venerdì 13 gennaio 2012

avoledo 2 libro romanzo

«Senta, non può passare un altro orsetto sotto il lettore? Sono tutti uguali».
Aspettiamo Gaia e Malgorzata vicino allo scaffale delle videocassette. Matteo mi tira per la manica.
«51?» faccio, chinandomi su di lui.
«Papà,» sussurra «perché la signora ha detto che diceva una battuta e poi invece non l'ha detta?».
Sorrido, ma cercando di non farlo vedere. Mio figlio è molto sensibile. «Non ha detto che diceva una battuta. Ha detto che faceva una battuta. È un' altra cosa. Ci sono delle parole che vogliono dire due cose diverse».
«Ah si, ho capito. Gaia me l'ha spiegato. È come quando al telefono mamma dice amore ma non lo dice a te. Vuol dire una cosa diversa».
Gaia arriva in quel momento, carica di pacchi.
«Ho cercato di fermarla» si scusa Malgorzata, sapendo benissimo che non le credo, e quindi non mettendo troppo entusiasmo nella sua bugia.
«Guarda, papi, ho trovato il cavallo della Tanya. E i vestiti di Barbie».
Per un po' (circa un anno) le due bambole si sono contese il cuore di mia figlia, che poi ha saggiamente deciso di farle sue favorite ex aequo. La decisione ha accontentato le due bambole, ma dal punto di vista economico si è rivelata fatale per le finanze di famiglia, dovendo pagare non una ma due linee di vestiti e accessori. Adesso temo che un giorno mia figlia venga a dirmi che Barbie deve pagare l'assicurazione, o accendere un mutuo in banca per la seconda casa.
Se Matteo fosse più grande mi rivolgerei a lui per un cenno di solidarietà maschile.
«Non hai un pochi no esagerato?» domando a mia figlia, contando mentalmente i pacchetti e ipotizzando un possibile totale. «Dopo la delusione della bambola?».
Ah. Touché.

13 A casa

A casa però Marta non c'è. I bambini si precipitano in salotto per aprire le scatole col solito stile da lupi mannari, iniziando con movimenti frenetici il processo di lavorazione che trasformerà trecento e passa euro di pacchi in brandelli di carta colorala, imballaggi e cartoni da buttare nella raccolta differenziata e pezzi di plastica il cui costo di produzione, nel complesso, immagino non arrivi ai dieci euro.
È un' osservazione che potrebbe applicarsi a molti aspetti della vita.
Mentre loro disfano e Malgorzata s'infila in bagno, io batto la casa alla ricerca di un biglietto di mia moglie, o di un qualsiasi altro indizio su dove sia andata.
Niente.
Provo la porta del bagno. Non è chiusa a chiave. Malgorzata si sta tirando su le mutandine. Mi guarda indignata.
«È matto? Chiuda la porta» sibila.
Entro e chiudo a chiave la porta alle mie spalle.

* * *

Il conto è anche più salato delle mie peggiori aspettative. 011tre tutto poi dovrò sorbirmi la ramanzina di Marta, a casa.
È qui che le ho domandato: «Come si dice fammi un pompino polacco?».
Stava lavando a mano una camicia. Avevo appena mangiato lo, cena che mi aveva preparato. Le ero andato vicino. Stava china, in ginocchio, davanti alla vasca da bagno. Strofinava la camicia con un pezzo di sapone da bucato. A cena, da solo, avevo bevuto quasi una bottiglia di vino. Abbiamo tutti bisogno di qualche attenuante.
«Come si dice fammi un pompino in polacco?» ho domandato. Marta era con Gaia da sua mamma; la seconda gravidanza l'affaticava molto.
Non era previsto che Malgorzata rimanesse da sola in casa con me.
Era rimasta per lavarmi le camicie. Aveva fatto tardi per prepararmi la cena.
Hai presente i film dell' orrore, quelli in cui l'uomo che si trasformerà in lupo mannaro prega i suoi amici di legarlo, di chiuderlo a chiave? Di non lasciarlo libero, per l'amar di Dio, «anche se dovessi gridare, anche se dovessi implorarvi».
È diventata rossa. Si è voltata verso la vasca. Ha detto qualcosa sottovoce, che non ho capito. «Cosa hai detto?».
«Le ho risposto». dice così?».
«Non sono sicura. Non è una parola che ho sentito molto». lo mi sono avvicinato ancora di più. Le ho accarezzato i capelli. Con l'altra mano mi sono abbassato la cerniera dei calzoni. «Non l'avevo mai neanche detta prima» si è come scusata.
Poi con gentilezza ha spostato la mia mano dalla patta e ha richiuso la cerniera lampo.
«E comunque io non le faccio, queste cose».
È un bagno cieco. Non può scappare.
«Apra la porta, per favore». «Devo parlarti».
«Parlarmi di cosa?».
«Lo sai benissimo».
«Apra la porta. Non sia stupido». «Devo parlarti dell' aumento» faccio.
Lei si ferma proprio davanti a me, col naso a cinque centimetri dal mio.
Di punto in bianco si mette a ridere.

«È di questo che vuole parlarmi? Dell' aumento che ho chiesto.
Sembra incredula.
«Certo. Non puoi continuare casi. Prima o poi Marta dirà di licenziarti».
«Oh, come sempre. Però poi il signor marito dice sempre perché non dirle di sì", e l'aumento arriva».
«Non è proprio cosi».
«Ah, ma a me piacciono le favole. Soprattutto quelle con lieto fìne».
«Guarda che stai esagerando».

* * *

Malgorzata non ride più. Fa gli occhi furbi. «Davvero?» dice con voce talmente bassa che forse il tono di minaccia lo immagino basta. «Apra la porta. Sennò grido».
Sto per dirle di no, quando qualcuno bussa. «Papà, sei qui?».
Malgorzata mi guarda. Ci pensa su, stringendo le labbra. indica il box della doccia.
Mi infilo dentro al volo. Lei tira la tenda. «Arrivo, Gaia» dice.
Il rumore della chiave nella serratura. «Cosa c'è?».
«È matto?».
«La signora non c'è».
«Ci sono i bambini. Gaia ha sei anni e non è stupida». Malgorzata si rassetta la gonna. Si liscia il maglioncino di pelo
di coniglio. Con tutti i soldi che le diamo potrebbe vestirsi meglio, brontola sempre mia moglie. La gente queste cose le guarda.
Questo è il bagno di servizio. Non è grande neanche un quarto dell' altro, e in più c'è la lavasciuga che riduce lo spazio libero a meno di un metro quadro.
«Sto cercando papà. Deve montarmi la stalla di Bo». «Chi è Bo?».
«Cos'è, non chi è. Bo è il pony di Tanya. Dov'è papà?». «Sarà in camera sua».
«No, non c'è. Non è da nessuna parte».
«Oh, bella. Allora andiamo a cercarlo insieme, vuoi?».
Dirgli di nuovo, e nel processo le decalcomanie si strappano, e insomma fanno tutti i dispetti possibili per delle dee. La presenza sul divano di Malgorzata non mi facilita la concentrazione. Spesso mi trovo ad alzare gli occhi verso di lei e quella sua faccia alla «chi, io?». Non mi è facile lavorare in queste condizioni.
«Dopo mi aiuti a montare l'astronave?» domanda Matteo. «È da montare anche quella?».
«SÌ».
Una pausa. Anche senza vederla so che mia figlia si sta guardando intorno. Sento il suo sguardo a raggi X perlustrare la stanza. È una caratteristica che ha ereditato da sua madre. I raggi si posano sul box doccia, rallentano. Poi passano oltre.
«Perché ti sei chiusa a chiave?» domanda Gaia. «Tu non ti chiudi mai».
«Stavolta si» ride la ragazza. «Perché?».
«Perché avevo paura del lupo». Ridono tutte due. Due risate giovani.
Le sento allontanarsi lungo il corridoio, ma aspetto ancora un minuto prima di uscire dal mio nascondiglio.

* * *

Lo steccato andrebbe agganciato alla stalla, ma il perno di funzione è più grosso di un bel po' rispetto al buco in cui dovrebbe andare a incastrarsi. Quando lo sforzo per spingerlo meglio così spezza di netto.
«Cazzo, l'hai rotto!» strilla Gaia.
«Ha detto cazzo! Ha detto cazzo!» strilla Matteo. «Anche tu!».
«Stronza!».
Stare seduto sul tappeto del salotto non giova né alle mie articolazioni, che infatti stanno scricchiolando, né al mio umore incrinato dal tete à tete con Malgorzata. Quindi sono già carico come una molla quando, precedendo di un soffio la mia dolcistica, afferro per la collottola i miei figli e li scrollo fino a farli cadere di dosso la voglia di pronunciare un altro insulto.
«Papà!». «Basta, papà!».
Le istruzioni dei giochi Made in China hanno tutte in comune una cosa: che per chissà quale motivo misterioso le istruzioni in francese sono sempre più chiare di quelle in inglese, e infinitamente più chiare di quelle in italiano, dove abbondano neologismi e termini introvabili in qualsiasi dizionario di questo continuum spazio-temporale.
Come si piega una legia? Cos'è una giravite crociata? Dubbi che si dissipano immediatamente voltando pagina e affidandosi alle istruzioni in francese. Il che peraltro non rende più semplice il montaggio. Ad esempio la stalla di Bo, che nell'immagine pubblicitaria fa un figuro ne, nella realtà è una serie di decalcomanie da applicare su delle «pareti» di plastica fusia.
Mi tiro in piedi.
«Se vi sente vostra madre siamo fregati tutti quanti» grido. «Lo volete capire sÌ o no? E dov'è che avete imparato queste parole?». «Le sentono in giro» fa Malgorzata, ancora indecisa se intervenire sul serio o no.
«Dove, in giro?».
«In giro» fa spallucce la ragazza.
«Dove, di preciso? Sempre dal figlio del portinaio? Da quel, come si chiama, Michele?».
Gaia sospira. «Da te, papà». «Da me?».
«Lo dici sempre. Cazzo, voglio dire. E anche merda».
. Matteo fa segno di si con la testa, solenne come un patriarca in miniatura. E comincia a cantare quella sua canzone che mi fa ammattire.
«Migo tapysta starì botillà, migo tapysta starì» canticchia, attaccando male l'ala dell' astronave, che pende subito di sbieco. «AncoI:a quella canzone. Dov'è che l'hai sentita?» faccio, prendendo in mano l'astronave e cercando di aggiustare l'ala. «È nel film Provaci ancora Stitch. La canta Jumba».
«Ti piace un sacco, eh?».
«Mi piace troppo».
«Quello che mi fa impazzire è che non riesco mai a ricordarrmi le parole. Com'è che fa? Nuba tapysta starì ... ?».
«Ma dai, è facile: Migo tapysta starì botillà, migo tapysta staarì ... Come mai io me la ricordo e tu no?».
«Perché tu sei giovane. Hai ancora le cellule cerebrali in garanZIa».
E poi immagino che al giorno d'oggi vi installino più RAM, vorrei dirgli. Siete macchine meravigliose. Peccato che il software faccia schifo.
«Cosa vuoI dire?» domando. «Cosa?».
«La canzone». «Non lo so».
«Potrebbe essere russo» rifletto ad alta voce. «o un'altra lingua slava. Starì sembra proprio russo».
«Ma no, papà. Jumba è un alieno. Ha quattro occhi. I russi hanno quattro occhi?".
«No. Però tempo fa avevano tre narici».

* * *

Poco prima che sia ora di mettere i bambini a letto trovo finalmente il biglietto di Marta. L'aveva attaccato sul frigo, ma Gaia l'aveva tolto di lì per leggerlo e poi l'aveva portato in camera sua, dimenticandosene immediatamente.

È caduto per terra quando ho tirato fuori da sotto il cuscino i I suo pigiama. È un pigiama con delle figure di barche e personaggi di mare. La cosa strana è che il capitano è captain, il marinaio sailor, ma la balena è baleine, in francese, e non whale.
«Sai come si dice a Trieste?» mi ha rimbeccato Marta quando gliel’ho fatto notare. «Tiga bon tempo».
Sollevo il biglietto da terra e riconosco subito la grafia di mia moglie. Gaia e Matteo mi guardano, seduti sul più basso dei due letti a castello. La cena è stata strana, soprattutto con l'incertezza ~1I dove fosse la nostra rispettiva consorte e madre. Abbiamo scaldato dei pacchetti che erano già nel microonde.
La baleine lancia uno spruzzo allegro verso il cielo. I miei figli aspettano che li metta a letto.

* * *

STUFA DI STUDIARE. VADO AL CINEMA. CENA NEL MICROOONDE dice il biglietto.

14 Il biglietto

Il biglietto del cinema non si trova da nessuna parte. Marta rotea gli occhi, infastidita. «L'avrò buttato» sbuffa, lanciando la borsa sul divano.
«Che film hai visto?».
Mi fissa in tralice. «Cos'è, un interrogatorio stalinista?».
«Ti sto solo chiedendo che film hai visto. Se ti è piaciuto.
Magari vado a vederlo anch'io».
«Non credo sia il tuo tipo di film. Era un film macedone.
Non c'erano astronavi e neanche mostri alieni». «Non si sa mai. Di cosa parlava?».
«Un maestro elementare che ha fatto la guerra torna sul campo di battaglia. Cerca di parlare con sua moglie dal tetto di un carro armato distrutto, ma il telefono cellulare non prende». «Mi sa di già visto».
«Spiritoso».
«Ora che ci penso, sull' ultimo "Espresso" c'era proprio la foto di un film macedone. Forse l'hai vista anche tu. Un tizio in piedi su un carro armato distrutto, col cellulare in mano. Per caso era lo stesso film?».
Sono le due di notte.
Siamo seduti al tavolo in cucina.
Marta nella luce delle lampade alogene ha un colorito quasi grigio. La pelle stanca. Gli occhi invece sono vivi e direi quasi feroci. I suoi capelli ricci mi hanno sempre fatto pensare a lei come a un leone.
Dà un morso al panino che si è preparata. Formaggio greco, una fetta di pomodoro, due foglie d'insalata.
«Sl. Dev' essere lo stesso film» risponde, con la bocca piena. «Perché?».

Non le rispondo. Apro il frigo e tiro fuori anch'io gli ingredienti per prepararmi un panino. Aspettando Marta devo essermi appisolato, perché il rumore della chiave nella serratura mi ha svegliato da un incubo ricorrente: mi telefonano a casa per dirmi che la mia laurea non è in regola. Che mi sono dimenticato di pagare una rata delle tasse universitarie e quindi mi hanno annullato due esami. Insomma devo tornare a farli.
Ho sofferto molto l'università, e probabilmente vedere Marta che si arrabatta fra esami e corsi e burocrazia mi ha risvegliato dentro antiche paure.
Il mio panino è fatto di due fette di pane bianco da toast, una cotoletta, tre fette di salame e una cucchiaiata di maionese. «Sai che è puro veleno» fa Marta.
«Cosa?».
«Quella roba Il. Ti intasa le arterie». «Tanto non posso più morire giovane».
«Quando ti ho sposato pesavi venti chili meno di adesso». «Anche di più. Ti comunico ufficialmente che sono ingrassato ancora, dall'ultima volta che mi hai visto nudo».
Ci guardiamo negli occhi. È una cosa che non capita spesso, ultimamente. Un momento di cui far tesoro per i tempi di carestia. «Hai ottenuto qualcosa, con Malgorzata?» mi domanda di punto in bianco.
Sussulto. Lei se ne accorge.
«Le hai parlato o no, di questo nuovo aumento che ci chiede?». «Non ho avuto tempo».
«Non hai avuto tempo. In tutta la sera». «Incredibile, vero?».
«E quando pensavi di parlargliene?». «Domani».
«Domani è il suo giorno di libertà».
«Dopodomani, allora».
Faccio un boccone. Come immaginavo ha un gusto di roba chimica. Sulla confezione c'è scritto, fra gli ingredienti «formalldeide». Come quella che siringano nei cadaveri per mantenerli freschi.
Fatico a inghiottire, perché il pane industriale mi si attacca al palato.
Comunque mi dà una scusa per non contribuire alla conversazione.
Lei continua a guardarmi. C'è qualcosa di poco dignitoso nel mio rimanermene lì zitto sotto il suo sguardo. Oltretutto indosso uno dei miei pigiami da ospedale, mentre lei è vestita in quella che dovrebbe essere una tenuta da film macedone, vale a dire camicetta rosso fuoco, pulloverino in cachemire e gonna tipo «elegante ma sexy».
«Com'è che ti sei messo quel pigiama?». «È quello che indosso da una settimana».
«Due cose: buttalo a lavare. Poi quando è pulito va' a infilarlo nel cassonetto della Caritas».
«Lo faccio anche stirare, prima?» domando.
Lei non raccoglie. Si versa un bicchiere di latte. Il bicchiere è blu. Anche la bottiglia del latte è blu. Secondo me c'è qualcosa di sbagliato nel colore blu abbinato col latte.
«Come va il tuo lavoro coi Celti?».
«Siamo un po' a corto di Celti».
«Sai, mentre eri via mi sono informata. Forse il motivo per cui non li trovate è che da queste parti i Celti non ci sono mai stati». «Lo so».
«E quindi?».

«E quindi non è un lavoro facile». «Sicché non intendi rinunciare».
«Non posso. Per centomila buone ragioni». «Ho capito. Ma come fai? Ti inventi le cose?».
Per un poco resto a osservarmi con attenzione le mani. Sospiro. «Sai qual è la differenza fra pubblicità informativa e pubblicità suggestiva?».
«Centomila euro?».
«Come battuta non è male ... La pubblicità informativa descrive obiettivamente il prodotto. Informa sulle sue qualità oggettive».
«Ma esiste davvero?».
«In teoria sì. La pubblicità suggestiva, invece ... ».

15 La pubblicità suggestiva, invece

« ... la pubblicità suggestiva, invece, cerca d'influenzare il cliente con un messaggio che vinca la sua resistenza all'acquisto. Ciò su cui si fa leva con questo genere di pubblicità non è il lato informativo, ma l'immagine del prodotto. Quindi cerca di stimolare l'inconscio del cliente. E dove il bisogno non c’è, lo si crea».
«In altre parole, applicato al nostro caso ... ?» domanda Aurelia Copetti.
«Concludi la frase». «Come, scusa?».
«Hai detto: "In altre parole, applicato al nostro caso". Questa non è una domanda».
"Cioè, volevo dire, come si applica al nostro caso ... ». "Cosa? Finisci».
«Questa distinzione».
«Bene. Grazie».
Mi dispiace sia toccato a lei servire da esempio, ma se odio qualcosa più del lavoro di gruppo è un gruppo di lavoro in cui si parla per mezze frasi, mugugni e balbettamenti.
«Questa distinzione» spiego lentamente, perché chi vuole possa prendere degli appunti, «si applica al nostro caso perché una pubblicità informativa, per noi, è esclusa. Il prodotto "Presenza celtica nella nostra Regione" non esiste. Quindi, per definizione, non ha qualità da pubblicizzare».
Segaluzza forse vorrebbe protestare, ma non gliene lascio il tempo. È difficile mantenere il controllo di una riunione come questa. Sarebbe più facile se fossero tutti davanti a me, fila dopo fila, con me in piedi che li domino. Così invece, sparsi intorno al tavolo, mi è più difficile controllarli con lo sguardo. Quello che è certo è che non posso permettere che qualcuno mi rubi la parolaa metà di una spiegazione.
"Lasciate che vi spieghi quale sarà la nostra strategia».
Fa caldo. L'impianto di condizionamento dev'essere ancora arrivato per l'inverno.
"Cominceremo con il definire i nostri obiettivi di prodotto.
Lo so, sentire parlare di prodotto può lasciarvi perplessi, ma è così che dovete cominciare a vedere il nostro lavoro. Vi piaccia o no, stiamo cercando di piazzare un prodotto. Non importa che sia un prodotto del tutto immaginario ... mistico, se volete ... È comunque un prodotto».
Batto con la bacchetta sulla parola PRODOTTO che ho scritto ',( dia lavagna a fogli mobili alle mie spalle. La lavagna, il viso per slides e la tabella per lo scheduling delle attività fanno parte della dotazione della situation room che ho fatto allestire nei locali sovradimensionati - e oggi anche surriscaldati - dell'assessore alla cultura. Dato che è di nuovo lunedì, alcuni dei presenti sembrano vampiri sfrattati anzitempo dal sepolcro. Non mi riferisco a Segaluzza, che è così di suo, ma a Sergio e alla Russell, che evidentemente hanno impiegato il fine settimana in attività ad alto dispendio energetico, e alla Deodati, che ha cominciato a ,torcere il naso appena ha sentito la parola prodotto, e ha continuato a storcerlo praticamente a ogni parola che ho pronunciato. Il resto della Squadra è invece vivo e vegeto, e mi segue con attICI1zione. I due obiettori e Aurelia prendono addirittura appunti.
"O, per meglio dire,» proseguo <<noi venderemo diversi prodotti, accomunati dal marchio "Celti in Regione". Il nostro assortimento sarà profondo. È un termine tecnico. Vuol dire che il nostro prodotto sarà sempre lo stesso, ma caratterizzato da diversi livelli di qualità: economica, media, di lusso. Poi entreremo nei dettagli. La prima fase» volto il foglio sulla lavagna «si articolerà in due attività parallele: studio del prodotto e studio del consumatore».


Scrivo PRODOTTO e CONSUMATORE.
«Alcuni di noi formeranno il sotto gruppo che dovrà studiare il consumatore: elaborare profili, dividerli in fasce omogenee secondo fattori anagrafici e in base alle aspettative, e poi indicare il prodotto più adatto per ogni particolare segmento. Un secondo gruppo, in parallelo, formulerà le proposte di prodotti. Da questo secondo gruppo mi aspetto la massima creatività e libertà».
L'obiettore Claudio alza la mano. «Che tempi abbiamo?». «Ci stavo arrivando. Il tempo massimo per questa prima fase è di quindici giorni».
Brusio.
Commenti sussurrati. Perplessità.
Claudio alza di nuovo la mano. «51?».
«Non è un po' poco?» domanda.
«Può darsi. Ma non abbiamo altro tempo. La deadline che ho fissato per il compimento del lavoro è la metà di settembre».
Brusio ancora più forte. Commenti a mezza voce. Malcontento serpeggiante.
È ancora Claudio a prendere la parola. «Perché dobbiamo finire per settembre?».
Perché il primo ottobre mi addebitano la maxirata del mio megamutuo, razza di impiccione.
«Perché sfrutteremo sinergicamente il rientro a scuola per l'avvio della nostra campagna dedicata a sensibilizzare i cittadini in età scolare».
«In altre parole?» sibila Segaluzza. Brutto rompicoglioni.
«In altre parole i bambini troveranno pronto sul loro banco, il primo giorno di scuola, il kit celtico allestito dalla nostra Squadra. Parte del materiale sarà destinata esclusivamente a loro, parte dovranno consegnarla a casa».
«Come ti è venuta l'idea?» domanda Bianca Deodati. Studiando i miei figli, dovrei rispondere se fossi sincero. «Da un' analisi di mercato condotta in precedenza per un prodotto con caratteristiche analoghe. Inoltre realizzeremo una l',rossa economia sui costi di spedizione».
«Molti genitori protesteranno. Scriveranno ai giornali».
«E i giornali ne parleranno. Mai sentito quel detto vecchio come il mondo, "la pubblicità è l'anima del commercio"?».
«51, ma che ci mettiamo, nel kit?».
«Questo lo decideremo alla fine della prima fase».
La Deodati fa una smorfia. «Cosa c'è, Bianca?» domando. Lei sulle prime non risponde.
«Esprimiti» la invito. «Rendici partecipi».
«No, è che ... Mi sembra cos1 poco. Voglio dire, si era partiti dall’idea di una mostra, e di un libro, e di un compact disc per computer».
<<VuoI dire un Cd-Rom» precisa Andrea.
«Si era pensato anche a una valenza religiosa della riscoperta delle nostre tradizioni celtiche».
«Magari proponiamo all'assessore di reintrodurre i sacrifici umani?» faccio, con l'aria seria. «Voglio dire, il materiale umano ci sarebbe. Si sempre sempre dire che c'è sovrappopolazione». «51, dai» sghignazza Sergio. «Anche io ho in mente un po' di persone da far decapitare ... ».
«Veramente i Celti non decapitavano» puntualizza Aurelia. « Mi sono informata. Legavano le vittime dentro dei grandi cesti di vimini e le bruciavano vive».
«Ah be'. Anche cos1 non sarebbe male» sorride il ragazzo. La Deodati sbuffa. «51,  Scherzate. Il fatto è che c'erano tanti progetti, e tutti affascinanti. Invece adesso sento parlare solo di un kit da dare ai bambini ... ».
Scuoto la testa.

Forse sarebbe il caso di aprirle gli occhi sul fatto che gli unici culti praticati in questa regione sono il ciclismo su strada e l'adorazione dei televisori al plasma negli ipermercati. Per il bene comune, decido di sorvolare sull' argomento.
«Bianca, il kit è solo una parte del progetto. Uno dei tanti prodotti in cui si articolerà la nostra offerta. Ci sarà anche la mostra. E anche il libro. E un sacco di altre cose. Vedrai che resterai colpita da quello che riusciremo a tirar fuori».
«Ma la mostra l'abbiamo già».
«Va ripensata. Modificata. Ne faremo un successo, stanne sicura. Ha solo bisogno di essere valorizzata e presentata sotto la luce giusta. Altre perplessità? Altri dubbi? Severino?».
Segaluzza scrolla le spalle. «Sulla carta è tutto perfetto. Realizzarlo sarà un altro paio di maniche».
Ormai il sorriso mi salta alle labbra come un meccanismo a molla, per riflesso automatico. «La tua osservazione mi ricorda una frase di un grande allenatore di baseball americano. Un giornalista gli chiese se c'era differenza fra teoria e pratica. L'allenatore ci pensò su e poi rispose: "Le cose stanno cos1: in teoria non c'è differenza, ma in pratica sì"».
Quasi tutti ridono. Sergio e la Russell ci mettono quasi un minuto per capire la battuta. Poi ridono anche loro. Segaluzza invece abbozza una faccia schifata, del tipo e questo che cavolo c'entra?
«Quello che voglio è che facciamo coincidere teoria e pratica» concludo. Una frase che suona bene, anche se in realtà non vuoi dire nulla.
«Uno scienziato americano ha progettato un'auto che funziona a idrogeno. Fin qui niente di straordinario, direte. È da decine d'anni che macchine del genere vengono fabbricate. Solo che finora erano antieconomiche: batterie pesanti, resa del motore inefficiente. Ma questo scienziato ha avuto l'idea vincente. Invece di migliorare la batteria, ha ripensato tutto quello che ci sta intorno. Ha lasciato la batteria com' era e ha reinventato l'auto. Via il motore centrale: quattro motori più piccoli, che muovono separatamente ognuna delle ruote».
Scrivo sulla lavagna: RINVENTARE IL PRODOTTO. Poi con nonchalance aggiungo una E fra la R e la I, facendo una faccia tipo volevo vedere se ve ne accorgevate.
«Via il volante: basta un joystick. Via la frizione. Sapete perché nelle nostre auto ci sono i pedali della frizione e del freno? Sono un retaggio delle antiche carrozze a cavalli. Anche il freno .La mano viene da Ili Via, via. Alla fine otteniamo una cosa che sembra l'auto di prima, ma in realtà è completamente nuova».
Spero di aver descritto bene la faccenda, perché l'articolo l’ho di fretta facendo colazione, e oltretutto di motori e tecnologia non capisco un accidente.
Li stai perdendo, penso nel frattempo. Fatti venire in mente qualcosa.
«Qualcuno di voi forse ha letto una notizia che è uscita sull'ultimo numero di "Panorama", o forse dell' "Espresso"» dico.
Lo stesso numero dove c era la foto del film macedone che mia moglie sicuramente non ha visto.
Pausa ad effetto. Respiro profondo.
«Quello che dobbiamo fare è ripensare il nostro progetto e reinventarlo». Scandisco ogni sillaba battendo col pennarello sul foglio. «Dobbiamo lasciare intatto il guscio del progetto, ma riempirlo di contenuti nuovi, più efficaci».
Sottolineo due volte la parola REINVENTARE. Bianca Deodati alza la mano.
«Cosa diciamo alla stampa? Due giornali si sono già fatti vivi può chiedere come mai la mostra è stata chiusa».
«Lavori di adeguamento del palazzo. Dite così. La mostra verrà prorogata, diciamo, fino al luglio del prossimo anno». «Non è possibile. A gennaio parte la mostra su Tolkien».
«E allora cosa c'entra la Regione con Tolkien?».
“Un attimo. Fermi. Fatemi capire. Il Castello è lo spazio espositivo della Regione, si o no?».

«Si».
Si guardano l'un l'altro. Alla fine è Aurelia a prendere la parola. Ovviamente.
“È per via della tradizione celtica». “Quale tradizione celtica?».
“Be', Tolkien era uno scrittore celtico». “Non mi risulta. Era nato in Sudafrica». “No, era inglese, credo. O irlandese?».
«È nato in Sudafrica, te lo posso garantire».
Meno male che ha precisato “dalla bocca».
“Comunque la sua saga ricalca le antiche leggende celtiche» si incaponisce la Deodati.
Punto le torrette su di lei, ad alzo zero. (,Quali antiche leggende?».
“Be' ... ».
Visto che non risponde, butto la prima badilata di terra sulla bara di quei ragionamenti a vanvera. «Il romanzo di Tolkien è un romanzo. Punto e basta. Descrive un mondo immaginario, senza riferimento alla tradizione né celtica né di altri Paesi. IL Signore degli Anelli sta ai Celti come la Coca Cola sta all'idromele. In altre parole, mi scusino le signore, con i Celti e col nostro progetto non c'entra un cazzo».
Silenzio imbarazzato. La Russell si sventola con uno dei deepliant della mostra al castello. Segaluzza ridacchia sotto i baffi. ,(Quindi la mostra di Tolkien verrà posticipata» concludo. O almeno cos1 credo.
«Non si può» salta su infatti la Deodati. «E perché?».
«La mostra è già pronta. Ci sono già i pannelli».
“Non è solo per i pannelli. È per il drago» interviene Candiani.
«Il drago?».
“Un drago di tre metri. Con tre teste ed effetti tipo fiamme dalla bocca».
«Non mi ricordo nessun drago con tre teste, nel libro». “Neanche nel film» scuote la testa la Russell, per una volta solidale con me.
“Quello che l'ha fatto dice che c'è» ribadisce il geometra. “Controlleremo» taglio corto. ,(Quello che non capisco è perché questo drago dovrebbe crearci problemi in caso di slittamento della mostra».
“Perché stiamo già pagando l'affitto». “L'affitto di cosa?».
“Del drago. Cento euro al giorno». “Cento euro? Per L'affitto di un drago?».
“Prendere o lasciare. Volevamo fare un forfait di duemila euro al mese, ma il padrone del drago non ha voluto». “Il padrone del drago» faccio eco, incredulo. “Naturalmente è un drago finto» precisa Candiani.
“Ah, bene, cos1 risparmiamo sul vitto ... Quindi tutti' sti soldi non li diamo al padrone che l'ha catturato e addomesticato ma a quello che l'ha costruito».
Candiani evidentemente non conosce il sarcasmo. “No, non ì: quello che l'ha costruito. È proprio il padrone. L'ha comprato dalla ditta che l'ha costruito, e adesso l'affitta».
“Immagino che un drago a tre teste andrà via come il pane». “Dopo la fine della mostra è già prenotato per un anno a Salzfurt».
“Un'altra mostra su Tolkien?». “No. È per il millenario della città».
«Il bimillenario» precisa la Deodati.
Se il drago fosse stato vero l'avrei imballato personalmente per spedirlo a Hans Albert Mayer. Dopo averlo tenuto a digiuno per un mese.
«Sicché in ultima analisi,» riepilogo «la mostra sui Celti dipende dagli impegni di un drago?».
Nessuno mi smentisce. Chiedo il solito time-out.
«Venga con me, Severino. Devo parlarle».

* * *
«Ho come un senso di déjà-vu» ironizza Segaluzza, zoppicando lungo il corridoio. «Ha intenzione di sbattermi contro il muro come l'altra volta?».
«No. Stavolta non ce l'ho con lei». «Ah. E con chi ce l'ha?».
«Lasci perdere, e cerchi di rispondere a una semplice domanda». «Se posso».
«Non è che qualcuno mi sta mettendo i bastoni fra le ruote?». «Non credo».
«Non crede. Perché io invece ho l'impressione che sia così». Segaluzza non replica.
«Lasciamo stare la storia del drago, che è pittoresca ma tutto sommato si può risolvere» dico.
<<Io l'avevo detto subito, che era un'idea da deficienti». «Rimane comunque il fatto che ogni cosa che propongo incontra solo ostacoli. Mai che senta un po' d'entusiasmo. Di voglia di provarci, almeno».
<<1 suoi centocinquantamila euro si allontanano all' orizzonte, eh?».
Lo fisso.
«È quello che la preoccupa, dica la verità» rincara, strizzando l'occhio.
«A questo punto credo che dovrei metterle le mani addosso».
«Deve prendersela solo con se stesso, sa? Non avrebbe dovuto accettare l'incarico così a cuor leggero. Non è certo una prova di serietà».
Su questo sono d'accordo.
Gli volto le spalle. Non si dovrebbe fare, ma una coltellata in più o in meno a questo punto non fa molta differenza. Visualizzo i giorni che mi restano per portare a termine il progetto come sabbia in una grande clessidra. Scorrono via veloci, sempre più veloci.
Quando Segaluzza mi appoggia la mano sulla spalla, è un gesto così inatteso che sussulto.
«Dispiace,» fa «quando per raggiungere un obiettivo si calpesta una brava persona».
Annuisco, incredulo.
«Per fortuna lei non è una brava persona» conclude, battendomi dei col petti tra le scapole.
Lei è solo un fallito, avrebbe potuto aggiungere. Un pomposo fallito trincerato dietro un gergo astruso. Un personaggio da commedia dell'arte, buono soltanto a un fallimento dietro l'altro. Uno ingrassato col cattivo cibo del Pendolino e delle business class pagate rlft qualcun altro e scaricate dalle tasse.
Invece, quel che si è limitato a dire non giustifica un'aggressione da parte mia. Oltretutto è la pura verità.
«Cosa dovrei fare?» gli domando, come farei con un amico. «Questo deve saperlo lei».
«Mi dia un consiglio».
Segaluzza mi guarda con un' espressione che sul momento non  riconosco. Sembra dispiaciuto. Sinceramente dispiaciuto. Un’espressione che non gli deve essere molto familiare, che pare mettergli dolorosamente in moto muscoli del viso mai usati prima.
«Dovrebbe rinunciare. Dire all'assessore che il compito è superiore alle sue possibilità».
"È come dire a un naufrago di scendere dalla scialuppa di salvataggio».
"È messo cos male?».
«Dopo il casino che ho combinato con la Puritan non ho più avuto un lavoro».
«Lo so. Ma non c'è nessun'altra cosa che possa fare? Qualche altro lavoro, voglio dire, anche al di fuori della pubblicità?». «So fare solo quello. E ormai ho addosso il marchio di Caino».
"Ma cos'è che ha combinato, di preciso? Dai giornali non si capiva».
«È una storia lunga».
«Capisco. Allora meglio se ne parliamo un'altra volta. Adesso credo che dovremmo tornare di là».
«Perché dovrei tornare di là? Cos'altro devo sentire, dopo il drago a tre teste?».
«Non lo so. Magari c'è qualcosa che loro si aspettano di sentire da lei».
«Tipo cosa?».

«Questo è affar suo».
Durante la nostra assenza, stavolta nessuno ha fatto cagnara.
La scolaresca se n'è rimasta buona ad attendere il ritorno dei maestri. Appena entriamo tutti girano la testa verso di noi, come un campo di girasoli. A parte Sergio e la Russell, che si guardano tra loro.
Il silenzio si taglia col coltello. «Gliela dica» fa Segaluzza.
Li guardo uno per uno. E uno per uno mi sorridono. Soprattutto l'Aurelia. Mi succede all'incirca quel che dicono capiti a chi sta annegando: rivedo in un attimo la mia carriera, dagli inizi in un piccolo studio pubblicitario, al colloquio per il mio secondo lavoro.

* * *
Il mio primo incarico per una grossa agenzia.
La mia prima campagna con un budget a otto zeri. Il successo.
La Puritano
Mi rendo conto che questo momento è un punto focale della mia vita. E che devo esserne all'altezza.
"Credo che la faccenda del drago mi abbia un po' scombussolato» esordisco. Si mettono a ridere. Tutti tranne Segaluzza, che si aspettava una frase diversa.
"Comunque eccomi qua. Se siete d'accordo, cominciamo a formare i due gruppi».
"Quello del prodotto e quello dei consumatori?» domanda Aurelia consultando gli appunti.
"Esatto. Tu in che gruppo vuoi stare?».
Tu in che gruppo sei?, sembrano chiedere gli occhi della ragazza. Invece domanda, più discretamente: «Tu in che gruppo vedi?».
"lo ti vedrei nel gruppo dei consumatori. Te la senti di occuparti delle interviste?».
«Dipende. Cosa devo fare?».
«Dopo te lo spiego. Qualcun altro che si propone per il gruppo dei prodotti?».
Alla fine le squadre sono queste: Gruppo «Prodotto»: Deodati, Candiani, Sergio «assessore junior», obiettore Andrea; Gruppo «Consumatori»: Mendini, Copetti, obiettore Clauudio, Russell.
"E io?» domanda Segaluzza. «Per il momento lei è fuori». «Non è possibile».
«Non vedo perché».
Finalmente riappare lo sguardo da topo in trappola.
«Io sono il referente dell' assessore. Non può lasciarmi fuori». «Ne parli con l'assessore, allora. Per il momento, per quello che mi riguarda, lei è fuori».
Le dita di Segaluzza sbiancano sul pomello del bastone. A questo punto mi aspetto che pronunci una frase del tipo, lei non sa con chi ha a che fare o non finisce mica qui. Invece gira sui tacchi (a dire il vero, su un tacco solo) ed esce dalla stanza senza salutare nessuno. Dato che la stanza è il famoso open space, ci mette un po', e questo rovina l'effetto della sua uscita di scena. Lo stesso dicasi per il fatto che non ci sono porte da sbattere.

16 Non arrendersi

Non arrendersi va bene. Sul momento ti senti un dio, ti senti , cool e in testa all' hit parade. Tutti ti amano e ti ammirano, tutti 'sono pronti a ricevere istruzioni e ordini.
l problemi cominciano quando realizzi che è da te che se aspettano, ordini e istruzioni. Che hai le armi ma mancano le intenzioni. Che ci sono scorte per cinquant'anni di sottaceti e Nutella, per dire, ma neanche un pezzo di pane.

Mercoledì, solo due giorni dopo aver ricevuto l'incarico, il gruppo Prodotto, nella persona di Sergio, mi consegna un foglio firmato A4 con una lista di dodici proposte.
Sei di queste sono assolutamente banali e per nulla incisive, le altre sei sono utopiche, assolutamente irrealizzabili.
Giovedi l'Aurelia, coordinatrice del gruppo Consumatori, ci fa presente che per svolgere un sondaggio è necessario disporre di mezzi e personale. Mezzi e personale che in Regione non si trovano. Un particolare non da poco.
Affidarsi a una società esterna è del tutto fuori discussione, sia per la spesa che per i tempi.
Quando Segaluzza scompare all' orizzonte, mi siedo al suo posto a capo tavola. Decisamente la prospettiva da Il è migliore. Adesso posso guardare tutti senza farmi venire il torcicollo. «Qualche domanda?» faccio.
E le domande cominciano a cadere, come bombe su una città che ha deciso di non arrendersi.
Convoco una riunione urgente per venerdi.

* * *

Venerdì piove. Ma dire «piove» è riduttivo. Venerdì diluvia. Cadono gocce grosse come uova, come se qualcuno bussasse sulle vetrate. Peggio della grandine. La temperatura esterna è scesa di quindici gradi in un'ora, e le auto si muovono in una tenebra dantesca.
Tuoni e lampi.

«Per me va bene».
Anche per gli altri. Stranamente nessuno invoca esenzioni o preannuncia certificati di malattia.
«Ovviamente l'impegno va rispettato da tutti» preciso, tenendo d'occhio soprattutto Sergio. «Perché un' eventuale defezione da parte anche di uno solo di noi comporterebbe un notevole aggravio di lavoro per gli altri. E questo, oltre a non essere giusto, comprometterebbe il progetto al quale state lavorando da un anno».
In altre parole, non cagate nella vostra mangiatoia. L'obiettore Andrea alza la mano.
«Scusa, Andrea, non occorre che alzi la mano ogni volta che fai una domanda. Ti ringrazio per l'educazione, ma è una cosa che fa un po' scuola elementare. Comunque cosa volevi chiedermi?». «La domanda numero due».
«51?».
«Cioè, devo chiedere anche a un meridionale se gli interessano le origini della razza celtica? Perché nel campione degli intervistati vedo che dovrebbero esserci anche i meridionali».
«51. Ho capito. In effetti la cosa potrebbe risultare antipatica.
Però le domande sono queste. Sono frutto di uno studio accurato, per assicurare un risultato equilibrato ed esaustivo».
In realtà le ho buttate giù di getto, senza pensarci troppo su.
Non sono neanche farina del mio sacco, dato che me le ha praticamente dettate la Martinelli, in un contatto telefonico da qualche Paese estero cos1lontano che il segnale aveva un ritardo di tre secondi. Il fatto delle domande da fare anche ai meridionali non mi è neanche passato per la mente.
«Magari vedremo di introdurre un correttivo» dico.
«51, tipo: "Cosa ne pensa delle sue radici?". Radici e basta, voglio dire» propone Aurelia, la grande mediatrice, la sublime portavoce.
«Basta che non lo chiedi a un negro» sghignazza l'obiettore Claudio.

Tutti lo guardano. Sembra che io sia l'unico ad avere capito che ha fatto una battuta. Claudio comunica poco, e forse è più chiaro perché.
«Radici nel senso dello sceneggiato» balbetta. «Quello di Kunta Kinte, della tribù di Omoro ... ».
«Ma quello dei Celti non era uno sketch di Aldo Giovanni e Giacomo?» fa la Deodati.
A questo punto ritengo sia il momento di imporsi.
<Vediamo di non divagare, perché il tempo è quello che è. Adesso vorrei un voto per alzata di mano. Allora: tutti d'accordo sul sondaggio?».
Unanimità.
"Sulla metodologia di lavoro?». Idem.
"Sulle domande?».
Andrea alza di nuovo la mano, in contro tempo rispetto agli altri. Quando anche gli altri l'alzano, lui l'abbassa ed esprime la sua opinione. «Cioè, anche per me va bene, nella misura in cui però a monte le modifichiamo, per via di quello che ho detto prima».
«Okay. Tranquillo. Terremo in conto la tua osservazione». Seconda alzata di mano.
Approvato all'unanimità.

* * *

Il materiale per il sondaggio viene allestito in poche ore. Verso le sei di sera, quando il buio della notte comincia a sostituirsi al buio del giorno, e le telefonate delle mogli, dei mariti e forse degli amanti alle chiamate di lavoro, i fogli di rilevazione sono pronti, con lo spazio per individuare il profilo dell'intervistato, le. venti domande e le caselle da contrassegnare con le risposte.
Tranne che per la domanda numero nove, le risposte possibili sono:

D SÌ D NO

D NON SO

D NON RISPONDE

Ho copiato le istruzioni sul modo di condurre l'intervista da quelle per il Censimento dell'anno scorso, che ho trovato in un sito Internet.
In effetti l'obiettore Andrea esclama: «Ehi, è facile: sono quasi come quelle del censimento».
Alle sei e mezza chiamo casa. Marta non c'è. Lascio detto a Malgorzata che forse farò tardi, e che altrettanto forse cenerò fuori. Lei dice che riferirà alla signora.
Penso che è strano, dopo quanto c'è stato fra noi, che lei si ostini a non danni del tu.
Neil non ha il telefono. Né fisso né cellulare. N on ha un indirizzo di posta elettronica.
L'unico modo per trovarlo è andargli a casa e sperare che ci sia.
C" e.
«Un caffè a quest'ora è fuori discussione, immagino. Qualcosa di più forte?».
«Prima il dovere» dico, tirando fuori dalla borsa un foglio di rilevazione.
«Quello cos'è?» fa Nei!'
«Vorrei che rispondessi a qualche domanda».
«Purché non siano su quello che sai. Su quello sai che non posso parlare».
«Sui Celti invece puoi?». «Temo di si».
Sulla prima pagina del foglio ripiegato in due barro le caselle:

M

1SI 81-90 1SI BIANCO

1SI STRANIERO/A

1SI RESIDENTE IN REGIONE 1SI LAUREA

* * *

In corrispondenza dell'indicazione «Quartiere» segno «centro». «Cosa stai scrivendo?» mi domanda Nei!'
"Niente. È la parte dei dati personali».
"Fa' vedere. Cos'è che hai messo, come età?». "Da ottantuno a novanta».
"Bastardo».
"Mi serve un ottantenne. Per il campione statistico. E non è non ne trovi molti per la strada».
"Mi verrebbe voglia di non risponderti».
"Dai, che magari ti diverti. Allora, prima domanda» comincio, facendo partire il cronometro del Breitling. "È al corrente del fatto che nell'antichità la nostra Regione era popolata dai Celti? Le opinioni sono sÌ, NO, NON SO, oppure scegli di non rispondere».
«Scelgo di non rispondere».
«E dai, Nei!' Non partiamo col piede sbagliato». «Sul serio. Scelgo di non rispondere».
Barro la casella NON SO.
«Domanda numero due: Prova interesse, o quantomeno curiosità, per le origini della sua razza?».
«Curiosità. Forse perché per metà sono irlandese».
«Okay, metto SÌ. Andiamo avanti. Ritiene che la Regione faccia abbastanza per la riscoperta e valorizzazione del nostro patrimonio culturale celtico?».
«C'è la casella TROPPO?».
«NOl>.
«Allora non rispondo».
«Ma devo metterci qualcosa. Dai: o SÌ o NO».
 «Ma è la domanda che è sbagliata. Se dico di si la mia risposta è favorevole all'iniziativa, se dico di no è ancora più favorevole». «Mettiamo NON SO?».
«No. Scrivi che non rispondo».
«Come vuoi. Ti leggo la prossima domanda?». «Quante ne mancano?».
«Siamo solo all'inizio. La prossima è: Ritiene che la Regione dovrebbe fare di più per la riscoperta e valorizzazione del nostro patrimonio culturale celtico?».
«Ma è uguale a quella di prima!».
«No, è complementare. È una domanda di controllo, per vedere che uno non faccia il furbo rispondendo a casaccio». «Ti accompagno o trovi l'uscita da solo?».
«Mettiamo anche qui NON SO?».
«No. Qui ci metti un bel NO».
«Okay. Sei al corrente del fatto che altre Regioni d'Europa condividono le stesse origini etniche e culturali celtiche?». «Le stesse di chi?».
Sospiro. «Metto NO?».
<<In mancanza di meglio ... ».
Le Regioni sono, nell' ordine: Friuli, Galizia, Bretagna, Irlanda, Mittelmark, Carinzia, Scozia, Galles.

«Personalmente preferirei l'unione con le seguenti regioni: " Barbados, Giamaica, Polinesia Francese» commenta lui. «Comunque ti contesto la domanda per due motivi: uno, ti obbliga a scegliere almeno una delle Regioni indicate».
Controllo. Ha ragione.
«Due,» prosegue «è illogico dire che è possibile un numero illimitato di scelte. Le scelte sono nove».
«Otto».
«Quello che è. Peggio ancora. Otto ti sembra un numero di scelte illimitato?».
<<Illimitato all'interno delle otto scelte proposte».
«È come dire che McDonald's propone una scelta illimitata di pietanze» brontola Neil. «A proposito, ti fermi per cena?». «Cosi, senza essere invitato?».
«Ti sto invitando adesso».
«Okay, allora. Cosi magari completiamo il questionario». «No, questo te lo scordi. Non ho nessuna voglia di rispondere ad altre domande». «Arriviamo almeno alla dieci». «No».
Neil risponde si alla sesta domanda (Ritiene che il nuovo millennio possa essere aperto a forme diverse di aggregazione rispetto agli Stati nazionali tradizionali?) e NO alla domanda numero sette (Ritiene possibile un 'unione politica fa Regioni unite dalla stessa matrice culturale, anche se non appartenenti allo stesso Stato nazionale?) e alla otto (Sarebbe favorevole a un 'unione politica fa Regioni unite dalla stessa matrice culturale, anche se non appartenenti allo stesso Stato nazionale?).

* * *

La nona domanda è: Con quale di queste Regioni sarebbe eventualmente favorevole a un 'unione? È possibile esprimere un numero illimitato di scelte.
Vedendo Neil muoversi in cucina non riesce difficile imagginarsi a suo agio nello spazio, in assenza di gravità. Nonostante si muove con una scioltezza e una velocità che io nemmeno in sogno. Tutti i suoi gesti sembrano fasi di un movimento unico, e preciso come un passo di danza, ma per niente lezioso.
Mentre è impegnato a tagliare le cipolle ne approfitto per portarmi avanti con le domande. Neil sbuffa, poi scrolla la testa e risponde alla numero dieci.
Le piace la musica celtica? sì.
Conosce almeno una leggenda celtica?
«Sì. Quella della presenza dei Celti in questa Regione». Scrivo NO.
Ha mai letto libri di argomento celtico? «Un libro sulle malattie veneree». «Cosa c'entra?».
«Non lo sai? Le malattie veneree una volta le chiamavano celtiche e gli ambulatori dove si curavano erano i dispensari celtici. Magari è una notizia utile per la tua ricerca di presenze celtiche in Regione. Sicuramente in città ci sarà stato un dispensario celtico. Diglielo alla Martinelli».
«Non sfottere. Di', com'è che stai apparecchiando per tre?». «Perché abbiamo un ospite. Ti avevo detto che avrei trovato qualcuno in grado di aiutarti nella ricerca. Sai, con la bibliografia e tutto il resto».
«Sì, ma come mai viene proprio stasera? lo non ti ho avvisato che venivo oggi».
«E tu che ne sai? Magari viene a cena da me tutte le sere». «Non so perché, ma sono convinto che non sia cosi. Sei sicuro di non avere un telefono nascosto da qualche parte?».
Lui sorride.
Mi viene in mente solo adesso che Neil e io siamo sempre rimasti nella stessa stanza da quando sono arrivato. Non c'è modo che abbia potuto fare una telefonata di nascosto.

Lo guardo.
«Mistero» dice. «Sincronicità».

L'ospite arriva quando ormai l'acqua bolle in pentola da mezz' ora. Sincronicità non vuoI dire puntualità, a quanto pare.
Un taxi manovra cautamente intorno alla fontana. Qualcuno scende dall' auto, una figura curva, ma nella luce incerta del lammpione esterno non riesco a vedere se sia un uomo o una donna. Prima la sagoma dell' auto e poi la siepe lo nascondono alla vista.
L'ospite bussa alla porta.
«Entra» fa Nei!' «Siamo in cucina».
La figura che appare sulla porta ricorda più un orso che un essere umano. La sua superficie corporea visibile è coperta per oltre il novanta per cento da peli, biondastri o grigi. I capelli sembrano rasati dal barbiere di una prigione o un prato falciato da un giardiniere ubriaco.
L'uomo grugnisce qualcosa a bocca stretta, immagino un saluto, e punta subito in direzione dei fornelli, annusando la pentola del sugo e dell'arrosto.
«Alberto, lascia che ti presenti il pròfessor Rabo Mishkin. Sempre che riusciamo a catturarlo».

«Celti da queste parti non ce n'è mai stati» bofonchia Mishkin, con la bocca piena. Quando parla, i frammenti di pasta che a ogni forchettata gli rimangono appiccicati alla barbaschizzano via, contribuendo alla decorazione già vistosa del suo panciotto variopinto. Schizzi di .cibo sono arrivati fino alle lenti degli occhiali antiquati. Una stanghetta è tenuta su con lo scotch.
Rabo Mishkin, che fatico a vedere come un «professore», è vestito in modo incredibile. Il panciotto sgargiante completa una stramba mise che abbina un completo elegante, anche se molto vissuto, a un paio di scarpe Timberland sformate, coi lacci praticamente disintegrati.
Sembra si sia vestito frugando nei bidoni della Caritas. Se è così, adesso probabilmente la notte dorme col mio pigiama, dato che abbiamo più o meno la stessa, non invidiabile, taglia.
<<A meno che tu non voglia riferirti ai dispensari celtici» conclude. «Se sai cosa sono».
«Gliene ho già parlato» ammicca Nei!' «C'è chi la pensa diversamente» azzardo.
«C'è anche chi pensa che gli asini volino. Il che ne fa un somaro».
Mishkin si versa un altro bicchiere di vino. Ormai ne ho perso il conto. Ogni volta che stappa una nuova bottiglia, e soprattutto quando 1'orso mannaro la vuota, Neil sorride come uno che sia riuscito a infilare un'altra persona in un Maggiolino Volkswagen per entrare nel Guinness dei Primati.
«Buono» farfuglia Mishkin.
Poi fa dei movimenti decisamente fastidiosi con la bocca, come se masticasse un chewing -gum. Dopo un po' mi rendo conto che sta degustando il vino. «Meraviglioso. Un Sauterne. Sicuramente un premier cru. Barsac, direi. Chateau Climens?».
Neil sorride. «Vicino. Molto vicino. Chateau Coutet». «Cazzo!» urla Mishkin, battendo il palmo della mano sul tavolo.
«Dopo ti farò assaggiare un Moulis-Médoc su cui voglio proprio la tua opinione».
Guardo ostentatamente 1'ora sul mio Breitling. Se qualcuno mi chiede perché, ho intenzione di rispondergli che ho un appuntamento con gli Alcolisti Anonimi.
Invece Rabo Mishkin mi fa: «È tua la Lexus là fuori?». «S1».
A volte un temporale si prepara pian piano, con lenti movimenti coreografici delle nuvole attraverso il cielo. Con evoluzioni celesti degne della Grande Armée che si schiera a battaglia. Altre volte, come mi è capitato di vedere un memorabile pomeriggio a Urbino, la tempesta si scatena senza preavviso. Un attimo prima il cielo è sereno, e l'attimo dopo si scatena il diluvio, una furia di lampi e tuoni.

Rabo Mishkin si solleva dalla sedia appoggiandosi con le mani i al piano del tavolo, che scricchiola sotto la pressione. «Chi hai detto?» urla.
«Hans ... ».
«Rans Albert Mayer! Cos'hai a che fare tu con quel bastardo?». Mi aspetto che da un momento all'altro mi metta le mani addosso. Le mani di Rabo Mishkin sono due badili pelosi, con le unghie nere. Per fortuna interviene Neil, con studiata non chaalance.
«Che cagata di macchina».
Neil trattiene un sorriso. «Gliel'ho già fatto presente». «Bravo! Ma che cazzo di gente inviti alle tue cene?». Arrossisco. Protesto. «Scusate, ma perché ce l'avete tutti con la mia auto?».
Mishkin socchiude gli occhi. Alza in successione tre dita unte della destra. «Perché è pretenziosa. Perché è stupida. E inutile. Che cazzo è? Un' auto da città? E allora cosa te ne fai della trazione integrale? Una jeep? Perché, ci vai in montagna? Fai la Paarigi-Dakar? No, figuriamoci, non vogliamo mica che la carrozzeria si impolveri!».
Vorrei replicare, ma 1'uomo-orso non mi lascia spazio. «L'ultima volta che io ho guidato un'auto era una Jaguar X9. Proprio come quella là fuori».
Neil scuote la testa. «Rabo, quella là fuori è la tua Jaguar.
L’ hai lasciata qui quando ti hanno ritirato la patente». «Ma dai».
Mishkin scuote la testa e riprende a svuotare, sempre più rumorosamente, il suo bicchiere.
«Qualche giorno fa ho bevuto uno Chateau LatourI, del 1983» butto lì, tanto per darmi un contegno».
«Ah si?» mugugna per l'ennesima volta Mishkin, senza nemmeno curarsi di aggiungere un sottinteso e chi se ne frega.
«Mi hanno detto che è la miglior annata di quel Bordeaux». Mishkin solleva gli occhi dall' orlo del bicchiere. «E ti hanno detto una cazzata. È l' ottantadue l'annata straordinaria. Chi te l'lla detta, una stronzata del genere?».
«Hans Albert Mayer» faccio.
«Non mi avevi mai detto che frequentavi gente del genere, Alberto. D'altra parte immagino sia inevitabile, quando bazzichi il giro della Martinelli. A proposito, tira fuori il tuo questionario. Adesso hai un altro campione da intervistare».
«lo non rispondo mai ai questionari» ringhia Mishkin. «Oh, a questo si. Aspetta e vedrai».
Il Moulis-Médoc e poi, alla fine della cena, un Armagnacc Ténarèze di trent'anni rabboniscono Mishkin per il tempo necessario a leggergli le prime undici domande. Alla dodicesima Ha mai letto libri di argomento celtico? lui e Neil scoppiano a ridere.
«Rabo ha tenuto corsi sui Celti. Era assistente di ... come si chiamava, quel professore?».
«Sono stato assistente del professor Szymon Panufnik all'università di Rennes».
«Panufnik è uno dei massimi esperti di storia e cultura celtica, con Kruta, Kassowitz e Verger, che Rabo conosce altrettanto bene» spiega Nei!' Nomi che ovviamente non mi dicono nulla. «Quindi direi che ho letto tutto quello che c'era da leggere sull' argomento».
«Rabo è un uomo rinascimentale».
«Quindi come risposta metto sì?» domando ai due.
Neil si versa un altro Armagnac. «Come ti avevo promesso, ho chiesto a Rabo di prepararti una bibliografia essenziale». «Ce l'ho qui. Se trovo dove si è cacciata».
Rabo Mishkin estrae dalla giacca un foglio stropicciato. Lo lancia con tutta la malagrazia possibile dalla mia parte del tavolo.

La pagina è coperta da una grafia contorta e quasi illeggibile, ed è scritta sia in senso orizzontale che verticale. Nell'Ottocento facevano così per risparmiare sulla carta e sull'affrancatura. «Grazie» dico.
«Guarda che non posso mica fare miracoli» precisa Rabo, dopo un sonoro rutto.
«Tornando al tuo questionario, adesso puoi prendere due piccioni con una fava» si impietosisce Nei!' «Fa' le domande che I i rispondiamo in due, okay?».
Okay. Anche se non mi dispiacerebbe avere in testa un eletto.
«Bene. Allora: Le piacerebbe sapere se il suo cognome è di oriigine celtica?».
Neil sbuffa. «No».
«Neanche a me» si associa Rabo. «Il cognome Mishkin,comunque, è russo».
«Le piacerebbe sapere se la sua impronta genetica la identifica appartenente alla razza celtica?».
Mentre finisco di leggere la domanda vedo che le orecchie di Mishkin si drizzano. È una cosa che pensavo succedesse solo agli animali.
«E se rispondo di sì,» domanda con un brontolio minaccioso cosa succede? Che tiri fuori di tasca una siringa e mi fai un prelievo?».
«No, certo». «Buon per te».
La domanda sul gradimento per l'introduzione di un corso di cultura celtica nelle scuole viene liquidata con un altro NO colleggiale. Quando chiedo se Ritengono possibile la convivenza tra etnie diverse in spazi ristretti come quelli della nostra Regione, Rabo risponde che ieri ha diviso il letto con due colombiane e loro tre hanno convissuto benissimo. «E ti assicuro che il mio letto è parecchio più piccolo della nostra Regione».
Quindi segno sì. Neil non mi dice se e con chi è stato a letto li i recente, ma anche la sua risposta è sì.
Rabo intanto è uscito in cortile per pisciare. «Non sa che hai tre bagni?» domando a Nei!'
«Quattro. Lui dice che pisciate all' aperto gli snebbia il cervello».
Tanto è vero che come rientra si rimette subito all'opera per annebbiarselo di nuovo. Stringendo per il collo una bottiglia di whisky mi sfida a leggergli le altre domande.
Passo alla numero diciassette. Sarebbe favorevole a un 'iniziativa immediata di autonomia territoriale della nostra Regione? «No» risponde. Nei I si associa. Tanto valeva mettere una carta carbone fra i due moduli.
«Finito» faccio.
«Come,finito?» domanda Nei!' Avevi detto che le domande erano venti».
«Le ultime tre vanno fatte solo a chi risponde sì alla domanda diciassette».
A questo punto Mishkin è incuriosito. «Leggimele un po' queste ultime tre domande del cazzo».
Ed ecco le suddette tre domande del cazzo.
18)Ritiene che un 'eventuale iniziativa immediata di autonomia territoriale della nostra Regione incontrerebbe opposizione interna?

D sì D NO
D NON SO
D NON RISPONDE

19) Ritiene che un 'eventuale iniziativa immediata di autonomia territoriale della nostra Regione incontrerebbe opposizione esterna?

D sì D NO
D NONSO

D NON RISPONDE


20)In caso di conflitto armato tra Regione e altri poteri esterni, lei sarebbe disponibile ad appoggiare la Regione?

D sì D NO
D NON SO
D NON RISPONDE


* * *

Avete presente un silenzio che si taglia con il coltello?
Dura circa due minuti, credo, anche se non li ho cronometrati. Alla fine Rabo Mishkin si passa il dorso della mano sulla mente.
L'unto sulle dita si trasferisce alla fronte, e il sudore dalla l,onte alle dita.
«Cazzo» sibila.
«Eh si» fa Nei!'
«Cosa c'è?» domando. Mi fissano tutti e due. Neil ha uno
Sguardo meno amichevole del solito. Oltre che perplesso. «Chi ha scritto questa roba?» grugnisce Mishkin. «Perché?».
«Tu rispondi e basta. L'hai fatta tu?».
«Sì. Cioè, no. In realtà me l'hanno più o meno dettata al telefono. lo l'ho solo messa un po' a posto». «Chi te l'ha dettata?» domanda Nei!' «La Martinelli».
«Ah. I see».
Mishkin e Neil si scambiano un altro sguardo complicato da decifrare. È una cosa che mi dà decisamente fastidio. Sembra un consulto di medici che vogliano tenere all' oscuro il paziente di qualcosa di grave che hanno appena scoperto.
«Cosa avete, voi due? Che c'è?».
«Da quanto tempo lavori a questa cosa?» domanda Mishkin, ruvido come la carta vetrata.
«Dai primi di maggio».
«E in tutto questo tempo cosa hai fatto?».
«Non molto. Abbiamo costituito un gruppo di lavoro. Stiamo lavorando su alcune idee. Questo sondaggio è la prima cosa che riusciamo a concretizzare».
«Meno male. Quindi tu non c'entri con la mostra al Castello». «No. Cioè, è una delle cose su cui dovremo intervenire». «Lo sai cos'è quella mostra, vero?».
«Uno schifo ... ?».
«È il più clamoroso falso dall' epoca dell'Uomo di Piltdown e dell'Archaeopteryx di Solenhofen! Solo che quelle, almeno, erano frodi fatte bene».
Il whisky oscilla nella bottiglia impugnata da Rabo. Il liquido ambrato schiuma come un mare in tempesta. Per un attimo, perché ho bevuto anch'io parecchio, visualizzo un veliero in bottiglia che naufraga in quei flutti etiIici.
«Forse dovresti spiegargli di cosa stai parlando» suggerisce Nei!'
Mishkin grugnisce. Mi punta contro l'indice. «Sai cos'è l'Uomo di Piltdown?».
«No».
«Ti pareva. Ascolta: nel 1912 venne annunciato in Inghilterra il ritrovamento di un fossile che rivoluzionava tutte le credenze correnti a quel tempo in materia di evoluzione. Un teschio con caratteristiche sia umane che scimmiesche. La comunità scientifica» prosegue Mishkin «accettò quel fossile senza discussioni. Ci vollero quarant'anni per dimostrare che era un clamoroso falso, un collage di ossa umane e di scimmia. E sai perché ci volle tanto? Per il wishfùl thinking della comunità scientifica».
«In che senso, wishfùl thinking?» domando.
«Nel senso che quel fossile rispondeva ai desideri della comunità scientifica dell' epoca. Era quello che tutti si aspettavano. Che tutti desideravano. Aggiungici il fatto che mancava qualsiasi movente economico per il falso. Nessuno ci guadagnava qualcosa, in termini di denaro. Ti ricorda niente?».
«Cosa dovrebbe ricordarmi?».
«La mostra in Castello. Com'è che l'avete chiamata? VEDERE ERBA DALLA PARTE DELLE RADICI?».
«LE RADICI DEL NOSTRO FUTURO. E le ho già detto che non ci ho avuto niente a che fare». «Dammi del tu» urla Mishkin. «Come?».
«Dammi del tu! Dato che credo che alla fine dovrò picchiarIi, voglio che tu mi dia del tu! Non posso picchiare uno che mi da del lei».
«A questo punto sarebbe stupido a dartelo» osserva Neil, immagino per ridurre la tensione. In realtà ottiene l'effetto contrario, perché Rabo schizza in piedi, lasciando cadere di botto la bottiglia sul tavolo (la bottiglia rotola via, e Neil la ferma solo un attimo prima che cada per terra), e mi si avventa contro.
Mi blocca sulla sedia, stringendomi con le sue mani spropositate. Nel frattempo strepita sul mio naso, con l'alito di un congelatore rimasto senza corrente per quindici giorni.
Gli occhi di Rabo sono rossi, iniettati di sangue e whisky, e sembrano decisamente quelli di uno pronto a uccidermi senza pensarci due volte.
«Quella mostra è un falso. Il Guerriero di Cemblaro! La lomba di Plasencis! Tutto falso!».
«Be', ma ci sono i cartelli che avvisano che tutto è molto ipotetico, e che c'è un certo margine di interpretazione ... ». «Margine d'interpretazione? Margine d'interpretazione un cazzo! Non c'è mai stato nessun Guerriero! Nessuna tomba!». «Scusi, ma in che senso?».
«Ti ho detto di darmi del tu, cazzo! Non ci sono mai stati nel senso che non ci sono mai stati! Nessuno sa da dove sono saltati i'uori quei cosiddetti reperti. Sono saltati fuori dal nulla, sono stati  presentati per la prima volta il giorno dell'inaugurazione della mostra. E vuoi sapere una cosa interessante? Molto interessante?
Non esiste documentazione di nessuno scavo archeologico nel territorio del comune di Plasencis».
«Potrebbe essere una cosa non recente».
«Ehi, apri bene le orecchie: nessuno scavo non vuol dire da mercoledì scorso. Vuol dire che non c'è stato nessuno scavo dal 1900 a oggi».
«Ma com'è possibile? E poi perché nessuno studioso l'ha contestato?».
Neil allarga le braccia. «Wishful thinking. Lascialo stare, Rabo. Lui non ha colpa. Sul serio, Alberto è pulito».
Pulito probabilmente si, ma anche molto sudato. Di quel sudore acidulo prodotto dalla paura. E poi non so se Rabo ha simmpatia per la gente pulita. Comunque mi toglie le mani dalle spalle e fa un mezzo passo indietro, guardando mi come se mi vedesse per la prima volta.
«Nessuno studioso serio vorrebbe avere a che fare con la mostra» conclude Rabo, con un gesto sprezzante.
«Eppure sul catalogo ci sono contributi di diversi autori che non mi sembrano gli ultimi arrivati. Sono sicuro di aver visto anche un saggio di uno dei tre studiosi che Neil ha nominato prima».
«Paul Kassowitz? Paul è un grande nel suo campo, ma ha due unici difetti. È venale in modo abietto, ed è di estrema destra. Ha lasciato la Polonia nel '45 perché temeva che l'antisemitismo da quelle parti stesse passando di moda. Fra l'altro si sbagliava, come sempre. Guarda, facciamo così: i suoi difetti sono tre. È di destra, è venale, ed è anche un gran coglione».

«Ma anche al seminario che ha accompagnato l'inaugurazione della mostra ... ».
Rabo strabuzza gli occhi. «Dico, ma sei tutto scemo? L'hai visto, dove hanno fatto il seminario?».
«Credevo qui».
«Ma allora sei più coglione di quel coglione di Kassowitz. Il seminario si è svolto a Montecarlo. In alta stagione. Hai presente? Ferrari e Rolls Royce che sfilano lungo la Comiche. Figa come se piovesse. Soggiorno pagato in hotel di categoria extralusso, per il relatore e per un numero di accompagnatori da concordare con l'organizzazione. Limite il cielo. Mi risulta ci sia chi si è portato dietro mezzo charter di amici. Lo so perché l'ho trovato su un bollettino di controinformazione accademica. Puoi immaginarti l'imparzialità degli interventi. Che peraltro, faccio notare, di tutto parlavano meno che dei Celti in questa Regioni».
Ho un ricordo preciso degli atti del convegno: la bella rilegatura, il carattere elegante, la veste grafica ricercata. L’impressione della solidità scientifica. Splendide foto, riprodotte con la cura insolita per una pubblicazione accademica. Non mi ricordo i titoli dei vari interventi, ma a prima vista sembravano a posto.
"Mi stai dicendo che è tutta una truffa?» balbetto. Non mi è mai capitato di balbettare prima. Credevo fosse una cosa che succede solo nei film.
"Certo che è una truffa. E adesso che ho visto quella merda di questionario so anche qual è il movente».
«Il movente ... ?».
Neil si avvicina. «Quello che Rabo vuol dire è che la mostra, Il convegno, e anche il tuo gruppo di lavoro, fanno parte di un disegno più complesso. Di un piano».
«Solo un idiota non se ne renderebbe conto» puntualizza Zabo.
Di colpo, chissà perché, mi sento un idiota.
Neil scuote la testa. "Rabo, non tutti hanno la tua fissazione per complotti. Comunque adesso ci sono prove evidenti». «Prove di cosa?» chiedo stordito.
«Prove che è in atto una cospirazione. Chiamala come vuoi, un complotto, un piano segreto, insomma, per staccare questa Regione dal resto del Paese».
«E per quanto possa sembrare pazzesco,» aggiunge Mishkin «per creare una confederazione indipendente di Paesi legati da una comune matrice celtica. Una matrice mitica, ovviamente».
Li guardo. «Siete impazziti?».
Neil mi guarda negli occhi. «Credimi, Alberto, io ne so qualcosa, di cospirazioni di Stato».

* * *
Fuori, adesso, fa molto più freddo. Dalla primavera inoltrata siamo piombati all'indietro nel tempo, in un autunno cupo e umido. Neil mi accompagna alla mia auto. Rabo Mishkin gli trotterella a fianco, con dei passetti da satiro.
«Scarpe del cazzo» impreca. «Mezzo numero troppo piccole». «Perché le hai comprate?» gli domanda Neil.
«Chi ti ha detto che le ho comprate?».
Si ferma davanti alla mia Lexus. «Dovrei salire su questa roba?».
«Non mi ricordo che tu mi abbia chiesto un passaggio».
«E dai, non fare lo stronzo. Dove lo trovo un taxi, a quest' ora?».
«Saresti veramente cortese a dargli un passaggio» aggiunge Neil.
Sono le tre di notte. Una nebbia che sale dal fiume dietro la casa avvolge la base degli alberi e la fontana. La villa, con le luci spente tranne che alla finestra della cucina, sembra il set cinematografico di un film dell' orrore.

«Okay. Salta su» mi ritrovo a dire mio malgrado.
Rabo mi prende alla lettera, e si butta sul sedile a peso morto. «Ahhh. Fantastico. Fanno delle plastiche che sembrano proprio cuoio, al giorno d'oggi».
Decido di non replicare. Abbasso il finestrino elettrico. «Ciao, Nei!»'
«Ciao. Fammi sapere come procedono le cose, col tuo lavoro. E attento a non farti troppi nemici. Mayer non è precisamente uno stinco di santo».
Rabo allunga la mano sul cruscotto, come per accendere la I.,dio. Invece attiva il computer di bordo.
«Cazzo, che stronzata» brontola, offeso.
«Meglio che ti sbrighi a portarlo a casa,» mi fa sottovoce Neil "prima che ti vomiti in auto. Casomai non si ricordasse più il mio indirizzo te l'ho scritto». E mi passa un biglietto.
«Grazie».
«Mi raccomando» dice, mentre il finestrino si alza. Stasera mi sembra più vecchio del solito.
«Allora, parte o non parte questa giostra?» urla Rabo, battendo le mani sul cruscotto come un bambino viziato.

* * *

«Città del cazzo» commenta, appena ci immettiamo sul viale principale che taglia in due la città. Il viale è deserto.
"Come dici, scusa?».
«Città del cazzo» ripete, senza aggiungere altro.
"lo di città del cazzo ne so qualcosa» faccio. «Vengo da Milano».
«Non mi meraviglia» Rabo fa segno di sì con la testa. O forse faccia una mosca dalla fronte.
Poi si mette a canticchiare sulla sigla di Heidi, il cartone animato.
«Mayer, Mayer, ti sorridono i monti, Mayer, Mayer, le caprette ti fanno Neil!».
Smette e mi guarda. «Con Martinelli viene meno bene, ma la musica non cambia».

* * *
«Città del cazzo» conferma per la terza volta, cinque minuti dopo.
«Scusami, ma in che senso, "città del cazzo"?». «Guardati in giro: neanche un'auto per strada».
«Sono le tre di notte di un giorno feriale. Neanche a Milano c'è molto più traffico».
«Ancora Milano. Cazzo mi frega di Milano. Ti sto parlando di qui. Hic et nunc».
«A me non dispiace, come città».
«Ecco: vedi? Per piacere a te dev' essere per forza una città del cazzo. Senti, non hai altra musica? A me questa fa venire l' orticaria».
Apro lo sportello del cruscotto.
Rabo si china come un orso su un favo di miele. «Vediamo cos'hai di bello. Dido. Chi cazzo è, Dido? E questo qua cos'è?».
Do un'occhiata. «Eleni Karaindrou. Quello è di Yann Tierseno Brad Mehldau. Peter Cincotti».
«So leggere. Non hai niente di jazz?». «Be',lna ... ».
«Metti su questo» sbuffa, tirando fuori dal cassetto un Cd che non ricordavo nemmeno di avere in auto. «Un Requiem?».
«Perché no?».
Schiaccio il pulsante. Sil/y Little Things di Nora Jones scivola per metà fuori dal lettore. Rabo lo afferra e lo lancia sul sedile posteriore.
«Ehi!» faccio.

«Mucci. Zitto. Fa' sentire. Questa è roba buona».
Le voci dei Tallis Scholars riempiono l'abitacolo dell' auto.
L'Agnus Dei dal Requiem di Luis Tomas de Victoria. Musica tersa, assoluta, che non ascoltavo da un secolo. Non ricordo neanche quando ho comprato il disco. D'improvviso l'auto è come se fosse lanciata su un' altra strada. Come se fossimo passati in altra dimensione. I palazzi scorrono ai 'Iati della strada, e la musica sembra scritta per loro. Gli alberi tristi, le cancellate, i semafori con le luci sul giallo intermittente.
Quando sto cominciando a distendermi nella musica, Rabo allunga la mano e fa uscire il Cd.
«Basta» fa. «Metti su questo».
Questo è la colonna sonora del Paziente inglese. Con la copertina in mano Rabo mi fa cercare la traccia numero sei, Cheek to Cheek cantata da Fred Astaire. Come la musica esce dagli altoparlante, Rabo si mette a cantare. Non a canticchiare: a cantare a squarciagola, battendo il ritmo con le nocche sui vetri.
«Heaven ... l'm in Heaven,
And my heart beats so that J can hard/y speale, And I seem to find the happiness J seek,
When we're out together dancing cheek to cheek».
«Svolta qui» grida all'improvviso, afferrando il volante. Stento a riprendere il controllo e a mantenere l'auto in strada. Controsterzo.
Freno.
«Sei impazzito? Qui dove?». «Là, ormai. Due traverse fa».
Faccio inversione all'incrocio successivo. Torno lentamente indietro.
Prendo la seconda laterale e la percorro a dieci all' ora. Il quartiere non è dei più degradati della città, ma non è neanche ,lei più allegri.
Passiamo davanti a vetrine le cui saracinesche devono essere state abbassate intorno al 1970. A villette primi Novecento con le finestre sbarrate da assi.
A cupi giardini incolti.
La voce di Fredastaire, registrata negli anni Trenta, mi sembra quasi più sinistra del Requiem.
Mi ricorda la storia che mio nonno, quello veneto, raccontava a mia madre, e che lei a sua volta raccontava a me per farmi paura. Di come una sera, tornando dai campi sul suo carro, mio nonno aveva incontrato una ragazza molto pallida e silenziosa, che gli aveva chiesto a gesti di darle un passaggio sul carro. Mio nonno era sceso, perché il mulo era vecchio e non poteva tirare più di un certo peso. La ragazza era rimasta ferma per tutto il viaggio. Non rispondeva alle domande di mio nonno, che dopo un po' aveva rinunciato a parlarle. A un certo punto gli ha fatto cenno con la mano di fermarsi ed è scesa. Ha girato dietro un muro ed è sparita. Mamma diceva che a mio nonno erano venuti i capelli dritti dalla paura quando si era accorto che il muro era quello del cimitero.
Da qualche parte dentro di me, provo la stessa sensazione di paura quando Rabo indica un palazzo deserto, completamente buio.
Solo che Rabo non sa di tomba. Sa di spiriti di un' altra sorta. «Fermati» mi ordina. «Siamo arrivati».

***

La Lexus è ferma davanti a un condominio squadrato, tipico esemplare degli anni Sessanta. Quello che lo avvolge non è il buio normale di quest' ora di notte. È il buio assoluto di un posto a cui l'ENEL abbia staccato la luce. Il buio dei paesini finiti in fondo a un lago artificiale.
Rabo intercetta il mio sguardo.

«Brutto, eh? Pensa che è tutto mio. Ne ho uno uguale a Pordenone. Uguale vuol dire proprio uguale. Mio padre non aveva fantasia. Se non fosse stato per mamma avrebbe tirato su decine di condomini come questo, fatti con la carta carbone. Era fascista, ma costruiva palazzi da piano quinquennale sovietico».
Fa strano, sentir pronunciare la parola mamma da quest'uomo irsuto e sciupato. Quasi un numero da circo. L'orso che corre in bicicletta. Il cavallo che fa le addizioni.
«Davvero è tutto tuo?».

188

«Cazzo, ti ho appena detto di sì. Ehi, perché non vieni su a l'ne qualcosa?».
«Pensavo che mi avresti ammazzato e rubato la macchina, una  volta arrivato a casa».
«Guarda che Rabo non conosce rancore». «Grazie. È una notizia confortante». «Vieni su, dai. Cinque minuti».

* * *

La luce c'è. Una lampadina ogni tanto, ma c'è. L'atrio puzza di urina.
Domando a Rabo se ha un cane.
«No. Perché?».
«Niente. Lascia perdere».
Non prendiamo l'ascensore. Saliamo tre rampe di scale, e a ogni rampa Rabo si ferma a riprendere fiato, appoggiandosi di ''''so a un corri mano dall'aspetto precario. Anch'io faccio fatica a salire. Ho un dolorino al petto, e la gamba sinistra mi fa male.
Respirando forte guardo le porte coperte di polvere, coi capelli senza nomi. Le ragnatele sugli angoli.
«Adesso capisco perché c'è la crisi degli alloggi» commento.
"Cioè?».
"Davvero hai un condominio tutto per te? Non ti sembra uno spreco? Voglio dire, non potresti affittare almeno qualche appartamento?».
"Ma questo è il mio palazzo. Quando papà me l'ha intestato ha detto che era mio. E io me lo tengo. E non lo divido con nessuno» Apre una porta altrettanto impolverata e sudicia delle altre.
Non è chiusa a chiave.
"E poi chi mi vorrebbe come vicino? Rabo Mishkin è un appestato, in questa città di Filistei. Un giorno o l'altro me ne vado. Tanto ne ho pieni i coglioni, di questo posto. Entra, dai».

* * *

La prima cosa che uno nota dell' appartamento sono i libri.
Sembra più il deposito di una libreria o di un museo antiquario che un posto dove si possa vivere.
«Non fare caso al disordine. La cameriera è morta nel '97». «Il novantasette di che secolo?».
Rabo ridacchia.
Mi chiedo se sia questo il legame fra lui e Neil. Voglio dire, i libri. Non è difficile immaginare che Neil- che per contratto non deve andarsene troppo in giro - usi Rabo per i suoi acquisti. «Da quanto conosci Neil?» mi domanda Mishkin, come se mi leggesse nel pensiero.
«Da quattro anni. E tu?». «Boh. Da una vita».

Mi guarda fisso. A lungo. Poi inarca un sopracciglio. «Cosa ne pensi della sua ... ? Be', insomma, sai cosa voglio dire?». Fa un segno con la mano che potrebbe significare qualsiasi cosa. Sembra non voglia menzionare quello-che-sappiamo. lo nemmeno. Così però il silenzio rischia di protrarsi un po' troppo a lungo.
«Della storia della Luna, vuoi dire?» faccio alla fine. Rabo mi sembra sollevato. «Esatto».
«Penso che sia una storia interessante» rispondo. «Tutto qui? Una storia interessante?».
«E tu che ne pensi?».
«Ho fatto qualche verifica». «Risultato?».
Rabo non risponde subito. Apre il frigo, un Electrolux degli anni Cinquanta, e tira fuori due bottiglie di birra.
Inarco il sopracciglio. «Birra a quest' ora?».
«Troppo presto? Troppo tardi? Da qualche parte al mondo è senz' altro l'ora giusta per una birra».
Ci sediamo su un divano verde, spelacchiato e con parecchie molle saltate. Dal rumore di parti meccaniche deduco che una volta era un divano letto.
«È qui che ti scopi le amiche?» domando, anche se non è da me. Decisamente ho bevuto troppo.
«No, tranne in caso d'emergenza. Di là ho il letto king size ,il materasso ad acqua. Va' pure a dare un'occhiata, se vuoi».
Declino educatamente l'offerta. Rabo stappa le due birre. Sono bottiglie verdi da 66 cc. Sull' etichetta è disegnato una specie: di Lawrence d'Arabia.
«Bière du Désert» leggo. «Mai sentita».
«Ragione di più per provarla. La chiamano "lo champagne delle birre". Pubblicitari del cazzo. Inventerebbero qualsiasi cosa, pur di vendere la loro merda. 'sta birra è buona sul serio, però». «Prosit, allora».
«Salute, coglione».
La birra è buona davvero. Amara, dissetante. Glielo dico.
Però non hai risposto alla mia domanda». «Te l'ho detto: le scopo sul letto ad acqua». «L'altra domanda».
Fa finta di stupirsi. «Ah, l'altra! Certo. Qual era, l'altra domanda?».
«Cosa pensi della storia di Neil e della Luna».
Ma prima che Rabo possa rispondermi o rifiutarsi di rispondere, mi squilla il cellulare in tasca.
La suoneria che ho impostato sul mio Ericsson è il vecchio uomo russo, quello di prima di Eltsin e Putin. Sovjetska qualcosa. Un tocco di originalità che è spesso fonte d'imbarazzo o di peggio, come quando il cellulare ha suonato mentre passavo accanto a una tavolata di simpatizzanti di Italia in Marcia.
Rabo ridacchia.
«Pronto?» rispondo al telefono, sottovoce. «Ti scoccia se ti chiamo?».
«Ciao».
«No, perché se ti scoccia metto giù».
«Marta ... ».
«Pensi di tornare a casa, prima o poi? Hai idea di che ore siano.».
Guardo l'orologio.
«Le quattro» farfuglio. «E un quarto. Dove sei?».
«Malgorzata non ti ha detto niente? Le avevo detto ... ». «Ti ho chiesto dove sei».
«Ah, da ... da un amico».
«Da-da-da-un amico? Che amico? Come si chiama?».
«Rabo Mishkin» urla Rabo, a un millimetro dal mio orecchio. «Chi ha urlato?» urla Marta.
«Rabo Mishkinl» riurla Rabo, a volume doppio. «Chi è Rabomishkin? Dove sei?».

«Adesso torno a casa e ti spiego tutto, d'accordo?». «D'accordo un cazzo. Dimmi dove sei».
Metto la mano sul microfono. «Rabo, per cortesia, puoi smettere di fare casino? È mia moglie».
Mishkin fa un gesto da attore tragico e si rintana nel suo anngolo del divano, ciucciando dal collo della bottiglia come un lattante orrido e oversized.
«Sono a casa di un amico, ti ho detto». «Tu non hai amici».
È vero. Non nel senso tecnico del termine, per lo meno. Abbiamo tanti conoscenti, questo sì. Prima dell'affare della Puritan erano ancora di più. Rapporti di lavoro che si sono coagulati in forme di blando affetto e reciproca frequentazione. Vita sociale standard.
Prima che nascesse Gaia frequentavamo anche altre coppie.
Coppie giovani, per via del fatto che erano amici di Marta.
Dopo la nascita di Gaia sono stati tutti gentili, per un po'.
Regali, maglioncini rosa, alcuni dei quali presumibilmente fatti a mano. Qualche paio di calzini azzurri. Credevamo fossero regali di benvenuto. Invece erano regali di addio. Nel giro di qual-
Che settimana le telefonate si erano fatte più rade, le conversazioni sempre più unidirezionali e monotone, fino a ridursi agli auguri per Natale e le altre feste comandate.
Col tempo e con l'esperienza abbiamo capito che la nascita di un figlio aveva tracciato sulla nostra coppia una lettera scarlatta, un simbolo di biologic hazard che allontanava infallibilmente da noi le coppie che, come in quella canzone francese, ont dit "j'attends': A l'arte una coppia di architetti gay che per un po' hanno continuato a frequentarci, diventando le ziette putative di Gaia. Poi i due si sono separati, e ognuno ha preso la sua strada. Mai più visti e sentiti.
Perciò, dicendo che non ho amici, Marta ha toccato crudelmente nel segno.
«Sono a casa di un professore. Sto lavorando». «Ah, adesso non è più un amico. È un profèssore». «SÌ».
«Raccontala a un altro». «Te lo giuro».
«E fino ad adesso dove sei stato?». «A casa di un altro amico».
È un amico, Neil? Direi di si
«E come si chiama, quest'altro amico?». Ahi.
«Non posso dirtelo».
Silenzio, all'altro capo del filo. Gelo telefonico. «Cosa vuol dire, che non puoi dirmelo?».
«Che non posso dirtelo».
Devo dire che me l'aspettavo, che Marta sbattesse giù il telefono.

* * *

«Beviamoci su» propone Rabo. «Il mattino dopo le cose sembrano sempre migliori».
«Guarda che è già il mattino dopo».
«Dopodomani, allora. Dopodomani ti sembrerà migliore». «51, come no».
Ascoltiamo, nell' ordine, Where Have AlI the Flowers Cone, in una versione diversa e più corta di quella di ]oan Baez che conoscevo, e poi Talking Union. Invidio l'abilità di Rabo nel centrare sempre l'inizio del brano: la puntina cala infallibilmente precisa fra i solchi, con appena un secondo di silenzio prima della musica.
È una cosa che a me non riusciva mai. Grattavo sempre il disco.
Quando è arrivato il compact disc ho tirato un sospiro di sollievo. «Sei mai stato in America?» mi domanda Rabo.
«Un paio di volte».
«lo ho passato un paio di anni in California, mi pare dal '65 .Il '67».
«Ti pare? Non sei sicuro?».

«Con Rabo Mishkin non c'è mai niente di sicuro. Metà della mia vita è agiografia autoprodotta. Comunque sì, ho fatto l'assistente di Scienze politiche a San Diego. E a Berkeley, nel '67. ti San Diego lavoravo come assistente di Herbert Marcuse. Sai chi è, vero?».
«Certo».
Rabo accende un impianto stereo che sembra uscito da una macchina del tempo l'arata sugli anni Settanta. Giradischi per vinile. Amplificatore a valvole.
Anche la sua raccolta di dischi è all'altezza. «Ehi,» dico «hai tutta la disco grafia degli Yes. Originale?».
«Compreso un paio di bootleg rari. Ti piacciono gli Yes?». . «Mi piacevano. È un pezzo che non li ascolto».
«51, ho visto. Adesso ascolti Eleni Karaindrou» fa, scimmiottando un accento blasé sul nome dell'artista. «Sai cos' è un indice della nostra decadenza? Lo vuoi sapere? È che tu ascolti Eleni Kakatù, ascolti Brad Merdau ... musica svigorita, intellettuale, fatta per l'ozio. Musica del cazzo, che viaggia dall' orecchio al cervello senza passare per lo stomaco. Senza passare per il fegato. Per i coglioni. Mentre tutto intorno a noi c'è un mondo che si sveglia al ritmo di musica energica e vitale. Un mondo che ha trombe e tamburi nella colonna sonora. Che rende lode in musica ai vecchi dei combattivi e sanguinario Hai mai sentito certe musiche slave? Musiche contadine, energiche, vitali. Quando le hai sentite, capisci da dove saltano fuori la violenza. I kalashhnikov. La pulizia etnica. E la musica africana?».
Quando ha finito di sputacchiare e concionare, il che avviene dopo un' altra decina di minuti, Rabo tira fuori dallo scaffale alle sue spalle un album con un uomo che suona il banjo in copertina.
Pete Seeger, leggo sulla copertina. Createst Hits. «Musica della tua infanzia» ironizza Rabo.
«Guarda che sono del '55, mica del '35» ribatto, mandando giù un altro sorso di birra. Ma in effetti la musica mi riporta alla memoria un sacco di ricordi. Sacchi a pelo e salsicce cotte sul falò. Chitarre stonate. L'odore di gomma di un preservativo.
«Se è un bluff non voglio scoprirlo. Dicevo, a Berkeley ho conosciuto Pete Seeger. Quella era un' altra America, sai. Quella che conosciamo adesso è un changeling. Sai cos'è un changeling?» .
«No».
«È una leggenda celtica. Quando si dice il caso. A volte gli elfi rapivano un bambino nella culla e lo sostituivano con un piccolo della loro specie. Il changeling, appunto. Be', secondo me l'America è stata rapita nella culla nel '67 e sostituita con un changeling. Maligno, per di più. Non un elfo. Una progenie di orchi, piuttosto. L'America che conoscevo era una bambina innocente, con gli occhi azzurri e lunghi capelli biondi. Una bambina che stava cominciando a scoprire cose come la libertà, l'amore. Il rispetto per gli altri. Pensa ai Peace Corps.
Pensa all'idea di Kennedy di utilizzare i satelliti per diffondere conoscenze tecniche e coscienza politica fra i popoli del Terzo Mondo. Pensa alla frase Ich bin ein Berlinen>.
«Mi sembra che la cronologia non quadri. Kennedy è morto nel '63, no? Quindi forse la bambina che hai conosciuto ... ».'
Rabo sembra riflettere. «Era già un changeling, vuoi dire? Può darsi. Questo risponde anche alla tua domanda, mi sa. Cosa ne penso della storia di Nei!' Penso che Nixon era soprannominato Tricky Dick. Dick l'Imbroglione. Niente di più facile che la storia degli sbarchi lunari sia stata solo un trucco. Niente di più facile». La voce di Rabo è impastata, si inceppa sulle sillabe. «E poi prefeerisco credere che sia stato Nixon, a mentire. Neil mi è simpatico. E guarda che non mi capita spesso di trovare simpatico qualcuno. Tu cominci appena apena adesso a diventarmi sopportabile».
«Grazie».

«Aspetta a ringraziarmi. Posso sempre cambiare giudizio». «E dell'altra storia? Cosa mi dici, delle voci dei morti?». Mishkin si passa la mano in profondità fra i capelli, come se arasse un campo di stoppie. Poi si schioda dal divano con un gran cigolio di molle e va verso la sua disordinata libreria. Trova subito un libro. È un volume grosso, dall'aria costosa. Rabo toglie dal taschino della camicia scozzese gli occhiali tenuti su col nastro adesivo. Li inforca, più o meno dritti sul naso. Sfoglia le pagine. «Oh, ecco qui». Comincia a leggere dal libro, una decina di parole che non capisco.
«È russo?» gli domando, quando richiude il libro.
«Greco, ignorante. Dal Vangelo di Tommaso. Dice Gesù:
"Non vi è nulla di sepolto che non sarà risvegliato"». «Il Vangelo di Tommaso?».
<<È una lunga storia. Alcuni frammenti di quel Vangelo sono stati ricavati dai papiri di Ossirinco. Altri da citazioni degli autori cristiani. Quello che ti ho letto era scritto su un lenzuolo funerario del quinto secolo».
«Dopo Cristo?» mi scappa detto, prima di poter trattenere la cazzata.
«Certo che quando pioveva dal cielo l'intelligenza sei uscito di casa con la forchetta invece del cucchiaio. Dopo Cristo, s1. . Dato che le prime due parole che ti ho letto sono "dice Gesù"».
Decido di non aprire più bocca, almeno per un po'.
Ascolto le voci del pubblico che canta con Seeger i versi di Guantanamera. Pensando a quello che è successo dopo, la canzone comunica effettivamente un senso di precaria innocenza, di tempesta imminente.
Rabo mi allunga la busta interna del disco. «Mi ha fatto anche la dedica, vedi?».
Leggo: «To Robbo, who knows where have ali the young gir-
Is gone. Pete».
Accanto alla firma c'è lo schizzo di un banjo. «Robbo?» faccio, inarcando il sopracciglio. «Be', hai sentito come canta in spagnolo».

* * *

«Dna notte ci siamo addormentati e il giorno dopo, al risveglio, nella culla c'era quest'altra America. La brutta e sporca figlia dell'Orco. Il changeling. L'America di Calley e Medina. I : America che ha ucciso i due Kennedy e Martin Luther King. I :America di Nixon e di Ivan Boesky e di George Doppia Vu Bush. Il paese che ha strangolato nella culla la libertà del Sud America. Che ha assassinato Allende».
Guardo l'ora sul Breitling.
«A proposito di uccidere» sospiro.

***

Quando apro la porta di casa, alle sei del mattino, quel che sfìora la mia testa non è un coltello o una mannaia affilata, stile Shining, ma la ben più prosaica ciabatta destra di Marta, seguita Il n attimo dopo dalla sinistra.
La prima mi manca, la seconda mi centra in piena fronte. La testa di Marta appare da dietro il divano. «Brutto stronzo» mi grida.
Sullo schermo della televisione del salotto, col volume azzerato, e quindi con l'incongruo sonoro mal sincronizzato della nostra lite, scorrono le immagini di un film che forse è A piedi nudi nel parco.

17 Nel parco


Nel parco, il sabato mattina, girano due tipi di persone: quelli che vengono qui per uno scopo e quelli che ci vengono perché non hanno di meglio da fare. Entrambe le categorie si odiano reciprocamente. Chi non ha niente da fare detesta l'eccesso di attività che caratterizza gli appartenenti all'altro gruppo, gente che sfreccia e saltellano fa rimbalzare una palla o si danna a insegnare al cane come recuperare un bastone. Gli impegnati, a loro volta, disprezzano gli sfaccendati, che riducono, senza alcun tornaconto personale il sociale, la percentuale di verde e di ossigeno pro capite dei frequentatori realmente interessati alle virtù rigenerative del parco.
lo non so in che categoria mettermi. Voglio dire, qualcosa da fare l'avrei, ma non è che debba necessariamente farIo qui. D'altra parte Marta mi ha affidato la corvée dei bambini e dell'acquisto del pane, impegni che rischiavano di farmi sottrarre ore preziose alla compilazione della mia quota di questionari. Allora ho intervistato solo due persone, e quindi sono al quattro per cento della mia quota.
Quattro per cento.
Visualizzo la cosa come il caricamento di un grosso programma, tipo Word, su un computer vecchio e lento. La barra dell'installazione che si colora di blu lentissimamente.
1 per cento completato, 2 per cento completato ...

* * *

Fra la gente che viene qui con uno scopo ci sono quelli degli sland. Uniche condizioni che il Comune pone alla presenza degli stand nel parco sono che non abbiano finalità di lucro e che mirino .d benessere fisico o spirituale dei frequentatori del verde pubblico.
In effetti non si parIa mai di prezzo, ma di «contributo libero», anche se gran parte del materiale esposto negli stand rientra in precise categorie merceologiche.
Fra i gruppi che si occupano del benessere fisico dei cittadini ci sono i Massaggiatori Olistici, i Seguaci dell'Ayur-Veda, della Cristallo terapia, dell'Aromaterapia e del Tai-chi, i ]udoka, gli Arcieri Zen, gli Arcieri Medievali e le Majorettes della Banda Municipale, di cui quest'anno ricorre il centenario.
Il benessere spirituale è invece appannaggio di Telsen Sao, Scientology, Meditazione Trascendentale, Futuriani, Vegani, Spiriti della Vera Luce, Fratelli dallo Spazio, Soka Galdai. L'ultimo stand della fila è quello dei Padri Divorziati per un Mfido Equo e Solidale. Sembrano le uniche persone normali in quest'angolo del parco. Se le loro ex mogli li vedessero, forse darebbero loro una seconda opportunità. L'effetto vetrina è però compromesso dal fatto che lo stand dirimpetto ai Padri Divorziati, sull'altro lato del viottolo, è quello delle Majorettes. Gli sguardi dei Divorziati e le minigonne delle ragazze spesso s'incrociano, compromettendo la riabilitazione ma favorendo, quantomeno in potenza, nuove e più toniche unioni.
Spero che Gaia non mi chieda cos'è un Padre Divorziato.
Per il momento sembra più interessata alle candele profumate e alla bigiotteria navajo in turchese. Matteo da parte sua, tenendosi ben stretto alla sorella, che a sua volta si è agganciata alla tasca destra dei miei calzoni, studia ogni oggetto di ogni stand alla ricerca di qualcosa che i suoi programmi e algoritmi di ricerca gli consentano di catalogare nella categoria giocattoli. Sinora la ricerca è stata vana, ma mi attendo che da un momento all' altro i suoi standard di qualità e di interesse si riducano fino a poter includere uno o più degli oggetti in mostra.
Con la cartella della rilevazione sottobraccio percorro il sentiero degli stand in caccia di un candidato per il sondaggio. Fra il pubblico c'è gente di ogni razza e colore, e forse anche qualcuno che viene da fuori galassia, almeno stando agli ufologi locali, alcuni dei quali siedono dietro il banco dei Fratelli dallo Spazio, in mezzo a manifesti con gli attori di Star Trek e a gigantografie "granate di cose luccicanti che potrebbero essere qualsiasi cosa reperibile su un dizionario.
Abbordo la mia prima vittima davanti alla bancarella dei VegaIi. ragazzi barbuti con collane fantasia e lunghe tuniche bianche.
Un respiro profondo. Bambini, non guardate. Tappatevi le orecchie.
«Buongiorno, signora». «'giorno».
La donna ha passato da un pezzo i cinquanta, ma indossa lilla vezzosa tuta fucsia da jogging e ha l'aria doverosamente sudata, come se avesse corso davvero.
«Potrei farIe qualche domanda?».
«Guardi che se è per la droga o l'AIDS non firmo niente». «Niente del genere. È un sondaggio sui Celti».
La donna sembra perplessa.
«Solo poche domande, sa? Ce la caviamo in cinque minuti.
Iei  non deve firmare niente».
La donna fa un cenno non troppo impegnativo con la testa, che decido di interpretare come un assenso.
Sfodero il primo questionario della giornata.
Comincio dai dati anagrafici. Arrivati all' età sto per barrare 1.1 casella 51-60 quando la donna mi fa, con la freddezza di una pokerista: «Quarantadue».
Forse a questo punto dovrei chiederle un documento. O rivolgermi per una consulenza ai Fratelli dello Spazio. Ma sono ~()lo al 4,1 per cento del mio lavoro, quindi ritengo sia meglio sacrificare l'esattezza dei dati all'efficienza operativa.
Barro la casella 41-50. In fondo, cos1 è solo una mezza bugia.
Rinuncio a mettere in questione il titolo di studio.
La signora risponde a monosillabi alle mie domande sempre più frettolose, perché Gaia e Matt si stanno allontanando in mezzo agli stand meno innocui, in direzione di Scilla e Cariddi, vale a dire Padri Divorziati e Majorettes.
Ci metto una decina di minuti, tirando via e a volte barando. La signora non è favorevole a un 'iniziativa immediata di autonomia territoriale della nostra Regione, per cui saltiamo le tre domande finali.
«Grazie» dico, tendendole la mano. Lei la guarda come se fosse un lombrico peloso. «Tutto qui?» fa.
«51. le domande sono finite».
«E non mi dà niente? Un gadget, che ne so, un grattaci? Vuol dire che ho perso tutto questo tempo per niente?».
Tutto questo tempo sono dodici minuti e trenta secondi (li ho cronometrati) che lei avrebbe comunque, presumibilmente, speso a oziare fra gli stando
«No, non c'è nessun premio. Mi dispiace».
Lei si tiene dentro a fatica un vaffanculo grosso come una casa e si allontana incazzata fra le nuvole d'incenso e di patchouli. Come si è allontanata, per rappresaglia le aggiungo subito dieci anni di età sul foglio, inquadrandola nella categoria 51-60.
Recupero i miei figli davanti a uno stand che da lontano sembrava innocuo. Gaia è imbambolata davanti a un poster con quattro persone impegnate in una posizione del Kamasutra. «Venite via» grido.
«Cosa fanno quei signori?» domanda. «Quali signori?».
«Quelli nel disegno».
«Giocano».

Gaia sorride. «Giocano nel senso che giocano giocano, o gioocano come quando c'erano quelle due bestie delle patate che staavano una sopra l'altra?».
«Si chiamano dorifore» rispondo, preciso ed evasivo al tempo stesso.
«Papà,» interviene Matt «cosa vuol dire scopare?». «E questa dove l'hai sentita?».
«Gaia ha detto che i signori del disegno scopano. Ma scopare l'un'altra cosa, vero? Anche questa è una di quelle parole che vogliono dire due cose?».
Trattenendo un'imprecazione strattono via i miei figli. Ci fermiamo davanti a uno stand che espone libri e Cd. Un attento esame del materiale in mostra non rivela possibili criticità. I libri esposti hanno copertine colorate dalla grafica naive e titoli come Il Vangelo di Gesù secondo Paramhansa Yogananda, L'oracolo di Nama, La scienza del Kriya Yoga, Astrologia dei Veggenti, La pratica del Karma Yoga. Ci sono anche due colonne di libri dall' aria piùseria, per non dire tetra. Sembra, anzi è, l'opera omnia di Julius Evola: Indirizzi per un'Educazione Razziale, Il Fascismo visto dalla Destra, Il Mistero del Graal, Il Mito del Sangue, I Castelli dell’Ordinee i Nuovi Junker.
La sezione dei compact disc rappresenta invece una piacevole sorpresa, perché accanto ai raga indiani e ai canti Sioux c'è lilla sezione ben nutrita di musica celtica. Almeno dai titoli. A Celtic Romance, A Night in Ireland, A Celtic Story, Celtic Legend, Celtic Myth. Saccheggio il portafoglio, facendo incetta di tutto 'quanto presenti la parola celtic nel titolo, compreso un Celtic SiIlfttra e un opinabile Celtic Christmas. Ovviamente non sto pagando. Ligio ai regolamenti municipali sto offrendo un «contributo volontario». La standista, una finta bionda magrissima coi denti storti e il terzo occhio dipinto sulla fronte, mi ringrazia con le mani giunte, intonando qualcosa che potrebbe essere una benedizione oppure l'equivalente indiano di uno scontrino fiscale. La borsa in cui infila i dischi è fatta di materiale organico, dice. Al mio naso odora di canapa.
Approfittando del fatto che Gaia e suo fratello sono impegnati sugli scivoli nel prato, decido di intervistare la standista. Lei sulle prime è titubante, e lo diventa ancora di più quando le sparo la prima domanda sulla razza celtica.
«Cioè,» mi fa «non è che sono convinta che è una cosa di destra, ma insomma, in parte, la cosa non è che mi crea, come dire, non è una specie di tabù, ma credo che il concetto di razza trascenda quello di razza, hai capito? Nel senso che è un altro concetto di razza. Non razza-razza. Più una cosa spirituale, insomma, capisci?».
Man mano che l'intervisto mi rendo conto che i suoi capelli sono solo tinti di biondo, e che il pesante accento romano giustifica soltanto in parte il suo impaccio verbale. In altre parole, la ragazza è piuttosto scema. Un campione ideale per il mio sondaggio.
Infatti la giovane risponde entusiasticamente SÌ dove serve (cioè praticamente a tutte le domande tranne a quella sulla possibilità di pacifica convivenza tra ernie diverse), e ha solo un lieve impaccio a capire la differenza tra Irlanda e Galles. «Comunque sono due isole vicine, no?».
In compenso è senz'altro disposta (domanda numero venti) ad appoggiare la Regione in caso di conflitto armato.
Peccato che nel suo caso la Regione sia il Lazio.
Nelle successive due ore intervisto altre otto persone. Stando al risultato parziale del sondaggio, di indipendenza non se ne parla fino almeno al duemilaeventi. L'idea di un'insurrezione armata suscita reazioni che vanno dalla benevola presa per il culo alla minaccia di chiamare un vigile.
Oltre ai fogli compilati, il bottino della mattinata comprende una moneta da due euro che la quarta intervistata, un' anziana signora veneta, mi ha messo in mano. «Poareto. Me fa pecà de vèder un siòr tanto distinto ridurse cussì. Ma un altro lavoro no podeva trovarselo?».
Gaia a un certo punto si è offerta di darmi una mano. Immagino più che altro per noia. Così lei e Matt si sono messi al mio fianco reggendo i questionari vergini e quelli compilati. Matt ha ottenuto l'appalto dei fogli già riempiti, e la cosa mi causa non pool;\ apprensione. Il raccolto della mattina è così scarso che non ci vederlo disperso al vento. Anche se per la verità di vento non l"C n'è. È una gloriosa giornata di sole, praticamente già estiva.
Peccato passarla così.

* * *

Fermare la gente per strada rientra fra le tre cose che più detesto al mondo. Le altre due sono intervistare la gente per strada l'd essere gentile anche con gli stronzi.
Quindi è tutta la mattina che faccio le tre cose che più detesto al mondo. È qualcosa che inevitabilmente può guastar ti la giornata.
Sono quasi le undici. Matteo brontola e si siede per terra.
Facciamo altre tre interviste. La barra blu è arrivata al trenta per cento. Non male, a parte le risposte. Ho idea che la mia unica recluta della giornata, la suonata di Trastevere, si annoierà in caserma, dato che nessuno degli altri intervistati pensa di dare non dico la vita, ma neppure un alluce valgo per la patria. Oltretutto, nonostante la mia cura nello scrutare preventivamente i passanti i, due degli intervistati risultano stranieri.
Immagino che un qualche tipo di premio, o di concorso abbinato all'arruolamento, potrebbe agevolare l'amar di patria.
In fondo viviamo nell'epoca del. Sistema Premiante.
Quando la mia giornata sembra scesa al nadir, e le nuvole si chiudono intorno al sole come se volessero soffocarlo dentro un sacco di cellophane grigio, allo zeresimo secondo, come dice Matt, sento una voce di donna gridare il mio nome.
«Alberto!».
Sullo sfondo degli alberi, bella da morire e anche di più, muove verso di me nell'incanto del verde la dolce e leggiadra
Aurelia Copetti.

18 - Aurelia Copetti

Aurelia Copetti indossa, partendo dai piedi: scarpe da ginnastica bianche in tela, gonna cortissima in jeans, maglietta bianca Fred Perry, sorriso giovane e luminoso, di quelli che ti attorcigliano il cuore.
«Ciao» dico, quando in realtà vorrei dirle non mi ero mai accorto che avessi le efelidi sul viso. Non mi ero mai accorto di quanto le tue gambe fossero perfette, né che i tuoi occhi avessero lo stesso verde di un campo di trifoglio irlandese.
Non so cosa Aurelia avrebbe voluto dire. Quello che dice è: «Che sorpresa trovarti qui».
Poi si china.
I muscoli delle cosce si tendono, tonici e abbronzati. «Così questi sono i tuoi bambini? Come vi chiamate?». «Gaia».
«Matteo».
«Che bei nomi. Scommetto che siete anche bravi». «Sì».
«Certo».
Sorrido. «Cosa ti aspetti che dicano? Sono i figli di un pubblicitario» .
Aurelia si rialza, con un movimento elastico che mi ricorda la differenza d'età che c'è fra noi.
«Com'è andata?» domanda.
«Quindici intervistati» rispondo con orgoglio. «Sono già al trenta per cento. E tu?».
«Be', io ho finito». «Ah».

«Ho cominciato subito, appena uscita dalla riunione. Inutile aspettare il sabato, no? Ho pensato che di sabato è vero che la gente ha più tempo, però non è che uno si diverta a rispondere a un sondaggio, quindi secondo me ha una specie di rifiuto inconscio a dedicarti tempo. Invece ieri ho fatto quaranta interviste, ci crederesti? Giovani, anziani. Stamattina ho intervistato .ll1che uno straniero. È stato gentilissimo, anche se un po' bizzarro. Mi ha detto di salutarti. È uno con un nome strano».
«Nei! Cassady, per caso?».
«No. Rabo qualcosa. Mistin, mi pare. Tra l'altro è stata una cosa divertentissima, perché l'ho trovato che armeggiava con un telefono pubblico. Ci crederesti? Non sapevo neanche che esistessero più, i telefoni pubblici. Voglio dire, hanno tutti il cellulare, no? ma magari aveva la batteria scarica. Comunque quando mi ha visto mi ha detto, dove cavolo infilo il gettone? Cioè, non è che ha detto cavolo, hai capito? Ha detto quell'altra parola. Allora gli ho detto guardi che questo non va a gettoni, è un telefono Il scheda. E lui mi fa una scheda di che?».
«E poi?».
«Poi quando ha visto la mia cartellina si è messo a ridere e mi ha chiesto se volevo fargli delle domande. Gli ho detto di sì, e lui è stato gentilissimo, e ha risposto a tutte le domande».
«A tutte?».
Aurelia fa segno di sì con la testa.
«Anche a quelle sulla possibilità di un conflitto armato?». «Ah, quelle. Sì. Certo. Anzi, ha detto che per quanto sia anziano prenderebbe anche lui su il fucile. Anche se a me non è sembrato cosÌ anziano. Un po' malandato, magari, ma non proprio anziano».
Dal basso, Gaia la strattona per la gonna. «Tu sei la signora che ha telefonato quando papà non c'era».
«Che brava. Hai riconosciuto la mia voce».
«Sì. Papà, questa signora è quella che mamma dice che è una sciroccata».
Le guance di Aurelia arrossiscono. Ha un gran bel modo di arrossire.
«Marta è un po' stressata, ultimamente» dico.
«Non importa. Sul serio. Ehi, sai che stai bene, vestito così?» Vestito così vuol dire, sempre partendo dal basso: scarpe da barca Polo Ralph Lauren, chinos bianchi della Avirex, camicia YSL bianca botton down, cravatta di Balmain, gialla con motiv:o a orsetti in divisa da canotti eri,  sorriso stupido e grato per il complimento. «Grazie».
«Non ringraziarmi. È la verità».
«Mia moglie dice che vestito così sembro un giocatore di cricket».
E immagino abbia anche ragione. Quando mi sono specchiato, stamattina, mi è venuta appunto in mente la partita di cricket del film L'Australiano di Jerzy Skolimowski. Dove Alan Bates, con un urlo imparato da uno stregone aborigeno, faceva morire la gente. O anche gli infermieri di Qualcuno volò sul nido del cuculo sono un modello di riferimento attendibile. Gran parte di quello che sono, di quello che ho imparato, lo devo al cinema. Compreso il sorriso che faccio in questo momento, puro Jack Nicholson. Peccato per il bozzo in piena fronte, che nonostante il fondo tinta applicato da Marta ha ancora un colore blu livido.
Per qualche minuto ci guardiamo, io e l'Aurelia, con l'aria di chi vorrebbe invitare l'altro a ballare ma non trova il coraggio. Quando alla fine apriamo la bocca lo facciamo contemporaneamente, e la cosa ci fa scoppiare a ridere tutti quanti: io, lei, i bambini.
«Dimmi» fa Aurelia, quando ci siamo calmati. «No, dimmi l'm>.
«Se ti va, posso darti una mano. Visto che io ho finito». «Non so» nicchio. «È tardi. Dovrei portare i bambini a pranzo. Non ho neanche comprato il pane». «Peccato. Potevo aiutarti».


Gaia mi prende la mano. «Mamma ha scongelato il minestrone» sussurra, con una smorfia. «E quindi?».
«Potremmo andare a mangiare da McDonald's». «Questo è escluso».
«Ti danno l'happy meal con Monsters è Co. 2».
«Mamma non vuole. E poi hai già tutti i personaggi del film». «No. Mi manca Zebbo».
«Zebbo? E chi è Zebbo?».
<<È il mostro con sedici tentacoli. Quello verde».
Non ricordo nessun mostro verde coi tentacoli. D'altra parte il mio ricordo più vivo di quel pomeriggio cinematografico è l'odore di chewing-gum alla fragola e il chiasso dei bambini.
A questo punto è Aurelia a tentare di prendere il comando.
"Ma dai, Alberto. Per una volta, che male c'è? E poi non occorre mica che mangino panini. Possono prendere il pollo. lo per l'sempio prendo un'insalata. Dai, finiamo le interviste e andiamo da McDonald's. In due ore siete a casa».

***

Una delle tematiche più interessanti del particolare genere letterario chiamato fantascienza è quella degli «universi paralleli». I romanzi che ne trattano partono dal presupposto che un determinato evento (spesso un momento cruciale, ma a volte anche un fatto minimale, come l'uccisione di una farfalla nel Giurassico) comporti una deviazione del corso storico. In altre parole, da un certo istante in poi la storia prende una piega diversa.
Non so: Hitler muore in trincea nel 1916, quindi il nazismo non nasce, e a invadere l'Europa nel 1939 è l'Unione Sovietica di Stalin.
Le caravelle di Cristoforo Colombo tornano indietro prima di avvistare il continente americano.
E così via.
L'evento che produce la deviazione storica è chiamato in modi diversi dai vari autori di fantascienza. Alcuni lo chiamano punto di divergenza.
Non mi è difficile riconoscere nel momento in cui Aurelia e io siamo una di fronte all'altro e lei propone il McDonald's, come uno di questi punti di divergenza. Qualsiasi decisione io prenda, avrà effetti determinanti sulla mia vita a venire.
Potrei dirle di sì, e correre il rischio di passare due ore con lei, a contatto con il suo profumo e magari con la sua pelle, con la sua voce e col piacere che mi dà la sua presenza. Ma anche con l'ulteriore rischio della presenza di due testimoni incorruttibili come i miei figli.
Oppure potrei dirle no, thanks e prendere la via di casa, fermarmi a comprare il pane e rimettermi in moto il pomeriggio per il settanta per cento di interviste che mi resta da fare.
Devo decidere.

19 Decidere

Decidere, al McDonald's, è meno difficile di quanto sembri sulla carta. Il menu non presenta alternative esaltanti per uno della mia età.
«Per me un'insalata. E un'acqua minerale» ordina Aurelia.
McChicken con patatine e una Coca grande sono la scelta di Gaia e Matteo.
«E lei signore cosa prende?». «Ah, uh, mi dia un Big Mac».
«Ah uh prendi l' happy meal, papi» mi canzona Gaia.
«Va bene. Vada per l'happy meal».
«Sempre con il Big Mac?».

«Sì. Va bene».
«Bene. Con sorpresa per bambino o bambina?».
«Bambina!».
«Bambino!».
Guardo la cassiera. «Due Big Mac. .. ».
Ci sediamo a un tavolo d'angolo relativamente pulito. «Non dovrei mangiare questa roba» sospiro. «Ho problemi di pressione». «Non fai nessuno sport?».
«Lo facevo. Tennis, vela. Montagna. Un po' d'equitazione».
«E poi?».
«E poi i figli. No, è una bugia. Cioè, è anche per via dei figli, ma soprattutto dopo la cosa che sai, la faccenda della Puritano Le porte di molti circoli si sono chiuse da un giorno all'altro. Chiuse per me, voglio dire».
«Ah sì, la famosa storia della Puritano Ho sentito Severino che ne parlava. Un giorno mi racconti cos'è successo?».
«Se vuoi».
«Noterai che non ti ho chiesto cosa ti sei fatto in fronte. Malgrado noi donne siamo curiose. Come ben si sa». «Ti ringrazio».
«Comunque cosa ti sei fatto?». «È una lunga storia».

Gaia e Matteo si sono lanciati sui panini come due maiali.
Matteo è in un periodo in cui imita tutto quello che fa la sorella. Che a sua volta, secondo me, imita il facocero Pumba del Re Leone. «Mangia piano, Gaia».
«lo mangio piano, papà».
«Non mi sembra».
«Gaia è una maiala».
Aurelia sorride. «Questo non si dice, Matteo» fa, strizzandomi l'occhio. «Sapete cos'è successo a un bambino, una volta?» «Cosa?» domandano tutti e due.
«C'era una volta un bambino che chiamava maiala la sorella.
Un giorno passò di Il un folletto e lo trasformò proprio in un maialino».
«E la sorella?» domanda Gaia.
«Lei era già una mai ala» esulta Matt. «E vissero tutti due maiali e contenti, vero?».
«Be', no ... ».
Vedendo Aurelia in difficoltà, cerco di soccorrerla. Eppure una volta, in barca, il mio skipper mi aveva ammonito: «Se devi aiutare qualcuno, prima assicurati di essere in grado di farlo. Altrimenti metti a rischio inutilmente sia te che lui».
«Adesso lasciate in pace Aurelia» dico.
«Ma se è stata lei a cominciare» protesta Gaia. «Mangia il tuo panino».
Questo era il modo di mio padre per mettere fine alle discussioni in f
Funziona ancora.
Mentre guardo i miei figli trangugiare mucchi informi di bollo rossastro, di foglie verdi e di salse colorate, mi dico che dovrei smetterla di pensare a tutte le storie sulla mucca pazza, sui polli alla diossina, sulla deforestazione dell'Amazzonia e l’abbattimento di mezzo milione di animali all'anno solo in Inghilterra.
Sono un sacco di cose da dimenticare.
Comunque anche sulle patate ci sarebbe parecchio da ridire. Sono molli e troppo salate.

E poi c'è la questione della cassiera. Le cassiere di McDooIl.dd' s cercano di essere gentili, ma si vede subito da come ti guardano che preferirebbero avere clienti della loro età e non adulti ,ma fanno i difficili e usano parolone che non si capiscono.
«Perché fai quella faccia?» domanda Aurelia. «Che faccia?».
«Quella che hai adesso. Sembri mio padre quando la sua squadra perde. Mette una faccia da funerale tale e quale la tua». «Per che squadra tifa, tuo padre?».
«Per l'Inter».
«Allora ti conviene abituarti».
«Non ce n'è bisogno. Non vivo più con lui. Abito da sola.
«più di un anno».
Lo dice in un modo per cui sembra che la notizia non vada letta in chiave puramente statistica.
Promemoria mentale: e dai, in fondo non è poi così giovane.
Gaia mi accarezza i peli grigi del braccio. «Perché non prendi un altro happy meal, papino?».
«Dimmi perché mai dovrei prendere un altro panino». «Non un panino. Un altro happy meal. Hanno Mike vestito d,I poliziotto».
«Un'altra volta».
«Come, un 'altra volta?».
«Te lo prendo io» si offre Aurelia. «Vieni a scegliere la tua sorpresa?».
E prima che possa fermarle sono già in fila alla cassa. Viste cos1 sembrano due sorelle.
«Ti piace, vero, papà?» mi domanda Matteo, a bassa voce. «Cosa hai detto?».
«Ti piace» ripete.
«Non dire sciocchezze». «È più bella di mamma». «Non è vero».
«51 che è vero. Lei è più bella di mamma e Bob è più bello di te».
«Chi è Bob?».
Ma prima che Matteo possa rispondermi, le due donne sono di nuovo al tavolo. «Ha detto che ce lo porta lei quando è pronto» fa Aurelia.
«È forte, vero, papà?» gorgheggia Gaia. «Chi è forte?».
«Aurelia! Hai visto quei due che non volevano risponderti, nel parco? Quando lei gli ha parlato hanno detto subito di sì». «51, è forte» si associa Matt, adorante.
«Grazie» Aurelia accenna un piccolo inchino.
«Non montarti la testa» faccio. «Hai il vantaggio sleale di un happy meal».
«Papà, il panino lo mangi tu?». «No».
«Per favore ... ».

* * *

A mezzogiorno e mezzo avevamo già finito di compilare quasi tutti i questionari. Ne restavano solo dieci. Li avrei fatti nel pomeriggio.
Quando al telefono ho detto a Marta che ci fermavamo a mangiare fuori, e soprattutto quando le ho detto dove, mi aspettavo una carica di improperi. Invece è stata molto comprensiva. Immagino che tutto dipenda da come è finita la nostra lite di ieri sera, quella cominciata col lancio di due ciabatte e un centro in piena faccia.
Marta usa un tipo particolare di ciabatte turche col tacco in legno di ciliegio. O in mogano. Comunque un legno molto duro. Sospetto le facciano appositamente per lei.
Naturalmente poteva andarmi peggio. Marta avrebbe potuto usare zoccoli olandesi, o dalminis friulane da un chilo l'una.
Ma anche le ciabatte turche non sono uno scherzo.

Sullo schermo della televisione Robert Redford discute con Jane Fonda. Sono tutti e due giovani e belli. La bocca di Redford si apre e si chiude pronunciando battute in inglese. Contemporaneamente mia moglie sbuca con la testa da sopra i cuscini del divano, come un cecchino vietnamita. Tira il braccio all'indietro e lancia la ciabatta destra. Il proiettile rotea a mezz'aria e colpisce il muro dieci centimetri a sinistra della mia faccia. Immaginate , che mi giro al rallentatore verso la tacca profonda cinque millimetri che si è formata sul muro. Quando mi volto di nuovo, Marta ha già scagliato l'altra ciabatta. La vedo volare verso di me ,I i tre quarti, vedo le strisce di tessuto colorato, il rosso intreccialo di fili dorati. Il legno, con tutte le sue venature. Potrei schivarla - e forse è su questo che Marta ha fatto conto - se a casa di Neil e poi da Rabo non avessi bevuto. I miei riflessi sono duelli di un animale impagliato.
Vedo infine il tacco volare verso di me lentamente, eppure il ccolpo mi coglie comunque di sorpresa. Mi becca in piena fronte, pesante come una mazzata.
Stramazzo giù, tirando una bestemmia da espulsione.

***

«E poi?».
«E poi abbiamo fatto la pace. Marta non è mica un'assassina,). Aurelia ride. <<Vedi che alla fine me l'hai detto, come ti sei fatto il bozzo?».
«Avevi dubbi?».
«Sul fatto che me l'avresti detto? No».
Mi guarda. Si morde il labbro inferiore fra i denti. «Spara» faccio.
«Cosa?».
«Fa' la domanda che muori dalla voglia di farmi. So che ne hai una».
Gli occhi le brillano. Parliamo così perché Matteo e Gaia stanno giocando sugli scivoli fuori dal McDonald's. Li guardiamo attraverso i vetri, e in un certo modo è come se guardarli così privasse la situazione di responsabilità. È come guardare due pesci rossi nuotare in un acquario. I pesci hanno già mangiato. Noi stiamo qui e parliamo. Che c'è di male?
«Volevo sapere com'è che tu e tua moglie fate la pace». Bella domanda.
<,Ci facciamo un'incisione sul polso e ci scambiamo il sangue». «Dai! Sii un po' serio».
La guardo negli occhi. Cosa c'è di così diverso, negli occhi delle donne? Di così profondo e leggero?
«Facciamo l'amore».
Amelia sorride. Cioè, gli angoli della bocca si piegano nel modo giusto, ma si vede che non è un sorriso vero al cento per cento.
«Cosa c'è?» le domando.
«Niente». .

* * *

L'accompagniamo a casa in auto. Lei abita in periferia, in un condominio nuovo color rosso mattone. Non ci invita a salire. Venti minuti fa, nel McDonald's, abbiamo attraversato un momento strano. lo l'ho già etichettato, ipocritamente, fra i momenti di innocente complicità, di semplice amicizia. Non so bene in che casella l'abbia inserito lei. Mi dico che non è affar mio.
«Grazie dell'aiuto» le sorrido.
«Non c'è di che». Fredda. Asciutta.
«Mi mancano ancora dieci interviste» dico. «Le farò domani».
"Bene. Ciao, bambini».

I miei figli si chinano in avanti sul sedile, per baciarla sulla guancia. Amelia apre la portiera e scende, con un movimento che mi dà un'impressione straziante di déjà-vu.
Il portone del palazzo l'inghiotte.
Forse mi aspettavo che si sarebbe voltata, ma non l'ha fatto.

20 L 'ha fatto

«L 'ha fatto ancora!» urla Matt, rifugiandosi fra le mie braccia e spiegazzando il foglio che stavo compilando. «No che non l'ho fatto!» strilla Gaia. «Cos'è che hai fatto?».
«Non l'ho fatto!».
«Va bene. Cos'è che non hai fatto?».
«Ha scoreggiato, papà! Due volte!» punta l'indice Matt. «Non è vero!».
Marta sceglie proprio quel momento per emergere dallo studio. «Cosa succede?».
«Niente. Tutto sotto controllo».
Mia moglie arriccia il naso. «Che puzza, qua dentro. Sembra sia morto un topo. Perché non aprite la finestra?». «È stata Gaia, mamma!».
«Non è vero!».
Marta accarezza lo schienale del divano. È un gesto strano, che secondo me sarebbe più naturale fare a un essere umano, o a un animale. «Devi smetterla di mangiare porcherie, Gaia. Hai fatto la cacca, stamattina?».
«No».
«Allora bevi il tuo succo d'arancia. E tu, come mai lavori sul divano?» mi domanda, cambiando bersaglio.
Sono seduto sul divano, vorrei dirle, perché il tavolo è stato occupato militarmente dai miei figli. Prima della tempesta Mali era impegnato a smontare e rimontare un'automobilina del Le go, mentre Gaia stava disegnando ad acquerello, un'attività ch(, inevitabilmente trasforma il tavolo in una palude immonda.
«Ho quasi finito» risponde invece.
«Finito di fare cosa?».
«Di compilare i fogli del sondaggio». «Non è così che si dovrebbe fare, vero?». «In effetti no».
«Insomma stai imbrogliando».
«È tutta la faccenda che è un imbroglio. E poi sai come dicono: se ti impiccano per un cavallo, tanto vale che rubi tutta la mandria».
«Vai avanti tranquillo. Sai come la penso sui tuoi dato di lavoro».
Matteo si divincola tra le mie braccia. Una delle penne cade I 'n terra. Sto usando penne diverse per non dare l'idea che i questionari siano stati compilati in serie. La penna che cade è ovviamente la mia Montblanc Jules Veme. Altrettanto ovviamente cade di punta. Sul marmo. Due millimetri scarsi fuori dal tappeto. Per uno di quei miracoli che ormai mi capitano sempre più di rado, la raccolgo intatta e con tutte le sue facoltà apparentemente integre.
«Mamma, non hai sgridato Gaia!». «Perché dovrei sgridarla?».
«Perché ha fatto le puzze».
«Sono cose che capitano. A te non capita mai di fare una puzzetta? Anche io e papà le facciamo». «Soprattutto papà» puntualizza Gaia. «51, papà fa delle puzze come Shrek!». «Grazie» mugugno.
«Vieni in cucina» fa mia moglie. «Perché?».
« Vieni in cucina!».

* * *

«Chiudi la porta». Obbedisco.
«Tu e io dobbiamo parlare». «Okay».
«Gaia mi ha detto di ieri nel parco».
A questo punto ho diverse opzioni possibili. Potrei fare il finto tonto, oppure fingere innocente stupore. Arrabbiarmi per la violazione della mia privacy. Negare di essere mai stato al parco. Negare di essere Alberto Mendini. Scappare. Trovare la scusa di dar da mangiare al pesce Ignàtz.
Decido di avvalermi della classica facoltà di non rispondere. Conto i secondi. Uno.
Due.
Tre.
«C'è qualcosa che vorresti dirmi, su ieri?». «No».
«Cose che hai fatto, per esempio? Gente che hai visto?». «Ho fatto i sondaggi».
«Si, ma hai anche visto qualcuno? Non so, belle ragazze in minigonna, per esempio?».
Carico in faccia un' espressione perplessa e poi di subitanea illuminazione, del tipo ora che mi ci fai pensare ...
«Ma si, c'era una collega. Mi ha aiutato a compilare i questionari» .
«E siete andati a pranzo insieme».
«Un panino da McDonald's non lo definirei andare a pranzo». «Sono d'accordo. Dopo parliamo anche di questo. Comunque in poche parole da McDonald' s c'era anche questa tua collega». «SL Ha preso un'insalata».
«E basta? Non ha preso nient'altro?». Non raccolgo l'allusione.
Marta apre il frigo. Si china sul comparto della frutta. Toglie un'arancia e la infila nello spremiagrumi.
«Non puoi darle il succo di un'arancia da frigo».
Lei mi guarda. Uno sguardo assolutamente privo di espressione. Senza dire una parola infila il bicchiere di succo nel microonde e accende al massimo. Regola il timer su cinque minuti. Quando il campanello squilla, con una presina tira fuori il bicchiere in cui gorgogliano due dita di liquido bollente, color caramello. L'interno del forno è tutto schizzato di succo d'arancia.
«Casi va bene?» fa.
Mi alzo e raccolgo un'altra arancia dalla cesta sul tavolo.
La spremo in un altro bicchiere. Aggiungo un cucchiaino di zucchero.
Mescolo bene.
Sempre senza parlare esco a portare il succo a Gaia. Quando torno, mia moglie è seduta al tavolo di cucina e si tiene la testa tra le mani.
Non dico niente. Mi siedo di fronte a lei. In salotto ho trovato i miei due bambini insolitamente silenziosi. Gaia mi ha detto addirittura grazie, quando le ho dato il succo. I bambini avvertono la tempesta imminente. Non le ho risposto «prego».
Ora sono seduto in questa elegante cucina da rivista di arredamento, con le piastrelle lucide e un buon odore di caffè e di cera per mobili. Oltre a quello di arancia caramellata.
Allungo la mano sul piano del tavolo e stringo quella di moglie.
Lei alza gli occhi. Vedo che non ha pianto. «Cosa c'è?» le domando.
«Dovrei chiederlo a te».
«Per me non c'è niente. Va tutto bene>. Marta scuote la testa. «Ah si?».
«Sei solo stressata per questa storia della laurea». «Non è solo questo».
«Lo vedi che le cose tornano a funzionare. Che sto cercando di rimettere tutto a posto».
«Ah sì?».
«Continui a dire "ah sì" come un disco rotto. Cos'è che non ti va.».

«Tutto. Che tu viva per conto tuo, per esempio. Ci sei e non ci sei. Entri ed esci di casa, mi racconti poco o niente di quello che fai, ti comporti come se io non ci fossi. Ti ricordi almeno che sono tua moglie?».
«Tutti i giorni della mia vita».
«Sei un bugiardo. Ad ogni modo, chi è questa ragazza con cui ti vedi?».
«Non mi vedo con nessuna ragazza».
«Bionda, scarpe da ginnastica bianche. Minigonna ... ». «Questo mi ricorda le giovani spie di 1984. Quelli che riferivano al Grande Fratello tutto quello che facevano i loro genitori».
«Guarda che Gaia e Matteo mi hanno solo confermato quel io che sapevo già». «E cioè?».
Marta non risponde.
«E com' è che l'avresti saputo?» faccio.
«Ti è sfuggito che il parco è un posto pubblico? Che le mamme ci portano i bambini a prendere una boccata d'aria?». «Chi te l'ha detto?».
«Zoe Zamparini».
«Quella è molesta già nel nome. Di farsi i cazzi suoi neanche parlarne, eh? E tra parentesi, già che parliamo di amici, chi sarebbe questo Bob che è più bello di me?».
Marta si stringe nelle spalle. 
Se fosse una lumaca rientrerebbe nel guscio.
Ne approfitto per passare all'offensiva. «Ieri al parco, Matteo a un certo punto mi ha detto che "Bob" è più bello di me. Dato che mio figlio non fa vita mondana, immagino che questo Boh giri per casa. O sbaglio?».
«Non conosco nessun Bob».
"Roberto, forse? Robin?».
"No».
"Sicché Matt si è inventato tutto. Forse dovrei chiedere alla tua amica Zoe. Magari lei può aiutarmi». ,perché non chiedi alla tua amica polacca?». Per poco non faccio un salto sulla sedia.
Marta mi sfida con gli occhi. «Credi che sia stupida? Che sia diventata cieca?».
Chino la testa. Mi tocco la fronte. Il livido fa ancora male.
Con il senno di poi, direi che lo tocco per far venire rimorso a mia moglie.
Marta lo guarda. Solo che l'espressione non è quella giusta.
Dovevo tirarti un coltello, non una ciabatta». « anche la ciabatta non scherzava».
Le stringo più forte la mano, ma lei la tira via di scatto.
Sono le dieci e mezza del mattino di domenica. Un tempo a casa mia, intesa nel senso di casa dei miei, la domenica mattina , veniva divisa in base agli orari delle messe. Le dieci erano «messa seconda», le undici «messa grande», per dire. Oggi non conosco nessuno che vada a messa. Immagino che qualcuno ci vada ancora, ma io non conosco nessuno che lo faccia. A sei anni, Gaia sarà in chiesa meno di una decina di volte. Compreso il giorno del battesimo.
E’ così facile perdere una buona abitudine.
O prenderne una cattiva.
«Non so cosa vuoi dire, quando parli di Malgorzata».
«Ah no?».
«No».
Lei mi tira una sberla. Ma da seduta non calcola bene la distanza. La mano arriva corta, a un centimetro dalla mia guancia. Se mi avesse beccato mi avrebbe fatto un male boia.
A questo punto potrei reagire. Dovrei, magari. Alzarmi e restituirle la sberla. Alzarmi e abbracciarla. Fare qualcosa, insomma.

Qualsiasi cosa. Invece resto seduto; in mezzo a noi c'è il bianco del tavolo su cui le mie mani posano come due pesci morti. «Bob è Roberto. È un ragazzo fuoricorso come me che fili aiuta con la tesi. È venuto qui a casa un paio di volte. Tra noi non c'è niente. La tua amica come si chiama?».
<<Aurelia».
«Aurelia. E fra voi ... ?». «Fra noi non c'è niente».
Marta annuisce. «Okay. Ora andiamo di là e facciamo finta di niente. Uno di noi chiede ai bambini se vogliono uscire PCI pranzo. Lo fai tu? lo? Va bene. Ci penso io. Durante il pranzo nessuno solleva questioni scabrose, okay? E dopo pranzo ci pori i a passeggiare in qualche posto bello, tipo il parco di Villa Spagnol. Ci comportiamo come una famiglia normale, d'accordo?»,
«E poi?».
«E poi torniamo a casa, ci sediamo sul divano e vediamo LIII DVD che piace ai bambini. lo non apro i miei libri e tu non tocchi i tuoi maledetti questionari».
«Okay».
«Dopo, io preparo la cena, e tu giochi con Matteo e aiuti Gli ia a fare un po' di esercizi di prescrittura. Sta dimenticandosi tutto quello che ha imparato». '
«Va bene».
Lei mi guarda a lungo. Credo ci sia persino comprensione nel suo sguardo. Immagino si renda conto che non mi riferisco solo al dopo cena, quando di nuovo chiedo: «E poi?».

21 E poi

E poi gli ho detto "no, guardi che quelli erano i vichinghi" ». Tutti si mettono a ridere, tranne Segaluzza. Un uomo così giovane non dovrebbe avere un'espressione tanto da vecchio bisbetico. Lo guardo come si guarda il famoso mistero avvolto in un’enigma. È riapparso fra noi in virtù di un ukaze della Martinelli, ma il suo ruolo, al momento, sembra quello del Convitato di Pietra.
Bianca Deodati ha appena finito di raccontare alcuni anedotti spassosi sulle sue interviste. lo un po' mi vergogno dei miei questionari taroccati. Poi però, guardando mi intorno, mi chiedo se anche gli altri non abbiano barato. lo al posto loro l'avrei fatto.
Amelia distribuisce le griglie di rilevazione. Un tocco di personalità del tutto superfluo, dato che un foglio bianco e una matita le sarebbero bastati.
Quando mi passa accanto sento il profumo della sua pelle. Mi si stringe lo stomaco. Dolorosamente.
Aurelia evita anche solo di sfiorarmi. Immagino che non soriderebbe neanche se le facessi il solletico.
La guardo allontanarsi, ma con la coda dell' occhio, per non farlo vedere.
Quando tutti hanno avuto le loro griglie di rilevazione cominciamo a segnare le risposte alle varie domande. A un certo punto dobbiamo rispiegare tutto il meccanismo a Sergio, che aveva già tirato giù tre pagine di risultati sbagliati. Ricominciamo e dopo un quarto d'ora lui ci ferma per dire che ha sbagliato di nuovo.
Verso mezzogiorno lo spoglio dei risultati è finito.
lo non so chi abbiano intervistato gli altri. I risultati, comunque, sono incredibili. In assoluta contro tendenza con il campione dei miei intervistati (intendo il campione vero, non le interviste taroccate), risulterebbe che: circa il 40% degli intervistati è al corrente del fatto che nell'antichità la nostra Regione era popolata dai Celti; il 45% ritiene che la Regione dovrebbe fare di più per la riscoperta del patrimonio culturale celtico; il 50% è favorevole all'unione politica con altre Regioni.
Dovendo scegliere la Regione con cui unirsi, gli intervistati hanno indicato al primo posto il Friuli (35% delle preferenze), seguito a ruota dal Mittelmark (30%). Fanalino di coda la Galizia (2%).

Il sessanta per cento degli intervistati è pronto ad appoggiare la Regione in caso di conflitto armato.

* * *

Contati e ricontati altre due volte, i voti non cambiano. «Dica all' assessore di caricare le bombe sugli aerei» scherzo con Segaluzza, che però è terreo. Non che ci sia una gran differenza rispetto alla sua solita aria da vampiro dispeptico, ma giurerei che questa, oltre che lugubre, è un' espressione preoccupata.
«Cosa c'è che non va?» gli domando. «Per voi è tutto grasso che cola, no?».
Mi fissa come se fossi pazzo. «Lei non capisce» sibila, ritengo per non farsi sentire dagli altri che ci sciamano accanto. In che senso, non capisco?, vorrei domandargli, ma lui gira sul perno del bastone ed esce dalla stanza, solenne e lugubre come il capitano Achab. Intorno a me si sta allestendo una specie di festa spontanea. Sul tavolo delle riunioni sono già appoggiati due vassoi di tartine e tre bottiglie di Berlucchi. Sergio e la Russell sono usciti per fare provvista di bibite analcoliche. Mi chiedo se li rivedremo mai. Aurelia è andata al ristorante cinese della strada qui accanto.
E tornata con due buste che sprigionano deliziosi aromi esotici, e con un'altra busta di birre cinesi. Mi ha persino sorriso.
C'è anche la musica, dagli altoparlanti di un PC sintonizzato su una radio che trasmette via Internet.
La festa è per la riuscita del sondaggio. Ma soprattutto per quello dio che si è deciso dopo, che ha scatenato l'entusiasmo.
«Okay» dico, una volta archiviati i risultati, spuntando la voce SONDAGGIO dal foglio alle mie spalle. Poi sotto scrivo NUOVE INIZIATIVE.
«Avanti» faccio. «Proponete. Sentitevi liberi. Immaginate». «L'immaginazione al potere!» esclama Sergio, alzando il pugno chiuso. Poi fa una risata e china la testa. «Che cazzata che ho detto ... ».
«La cazzata l'hai detta, ma lo spirito è quello giusto» dico, puntandogli contro il gessetto. «Avanti, Sergio. Proponi. L’immaginazione al potere!».
Sergio si umetta le labbra con la lingua. «Cioè, pensavo, quasi lutti quelli che mi hanno risposto "Okay, meniamo le mani. Se c'è da sparare prendiamo su il fucile e spariamo", quasi tutti ,erano con me».
Vuoi dire strafatti?, vorrei chiedergli. Ma Sergio continua a spiegarsi.
«Nel senso che sono giovani. Sono tutti poco sopra i venti. Così ho pensato, e mi è venuta questa idea, che dobbiamo parlare come loro. Cioè, è inutile che mettiamo tutte le nostre ideein un libro, come proponeva Bianca, o che puntiamo tutto su una mostra come quella al Castello, che fra parentesi non fregherebbe neanche un cieco, e che comunque non si fila nessuno. Cioè, dico, parliamo ai giovani come parlano i giovani».
<<È un bel concetto. Potresti solo chiarirlo un pochettino?» Gli domando.
«SÌ, be', quello che voglio dire è che secondo me, se non gli parli nella sua lingua, un giovane mica lo raggiungi. Non dico che non lo convinci. È molto peggio. È che proprio non lo raggiungi, il tiro è corto, il razzo ricade a terra, come in quei documentari tedeschi sulle prime V2, hai presente?».
No. «Vuoi dire che dobbiamo cercare nuove modalità di approccio?».
«L'hai detto».
«Hai qualche idea, in proposito?». «Come no».
Silenzio.
«Non è che potresti illustrarcela?» dico.

«Eh? Ah, sì. Come no. Pensavo alla musica».
«La musica celtica non è che abbia un grande appeal sui giovani» lo interrompo.
«51, be', non è che si può organizzare una serata di gighe in discoteca. Non ci verrebbe nessuno».
«Allora a cosa pensavi? A un concerto? Tipo Salzfurt?». «Vuoi dire la rassegna di musica celtica di Salzfurt? Ma quella è una cagata più grossa ancora della nostra mostra. Il primo anno c'erano dei bei nomi, lo so perché la mia ragazza di una volta era una fanatica di quella musica. Il primo anno ci sono andati anche i Dan ar Braz e Carlos Nùfiez. Poi hanno capito che aria tirava, e il secondo anno non c'era neanche un nome importante. Solo mezzeseghe e sconosciuti».
«Allora a cosa pensavi?». «Pensavo a un videoclip».
La Deodati sbuffa. «Ancora il videoclip?». Sergio ridacchia. «Sì».
«Sentiamo» faccio.
«No, è che l'idea che avrei è questa: mostriamo i Celti, ma con la musica moderna. Hai presente quel film, no?, Il destino di un cavaliere?».
«Certo» mento, non avendo la minima idea di cosa stia parlando. «Interessante. Vai avanti».
Sergio rimane a bocca aperta. «Come, "avanti"? Cioè, è tutto '1l1i. C'erano i cavalieri antichi, no?, ma la musica era tipo musica moderna, capisci? We Wiil Rock You dei Queem>.
«Ah».
«Poi avrei anche un'altra idea. Perché non facciamo un fumetto celtico?».
«Già fatto» trilla esultante la Deodati. «Tarvos il Celtico. Un fumetto in friulano. Non ha avuto nessun successo».
«Si, be', ma questo sarebbe nel nostro dialetto ... Che è un dialetto celtico, no?».
Qualcuno ride. lo invece intreccio le dita dietro la nuca, in segno di relax, e dico: «A me sembra una buona idea. Un fumetto. Una buonissima idea. Lavoriamoci su, d'accordo? Procuriamoci qualche numero di quel, come si chiama?».
«Tarvos».
«Tarvos, benissimo». «Non sarà facile».
«Allora lo facciamo fare ad Aurelia, che è la santa patrona .Ielle cose difficili. Ti va di farlo, Aurelia?».
Lei fa segno di sì con la testa, si scrive diligentemente l’appunto. Espansiva come un ghiacciaio. «Altre idee?» domando in giro. Sergio fa segno di no con la testa.
«Okay» dico «tu hai già dato. Allora, vogliamo lavorare su queste due tracce?».
In quel momento Carla Russell alza il braccio, cogliendomi completamente controtempo.
«Il sole della Padania» fa. E non aggiunge altro. Dev' essere Il n vizio contagioso.
«Il sole della Padania in che senso?» domando.
Quando Carla risponde intravedo il globo bianco del chewing-gum in fondo al suo palato.
«Nel senso che mi pare c'è uno scrittore americano che usa il sole della Padania accanto alla sua firma. L'ho visto a casa di un mio amico. Il libro, voglio dire, non lo scrittore».
Sergio arrossisce di colpo, come un camaleonte cascato in un sugo al pomodoro. Comincia a tossire, strangolandosi col chewing gum d'ordinanza.
Quando si è ripreso a sufficienza per poter parlare, si trova puntati addosso gli occhi di tutti i presenti.
«Quello non è il sole della Padania» dice.
«A me pare proprio di s1» insiste la Russell, nonostante le occhiatacce del suo amico.
A questo punto intervengo io. «Scusa, Sergio, ma se non è il sole, che accidenti vuoi che sia?».
«È un buco di culo». «Pardon?».
«Kurt Vonnegut, lo scrittore che dice Carla, si firma sempre col disegno di un buco di culo stilizzato, accanto al nome». «Oh».

«Non è una cosa che userei per una campagna pubblicitaria». <<In effetti no. Be', grazie comunque per il suggerimento.
Grazie a tutti e due, anzi».
«Grazie a tutti e due chi, scusa?» domanda Carla, con gli occhi fuori dalle orbite.
<<A te e a Sergio».
«Perché, scusa? Vuoi forse alludere che tra noi due c'è un rapporto che va al di là di quello di lavoro?». «lo non alludevo niente».
«Mi pare proprio di sì, invece». «Mano ... ».
«Guarda che sono sposata. Fra me e Sergio c'è solo innocente amicizia».
«Va bene» faccio, sentendo mi ridicolo.
«La malizia è nell' occhio di chi guarda» conclude Carla, fulminandomi con lo sguardo.
Così ho mandato i due agnellini a caccia di bibite analcoliche. Promemoria mentale: innocente amicizia. Ricordarsi l’espressione, casomai servisse, con Marta.

* * *

La festa è in corso da mezz' ora quando fa il suo solenne ingresso nell' open space dell' assessorato la Sua Leggiadra e Celtica Maestà Enrica Martinelli, accompagnata da un bell'uomo che non conosco.
Per puro caso - spero - è un fragoroso assolo di tromba ad accompagnare l'arrivo. La canzone viene immediatamente zittita da Aurelia. Cioè, immediatamente per modo di dire, che spegnere la radio di un PC non è semplice come girare la manopola del volume di una radio. Trafficando col mouse Aurelia riesce a far sparire la schermata del RealPlayer, ma la musica prosegue. Deve intervenire l'obiettore Claudio, con tutta l’autorità di chi da adolescente ha smanettato e amato smanettare più '.I, una tastiera che sulle proprie parti intime.
«Potevate lasciare la musica» fa la Martinelli. «Chi era, Barry White?».
«James Browll» sorrido, tendendo le la destra.
«Ciao, Alberto. Chi hai offeso a morte, ultimamente?» mi sussurra all' orecchio, tenendo la mia mano fra le sue, che sono lisce e morbide come mi aspettavo. Ma anche un po' nervose, come animaletti in fuga, e questo sicuramente non me l’aspettavo.
«Ancora con quella vecchia storia?» sbuffo.
<Vecchia per te. Ogni volta che Ham mi telefona mi parla di lei».
«Salutamelo. Però ricordagli che sono un uomo sposato. Felicemente sposato. Come mai "Ham"?».
«Dalle iniziali. Hans Albert Mayer. Acca, a, emme. Ham».
«Simpatico. Ham. Come il prosciutto. Mi fa venire in mente: una cosa che ho letto ieri. Sai che abbiamo una rassegna stampa sull' argomento Celti. Ogni tanto ci butto l'occhio anch'io. Ieri c'era un articolo di un giornale friulano che parlava di San Daniele. Sai, dove fanno il prosciutto. L'articolo diceva che il prosciutto di San Daniele ha origini celtiche, perché i Celti salavano la carne).
«Ah sì? Interessante». Interessante?
Chiedendo compermesso al suo sconosciuto accompagnatore la guido verso un angolo poco frequentato della grande sala, di fronte alla bacheca che ospita le (supposte) spoglie dell'Aruspice di Plaurins (datazione incerta). Le voci che girano in assessorato vogliono che quella bacheca porti sfiga. In effetti ho letto la storia della campagna di scavi che ha portato al ritrovamento dei reperti, e devo dire che «sfiga» è decisamente un'espressione riduttiva.

Fisso la Martinelli negli occhi. È come guardare nel verde di un acquario. Ti aspetti di veder guizzare i pesciolini dietro l'iride. Cerco di raggiungere l'intelligenza che senz'altro nuota da qualche parte in quegli occhi. «Assessore, guarda che tutti i popoli prima o poi imparano a salare la carne. Fa parte del corso basic in civiltà».
«Peccato che qui in Regione non abbiamo dei prosciuttifici» continua lei, senza fare una piega.
La guardo.
«Come hai detto, scusa?».
«Dico che è un peccato che non possiamo usare anche noi la notizia».
«Ma Enrica, stai scherzando. Quella che ti ho appena riferito non è una notizia. È una cazzata. Te l'ho appena detto».
«E con questo? Sarà anche una cazzata ma fa notizia, no?
Colpisce, come si dice, l'immaginario della gente. Devo essere io a insegnarti queste cose?».
«Mi pare di cogliere un tono di sottile sfiducia, nelle tue parole». «Ma no. Macché sfiducia. È solo che mi aspetto un po' più ,Il ottimismo, da parte dei miei collaboratori. Severino mi ha appena riferito del sondaggio. Grandi risultati, no?».
«Dipende dai punti di vista».
«Dal mio punto di vista sono risultati splendidi». «Si, se ti piacciono le guerre civili».
Socchiude gli occhi. Mi studia.
Comincio a chiedermi se per caso ho qualcosa che non va ,,,dia faccia. Che ne so? Un foruncolo. Uno scorpione.
Poi da un momento all'altro la Martinelli cambia completamente espressione. Lei è fatta così. Si volta e galoppa sulle lunghe gambe verso il centro della sala. «Riaccendete la musica, dai» l "manda, con un tono allegro da filo drammatica di paese. "Apriamo lo spumante!».
Qualcuno stappa il Berlucchi. Ovviamente non ci sono bicchieri pronti e quindi la spuma che prorompe a fiotti dal collo della bottiglia lava le mani dell'Aurelia. Per un attimo immagino che quello che tiene fra le dita non sia una bottiglia verde imperlata di umidità. Una fantasia che abbandono subito, per non correre il rischio che la ragazza la colga sul mio volto. che voglia guardare dalla mia parte.
Appaiono dal nulla i bicchieri di plastica. Cominciano a giil:tre i vassoi. La musica è stata ripristinata, ma James Brown non c’è più. Al suo posto c'è una voce femminile che riconosco.
Mi avvicino come in trance allo schermo del computer.
Mentre cammino fendendo la gente che si accalca, i rumori e le voci lentamente svaniscono dalle mie orecchie. Rimane solo la voce purissima della cantante, a volo sulle note di una canzone di Simon & GarfunkeI.
Eva Cassidy, Bridge Over Troubled Water, leggo sul display di RealPlayer.
Aurelia mi infila in mano un bicchiere di plastica mezzo pieno di bruto
«Tieni. Anche se non te lo meriti. Buon Natale, capo». Mi volto.
«Natale?» domando, assaggiando un sorso di vino. «Non sei un po' fuori stagione?».
«Quando ero piccola cominciavo a scrivere le lettere per Babbo Natale a settembre».
«Anche così, sei in anticipo».
«Ma sono cresciuta. La lista dei regali è più lunga, adesso. E sembra che Babbo Natale sia l'unico maschio che si curi dei miei desideri».
Se cera un sottinteso mi è assolutamente sfuggito. Lo giuro, Vostro Onore.
Un 'innocente amicizia.
«Hai scritto anche tu a Babbo Natale?» sussurra Aurelia. «No».
«E perché no?».

«Perché io sono di un'altra generazione. Ai miei tempi le lettere si scrivevano 'a Gesù Bambino. Non so quand'è che Babbo Natale ha preso il sopravvento. Forse c'è stato un colpo di stato. Gli elfi hanno rovesciato Gesù Bambino. Voli di renne armate sul Palazzo di Ghiaccio. Con l'aiuto della CIA, magari».
Lei ride. Ma so che è solo per cortesia. La CIA non fa più ridere nessuno.
«Comunque personalmente rimango convinto che a portare i regali è Gesù Bambino».
«Guarda che per esprimere un desiderio a volte basta dirlo a voce. Non serve scrivere. Anzi, a volte non serve nemmeno dirlo».
La guardo. C'è un misto inestricabile di dolcezza e durezza, in questa donna. «Sai qual è la più terribile maledizione cinese?» le chiedo. «Ti auguro che tutti i tuoi desideri possano essere esauditi».
«Sono sicura che non esiste nessuna maledizione del genere. Gli unici desideri che fanno male sono quelli che non vengono uditi».
Poi alza il bicchiere in un brindisi, con un sorrisetto ironico. l'osa l'altra mano sul mio braccio.
«Cin cin, sciocco».
«Cin cin» rispondo, per quanto abbia sempre detestato quel brindisi.
Gli orli dei nostri bicchieri si toccano. Essendo di plastica IIOD fanno nessun rumore. Ma all'aroma fruttato del vino si accompagna, a questa distanza, l'odore della pelle di Aurelia, deliziosamente profumata di fresco anche alla fine di una giornata di lavoro.
«Posso farti impazzire» mi sussurra all' orecchio, sfrecciandomi di fianco diretta ad altri brindisi e a chissà quali battute fra ,colleghe a mezza voce.

* * *

Mi ricompongo, nei limiti del possibile. Più fuori che dentro, in realtà. Dentro, il cuore mi batte ancora a ritmo di rumba l'l'!" le promesse implicite nelle parole dette e non dette da Aurelia, e per gli infiniti preziosi segnali della sua presenza: il suo tocco sulla pelle del mio avambraccio, la spallina del suo vestito intravista di sfuggita fra due colon1,1e. Il ricordo del suo profumo.
Per distrarmi dal pensiero di Aurelia cerco di perdermi nel ritmo della festa.
«Chi è quel tipo?» domando alla Russell. «Quale?».
«Quello che è arrivato con la Martinelli. Se n'è appena andato credo. Ho come l'impressione che dovrei conoscerlo». «Scherzi? Quello che è entrato con l'Enrica? Quello è Sauro Tabiani>>.
La guardo.
<<Vuoi dire che non l'hai mai visto prima??> sgrana gli occhi Carla.
«No».
«È il Governatore della Regione. Ma in che mondo vivi?». «Non guardo mai il TG regionale, e poi non voto da un po'.
È dello stesso partito della Martinelli?».
«Tabiani? Scherzi? Lui è di sinistra,. Un industriale di sinistra, pensa un po'».
Cose del genere succedono. Hanno preso il posto dei vitelli con due teste.
Carla però continua a guardarmi come se fossi io, il prodigio di natura.
«Non dirmi che non sai nemmeno che giunta abbiamo. E lavori per la Regione?».
«Sai come si dice: ci sono più cose tra cielo e terra ... ». «Guarda che è inutile che citi Shakespeare» taglia corto Carla, sorprendendomi. «Ed è inutile anche che giochi a fare il verginello. Prendi i soldi da loro come tutti noi. Far finta di non sapere da dove vengono non serve a niente. Fai oggettivamente parte di un disegno più grande. Rassegnati».
<<È il discorso più lungo che ti ho sentito pronunciare da quando mi hai detto "buongiorno"».

«Perché sono una cretina, secondo te. Guarda che ho due lauree».
«Tabiani come la pensa, su questa storia dei Celti? Voglio dire, sta sganciando un sacco di soldi per una cosa ch'e non mi sembra precisamente di sinistra».
«Ah no? Perché, cos'è di sinistra, di questi tempi? Chi è di sinistra? Tu sei di sinistra?».
Fa una risata e mi pianta in asso, lasciandomi in mano il suo bicchiere vuoto.

* * *

Per farsi sentire in mezzo al casino totale la Martinelli sale in piedi su una sedia, stile Lenin alla Stazione Finlandia. Segaluzza Ia tiene per la mano, un gesto commovente ma che non dovrebbe essere mai tentato da uno che a sua volta si regge a malapena in piedi appoggiandosi a un bastone. In effetti dopo un po' i suoi movimenti sembrano quelli di un trapezista che cammina su una lorda tesa a venti metri d'altezza. Per un attimo mi fa quasi pena.
«Buoni un momento» grida l'assessore. «Buoni!».
La sala è gremita. A mano a mano che i rumori della festa si diffondevano lungo i corridoi della Regione, dagli atri muscosi  dai fori cadenti di chissà quali altri uffici sotterranei è uscita una moltitudine di impiegati e commessi, attirati dal casino.
«Zitti un attimo» grida Segaluzza con la sua voce stridula come un gesso che striscia su una lavagna.
Quando il rumore è sceso entro limiti accettabili, la Martinelli ringrazia.
«È un piacere vedervi qui. Molti di voi vengono da altri uffici e sono qui, immagino, perché hanno sentito il rumore della festa. O hanno annusato il bruto Quindi si chiederanno cosa c'è da festeggiare, oggi. Ve lo dico io: oggi è il giorno della rinascita. La rinascita di cosa, direte? La rinascita di un grande progetto. Quello diretto a riscoprire e valorizzare la nostra identità culturale. La gente di questa Regione ha sete di conoscere. Lo rivela un sondaggio a prova di ogni dubbio. La nostra gente ha sete di l'Ol1oscere. Di conoscere cosa, vi chiederete».
Esatto.
«Di conoscere qualcosa sulle sue ... no: sulle nostre origini. Chi siamo. Da dove veniamo».
Dove andiamo, aggiungo dentro di me, guardando Aurelia Copetti assorta ad ascoltare il suo vero capo.
«Noi intendiamo dare una risposta precisa a queste domande. Per questo è nato il Progetto Celti. Un progetto che ha già portato a grandi risultati».
Ah sì?
«Oggi questo progetto ha preso nuova spinta propulsiva. C'è fermento di idee, di proposte. Si sente odore di vittoria nell'aria».
Spero non sia una citazione voluta da Apocalypse Now. Se non è voluta, però, fa anche più impressione.
«Per questo ho deciso di promuovere una nuova fase del progetto. Noi crediamo che la scoperta delle proprie origini debba essere una festa. Ed è proprio una festa quella che oggi proporrò, a nome di tutto il popolo, all'assemblea regionale. La Festa dell'Identità Celtica».
Applausi in ordine sparso. In quel momento l'assessore si lascia sfuggire una smorfia. Guardo e mi accorgo che Segaluzza sta barcollando pericolosamente all'indietro. La Martinelli si sgancia di scatto dalla sua presa. Alza le due braccia al cielo e poi le allarga ad abbracciare tutti i presenti, un gesto alla Evita Peron che è al tempo stesso una benedizione delle folle e un tentativo di mantenersi in equilibrio. Tentativo che riesce perfettamente. Segaluzza invece cade a sedere su una poltrona provvidenzialmente a portata di culo.

Data una rapida occhiata in basso, l'assessore riprende il discorso. Quando fa così la bacerei. È semplicemente troppo brava.
Poi la strozzerei, sentendo quello che dice.
«Naturalmente l'identità non è unica. Col tempo tutti avranno la loro festa. Un cinese festeggerà la sua identità cinese, un tedesco la sua identità tedesca. Ogni cosa a suo tempo. Per adesso la Regione festeggerà la propria identità celtica, e ogni abitante della Regione che si identifichi in questa matrice culturale potrà partecipare a questa festa».
Una voce dalle prime file interrompe la Martinelli. «Quindi, per riprendere il suo esempio, anche un cinese potrà festeggiare la propria identità celtica. A patto che, come ha detto, si identifichi nella matrice culturale celtica».
Mi accorgo con un attimo di ritardo che la voce è la mia.
Se ne rende conto anche la Martinelli, che mi gratifica di un’ occhiata tipo raggio laser.
«Ho appena detto che un cinese festeggerà la sua identità cinese».
«Ma ha anche detto che è questione di identificazione. Vale a dire che se un cinese si identifica nella matrice culturale celtica, la sua identità è celtica. Potrei sbagliare, ma credo di aver citato quelle parole più o meno a memoria».
«Non credo proprio» ribatte lei. Sento una vena di freddezza ,sotto il calore del sorriso. Primo tiro d'avvertimento.
A questo punto qualsiasi persona di buon senso la smetterebbe. Il che prova, se mai ci fosse stato margine di dubbio, che non sono una persona di buon senso.
«Sicché non è una questione culturale. È forse una questione razziale? Lo chiedo tanto per avere le idee un po' più chiare su questa cosa».
La Martinelli guarda in basso verso Segaluzza, che però non può fare altro che scrollare le spalle.
«Perché se non è una questione culturale ... » comincio a dire. Ma la Martinelli mi blocca. «Ho già detto che non è, e sottolineo non è, una questione razziale».
«Quindi il cinese ... ».
«Se mi lascia finire!,» sbotta!' assessore. È la prima volta che lo sento andare sopra le righe. Lei stessa sembra stupita dal tono della propria voce. «Se mi lascia finire,» ripete più calma «vedrà che non si tratta di una questione di razza».
Mi chiedo perché ci diamo del lei. Al tempo stesso è una cosa culturale. È come se non parlassimo solo per noi ma a nome di qualcun altro.
Sto per interromperla di nuovo, ma lei mi blocca con un cenno imperioso della mano. Dall' altra parte della sala Aurelia mi fulmina con lo sguardo. Sembra pronta a buttarsi in mezzo a noi per fare scudo alla Martinelli col suo corpo, contro le mie bordate.
«Quello che lei non capisce ... Quello che quelli come lei non vogliono decidersi a capire, è che la cultura è il nuovo fronte del nostro secolo. L'incontro tra culture diverse. Purtroppo a volte anche lo scontro, fra culture diverse. Personalmente sono convinta che uomini e donne di etnie e di culture diverse possono convivere in pace, a patto che vi sia il pieno rispetto delle leggi e delle tradizioni locali».

* * *

Scuoto la testa. «Il fatto è che ho sentito un altro che parlava di scontri fra culture, di recente».
Uno che non mi piace.
Siamo seduti in quella che sembra una stanzetta per interrogatori nel retrobottega dell' assessorato.
La Martinelli fuma. Anche questa è una sorpresa.

Ho rifiutato l'offerta di una sigaretta. «Ti dà fastidio se fumo?» mi ha chiesto prima di accendere la sua.
«Sì».
«Mi dispiace. Fa' conto che sia una cinese. Quelli fumano sempre. Rispetta la mia identità culturale».
E ha acceso la sigaretta.
Siamo soli. Dopo il discorso c'è stato un diluvio di applausi.
Mancava solo le chiedessero gli autografi. Il Progetto Celti, versione 1.2, ha preso il largo fra gli applausi della folla e i botti delle bottiglie di spumante.
La Martinelli fuma per un po' in silenzio. La sigaretta è consumata per metà prima che faccia la sua domanda. «Cos'è che ti dà fastidio, Alberto?».
«A parte il fumo?».
«A parte il fumo».
«Mi dà fastidio la tua amicizia con Mayer. Sospetto sempre di uno che governa una città senza ristoranti etnici».
«È perché sei prevenuto».
«Ovvio. Cos'è questa storia della festa dell'identità celtica?
Da dove salta fuori?».
«Una mia idea. Ti piace?».
«Dovevi avvisarmi. E poi non si era mai parlato di una cosa del genere».
«Considerala un mio personale contributo al progetto. Sto cercando di aiutarti, Alberto, possibile che non lo capisci?». «Mi avevi dato carta bianca».
«E ce l'hai».
«Non posso gestire una parte di progetto in cui non credo.
«sono contrario a questa iniziativa».
«Mi dispiace. Perché l'iniziativa fa parte del progetto. Prendere o lasciare».
«E se ti dicessi che lascio?».
La Martinelli mi rivolge uno sguardo lungo e completamente inespressivo. «Severino ti farà avere un rimborso spese per il disturbo, e amici come prima».
«E chi prenderà il mio posto?».
«Questo non è un problema tuo».
«Guarda che non ho detto che mi ritiro». «In un modo o nell'altro, vedi di deciderti».
li fumo della sigaretta si alza in spire verso il ventilatore a soffitta, che lo sfilaccia e lo ingoia. Guardo la Martinelli. La Martinelli guarda me.
«Perché di punto in bianco salta fuori questa cosa?» insisto.
«Perché mi è venuta in mente stamattina».
«Come no. Stavi leggendo, com'è che l'ha chiamato il tuo celtico?, Kampfdes Kulture ... ».
«Kampf der Kulturen».
«Quello che è. Diciamo che eri in bagno, leggevi il tuo libro, ad un certo punto, così di botto, ti è venuta in mente la brillante Idea».
Il Sony Ericsson Z600 dell' assessore squilla, da qualche parte in fondo alla sua borsetta. Semplici squilli, come quelli di un vecchio telefono anni Sessanta.
«Non rispondi?» le domando.
«Se è importante richiamerà».
Ci guardiamo negli occhi, abbastanza a lungo per metterci a ridere tutti e due contemporaneamente.
«Allora giocavi anche tu a questo gioco, da piccolo?». «Ero anche bravo».

«Anch'io».
«Ma se non hai resistito neanche un minuto». «Senti chi parla».
Il volto della Martinelli è come il tempo su un lago: un attimo prima è una distesa di ghiaccio e il momento dopo spunta 1'arcobaleno.
«Resta il fatto che oggi hai tentato di fottermi» le dico, dopo attenta meditazione.
«lo non la vedo casi».
«Lascia stare. È indiscutibile che hai cercato di fottermi». «Non vedo come».
«Facendo passare davanti a tutti un'idea tua pet un progetto del gruppo».
«Non ho mai detto niente del genere».
«Forse no. Ma ammetterai che tutti i presenti devono essersi fatti questa idea».
«Non dopo che mi hai azzannato in pubblico». «Azzannato è una parola grossa».
«Guarda che niente mi interessa di più del rapporto coi miei collaboratori. Per questo ho voluto parlarti a quattr' occhi. Tu e io da soli. Muso contro muso. Perché non voglio ci siano margini di fraintendimento tra noi. Perciò da parte tua devi dirmi sinceramente quello che pensi. Credi davvero che io sia razzista, Alberto?».
«Forse no. Ma la tua iniziativa lo è».
«Che sciocchezza. Da una persona intelligente come te, poi. '"q)pi, tanto per dire, che anche Tabiani è entusiasta dell'idea. E Tabiani è della tua parrocchia. Non certo della mia. E poi basta con questa storia della destra e della sinistra. La biodiversità è una cosa di destra, secondo te? Il rispetto dell'identità culturale di un popolo è di destra? Pensaci bene. A me non pare».
La stanza è spoglia, arredata solo con un tavolo di formica verdina e due sedie dall' aria scomoda, che in effetti sono scomode veramente. Enrica raccoglie la cenere della sigaretta in un bicchiere di plastica. Sul fondo del bicchiere c'è un dito di spumante e la cenere si scioglie. La sigaretta sfrigola nel vino quando la Martinelli la spegne.
«Voglio chiederti una cosa» dice. «Ma voglio che tu ricorda come Alberto Mendini».
«È facile. lo sono Alberto Mendini».
«Lasciami finire. Non interrompere sempre. Voglio che non mi risponda il pubblicitario, o l'uomo colto, o l'uomo di sinistra anche se dimmi tu cosa vuol dire sinistra, di questi tempi. Voglio che mi risponda il padre di due bambini».
«Guarda caso ho anche due bambini. Sono preparato. Spara la domanda».
«Guardiamoci negli occhi. Smettiamola con questa storia di dover essere sempre politically correct. Davvero vuoi trovarti a vivere in una società meticciata? Un mondo in cui tutto dev' essere tollerato e rispettato, dal divieto di esporre un crocifisso in 1IIl'aula scolastica all'infibulazione, dalla prostituzione alla guida di vecchie auto che inquinano?».
«È una scaletta un po' bizzarra, ma credo di capire dove vuoi arrivare».
«Voglio arrivare a farti prendere posizione. Obbligarti a dirti sinceramente che mondo vuoi per i tuoi figli».
«Be', ti racconto un aneddoto».
«Continui a interrompermi?».
"Questo devi sentirlo. Questo è successo davvero. Il primo giorno di scuola di Gaia mi sono svegliato in ritardo, e così ho dovuto portarla Marta. lo ho preso su la telecamera e la macchina fotografica e ho cercato di fare più in fretta possibile, solo che quando sono arrivato erano già tutti dentro. Sono entrato in prima A. C'era una calca di genitori, tutti i bambini erano seduti. ci saranno state almeno dieci cineprese che filmavano, allora anch'io mi sono messo a filmare. Comincio con un primo piano della maestra e poi faccio una panoramica sui banchi. Intanto la maestra fa l'appello. Metà dei nomi che sento sono stranieri. Un sacco di albanesi. Filmo lentamente tutti i banchi, e quando sono arrivato all'ultimo mi rendo conto che mia figlia non è stata chiamata. Spengo la telecamera, mi guardo attorno. Mia figlia non c'è. Sai cos' era successo? Che mia figlia non era iscritta nella sezione A, che era quella a tempo pieno. Era in C. Me l'ha detto un genitore che ho trovato nel corridoio. "Che sollievo" gli ho detto. "Vedendo tutti quegli albanesi pensavo che mi avessero mangiato la figlia già il primo giorno di scuola". Lui mi ha guardato e mi ha risposto: "Stia tranquillo: io sono albanese ma mio figlio non ha mai mangiato nessuno"».
"Ah».
"Non mi ero accorto che era albanese».
"Questo sarebbe l'aneddoto? Non l'ho mica capito. E comunque è strano. Di solito li riconosci subito, gli albanesi. Hanno certe facce. E poi le pettinature. Hai visto come si tagliano j capelli? Li riconosci già da quello».
"Sì, be', non divaghiamo».
Mi fissa storto. "Se mi lasci parlare vedrai che arriviamo al punto».
"Okay».
"Bene. Allora. La festa dell'identità celtica non è, e sottolineo non è, una festa razzista, o orientata ideologicamente. È una festa. Punto e basta. Come la Festa dell'Unità, o la Festa della Birra».
"Dove chiunque si riconosca nell'unità, o nella birra, può partecipare. Scusa, si fanno ancora, le Feste dell'Unità?».
"Come no. Pensa che mi chiedono anche di sponsorizzarli».
"Che sfacciati».
"Comunque vorrei che tu capissi una cosa: che non puoi fare di ogni erba un fascio. Come non puoi giudicare Ham da un solo incontro».
«Il fatto è che non so se sopravviverei a un secondo. Per me le sue guardie del corpo fanno il tiro al bersaglio con la mia fotografia. Se torno nel Mittelmark divento carne per i falchi».
"Esagerato. Certo non hai fatto niente per renderti simpatici. Comunque adesso mi devi dire se posso ancora considerarti quello della Squadra o se ti sei chiamato fuori. Voglio dire, adesso che ti ho dato la mia personale parola d'onore che il progetto
"" ha finalità razziste».
"Prima dimmi se devo aspettarmi altre sorprese».
"Sorprese? Che sorprese?».
"Tipo questa. Il giorno dell'identità celtica».
"Ma no. Ti ho detto che è un'idea venuta su così».
"E tanto per parlarne, quand'è che avreste intenzione di festeggiarla, questa festa?».
«Be', si pensava a una data simbolica».
"Ad esempio?».
"Samhain».
"Che sarebbe? Scusa l'ignoranza». "Sarebbe il 31 ottobre».
"Ma il31 ottobre non è Halloween?». "Sì, ma è anche il capodanno celtico».
"Capisco. E i dettagli? Tipo che ne so, l'organizzazione, pubblicità?».
"Ah be', voi del Gruppo siete già anche troppo occupati.
Pensavo di dare in appalto tutto a un'agenzia esterna».
«Noi della Squadra, vuoi dire. Comunque rientrerebbe nel nostro settore d'intervento».
«Sì certo. Volevo solo togliervi lavoro».
«Non è invece perché penso che è un'idea che fa schifo?». «Assolutamente no».
Tutto, nell' atteggiamento dell' assessore, segnala che la riunione, per quanto la riguarda, può considerarsi chiusa.
«Allora » sospira.
«Allora » sospiro anch'io.

Lei ride. Mi allunga la mano. «Amici come prima?». Stringo la mano fredda e ben curata di Enrica Martinelli, la guida che mi porterà alla luce, fuori dalle tenebre della disoccupazione e dei decreti ingiuntivi. «Amici» dico.

* * *

Sarà una coincidenza, ma quando torno di là (Enrica ha un appuntamento), il geometra Candiani sta raccontando una barzelletta razzista.
«Hai mai sentito niente dell'Orchestra Sinfònica di Tirana?». «Sì, la puzza»,


22 La puzza

La puzza di gas di scarico è tremenda. Stare dietro a una di queste macchine vecchie e decrepite, generalmente guidate da gente troppo vecchia o troppo giovane, da negri o arabi o albanesi, vuoI dire riempirsi i polmoni di merda.
Sorpasso.
Di' al vigile che provi a multarmi, cazzo, anche se siamo in  centro con la doppia riga. Perché devo guidare un'auto a norma di legge, quando tutto intorno girano vecchie carrette arrugginite, con la marmitta a terra?
Sorpasso, Sorpasso,
L'auto davanti alla mia, una BMW, ha la targa francese. Da dieci metri di distanza leggo così: BOG WH 75.
Dio Wehrmacht Parigi, Bog è Dio in slavo, WH era la sigla della Wehrmacht e 75 corrisponde al distretto di Parigi.
Naturalmente, avvicinandomi, vedo che non c'è nessun BOG la targa porta il numero 806.
Promemoria mentale: prenotare una visita dall'oculista,
Una volta facevo in continuazione giochi del genere, per ammazzare il tempo alla guida quando la musica non bastava. Normale, no?
Poi ho cominciato a vedere dei messaggi nelle targhe, e queesto è già meno normale.
Dio Wehrmacht Parigi, rimugino, guardando la mia faccia incazzata nello specchietto retrovisore.

* * *

La giornata è cominciata con una tempesta di cacca. Un monsone di cacca. Ieri, rovesciando le tasche dei miei pantaloni prima di metterli in lavatrice Malgorzata ha trovato un biglietto. Dato che non c'ero, ha pensato di lasciarlo in bella vista sulla lavatrice.
Marta deve averlo avuto per le mani già nel pomeriggio. Ma ha aspettato sadicamente per tutta la cena. Non una parola. Non un segnale. Solo col senno di poi capisco alcune sue battute, pronunciate peraltro con estrema grazia e spirito.
Poi stamattina, spediti a scuola e all' asilo i bambini, ha tirato fuori di tasca il biglietto e me l'ha tirato in faccia.
L'ho guardata come si guarda un matto. Mi pareva giusto così. Poi ho visto cosa mi aveva tirato.
N ella bella grafia di Aurelia Copetti, sul biglietto c'era scritto: «Disposta a tutto per il Capo» e un numero di cellulare.

* * *

Quando subito dopo colazione tiri qualcosa in faccia a tuo marito non è che poi la prendi alla larga. Affronti subito di petto l'argomento. O almeno è così che fa Marta.
«Sei anche tu disposto a tutto? No? Allora spiegami chi è questa troia e perché ti dà il suo numero di cellulare».
A scuola amavo i dibattiti nell' ora di filosofia. Mi piacevano più di tutto i sofisti, e quel loro contendere su tutto. Così immagino che anche adesso potrei dire a Marta che non c'è nessuna prova che chi ha scritto il biglietto sia una donna, tantomeno che sia una troia, che il biglietto sia mio, che il numero sia davvero un numero di cellulare, che sia il cellulare di chi ha scritto il biglietto, che il biglietto non l'abbia scritto io per esercitarmi a imitare un' altra scrittura, o che non sia solo una trappola per incastrare una domestica fedifraga che fruga nelle tasche dei padroni. Potrei inventarne a migliaia, di versioni così. Invece guardo mia moglie più o meno negli occhi e le dico: «Si chiama Aurelia Copetti. È quella che ti ha chiamato quel giorno che ero a
Salzfurt. Quella che hai definito sciroccata. Più o meno credo sia Il definizione giusta. Lavora con me al progetto in Regione. Mi ha aiutato a finire le interviste, sabato al parco. Credo abbia circa venticinque anni. È piuttosto bella».
Marta non dice nulla. Guarda fuori dalla finestra. Dalla nostra cucina c'è una vista splendida. Tra noi e la fine della città sono solo case basse e sparse, quindi le montagne si vedono il te. È una giornata così limpida che, se fossimo in cima a una torre tipo Empire State Building e non a un settimo piano, potremmo vedere fino alla fine del mondo, fino alla mitica curvatura della terra che riempiva di stupore e timore marinai e geonatura del passato. Oggi, però, quello alla finestra pare un passaggio da dopo bomba. Per strada non si muove nessuno. Si, decisamente è stata sganciata un' atomica.
Mi alzo. Scostare la sedia dal tavolo mi sembra un gesto famosissimo. Mi avvicino a mia moglie. Alzo la destra per toccarle 1.1 spalla, ma lei si volta di scatto e mi schiaffeggia la mano. «Credi di essere furbo?».
«Marta ... ».
«Lasciami stare! Credi di farla franca ogni volta? Brutto stronzo! Credi che non sappia?». «Credo che non sappia cosa?». «Sai benissimo di cosa parlo!». «No che non lo so!»
«Quante volte mi hai tradito, brutto bastardo? E vieni anche chiedermi di Bob! Hai il coraggio di farmi il terzo grado su Bob!». (,Guarda che non ti ho fatto nessun terzo grado. E non ti ho mai tradita».
Il pugno mi coglie in piena faccia. È come se un fuoco artificiale mi esplodesse a un millimetro dagli occhi. Sento il gusto del sangue sulla lingua.
«Cazzo, sei matta?».
«Brutto stronzo bastardo!».
Mi tempesta di pugni facendomi arretrare verso il frigo. lo cerco di fermarla, ma è come fermare il getto di un idrante a mani nude. Prima ancora di rendermene conto mi trovo con le spalle contro il frigo.
«Malgorzata mi ha detto tutto!».
Il mio cuore fa un salto in alto di almeno venti centimetri, e poi ripiomba giù.
<<Tutto cosa?» balbetto.
«Come si dice pompino, in polacco? Come si dice brutto bastardo figlio di puttana, in polacco?».

* * *

Infilo l'auto nel parcheggio sotterraneo della Regione. Prima di scendere mi guardo la faccia nello specchietto retrovisore. Sembra che lo scontro con Marta non abbia lasciato segni, almeno all' esterno.

Malgorzata le ha detto tutto. Non capisco perché. Immagino c'entri la scoperta del biglietto, ma non riesco a capire come.
Avrei dovuto distruggerlo, il biglietto. Aurelia me l'ha infilato in tasca sabato al parco. Quando l'ho lasciata davanti a casa sua c'ero rimasto male per la faccia che aveva. Pensavo di averla offesa, da tanto era stata fredda con me. Invece quando si è sporta verso il sedile posteriore per salutare i bambini, dev' essere stato allora che mi ha infilato il biglietto in tasca, perché ricordo come potrei non ricordare? - la pressione della sua mano sulla mia gamba, a pochi centimetri dal pene.
L'ho chiamata quella sera stessa.
«Volevo collaudare il numero» le ho detto. Parlavo piano, da una panchina del giardino interno, il nostro piccolo e costoso Eden condominiale. Le panchine sono in ferro battuto, in stile inglese. Questa in particolare è posta sotto un melo, che nella stagione giusta dà frutti piccoli ma saporiti, per niente simili alla mela del serpente, che nei film e nelle illustrazioni della Bibbia è tonda e lucida e sembra dire mordimi. Le mele del nostro giardino, data la problematica irradiazione solare e l'assoluto veto all'uso di pesticidi imposto dall'architetto Samperi del quarto piano, dirigente ,Il Legambiente, potrebbero chiamarsi varietà Auschwitz.
Ad ogni modo la panchina, e io sulla panchina, eravamo circondati dal verde, illuminati dalle lampade Artemide sparse a oculati intervalli lungo il verde delle siepi e benedetti dalla luce delle stelle che cominciavano ad accendersi in alto, nel riquadro delineato dagli edifici che sembrava la cupola di un planetario. Il rumore del finto ruscello che costeggia il Giardino Zen cospirava a rendermi sciolto e rilassato, facendo da sottofondo alle prime parole di quella telefonata.
Lei scoppia a ridere. «Be', come vedi funziona».
«Sai, per me il telefono è sempre una cosa un po' magica». «Magica?",
«Come la televisione. Come tutte le cose che usiamo senza ... Ipere come funzionano. Tu per caso sai come funziona, un telefono?» .
«No. E per la verità neanche mi importa».
«Ad esempio, sto volando a tremila metri d'altezza e di colpo mi chiedo cos'è che tiene in aria quella specie di ferro da stiro , on le ali dentro cui sto seduto».
«Be', è facile. Sono i motori, no? Attaccaci un motore abbastanza potente e puoi far volare qualsiasi cosa. Credo, almeno». «Ma il telefono? Come lo spieghi, il telefono? Tu sei Il, io sono qui, eppure ci parliamo come se fossimo nella stessa stanza». «Se fossimo nella stessa stanza non ci parleremmo così. Dato che non ho niente addosso».
Il mio cuore manca un battito.
«Quando hai chiamato stavo per fare la doccia» precisa Aurelia.
«Mi dispiace». «Non dispiacerti».
«Vai a metterti qualcosa».

La mela dell'Eden è sempre tonda e lucida, e sembra dire II/ordimi.
«No» ho detto.
E ho premuto il tasto NO.

***


«Ciao, ragazzi».
«Ciao, Alberto. Dormito male? Hai una faccia che fa spavento». «Ciao, Sergio. Grazie per la sincerità. No, niente. Credo sia

Ho un'indigestione, Ho fatto, hmmm, su e giù dal bagno fino alle tre di notte».
«La Vendetta di Montezuma».
«Più o meno. Tu hai avuto qualche altra idea brillante, stanotte?».
«No, però ho trovato il tipo giusto per il videoclip». «Ah sì?».
«Si. È un mio amico d'infanzia. Possiamo andarlo a trovare
Ache questo pomeriggio, se ti va». «Okay. E per il fumetto?».
«Ho due o tre idee. Dopo magari te ne parlo». «Va bene. Come mai sei vestito così?».
«Volevo essere all' altezza della situazione. Sai come si dice, business is business».
«51, ma che nodo hai fatto? Vieni qui, dai».
«Ah, grazie. È la prima volta che faccio un nodo alla cravatta.
Cioè, è la prima volta che mi metto la cravatta. Questa era di mio padre».
«Si vede».
«Da che cosa?».
«Dal fatto che è di buon gusto. La Copetti non c'è?».
«Ha telefonato che non sta bene. Mi sa che oggi non viene». «Niente di grave, spero».
«Non so. Di', e della giacca cosa mi dici?».
«Be', le giacche in jeans hanno avuto un revival quest'anno, mi pare. O forse l'anno scorso».
«Pensa che la portavo quando avevo quindici anni e mi va ancora bene».
«Beato te. Dopo parliamo del fumetto, d'accordo?».
«Okay. Senti, posso dire al mio amico che passiamo nel suo studio oggi pomeriggio? È qui vicino. Possiamo andarci a piedi». «Per me va bene».

* * *
Il nuovo budget della Squadra basterebbe per l'acquisto di una piccola portaerei di seconda mano, o di una squadra di calcio di serie B. Quando leggo la cifra, sul momento penso di aver visto male. Ma ricontrollando più volte i numeri il risultato non cambia. È una somma di entità imbarazzante, se non addirittura offensiva, in questi tempi consacrati al contenimento dei costi pubblici, in cui si tagliano i posti letto negli ospedali e le pensioni sociali.
«Ovviamente non sono d'accordo» sottolinea Segaluzza, anche se a esprimere l'opinione basterebbe la sua faccia schifata. «Ovviamente».
«Finora ho visto solo promesse». «Casomai le ha sentite».
«Non faccia il furbo con me».
«Non ci provo nemmeno. Senta piuttosto, avrei trovato un lavoro per lei, nella nostra Squadra. Secondo me è arrivato il tempo per la sua grande rentrée».
Segaluzza mi fissa con sospetto. Socchiude gli occhi come se stesse osservando un' eclissi di sole senza la lente affumicata. «Cos'è che ha in mente?» domanda. «Pensavo che il Gruppo non ne volesse sapere di me».
«La Squadra» faccio. «Come?».
«Noi siamo la Squadra. Non so perché continuate a chiamarci il Gruppo».
«Continuate? Chi altro vi chiama il Gruppo?». «La Martinelli. È strano non trova?».
«No».
«Sicuro?».
«La pianti di fare domande inutili. Mi dica invece cosa vorrebbe farmi fare, nella sua Squadra». «Un lavoro che solo lei può fare». «E cioè?».
«I rapporti con la stampa». «Se lo scordi».
«Perché?».
«Ma mi ha guardato bene?».

Lo guardo e vedo il solito Segaluzza. Non è che sia un gran bel vedere. Poi provo ad astrarmi da me stesso e a guardarlo come se fosse un perfetto sconosciuto.
La cosa che colpisce di pill, guardandolo, è che è giovane. Eppure l'impressione che dà è di avere cent'anni. E non dipende dalla gamba. È lo sguardo, forse. Uno sguardo arcigno e diffide. Forse Segaluzza è come quel personaggio della mitologia etruu'l';}, che era nato già coi capelli bianchi. Un vecchio bambino.
«Fatto» dico. «Fatto cosa?».
«L'ho guardata bene. Non vedo problemi. Le dico che è perfetto per quel lavoro». «Sarà».
«Guarda caso avrei subito un incarico per lei». «Ma guarda».
«Lei conosce nessuno alla "Gazzetta"?». «No. Perché?».
«Stanno cominciando a fare domande sul nostro lavoro». «Lo so».
«Lo sa?».
«Secondo lei chi è la prima persona che hanno chiamato?».
«Lei?».
«Peggio. L assessore>,.
«Ah. E allora, cosa si fa?».
«L'assessore ha già chiesto che me ne occupi io. Senza bisogno che lei mi nominasse suo addetto stampa. La prossima volta la sua megalomania dove la porterà? A nominare ambasciatori? Pensi al suo lavoro, invece. Avete cominciato a produrre qualcosa?».
«Certo».
«E sarebbe tanto cortese da dirmi cosa?».
«Be', c'è stato il sondaggio, no? E poi abbiamo un sacco di altre idee. Su alcune dobbiamo discutere proprio oggi, quindi se vuole partecipare ai nostri lavori potrà rendersi conto di cosa si tratta. Per esempio fra cinque minuti abbiamo una riunione del sottogruppo Prodotto».
<<Abbiamo? Mi pareva che lei fosse nel sottogruppo Consumatori».
«Vedo che ha buona memoria. In effetti partecipo come supervisore. Vogliamo andare?».

* * *

II sottogruppo Prodotto mi attende in un angolo dell' open space. Sergio salta qua e là come un criceto sulla ruota. Nessuno sembra far caso al ritorno di Segaluzza. Bianca Deodati sta parlando svelta svelta al cellulare, mentre il geometra Candiani e l'obiettore Andrea disegnano negli angoli dei loro bloc notes in carta riciclata. lo tiro fuori Moleskine e stilografica.
«Allora» faccio. «Fuoco alle polveri». La Deodati spegne il cellulare. «Comincio io?» domanda Sergio.
«Per me va bene, se anche gli altri sono d'accordo. Dovevi parlarci del fumetto, no? Sergio prima mi ha detto che ha due o tre idee» spiego a beneficio degli altri. «Vai, Sergio».
«Sì. Bene. Allora, secondo me un fumetto va mirato. Cioè, chiaro che è inutile proporre Topolino a un ventenne, o un manco a un bambino dell'asilo. Così ho pensato come target a un pubblico di adolescenti. E a un tipo di fumetto che vada bene a loro. Ho pensato a un supereroe, tipo quelli della Marvell. I fantastici Quattro, Capitan America».
«Continua».
«Sì. Ho pensato a un eroe che si chiama l'Ardito Celta. Sì, lo so che il nome non è granché, ma devo ancora lavorarci».
«A me sembra buono» lo incoraggio.
«Davvero? Grazie. Allora, diciamo che l'Ardito Celta è un eroe che per sbaglio viene spedito avanti nel tempo da una magia dei druidi. Un po' come nei libri di David Gemelli. Li conoscete, no?».

Nessuno dà segno di vita, intorno al tavolo.
«Ma dai! È un grande! Cioè, ma il ciclo dei Drenai. Le Sipstrassi. I Rigante. Come fate a non conoscerlo?».
«Magari ci aiuterai a colmare il gap» sorrido. «Intanto continua a dirci di questa idea. Mi sembra molto buona».
«Sì. .. è che, ripeto, devo ancora lavorarci. Comunque c'è questo Ardito Ceita che, insomma, che viaggia nel tempo, non so, tipo quella magia dei Druidi, oppure cade dentro un cerchio magico, comunque si trova a viaggiare nel tempo. Viaggiando nel tempo conosce questa Regione nelle varie epoche della sua storia. Ad esempio combatte contro Napoleone, e poi contro i nazisti ... ».
«Scusa, però Napoleone ha vinto, da queste parti» obietta la Deodati. «Di solito è l'eroe che vince, mi pare. No?».
«E credo che qualcuno avrebbe anche da obiettare circa l'Ardito Celta che combatte i nazisti» aggiungo, strizzando l'occhio .1 Segaluzza. «Immagino che per la par condicio dovrebbe far fuori anche qualche commissario politico russo».
«Sì, be',» fa Sergio «ho detto Napoleone tanto per dire». «Comunque non mi pare un'idea così originale» obietta Segaluzza. «Mi ricorda tanto Hightandm>.
Sergio diventa rosso. «Si, va be', okay, al limite non sarà originale, ma ormai non c'è più niente di veramente originale, d'accordo? È il media che è il messaggio, si dice così, no?».
«Più o meno» intervengo. «Puoi andare avanti con la tua idea? Voglio dire, come pensavi di svilupparla?».
«Ho un paio di nomi di disegnatori che potrebbero fare un lavoro di prima qualità. Tipo Frank Miller, per intenderci. Poi c'è uno che fa delle cose alla Davide Toffolo».
Entrambi i nomi non mi dicono nulla. Idem per gli altri, a giudicare dagli sguardi.
Non importa. Per dirla alla Sergio: al limite, cioè, almeno mi dimentico dei miei guai.
«Quindi,» riassumo «questo Ardito Celta viaggia nel tempo». «Esatto. Questo Ardito Celta viaggia nel tempo fino ai giorni nostri, si, e magari anche più in là. Cioè, vede la decadenza dei nostri tempi e poi vede la futura gloria della rinascita dell' orgoglio celtico. E il bello è che è stato lui a scatenare questa rinascita. Cioè, avete presente Ritorno al Futuro? Viaggiando nel nostro presente, che è il suo futuro, l'Ardito Celta ha creato un mito che porta alla liberazione del popolo celtico».
La bocca di Sergio si apre in un sorriso a tutti denti. Sembra si aspetti una vago nata d'applausi e, invece, riceve solo occhiate freddine. Tranne che da parte mia. Mi alzo e vado a stringergli la mano. «Bravo, Sergio. Bravissimo. Questo è quello che chiamo approccio innovativo. Dovremmo imparare tutti da lui. Bravo!».
E pensare che mi stavi sui coglioni, dovrei aggiungere. Sergio sembra crescere di almeno venti centimetri.
«Prendi contatto subito con questi disegnatori che conosci, Bisognerà anche trovare uno sceneggiatore, però».
Sergio abbozza un sorriso timido. «Se è per questo, le sceneggiature potrei farle io. Ho studiato quattro anni al DAMS».
«Ma non hai fatto Filosofia?» gli domanda la Deodati, piccata.
«Si, anche».
«Cosa vuoi dire anche?» replica lei.
A questo punto decido di impormi. «Okay, allora è deciso. Sergio si occuperà di scrivere le sceneggiature e di contattare i disegnatori. Se ci riusciamo vorrei mettere uno di questi fumetti già nel famoso kit per il primo giorno di scuola. Prima di criticare questa idea, che a me sembra davvero ottima, qualcun altro con qualcosa da proporre?».
Si guardano negli occhi.

«Ci sarebbe la rivista di enigmistica» butta un obiettore Andrea. Intorno si leva un coro di «oh no!» e «ancora?».
«Di cosa si tratta?» domando, troncando con un gesto i mugugni di dissenso.
Andrea, pur arrossendo, prosegue. «Be', è un'idea che ci era venuta, di fare una rivista di enigmistica. L'idea era di far venire fuori dagli schemi delle parole chiave ... ».
«Quali parole chiave?» faccio, sinceramente incuriosito. «Be', per esempio facciamo in modo che risolvendo un cruciverba, o un rebus, vengono fuori delle frasi tipo "regione libera", o "regione indipendente"».
«Mi sembra una buona idea» dico.
«Si,» fa Sergio «ma digli perché non funziona».
Andrea si stringe nelle spalle. «Perché volevamo farla nostra lingua. Così avrebbe avuto un vero senso. Solo che in Regione non c'è una sola lingua. Ce ne sono almeno trenta varianti. Anzi, si può dire che ogni paese parla la sua lingua. A volte qualche tra frazioni di uno stesso comune non si capiscono, quando usano certe parole».
«Ah».
«Così se, mettiamo, la definizione da inserire nello schema del cruciverba era pesce, ognuno l'avrebbe scritta nella variante del suo paese. Ci abbiamo provato, una volta. È venuto fuori un casino».
Mi schiarisco la gola.
«Capisco. Direi di lasciar stare la rivista di enigmistica, per il momento. Qualche altra proposta?» domando, senza farmi troppe illusioni.
La Deodati fa un modesto cenno di sl col capo. «lo avrei preparato il come si chiama ... ».
«Il layout» suggerisce il geometra Candiani.
«Si, il layout del Cd-Rom. Marco mi ha dato una mano». «Il famoso Cd-Rom ... ».
«Si. C'è un percorso articolato che porta dalle origini dei popoli celtici alla liberazione dell'Irlanda, all' autonomia della Scozia e ai movimenti per la libertà dei popoli dell'Italia del Nord». «Capisco. Sono un po' perplesso sui tempi di realizzazione» faccio, sfogliando il materiale.
«No, per quello ce la facciamo. È tutto già disponibile in formato digitale. Basta fare un copia-incolla. Un lavoro di un paio di settimane, un mese al massimo».
«Facciamolo, allora».
La Deodati inarca un sopracciglio. «Verrà a costare un bel po'».
«I soldi non sono un problema».
Domanda: quale grande personaggio vivente usa continuamente questa frase? Comincia con MAR e finisce per ELLI. «Altre idee ... ?» insisto.
«Be', c'è lo spot» fa Sergio.
«Non dirmi che hai pensato anche a quello?».
«Più o meno. Sai, in queste cose conta molto l'idea del regista. Comunque io la vedrei come una cosa tipo l'inizio del film 1984, hai presente?, quando viene proiettato un documentario che mostra campi pacifici, nuvole, una roba bucolica insomma, e c'è una musica dolcissima che poi mi sembra sia la variazione Nimrod di Elgar ... ».
Di cosa sta parlando? .,
"insomma, la mia idea è di mostrare la nostra Regione nei suoi angoli più belli. Mamme che allattano. Bambini che giocano Roba così Poi l'ombra sinistra della minaccia».
"Che minaccia?».
"La Minaccia con la emme maiuscola. Un'ombra minacciosa. Mettici tutto quello che ti fa più paura. Il tuo peggiore nemico: i negri, il debito pubblico, il cancro. In una parola: la Minaccia Accompagnata da una musica terribile».

Gli ultimi quindici minuti mi hanno portato a una completa rivalutazione di questo sciagurato.
Promemoria mentale: chiedergli cosa fuma e procurarsene un copione a scopo di sperimentazione e studio.
«Poi» tira dritto Sergio «appaiono immagini di forza. Un soldato che alza la testa. Un contadino che stringe i pugni. Puro realismo sovietico, capito? Poi magari una siepe di baionette. Un pilota che si abbassa la visiera e punta verso il cielo. Un carro armato che esplode. Robe così».
Chiude gli occhi. Racconta come se vedesse davvero le scene. l Ina bandiera che sventola sullo sfondo, in trasparenza. La nostra bandiera. Bambini felici. Campi arati. Alberi in fiore. Il pilota sorride e scivola d'ala sulla terra liberata. Dissolvenza finale».
Riapre gli occhi. «Più o meno è così».
Nessuno apre bocca, per un po'.
Mi schiarisco la gola. «Si. Bene. Interessante». "Bravo!>, esclama una voce femminile.
Mi volto a destra, e vedo che sulle guance della Deodati scivolano due lacrime. Sono due lacrime che scendono parallele, quasi alla stessa altezza.
«Bravo» ripete commossa, con la voce rotta.
"Grazie».
«Si»mi accodo "ma qual è il messaggio? Cosa c'entra la guerra?».
Sergio mi guarda come se avessi parlato in una lingua morta. «Non c'è nessun messaggio. Sono solo immagini e musica».
Ma vedo che anche Andrea e il geometra hanno gli occhi lustri. Sergio è felice. Balbetta, guardandosi intorno e riflettendosi nell' entusiasmo degli altri.
"Sono solo immagini».

23 Sono solo immagini

"Sono solo immagini suggestive» mi spiega per la terza volta, mentre camminiamo.
"Okay, questo l'ho capito».
Ho lasciato l'auto in Regione. Un po' perché Sergio mi ha assicurato che il posto è vicino, ma soprattutto perché il traffico in centro sembra paralizzato. Squadre di operai del Comune stanno appendendo lunghe bandiere verticali bianche e azzurre a tutti i lampioni. In Piazza dei Legionari Fiumani stanno tirando su un'impalcatura con un megaschermo di dimensioni olimpiche. Camionette blindate della Guardia Nazionale Regionale ,sono ferme a tutti gli incroci del Corso, deviando il traffico sulle laterali. I militi hanno divise nuove, e insegne che non ho mai visto prima. Del resto il corpo è stato istituito da poco. Assomigliano ai marines americani.
Solo pochi anni fa, quando il sindaco di qui aveva proposto Il, dotare di pistola i vigili urbani, c'era stata un' alzata di scudi generale, da destra a sinistra. Oggi una cosa così sembra del tutto normale. La Guardia è stata istituita l'anno scorso, e nessuno si è sognato di protestare.
C'è un'atmosfera strana, in città. Un'aria elettrica.
«Manca ancora molto?» domando a Sergio per l'ennesima volta.
La strada dove mi ha portato non è tanto vicina come mi aveva assicurato, o forse a stancarmi più che la camminata è la sua voce che mi ripete cose che semplicemente non voglio capire.
"Scusa Alberto, ma tu sei un professionista della comunicazione. Come fai a non capire?».
«Non è che non capisco» urlo, cercando di superare il rumore di un motorino smarmittato che mi sfiora la gamba. Il marciapiede è ingombro di auto in sosta vietata, come in un vicolo napoletano. «È che per me una campagna, uno slogan, uno spot devo vendere qualcosa. Tu cos'è che vorresti vendere, con questo spot,
Sergio si ferma. Mi fermo anch'io. Ci guardiamo negli occhi Alle sue spalle c'è una vetrina piena di scarpe dai prezzi impo.\ sibili. Il paio meno caro costa trecento euro.

<<Voglio vendere l'idea che siamo un popolo oppresso. Che siamo un popolo giovane. Che abbiamo la forza e che abbiamo il coraggio di usarla».
«Questo è un messaggio fascista».
«Non necessariamente. Anzi, ho intenzione di usare molte citazioni sovietiche, soprattutto nelle inquadrature dei campi, Nessuno filmava bene i campi di grano come i registi di propaganda sovietica».
Lo guardo. Mi chiedo cosa succederebbe se adesso lo afferrassi per le sue spalle magre e lo scaraventassi di peso contro la vetrina. Non so ancora se farlo in stile eisensteiniano o alla Leni Riefenstahl, ma la voglia di farlo è fuori discussione.
«Perché mi guardi così?» mi domanda. ,
«Perché mi chiedo se sai di cosa parli». «Metti in dubbio la mia competenza?». «No, la tua moralità».
Sergio mi sembra sollevato dalla mia precisazione.
«Ah. Ho capito» sorride. «Ecco, siamo arrivati. È proprio qui», Mi guardo intorno. «Qui dove?» domando. Il palazzo ospiti! solo un grande magazzino e la boutique di scarpe. Non cisono altri campanelli.
Sergio punta il dito verso il basso. «È qui» ripete, indicando mi una ripida rampa di gradini metallici che avevo preso per una scaletta antincendio mal posizionata.

* * *

Il candidato, alla regia del videoclip vive nel seminterrato del grande magazzino, in virtù di chissà quale accordo o parentela o amicizia. Il seminterrato, cui si accede scendendo la predetta scala superando due porte blindate con parola d'ordine al citofono, è arredato in stile Fuga da New York (osservazione sussurrata da Sergio).
Anche l'uomo che ci accoglie al centro del loft rintanato dietro un traballante ferro di cavallo di apparecchiature elettroniche, sembra un residuato postatomico. «Avanti!» tuona, su un sottofondo di musica suonata da strumenti che imitano muri che crollano e lamiere tagliate con la motosega.
"Puoi abbassare il volume?» urla Sergio. L'uomo tira su. la testa. «Cos'hai detto?» urla. "Puoi abbassare il volume?».
I .'uomo abbassa il volume. «Che cazzo ti urli?» grida.
Sergio si mette a ridere e gli allunga un pugno sulla spalla.
Certo,» fa, voltandosi verso di me con l'aria di un esploratore , l", ha appena scoperto le sorgenti del Nilo, «questo è Igor. Igor, questo è il tipo di cui ti parlavo. Alberto Mendini. L'uomo del Coltellino Svizzero. Un tipo giusto».
L'uomo dietro il ferro di cavallo non mi dà l'idea di aver seguito la presentazione. Comunque mi fa un saluto all’americana, muovendosi avanti e indietro sul ritmo di una musica che ".lo lui può sentire. Sulle mani porta dei mezzi guanti, che lasciano scoperte le dita. Indossa una canottiera a rete nera e un paio di pantaloni tenuti su da una cintura irta di borchie. È magro come un chiodo, con delle lunghe basette tagliate a punta di freccia e una bandana rossa in testa. Sul lobo di un orecchio porta una spillina del Komsomolsk, con la faccia di Lenin e la stella rossa. Sull'altro orecchio è infilato il simbolo nazista del teschio con le tibie. Mi domando se alla finestra abbia intrecciato la bandiera arcobaleno con quella stelle e strisce. Meglio non chiedere.

Gli occhi dell'uomo meriterebbero una descrizione a sé. Sem brano quelli di un diavolo, ma di un diavolo precipitato nell'oblio dell'alcool o delle droghe. È uno sguardo definitivamente fuoco, lo sguardo di uno che si è perso e non tornerà più a casa,
«Igor è un genio» gongola Sergio. «Pensa che non l'avrei tro vato se non fosse stato per l'incidente».
«si» sbuffa Igor, sarcastico. «Sai che botta di culo».
«È successo un anno fa. Esco dalla concessionaria della CitrOCl1 con la C3 Pluriel nuova fidL optionaL, faccio neanche venti metri l' questo pazzo mi piomba addosso contro mano con la sua Volvo». «Non era mia, te l'ho detto un sacco di volte».
«La mia auto era completamente distrutta. Ma proprio da rottamare. E questo neanche un minuto dopo che ero uscito dal la concessionaria. Il venditore mi ha detto che secondo lui era un record. lo in compenso non mi sono fatto neanche un graffio».
Igor ridacchia. Anche Sergio. Li guardo sconcertato. «Scendo, e vedo che questo matto è rimasto seduto al suo posto. La Volvo sembra intera, a parte un fanale e il paraurti. La C3 invece sembra un'opera astratta. Vedo che le gomme della Volvo sono completamente lisce. Poi il perito dell'assicurazione mi ha detto che l'auto aveva anche i freni a zero».
Secondo me ce n'era abbastanza per ucciderlo.
«E vuoi sapere la cosa più assurda? Sai perché mi è venuto addosso? Perché stava Leggendo il giornale».
«Sì,» precisa Igor «ma mica un giornale qualunque». «Era "Rolling Stone"» precisa Sergio.
«Già. E poi ero completamente fatto. Dopo la botta, cazw, mi aspetto che questo qua mi salti addosso, o mi spari, così capirai che ero un tantino nervoso. Invece vedo che si mette a ridere, mi tira fuori dall' auto e mi abbraccia».
«Non lo vedevo da più di quindici anni! Era il mio migliol'l amico ai tempi delle scuole elementari!».
«Sul momento non l'ho riconosciuto ... » confessa Igor.
,<io sì. Subito».
«Mi ha firmato quel foglio, come si chiama?».
«La constatazione amichevole» spiega Sergio, eccitato.
«lo gli dico ma cazzo, ti ho distrutto La macchina. E lui: cosa vuoi che sia?».
«Insomma, per farla breve, ero talmente contento di vederlo sul momento non ci ho neanche pensato, alla macchina. È Igor a darmi l'idea».
«Che idea?».
«Be', la macchina non era sua. Era del tizio per cui lavorava, una ditta, che aveva l'assicurazione. Insomma, abbiamo visto la bella pensata di, come dire, vedere se si poteva mungere un po' l'assicurazione. Colpo di frusta, sai, e poi un po' di questo , un po' di quello ... ».
«Non sono sicuro di voler sentire quello che vorresti dirmi». «Ma dai, che anche tu sei un uomo di mondo. Diciamo che ci abbiamo ricavato su qualcosina. E abbiamo fatto fifiy-fifiy, ovvio».
«E la mia fifty è questa che vedi» conclude Igor, allargando le braccia in un gesto che abbraccia il locale e quello che il 100, ,dc contiene. «Forte, eh? Okay, è tutto di seconda mano, e anche il posto è così così. Ma questo è solo l'inizio».
Oggi questa cantina, domani il mondo.
<<Igor è un genio! Ha delle idee fantastiche! È lui che avrebbe ,dovuto andare al DAMS, mica io».
«Invece dov'è che ha studiato?» domando, tanto per sapere. Igor mette su una faccia offesa. «Un po' qui e un po' là. Se ti interessa sapere se so leggere e scrivere ... ».
«Ma dai, ragazzi. E su,» fa Sergio «siamo tutti amici, no?». Nell'aria c'è un residuo dolciastro di fumo che conosco bee11l'. Ho avuto anch'io vent'anni.

«Siediti lì, dai, che ti faccio vedere cosa ti ho preparato».
Lì è una poltrona da regista col nome FASBINDER sullo schienale. «Guarda che è autentica» ringhia Igor, vedendo che sorrido.



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