mah, sai, le solite cose». “D’avvero?».
“Più o meno».

Allora, per diecimila euro, pari a quasi venti milioni delle vecchie lire, vogliamo sapere qual era il nome dei fratelli Wright. Pensaci bene, non aver fretta di rispondere.

“Chi è il cliente?».
"La Regione. La Martinelli è l'assessore ... ».
“Lo so chi è. Non sono scema del tutto. L'ho vista in televisione. Non sapevo che avessi simpatie per il suo partito».
"Ma io non ho nessuna simpatia. È un lavoro».
“Questa mi sa che l'ho già sentita. E che genere di lavoro sarebbe?”

John e Isaac, Orville e Wilbur, Frank e Richard ...

Gaia ha l'infelice idea di interrompere la conversazione. “Papi il GameCube viene quasi a metà prezzo all'Iper. È in promozione solo per questa settimana. Con due giochi in omaggio».
“Ho detto che il GameCube è fuori discussione!».
"Hai sentito? La mamma ha detto di no».
"M a insomma, perché non posso averlo il GameCube? Aless1,101 Il' l'ha, e anche Sara. Perché non posso averlo anch'io?».
"Non puoi perché non puoi. Punto e basta». ,(Ma papà ha detto che prenderà tanti soldi».
Marta la guarda senza dire una parola. Continua a guardarla.
Matteo fissa la madre, ipnotizzato. Sembra un fotografo in attesa del momento in cui la testa del cobra scatterà.
«Stammi a sentire, signorina. Se ti azzardi a dire una parola fuori di casa su quello che tuo padre deve fare per vivere, o su quanto guadagna, io ... ».
«Tu ... ?» sussurra Matteo, affascinato. La testa del cobra si ritrae per l'attacco.
«Casomai del GameCube si parlerà a Natale» intervengo, cercando di conciliare le due donne ed evitare il peggio. Ma l'unico risultato che ottengo è quello di scontentare tutti: le due litiganti e mio figlio minore assetato di sangue. Si voltano verso di me con uno sguardo che proclama a caratteri cubi tali FA TII I CAZZI TUOI.
Quando gli sguardi mi si staccano di dosso sgattaiolo in cucina.
Allora la tua scelta è Frank e Richard. Sei sicura?
Sì.
Sicura? Confermi? Sì, confermo.
Va bene. Ma per sapere se la tua risposta è quella giusta tu e il pubblico da casa dovrete pazientare un attimo, perché adesso dobbiamo dare un momento la linea ai titoli del telegiornale.
«Orville e Wilbur» faccio io, a tutti e a nessuno.

***

Marta mi raggiunge una decina di minuti dopo, portandosi dietro una dispensa universitaria grossa come un elenco del telefono.
Sbadiglia. Stiracchia le braccia. «Cosa fai?».

«Leggo un Topolino.> rispondo, alzando come prova il Topolino di Gaia che sto appunto leggendo. «A un certo punto mi sono sentito di troppo».
«Ah. Cosa c'è per dessert?».
"Questa di solito è la mia battuta ... ».
«Comunque cosa c'è per dessert? Ho bisogno di zuccheri». Sospiro. «Gelato. Prendi la confezione dietro, che è più vecchia”.
"Matteo vuole il Tenerone, mi sembra».
"Il Tenerone non è un gelato. Almeno che io sappia. È un prosciutto. Vado a chiedergli io.'.
«Si bravo. Meglio”.

* * *

«Vuole un Cucciolo ne» annuncio a Marta, che si è immersa nella lettura della sua dispensa. Pesca distrattamente il gelato dal fondo della vaschetta avanzata dalla scorsa settimana, un' assurda fantasmagoria colorata di gusti scelti da Gaia.
"E ce l'abbiamo, questo Cucciolone?». "Mi sembra di s1».
"Figurati se non l'avevamo».
Apro la cella del frigo. In effetti ci sono tre scatole di Cuccioloni. Ne porto uno a Matteo e uno in più per mia figlia, per giocare d'anticipo sulle sue prevedibili lagnanze.
Quando rientro mia moglie mi guarda fisso. "Come mai ce l'hai con me?» le domando. "Ma non è vero».
Si passa le mani nei capelli, che avrebbero urgente bisogno di lino shampoo. Di solito sono lucenti e morbidi. Oggi hanno l’aria unta, sembrano usciti da un viaggio di venti ore in treno su una carrozza fumatori.
«Sicura?» .
"Sicura. Sono stressata per la tesi. Sono contenta che hai di IIUOVO un lavoro. Sul serio. Solo che mi domando se non avevi altra scelta. Voglio dire, se non potevi trovare un lavoro che non mi costringa a comprometterti con certa gente. Che poi mi porti .Anche in casa».
«Guarda che oggi è stata un' eccezione. Ha preso di sorpresa anche me. Non mi aspettavo che venisse qui». «E comunque non mi hai risposto». «Risposto a cosa?».
«Cosa dovresti fare per loro».
«Ah. Be', non è che lo so ancora bene, di preciso. È ancora tutto, come dire, tutto molto fluido».
«Molto fluido. Ma fluido di che tipo? Tipo un giornale? Una manifestazione?». «No».
«Una campagna pubblicitaria?». «Credo una cosa molto più in grande».
«Non vuoi dirmi cos'è? O non puoi?».
La guardo. Questa è la donna che ho sposato, nel bene e nel male, in ricchezza e povertà, finché morte non ci separi.
«Hai presente i Celti?» le domando, abbassando la voce. «Vuoi dire quelli con le corna? Vestiti di pellicce? Quelli che hanno distrutto l'Impero romano?».
«No. I Celti vengono prima. Non c'entrano con l'Impero romano. Cioè, c'entrano, ma non hanno niente a che fare con la sua caduta».
«E cos'hanno a che fare con te? Tu non sei mica uno storico.
Sei un pubblicitario. Che cosa c'entri tu coi Celti?».
«È una storia lunga. È cominciato tutto la settimana scorsa.
Solo che non te ne volevo parlare finché non fosse tutto ben definito. Allora, ero seduto nel mio studio ... ».


2- Ero seduto nel mio studio

Ero seduto nel mio studio in via Barrolini (<<semicentrale, lussuoso, ottima posizione» lo definiva l'annuncio che da qualche settimana avevo fatto inserire nella sezione AFFITTI LOCALI COMMERCIALI del quotidiano cittadino).
Le dieci del mattino. Ero appena arrivato. Inutile venirci prima.
Il piano della scrivania era sgombro, una distesa di vetro vasta come i deserti di ghiaccio dell'Artico. Se il telefono avesse squillato avrei sobbalzato.
Nel silenzio da cripta del mio ufficio si sentivano a tratti i rumori del condominio , distillati e resi a volte incomprensibili dalla distanza. I passi lungo le scale. Il cavo metallico dell' ascensore in salita. lo sedevo un po' distaccato dalla scrivania, con le mani posate sulle ginocchia più o meno nella posa che un tempo tenevo facendo training autogeno. Forse il mio corpo cerava di ricordare un esercizio di rilassamento. Dio solo sa se ne avevo bisogno.
Dovendo riassumere la mia situazione esistenziale in quel I Il o ll1ento potrei dire, banalmente ma efficacemente, che ero il classico uomo sull' orlo del baratro.
La mia carriera di pubblicitario e uomo d'immagine era finire nella pattumiera della storia un paio di mesi prima, col disastro della Puritan. Tutto ciò che mi teneva ancora insieme erano forse solo le mie stupide bretelle da raider di Wall Street, coi disegnini cachemire. Un talismano dei ruggenti anni Ottanta. A vedermi li, chiunque avrebbe potuto credermi un organismo integro, pienamente funzionante: in realtà ero come una delle statue di cemento che quell'artista americano piazzava alle fermate degli autobus o nelle stazioni.
Nel guscio di Alberto Mendini non c'era più nessuno. Tanto per darci dentro con le metafore, ero uno di quei bozzoli che le larve lasciano quando mutano forma. Solo che io non me n'ero andato da nessuna parte. Non ero nient' altro che il guscio vuoto.
Per un po', dopo il disastro, il lavoro era continuato. Un rivoletto esiguo di lavoro, qualche vecchia commessa di prima del casino, incarichi da portare a termine. Nel giro di poche settimane il rivolo si era prosciugato, lasciando mi in un deserto di silenzio e di debiti.
I rumori dello stabile.
Una radio a uno dei piani più alti suona una canzone di Renato Zero.
Il vuoto della scrivania.
Il vuoto di tutto l'ufficio.
Il pulviscolo attraversato da un raggio di sole. La polvere, ho letto su un giornale, è un misto di particelle microscopiche di pelle umana, cacca d'acaro e polvere cosmica. Ma, in ultima analisi, tutto è polvere cosmica.
Polvere è un termine perfetto per definire come mi sentivo in quel particolare giorno di aprile, con la luce perfetta del mattino al di là della finestra e il vuoto pneumatico al di qua.
Altri rumori. L'ascensore.
Il portone d'ingresso.
Un'ambulanza con le sirene spiegate, lungo viale Gramsci. Guardo le pareti del mio ufficio.
La laurea incorniciata.
I vuoti sul muro, dove fino alla settimana scorsa c'erano sei splendide litografie di Graham Sutherland, la serie degli animali.
Studio la mia immagine riflessa dallo schermo del computer. Un uomo sui cinquanta, dal fisico che comincia a farsi importante, come direbbe il mio sarto. Il mio ex sarto. Camicia di Brook Brothers, cravatta di Hermès colar blu mare con un motivo molto discreto da essere quasi invisibile.
Capelli e barba brizzolati. Porto occhiali da astigmatico con una correzione complicata, di quelle che fanno confondere gli ottici.
Occhi scuri.

Quando mi guardo, non riesco proprio a vedere me. È come vedere un altro. L'ultima mia immagine in cui mi riconosco è di quando avevo quarant'anni. Dopo, lo specchio mi ha sempre mentito. Tutti gli specchi. Sono certo che è un complotto. Chi è questo sacco di patate dal sorriso melenso che, appena mi scorge mi fa una smorfia e volta la testa?

* * *

Il telefono squilla alle dieci e ventuno, quando ormai pensavo di chiudere e andarmene a casa. Li per Il non capisco, e cerco il cellulare nella tasca della giacca. Invece è il telefono della scrivania quello trasparente coi tasti che non ho mai imparato a usare.
Suona cinque volte prima che mi decida a sollevare il ricevitore. Un tempo - non tanto tempo fa- avevo due segretarie, per , IIll1piti del genere.
«Pronto?».
«Studio Mendini?». «Chi parla?».
«Chiamo dalla Regione. Sono l'assistente personale dell' assessore Martinelli».
Un attimo di confusione. Poi realizzo.
«Ah. La Martinelli».
«Sì. La Martinelli. E io sto parlando con il signor Mendini?
L'uomo del Coltelli no Svizzero?».
Potrebbe essere il preludio di una presa in giro. Ma ho troppo bisogno di qualcuno che mi chiami a questo numero per fare lo scontroso.
«In persona. Come posso esserle utile?».
«Veramente è una cosa un po' complicata. E anche abbastanza delicata. Non è il caso di parlarne al telefono. Lei potrebbe mica fare un saltino qui in Regione, che so?, domani, o dopodomani?».
«Aspetti un attimo che do ,un' occhiata all' agenda».
La segretaria è fuori per un caffè, potrei aggiungere, tanto per darmi un contegno. Ma così su due piedi non mi viene in mente.
Metto la mano sul ricevitore. Fingo di consultare un' agenda che non c'è. Lascio passare mezzo minuto. Poi un respiro profondo e via, di nuovo in scena.
«Eccomi qua. Domani in mattinata potrebbe andar bene». «Quando vuole. Domattina non ho impegni. Sa dove siamo?».
«Credo di sì. Sono già stato in Regione».
«Guardi che siamo nel settore nuovo. Non è mica tanto facile trovarci. Comunque quando arriva chieda di me. Del dottor Severino Segaluzza».
«D'accordo. Ma davvero non può anticiparmi di cosa si tratta?».
«Diciamo che è qualcosa che potrebbe rivelarsi di grande soddisfazione reciproca».
«Non può essere un po' più preciso?».
«Temo di no. Dovrà pazientare fino a domani. Al limite posso darle un indizio. Ha visto i cartelloni in giro per la città? Quelli della mostra al Castello?».
«Quella sui Celti nella nostra regione?». «Esatto».
"Ma è già tutto organizzato. La mostra apre domani».
"I'incarico che vorremmo affidarle non riguarda la mostra. I "me dire, più ampio».
"Ma ha a che fare sempre con i Celti,?».
Io non gliel'ho detto, d'accordo? Abbia un po' di pazienza , e saprà tutto. Allora, ci vediamo domani”
"Va bene».

Quando riattacca mi rendo conto che non ha lasciato nessun recapito telefonico. Anche il nome avrei dovuto tirarmelo giù, 'Maledizione. Com' era? Seghizzi? Segalossi?

***

Sull’ elenco interno della Regione, secondo il loro centralino, non c'è nessun Segalossi, o nessuno con le altre diverse varianti del nome che provo a buttare lì. C'è un Sigalotti, ma lavora all’ufficio per le Autonomie Locali. Allora provo a chiedere dell'assessore Martinelli.
E il dotto Mereu. Glielo passo?».
"No. Il nome era diverso. Sono sicuro che non era Mereu.
Da Scgalossi a Mereu c'è una bella differenza, no?».
“Io sull'elenco ho questo nome: Mereu. Se vuole le passo l’interno».
"No, lasci stare».
Ho come paura di rompere la magia. Che, in questo caso, è la magia di trovare qualcuno che mi dà ancora fiducia. Qualcuno per cui sono l'Uomo del Coltellino Svizzero o l'Uomo dell’Onda Piatta, e non l'Uomo che ha sputtanato la Puritano
Chiudo l'ufficio. Non voglio prendere nessuna telefonata che mi dica di non andare. Che è stato tutto uno scherzo.
La mia cassetta della posta, giù nell' atrio, è desolatamente vuota. Dalle altre cassette prendo atto che il postino è passato. Il fatto è che nessuno mi scrive più, a parte Visa e American Express una volta al mese. E la banca, ovviamente.
Ieri è arrivato un avviso che mi chiede di passare in filiale per discutere «alcuni aspetti importanti del suo rapporto con la nostra Banca».
Non credo sia un buon segno.
Appena ho visto la busta bianca per un attimo ho pensato a una vera lettera. Quando poi l'ho girata e ho visto il logo della banca, il cuore mi è sceso nel tacco della scarpa.
Un condomino mi saluta. Forse dovrei conoscerlo. Di certo lui sembra conoscermi. Rispondo con un «salve» e un sorriso che è più che altro una lieve flessione del labbro superiore.
Premo il tasto sul telecomando, e le luci di posizione dell' auto si accendono e si spengono gioiose, a intermittenza. Un cane che scodinzola al padrone.

* * *

Nel tempo confuso in cui vivo e ricordo, questo è un altro mondo. È come vedere per la seconda volta un film di cui però non ricordi i dettagli. Ma soprattutto non ricordi il finale. Mi vedo entrare nell' auto, la cintura si infila da sola. Appena inserisco la chiave nel cruscotto, il pannello di controllo si accende, ed è come quando in un albergo di lusso, tipo il Meurice di Paarigi o il Savoy di Londra, il concierge s'illumina nel riconoscerti e ti viene incontro precedendo i valletti.
La selleria della mia Lexus RX300 ha un odore di cuoio nuovo. Mi ricorda quando da piccolo guardavo mio padre farsi la barba col rasoio a mano libera, dopo averlo affilato su una striscia di cuoio. Mi vedo uscire dal parcheggio in retromarcia e poi mentre mi infilo nel traffico. Mi chiedo a che pro tanta energia, che senso abbia tutta questa fretta. La disoccupazione rende filosofi. Ieri - ieri rispetto al tempo che ricordo - ieri Matteo ha macchiato il sedile con il gelato. Una volta l'avrei sgridato. Invece l'ho guardato e ho visto che era dispiaciuto. Così non gli ho detto niente.
NeI ricordo mi vedo uscire dalla città. Inserire un Cd nel lettore Alpine. È un vecchio disco di Beth Orton, Daybreaker. La musica mi avvolge e calza il mio umore come un guanto.

Mi ricordo che all'incrocio del Bar Paradiso un' auto con una targa straniera mi ha tagliato la strada. L'ho evitata solo frenando di colpo e rischiando di farmi tamponare da dietro. Un mese fa mi sarei incazzato.
Mia moglie ha notato il mio cambiamento. E io ho notato che lei l'ha notato. Ma non mi ha detto niente. Immagino che avrà pensato a un'altra donna.
Marta non sa che sono rimasto senza lavoro. Sa che il momento non è dei più felici, tutto qui. All'inizio non le ho detto niente perché non volevo che si preoccupasse. Poi sono stato zitto perchè ormai ero stato zitto troppo a lungo. È così che vanno le cose.

Nel ricordo che ho di quella mattina - che preannunciava una possibile resurrezione, anche se Pasqua era già passata da un paio settimane -, mi vedo imboccare il viale che porta alla casa. La ghiaia scricchiola sotto le ruote. Gli alberi del viale formano una galleria fresca e scura.
D’avanti a me c'è la casa.
Non è casa mia. È la casa di un altro.

3 - La casa di un altro

La casa di un altro è una villa di fine Ottocento: dico così perché «della fine del secolo scorso» da qualche anno non si può più dire.
Il secolo scorso è quello in cui sono nato. Verso la metà del secolo, per essere precisi. Un'epoca che agli occhi dei miei figli deve sembrare lontana come l'Era dei Dinosauri.
È una villa grande e squadrata, avvolta dall' edera come una casa di campagna inglese. Case così se ne trovano, da queste parti. Residui di tempi remoti in cui le ricchezze si facevano con le ferrovie e le miniere e non speculando in Borsa, ed era una cosa del tutto normale avere dozzine di servi tori.
La prima impressione, scendendo dall'auto, è di fresco e di pace. Le fronde degli alberi secolari stormiscono e una fontana gorgoglia: dentro, una famiglia di carpe grasse e placide incrocia nell' acqua fredda, ali' ombra delle foglie che ci galleggiano sopra. Nella stagione giusta le foglie sono quelle rosse, a zampa di gallo, di un acero giapponese.
La mia Lexus sembra fuori posto sul vialetto, parcheggiata accanto a una Jaguar x9 e alla vecchia Mini Cooper del padrone di casa.
La porta d'ingresso è aperta. È sempre stata aperta, tranne la prima volta.
«Entra».
La voce viene dal salone in fondo al corridoio. I! corridoio è buio. I quadri appesi alle pareti sono anch' essi cupi e sembrano aggiungere oscurità all' ambiente. L'unica luce è quella che viene dalla porta aperta del salone.
Cammino sui tappeti folti, che frusciano sotto i miei piedi.
“ciao Alberto”.
“Mettiti comodo. Sono da te fra un attimo».
Il salone una grande biblioteca con le pareti interamente occupate da scaffali pieni di libri. Il padrone di casa, in piedi su una scala sta cercando qualcosa in mezzo a una congerie di volumi da rilegatura antica. «Eccoti qua!» esclama, tirando fuori un volumetto dall'aria insignificante e malandata, come se fosse stato malmenato dai suoi vicini di scaffale.
Mi siedo sull'angolo di una dormeuse stile impero, accompagnando con gli occhi la precaria discesa del mio amico.
La la la, canticchia Neil, sull' aria di un' opera di Mozart. Sull’ultimo scalino esita un attimo, si perde nei suoi pensieri. Poi ridacchia e appoggia per terra il piede destro.
“Sai che cosa ha detto Scott, quel giorno? Te l'ho mai raccontato?”domanda.

.. No».

“Ha detto: "Ehi!, prima potevate mandare la donna delle pulizie. Laggiù è pieno di polvere"».
Neil, per quello che ne so, per quello che una volta mi ha detto ha settantadue anni, ma ne dimostra come minimo venti di meno. Stasera indossa un cardigan di cachemire che ha visto tempi migliori, una camicia in jeans e un paio di pantaloni in velluto sformati. Ai piedi ha un paio di Desert Boots altrettanto logore.
«Mi fa piacere vederti. È un bel po' che non ti fai vivo» sorride.
«Ho avuto qualche problema. Più bassi che alti, ultimamente».
Mi mostra il libro che ha riportato giù dallo scaffale. È un libretto dall'aria antica, con la copertina di tela verde. Il titolo è tanto sbiadito che quasi non si legge.
«Ti piace Tennyson?» domanda.
«Non so. Se è un whisky non l'ho mai bevuto. No, scherzi a parte, se ti riferisci al poeta non è che ne vado matto».
Mi sono dannato per cercarlo perché ieri notte mi è venuto in mente un verso e volevo controllare se era di Tennyson. Immagino che data l'ora tu non abbia voglia di niente di alcolico». «Un caffè andrà benissimo».
«Americano o scassabudella?».
«Sai come la penso. Quello vostro non si può definire caffè.
È acqua sporca».
«E quello che bevete qui è puro veleno».
Lo accompagno in cucina. La cucina di Neil sembra uscita da un film francese ambientato nell'Ottocento. A parte gli elettrodomestici, voglio dire, che però sono ben nascosti. Le pareti sono coperte di pentole e stampi in rame, i mobili sono di legno scuro e massiccio, dall' aria vissuta.
Tutto è lindo e in ordine, pronto per i fotografi di «Casa Vogue».
«Ti va un Jamaica Blue Mountain?». «Ai pesci piace nuotare?».
«I’ll take it for a sound yes» sorride Neil. A volte, fra noi parliamo in inglese. Un po' per farmi fare esercizio, un po' perché il suo accento americano, anche dopo tanti anni che vive qui, continua a tingere il suo italiano di inflessioni un po' ridicole.
«Hai l'aria rilassata. Dimmi che le cose ricominciano a girare bene».
«Pare di si. Non so. È una cosa un po' strana, per la verità». «Dimmi. Se ti va, ovviamente».
«Certo che mi va. Sono venuto qui apposta».

* * *

E gliene parlo.
Neil mi ascolta senza interrompermi mentre racconto la telefonata dalla Regione. Di Segalossi, o come diavolo si chiama, e dei Celti.
“Quando ho finito, e le tazzine sono fredde, e i fondi di caffè , si sono rappresi e arabeschi incomprensibili, guardo il Mio amico negli occhi.
“Allora” Faccio.
“Mettiamola così: cos'hai da perdere?». “Ma non so niente di Celti!».
“Neanche loro. Però si sono rivolti a te. Quindi ti ritengono un esperto di Celti».
“E Allora”
“Bhe, mi pare semplice, no? Devi farti credere un esperto di Celti”

Nel silenzio si sente la pendola a muro, TIC TOC, TIC TOC. “Vuoi dire che secondo te posso farcela?».

“perché no?”
“Dovresti studiare un sacco. Argomenti che non conosco». “Non necessariamente. Potresti formarti strada facendo.
“Bluffare un poco».
“Dici”?
“Certo. Se vuoi posso darti una mano».
“Sul serio?».
"No, per finta. Certo che dico sul serio. Sai che mi annoio, a stare senza far niente. Andiamo di là, che ti do subito un po' di materiale».
"Ma non so se è il caso. Quella dei Celti era solo una frase buttata li. Non so neanche se è davvero quello, l'incarico che vogliono affidarmi. Magari è solo un depistaggio».
"E quindi?».
«Quindi lascia che vada a parlare con loro. Sento cos'hanno da darmi e cosa vogliono, e poi vediamo».
«In effetti non hai tempo per prepararti. Ti conviene andare e far finta di niente. Fai di si con la testa quando ti sembra di capire qualcosa. E anche quando non capisci, a pensarci bene.
Poi butta lì una frase ogni tanto, tipo questo è indiscutibile, oppure la questione è controversa. Cose del genere. Vedrai che effetto». «Dove hai imparato queste cose, Neil? Voglio dire, col tuo mestiere».
«Diciamo che ho una lunga esperienza in burocrazia a livelli stellari. E di inviti a riunioni su argomenti di cui non so nulla». «Ah».
«Tu vai. lo intanto ti preparo una bibliografia come si deve». «Non sapevo che te ne intendessi tanto ... ».
<<Infatti non me ne intendo. Però so a chi rivolgermi. Tu sta' tranquillo. Non preoccuparti di niente».
«Se lo dici tu. '
Il mio amico mi fissa. Ha colto qualcosa nel mio sguardo. «Per caso c'è qualcos' altro che vorresti chiedermi ... ?».
Devo aver fatto, senza rendermene conto, segno di sì con la testa, perché Nei! scuote la sua con un'aria delusa. Come un papà con un bambino che non ha fatto bene i compiti. «Non funziona così. Devi chiedermelo tu, ricordi? Mi hai fatto promettere che di mia iniziativa non ti avrei mai detto nulla».
«Okay, non parliamone più. Però una cosa almeno devi dirmela. lo ... Cioè, voglio dire, insomma: mi hai mai sentito parlarne prima, di questa storia dei Celti?».
Neil mi fissa a lungo. Mi sembra di cogliere un'aria di compassione nei suoi occhi. «N o» sospira.
Poi consulta il suo orologio da polso Omega Speedmaster, quello degli astronauti dell'Apollo Il.
«Ti va un po' di musica dal vivo?» propone.
«A quest' ora?».
«Perché no? Hai altri impegni?».

* * *

Neil mi fa strada lungo un corridoio buio, poi giù per le scale che scendono dietro una porta massiccia chiusa a doppia mandata: sono le scale della cantina, solo che non è la cantina che uno si immagina. La cantina vera e propria è da un'altra parte. Questo è un locale che un tempo, all'epoca dei primi abitanti della casa, era usato come deposito del ghiaccio. Il ghiaccio veniva portato giù dalla montagna su carri coperti di paglia, e poi veniva scaricato in questo locale, dove durava per tutta l'estate.
Scendiamo alla luce di un candelabro che Neil ha preso da una scansia del locale ha muri e soffitto antichi. Molto più antichi della casa che ci sta sopra. «Credo che in origine fosse destinato a uso diverso» ha detto Neil la prima volta che mi ha portato giù.
All’anima dell'understatement, ricordo di aver pensato guardando le colonne sbozzate in forma umana - tentativi popolari di statue religiose, ma di dei o santi che non riconoscevo - e i graffiti tracciati su quel che restava dell' intonaco.
Piante. Animali.
Un fiume che descrive un circolo: dalla sorgente alla foce, che si stringe di nuovo per formare la sorgente.
Schemi di labirinti.
«Dicono che chi fece costruire questa casa fosse pazzo» sussurra Neil al mio orecchio, come in un vecchio film dell'orrore.
Al centro dello stanzone c'è un tavolo con una sedia. Il tavolo sembra preso da un vecchio ufficio. È un tavolo da poco, col piano in cuoio verde, molto segnato. Uno di quei tavoli che ci si aspetta di trovare nell'ufficio di un burocrate di basso rango, odi un preside di provincia.
La sedia, se possibile, è ancora più vecchia e malandata. Neil accenna a quella, col candelabro. «Siediti»,
Sul tavolo c'è un apparecchio che sembra una vecchia radio a valvole. Il cavo elettrico che va dalla radio alla parete è avvolto i n una guaina spessa almeno cinque centimetri, con uno strato esterno di stagnola. La presa sulla parete è isolata anche di più.
Appena mi siedo, Neil accende la radio. Il quadrante si illumina, con uno schiocco. La radio è collegata a un amplificatore e a un sistema di altoparlanti Bose, nascosti da qualche parte. Lo so perché Neil me li ha fatti vedere, altrimenti non si avrebbe alcun sospetto della loro esistenza. Ascoltando le voci si ha l'impressione che vengano dal nulla, da un punto sospeso nel buio intorno a noi. So degli altoparlanti come so dei computer nella stanza accanto, dei software di decodificazione che non avrebbero mai dovuto uscire dagli Stati Uniti e della nastroteca chiusa negli armadi ignifughi, file su file di bobine e cassette e videotapes, e ultimamente anche di Cd-Rom e DVD. Tutti etichettati con precisione maniacale.
Neil si siede per terra, appoggiando la schiena a una colonna.
Il pavimento è di terra battuta. La temperatura della stanza non supera i dieci gradi, e sembra calare di minuto in minuto, mentre aspettiamo.
Neil spegne una a una le candele. È un rito che conosco bene.
All'inizio, nel buio assoluto, si sente solo il ronzio dell' energia statica. È un ronzio amorfo, ma che lentamente prende forma. È come se, pur mantenendo lo stesso volume, il suono in qualche modo si ampliasse, crescesse, diventasse qualcosa d'altro. O forse è il mio udito a cambiare, a farsi più fine e percettivo. Comincio a cogliere qualcosa, in quel ronzio. Uno schema coerente. Sillabe. Sommesse, all'inizio ai limiti dell'udibilità, poco più di un rumore di fondo, poi sempre più nitide e comprensibili. Per un apparente paradosso, per ascoltarle bisogna smettere di ascoltare. Bisogna lasciarsi galleggiare nel suono come se fosse un flusso d'acqua. Smettere di ascoltare e lasciarsi trasportare dal rumore. Lentamente le sillabe cominciano ad acquistare consistenza, a concatenarsi, a trasformarsi in parole che piano piano compongono i frammenti di una frase.
Memoria delle rose ... Tulpen ...
Quarantaquattro ...
Weibe rose ….


E poi una  ridda di voci che parlano tutte insieme, un ronzio come di alveare, in una babele di lingue. Una voce stridente pronuncia una lunga frase in tedesco. Poi un'altra. Sembra un discorso sussurra la voce disincarnata di Neil nel buio.
Una voce di donna risale attraverso la babele, una voce che canta una canzone, all'inizio quasi incomprensibile, ma poi via via più chiara. Le altre voci svaniscono, si sfaldano in un balbettio scompaiono, mentre la voce della donna diventa sempre più sicura.

Many year are passed………

* * *

E’ una voce meravigliosa, che ti manda i brividi lungo la spina dorsale. Mi attacco con tutto me stesso a quel filo di voce che va e viene, che a tratti sparisce come quando ascolti una radio di notte, una radio che parla in una lingua sconosciuta e che rischia a ogni istante di sparire.

I never made promises lightly ...

Conosco la canzone. È un vecchio, splendido pezzo di Stingo M;I la versione in cui l'ascolto è diversa, straordinariamente cambiata e al tempo stesso pura, come se fosse la vera versione, " quella di Sting solo un rifacimento.
«Chi è?» domando al buio. «Shhht!».
Ma in quell' attimo di distrazione ho perso il contatto con la voce. Non riesco più a sentirla. O forse è la voce che se n'è andata, forse parlando ho disturbato qualcosa, ho rotto un equilibrio delicato.
Lui allarga le braccia. «La vita è la tua».
«Più o meno. Mi accompagni alla macchina?».
«No. Ti ho visto arrivare. Cosa sarebbe, quella cosa che guidi?».
«Una Lexus. Roba delle tue parti».
«Non credo, visto che è un brand della Toyota. Ti sembro giapponese, io? Ho gli occhi a mandorla? E comunque cos' aveva la Saab che non andava?».
«Sai com'è. Coi bambini piccoli lo spazio non è mai abbastanza». «Contento tw>.
«Allora ti faccio sapere com'è andata in Regione?». «Certo».
«Grazie per il whisky. E per la musica».
Neil mi guarda di sottecchi. «Tu non sai il tedesco, vero?». «No. Tu sì? Sono contento per te. Dicono che le lingue sono indispensabili, al giorno d'oggi».
Lui scuote la testa.
«Non è questo il punto. Ti ho detto che era la voce di ]oseph Goebbels ... ».
«E allora? Non mi sembra niente di straordinario. I nazisti sono stati i primi a fare sistematicamente uso della radio come strumento di propaganda. Chissà quanti discorsi di Hitler o di Goebbels girano per l'etere. Magari rimbalzano in giro per l'universo e prima o poi tornano a casa».
«Hai capito almeno di cosa stava parlando?». «Non ne ho idea».
«A un certo punto, in mezzo alla tirata che stava facendo, ha nominato distintamente le parole Tel Aviv. "Il governo giudeo bastardo di Tel Aviv"».
«E quindi?».
«Goebbels è morto nel 1945. Nel '45 non c'era nessun governo e Tel Aviv non era ancora la capitale di Israele».
Ci penso un attimo. Poi dico «Neil, tu sai il celtico?». Vuoi dire il gaelico?».

“no, voglio dire proprio il celtico. Insomma, la lingua di quei cazzoni di Celti. Perché se ti capita di metterti in contatto con un capo celtico, o qualcosa del genere, con la tua radio o quello che è,  tirati giù un po' di appunti».
“Credi davvero che potrebbe aiutarti? Guarda che ti prendo sul serio”.
“Non ne ho idea ... quando lo so te lo dico».

Neil mi accompagna fino alla porta. Strabuzza gli occhi nella luce ance se è tutt' altro che una luce forte.
“Take good care of you, Alberto».
Credo di aver fatto un gesto con la mano, come per dire okay.
I miei  passi scricchiolano sulla ghiaia. Le carpe nuotano nella fontana, e non tirano fuori la testa per salutarmi. Fa freddo. Quando mi volto verso la casa, Neil è già rientrato.
" You too, Nei!» rispondo, come se il saluto del mio amico avesse lasciato un' eco a cui si può ancora rispondere.
You too.

4 You too

«You too si pronuncia yu tu. Non si dice "u due"». «Sei sicura?».
«Ma si, papi».
A tavola, a colazione, ho commesso l'errore di sbagliare una pronuncia. Per Gaia non è un reato di lesa maestà, dato che gli "u due", come continuo a chiamarli, nemmeno sa chi sono. Solo che le dispiace vedere suo papà perdere punti davanti alla vita.
«E allora Eva ... ?» domando.
«Si pronuncia Iva. Dire Eva è da provinciali».
«Cosa sono queste storie di Eve?» si intromette Marta, scrutandoci fra i vapori del suo tè.
«Papi dice che ha scoperto una cantante nuova che gli piace tantissimo».
«Ah si? E dove canta?».
«Da nessuna parte. E neanche balla, se è per questo. È morta dieci anni fa».
«E come si chiama?».
«Si chiamava. Dato che è morta. Eva Cassidy». «Iva, papi!».
«Scusami. Iva Cassidy». «Mai sentita».
«Lo so. Non è famosa».
«Non essere famosi è un paio di maniche. Non averla mai sentita nominare è un altro discorso. E comunque U2 sta per u two, e non you too, signorina».
«Papi dice che dovremmo sentirla».
“E papà che porta la musica a casa, Gaia. lo non ho tempo di andare nei negozi».
“Ma potresti comprare la musica su Internet, come fa papi».
“Io uso internet per cose più serie».

Guardo moglie a lungo, finché lei se ne accorge e mi fissa a sua volta. lo le faccio segno a forza di smorfie di essere un po' più disponibile verso sua figlia. Lei non accusa ricevuta e riabbassa lo sguardo sulla sua dispensa in fotocopia. Argomento chiuso.
“Oggi ho diversi appuntamenti fuori ufficio» dico.
“Se avete bisogno di me chiamatemi sul telefonino. Se non rispondo perché magari sono in riunione e ho. dovuto staccare, lasciatemi un messaggio sulla segreteria».
Stessa assenza di segni vitali.

“Matt dov'è?» domando. A volte le donne di casa mia mi spaventano.
“Dorme» mugugna mia moglie. "Allora vado».
“Ciao, papi».
“Ciao, stellina. Ciao, Marta».

* * *

C'è stato un tempo in cui fra me e mia moglie le cose andavano diversamente. Una mitica età del latte e del miele finita coll’arrivo di Matteo.
Gaia era stata un'altra cosa.
Gaia è stata il Grande Progetto. Matteo è arrivato per caso. immagino che Marta non riesca a non rimproverarmi l’eiaculazione traditrice che ha troncato a metà i suoi sforzi per arrivare alla laurea. A trent' anni ci vuole una gran forza di volontà per riprendere gli studi, e incocciare in un nuovo stop dev'essere più o meno come arrivare al chilometro finale della maratona di New York e incontrare sulla tua strada un idiota che ti lancia una bottiglia d'acqua in piena faccia rompendoti il setto nasale e costringendo ti ad abbandonare la gara.

Di qui certi sguardi, i silenzi, i rimproveri a labbra sigillate. Lo «sguardo assassino» non è un mito romanzesco. È una realtà quotidiana, dalle mie parti.

* * *

Sono appena le sei e mezza del mattino. Per arrivare in Regione dovrebbe bastare un quarto d'ora, anche col peggior traffico ipotizzabile. Mi chiedo allora perché mi sono alzato cos1 presto.
«Per caso sai dirmi perché ti sei alzato cos1 presto?» mi chiede infatti Marta, vedendo mi già in piedi sulla porta della cucina, con la valigetta in mano.
«Non so».
«Vedi? Il problema è questo, con te. Che devo sapere tutto io. Tenere a mente tutto. Che giorno è oggi?».
«Martedì» .
«Bravo. Però oggi è anche il giorno della gita a Venezia di tua figlia. Con la scuola, ricordi? Sai che tua figlia va a scuola, vero?». «Mi sono scordato della gita».
«Non è che te lo sei scordato. È diverso. È che non ti interessava. Quindi non l'hai memorizzato veramente. Il tuo cervello ha registrato il fatto che oggi c'era un impegno per cui dovevi svegliarti presto, ma non ti sei preso la briga di ricordarti che impegno fosse. A tavola hai visto che c'era Gaia, che normalmente si alza più di un' ora dopo, ma non hai collegato questo fatto a niente di preciso. Perché non ti interessava, vero? Invece ti sei ricordato perfettamente di quella squinzia della tua cantante. Dimmi, ho sbagliato a ricostruire la cosa?».
Detto col tono con cui nei film direbbero l'imputato ha qualcosa da dire a sua discolpa?
«No. Ora che me ne parli direi di no». «Davvero non ti ricordavi della gita, papi?».
" M i dispiace, stellina».
Gaia si stringe nelle spalle. A sei anni, sembra dire con il linguaggio del corpo, cominci a fare il callo a certe mazzate.
Marta guarda l'orologio della cucina. Quello con il design minimalista, due lancette e via. Le lancette sono praticamente , sono quasi della stessa lunghezza, in modo che uno si confonda ancora di più. L'ho portato a casa io. «Il pullman parte tra venti minuti. Dal piazzale della scuola. Sai quale scuola è, vero?».

"Ma si. Non ti ricordi che c'ero anch'io, il primo giorno di lezione?».
Marta mi fissa dubbiosa. «Speriamo».
Gaia raccoglie lo zaino da sotto il tavolo. «Andiamo, papi?». andiamo».
Marta ci blocca. «Falla sedere dal lato dove non arriva il sole.
"Il che sennò le viene il raffreddore».
"È un po' difficile capire a priori dove batterà il sole, da qui I Venezia».
Ma dai, mamma. Ci sono le tendine, no?».
Marta sorride. Cioè, le labbra restano chiuse, ma si allungano e si stirano in un sorriso. Una cosa che riesce benissimo a Robin Williams quando fa il robot, in quel film che ha fatto piangere Matteo. In altre parole, mia moglie fa un sorriso da robot , che imita un essere umano. «Siete belli, insieme. Mi piace come riuscite a mettervi d'accordo tra voi. Dovreste uscire più spesso. Trovereste di sicuro qualcuna più bella e più in gamba di me, per sostituirmi».
«Ne parliamo un'altra volta, d'accordo?» faccio. «Andiamo, d,li, che è tardi».
l<Ciao, mamma».
«Ciao».

* * *

«Certo che mamma ha proprio le balle girate». «Chi ti ha insegnato a dire cos1?».
«Tu».
«Non mi pare».
«Oh, si che ho imparato da te». «Mettiti la cintura».
«Mi siedo dove non arriva il sole?».
«Non fare la spiritosa. Mamma si preoccupa per te. Non dovresti prenderla in giro».
«Sai davvero dov'è la mia scuola, almeno?».
No. Sembra incredibile, ma a pensarci bene la risposta è no. Promemoria mentale: inserire le coordinate della scuola di
Gaia nel navigatore satellitare. Ammesso che riesca a imparare a usarlo.
«Certo che lo so. Solo che non so come arrivarci, da qui». «Di solito da che parte arrivi?».
La logica dei bambini taglia come un bisturi. Come il loro sarcasmo. Spengo il motore e mi volto per guardare mia figlia in faccia. Matteo ha gli occhi chiari, identici a quelli di sua madre. Gaia invece li ha scuri, quasi neri. Se non li avessi ancora tutti e due direi che li ha presi da me. Ah ah.
Con i suoi occhi scuri in dotazione, batterie incluse, mi trapassa l'anima. «Non cercare di fregarmi, papà».
Sospiro. «lo non cerco di fregarti».
«Hai detto che di solito arrivi da un'altra parte. Ma non è vero. Tu non sei mai venuto alla mia scuola. Perché hai detto una bugia?».
«Adesso non ho tempo di spiegartelo. Però ti assicuro che non è per cattiveria».
«Sono sicura che non ti ricordi nemmeno che scuola faccio.
Avrei voglia di non andarci, in gita». «Mi sa che invece devi andar ci» . «Non puoi portarmi con te?».
«Devo andare al lavoro, micetta. E poi non vorrai passare la giornata con un traditore come me?».
Gaia sospira. «Andiamo, allora».
Metto in moto. «Devi ancora dirmi da che parte devo andare». ..E’ la scuola elementare Anna Frank» .
Si, ma dove sarebbe?».
E’ vicino a dove lavori tu. Per questo la mamma ti ha chiesto ,di accompagnarmi».

"Ma non sai la via?».
"No. Quando arriviamo Il vicino ti faccio vedere dov'è».

* * *

La scuola di Gaia in realtà non è proprio «vicino a dove lavoro io». Comunque arriviamo in tempo per vedere l'autista salire pullman. Mi piazzo di traverso davanti al mezzo. L’autista torna fuori, con la bocca aperta in una O di stupore.
"Scusi, ma cosa crede di fare?».
lo tiro giù Gaia e la trascino praticamente di peso verso il l'' ti Iman. Poi torno indietro, perché mi sono dimenticato lo zaino sul sedile. Purtroppo apro la portiera senza disinserire l’allarme e la macchina comincia a suonare e lampeggiare come una base spaziale sul punto di autodistruggersi.
Nella cacofonia assordante torno di corsa verso il pullman tirandomi dietro lo zaino.
"Cosa ci hai messo dentro? Una collezione di fossili?» faccio, passandolo a Gaia che è già stata presa in custodia dalla sua maestra, una che sorride ma con l'aria di dirsi quante ancora devo vederne, prima che sia finita?
"L'ha preparato la mamma» mi informa gelida mia figlia. "Okay. Dimentica che te l'ho detto. Divertiti, a Venezia». "È un ordine?».
"Non proprio. È un consiglio».
Quando la porta si richiude con uno sbuffo d'aria compressa, il sorriso tirato di Gaia si scioglie e, per un attimo, il suo volto sovrappone ai miei occhi a quello della ragazzina ebrea che dà il nome alla sua scuola. Avrei voglia di strappare via la porta, tirare giù mia figlia dal pullman e caricarmela nell'auto che continua a suonare e lampeggiare. Invece faccio ciao con la mano e guardo il pullman bianco e oro partire verso Venezia, con mia figlia seduta vicino al finestrino.
Ovviamente in pieno sole.

* * *

La sede della Regione occupa un isolato in centro città. Vista dall'esterno, è un palazzo dell'Ottocento senza infamia e senza lode, ma dietro la facciata scura e tetra c'è tutto un altro mondo, una struttura ipertecnologica in cemento armato, vetro e ferro a vista che riempie il guscio del vecchio palazzo e penetra parecchi piani sotto terra. Praticamente l'architetto ha fatto come i dentisti che salvano lo smalto di un dente, per questioni estetiche. Del palazzo è rimasta solo la facciata.
Al terzo piano sotterraneo, adesso, c'è il parcheggio interrato; scendendo lungo una rampa elicoidale si vedono sotto vetro i resti del foro romano e di un paio di edifici dell'epoca, non meglio identificati.
Lascio l'auto in uno dei pochi posti liberi nell' area visitatori.
Suono e spiego al citofono il motivo della mia visita. Il cancellletto che blocca l'uscita scatta e mi fa passare al piano superiore.

5-Passare al piano superiore

Passare al piano superiore è come entrare in un'altra dimensione. Il parcheggio, nonostante il vasto impiego di luci, marchigegni di condizionamento e altre diavolerie tecnologiche, rimane un antro scuro e umido, che ricorda l'ingresso turistico alle Grotte di Postumia, o altre architetture del socialismo jugoslavo. Oltretutto, i resti romani sono talmente insignificanti da non giustificare il costo del vetro che dovrebbe, immagino, proteggerli da improbabili atti vandalici. Non si vedono che mattoni rossici e pietre consumate. Reperti che potrebbero avere un pregio solo se fossero stati trovati su Marte.
Il secondo piano interrato della Regione gode, come per magia, di luce solare, che viene riflessa fin quaggiù da un sistema di specchi e potenziata, quando serve, da un'illuminazione che imita la perfezione lo spettro della luce solare. L'aria e la luce vera, e sole e la pioggia, scendono solo lungo un cilindro di sei metri di diametro che scava verticalmente il palazzo.
Il soffitto è lontano cinque metri. Un lungo corridoio porta alle diverse aree amministrative che un' efficiente cartellonistica identifica con diversi colori. La cultura, chissà perché, è identificata dal rosso.
Seguendo come un fìlo d'Arianna la riga rossa tracciata sul muro arrivo infatti all' area contrassegnata dal cartello: ASSESSORATO ALLA CULTURA.
Purtroppo, la prima porta in cui mi imbatto è ornata di un cartello con scritto a mano: SERVIZIO PER LA GESTIONE DELLE BENZINE A PREZZO RIDOTTO.
Un uomo, che sta seduto Il accanto e che non ho mai visto prima, mi rivolge un segno di saluto da sopra le pagine aperte di un quotidiano. «Il dottor Mendini?».
«In persona».
Piega il giornale, impugna un bastone da passeggio e si alza.
Mi viene incontro lentamente, zoppicando dalla gamba destra. «Ho pensato di venirla a prendere».
Tende la mano, appoggiandosi con l'altra al pomolo del bastone. «Severino Segaluzza. Piacere».
Al contrario del suo aspetto, la stretta dell'uomo è piuttosto energica. La pelle, altrettanto inaspettatamente, è asciutta, anche se un po' fredda ..
«Temevo che avrebbe avuto dei problemi a trovarci» fa, indicando il cartello dall' aria provvisoria.
«Hanno sbagliato la segnaletica?».
«No, no. La segnaletica sarebbe giusta. Cioè, è qui che dovremmo stare. Solo che quando l'assessore ha visto gli uffici si è fatta trasferire. Non ricordo cosa non le andasse bene dei soffitti. E dopo non è che 'si poteva lasciare l'assessore da una parte e l'assessorato dall' altra, le pare?».
«Ovvio. Così vi siete trasferiti in blocco».
«Magari. Macché. Nel posto dove si è trasferita l'assessore non c'era abbastanza spazio».
A questo punto non lo interrompo più.
«Così abbiamo trasferito gli uffici a metà strada, dove avrebbe dovuto andare la Protezione Civile. Solo che c'era un problema di linee telefoniche, e quindi parte dell' assessorato alla sanità ha dovuto spostarsi di un piano ... ».
Ci mette più di un quarto d'ora, fermo in piedi in mezzo a un corridoio vuoto, a spiegarmi il complesso gioco di pedine, mosse e contro mosse del Risiko che ha incasinato in modo irreparabile il perfetto sistema segnaletico ideato dai progettisti.
…solo che quelli hanno usato vernici indelebili. Materiali durevoli. Cancellarli è praticamente impossibile».
Immagino che la cosa si sistemerà col tempo».
Non credo. Va avanti così da un anno e mezzo. E ogni volta ,qualcuno prova a sistemare le cose, magari con qualche minimo spostamento, non fa altro che complicare ancora di più la questione».
"Per fortuna c'è la posta elettronica».
“Già”  annuisce, cominciando finalmente a camminare. Però, subito aggiunge: «Ma anche quella ...».
Severino Segaluzza ha un po' meno di quarant' anni e non ha 'nulla di palesemente effeminato, non fosse per la voce che mi suscita domande sul suo orientamento sessuale. Dietro gli occhi da  miope, sotto l'attaccatura bassa dei capelli color fieno, con due occhietti piccoli e furbi come quelli di un topo.

Comunque l'ufficio è questo» annuncia, facendomi strada in uno stanzone enorme.
Per il colpo d'occhio, potrebbe contenere comodamente la stazione Centrale di Milano. Poi, passato il primo effetto, le dimensioni dell'ufficio appaiono più realistiche, ma rimane pur sempre uno spazio enorme, soprattutto per com'è occupato: poche scrivanie sparse qua e là, qualche schedario altrettanto isolato e una decina di bacheche addossate alle pareti. A parte noi due in giro non si vede anima viva.
"Abbiamo una certa flessibilità di orari» spiega Segaluzza, cogliendo il mio sguardo. «L'assessore preferisce averci tutti quando è in ufficio lei».
"Mi sembra una buona idea. Quanti siete?».
"A regime, dodici. Più l'assessore, naturalmente». «Siete in tanti» butto lì.
Segaluzza atteggia una faccia offesa che mi riporta ai dubbi sulla sua omosessualità.
«Ma cosa dice? Siamo drammaticamente sotto organico».


Poi segue un minuto abbondante di silenzio, durante il quale forse si vorrebbe dare opportunità all' ospite di praticare un esercizio spirituale o la meditazione zeno Non sapendo che cosa si aspetta da me, resto - appunto - in silenzio, mentre l'assistente dell'assessore Martinelli mi fissa.
«Me l'aspettavo più giovane» osserva, alla fine dell' esame. «Più ... non so, insomma: diverso, ecco».
Non ho idea di come si risponda, a una frase del genere. Non a livello verbale, almeno. Ribattere a tono sarebbe forse appropriato, ma temo che potrebbe introdurre in questa stanza cattive vibrazioni. E io non posso permettermi di perdere quest' occasione, che per me vale quanto l'ultima scialuppa del Titanic.
«Mi dispiace di averla delusa» abbozzo.
«Ma che c'entra? Macché deluso. Solo che mi ero fatto un'immagine diversa, tutto qui. Allora, vogliamo parlare d'affari?». «Perché no?».
Segaluzza giunge le mani sulla scrivania, come il penitente di un quadro di Van Eyck.
Un respiro profondo e via, comincia il giro di giostra. «Come lei ben saprà, la nostra Regione sta portando avanti da qualche anno un progetto inteso alla ricerca e alla rivalutazione della matrice originaria del nostro territorio».
A questo punto cosa dovrei dire, Neil? «Questo è indiscutibile» oppure «La questione è controversa?».
Decido per un misurato cenno di assenso con la testa.

La  chiave di volta di questo intervento, sostenuto proprio dall’assessore Martinelli, è il recupero dell'identità etnica della nostra gente. La riscoperta della nostra matrice celtica».
Faccio cenno di si, ancora meno convinto del primo. Segaluzza inarca il sopracciglio destro. «Mi segue, vero?».
“perfettamente”
“Malgrado le denigrazioni e le vere e proprie calunnie dei nostri avversri politici, il progetto di ricerca e catalogazione delle fonti e dei materiali è già quasi completato. Quindi il progetto può entrare nella sua fase operativa. Ed è qui che arrivo a lei» conclude, giocando d'anticipo e impedendomi di pronunciare la domanda e io che c'entro?
Il suo nome è saltato fuori per via di quella, come si chiama, di quella campagna del Coltellino Svizzero. Uno della Squadra si ricordava il suo nome. L'Uomo dell'Onda Piatta».
“Guardi che quella non c'entra con il Coltellino Svizzero».

Comunque qualcuno ha tirato fuori il suo nome per la seconda fase del progetto».
“Che sarebbe”?

Segaluzza si stringe nelle spalle. «Le va un caffè? Mando a prenderlo.
.. No, grazie. Mi diceva del progetto».
..lo comunque ordino un caffè. Lei non vuole? È sicuro?». “no. Grazie. Come accettato».
Segaluzza schiaccia un pulsante sul telefono e ordina un caffè e una brioche «dietetica integrale». Conta e prepara i soldi sul tavolo.

Poi comincia a parlare con un tono diverso, come se recitasse frasi imparate a memoria. Anche il sorriso non sembra dei più spontanei.
“Come le dicevo, la seconda fase è la più delicata, quella che dovrà presentare al pubblico i risultati delle nostre ricerche e stabilire un segno forte la matrice celtica della nostra regione.
È una fase che prevede un intervento articolato, multilivello, con proiezioni extraregionali e con un orizzonte temporale di almeno dodici mesi, a partire dal gennaio dell'anno prossimo, per quello che sarà definito l'Anno dell'Identità Celtica».
«Ho capito» rispondo, anche se qui forse s'imporrebbe piuttosto un bel «la questione è controversa».
«Prevediamo uno sforzo organizzativo notevole, una campagna multimediale a tappeto che avrà come risultato un forte ritorno d'immagine e il definitivo consolidamento del nostro messaggio nella coscienza del pubblico» recita Segaluzza, come se leggesse da un gobbo televisivo.
Provvidenzialmente, a interrompere quella tirata piena di verbi e di aggettivi quanto un gelato industriale è pieno d'aria, entra senza bussare un commesso con un vassoio del bar. Segaluzza consegna il suo euro e novanta come se fosse un tesoro, contando due volte le monetine da dieci e da cinque centesimi. Poi toglie il piattino da sopra la tazza, e il croissant dal sacchetto.
«Se non le spiace faccio un attimo colazione. Lei intanto si guardi intorno. Se vuole vedere i risultati delle nostre ricerche dia un' occhiata alle bacheche. Sono sicuro che le troverà interessanti».
Mi alzo. La più vicina è subito alla mia destra. In un primo momento mi sembra vuota, poi vedo che contiene alcuni frammenti indecifrabili di materiale nerastro.
Mi avvicino per leggere i cartellini delle didascalie. «SCAVI DI MIRINISCIS» recita il più vistoso. «Frammento di fibula di tipo Certosa (v sec.?)>>. «Frammento cuspidale di pilum».
«Fibula a falsa balestra con staffa a forma di animale stilizzato (N-III secolo)>>.
I reperti descritti da questi cartelli potrebbero essere in realtà qualsiasi cosa: chewing-gum preistorico fossile, schegge di meteoriti, resti dei cingoli di un carro armato tedesco. Sono corrosi e contorti al limite della riconoscibilità.
La bacheca accanto invece non contiene nessun oggetto, foto di scavi scattate in varie epoche. Foto in bianco e nero con personaggi in braghe alla zuava e casco coloniale. Foto a colori forse degli anni Settanta, con ragazzi in shorts e bandana sulla testa, tipico tratto comune a tutte le immagini è il nulla in cui gli esseri umani stanno agendo: cumuli di fango informi, strati di argilla verso i quali un personaggio punta il dito con entusiasmo, tracce di mattoni incrostate nella terra.
Mi torna in mente quando, da bambino, mio papà aveva portato a casa una moneta trovata nei campi. Era una moneta di rame piccola come l'unghia dell'indice, scura tranne dove la vanga l’aveva scalfita, e Il era color rosso rame. Per il resto la moneta era nera, e al tatto aveva una consistenza grassa, oleosa. Mio padre mi disse di provare a lavarla. «Chiedi a tua madre come si fa”. Lei suggerì di mettere un po' d'aceto e sale in un piattino , di immergerci la moneta. Piano piano lo strato di sporco si andava togliendo, e io mi aspettavo già di vedere qualcosa di definito, la faccia barbuta di un re barbaro, il profilo di un imperatore. Invece, una volta sciolte del tutto le incrostazioni, la moneta non fu che un dischetto di rame quasi perfettamente liscio. C’erano dei rilievi, è vero, che con gli occhi della fede avrebbero anche potuto essere i contorni di un volto o di una figura, ma non si riusciva assolutamente a decifrarli.
La patetica collezione racchiusa nelle bacheche scintillanti è altrettanto deludente.
Segaluzza si avvicina, stropicciandosi le mani con un tovagliolo di carta. Sul bavero della giacca sono impigliate alcune briciole di famoso croissant dietetico integrale. «Ha visto?» fa.
“Ho visto”
“Cosa le pare? Sinceramente». Sinceramente? Lo fisso negli occhi.
«Da quant'è che lavorate a questo progetto?». «Da un anno».
Un anno sprecato, mi verrebbe da dirgli, se non sapessi che essere sincero significherebbe tagliarmi l'ultima via di fuga dalla mia attuale disgraziata condizione.
Segaluzza fa un gesto strano a mezz' aria. Se avesse in mano una bacchetta magica, sarebbe quello giusto per far sparire, o apparire, qualcosa. «"Attribuzione incerta, ipotesi di attribuzione, epoca ignota" ... Ha visto?».
Pensa. Pensa. Pensa più in fretta.
«Be', la storia del dio Belenos non è male» butto lì.
«51, può darsi. Ma non basta. Non basta proprio. È per questo che abbiamo cercato lei».
Guardo ostentatamente l'ora sul mio Breitling. Sono le nove e mezza. «L'assessore non è ancora arrivata?».
«No. Non la incontrerà qui. Non oggi, almeno. Credo che si farà viva lei più avanti. Oggi ha un impegno a Roma. Lei sa che l'assessore è vicecoordinatrice nazionale di Italia in Marcia».
O Italia Marcia, come la chiamavo con gli amici. Cioè, con gli amici che non fossero di Italia in Marcia. Oggi di amici non ne ho più.
Le prime volte che avevo sentito parlare di lei, la Martinelli militava in un movimento autonomista. Ma si sa, le cose cambiano. Italia in Marcia ha molte anime, come ama dire il suo fondatore e lider maximo. Sulla scialuppa del movimento sono saliti i naufraghi delle più diverse crociate o crociere politiche. Sotto le sue bandiere si sono raggruppati disertori e ricercati, ex prime donne e gregari delusi di tutto l'arco costituzionale e anche più in là, sino a farne l'equivalente politico della Legione Straniera.
"Ma allora l'incontro di oggi ... ?» domando, sentendomi ridicolo.
“Ha lo scopo di conoscerei. Di fare, come si dice, un sondaggio preliminare. Di annusarci un po', per così dire. Sa come fanno i cani no? Si girano intorno, si annusano. Scoprono se la loro chimica è compatibile».
Come se Italia in Marcia potesse essere incompatibile con una qualsiasi cosa, di questo o di altri mondi.

Lo guardo. Vorrei chiedergli se mi ha dato una buona annusata. Ma lui mi restituisce uno sguardo di assoluta innocenza, di quelli che, per la mia esperienza, di solito precedono una coltellata.
“Devo dirle subito, tanto per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco, che personalmente ho avanzato molte perplessità circa l'opportunità di farla partecipare al progetto. Non tanto l'affare della Puritano Niente di personale, neanche. È che secondo me più manteniamo un basso profilo sull'iniziativa, più ci guadagniamo. Ha visto quello che abbiamo in mano, no? Partire con roba del genere è come cominciare una partita a briscola sapendo che la carta più alta che ti capiterà in mano sarà un sei o un sette. Una scartina, insomma. Allora meglio giocare la partita fra quattro mura e non in piazza, le pare? E meglio limitarci a puntarci su quattro spiccioli, e non la credibilità della Regione. Così la penso io. Ma l'assessore la vede diversamente. Lei ha intenzione di bluffare».

“Non si bluffa mica, a briscola».
“Lo so. Vada a dirglielo. Ma sì, figuriamoci se lei glielo va a dire. Accetterà l'incarico di certo. Si prenderà una barca di soldi e farà il possibile per evitare il disastro. Solo che dovrà essere non bravo, ma bravissimo, per evitarlo. Perché i presupposti del disastro ci sono proprio tutti.”
Il rischio di un mostruoso fèedback negativo d'immagine. Un management incompetente.
Un progetto che scricchiola.
Provo un'imbarazzante sensazione di déjà-vu.
«Quanto pensate di investire nella campagna?» domando. Segaluzza si mette a ridere. «Il budget complessivo per il Progetto Celti è di un milione e mezzo di euro».
Sul momento penso che stia scherzando. Credo me lo si legga in viso, perché Segaluzza scuote la testa. «Non sto scherzando. D'altra parte anni fa il Friuli, che non è certo una Regione ricca, ne ha stanziati più di due, per un progetto simile. Che è poi quello che ci ha ispirato. Un milione e mezzo di euro. Secondo lei possono bastare?».
«Bastare per cosa?».
«Per un'attribuzione di paternità. Per trovare le radici celtiche della nostra Regione».
«Con quella cifra un bravo pubblicitario può convincere chiunque anche dell'origine marziana della Regione». «E lei è bravo?».
«Il migliore».
Non so perché ma certe cazzate vengono meglio se dette fra uomini. Di fronte alla Martinelli non so se l'avrei mai fatta, una sparata del genere. D'altra parte, in ogni campagna pubblicitaria la prima opera di persuasione da fare è quella verso il committente.
«Quindi accetta di lavorare per noi?». «Dipende».
«Da cosa?».
«Dal compenso, ad esempio».
Segaluzza alza le mani, con i palmi in avanti. Come se respingesse un muro d'aria in un esercizio di Tai Chi. «Di quello dovrà parlarne con l'assessore. Anche se poi sarò io a predisporre materialmente i mandati e a sbrigare tutta la parte burocratica».
Mi guardo intorno. Faccio fatica a impedirmi di danzare. «Ma non arriva proprio nessuno, in ufficio?» dico, tanto per cambiare argomento. «Sono tutti in giro con la Martinelli?».
"No».
"Cos'è allora, avevate paura di un contagio?».
"No. È che preferiamo che questo incontro si svolga, per così dire, a porte chiuse. Potrà conoscere gli altri della Squadra se e quando deciderà di accettare l'incarico.

* * *

«E poi?» domanda Marta.
"E poi mi ha accompagnato all'uscita. E ho passato sei giorni in un’attesa che era la peggiore delle torture. Ti ricordi quando ti parlavo di quel professore di italiano che avevo al liceo? Che ci minacciava dicendo: "Dannati, meritereste di essere messi in ginocchio sui ceci ardenti"? Be', è una settimana che me ne sto in ginocchio sui ceci ardenti».
"E adesso? Vi siete accordati, no? Centomila. Uau. Mi compri la laurea, così torniamo a fare l'amore?».
"Con cento mila euro faccio prima a pagarti per scopare». "Che stronzo sei».
Piano piano i ricordi della mia settimana di Passione tornata a incollarsi al passato, e io ritrovo la cucina di casa mia, il fabricaghiaccio con lo stesso fabbisogno energetico di una favela brasiliana, le liti dei miei figli in salotto per il controllo del territorio. Mia moglie che finalmente mi degna di uno sguardo diverso da quello tutt'altro che lusinghiero che ha avuto negli ultimi mesi.

"Allora è fatta» ride.
"In un certo senso». «Come, in un certo senso?».
«Nel senso che adesso viene la parte dura. Devo convincere tutti che questa Regione ha un' origine celtica».
«Perché?».
«Questo non chiedermelo. lo faccio la mia parte di lavoro e basta».
«Questa frase si sente spesso nei tribunali. Tipo quello dell'Aja».
«Preferisci vivere con il sussidio di disoccupazione?».
«Solo che mi mette i brividi sapere che lavori con certa gente». «Ma vista da vicino è gente normale».
«Come no».
Ci pensa un po' su.
«Comunque non è che devi fare qualcosa di sporco, no? Voglio dire, qualcosa che fa del male a qualcun altro?». «No. Cioè, credo proprio di no».
E poi se non lo facessi io lo farebbe qualcun altro.
«E poi se non lo facessi tu lo farebbe qualcun altro» conclude Marta.
A fatica mi impedisco di sorridere. «Brindiamo» dico, mentre mi tornano alla mente almeno un paio di dialoghi del Maccbeth.
In quella irrompono in cucina Matteo e Gaia, il primo all'inseguimento della seconda. Urtando il frigo, mio figlio schiaccia inavvertitamente il pulsante del ghiaccio. Una montagna di cubetti rotola giù dall'apertura, con un rumore che potrebbe essere lo stesso dell'iceberg mentre lacera la fiancata del Titanic.

6 La fiancata del Titanic

"La fiancata del Titanic era diversa. Più grande, più alta. Vedi?». Sto mostrando a Gaia una foto che ho scovato sul sito ellisisland.org, dove si trovano i nomi di tutti gli immigrati passati per l'isola di Ellis Island, nel porto di New York. Ho trovato la foto della nave con cui mio nonno è arrivato in America l’11 aprile del 1913, e Gaia quando l'ha vista ha gridato «ma allora tuo papà ha viaggiato con Jack Dawson. Ha viaggiato sul Titanic. Ha conosciuto Jack!».
"No, stellina. Questo non è il Titanic. È il France. È stato costruito lo stesso anno, ma ha avuto più fortuna. Non è affondato. E chi ci è andato in America è mio nonno. Il papà di mio padre». «Allora il tuo nonno».
"Già».
« Ma non è morto quando la nave è affondata. Non è morto come Jack».
"Gaia, ti ho detto che il France non è affondato. Quello che è affondato era il Titanic. Mio nonno non viaggiava sul Titanic». «Ma sono uguali».
«Ma no. Vediamo. Ecco qua: il France era lungo 713 piedi, il Titanic 882. Ah be', neanche tanto più piccolo». «Piedi? Piedi? Vuoi dire come i nostri piedi?». «Mano».
«Come si misurano i piedi? Si mette un piede dietro l'altro finché non si arriva alla fine della nave?».
«I piedi puzzano» si intromette Matteo, seduto a gambe incrociate sul tappeto. Sta trapiantando teste sui personaggi del lego, con una concentrazione da scienziato nucleare.
«I miei no» strilla Gaia, mostrandogli la lingua.
I tuoi si» ribatte Matteo, senza alzare gli occhi dal suo lavoro. Blocco appena in tempo lo scatto del piede di Gaia.

Sono talmente rare le volte che mia figlia mi si siede in braccio che ogni singolo istante andrebbe goduto e assaporato. Mi dispiace che Matteo abbia rovinato l'incanto.
«Perché dici così? Cosa ti ha fatto tua sorella?».
Matteo alza le spalle.
«Non vuoi dirmelo?».
«Uffa. Lo sai cosa mi ha fatto». «No».
«Dovevi giocare con me, e invece guardi le foto con lei».
Messa così la cosa ha senso. E poi i piedini di mia figlia emanano effettivamente un certo olezzo.
Il sabato pomeriggio, a casa Mendini, di solito è dedicato al relax in famiglia. Questo, almeno, da quando mia moglie si è rimessa a studiare. Prima si viaggiava. Cioè, se fossi del tutto onesto con me stesso, dovrei dire che non facciamo più un viaggio decente da quando è nato Matteo. Una volta era diverso. Del resto ho conosciuto mia moglie in aereo. Tornavo da New York, dove avevo partecipato a un viaggio premio offerto dall' agenzia di Milano per cui a quell' epoca lavoravo. Era un anno prima di mettermi in proprio. Anche se allora non lo sapevo, era la mia Età dell'Oro.
Il volo era tranquillo, la business class era piena ma la cosa non mi dava fastidio, dato che già mi ero fatto servire una quantità di alcolici sufficiente a stordire un bisonte. Per il supplemento business class avevo pagato una bella botta di dollari, ma ne valeva la pena pur di non sopportare un minuto di più la presenza degli altri colleghi, che erano rimasti di là in turistica coi loro biglietti aziendali e le bibite a pagamento.
Se adesso mi domando perché bevessi tanto non ho una rii'posta precisa. Ero al top della carriera, avevo quarantadue anni l'ancora tutti o quasi i miei capelli, un fisico ben mantenuto a forza di palestra e jogging e una riserva apparentemente inesauribile di amicizie femminili disposte a farsi sbattere gratis e a togliersi dai piedi il mattino dopo.
Il mio appartamento in zona San Babila era piccolo ma rispondente a ogni scopo che sino ad allora mi fosse venuto in mente.
Se bevevo doveva mancarmi qualcosa, è evidente. Ma cosa? l'cl' quanto mi sforzassi, non riuscivo a capirlo.
La risposta, anche se allora non lo sapevo, era seduta proprio ,Il'canto a me.
Il volo, come dicevo, era tranquillo. Fatto com' ero, del resto, avrebbe potuto passarmi accanto King Kong e non me ne sarei accorto. A un certo punto mi sono addormentato e a un certo ,altro punto, non saprei dire quanto dopo, mi sono svegliato, di soprassalto, con la sensazione che qualcosa non andasse. Dalla cuffia stereo, che mi stava di traverso sulla testa, usciva la voce di Mel Gibson che gridava «Freedom!» mentre sullo schermo di fronte qualcuno gli strappava le budella dalla pancia con un coltellaccio di lunghezza impressionante. Francamente Braveheart non è il genere di film che, se dipendesse da me, proietterei su un volo intercontinentale.
Ho guardato l'orologio ed erano le tre di notte, da qualche parte. Ho guardato a destra e ho visto che invece fuori dal finestrino tutto era bianco. Fra me e il finestrino stavano un volto pallido e due occhi di un verde incredibile.
«Ho paura» ha detto la ragazza.
I sedili sobbalzavano. Le luci della cabina andavano e venivano, come il sonoro del film.

L'avevo notata sedendomi al mio posto, ma mi era sembrata troppo giovane e troppo mal vestita (anche se il fatto che viaggiasse in business avrebbe dovuto farmi riflettere un po' sulla cosa) per attaccarci conversazione. Un paio di volte, durante il volo, mi era passata davanti per andare al bagno o a sgranchirsi le gambe, e ricordo di aver notato un culetto alto e sodo. Del resto mi pareva anche di aver parlato con un paio di colleghi che erano venuti a farmi visita ai piani alti, solo che di quelle conversazioni mi era rimasto un ricordo, come dire, bizzarramente onirico. E nel momento stesso in cui avvenivano ne avevo una percezione quanto meno frammentaria. Tanto che potrei anche averle solo sognate. Invece non mi ero sicuramente sognato il cuIetto appetitoso, perché esisteva davvero, ed era davvero appetitoso, come ebbi modo di appurare in seguito.
Tra i sobbalzi dell'aereo, però, sono gli occhi della ragazza quelli che ho davanti: verdi e sbarrati, fissi nei miei. Ci metto un po' a capire le sue parole, troppo inattese e sconcertanti per traversare la bambagia del sonno e dell'alcool che ancora mi avvolge la testa. In compenso riesco a capire che devo essermi svegliato per colpa dell' allarme sonoro e delle luci d'avviso, rosse lampeggianti: FASTEN SEAT BELTS e DON'T SMOKE.
Mi accorgo anche che due file più in là lo steward di bordo e una hostess si sono allacciati le cinture, e lo steward mi sembra addirittura stia pregando. Non credo sia normale. L'aereo sussulta e vibra come un toro meccanico. Sullo schermo l'amico di Mel Gibson lancia in aria la spada che gira e volteggia nell'aria e poi si pianta nell' erba, vibrando come l'aereo. Poi il video si spegne di colpo.
«Ho paura» ripete la ragazza, e io non so fare altro che stringerle la mano. Le sue unghie si piantano sul dorso della mia come gli artigli di un falco. Se non fossi mezzo anestetizzato dall'alcool immagino che potrei gridare. La disperazione degli altri passeggeri è come una nuvola ai margini del mio campo visivo, come le coreografie di un balletto la seconda o terza volta che vedi il musical. lo ho occhi solo per la ragazza seduta accanto a me. Cosa dovrei dirle? Cosa dovrei fare? Immagino che siamo III pericolo. Mi rendo conto che la mia cospicua assicurazione sulla vita ha come beneficiari i miei eredi legittimi. Con un angolo del cervello mi domando chi siano. Giusto per immaginarmeli ai Caraibi con la flute di Mumm in mano mentre brindano alla memoria del loro benefattore.
L'aereo sta perdendo quota. L'aereo forse sta precipitando.
Dalla cuffia escono le note della sigla finale del film. Me la strappo dalla testa. Il bianco fuori dal finestrino è quello delle favole, non siamo in mezzo a nessun temporale, sono nuvole bianche e grasse, innocenti come le pecore che conti per addormentarmi. Allora cosa c'è di sbagliato? Perché stiamo cadendo? Sento che i motori aumentano lo sforzo fin quasi al punto di rottura. Dovrei mettermi a urlare, e invece sorrido alla ragazza e Il' dico «Stai tranquilla. Non c'è motivo di avere paura. Andrà tutto bene».
Da sotto le sue unghie, dallo spazio compresso fra la sua mano e la mia, cola un filo sottile di sangue.
Ho pensato a quel film di Dario Argento, se davvero quando uno muore l'ultima cosa che vede gli rimane impressa nella retina; perché, allora, dovevo essere contento che l'ultima immagine della mia vita fossero quei due occhi giovani e verdi come l'erba di un prato irlandese.

* * *

Alla fine risulto l'unico passeggero che abbia riportato danni fisici dall'inconveniente, come lo chiama il personale di bordo.
Niente di grave. Lievi ferite alla mano. Mercurio cromo, cerotto e un bel bendaggio finale, secondo me del tutto inutile ma molto d'effetto. Quando sono tornato al mio posto, dopo la medicazione, la ragazza non mi ha neanche chiesto come stavo. È rimasta girata verso il finestrino per tutto il tempo fino all'atterraggio a Madrid.

* * *
Lo scalo a Madrid è un imprevisto. Scendiamo dall' aereo e ancora non vogliono dirci cosa sia successo di preciso. Vuoti d'aria, turbolenze in quota ...

Prima di imbarcarmi sulla navetta per il terminale (la mia vicina è salita fra i primi) mi allontano un po' dal gruppo e mi incammino verso il muso dell'aereo.
Il portellone del carrello d'atterraggio anteriore manca, e la fusoliera dietro il vano è squarciata per più di due metri. Un groviglio di fili elettrici e cavi assortiti è uscito per metà fuori dall'aereo, come le budella di Mel Gibson.
Sorridendo, lo steward viene a riprendermi e a ricondurmi nel gregge. Mi tira per la manica della giacca, come si fa con un bambino.
Grazie. Mi piace il tuo sorriso. Molto professionale. Peccato che quando l'aereo ha ripreso quota si sentisse benissimo il puzzo di quando te la sei fatta nei calzoni.
I miei colleghi, che purtroppo sul pullman mi avevano riagganciato, chiassosi come una scolaresca di ripetenti, avevano programmato una lieta notte madrilena di movida y trombadas. Peccato che la compagnia aerea ci avesse alloggiato in mezzo al deserto, in un hotel appena fuori dall'aeroporto, con tripli vetri e un'insonorizzazione così perfetta da non sentire quasi le proprie parole.
Con la scusa del mal di testa (che peraltro avevo davvero) e della mano ferita ho rifiutato di unirmi alla loro escursione in taxi fino in città. Il paesaggio lunare era coperto di neve. Erano solo le quattro di pomeriggio, ma stava già facendo buio.
Ho preso la mia chiave, ho raccolto il mio bagaglio a mano e sono andato a chiudermi in camera mia.
Ho acceso il televisore. Sul primo canale c'era una sit-com americana che avevo già visto in Italia. Solo che gli attori parlavano in spagnolo.
"Entonces digame».
"Tiengo que hablar con su mujer».
Ho fatto la doccia, col sotto fondo remoto della sit-com a tenermi compagnia. L'acqua era bollente. Ho indossato la vestaglia dell'albergo, col monogramma sul petto. Mi sono disteso sul letto. La fasciatura sulla mano era tutta molliccia, perché non mi ero curato di proteggerla dall'acqua.
Stavo pensando di sondare il frigo bar quando il campanello della porta ha suonato. Dlin dlon. Un suono dorato come la corona sul monogramma del mio accappatoio.
Sono andato ad aprire. Era la ragazza dell'aereo.
"Ciao» mi ha detto.
Non mi ha chiesto di farla entrare. Ha spinto la porta ed è entrata. lo l'ho chiusa dietro di lei.
"Posso offrirti qualcosa?» le ho domandato, perché è la prima cosa che mi è venuta in mente. Non un grande approccio. Mi sono chiuso un po' di più l'accappatoio sul petto.
"Sono venuta a chiederti scusa» ha risposto, come se lo sceneggiatore avesse saltato un paio di battute di dialogo.
"Scusa per cosa? Per la mano?». "No. Per dopo».
Ha appoggiato la fronte al vetro. Per un momento. Poi si è voltata di nuovo verso di me. Sul vetro è rimasto un segno - il calore della sua fronte - che pian piano si è ridotto ed è scomparso. Piangeva.
Abbracciarla è stata una cosa spontanea, fatta senza pensarci, come quando le avevo preso la mano. E anche se ero stato io a stringerla, mi pareva fosse lei a proteggermi e io ad affidarmi. Il linguaggio del corpo ha parole sue.

Immagino che la notte, fuori, fosse piena di stelle. Il riflesso dl'11e luci dell'aeroporto ci impedì di vederle, anche quando ci 'sedemmo sul letto e la stanza fu buia. C'era solo questo ritaglio di nero, come un quadro. I fanali degli aerei dentro quel quadro salivano e scendevano silenziosi, diretti verso ogni angolo della Terra.

Cose così non succedono nella realtà, pensai, mentre entravo in lei.

* * *
Dopo parlammo.
Niente più sesso, come se quella prima volta fosse solo una premessa in vista di qualcosa di più intimo: la nostra conversazione. A un certo punto mi c:hiese di usare la doccia, e quando tornò era avvolta in un tela da bagno bianco, e un altro telo l'aveva avvolto attorno ai capelli bagnati. In mezzo ai due asciugamani c'era il verde intenso dei suoi occhi.
Mi tolse le bende bagnate dalla mano. La baciò, ridendo. Sono solo dei graffi lo rimasi disteso a guardarla mentre ordinava una cena per due al telefono, in spagnolo. Mi piaceva il modo in cui mi guardava. Quando mi carezzò lungo gli addominali, e poi sul petto, sentivo la forza dei miei muscoli, come se le sue dita li risvegliassero alloro passaggio. Ma non facemmo l'amore una seconda volta.
Di cosa parlammo? Non ricordo. Anche lei dice di non ricordarselo, ma sono certo che non è la verità, perché Marta ricorda ogni cosa, anche i dettagli più insignificanti del più insignificante degli episodi successo alla più insignificante delle sue conoscenze.
Naturalmente mentimmo. Tutti mentono, al primo incontro. Sicuramente esagerammo il numero degli amanti, le esperienze fatte, la nostra sicurezza di fronte alle cose della vita. Ammesso che abbiamo parlato di queste cose. Ma ormai solo Marta lo sa, e Marta dice che non ricorda le parole di quella notte.

***

Il grido di Gaia mi strappa dai ricordi. Coi miei figli non puoi mai distrarti. Mai abbassare la guardia.
«Stronza!» grida Matteo, cercando di ficcare un pezzo di Lego nell' occhio di sua sorella. «Papà, papà!».
«Fermo, Matteo!».
Mia moglie irrompe dallo studio, stile truppe d'assalto. Afferra Matteo per la collottola e lo solleva di peso. L'arma del tentato delitto cade per terra. È un pezzo dell'astronave di Obi Wan Kenobi.
L'astronave è in mille pezzi per terra.
«Cos'è successo?» domando, brandeggiando lo sguardo a destra e sinistra.
«Mi ha rotto l'astronave!» grida e piange mio figlio, bloccato dalla presa di Marta appena fuori portata dalle unghie di Gaia. «Dove hai imparato quella parola?».
«È un po' di giorni che gliela sento usare» scuote la testa
Marta.
«Gliel'ha insegnata Michele» puntualizza Gaia. «Chi sarebbe questo Michele?».
«È il figlio del portinaio. E comunque non l'ho mica rotta apposta, la sua astronave».
«Si che l'hai rotta apposta».
Se avessi saputo che il nostro incontro su quel volo New York-Milano ci avrebbe portati a questo, avrei voluto rivederla un’altra volta? Le avrei chiesto chi era, dove abitava e cosa le piaceva? Dei film, dei libri? E se lei avesse saputo, avrebbe passato il resto della notte con me, chiusa tra le mie braccia come la lama di un coltello a serramanico, o sarebbe scappata a metà della notte con ancora sulle labbra il sapore buono del sesso-e-basta?
Una volta un mio amico - che poi è diventato medico psichiatra, e ora lo si vede in tivù ogni volta che in un telegiornale si parla di un bambino ucciso o violentato - questo ex amico una volta, per consolarmi di un tradimento della mia ragazza, mi disse che dovevo smettere di idolatrarla. «Pensala mentre caga, per esempio. Pensala mentre piscia. Vedrai se l'infatuazione non ti passa».

* * *
In otto anni di matrimonio si è imposto fra noi un grado di tale intimità per cui è normale che uno non si scomponga se, entrando in bagno, trova l'altra sul water e che si continui pacifici a fare quello che si stava facendo. In questi otto anni ho visto Marta pisciare, cagare, togliersi un assorbente usato.
Eppure l'infatuazione non è passata.
Più tardi, mentre io aiuto Matteo a ricostruire l'astronave e Marta in bagno fa la doccia alla bambina, ritorno con la mente all' albergo nel deserto di Madrid. Al mattino dopo, quando pur sapendo ormai tutto di lei, o almeno tutto quello che di sé mi aveva raccontato, ancora non sapevo se ci saremmo rivisti.
Era stata a New York per dire addio a un amico. Detto così poteva essere qualsiasi cosa: il funerale di uno morto di AIDS, per esempio. L'interpretazione che personalmente preferivo. Ma sospettavo che l'addio non fosse di quel tipo. Come avrebbe riassunto la cosa Marta, incontrarci su quel volo era stato come passare in un frutteto e allungare la mano nell'istante preciso in cui una mela si stacca dall'albero e ti cade fra le dita. Un tempismo perfetto.
Lei studiava.
Psicologia, nientemeno. Aveva ventidue anni.
Anche se con un grande sforzo di immaginazione, per la nostra differenza di età avrei potuto essere suo padre.
Ci incontrammo una mezza dozzina di volte, a Milano, e furono i classici incontri cinema-ristorante-sesso, in ordine variabile, prima che lei si trasferisse a casa mia, tirandosi dietro una cassa di libri e una sacca di abiti. I suoi genitori, quando li conobbi, mi sembrarono più a loro agio sulle pareti, nei ritratti dipinti da Andy Warhol e David Hockney, che sul divano del soggiorno. In effetti, anche se allora né io né Marta ne avevamo idea, erano nel bel mezzo di animate trattative per la separazione, che si conclusero l'anno seguente, con reciproca soddisfazione delle parti e di un paio di altre persone che a quei tempi non divennero presentate.
Dopo sei mesi che Marta e io vivevamo insieme, il mio appartamento sembrò restringersi e diventare sempre più soffocante, come le stanze-trappola dei film di Indiana Jones. Quelle con le pareti che si chiudono, irte di spuntoni avvelenati. Così ci trasferimmo da San Babila alla periferia, in un condominio Nuovo nuovo, i cui inquilini non facevano che litigare. Un anno dopo lasciai il lavoro e mi misi in proprio. Naturalmente non a Milano. Scelsi di andarmene perché avevo litigato coi titolari del mio studio, e scelsi questa città perché ci avevo fatto il militare e perché avevo sentito dire che qui non c'era nessuno coi miei numeri, nel mio mestiere. I genitori di Marta, ciascuno per conto suo, ci diedero più di una mano a mettere su casa e ufficio, e del resto la Mendini Brothers (in realtà sono figlio unico, ma il nome mi piaceva così) aprì trionfalmente bottega, con immediati successi, cui immagino non fossero estranee le entrature dei suoceri e dei loro amici. L'elenco degli inviti alle loro feste sembrava il sommario di «Capita!».
Andò così, insomma. Non è difficile riassumere un matrimonio. Più o meno come chiudere una valigia. È solo quando poi la apri, in viaggio, o quando il viaggio è finito, che i ricordi saltano fuori come se li spingesse una molla, e non ne vogliono più sapere di occupare lo spazio ridotto di prima.
Gaia è l'immagine di sua madre, se non fosse per gli occhi scuri che sono un tratto tipico della mia famiglia. Matteo ha preso da me in certi tratti del volto, ma somiglia parecchio anche a mio suocero, per via degli occhi grigio-azzurri e del disegno della mascella, che secondo me è un'autentica calamita per i pugni e gli darà non pochi problemi, col crescere.
Abbiamo due bei bambini, questo è fuori discussione.

Un matrimonio felice, a detta di tutti.


7 - È solo questione di tempo

È solo questione di tempo perché quella che all'inizio era una proposta indecente, e poi un progetto campato per aria, e poi ancora una serie di appunti a matita sul tovagliolo di un bar, diventi sforzo organizzativo, schedulazione di riunioni, fabbisogno di cancelleria e di linee telefoniche.
Come diceva uno dei miei maestri - caduto insieme al Dio Grasso socialista e mai più risorto - il progetto non è tutto, e deve adattarsi alla realtà. Col tempo precisò questa sua filosofia, asserendo che il progetto deve cedere alla realtà. Ancora oggi non so se tale precisazione fosse dovuta a pessimismo o al gusto di essersi imbattuto finalmente in una verità.

C'è voluta una settimana per riorganizzare la Squadra, a quanto mi dice Segaluzza. Il Progetto ha dovuto adattarsi (o cedere, a seconda dei punti di vista ... ) alla realtà. Nella Squadra non c'è al momento nessuno di quelli a cui avevo pensato, e che avevo indicato, e ci sono invece persone che non conosco e di cui ignoravo di avere bisogno. C'è, ad esempio, il figlio di un altro assessore, le cui uniche competenze sembrano disegnare ghirigori ,astratti sul blocco per appunti e scuotere la criniera bionda.
E c'è soprattutto Severino Segaluzza, che a ogni intervento sembra tirar fuori, nel suo linguaggio corporeo, un nuovo segno di rifiuto. È partito dalle espressioni basic (busto sbilanciato all'indietro, pieghe verticali sulla fronte, braccia incrociate) per arrivare a forme più sofisticate e meno percepibili dai non addetti ai lavori: reggere la cartella degli appunti davanti a sé come uno scudo, coprirsi la bocca con la mano, proteggersi psicologicamente citando in continuazione il suo titolo di Studio e la sua esperienza. Eccetera eccetera. Sembra uscito da un libro sulle patologie della comunicazione.
Incomincia a fare obiezioni su tutto. Se potesse, metterebbe in dubbio anche il giorno della settimana.
Ma è indiscutibile che è un lunedì. Il primo lunedì di maggio. La prima riunione della Squadra. Cioè, la prima riunione con me, perché loro è da un pezzo che lavorano insieme. Ammesso che lavorare sia la parola giusta.

* * *

Non sopporto il lavoro di squadra. Dev'essere un retaggio del mio periodo milanese, quando ho fatto conoscenza con il metodo che poi ero solito definire «rito ambrosiano»: riunioni, riunioni, riunioni; progetti, progetti, progetti. Soprattutto riunioni. Riunioni per definire i progetti, progetti di riunioni, riunioni per definire le successive riunioni, progetti di progetti di riunioni ..
E poi scheduling, e planning, e master plans e reports ... Riunioni e progetti sembravano fatti apposta per insabbiare un'idea, per mummificare e avvolgere in un bendaggio di banalità uno spunto originale. Se non era un altro "creativo" era qualcuno dell'ufficio legale, 01' account, a bloccarti e a far ripassare infinite volte un'idea attraverso le Scilla e Cariddi di interminabili riunioni, al termine delle quali si stendeva un report da valutare nel corso di una riunione successiva.
E così via.

È stato questo a rendermi fiero del mio metodo di lavoro: individualista e incasinato, ai limiti dell'anarchia, senza scadenze rigide e con la possibilità di cambiare idea e invertire rotta in ogni momento.
Il lavoro di squadra, in breve, mi sta sulle palle. Come diceva un mio brillante collega, un elefante è un topo progettato da un gruppo di lavoro.

* * *

Gruppo o non gruppo, mi piace cominciare un lavoro qualsiasi lavoro - di lunedì, soprattutto quando fuori piove e ti sembra che niente possa andare peggio di così.
La Squadra al momento è composta da otto persone, moi compris e non contando Segaluzza, che rema contro e quindi mi rifiuto di considerare dei nostri.
Del Figlio dell'Assessore ho già detto tutto quello che c'era da dire, a parte il fatto che sembra una calamita per gli sguardi di approvazione di Aurelia Coperti.
Amelia, seduta alla sua destra, e quindi di fronte a me dall’altra tra parte del tavolo della sala riunioni, è una ragazza terribilmente bella, con occhi da cerbiatta e un taglio corto di capelli biondi. È laureata in Scienze della Comunicazione. Se ho capito bene si occupa di audiovisivi. Immediatamente accanto a lei in senso antiorario c'è un geometra quarantenne, con la barba come me ma molto meno curata, Marco qualcosa, che ha sovrainteso all'allestimento della mostra in Castello. Poi due obiettori di coscienza, Claudio e Andrea, laureati in Lettere , oli indirizzo storico, che non so bene che ruolo abbiano nella squadra, dato che di solito sostituiscono gli autisti della Regione, Andrea avrebbe urgente bisogno di uno shampoo antiforfora Siedono a capotavola, di fronte a Segaluzza, che in questo momento sta ostentatamente sfogliando l'inserto culturale del
"Sole 24 Ore».
Dalla nostra parte del tavolo siamo in tre. Alla mia sinistra, seduta in punta di culo come se pensasse di andarsene da un momento all'altro, c'è la professoressa Bianca Deodati, che fino a oggi aveva la responsabilità del Progerto Celti e mi è sembrata ,in troppo felice di passarmi le consegne. A occhio e croce direi che potrebbe avere la mia età. Molto elegante, un modo di parlare raffinato. Decisamente inappetibile sotto il profilo sessuale. L'esatto contrario della ragazza alla mia destra, Carla Russell, che dovrà curare, se ho capito bene, la promozione del nostro lavoro all'estero. Carla indossa un abitino aderente e ultracorto, dello stesso colore rosso tiziano dei suoi capelli selvatici. Mi dicono sia molto competente.
Ognuno di noi ha davanti a sé la dotazione standard tipica di queste riunioni: una penna blu, una matita nuova, un bicchiere con relativo sottopiatto e un bIoc notes col lago della Reeione. Il bloc notes è in carta riciclata, quindi personalmente preferisco usare quello che mi san portato da casa, assieme all'agenda Moleskine e alla stilo Montblanc della laurea.
Segaluzza ha posato davanti a sé, in aggiunta, una cartella di pelle o finta pelle e un nebulizzatore con la scritta «Propoli forte - Con olio di timo essenziale».
Tre donne per sei uomini. Proporzioni da Ratto delle Sabine, per quanto Carla sembri più che in grado di colmare il gap, in caso di bisogno.
Le telefonate in arrivo all'assessorato (che comunque ho l'impressione non sarebbero molte) sono state dirottate al centralino per la durata della riunione.
Guardo il quadrante del mio Breitling. Le lancette ci sono tutte. Le dieci meno un minuto. Aspetto che la lancetta lunga sia esattamente allo zenit e poi: «Allora. Se siete tutti d'accordo direi che possiamo cominciare».
Non che sia una cosa voluta. Cioè, non è che con questa frase d'apertura volessi precisare lo stile, l'impronta di quello che intendo sia il nostro modo di riunirei: informale, democratico, rispettoso dell'opinione degli altri, eccetera eccetera, come qualcuno poi mi dirà di aver pensato. Ho solo pronunciato le prime parole che mi passavano in testa. Vedo che comunque sulla fronte di Segaluzza si sono già formate tre profonde rughe verticali.
«Di voi so quello che mi è stato detto dal dottor Segaluzza.
Tuttavia non ritengo sia il caso di fare troppe presentazioni, dato che per quanto vi riguarda, se non sbaglio, vi conoscete già tutti, e che nel prossimo futuro dovremo lavorare gomito a gomito e quindi faremo conoscenza nel migliore e più affidabile dei modi. Se qualcuno di voi già sa chi sono ... » intorno al tavolo tranne che alla mia destra, tutte le teste si piegano in un cenno d' assenso « ... sa anche che il mio stile di lavoro è decisamente informale. Amerei quindi, tanto per cominciare, che tutti ci dessimo del tu e che ognuno di noi cercasse di sentirsi quanto più possibile a suo agio».
senza sbracare, dovrei subito aggiungere, a beneficio del Figlio dell’Assessore, che ha tirato fuori di tasca un sacchetto di tabacco per pipa e una scatoletta di cartine Rizla. Sotto lo sguardo incredulo degli altri sta cominciando a rollarsi una sigaretta.
"L’agio non comprende il fumo. Mi dispiace, ma questa è una delle poche regole sulle quali non transigo».
Assessore junior non dà segno di aver capito e continua a confezionarsi la cicca, finché non avverte su di sé gli sguardi tipo raggio laser di noi altri otto. «Cosa c'è ... ?» fa.
"Stavo dicendo che qui non si fuma». "C'è anche il cartello» precisa Segaluzza.
"Ah. Okay. Avevo capito che si poteva. Non fa niente». "Bene. Dicevo, allora, che vorrei che questi incontri fossero quanto più possibile informali. Sentitevi liberi di proporre qualsiasi idea vi passi per la testa. Anche la più stramba. Siate creativi, immaginate. Proponete».
Girandomi verso destra non posso evitare il contatto visivo con le lunghe gambe di Carla, lussuosamente accavallate. Sento che il mio battito cardiaco accelera a livelli d'allarme. Promemoria mentale: evitare di guardare a destra. Così eviterò anche la vista di Segaluzza.
L'obiettore Claudio alza la mano, come a scuola. «Se dobbiamo darci del tu, come dobbiamo chiamarti? Cioè, non è che mi Il:ll1no detto il tuo nome».
<Alberto».
«Ah. Bene».

* * *
I singhiozzi lunghi dei violini di questo maggio che sembra novembre feriscono il mio cuore con il loro monotono languore. La pioggia riga i vetri, le luci accese conferiscono alla stanza un' aria sonnolenta da biblioteca universitaria, anche se di libri qui dentro non c'è nemmeno l'ombra. I reperti scuri nelle bacheche sono tristi come feti sottovetro in un laboratorio d'anatomia. Prima ancora che cominci, mi sento già nelle ossa che la riunione non produrrà niente di buono. Che non c'è d'attendersi niente da questo gruppo che sembra messo su per il casting di un film di Bunuel.
Inevitabilmente vogliono sapere che idea mi sono fatto del progetto. Respingo tennisticamente la palla dall' altra parte della rete. «Voi che idea avete?».
Segue un silenzio impressionante, rotto soltanto dal rumore delle gocce di pioggia che tamburellano sui doppi vetri. Davanti a me, dall'altra parte del tavolo, gli sguardi si incrociano, si cercano. Segaluzza sbuffa.
È la Copetti a rompere finalmente il ghiaccio, a nome di tutti. «Be', credo, insomma, credo che per noi sia importante sapere come la pensi tu. Cioè, chiaro che ci siamo fatti un'idea. Solo che preferiamo che sia tu a dirci prima la tua».
<<In altre parole volete vedere le mie carte prima di mettere giù le vostre?».
«Puoi metterla anche così, si».
È arrivato il momento che temevo. Faccio un respiro lungo.

Ho smesso di fumare il giorno in cui Marta mi ha detto di essere incinta di Gaia. Prima, un respiro così mi avrebbe fatto uscire un rantolo dai polmoni.
«Volete sapere come la penso? In tutta franchezza? Tutta la verità, nient'altro che la verità?».
Ho centocinquantamila buone ragioni per non dirvela. La Copetti fa fiduciosamente segno di sì con la testa.
Coraggio.
«Parafrasando il ragionier Fantozzi, secondo me il Progetto Celti è una boiata pazzesca».
A questo punto mi aspetto venga giù il soffitto. Invece vedo dei sorrisi extralarge fiorire sulle labbra di tutti, tranne Segaluzza. «Bravo» batte le mani la Copetti, ridendo.
«Bravissimo. Così si fa» aggiunge la Deodati, spiazzando mi del tutto, dato che fino a oggi era lei la responsabile della baracca, e mi aspettavo almeno un minimo di difesa per l'onore della bandiera. «L'hai vista, la mostra in Castello?» incalza il geometra, con gli occhi accesi. «No».
«Be', dovresti. Dopo ti porto io a vederla. È solo perché ho famiglia che non ho mai detto niente».
Nel giro di qualche minuto la nostra disciplinata riunione è si inventata un arrembaggio di corsari. Prima che la cosa mi sfugga dalle mani e che il composto diventi pericolosamente instabile alzoo le mani.
«Aspettate, aspettate. Mi state dicendo che nessuno di voi è convinto del progetto? Che state lavorando - da quant' è, da un .Inno? - a qualcosa in cui non credete?».
Dal coro di esclamazioni, pare che la risposta sia sì.
E questo è stato il primo contributo della Squadra al Progetto Celti. Con buona pace del fatto che mi conoscevano tutti.
Alberto. Ah, bene.
Non male, come prima riunione.
A questo punto chiedo un time-out. «Severino, venga con me. Devo parlarle». «Possiamo ... ».
«No. Adesso».

* * *
Usciamo dall'open space dell' assessorato, che a questo punto è diventato una tonnara per la mattanza del progetto. A giudicare dall' accalorarsi della discussione e dallo scambio delle accuse, tra poco tireranno su una ghigliottina nel mezzo della stanza. Su rassegnata indicazione di Segaluzza infiliamo -lui zoppicando, io a passi furiosi - un corridoio che porta a un'area divisa in spazi più o meno normali.
«Adesso mi deve dire a che gioco stiamo giocando» lo affronto, costringendolo ad appoggiarsi con le spalle al muro. I suoi occhietti dietro le lenti sembrano due topi in trappola.
«Ma insomma, cos'è questo tono?».
«È il minimo che si merita».
«lo gliel' avevo detto, cosa ne penso del progetto».
«Si, ma non mi aveva detto che genere di squadra se ne occupava».
«Non l'ho scelta io. Come non ho scelto lei» aggiunge, in tono velenoso.
"Mi è sembrata una donna intelligente».
«Sì. Ma lei non sa cosa c'è dietro. Non sa a che pressione è Mi accorgo che lo sto stringendo per il bavero della giacca.
Questo non è da me. Mollo la presa, bofonchiando un mi scusi.
Segaluzza arretra di un passo. Si ricompone.
«Guardi che la capisco» fa. «Non creda che non sia frustrante anche per me».
«Chi è che ha messo su questa cosiddetta Squadra?».
«La stessa persona che ha pensato al progetto. Chi, sennò?». «Vuol dire l'assessore?».

{{L'Assessore, certo».
E da come l'ha detto, ho proprio sentito la maiuscola. Sospiro. «Mi sta dicendo che avete buttato via un anno per niente? Per un progetto in cui nessuno di voi crede? Un progetto che siete tutti sicuri finirà in un fallimento?».
«Esatto» ..
{<Ma allora perché non glielo dite?». {<Si vede che non conosce l'assessore».
«Voglio parlarle». "Adesso?». {<Adesso».
"È impossibile. L'assessore è in Austria per tutta la settimana».
"E non ha un cellulare?».
{<Non è disturbabile». •
Batto il pugno sul muro. Che però si rivela di cartongesso. Sul muro resta un buco.
Segaluzza spalanca gli occhi. <<È matto?».
Anche a questa distanza si sente rumore dagli uffici dell’assessorato, un ronzio sordo come di alveare in rivolta.
"In che porcheria mi avete tirato dentro?». {<Perché? Aveva un'altra scelta?».
"Cosa intende dire?».
{<Quello che ho detto. Mi ha capito benissimo. Ci ha presi per' stupidi? Lei è senza lavoro da un sacco di tempo. Dopo il disastro della Puritan nessuno che abbia un minimo di sale in zucca le affiderebbe un incarico. Cosa credeva? Li leggiamo anche noi i giornali».
«Ma allora perché mi avete offerto un contratto così ricco?
Centocinquantamila euro sono una barca di soldi per ingaggiare un fallito».
Segaluzza fa una faccia strana. Dapprima gli si gonfiano le guance. Poi gli occhietti odiosi sembrano dilatarsi. La bocca si apre sempre di più, finché non si spalanca in una risata incontrollabile. Segaluzza si piega addirittura in due dal ridere. «Centocinquantamila euro! Si».
<{Cosa le è preso? Perché sta ridendo?».
Mentre sto già meditando di strozzarlo, l'uomo lentamente si raddrizza, facendo forza sul manico del bastone da passeggio. Vedo che cerca di ricomporsi. Alla fine, a fatica, mi guarda senza ridere.
«Quando ha firmato il contratto, venerdì. .. ». «Sl?».
«lo gliel'ho detto di portarselo a casa, se voleva. Per studiarselo bene».
Ricordo, si Ricordo che mentre guardavo quelle otto pagine scritte a caratteri minuscoli mi sentivo come il boscaiolo del film La febbre dell'oro, quello che rimane chiuso per mesi in una baita di montagna con Charlot, bloccati dalla neve, e quando hanno finito le provviste e si sono mangiati persino i lacci delle scarpe comincia ad avere le allucinazioni, e il compagno gli sembra un gigantesco pollo arrosto che cammina.
In altre parole, sapevo perfettamente che quello era un contratto, ma quando l'ho firmato - senza degnarlo di una lettura se non nelle prime righe e nelle cifre - io ci vedevo né più né meno di un assegno al portatore di centocinquantamila euro. La salvezza per me e la mia famiglia. Il futuro vergine e luminoso in cui mi accingevo a entrare.
«Ricordo di averle anche detto di leggere bene tutte le clausole. Ma lei mi ha risposto ... ».
«Che mi fidavo».
«Che si fidava. E vede, ha fatto malissimo. Perché il nostro ufficio legale che ha predisposto il contratto è un ufficio di tangheri senza Dio. E chi ha materialmente messo giù il suo contratto è l'individuo più tanghero e senza Dio di quell'ufficio».
Il volto di Segaluzza è tornato serio. Terribilmente. serio. «Vede, Mendini, il fatto è che in base a una delle clausole che lei non ha voluto leggere ... ».

«Ma io mi sono fidato ... }).


… lei riscuoterà il suo compenso solo se il lavoro da lei svolto risulterà di gradimento della Regione. In altre parole, decide l’assessore se pagarla o meno».
Per un attimo resto senza fiato.
"Ma questo non è giusto. Potrei citarvi in tribunale».
"Si. Per ottenere cosa? Sempre i nostri legali, per i quali fra parentesi, non so se si capisce, non ho nessuna simpatia, comunque sempre loro dicono che tutto quello che lei potrebbe sperare di ottenere rivolgendosi a un giudice è il rimborso delle spese sostenute. Se li scordi, i suoi centocinquantamila. A meno che ... ».
"A meno che ... ?».
"A meno che lei non riesca ad avere successo. Scusi se mi viene da ridere».
Io lo fisso negli occhi. Segaluzza distoglie lo sguardo. Vedo che guarda il buco che ho fatto nel muro col mio pugno.
"Stia tranquillo che quello gliela faccio addebitare. Dimostra che oltre ad avere un brutto carattere lei non ha nessun rispetto per  la proprietà pubblica»,
"Faccia quel cavolo che le pare» rispondo, e gli volto le spalle, allontanandomi lungo il corridoio.
"Dove crede di andare?» mi grida dietro.
"A casa».
"Lei ha firmato un contratto!». ,Vaffanculo» ringhio fra i denti. "Non può andarsene così!}).
"Provi a fermarmi}) sbotto, chiudendo mi la porta alle spalle.

* * *

Nel mio stato d'animo sento che potrei uccidere, per una parola di troppo.
O per uno sguardo sbagliato.
La sensazione di essere stato fregato - che anche in situazioni normali mi avrebbe fatto uscire dai gangheri - si sta combinando pericolosamente con la disillusione di non essermi affatto garantito il futuro che speravo. Il tutto forma una miscela altamente esplosiva.
Quando salgo in macchina il cuoio del sedile mi avvolge come un sudario. Il fruscio mi ricorda quello delle cambiali in mano a un ufficiale giudiziario.
Sto per partire schiacciando l'acceleratore a tavoletta quando qualcuno bussa al finestrino.

8 Quando qualcuno bussa al finestrino

Quando qualcuno bussa al finestrino, la mia reazione automatica è bloccare le serrature delle portiere, anche se è solo il venditore di accendini all' incrocio sotto la Fiera.
Stavolta rimango di sasso quando vedo che a battere il palmo ,dal vetro, con aria preoccupata, è l'Aurelia Copetti.
Abbasso il finestrino con il pulsante, swishhhh.
"Cosa fai?» domanda la ragazza, con gli occhi nervosi ma non per questo meno belli. <<Sto andando via». "Perché?».
Sospiro. «Perché ho commesso uno sbaglio. Ed è meglio che vada».
«Perché dici così?».
Dialoghi del genere di solito li ho con i miei bambini. Sarà per questo che mi fa tenerezza? «Salta su» faccio.
Lei a gesti mi fa notare che le portiere sono ancora bloccate. Swish.
«Che bella macchina. Cos'è, un Mercedes?». «Una Lexus».

«Americana?» .
«Giapponese. Volevi dirmi qualcosa?».
«Si. Cioè, sono qui io perché più o meno mi hanno scelto come portavoce della Squadra». «Complimenti».
"Sono venuta a dirti che crediamo in te». «Come hai detto, scusa?».
«Ci hai colpiti, sai. Cioè, in un anno è la prima volta che troviamo la forza di dirci quello che pensiamo, e questo è già importante, non credi?».
No. Ma non la interrompo.
«Insomma, mi sembra che sia già un bell'inizio, no? Eravamo tutti atrofizzati con le mani intorno a questa cosa che non cresceva, e poi sei arrivato tu e la cosa ha cominciato a crescere».
Alla faccia delle metafore sessuali.
«In che senso ha cominciato a crescere, scusa?».
«Nel senso che quando tu e Severino siete usciti abbiamo discusso parecchio. Insomma, abbiamo fatto quello che avremmo dovuto fare già da tempo. Cioè, un bilancio sincero di quest'ultimo anno. E quello che è uscito fuori non è decisamente lusinghiero. Cioè, abbiamo perso un sacco di tempo per niente».
«Non credo sia colpa vostra».
«No. È il progetto. È quello, che è fatto coi piedi. C'è bisogno di buttare tutto per aria e ricominciare da capo».
«E quindi?».
«E quindi abbiamo deciso che è il momento di dare un taglio al passato e ripartire da zero. Siamo sicuri che possiamo ancora farcela. Se comandi tu, voglio dire».
«E cos'è che vi rende tanto sicuri?».
«Che sei uno in gamba. 51, d'accordo, uno sbaglio o due magari capitano, nella vita. Il proverbio non dice mica che anche i migliori sbagliano?».
«È la prima volta che lo sento».
«Comunque il succo del nocciolo è che abbiamo fiducia in te, e che siamo a tua completa disposizione. Siamo la tua squadra, insomma. O capitano, mio capitano. Ho finito. Credo».
La guardo. Mi guarda. «E ci state tutti?».
«51. Be', insomma, praticamente tutti». «Anche lo sballo ne?».
"Chi? Ah, vuoi dire Sergio. 51, certo. Anche lui». "Questa è la più bella notizia della giornata». ,<Insomma, scendi dalla tua bella auto e torna su».
Scuoto la testa.
"le: dai» insiste, dando mi una pacca sul braccio.
"Ahi».

* * *

Di sopra manca solo Segaluzza. Immagino sia chiuso in qualche ufficio, chino su un telefono, a fare rapporto all’indisturbabile Martinelli sul nostro ammutinamento. O ad avvisare la Sicurezza di impedirmi di uscire.
Quando rimetto piede nell' open space tutti si levano in piedi si voltano, come per una parata militare. Manca poco che applaudano. Aurelia è raggiante.
Inutile nascondere che la cosa mi fa piacere. Mi sembra di essere finito in una scena del Gladiatore. Le mie truppe battono il dito sugli scudi mentre avanzo verso il mio posto al centro del
Tavolo.


Camelot.
Li guardo tutti, uno per uno. Sergio e la Russell, beati loro, hanno l'aria di essersi appena fatti una canna. «Seduti».
Obbediscono. Un bel numero se fossero elefanti, o tigri.
lo resto in piedi. Non so cosa mi stia capitando, ma sento davvero qualcosa che si scioglie, in me, e poi le parole escono fuori come staccate dai pensieri, precedendoli. Dev' essere questo, quello che chiamano «parlare col cuore».
«Mettiamo in chiaro una cosa» esordisco. «Non so a voi, ma " me questa storia dei Celti mi ha già rotto i coglioni».
Risate. Fischi. Applausi. Il geometra barbuto urla: «Figurati a noi”
«Comunque ... » proseguo, imponendo il silenzio con le mani, «siamo pagati per fare un lavoro e lo faremo, per Dio.
Lo faremo benissimo. Anzi: meglio. Quando avremo finito non ci sarà un solo cittadino di questa Regione, fosse anche nero o cinese, che non si sarà convinto di discendere dai Celti».
Nel dubbio, esagera, come diceva sempre il mio maestro. «Con tutto il rispetto per te, Deodati, e per il lavoro che avete già fatto, da oggi si ricomincia da capo».
«Da dove ricominciamo?» si intromette Segaluzza, alle mie spalle.
Mi volto.
«Cominciamo dalla mostra, ad esempio. Chi viene con me?».

9 Una corriera

Tutti alzano la mano. Due, nel caso di Sergio. Guardo Segaluzza. Sorrido, trionfante.
«Ce l'avete, una corriera?».
Una corriera no, ma un paio di Fiat Multipla verdi col logo della Regione sulle fiancate sono a nostra disposizione. I due obiettori si mettono volontariamente alla guida. Si vede che per loro è un automatismo pavloviano: come vedono un' auto di servizio devono guidarla.
Alla nostra auto è toccato Andrea. La sua forfora comincia a posarsi sul poggiatesta blu come una leggera nevicata fuori stagione. lo mi siedo dietro di lui. Anche questo è un automatismo, da quando ho letto su una rivista americana che il posto accanto all'autista viene chiamato «posto del morto». Infatti lì va a sedersiSegaluzza, che occupa il posto in mezzo appoggiandoci la sua valigetta.
Chi si siede accanto a me sul sedile posteriore? Chiudete gli occhi. Aspettate tre secondi. Riapriteli.
Voiià. Aurelia Copetti.
«Non ti dispiace se mi siedo qui?».
Si china verso di me parlando sottovoce, per non farsi sentire dagli altri. «Niente di personale. Cioè, voglio dire, non farti strane idee. Non è che ci sto provando».
La guardo.
Mi guarda. «Sei deluso?».
È così vicina che il suo alito mi accarezza il viso. «Mano».
«Bene. Perché io sono sposata».
«Pensavo che l'espressione d'obbligo fosse felicemente sposata». «La felicità è un concetto relativo. E tu?».
«Io cosa?».
«Sei sposato, immagino».
Faccio segno di sì con la testa. Il suo alito sa di confetti, di mandorla. Come il cianuro, penso per un attimo. «Felicemente, neanche da dire. Bambini?» domanda. «Due» dico, senza commentare quel felicemente. «Maschio e femmina, scommetto».

«Come fai a saperlo?».
<<Intuito femminile. A proposito, prima ti ho detto una bugia. Non sono sposata. Non ho neanche il fidanzato».
La portiera dalla mia parte si spalanca ed entra la Deodati, in versione uragano tropicale. «Mi fai posto? Grazie. Tieni qui. E qui» fa, spostandomi di peso nel posto al centro e riempiendomi il grembo di cartelle e pacchi di depliant, per fortuna piccoli.
«Naturalmente se non ci penso io a nessuno viene in mente che oggi il museo è chiuso» sbuffa, aggiungendo sul mucchio anche un mazzo di chiavi degno di un carcere. Un grosso carcere, tipo San Vittore, o Regina Coeli.
«Andiamo, dai» ordina all' obiettore, che parte di scatto tamponando l'altra Multipla. Arrossendo violentemente, Andrea mugugna fra i denti una pietosa scusa: «Non sono abituato a questi motori bipowen>.
Schegge di forfora volano via dal poggiatesta e si posano sui depliant. LE RADICI DEL NOSTRO FUTURO, leggo al contrario sulla copertina. SEGNI E PRESENZE DI UNA CONTINUITÀ STORICA.

La stessa scritta campeggia su un enorme striscione teso davanti all'ingresso del Castello.
Che una città come questa, edificata in gran parte negli anni del boom, abbia un castello è una cosa che mi riempie sempre di meraviglia. Per il resto è talmente priva di richiami medievali che il castello risulta alieno quanto il monolite di 2001 Odissea nello spazio.
«Bella scalogna, vero?» scherzo con la Deodati. «Prego?». 
Marta una volta mi ha spiegato che la città in effetti era un fiorente centro medievale, ma essendo sede di un nodo ferroviario strategico, durante la seconda guerra mondiale aveva goduto di notevoli precipitazioni a carattere esplosivo" della durata di un paio d'anni. Gli americani con le loro fortezze volanti bombardavano di giorno e gli inglesi di notte. O il contrario, non ricordo bene. Comunque sia, verso la fine della guerra la città era ridotta, a giudicare dalle foto, più o meno come Hiroshima the day after.
Dal palazzo che ospita la Regione era rimasta solo la facciata.
Del Duomo rinascimentale, appena un moncone del campanile.
L’ unico punto relativamente intatto era la zona della stazione ferroviaria.

* * *

Il cartellone di plastica davanti al Castello imita il rame.
Graffiti ti verdi e viola lo attraversano di taglio, rendendo poco decifrabili  diverse zone della legenda. Ma quello che si legge basta e avanza.
* * *

EDIFICATO INTORNO ALL'ANNO 1000.

DEVASTATO DAL TERREMOTO DEL NATALE 1222.

RICOSTRUITO.

DISTRUTTO DAL TERREMOTO DEL NATALE 1233.

RICOSTRUITO.

SACCHEGGIATO E BRUCIATO NEL 1420 DAl VENEZIANI.

PARZIALMENTE RICOSTRUITO.

RASO AL SUOLO DAL TERREMOTO DEL MARZO 1516.

PARZIALMENTE RICOSTRUITO.

RIDOTTO IN ROVINE DAL SISMA DEL MAGGIO 1602.

DEFINITIVAMENTE ABBANDONATO.

«No, dico, a parte tutto: i due Natali. Uno si mette tranquillo accanto al fuoco per, che ne so, per qualsiasi cosa si usasse a quei tempi, il panettone, il bacio sotto il vischio, il cenone con l'idromele, e invece gli viene giù il castello sulla testa. Due volte. Se non è sfiga questa ... ».
Lei si spreme un sorriso dalle labbra, ma devo dire che come sorriso non è un granché.
Il Castello, per com'è oggi, ricorda solo nel nome l'antico splendore: in realtà è una struttura tozza e squadrata, del Cinquecento o del Seicento, che un tempo confinava con il castello vero e proprio e ne ospitava locali di servizio, cucine e alloggi per la servitù, stalle e altre amenità del genere. Tutto intorno alla costruzione si vedono benissimo le fondamenta dei torrioni e gli scavi dei fossati, simili alle trincee di un campo di battaglia della Grande Guerra. Quel che il cartellone non dice è che anche il Castello ha avuto il suo settanta/ottanta per cento di distruzione sotto le bombe angloamericane. Col suo curriculum, del resto, c'era da aspettarselo.
La Deodati traffica a lungo col suo mazzo di chiavi intorno alla serratura del portone. Accalcati alle sue spalle, noi sembriamo una scolaresca in gita.
«È falsa» sussurra la mia nuova amica, battendo con l'indice sul pettorale dell' armatura.
«Come, scusa?».
«È tutto falso. Le armi le fanno in Friuli. Hai presente l'artigiano che ha fatto le spade di scena per il film Braveheart?».
Sì, certo che l'ho presente; difficile che riesca a dimenticare la prima volta che l'ho visto ...
«Be', anche questa l'ha fatta lui».
«Allora, venite su?» grida il geometra, dal piano di sopra.

* * *

A giudicare dalla mostra, le «radici del nostro futuro» sono tutt' altro che solide.
Se i «segni» infatti ci sono, e anzi sovrabbondano, le «presenze» decisamente latitano. In altre parole, il novanta per cento della mostra è rappresentato da pannelli illustrativi e da materiale audiovisivo proiettato con gran suggestione di sons et lumières. Il dieci per cento residuo sono reperti tanto magniloquentemente esaltati quanto oggettivamente insignificanti.
L'atrio ci accoglie con un freddo e un umido da film dell' orrore.
Come il gelo soprannaturale che preannuncia l'arrivo dei fantasmi.
È buio, ma la lama di luce che passa dalla porta mette in risalto particolari inquietanti: una panoplia di asce alla parete, un'armatura del Cinquecento, una ragnatela all'angolo del soffitto.
Aurelia si avvicina mentre studio l'armatura. Gli altri sono impegnati in varie forme a riattivare la circolazione dell' edificio: accendendo luci, spalancando le imposte, disattivando (in un primo tempo senza successo) l'impianto d'allarme dell' esposizione. Tutti tranne Segaluzza, che ha incastrato in un angolo la Deodati e apparentemente la sta tempestando di domande (oppure le sta chiedendo con insistenza un appuntamento che la donna platealmente rifiuta).
Alcuni esempi, tanto per capirei.
Pannelli splendidamente illustrati tratteggiano gli aspetti essenziali della società celtica. Ce n'è uno con foto ingrandite a colori di monete d'oro e d'argento definite «tetradrammi» con figure di dei, penso, e di uomini a cavallo.
Purtroppo non c'è l'ombra di monete vere.
Un altro pannello raffigura il Guerriero di Cemblaro, dal nome della località della Bassa dov'è stata trovata la sua tomba. La ricostruzione ipotetica (molto ipotetica, a giudicare dai reperti su cui si basa) delle armi e degli abiti del Guerriero riveste un manichino con baffoni alla Asterix; la giubba sembra tagliata da una pezza di tessuto tartan scozzese.
Un'altra serie di pannelli illustra le fasi di scavo, restauro e ricostruzione di uno scudo celtico con decorazioni in lamina di bronzo. Peccato che alla fine dei cartelli ci sia solo una riproduzione (definita «congetturale») dello scudo, e che gli unici frammenti reali del reperto siano l'umbone centrale e una sottile lamina resa irriconoscibile dalla corrosione.
Anche un profano come me si accorge subito che quasi tutti i reperti funerari sono prudentemente attribuiti a genti «celtizzate» o descritti con abbondanza di distinguo, riserve e margini di incertezza. L'ultima sezione della mostra, dedicata alla romanizzazione della regione, presenta quasi esclusivamente reperti romani, agganciati in qualche modo (a volte con veri e propri voli della fantasia) ai mitici celti.
Il geometra arrossisce violentemente. È come se una vampa di calore infernale gli avesse sfiorato la faccia. Balbetta, s'impappina. «Be', è, cioè, ferro ... ».
«Ferro?».
«0, be', al limite, bronzo».
Quasi alla fine del percorso, un lungo e buio corridoio - che imita curiosamente l'accesso a una famosa tomba micenea _ conduce a una camera suggestivamente illuminata, al centro della quale è esposto un riquadro di terra battuta di un metro e mezzo di lato. Semiaffondato nella terra emerge un vaso di argilla bruna, circondato da frammenti metallici anneriti simili a quelli che affollano le bacheche dell'assessorato.
«Sepoltura a incinerazione, Fossalonga di Sotto» sussurra
Aurelia Copetti. «Quinto secolo avanti Cristo».
«Mi sembra che la didascalia dicesse quarto secolo». «Infatti stavo per aggiungere "datazione incerta"». «Cosa sarebbero,quei pezzettini di roba nera?».
«Mah. Dovresti chiedere a Marco. Comunque non disperarti. C'è anche roba più interessante».
«Tipo?».
«Tipo la tomba dove ti porto adesso» sorride, tirando mi per mano lungo il corridoio. Solo che sull'uscita veniamo intercettati dal lupus in fabula geometra Marco Candiani.
«Ma pensa alla coincidenza. Stavamo proprio parlando di te» fa la Copetti. «Alberto chiedeva cosa sono quelle caccolette nere intorno al vaso».
La pelle di Candiani sta pericolosamente sfiorando la soglia dell' autocombustione.
«Sicché la mostra l'hai curata tu faccio, sperando di ridurre un po' la pressione interna del geometra. Invece le mie parole sembrano farlo stramazzare. Si appoggia con la schiena al muro. «Ma veramente, insomma, la mostra ... ».
«Ho detto qualcosa di sbagliato?» domando, guardandomi intorno, dato che attorno a noi si è raccolto un piccolo capannello.
Segaluzza si volta dall'altra parte.
«Non è che ci fosse molto da scegliere».

«Questo si era capito. Comunque, l'allestimento è molto professionale, gli audiovisivi sono di prima qualità ... ».
«Grazie. Quelli li ho curati io» cinguetta Aurelia.
«Aspetta. Intendo dire, la mostra come contenitore è buona.
Ma quello che c'è dentro ... Non so: è come aprire una scatoletta di Cartier e trovarci una sorpresa degli ovetti Kinden>.
Chiedo se qualcuno ha una calcolatrice. L'unico è il geometra. Ha un vecchio eurocalcolatore a sei cifre, di quelli che le banche, i giornali e infine anche il Governo distribuivano alla vigilia dell' euro.
«Facciamo un calcolo alla buona» dico. «Aiutami, Candiani.
Quando ha aperto di preciso la mostra, a settembre?».
«Il quindici. Doveva aprire l'undici, ma c'era l'anniversario delle Torri Gemelle».
«E qualcuno ha pensato che due disgrazie in un giorno solo erano troppe» commento.
Mi guardano basiti.
«Scherzavo. Scusatemi. Allora, diciamo che la mostra è rimasta aperta per due settimane a settembre. Abbiamo qui un calendario dell'anno scorso? No? Non importa. Facciamo una media spannometrica e calcoliamo trenta giorni per mese. Da settembre ad aprile fanno quanti giorni?».
Il geometra calcola a mente, aiutandosi con le dita delle mani. «Sette mesi a trenta giorni, più i quindici di settembre, fanno duecentoventicinque giorni».
«Okay. Giorni di chiusura settimanali?». «Il lunedì. Come oggi».
«Quindi possiamo calcolare, diciamo, contando anche le festività.... ».
«Sui trentacinque giorni».
«Che togliamo dai duecentoventicinque che avevamo prima.
Rimangono?».
«Cento novanta giorni».
«Bene. Duemila presenze diviso cento novanta quanto fa?». Il geometra pesta sulla minuscola tastiera, con le dita grosse come salsicce. «Dieci virgola cinque e rotti».
«Dieci adulti e un bambino. Grazie. Questa è la media giornaliera dei visitatori».
Pausa ad effetto. Sguardo circolare sui presenti. Soprattutto su Bianca Deodati.
«Invece non ho bisogno della calcolatrice per sapere quanto è costata la mostra per ogni visitatore. Duecentomila diviso duemila fanno cento euro a persona. Mi sembra francamente tantino».
Nessuno obietta.
«Fin quando dovrebbe restare aperta, questa mostra?».
La Deodati alza le spalle. «Non c'è una data di chiusura precisa. Inizialmente si pensava di tenerla aperta per un anno». «Mi sa che invece la chiudiamo subito».
«Con quello che è costata?».
Forse non si aspettavano tanta durezza. Si stringono l'uno contro l'altro, sulla difensiva. Candiani sta lentamente rientrando nello spettro di colori del genere umano, passando dal viola a un rosa intenso. Decido di non coinvolgerlo direttamente.
«Quanto è costata, la mostra?» domando alla Deodati. «Dovrei controllare le cifre».
«Più o meno».
«Più o meno duecento mila euro».
Rifletto un attimo su quella cifra spropositata. «Visitatori?»
domando. «E non dirmi che devi controllare le cifre». «Be', nell' ordine delle due mila presenze».
«Al mese?».
«Be', ma no. Dall' apertura della mostra». «E quand'è che si è aperta?».
«A settembre dell'anno scorso».

La Russell mastica mezzo chewing-gum. Un frammento minuscolo, ma ben visibile fra una masticata e l'altra. Sergio, probabilmente, sta masticando l'altra metà.
La Deodati è visibilmente a disagio. Così punto dritto su di lei. «Cos'è che volete dirmi?» le domando.
Ma ancora una volta è Aurelia a rispondere. Mi sembra che la ragazza prenda un po' troppo sul serio il ruolo di portavoce.
Promemoria mentale: prima o poi dovrò parlargliene vis à viso
La Copetti rotea gli occhi. «Quello che vorremmo dire è che la mostra non è proprio nostra. Cioè, è nostra nel senso che l'abbiamo personalizzata e, sì, be', adattata alla nostra Regione ... ». «Ma ...?».
«Ma per la verità l'abbiamo copiata da una mostra fatta in Friuli». «Ah».
«Però i reperti sono tutti nostri» precisa la Deodati.
«Spero che questo non sia il tuo concetto di buona notizia. I reperti sono la cosa che fa più schifo».
«Non ho detto che la chiudiamo per sempre. Dobbiamo riipensarla. Voglio dire, ripensarla da cima a fondo. Partiamo da quello che c'è ma vediamo di renderlo più efficace. Più incisivo. Mi è già venuta in mente qualche idea».
«Dovremo fare. un comunicato stampa» fa l'Autelia.
«E aggiornare il sito Internet» aggiunge la Russell. È la prima volta che la sento aprire la bocca. Ha una bella voce, roca quanto basta per far venire strane idee. Peccato per il chewing-gum che si intravede di continuo in mezzo ai molari.
«Abbiamo anche un sito Inrernet?» domando. «Certo» fanno i due obiettori, con l'aria offesa.
«Allora dovremo lavorare anche su quello. Chiudetelo provvisoriamenre. Com'è che si fa? Insomma, metteteci un cartello elettronico che dica stiamo lavorando per voi».
Devo raggiungere l'assessore in Austria. Se proprio vuole c'è un poosto in macchina. Però per l'alloggio dovrà arrangiarsi».
«Non si può rientrare in giornata?».
«Io mi fermo fino a giovedì. Se non le sta bene, dovrà tornare
Segaluzza è rimasto a guardare fuori dalla finestra con l'aria di uno che è qui per caso.
Lo guardo a lungo. Dicono che gli esseri umani percepiscano lo sguardo di un altro anche quando gli danno la schiena. Un retaggio della preistoria.' In effetti si volta.
«Qualche problema?» mi fa.
«Uno fra tanti».
«Dica».
«Quand'è che potrò parlare con la Martinelli?».
«Ci ha già parlato, mi pare. Non è venuta a casa sua?». «Questo era prima. Ho bisogno di parlarle ora».
«Le ho già detto che l'assessore è via per tutta la settimana». «Quindi rientra lunedì prossimo?».
«Lunedì o martedi.
«Per me è troppo tardi. Ho bisogno di parlarle prima .. Altrimenti mi chiamo fuori».
Segaluzza ci pensa su. Poi sbuffa. «Certo che quando si mette un'idea in testa non gliela leva nessuno. E va bene.
In treno».
«Mi garantisce che non vengo su per niente? Che potrò partire con l'assessore?».
«Non le garantisco proprio niente».
«Potrebbe chiamarla. Non mi dica che non ha un cellulare». Segaluzza non risponde.
«Ce l'ha o non ce l'ha?» insisto.
A questo punto si incazza. «Venga con me».

Mi fa strada zoppicando fino alla fine della mostra. Fa cenno di seguirlo in un altro di quei maledetti e, immagino, costosissimi cunicoli multimediali.
«Tomba di Plasencis, V-IV secolo a.c., esempio di sepoltura e incinerazione con armi ritualmente piegate».
Gli schermi televisivi sulle pareti raccontano una storia di imprese guerresche. Clangore di spade, colpi sordi battuti su scudi di legno, grida di gente ferita o che muore. Oltrepassanndoli entriamo in una stanza circolare. Nel solito cerchio di terra h:lttuta emerge la solita anfora di terracotta, circondata da frammenti del solito colore nero, stavolta a forma di boomerang o, nel caso dei pezzi più piccoli, di vermi seccati dal sole in una contorsione agonica.
«Ma chi crede di essere?» mi apostrofa urlando lo zoppo, spingendomi con l'indice contro la parete di compensato. La struttura vibra. «Con chi crede di parlare? Con uno scopino? Lei non è niente. Lei non è nessuno. Se lo ficchi bene in testa».
Vorrei dirgli di non gridare, perché immagino che da fuori si senta tutto. Spero solo che i rumori degli audiovisivi coprano o confondano la nostra discussione.
«Io ... ».
«Io cosa? Stia zitto. Mi stia a sentire. Zitto». E io sto zitto.
Io sono una persona seria. L assessore è una persona seria. Lei non so. Il suo lavoro non è sicuramente una cosa seria. Questo ormai l'ha capito anche lei. Pensa che siamo stupidi? Ma soprattutto, pensa che non abbiamo nient' altro da fare? Pensa che possiamo occuparci seriamente di una cosa del genere? No, stia zitto. Non parli. So cosa stava per dire. Il fatto che l'assessore abbia lanciato l'iniziativa non vuoI dire che intenda seguirla nei minimi dettagli, né che risponda dei risultati. Lei è stato assunto per fare questo lavoro, senza romperei i coglioni. Non mi interrompa! Lei adesso vorrebbe venire a Salzfurt per cosa? Per dire all'assessore che la mostra fa schifo? Che abbiamo perso un anno di tempo? VuoI dirle che il Progetto Celti è un fallimento? Lo sa già. Gliela garantisco io. Sa benissimo come stanno le cose. Non ha bisogno che qualcuno vada a parlargliene in un momento in cui lei ha tutt' altro per la testa. Impegni molto più seri. Mendini, lei deve arrangiarsi. Ha gii avuto carta bianca. Faccia quello che crede, tanto ormai abbiamo speso una barca di soldi in questa puttanata senza senso. Faccia lei. Si occupi di tutto lei. Ottenga i risultati per cui è stato assunto. E per cui verrà pagato. Forse» sogghigna. «Per quello che mi riguarda ho finito. Cosa voleva dirmi?».
Sorrido, sapendo che gli farò più male così che con un pugno allo stomaco. «Volevo chiederle, domani a che ora si parte?».

10 Si parte

Si parte all' alba.
Promemoria mentale: andare a dormire prima la sera. Non sono più un disoccupato.
L'auto della Regione è una BMW del solito colore che per alcuni è verde Padania e per altri verde pisello. Segaluzza come al solito siede al posto del morto, una posizione che gli si addice, soprattutto per com'è vestito.
Parcheggio la Lexus sotto la facciata del palazzo regionale.
Infilo nel parchimetro monete per un paio di giorni, che Gaia ha accettato di scambiare con banconote, guadagnandoci circa il cinquanta per cento. Le monete sono un po' di tutti i Paesi che hanno aderito all'euro. All'inizio Gaia le collezionava. Cioè, ero io che portavo gli euro e i centesimi a casa con la scusa della collezione di Gaia. In realtà mia figlia non li ha degnati di molta attenzione. Li metteva da parte in una delle ciotole giapponesi da stuzzichini che Marta ha comprato da Koivu. I disegni sulla ciotola rappresentano delle mani che giocano a una versione nippa della marra: dita sollevate nel segno dell'uno, del due, eccetera.

La ciotola alla fine era piena di monetine che da lontano sembrano d'oro e di rame. Dopo tanti anni, ieri sera l'abbiamo tirata fuori, svuotata, e abbiamo contato i doppioni, quelli che poi sono finiti nel parchimetro in cambio di un biglietto con la data di dopodomani. Sic transito
Ricordo ancora quando mi è capitato nel resto un dieci centesimi con l'arpa irlandese (la libreria Saba a Lignano Sabbiadoro), e dove mi hanno dato una moneta da due euro greca con
Europa sulla schiena del toro (la gelateria Pignat lungo il Corso). Guardando le monete sparire nella fessura del parchimetro aveevo un po' il magone. Per fortuna, come si dice, chiodo schiaccia chiodo, e vedere la faccia di Segaluzza mi fa dimenticare la nostalgia degli euro.
«Se l'è presa comoda,> mi fa, mentre mi sistemo sul sedile posteriore dell'auto e mi allaccio la cintura.
«Buongiorno» rispondo, ignorando l'osservazione. L'autista ricambia il saluto e mette in moto.
«Ancora cinque minuti e partivamo senza di lei» prosegue imperterrito Segaluzza.
«Grazie per la sua pazienza, allora».
«Se le interessa gliela vendo».
L'autista ride. O meglio, per non svegliare Segaluzza macera la risata fra i denti come un sigaro toscano. «Grazie, ma non credo di potermela permettere».
«Neanch'io, per l'appunto».
Il paesaggio ai lati della strada scorre confuso, strisce di grigio e di verde. Ci vuole uno sforzo di volontà, per cogliere le singole forme: gli alberi, le auto con le targhe austriache.
«Siamo già di là?» sussurro, sbadigliando. «Quand'è che siamo passati in Austria?».
«Ha voglia! Mezz'ora fa». «Allora ho dormito anch'io?». «E già».
«Dall'accento, lei non mi sembra di qui».
«Di qui dove? Dell'Austria?» ridacchia.<<Vengo dalle Marche. Ha presente Fano?». «Come no. Bella città».
«Anche lei non è di qui. Lo dico perché è strano». «Sono di Milano. In che senso strano?».
«No, nel senso che se ci fa caso, all'assessorato i pezzi grossi sono tutti del posto. Invece gli autisti, i centralinisti, tutta la gente che lavora in basso, insomma, vengono un po' da tutta Italia. Ma nei posti buoni no. Nei posti buoni ci sono solo loro. Ci aveva fatto caso?».
«Adesso che me lo dice, no, non ci avevo fatto caso. E com'è che ha capito che io non sono di qui?».
«Per via del cognome. E anche dell'accento».
Segaluzza apre un occhietto furbo. «Di cosa state parlando?». «Niente, il dottor Mendini qui mi stava chiedendo quanto manca per arrivare».
«Ah. E quanto manca?».
«Siamo vicini a Velden. Un'altra mezz'oretta».
Scuote la testa. <<Vedo che non ha bagaglio». «Non ho intenzione di fermarmi».
«E se deve passare la notte fuori?».
«Ero nei boy scout. Posso mangiare bacche e bere la rugiada dalle foglie degli alberi».
«Nel centro di Salzfurt? Auguri!».
«Cos'è, una battuta? Non mi dica che anche lei ha il senso dell'umorismo. Pensavo che solo le disgrazie degli altri la facessero ridere».
Nello specchietto retrovisore colgo il sorriso divertito dell' autista.
«Bella, la sua Lexus» mi fa sottovoce un' ora dopo, per non svegliare Segaluzza che si è addormentato prima di Tarvisio. «Grazie».
«Consuma?».
«Un bel po'".

«Mio cognato ne ha una uguale. Cioè, non la versione con tutto. La sua cos'ha, il navigatore satellitare?».
«E il lettore di DVD».
«Però».
Segaluzza guarda nello specchietto dell' aletta parasole. Mi trova e mi aggancia con lo sguardo. «È mai stato a Salzfurt?». «Mai».
«Bella città. Ordinata». «Mi fa piacere».
«È ancora arrabbiato?». «Perché?».
«Perché a me è passata. Sul serio». Ritengo opportuno non rispondere.
«Vogliamo stringerci la mano?» propone Segaluzza, e con un gesto da contorsionista allunga la solita mano fredda oltre il sedile. Più per un automatismo che per altro gliela stringo.
Lui trattiene la mia un po' più del minimo indispensabile e poi me la rende, di almeno due gradi più fredda che in origine. «Bene» sorride. «Cos1 mi piace. Apriamo una nuova fase nelle nostre relazioni interpersona.
«Ne sono estasiato. Tanto per partire col piede giusto, me l'ha combinato un appuntamento con l'assessore?». «L'assessore la riceverà in mattinata. Tarda mattinata». «Bene. Nel frattempo io cosa faccio?».
«Si goda la città. Faccia il turista. Anche se non ha portato la macchina fotografica. Può comprare una di quelle usa e getta». «Magari mi trovo un parco per bere e mangiare».
Sul momento rimane perplesso. Poi ha l'illuminazione. «Ah, adesso ho capito! Il parco! Perché lei ha fatto il boy scout! Beve l'acqua delle piante e mangia la frutta selvatica. Le bacche! Le radici!».
«In che senso?».
«Per l'incontro con l'assessore».
«Ah, s1. Per quello la chiamo io. Mi dia il suo numero di telefono».
Tira fuori dalla tasca della giacca una penna che sembra aver fatto la ritirata di Caporetto e un ritaglio di giornale.
Gli do il mio numero di cellulare. Lui lo annota con una grafia leggera e stretta in un angolo del ritaglio. Si rimette in tasca foglio e penna.
«E lei non mi dà il suo?» gli domando. «Non ce l'ho il cellulare» ghigna soddisfatto.
Poi non pronuncia più una sillaba per un altro quarto d'ora.
Finché non usciamo dall' autostrada.
«Ecco» fa all' autista, a un certo punto. «Puoi lasciarlo giù qui».
A me non sembra, e glielo dico. Intorno a noi non vedo nessuna città. Sulla destra c'è un lago, abbastanza squallido in questi paraggi. Poche case dall'aria rurale, campi semiabbandonati.
Segaluzza sembra enormemente infastidito dalla mia mancanza di fiducia. «Ma sl, guardi Il: Ossiacher Strage. Siamo praticamente In centro».
L'autista accosta. Il tic tac della freccia è un suono inquietante. Tutto intorno a me il paesaggio è una sinfonia sul tema del grigio. Cielo grigio. Acque grigie. Il grigio del nastro d'asfalto praticamente perfetto su cui sfrecciano a tutta velocità auto guidate da sconosciuti, dirette a destinazioni oscure.
«Scenda, scenda. È già tardi». Scendo.
Le luci di stop della BMW si spengono. L'auto riparte, con uno sbuffo di fumo rispettoso delle più severe normative antinquinamento.
Cambiando in un attimo espressione dal faceto al serio batte sulla spalla dell' autista. «Accelera u? po', va là, sennò facciamo notte».
«Dove mi lasciate?» domando, aspettando mi il peggio. «Da qualche parte in centro».
«E poi dove ci troviamo?».

Cammino per più di mezz' ora in mezzo al verde e al grigio.

Le uniche macchie di colore mi sembrano le insegne delle pommpe di benzina.

La sensazione di abbandono aumenta a mano a mano che procedo a piedi rasente il flusso continuo d'auto e il marciapiede a volte si restringe, altre addirittura scompare costringendomi a camminare sull' asfalto. I rari cartelli in cui m'imbatto non seegnalano, come mi aspetterei, «Zentrum» ma esotiche indicaziooni: «Europarb, «Minimundus», «Reptilien Zoo». Oltrepasso diverse fermate degli autobus, ma non capisco le indicazioni. Dovrei prendere il dieci o il ventidue? O il ventuno? Non che abbia visto passare un solo autobus, da quando sono stato espullso dall' auto di Segaluzza.

I pedoni sembrano fauna sconosciuta, in questa parte della città. Nessuna possibilità di chiedere informazioni.

Quando intravedo da lontano un taxi mi sbraccio come un naufrago.

* * *

Dato che nessuna delle attrazioni mi attira e che il festival è finito da tre giorni, decido di ingannare il tempo in attesa della telefonata di Segaluzza girando per negozi, alla ricerca di qualcosa da portare a casa per Gaia e Matteo. Gaia mi ha chiesto una bambola austriaca, «di quelle con gli zoccoli». Immagino si sia confusa con l'Olanda. Matteo invece mi ha chiesto «un Lego austriaco».
Entro in un grande negozio di giocattoli. I prezzi dei trenini che ho ammirato in vetrina sono astronomici. Come faceva mio padre a comprarmeli, quando ero piccolo? Il Lego c'è, ma è tutta roba che trovi anche da noi, e costa almeno il doppio. Comunque al terzo negozio di giocattoli che giro compro una scatoletta della serie di Winnie Pooh. Ci sono Winnie, Tigro e l'asino Hiiho, uno scivolo e una casetta sull' albero. Ventidue euro. La commessa fatica a capire che deve farmi un pacchetto regalo. Prima mi indirizza entusiasticamente verso un angolo del negozio dove sono esposti dei rotoli di carta con disegni di Babbi Natale del tutto incongrui con la stagione, poi si rassegna a confezionarmi un pacco che anche Gaia avrebbe saputo far meglio.
Per mia figlia compro una bambola vestita alla tirolese, con un mazzo di stelle alpine e il nome Salzfurt ricamati sul corpetto. No, grazie, non me la incarti, per l'amor di Dio. Due pacchetti sarebbe davvero chiederle troppo.
Quello che Segaluzza non ha detto è che Ossiacher StraJSe è sÌ la via che porta in centro, ma è lunga dieci chilometri. L'autista, un russo che parla francese, si è messo a ridere quando gli ho detto dove mi avevano fatto scendere. Poi continua a borbottare fra sé e sé; colgo il ricorrere delle parole Ossiacher Strafe e Zenntrum che ogni volta lo fanno sbellicare.
Quando scendo non gli lascio la mancia.
Esco dal negozio e c'è un raggio di sole a bucare la cappa di nuvole basse, illuminando le montagne alle spalle della città. Poi, come il dito di Dio, il raggio si allunga e scende; immagino attraversi la periferia grigia della città, però senza sporcarsi e senza perdere luce, prima di fermarsi sulla facciata barocca del Duomo, in piena gloria. Le undici e mezza. Vorrei comprare un panino al kebab come quelli che mangiavo a Berlino, ma l'unico chiosco che incrocio sulla piazza vende wurstel con senape e crauti. Ne compro uno. È molto buono. Da bere c'è aranciata o Coca Cola, niente birra. Prendo un' aranciata, ma è tiepida.

Il centro di Salzfurt, cioè la parte di città racchiusa entro l'inevitabile Ring, è molto bello e proprio come uno se lo aspetta. Anche troppo. Sembra sia stato costruito sulla base delle aspettative dei turisti che in effetti sciamano a frotte, attirati, stando alla guida che acquisto a un chiosco dei giornali, dalla bellezza dei monumenti come la fontana col drago, il palazzo del vescovo e la cattedrale, oltre che da un festival di musica folkloristica che si tiene proprio in questo periodo.
Vado a sedermi a un tavolino all'aperto di un caffè con grandi tende da sole a strisce bianche e rosse. Grandi e bellissime macchie di colore dai gerani in vaso. Il bar è al pianterreno di una casa con la facciata di legno scuro traforato, con figure di animali e cacciatori. Vedo che il cameriere mi fissa in modo strano. Realizzo che ho ancora in mano la bottiglia di Fanta che non ho bevuto. Mi alzo e vado a buttarla in un cestino. Il cameriere non dice niente ma adesso è pronto a raccogliere con ostentata dignità la mia ordinazione.
Ci sono molte belle ragazze che attraversano la piazza. Alcune sono sicuramente turiste, altre sembrano del posto, e sono le più belle. Alte, slanciate, bionde e brune, ma con una predominanza del biondo.
La birra arriva in un boccale enorme, imperlato di goccioline di condensa. Ha un sapore pastoso, e l'aroma di luppolo si accompagna benissimo al retrogusto del wurstel in via di digestioone. La guida della città che ho comprato al chiosco dei giornali dice che la piazza in cui sono seduto risale al Medioevo. Il Duomo è un esempio di qualcosa chiamato «stile barocco italianaato». Il monumento al centro della piazza è dedicato a un allievo di Bach, Johann Philip Kienberger, che personalmente non avevo mai sentito nominare e il cui rapporto con la città la guida non chiarisce.
Dato che nessuno mi ha ancora telefonato, tiro fuori il cellulare dalla tasca del giubbotto. Il display dice, tragicamente SOLO EMERGENZA.

NESSUNA RETE DISPONIBILE.

Mi ricordo solo ora che il mio gestore telefonico richiede l'attivazione del roaming internazionale prima di partire per l'estero.

* * *
Scovare la Martinelli richiede un lavoro non indifferente, Prima di tutto devo trovare un vigile o un poliziotto che parli italiano. Mi va quasi bene. Al terzo tentativo (i poliziotti non mancano) ne trovo uno che parla un inglese decisamente migliore del mio. Gli spiego che in città c'è un personaggio politico italiano molto importante. Mi squadra, chiedendosi se per caso io non sia un terrorista internazionale. Guarda con sospetto la mia borsa con la bambola e il pacchetto regalo malamente confezionato.
Gli spiego che la Martinelli è un pezzo grosso, e che oggi ha un qualche tipo di impegno ufficiale. Quando pronuncio il nome «Martinelli» il suo faccione si illumina, e un sorriso gli apre la bocca a misura e forma perfette per infilarci un disco da hockey. Mima con le mani le forme dell'assessore.
< Wonderful woman. I know her. I saw her yesterday, while she listened our Police Department. Very cute. Very good manners. I l'l'ad on today's newspaper she's at the Governor's House. Big political issues. But I real/y don 't know ifyou'll be cleared to see her, i'ause the Governor's security tends to be a little bit on the paranoid ,l'ide ... ».
Capisco circa il sessanta per cento di quello che mi dice. La Martinelli è al palazzo del Governatore. Questa è l'informazione che conta. Non capisco invece a chi abbia dato del paranoico, ma non Importa.
< You 'Il better be careful when you approach the security up there» conclude il gendarme, sorridendo.


Lo ringrazio del consiglio e cerco di farmi spiegare dove sia questo benedetto palazzo con un servizio di sicurezza degno di tanto timore.
< You 'Il find the Governor's House at the end of that road, you Jee? Right up there. It's not far from here. But I already told you that ... ».
Grazie, grazie mille.
La strada che parte dalla Domplatz, che immagino sia la piazza del Duomo, si chiama Kramergasse - un suono sinistramente simile a quello di «camere a gas». La Kramergasse è una stradina dall' aria antica, con vetrine di negozi molto curate e con prodotti di lusso. Sopra la porta dei negozi ci sono insegne metalliche, smaltate in oro e colori vivaci, che indicano il tipo di negozio. Ad esempio il disegno di un paio di occhiali indica l'ottico, un calice d'oro identifica un' enoteca con in vetrina una Jeroboam di Dom Perignon in un contenitore di velluto blu. E così via. Mi chiedo cosa metterebbero sull'insegna di un negozio di computer.
La strada sbuca in una piazza molto più grande di quella del .
Duomo, che in effetti si chiama GrofSer Platz. Su tre lati ci sono edifici imponenti di fine Ottocento, con discrete e normali targhe d'ottone con nomi tipo Cartier, Bulgari, Chanel. Su altri palazzi sventolano bandiere di tutti i Paesi del mondo, e sono quelle delle rappresentanze consolari. Sul quarto lato della piazza c'è il palazzo più grande di tutti, che lo occupa per intero. La facciata sembra una copia leggermente più in piccolo di quella del Louvre.
Risalendo il lato di destra della piazza e passando, nell' ordine, davanti ai consolati degli Stati Uniti, del Giappone, del Brasile e della Norvegia, arrivo ai piedi del palazzo del Governatore. Dov'è il servizio di guardia che preoccupava tanto il mio amico poliziotto? Il Breitling segna mezzogiorno, e di solito non mente. Che cosa aveva detto Segaluzza? Che la Martinelli sarebbe stata libera in tarda mattinata?
Sovrappensiero metto piede nell'androne del palazzo. Subito un paio di mani dure come ganci mi afferrano e mi scaraventano contro il muro. Poi non capisco più niente. Sento che altre mani - un sacco di mani - mi tengono stretto. Mi strappano la borsa dalle braccia. Rumore di carta strappata. Qualcosa che si rompe. Un walkie talkie mi parla all'orecchio in tedesco. Una voce di
In timbro altrettanto metallico risponde qualcosa, a un centimetro dall’altro orecchio. Schiacciato a forza contro il muro, vedo solo la trama della pietra. Una venatura più chiara attraversa il granito o quello che è, e nel suo corso riceve altre righe, come nella l :Irta di un bacino fluviale e dei suoi immissari. Alla fine le stesse mani rudi mi girano, e qualcuno mi punta negli occhi la luce di  pila molto forte.
Sento urlare in tedesco. Poi in francese e in inglese.
Che cosa ci faccio lì? Chi sono? Che cazzo sto cercando di fare? «Lasciatemi e ve lo spiego!!!» urlo.
"Schrei nicht! Don 't shout/».
«Io urlo finché tu non mi togli le mani di dosso, scimmione!». Com'è ovvio, nessuno mi lascia andare. Però, almeno, posso vedere chi mi ha assalito. Sono quattro uomini in borghese. O 'l1eglio, sembrano uomini in borghese, perché potrebbero anche essere dei cyborg, per la freddezza ed efficienza con cui parlano l" si muovono. Per terra fra le loro gambe c'è la scatola di Lego entrata e c'è la bambola, per fortuna intatta.
In quel momento uno di loro fa un passo indietro e schiaccia la mano della bambola sotto il tacco della scarpa. Immagino non l'abbia fatto apposta.
«Meglio che abbiate un buon motivo per trattarmi così> strillo, mentre cerco di ricordare se fra le bandiere che sventolano nella piazza c'era anche quella italiana.

"Schrei nicht!» ripete uno dei cIoni di Schwarzenegger, e si vede che avrebbe voglia di condire l'invito con un po' di effetti speciali manuali. Immagino che a trattenerlo sia il fatto che nella borsa che hanno vandalizzato non c'era traccia di armi o di l:splosivi.
" Was machst du hier?» mi urla in faccia quello che mi ha appena detto di non urlare.
«l'm here to see the assessore Martinelli. l'm her ... l).
 Come diavolo si dice «addetto stampa,,? E «creatore d'immmagine,,?
«Salga su, non faccia il cretino» sospira Segaluzza, chiedendo .dl' autista di aprire la portiera davanti. Il posto del morto.
Sul momento sento che dovrei allungare la mano e stringere il collo da pollastro di Segaluzza fino a fargli schizzare gli occhi dalle orbite come due palline da ping pongo E poi giocare con le suddette palline sul cofano dell'auto, in attesa dell'ambulanza della Croce Verde. Invece mi spazzolo la manica del giubbotto e ritorno sui miei passi. Raccolgo con grande dignità da terra i resti del Lego e della bambola e ringrazio i miei nuovi amici. «Danke schon per la vostra squisita ospitalità». Poi salgo in auto l' li lascio Il a interrogarsi sul termine «squisita».
«Si allacci la cintura, per favore» mi fa l'autista in un ottimo italiano, anche se con accento tedesco. «Cosa le è successo?».
Mi volto verso di lui e mi rendo conto che anche il suo è un volto noto.
La Martinelli sospira. «Credo sia giunto il momento delle presentazioni. Questo è il dottor Alberto Mendini. Alberto sta curando per noi la comunicazione per quel progetto di cui ti avevo parlato».
«Ah sì. Tanto piacere» fa l'autista.
«Alberto,» prosegue la Martinelli, rivolgendosi a me e indicando l'autista, «ti presento il Governatore del Land del Mittelmarlo>.
Hans Albert Mayer.
Per fortuna in quel momento dal cortile interno del palazzo esce una colonna di Mercedes nere con le bandierine sul cofano. La terza auto ha la bandierina col simbolo della Regione. Di fronte al corteo i miei carcerieri si ricompongono e assumono un contegno marziale. lo ne approfitto per divincolarmi e correre verso la Mercedes. Più tardi la Martinelli avrà modo di ripetermi un sacco di volte che è stata un'imprudenza stupidissima, cosa di cui per la verità mi rendo conto fin da subito, perché prima ancora di aver mosso il secondo passo sento il rumore di tre otturatori che inseriscono il colpo in canna. Ho visto troppi film per non sapere che è il momento di fermarsi e alzare le mani.
La mia faccia, che immagino molto pallida, è a un palmo dal finestrino dell'auto, che si è fermata in mezzo all'androne. Immagino che non mi abbiano ancora sparato per non sporcare la carrozzeria. Per un attimo la scena rimane così in sospeso, senza che nessuno si muova. Poi il finestrino scuro si abbassa lentamente, con un ronzio elettrico, e nel riquadro mi appare il viso di Enrica Martinelli, che in quel momento mi sembra quello della Madonna. L'assessore ha una strana espressione, in cui distinguo stupore, imbarazzo e anche un po' di paura. Mi dà l'idea che per un attimo non mi abbia riconosciuto.
«Alberto! Cosa ci fai qui?». «Severino non ti ha detto niente?». «Detto cosa?».
«Che sono venuto qui per parlarti!». «Per parlarmi di cosa?».
Immagino che la conversazione potrebbe continuare così ancora a lungo, sotto l'amena minaccia delle pistole dei tre bruti, se un volto noto non si affacciasse al finestrino, a fianco della Martinelli.

11 «Matteo ne ha tre, Gaia sei».
Hans Albert Mayer dimostra quarant'anni invece dei cinquanta e rotti che risultano all' anagrafe. Merito dello sport e di un'intensa attività sessuale, stando alle cronache mondane; quelle politiche, invece, si interessano soprattutto alle sue opinioni in materia di immigrazione, tutela della razza, castrazione chimica e pena di morte. Opinioni che lo pongono, secondo alcuni, a destra di Adolf Hitler.
È un uomo dotato di sicuro fascino. Lo si capisce a prima vista. Ha un sorriso accattivante, bella presenza e modi sin troppo gradevoli. Niente a che vedere con il forcaiolo zotico dipinto dagli articoli e dalle vignette della stampa.
Ancora scosso dall' apparizione, non ho capito la domanda che mi ha appena fatto. «Prego?» balbetto.
«Cosa le è successo? E cosa ha raccolto da terra?».
Guardo il sacchetto di plastica che stringo in grembo. Il braccio sano della bambola sporge dalla busta, in una specie di saluto nazista.
«Faccia vedere, sì?».
Apro il sacchetto. Come se il suo fosse un ordine. <<Ach, scade. Sono regali per chi?».
«Per i miei bambini».
«Un maschio e una femmina». Annuisco. Che bravo.
«Anch'io quando faccio un viaggio torno sempre con qualcosa per i miei bimbi. Ma io ho due maschi. È più facile. Quanti anni hanno i suoi figli?».
«I miei sono più grandi. Dica, i miei uomini l'hanno un po' maltrattata?».
«Diciamo che da un certo punto di vista sono stati molto professionali».
«Gliela dirò. Ne saranno contenti».
«Da un certo punto di vista, ho detto. Secondo me le pistole <Tana di troppo. Lo dico nel caso dovesse capitare un' altra volta».
Mayer si volta e dice qualcosa in tedesco alla Martinelli. Dev’ essere una battuta, perché si mettono tutti a ridere, compreso Segaluzza, che però poi mi guarda storto. Vorrei dire al governatore che è maleducazione parlare in una lingua che non conosco, ma lui non mi lascia il tempo di parlare.         
«Vede, dottor Mendini, i miei uomini sono molto sobri per quanto riguarda la mia sicurezza perché quest'anno ho già subito due attentati. È per questo che sono qui alla guida, mentre ,un’altra auto, dove dovrei stare io, c'è una mia, come si dice ... ?».
«Guardia del corpo?» butto Il.
«No. È, come nel cinema, com'è quella parola?». «Una controfigura» suggerisce la Martinelli.
«Brava. Esatto. La mia controfigura. Inutile correre rischi, le pare?».
«Pensavo che tutti la amassero alla follia, da queste parti».
Hans Albert Mayer
Per un attimo nei suoi occhi compare una luce che smentisce tutta la bonomia e le belle maniere dei miei Primi Cinque Minuti con Hans Albert Mayer. Ma la luce va e viene, e potrei averla anche solo sognata.
Il Governatore sterza a destra. L'auto costeggia un parco come quelli inglesi, con coppiette che passeggiano, carrozzine di bambini e l'inevitabile teatrino dei burattini. «Dopo aver rischiato la vita per parlare con Enrica, adesso immagino che non vedrà l'ora di dirle quello che ha da dire».
«In realtà non c'è fretta» interviene Segaluzza. «Non è niente d'importante».
«Lasci che sia il dottor Mendini a dirlo».
Guardo Mayer, che non distoglie lo sguardo dalla strada. Il profilo è leggermente aquilino, aristocratico. L'occhietto furbo studia a momenti alterni me e poi gli altri due sul sedile posteriore.
La Martinelli si sporge in avanti, con uno dei suoi sorrisi da programma

«Il signor Mendini potrà parlarmi più tardi. Non le dispiace, vero, se invitiamo anche lui a pranzo?».

«Anzi, sarà un piacere, se si accontenta di uno spuntino alla buona. Enrica ha anticipato il mio invito. Adesso scusatemi ma devo concentrarmi sulla strada. Sapete come si dice: non si parla all' autista».

* * *

L'auto risale una strada di montagna. Anche se i finestrini sono chiusi sembra di sentire l'odore degli aghi di pino scaldati dal sole.
Adesso i prati che prima facevano da sfondo al cemento sono i signori incontrastati del paesaggio. Ascendiamo fra cori d'angeli verso il regno di Heidi. Dico fra cori d'angeli perché dallo stereo della Mercedes esce una musica struggente da far male, un coro di voci bianche che canta senza accompagnamento strumentale.
Mayer mi legge nel pensiero. «È l'Agnus Dei di Barber. L'ho usato nella cerimonia commemorativa per le vittime dell' Il settembre. Il coro del Duomo ha dovuto impararlo in due giorni». «Altrimenti gli cantava lei un Requiem?».
Mi guarda. Si volta verso la Martinelli. «Sono tutti casi spiritosi, i tuoi collaboratori?». «Solo quelli che scelgo io». «Ah. Capisco».
Guida per qualche minuto senza parlare. Dal finestrino vedo una fattoria che sembra finta da tanto è pulita. Dà l'idea che le mucche piantino ogni volta un paletto per segnalare dove hanno cagato.
«Questo che sente, naturalmente, non è il nostro coro. È il coro della cattedrale di Denver» precisa Mayer. E ride.
«A proposito di resto, lasci che le racconti: il giorno prima della commemorazione passo davanti a un cartellone e vedo che qualche cretino ha sbagliato il titolo del brano. Invece di Agnus Dei, di, e, i, aveva scritto Agnus Day, di a ipsilon. Il giorno dell'Agnello>.
«Simpatico».
«I miei avversari mi hanno preso per il culo per settimane». «Immagino che abbiate scovato il responsabile».
«Certo».
«Adesso cosa fa? Ispezioni alle fogne?». «Mi creda, non sono casi buono».
Usciamo da Salzfurt diretti in collina. Attraversando la periferia non posso non notare che all'inevitabile squallore di certe zone dove l'edificio architettonicamente più interessante è un capannone in cemento armato non si accompagna, come di solito accade dalle nostre parti, uno stato di degrado o di abbandono. Le strade sono ben mantenute, i lampioni e i casso netti dei rifiuti si susseguono a distanza regolare, non si vedono in giro né ubriachi né drogati. O gente dal colore esotico, se è per questo. Solo diverse sfumature di bianco.
«Come pensa di tornare a casa?» si informa la Martinelli. «Pensavo a un treno. C'è una stazione qui, vero?».
«Ce ne sono tre. I treni per l'Italia partono dalla Siddbahnhof» annuncia Mayer, senza che nessuno l'abbia interrogato. Comincia a darmi sui nervi.
«Bello, il suo giubbotto. Calvin Klein?» fa. «Si».
«Ne ho uno uguale, solo più scuro».

* * *

La nostra meta, da quello che ho colto dalla conversazione a tre da cui per il momento sono escluso, è un castello sulle rive di un lago. Non il primo lago che incrociamo, e nemmeno il secondo, che sembra una copia esatta del Tegernsee in Baviera. Il Tegernsee è uno dei posti più lugubri in cui sia stato, anche se immagino che la mia impressione fosse dovuta soprattutto alla pioggia battente e al fatto che sulle rive di quel lago, la notte tra i129 e i130 giugno del '34, era avvenuto il famoso massacro delle SA. La N atte dei Lunghi Coltelli.
Per fortuna tiriamo dritti.
«Dove ha imparato l'italiano?» domando al Governatore- autista.
«Ho seguito un corso per corrispondenza». «Sul serio?».
«No» ride.
«Hans viene in vacanza in Italia ogni estate, da quando aveva quindici anni» spiega la Martinelli.
«In realtà non proprio tutte le estati. L'anno scorso sono andato in Islanda».
«Però sei venuto lo stesso a trovarci un paio di volte». «Come potevo mancare?».
Mayer mette la freccia a destra. La Mercedes infila una stradina stretta, in salita, che la vegetazione rende quasi buia. Delle auto che ci precedono si vedono solo le luci posteriori, rosse come occhi di animali.
Dopo una serie impressionante di tornanti, si apre la vista di un lago minuscolo e incantevole. Sulla destra, alto sopra una rupe, c'è un castello in rovina.
Mayer intercetta subito il mio sguardo. E a quanto pare anche i miei pensieri. «Non si faccia ingannare dalle apparenze» mi fa, strizzando l'occhio.
Parcheggiamo su un piazzale lastricato proprio sotto le mura. Dalle altre due auto scende una squadra di persone che sul primo momento mi sembrano le stesse che mi hanno strapazzato al palazzo. Ma forse vengono solo dallo stesso allevamento.
Segaluzza si sgranchisce le gambe. La Martinelli si liscia le pieghe del tailleur colar carta da zucchero. Da vicino il castello sembra più imponente. Passiamo su un ponte levatoio evidentemente rifatto, ed entriamo nel cortile interno del castello. Ci sono dei tavolini all' aperto, fuori da un locale che ha tutta l'aria di un locale pubblico, una birreria o un ristorante, perché gli ombrelloni portano il marchio della birra Villacher.
Un uomo tondo e allegro, con un grembiulone bianco, si fa incontro al Governatore, sommergendolo di quelli che credo siano dei complimenti in tedesco. Mayer, circondato dai suoi angeli custodi, gli presenta la Martinelli. Approfitto immediatamente dell' occasione per incastrare Segaluzza, che per via della gamba è rimasto un po' indietro.
«Allora?» lo affronto a muso duro. «Allora cosa?».
«Doveva chiamarmi».
Lo zoppo accelera il passo. «Ho avuto da fare».
«Tanto da fare che non si è neanche ricordato di dire alla Martinelli che ero qui?».
«Può darsi. Comunque alla fine l'ha trovata, no?». «Sì. Tante grazie».
«Venite» grida il Governatore. «Si va a mangiare».

* * *

Smentendo i miei pregiudizi, il locale si rivela ottimo. I tavoli della minuscola saletta interna in cui ci fanno accomodare sono solo quattro. La cucina, degna di uno chef parigino, rivisita i piatti caratteristici della gastronomia austriaca ma in una chiave innovativa, felicemente audace, e in certi casi addirittura geniale.
Almeno è così che la descriverei se dovessi fare io il depliant.
«Così questa sarebbe la sua idea di uno "spuntino alla buona"?» domando al Governatore, mentre il cameriere ci serve un'altra portata. Difficile capire di cosa si tratta, dato che sembra più un dipinto astratto che qualcosa da mangiare. Comunque so già che sarà delizioso.
«Spero sia tutto di suo gradimento».
«Direi. È un vero peccato che un locale così buono sia vuoto.

A parte noi quattro, voglio dire».
Il Governatore si mette a ridere.
«Se lei prenotasse un tavolo oggi, potrebbe sperare di cenare qui forse a Natale. E dico forse. Oggi ci siamo solo noi perché è il giorno di chiusura settimanale».
Guardo il padrone del locale, che sta celebrando la cerimonia dell' assaggio di una bottiglia di vino che dall' aspetto deve avere almeno cinquant'anni. Quello che stiamo bevendo al momento, invece, è uno Chateau Latour-Martillac del 1983. «Seecondo gli esperti è stata forse la miglior annata di questo Bordeeaux» traduce Mayer dal tedesco del sommelier, che mi sembra abbia intonazioni di rispetto quasi liturgico.
«Così anche nel verde Mittelmark si fanno gli strappi alla regola» butto lì, non senza cattiveria.
«Assolutamente no. Il locale verrà multato per l'apertura irregolare. Solo che la multa la pagherò io».
«Ah».
"Del resto un' osservanza assoluta delle regole sarebbe così noiosa, no? Tu che ne pensi, Enrica?».
"Be', noi non ci annoiamo di sicuro. Dalle nostre parti le regole non le rispetta più nessuno».
«E anche questo non va bene» scuote la testa Mayer.
«A proposito di noia,» dico «la sua città mi è sembrata persino troppo bella per essere vera».
«Detto da lei e detto così non so se è un complimento». «SÌ e no. C'è una cosa che vorrei chiederle».
«Prego».
«Per strada, in città, oggi non ho visto neanche una persona
che non fosse, come dire ... ?». «SÌ?».
«Insomma, non ho visto nemmeno una persona di colore». «Sono sicuro che è per puro caso. L'anno scorso abbiamo avuto più di ventimila turisti dal Giappone. Solo per fare un esempio».
«Non mi riferivo a quello. Voglio dire, non mi sembra normale non vedere gente di colore per strada. Non turisti, intendo dire. Gente che vive in città, o che ci lavora. Venditori di kebab, tanto per dirne una».
Mayer storce la bocca. «Non mi dirà che le piace il kebab». «Perché no?».
«È una fortuna che il cuoco non parli italiano. Comunque ho capito dove vuole arrivare. Vede, il fatto è che la mia idea in materia di razze è molto semplice. Tanto che è incredibile vedere come sia stata fraintesa. C'è addirittura chi dice che sono un razzista».
«Non mi dica».
«In realtà io credo che tutti gli uomini nascano uguali, e che la razza non deve essere un elemento, come si dice ... ?». «Penalizzante?» suggerisce la Martinelli.
«fa. Penalizzante, sì. Non dev'essere penalizzante per nessuno. Noi popoli di lingua e cultura germanica paghiamo il peso dei nostri errori del passato, e non vogliamo certo ripeterli». «Quindi lei non è razzista?».
«Assolutamente no».
«E quindi chiunque, di qualsiasi razza o credo politico, può venire ad abitare nel suo Land, ed è il benvenuto». «Assolutamente sì».
«Allora com'è che in giro si vedono solo facce ariane?».
L'ultima parola la deve aver capita anche il padrone del locaale. La bottiglia che ha in mano sussulta, e una goccia di vino macchia il tovagliolo in cui l'ha avvolta con amore paterno.
Mayer è un grande incassatore.
«Ariano» sorride «è una parola del passato. Oggi la differenza fra i popoli è questione d'altro. Religione. Cultura. Lei ha letto Kampfder Kulturen, di Samuel Huntington? Com'è il'titolo italiano, Enrica?».

«Scontro di civiltà».
«Scontro di civiltà. Giusto. La questione è proprio questa.
Chiunque può stabilirsi in questo Land, a patto che rispetti i principi fondamentali della nostra civiltà. Le faccio un esempio. Lei che dice di amare il kebab dovrebbe apprezzarlo».
«Sentiamo».
«Quando il mio partito ha vinto le elezioni, sei anni fa, a Salzfurt c'erano otto ristoranti cinesi. Otto. L'anno prima erano cinque. Secondo lei quanti ce ne sono, adesso?».
Ma non attende la mia risposta. «Non ce n'è più neanche uno» annuncia. «Ma non perché li abbiamo bruciati o abbiamo allontanato i gestori».
«Ah no? E allora chi l'ha fatto?».
«Nessuno. È bastato applicare le leggi e i regolamenti in materia sanitaria. Controllare rigorosamente i documenti e il libretto sanitario degli inservienti. Verificare che i locali fossero a norma di sicurezza e di igiene».
«Ah be',» fa la Martinelli «cos1 da noi dovrebbero chiudere tutti. Non che io vada a mangiare dai cinesi, ben s'intende». <<Abbiamo solo verificato che quella gente lavorasse con gli stessi requisiti di igiene e sicurezza dei nostri locali».
«E nessuno ha superato il test. Lo stesso, immagino, è successo ai venditori di kebab».
«Certo. Come dite voi, abbiamo usato un solo metro e una . sola misura».
«Ne è proprio sicuro?».
A questo punto interviene Segaluzza, che non ha pronunciato una sola parola durante tutto il pranzo.
«Basta cos1, Mendini. Lei sta offendendo il Governatore». «No, no. Lo lasci parlare. È interessante un punto di vista diverso, di tanto in tanto».
Scrollo le spalle. «Non è che io abbia molto da dire».
«Avrei giurato di si. Quello che trovo curioso, Enrica, è il fatto che tu abbia deciso di affidare una campagna cos1 delicata a questo signore dalle idee, come dire, un po' divergenti rispetto alle tue. O hai cambiato idee anche tu, ultimamente?».
L'assessore arrossisce. «Sai come dice quel proverbio di Mao, che non gli interessava se il gatto era nero o grigio, bastava che prendesse i topi?».
Il Governatore sorride. «Guarda che non l'ha detto Mao. Era la frase preferita di Deng Xiaoping».
Visto?, vorrei dirle.
«Lo so perché l'ho conosciuto, Deng» aggiunge Mayer. «Nel '94, nel mio secondo viaggio in Cina. La ripeteva in continuazione, come un disco rotto. Comunque, a voler essere pignoli, la frase in origine era di Confucio, e Deng parlava di un gatto nero e di uno bianco. Non grigio».
Mayer mi guarda. E poi continua a guardarmi. Con gli occhi socchiusi, mastica a vuoto un boccone che non c'è.
La Martinelli non mostra di essersi offesa per la correzione. l'ira avanti come se niente fosse. «Comunque sono andata in cerca di uno bravo. Uno che nel suo mestiere fosse una garanzia. Anche se aveva idee diverse dalle mie, e le ha diverse, come ci ha appena dimostrato».
«Continuo a pensare che non sia un colpo di genio» scuote la testa Mayer. Il sorriso gli è rimasto sulle labbra, ma come il manifesto di un film tolto dalla programmazione.
Da qui in poi il pranzo prende una piega sepolcrale. Scambi di cortesie, commenti educati sul cibo, ma di cinesi o negri neanche l'ombra, nella nostra educata conversazione.
Mi accorgo anche che quando l'oste mesce il vino a me ne versa sempre un dito in meno che agli altri tre commensali. Segaluzza sembra godersela un sacco.
Fra il dolce e il caffè ho finalmente l'occasione per parlare a quattr'occhi con la Martinelli.
«Usciamo un attimo in cortile, vuoi?» mi fa.

«No. Ho studiato tedesco. E un po' di francese. Parlando di cose più serie ... ».
«Sono proto».
Lei mi fissa. I suoi occhi hanno il colore del Mare del Nord
In  un giorno di sole incerto. «Parlo prima io?» fa. «Certo».
«Allora ti dico subito che non mi è piaciuto quello che hai detto lì dentro. Hai messo in imbarazzo me e il Governatore.  quello che mi dispiace è che hai approfittato della sua disponibilità».
«Cosa vuoi dire?».
«Che lui si è dimostrato molto amichevole nei tuoi confronti, e tu l'hai ricambiato dandogli praticamente del razzista».
Alzo le spalle. «Pensavo ci fosse abituato». «Oltretutto mi hai fatto fare una brutta figura». «A me pare che te la sia cavata benissimo». «Oh, ma sta' zitto, per l'amor del cielo».
Degli uccelli molto grandi e dall'aria non troppo amichevole girano in tondo sulle nostre teste. O, a voler essere meno paranoici, sui tetti del castello.
La Martinelli è incazzata di brutto. «Sei venuto fin qui solo per offendere, o volevi parlarmi di qualcosa?».
«Sono venuto per parlare, ma non mi è dispiaciuto offendere. Sono venuto a parlare del mio lavoro. E del lavoro della Squadra».
L'assessore, suo malgrado, si mette a ridere. «Severino mi ha già detto tutto. Della riunione. E della visita al museo. Cosa c'è stato, l'ammutinamento del Bounty?».
«Più sul genere rivoluzione francese».
«Razza di ingrati. È un anno che mangiano alle mie spalle.
Alle spalle di questo progetto. Credi che mi abbiano mai detto che qualcosa non andava?».
Uscendo vedo dove hanno mangiato gli altri partecipanti all'amena comitiva. I due autisti veri e le guardie del corpo sono seduti sotto una pergola di vite, a una tavola imbandita con piatti che a prima vista sembrano molto più semplici di quelli che sono stati serviti a noi. Niente bottiglie di alcolici, in vista. Le guardie del corpo mi prendono le misure con gli occhi, mentre passo loro accanto. Prendono le misure anche alla Martinelli, ma con un occhio diverso.
L'assessore si appoggia al muretto, e io la imito. La vista del lago è incantevole. La stessa brezza che imbianca la cresta delle onde scherza coi suoi capelli. È uno di quei momenti perfetti che si vorrebbe non finissero mai. lo sono sempre stato un grande ammiratore delle donne. E questa donna fornisce più di un motivo per essere ammirata.
«Ecco ci qua» scherzo. «Nel vivace e vergine Nord. We happy few. Fra vino, donne e canti. Anche se i canti ancora non ci sono stati, immagino che non mancheranno. Il repertorio mi sa che lo conosco già. Horst Wessel Lied. Judenblut soli spritzen ... ».
«Guarda che non sei spiritoso. E se ti sentono c'è anche il rischio che si arrabbino. E poi com'è che hai detto, scusa?». «Cosa? Horst Wessel LietR».
«No. Quell' altra cosa che hai detto. We happy qualcosa. Cosa vuoI dire?».
«We happy few? Noi pochi fortunati. È una citazione da Shakespeare. We few, we happy few, we band o/ brothers. Dall' Ennrico V. Pensavo che conoscessi l'inglese».
«Immagino che la risposta sia no». «Quei parassiti».
«Pensavo che qualcuno ti avesse riferito sullo stato reale dei lavori. Non so, per esempio Segaluzza ... ».
«Severino è stato contrario al progetto fin dall'inizio. Mi ha aiutato solo per fedeltà personale. Non ne ha mai parlato bene. Un suo giudizio negativo non mi avrebbe convinta. Ma adesso dimmi la verità: il progetto va proprio così male?».
«Ho un amico americano che ti risponderebbe: i progetti del Titanic erano proprio così male?».
«Ma sÌ».

«Quindi posso cambiare tutto quello che mi sembra non vada? Cose, luoghi, persone?». «Certo».
«Potrebbe essere costoso».
«I soldi non sono un problema. Parlane con Severino. Adesso possiamo rientrare?».
L'ombra di una nuvola passa sul lago. Sembra che ci siano dieci gradi in meno.
«Poi ci sarebbe un' altra cosa di cui volevo parlarti» dico. «La questione del contratto».
Sospira. «Quale questione?».
«Mi dicono che secondo le clausole del contratto la Regione mi pagherà solo se sarà soddisfatto l'assessore alla cultura. Cioè tu. È vero?».
«Non so».
«La risposta che mi aspetto è un sì o un no. Non so non mi basta».
«Ma sì, forse la clausola c'è, ma non ha nessuna importanza.
È una questione di fiducia. Se ti ho detto che verrai pagato verrai pagato, sta' tranquillo».
«Indipendentemente dal successo del progetto?». «Certo».
«Volete rientrare proprio adesso che comincia lo spettacolo?» tuona la voce del Governatore, alle nostre spalle.
Mayer si avvicina al muretto. Dietro di lui c'è una delle guardie del corpo e, ancora un passo più indietro, l'oste che regge fra le mani una zuppiera di metallo.
«Cosa stavate facendo, qui, i piccioncini? Tuut tuut tuut» tuuba. «Eh no, mia bella Enrica, sai che sono un uomo geloso».
Schiocca le dita della destra. La guardia toglie da una sacca un guanto di cuoio. Con un'attenzione esagerata lo infila sulla mano sollevata del Governatore. Il guanto inghiotte la mano, e poi l'intero avambraccio. Mayer tende la mano guantata verso l'oste.
«Lo spettacolo ha inizio» annuncia, sollevando il coperchio dalla zuppiera.

* * *

Okay.
Un bel respiro profondo. «Un'altra cosa» faccio. «Dopo hai finito?».
«Sì. L'ultima cosa che devo chiederti è se in questa faccenda ho davvero carta bianca».
Nessun uomo politico si farà mai riprendere mentre dà da mangiare a dei falchi. Se non è un idiota masochista. Non lo vorreste più, credetemi. lo perlomeno non lo voterei. Sarà qualcosa che ha a che fare col vedere uno felice di infilare le dita in un ammasso di carne sanguinolenta e poi levarle al cielo perché un rapace scenda in picchiata a mangiare dalla sua mano. Credetemi, non è uno spettacolo per anime sensibili. Eppure tutti, :l eccezione del sottoscritto e, a onor del vero, anche di Segaluzza, sembrano divertirsi un sacco a vedere il pasto di quegli uccelli assassini. A un certo punto la Martinelli chiede addirittura a Mayer se può provare anche lei.
Il Governatore scuote la testa. Dice che gli uccelli non la conoscono. «E poi è una cosa da uomini».
Quando, dopo un interminabile quarto d'ora, la «cosa da uomini» è finita, Mayer si toglie il guanto insanguinato e lo butta per terra. Mentre ci allontaniamo, l'oste si china a raccoglierlo.
Ma il Governatore non raccoglie la battuta. Sembra turbato da qualcosa.

* * *

Ovviamente la stazione è linda e pulita. Niente mendicanti, zingari, bancarelle di ambulanti e tutto il rimanente arredo Umano che affolla le stazioni dalle nostre parti. È più piccola di come me l'aspettavo, ma il Governatore, forse leggendo mi nel pensiero, mi fa presente che non è la stazione principale ma solo la terza, in ordine d'importanza, delle quattro cittadine.

Camminiamo fino alla banchina del mio treno, che non è .1l1cora arrivato.
Il cartellone a lettere mobili dice:
ABFAHRT 18:10, ANKUNFT 22:10. Mancano ancora quaranta minuti all'Abfahrt, che dal contesto immagino sia la partenza. Quattro ore di viaggio, se l'Ankunft è l'arrivo. Niente male.
La Martinelli non mi ha accompagnato. Lei e Segaluzza sono andati alloro albergo, per prepararsi a una cena di gala offerta dall'università locale.
Uno degli accoliti di Mayer va alla biglietteria a prenotarmi il posto. Quando mi dà il biglietto mi viene da ridere.
«Non ci posso credere!» dico al Governatore. «Il biglietto è di prima classe fino alla frontiera e di seconda da Tarvisio in più».
«Già».
«Devo leggerci un messaggio?». «Perché no?».
Sporge la mano in fuori a palmo in alto, ma stavolta nessuno ci infìla su un guanto da falconiere. Invece uno dei suoi assistenti, guardie del corpo o cosa diavolo sono, gli porge due pacchetti avvolti in carta da regalo e una piccola pila di libri. Mayer mi consegna il tutto, con un leggero cenno del capo. «[I gioco di costruzioni per suo figlio, e la bambola per la sua bambina. Il gioco era a posto. Ho fatto solo rifare il pacchetto.

* * *

Ci servono il caffè. Compreso il pasto delle belve, il pranzo è durato tre ore. Mi chiedo se questa gente non ha niente di meglio da fare.
Dopo il caffè beviamo una vodka speciale.
«Dono del presidente Putin» gigioneggia Mayer, un po' su di giri.
«Pensavo che lei non se la facesse con i rossi».
«Putin non è più rosso di me, gliel'assicuro. Allora, se non ricordo male lei vuole tornare a casa oggi. Non le piace la mia Città. ».
«No, è che non voglio darle altro disturbo. Già mi ha offerto il pranzo».
Mayer sembra stupito. «Offerto? Chi l'ha detto? Avevo capito che pagava lei».
Poi vedendo la mia espressione si mette a ridere. «Scherzavo!
È uno scherzo! Lei è mio ospite. Se vuole fermarsi per stanotte e tornare a casa domani, le troviamo anche un albergo. Offre il nostro Land. Casi ne parlerà bene, quando torna nel suo cantone di Boezia».
«Dove?» domando, senza capire.
Intercetto uno scambio di sguardi quasi allarmati, o casi mi pare, fra Mayer e la Martinelli, che scuote nervosa la testa. Il Governatore è rapido a cambiare discorso. «C'è un treno che parte tra meno di un'ora. Se vuole può prendere quello. L'accompagnamo noi in stazione».
«Grazie. Magari non prendo proprio tutto il treno. Mi basta un posto solo. A meno che non paghi il suo Land».
Per la bambola invece mi sono permesso di sostituirla con una più bella. Spero non si offenda».
«Dipende. Purché non sia un bambolotto della Hitlerjuugend».
Mayer inclina la testa, come se cercasse il mio profilo migliore. «Niente Hitlerjugend» sorride.
«Grazie, allora».
«Visto che il viaggio è lungo, le lascio anche qualcosa da leggere».
«Grazie. È materiale che può passare tranquillamente la frontiera?».
«Non mi interrompa. Lei è come il bambino che nel cortile dell'asilo è capitato nell'angolo dei bambini più grandi».

Immagino che gli sia successo qualcosa di terribile. Magari è diventato Hans Albert Mayer.
«Spero che lei si renda conto che quello che le è stato affidato Ilon è solo un lavoro. È una missione».
Mi aspetto che ora mi dica qual è questa missione.
«Sarà meglio per lei che impari a stare al gioco» conclude invece, deludendomi un po'.
Mayer si volta. Si allontana senza dire più una parola. I suoi accoliti lo imitano, tranne uno, con ray-ban a specchio, che si volta a farmi ciao ciao con la manina, e poi con l'indice e il pollice della stessa mano mi fa il segno di una pistola che spara.
Mia madre mi ha sempre rimproverato di non capire quand'è il momento di smetterla. Adesso, per esempio, quel momento dev' essere già passato, perché Mayer mi punta l'indice contro il petto. Il dito si ferma a un millimetro esatto dalla mia camicia, e sembra che al Governatore serva una forza sovrumana per trattenerlo Il, come una pallottola in stop motion del film Matrix. La voce del Governatore è leggermente incrinata, come se nelle sue buone maniere si stesse aprendo una crepa. Attraverso la stessa crepa riemerge anche il suo accento tedesco.
«Lei crede di essere il più intelligente» scandisce. «Si sente superiore a noi. Magari anche al lavoro che sta facendo. Bene, mi stia a sentire. lo non so chi è lei. Come non capisco perché Enrica l'ha assunta. Questa è una cosa di cui comunque mi riprometto di parlarle prima che torni in Italia. Quello che adesso voglio dirle è che dovrebbe considerare con più attenzione la sua posizione. Il lavoro che sta facendo la sta portando a conoscere cose delicate. Cose che richiedono serietà e fedeltà. Lei non mi sembra né serio né fedele. Sicuramente non è intelligente, se viene a darmi fastidio a casa mia. A pisciare nel mio territorio, se mi consente la metafora».
«Prego».

* * *

Per la prima ora guardo il paesaggio scorrere fuori dal finestrino. Più che altro per controllare che il treno non vada a Est. Il mio scompartimento è deserto. Tutto il vagone sembra deserto.
Il display del telefono ripete: SOLO EMERGENZA. NESSUNA RETE DISPONIBILE. La batteria è quasi a zero.
Il paesaggio si compone e ricompone in tante immagini diverse, però fatte degli stessi materiali: pini, sponda di un lago, casette dal!' aria linda, montagne. Come in un gioco di costruzioni.
Al sessantaquattresimo minuto di viaggio apro uno dei libri di Mayer. È scritto in tedesco. Poi, sfogliandolo, vedo che in fondo il testo è tradotto anche in inglese, francese, spagnolo e italiano. La traduzione in italiano è buona, sicuramente non ci troverò gli errori esilaranti di certe guide turistiche, che per la verità mi tirerebbero su di morale.
Il libro riassume il programma elettorale del Governatore per le elezioni di cinque anni fa, quando il suo partito, il Fronte Federale Nazionale, ha conquistato il venticinque per cento dei seggi al parlamento austriaco.

Lo metto da parte e prendo su un altro libro di grande formato, stampato su carta patinata. Questo è tutto in tedesco, ma non c'è bisogno di leggere il testo per capire il messaggio delle immagini.
La prima sezione del libro illustra i primi anni di Hans Albert Mayer. Allettare viene risparmiata solo la classica foto del pupo nudo sulla pelle d'orso. Per il resto c'è tutto: le foto dei nonni materni e paterni, il papà reduce dell' esercito, la foto di gruppo del primo giorno di scuola, la consegna dei diplomi, la cerimonia della laurea.

La seconda sezione potrebbe portare il titolo La mia battaglia, se qualcuno non l'avesse già usato: foto di Hans che distribuisce volantini fuori da una scuola; della prima, indecorosa, sede del Fronte; della prima pagina del giornale del partito. Delle fatidiche elezioni che l'hanno consacrato come astro nascente e ago della bilancia della politica nazionale.
La terza sezione è quella del successo raggiunto: foto di Mayer con sua moglie, con i due bambini, a braccetto con Putin e Clinton, a colloquio con i due Bush e - sl - anche con Deng. In una delle foto con Clinton, scattata a Camp David, porta effettivamente un giubbotto come il mio. Solo che a lui sta molto meglio. lo in jeans e giubbotto sembro un militare in borghese, mentre lui dà l'idea di poter indossare con eleganza qualsiasi cosa.
Lo stronzo.
Peccato non ci sia una foto di Hans Albert Mayer che nutre i suoi uccellini.

* * *

«Sono papà». «Mamma, è papà».
«Passami mamma. Sei stata brava?».
«51, sono stata brava. Tu cosa mi hai portato?». «Un regalo».
che regalo?». «Quando sono a casa lo vedi». «La bambola con gli zoccoli?».
Apro la porta di collegamento con l'altro vagone, che in effetti è di seconda classe, e delle ferrovie italiane. Il contrasto col vagone austriaco da cui vengo è incredibile. In quel momento 111 ia moglie prende su il telefono in camera.
«Gaia, metti giù> fa.
«Ma volevo sapere se il papà mi ha preso la bambola». «Lo vedrai quando torna a casa. Ciao, Alberto». «Ciao».
«Dove sei?».
«Sul treno. Siamo quasi a Tarvisio».
«Non mi hai chiamato per tutto il giorno». «Il cellulare non funzionava».
«Lo so. E non c'era neanche un telefono a gettoni?».
«Non mi è venuto in mente. È una vita che non telefono da una cabina».
Marta sbuffa. Sbuffo anch'io.
«Come va Il?>> le chiedo. «Tutto bene?».
«51, a parte che Malgorzata ha approfittato della tua assenza per chiedere un altro aumento».
«Un altro? È il terzo quest'anno!».
«Il quarto. Dice che o così o metterla in regola». «Ah».
«E tu? Com'è andata la gita in Austria?».
«Gita? Al confronto la Via Crucis era una passeggiata de salute, come dicono a Roma».
Poco prima del confine finalmente il display del mio cellulare riprende vita. Mentre mi sposto lungo la carrozza cercando uno scompartimento di seconda classe, provo a chiamare casa. «Ciao, Gaia».
«Chi è?».
«Ma almeno è servita a qualcosa? Hai chiarito quello che
c'era da chiarire?».
«Sì. Scusami, ma il telefono è quasi scarico». «Quando arrivi?».
«Se il treno è in orario arrivo lì alle dieci e dieci».
«Va bene. Ti lascio qualcosa da scaldare al micro. Ah, senti, ha chiamato due volte una della Regione. Una sciroccata che voleva il tuo numero di cellulare. Le ho detto di no».
«Non ha lasciato il nome?».

«No. È per questo che dico che è una sciroccata. O una maleducata. O tutte due. Fa' un po' tu». «Allora ci vediamo».
«Okay».
«Ciao, amore». «Ciao».
Come dice la canzone.

12 Come dice la canzone

Come dice la canzone Fields 0ICold, «non ho mai fatto promesse alla leggera».
«Anche se alcune non le ho mantenute» precisa la strofa successiva.
Gaia guarda con una smorfia la bambola. «Ha il braccio rotto» si lagna.
Me ne sono accorto. Vorrei dire a Malgorzata di fermarsi e di non aprire il pacchetto di Matteo, ma ormai è fatta. La scatola del Lego è apparentemente integra, ma sopra c'è l'impronta di una scarpa numero quarantasei. Risulta che lo scivolo è rotto, e anche la testa di Tigro. Matteo scoppia a piangere.
La scena di festa si tramuta in tragedia nel breve volgere di un minuto. Il divano del salotto ospita più dolore e indignazione infantile di quanta mi sarei mai aspettato di vedere in casa mia. Anche il pesce Ignazio mi fissa con uno sguardo di disapprovazione, ingrandito dalla convessità della vasca.
Promemoria mentale: ricordarsi di scrivere una lettera di ringraziamento a Hans Albert Mayer.
Il suono dei bambini in lutto ha richiamato Marta dalla sua cripta. Quando lavora alla sua tesi ha il vizio di infilarsi le mani fra i capelli e spostarli come mucchi di fieno. Perciò quando entra nel salotto ha la chioma irta come quella della Medusa, o della moglie di F rankenstein.
«Cos'è successo?».
«Papà ci ha portato i regali rotti» singhiozza Matteo.
Il disintegrato re alieno punta su di me. «Cos'è successo?» ripete, e suona come che cazzo è successo?
«Non lo so. Forse si sono rovinati nel viaggio».
«Ma i pacchetti non erano sciupati» precisa Malgorzata. Promemoria mentale: ricordarsi di strozzare Malgorzata. «Allora?».
«Allora niente. È una lunga storia. Dai, calmatevi» imploro
i miei bambini. <Li porto a comprare quello che volete ... ». «Dove li porti?».
«Da Mondogiochi».
«Adesso?».
«Adesso vado a lavorare. Stasera, quando torno a casa».
«Quanto costa l'astronave?». Prendo su la scatola. La giro. «Settanta euro e quarantanove». «È tanto, vero?».
«Sì».

* * *

«Cosa si può prendere invece, con quei soldi?».
«Vuoi dire cose tipo vestiti, o cose da mangiare? Un sacco.
Possiamo mangiare per due giorni. O fare un pieno di benzina della macchina. Be', non proprio il pieno ... ».
«Nooo. Volevo dire cosa si può prendere come giocattoli». <Vuoi che diamo un'occhiata in giro?».
«SÌ».
«Guarda, con questi soldi puoi prender ti un Game Boy con un glOCO».

«Non mi piace il Game Boy. Sono troppo piccolo». «Allora questo. Ti piace, questo?».
«Cos'è?».
«Sono barre magnetiche. Vedi: le unisci e puoi costruire un io creo. O la torre Eiffeh>.
Matteo mostra uno sguardo di benevolo disinteresse. «Non ti piace?» domando.
«Non tanto».
«Vuoi l'astronave?».
«Mi piacerebbe. Ma costa troppo».
«Se ti piace la prendiamo. Magari vediamo prima cosa fa?». Gaia, tempestivamente ricomparsa, sbuffa e spara di un fiato: «Dieci trasformazioni, con tre diversi effetti speciali. Vola coi Capitani dello Spazio e combatti per la salvezza della Galassia. Batterie non incluse».
Mondogiochi è al piano terra della Rinascente, pur essendo un negozio autonomo. Per un bambino è un posto molto vicino al paradiso. Matteo sgrana gli occhi appena entrato, perché su un espositore alto due metri ci sono i gadget di Capitani dello Spazio, l'ultima serie di cartoni animati giapponesi.
«Fammi scendere, papi» mi implora, con la stessa voce di quando dieci minuti fa mi ha supplicato di prenderlo in braccio. Corre verso l'espositore e comincia a guardare tutti i giocattoli. Mio figlio ha questa tecnica: non tocca niente. Si piazza davanti ai prodotti e li studia tutti, anche per dei minuti. Poi ne prende uno - uno solo - ed è quello che vuole.
Malgorzata si danna a rincorrere Gaia lungo gli scaffali del reparto bambine. Perché in questo negozio la mia posata, seria e a volte ipercaustica primogenita ripercorre all'indietro le tappe dello sviluppo e torna la bambina che è.
Lo stile di Gaia è l'opposto di quello del fratello. Tocca tutto, prova tutto. Poi magari decide che non le interessa niente, e quello che compra è quindi solo un inadeguato e insoddisfacente risarcimento per la sua delusione.
Le dita di Matteo frusciano sulla gamba del mio pantalone. «Papà» fa a bassa voce.
«Sì?».
Promemoria mentale:
1) segnalare la pubblicità al Telefono Azzurro;
2) scoprire l'agenzia pubblicitaria che l'ha ideata;
3) assumere il creativo dell'agenzia che ha seguito la campagna;
4) licenziarlo il giorno dopo.
"No. Non sono tutti uguali. Cambia il nome. Per la ditta è importante sapere quali nomi vanno di più».
«Mi sta dicendo che ognuno di questi orsetti ha un codice suo?».
La commessa mi guarda con l'aria di chiedersi ma che cazzo vuole questo qui?
"Dammi Giovannino» faccio a Matteo. "No».
"Deve solo passarlo su quel lettore Il, vedi? Come quello della Coop».
"Ma gli farà male?». «Assolutamente no».
«Non è come il vaccino, che mi avete detto non faceva male l' poi invece la signora mi ha bucato il braccio?».
«No, Matt. Non è come il vaccino. Dammi l'orsetto». «Gliela do io» dice, e si alza in punta di piedi per vedere cosa gli fanno.
«Te lo incarto?» domanda la stronza.
Matteo scuote la testa. Appena la commessa allunga il peluuche oltre il lettore di codici a barre mio figlio lo afferra e se lo stringe di nuovo al petto.
"Prendiamo anche questo» faccio, posando sulla cassa l'astroonave. «Poi c'è mia figlia che credo sarà qui fra un momento».

"Vuole che le faccio questa battuta intanto?». "Faccia questa battuta».
«Mi hai sentito, papà?,). «Cosa?».
«Ho detto che mi piace anche quello».
Quello è un bambolotto di peluche. Neanche un Trudi, o di qualche altra marca famosa. È un orsetto con una maglia blu con sopra il nome Giovanni. È appeso a una rastrelliera girevole con decine di altri bambolotti identici.
«Sei sicuro?». <,Mi piace».
«Guarda, ce n'è anche uno col tuo nome. Vedi? "Matteo"». «Ma a me piace lui. Come si chiama, lui?».
«Giovanni».
«Bello. A Calimerino piacerà molto. Lo chiamerà Giovannino».
«Chi è Calimerino?».
«È il mio orso. Voleva un bambino, e adesso gliel'ho trovato». Stacco l'orsetto dalla rastrelliera. Tre euro e novantacinque. «Sei sicuro?» insisto.
«51, papà. Me lo compri?». «Certo».
Ovviamente, sull' onda di un senso di colpa del tutto personale e non cedibile, gli compro pure l'astronave, anche se a questo punto non gli interessa più. Si stringe al petto Giovannino, e non vuole neanche passarlo alla commessa per la lettura magnetica del prezzo.
«Sono tre euro e novantacinque» le dico.
«51, ma deve passarmelo lo stesso. Per lo scarico dal magazzino».

* * *

Matteo fa segno di no con la testa.

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