venerdì 13 gennaio 2012

BEPPE DE SANTIS BIOGRAFIA 2




I SOLDI DELLO STATO 1984
Dai tagli alla riqualificazione della spesa pubblica

Giuseppe De Santis, responsabile del settore problemi dello stato CGIL Lazio: «La Finanza pubblica nazionale – regionale - locale».

LA CENTRALITA DELLA QUESTIONE DELLA FINANZA PUBBLICA

Questo convegno

l) Un compito fondamentale di questo Convegno è quello di consolidare e rafforzare la consapevolezza dell'intero gruppo dirigente della CGIL Lazio sulla oggettiva centralità della questione della finanza pubblica (finanza del settore pubblico allargato, finanza regionale e locale, finanza sanitaria, finanza previdenziale, etc.) come terreno di intervento del sindacato negli anni 80.
Si tratta di una centralità da cogliere sottodue profili:
a) come problema in sé considerato, ma non solo;
b) come crocevia esplosivo, come punto di intersecazione di una gamma più ampia di problemi: quale possibile uscita dalla crisi economica e occupazionale contenendo l'inflazione e avviando la nuova qualità dello sviluppo, produttività e qualificazione dell'intervento pubblico e dei servizi pubblici e riordino della pubblica amministrazione per una uscita a sinistra dalla crisi dello Stato sociale e assistenziale italiano, riforme istituzionali tornate alla ribalta anche con la recente mozione parlamentare firmata unitariamente dalle forze politiche democratiche, questione morale ripropostasi in modo inquietante anche a livello degli enti locali nella cronaca recente, necessità improcrastinabile di sperimentare e costruire nuove forme di controllo istituzionali e partecipative sulle attività pubbliche.


2) 10 motivi che definiscono la centralità della finanza pubblica

2.1. Crisi economica e finanza pubblica

Innanzitutto, vi è un motivo oggettivo incontestabile, cioè la gravi sim c li: economica del paese, rispetto alla quale comunque determinante è il ruolo e il peso della finanza pubblica sia dal lato della dinamica inflazionistica sia da e' o di spiazzamento dell'economia e dell'avvitamento recessivo della stessa.

2.2. Vincolo quantitativo nell'espansione della spesa pubblica

Rispetto agli stessi paesi europei industrializzati simili al nostro, si impone drasticamente un vincolo oggettivo contro l'ulteriore espansione della spesa pubblica, giacché il tetto della spesa pubblica italiana ha raggiunto la quota del 54% sul prodotto italiano lordo non ulteriormente ed automa i espandi bile, fatto che 'ai per sé richiede uno spostamento radicale del sindacato da un ruolo meramente espansivo della spesa pubblica d concretamente qualificativo.

2.3. Offensiva politica e culturale moderata

Proprio la spesa pubblica è diventata via via in questi tempi recenti il punto di attacco privilegiato di un ampio schieramento di forze moderate e restauratrici, volto a scaricare i costi della crisi sulle masse lavoratrici e popolari e a scardinare le più significative conquiste sociali dell'ultimo ventennio.

2.4 Moltiplicazione dei centri di spesa

L'espansione quantitativa e l'articolazione di funzioni dello Stato sociale esistenziale, con la moltiplicazione di settori dell'intervento pubblico e il processo di decentramento istituzionale auto no mistico degli anni 70, ha di per sé prodotto una oggettiva moltiplicazione dei centri di spesa pubblica la quale se non accompagnata da rigorosi meccanismi di raccordo/coordinamento/controllo è generatrice «spontanea» di dinamiche espansive incontrollabili della spesa pubblica; si pone dunque un problema inedito di grande portata politico culturale di programmazione, raccordo, armonizzazione dell'intero circuito della finanza pubblica rispetto al quale vi sono soltanto due alternative possibili consistenti o nella centralizzazione rigida del governo finanziario pubblico o nella reciproca responsabilizzazione e armonizzazione dei centri di spesa.

2.5. Dalla rivendicazione alla gestione delle conquiste

Diversamente dagli anni 70, il campo di intervento del sindacato, delle forze progressiste e della sinistra risulta oggi necessariamente più concentrato - non solo e soprattutto nella battaglia per grandi riforme istituzionali e sociali - sul piano della gestione delle riforme già legislativamente acquisite (ad es., la riforma sanitaria) e del riordino e aggiornamento delle stesse riforme conquistate, della gestione dell'ampio decentramento avviato negli anni 70 con la regionalizzazione e il D.p.r. 616/77; non c'è solo da rivendicare ma ancora e spesso soprattutto da gestire, riordinare, qualificare; anche in questo caso con uno spostamento dal fronte della rivendicazione e della conquista legislativa a quello della gestione e della qualificazione dei poteri decentrati, delle riforme avviate, delle risorse pubbliche conquistate a livello decentrato.

2.6 Riordino qualitativo delle autonomie locali e della finanza locale

Recenti fatti di cronaca relativi a tutta una serie di interventi giudizi ari nei confronti di amministratori locali, e anche di amministratori e giunte di sinistra, al di là della ondata scandalistica di taglio non di rado qualunquistico e strumentale che si è voluto agitare, pongono problemi oggettivi e seri che vanno affrontati in quanto tali, dall'esistenza di una questione morale anche a livello locale e delle necessarie conseguenti esigenze di controllo, trasparenza e partecipazione alla improrogabile necessità di realizzare finalmente un riordino organico dei poteri locali e della finanza locale, un riordino dei poteri già decentrati e del governo delle risorse già in vari modi gestite dalle autonomie locali, una riforma quindi non di tipo quantitativo - più poteri e più risorse - ma di tipo qualitativo attraverso il varo della riforma delle autonomie locali e della finanza locale intese appunto come riforme qualitative.

2.7. Per una iniziativa offensiva del sindacato dopo l'accordo del costo del lavoro

Dopo l'esito sostanzialmente positivo della operazione difensiva realizzata dal sindacato con l'accordo deI22.1.83 sul costo del lavoro, l'esigenza di spostare l'iniziativa sindacale su un terreno offensivo passa innanzitutto sulla capacità di 22 misurarsi effettivamente su due fronti: il risanamento finanziario del settore pubblico con un incrementò strutturale della sua produttività complessiva e il governo dei processi di crisi-ristrutturazione in una linea che contenendo l'inflazione contestualmente sfrutti i margini sia pure ristretti esistenti per una nuova qualità dello sviluppo e per la occupazione secondo quella impostazione che gli economisti definiscono reflattiva; in questo quadro un rigoroso e attivo governo della finanza pubblica è proprio la cerniera tra politica economica ed occupazionale e rilancio della produttività dell'intervento pubblico e della P.A.

2.8 Dalla Legge quadro e dai contratti una nuova fase di contrattazione del pubblico impiego

Certamente determinante è una capacità rinnovata di presenza e di intervento del sindacato confederale per una azione riformatrice, di riordino, di qualificazione, d'incremento di efficienza ed efficacia della Funzione Pubblica e della P.A., ma un compito specifico spetta anche alle strutture di categorie del Pubblico Impiego ai fini di un'azione di contenimento e di qualificazione della spesa pubblica e di riordino e qualificazione dei servizi pubblici. D'altronde, la stessa conclusione sostanzialmente positiva che si è andata delineando dei rinnovi contrattuali del P.I., e, il varo definitivo della legge quadro sulla contrattazione del pubblico impiego pongono l'esigenza e, pe] certi versi, prefigurano una prospettiva nuova ed una fase nuova della natura e del modo di essere della contrattazione del P.I.. Proprio le vicende di questo 1982 segnano la spartiacque tra due fasi distinte; si esaurisce il ciclo durante il quale si sono affermati i grandi contratti di categoria (a causa dell'acutizzarsi delle spinte territoriali localistiche ed a .spinte dovute a corporazioni professionali che esprimono forte ricattabilità sociale) e si apre una fase in cui l'iniziativa sindacale nella P .A. deve caratterizzarsi contemporaneamente sul fronte della perequazione intercategoriale con la contrattazione intercategoriale ai fini di realizzare l'unificazione del mondo del lavoro e deve favorire il massimo di articolazione con la contrattazione articolata e decentrata che privilegi i temi dell'organizzazione del lavoro al fine di connettere l'efficenza e la produttività con la riforma dell'assetto funzionale valorizzando così le specificità esistenti. In questo quadro va collocata sia una gestione dinamica ed attiva degli istituti contrattuali di incentivazione della produttività, sia l'attivazione di strumenti come la commissione paritetica Governo-Sindacati prevista dall'accordo del 22.1.83 sul censimento quali-quantitativo dei flussi di spesa costituenti il salario accessorio e da quella sede avviare un confronto negoziale sulla contrattabilità e governabilità del salario accessorio nel P.I., sia l'uso della Legge quadro sia la costruzione di una nuova sintesi della orizzontalità e delle verticalità nell'assetto politico-organizzativo della Federazione della Funzione Pubblica CGIL a partire dalla scadenza ormai prossima della Conferenza di Organizzazione.

2.9 Roma e il Lazio come laboratorio nazionale dei problemi della P.A., dei servizi pubblici e della finanza pubblica.

Una particolare ovvia centralità rivestono i temi della finanza pubblica, della pubblica amministrazione e dei servizi pubblici e del pubblico impiego nella realtà di Roma capitale e del Lazio, per palesi motivi quantitativi e soprattutto qualitativi. Oggettivamente Roma, nel suo rapporto con il territorio laziale e nazionale, è il banco di prova e il vero e proprio potenziale laboratorio per una rinnovata iniziativa del movimento sindacale all'altezza dei problemi e dei tempi che accetti e faccia propria la sfida del rigore, della qualificazione e della produttività dell'intervento pubblico, della P.A., dei servizi pubblici, delle risorse pubbliche.

2.10 Per una uscita di sinistra dalla crisi dello stato sociale-assistenziale italiano:
LA SFIDA DEL RIGORE.

Si tratta di assumere i precedenti punti per una uscita in avanti dalla crisi, per una riforma progressista e di sinistra dello Stato sociale-assistenziale italiano in crisi, spezzando la tenaglia del falso rigorismo e della riproposizione del sistema di potere democristiano che sono le facce della stessa medaglia cioè la riproposizione dell'ipotesi neocentrista di De Mita. In questo scontro accettare fino in fondo la sfida posta dalla gestione della finanza pubblica risulta essere in qualche modo, l'operazione preliminare e determinante all'ordine del giorno.
Ciò richiede un adeguamento anche soggettivo della CGIL del Lazio, un aggiornamento politico e culturale, una ridefinizione delle priorità che dia la giusta collocazione innanzitutto ai problemi dell'intervento pubblico, della P.A., dei servizi pubblici della finanza pubblica.

3) Crisi politica, finanza pubblica, sindacato

All'interno dell'attualità politica di questa primavera del 1983, va sottolineato l'intreccio che si è delineato tra:
a) questione della spesa pubblica;
b) questione morale;
c) dislocazione ed iniziative del sindacato dopo l'accordo del 22-1-83;
d) offensiva neo-centrista che è sboccata nella crisi politica e nelle elezioni politiche anticipate.
L'ipoteca moderata, il disegno moderato di cui parlava il compagno Militello, nella relazione introduttiva al Direttivo nazionale della Federazione Unitaria CGIL-CISL-UIL del dicembre 1982, in relazione al famigerato primo programma Fanfani, si è andato via via di spiegando fino a produrre la conclusione della VIII legislatura repubblicana.
Proprio il minaccioso di spiegarsi del disegno neo-centrista ha accelerato la tendenza al dialogo e al riavvicinamento tra le forze della sinistra, talché si creano le condizioni per riaprire il discorso del cambiamento.
In questo ambito, compito del sindacato unitario, in queste settimane, è quello di proporre alle fare politiche un confronto su un programma di cambiamento, su obiettivi e contenuti essenziali di cui le organizzazioni dei lavoratori sono naturali e autonomi portatori.
In particolare, spetta alla CGIL un compito specifico di sottolineare un campo programmatico sul quale sollecitare il confronto e l'impegno delle forze di sinistra, quale contributo autonomo e specifico alla stessa campagna elettorale in atto. In questo senso, un punto assolutamente centrale è quello relativo al risanamento dei conti pubblici, all'impostazione delle manovre dei bilanci pubblici, alle politiche delle entrate e delle spese pubbliche.

ELEMENTI DI ANALISI E DI VALUTAZIONE SULLA FINANZA PUBBBUCA ITALIANA

l) La crisi della Finanza pubblica è un problema di tutti i paesi capitalistici sviluppati.
Il dato generale da cui muovere è l’importanza straordinaria assunta dalla questione della finanza pubblica in tutti i paesi occidentali e sviluppati.
Gli squilibri, le nuove povertà ed emarginazioni, i mutamenti e movimenti demografici, le condizioni di lavoro, i rapporti tra città e campagna, i nuovi  bisogni diffusi storicamente maturi ed insoddisfatti, sono tutti questi effetti dello sviluppo nei paesi capitalistici avanzati a rendere più acuta, proprio in questi paesi. l'esigenza di interventi sociali, fino a sopravanzare ogni disponibilità della finanza pubblica. Il dato è quindi che l'esorbitanza della spesa pubblica è causata precisamente da questo tipo di sviluppo, e, dunque, un risanamento finanziario, eccetto aggiustamenti contingenti, non può veramente essere perseguito senza una trasformazione degli indirizzi dello sviluppo, senza cioè che si eviti di scaricare sulla società e sulla finanza pubblica una somma di contraddizioni che nascono dal modo di produzione. In questo senso emerge in tutta la pregnanza teorica e politica la tematica della crisi fiscale dello Stato sociale, ovvero la crisi fiscale come espressione determinante dei processi di crisi-trasformazione dello Stato sociale.
È vero che i caratteri della crisi della finanza pubblica sono aggravati in Italia da modi esasperati di clientelismo, di iniquità fiscale, di sperpero ed inefficienza, da una più bassa produttività del sistema. La crisi del bilancio in Italia ha cause diverse, le quali sono certamente aggravate dal modo con il quale soprattutto la De, attraverso la politica della spesa e delle entrate, ha puntato ad ottenere il consenso di ceti, categorie, interessi diversi, mediando le contraddizioni tra di essi su una linea che ha eluso ogni seria riforma.
Ma, questo è il punto centrale: i caratteri fondamentali della finanza pubblica corrispondono a quelli tipici dei sistemi economico-finanziari di tutti i paesi occidentali sviluppati.

2) La Finanza pubblica al centro dello scontro politico, sociale-sindacale e culturale

Deriva da tale emergente centralità della finanza pubblica, dai caratteri affatto inediti, la nuova asprezza dello scontro sociale, sindacale, politico e istituzionale, teorico, culturale ed informativo via via accentuatosi sui nodi della finanza pubblica.
La oggettiva portata del problema della finanza pubblica e la sua complessità (analisi relative alla crisi fiscale dello Stato e alle misure di contenimento di tale crisi, il rapporto tra spesa pubblica, inflazione, ristagno dell'economia, la dimensione della spesa, le riforme di contabilità del bilancio dello Stato e dei b1lanci regionali, i problemi peculiari legati alla spesa sociale, etc.), l'asprezza dello scontro sociale e politico sulla finanza pubblica, la contrapposizione degli enormi interessi in gioco, P9ssonO contribuire anche a spiegare la molteplicità e la divaricazione di analisi e terapie, e, non di rado, la straordinaria confusione che regna a proposito dei temi della finanza pubblica.

3) I compiti del sindacato sulla Finanza pubblica dopo le vicende politico sindacali del 1982 e l'accordo sul costo del lavoro

La questione della finanza pubblica ha acquistato una eccezionale ri1evanza anche per il sindacato, il quale sempre più frequentemente è chiamato a pronunciarsi su problemi concernenti la spesa. Questo accade sia su argomenti di carattere generale, come il bilancio, i vincoli di bilancio, i tagli alla spesa, sia e politiche settori ali e territoriali, sia a livello regionale e locale.
Da oltre un decennio il sindacato ha iniziato a praticare una poli . contrattazione con il governo avente per oggetto la spesa pubblica: dalla politica delle riforme, alle politiche per il mezzogiorno, alla politica per l'occupazione e ristrutturazione industriale. Ciononostante, assolutamente inadeguata appare a tutti oggi la stessa cultura sindacale a proposito di tale contrattazione: in merito ai modi e alle scelte generali di finanza pubblica, ai problemi di finanziamento, ai  criteri di scelta degli investimenti pubblici, al controllo dei flussi di spesa e soprattutto al controllo sui risultati della spesa pubblica (efficienza ed efficacia della spesa pubblica).
La peculiare vicenda sindacale del 1982 che ha visto, a partire dall'accerchiamento e dall'offensiva subita sul costo del lavoro, una progressiva polarizzazione, sempre in termini difensivi, dell'iniziativa sindacale sulla finanza pubblica, non può essere letta in termini casuali e contingenti, ma deve necessariamente essere interpretata in termini generali e strutturali. Ciò nel senso che oggettivamente le politiche sindacali risultano oggi fortemente collegate ed incardinate alla questione della finanza pubblica. Ciò sollecita la necessità di una riconsiderazione d'insieme da parte del sindacato della questione. Risultano ormai non più sostenibili sia l'atteggiamento, tipico del sindacato, che si limita a considerare positivamente l'espansione in sé della spesa pubblica, sia le carenze sindacali sul piano dell'effettivo controllo dei risultati della spesa pubblica in termini di efficienza ed efficacia.

4) Il tetto della spesa pubblica

Sono sufficienti alcuni elementari dati quantitativi per dare il senso dei caratteri e della crisi della finanza pubblica italiana.
Nel 1981 la spesa pubblica, escluse le poste finanziarie, è al livello di 207.000 miliardi, e il suo peso sul PIL è arrivato al 51 %.
Sotto il profilo della dinamica storica, la spesa totale della pubblica amministrazione, che nel 1970 era pari in Italia a poco più del 35 % del PIL, ha raggiunto il 54% nel 1982 (percentuale che probabilmente sarà superata nel 1983).

5) Il debito pubblico e il deficit pubblico annuale, spesa corrente e spesa in conto capitale.

Il livello del deficit pubblico è raddoppiato nel giro del biennio 1980-81, ed è cresciuto in Italia più che negli altri paesi.

Il disavanzo complessivo della PA è stato per il 1981 pari all'11,9% del PIL (8,11% nel 1980)di cui il 7,4% in conto corrente (4% nel 1980) e il 4,5% in conto capitale (4,5% nel 1980).
In particolare, va sottolineato il peggioramento nella COMPOSIZIONE del disavanzo pubblico di parte corrente. La caratteristica della spesa pubblica risiede quindi principalmente nel peso schiacciante della spesa corrente. Nel 1981 , su un totale di pagamenti per operazioni finali di 149.246 miliardi ben 126.567 miliardi risultano pagamenti correnti e soltanto 22.679 sono pagamenti di capitale. Ma, il dato più degli altri esplosivo è che sull'intera spesa corrente una cifra che si aggira attorno ad un quinto nel 1981 è costituito dalla massa enorme degli interessi passivi sul debito pubblico. Le erogazioni per gli interessi passivi nel debito pubblico sono passati da 16.000 miliardi del 1980 a 20.000 miliardi nel 1981, a circa 36.000 miliardi nel 1982.
Il peso degli oneri (interessi passivi) sul debito pubblico è passato dal 2 % nel PIL del 1970 a oltre 1'8% del PIL nel 1982. Sempre nel 1982 il peso degli oneri nel debito pubblico si attesta attorno a115% della spesa pubblica complessiva.

6) La dinamica storica della finanza pubblica

Si consideri, inoltre il rapporto nei due decenni 60 e 70 tra dinamica del reddito nazionale, delle entrate e della spesa pubblica:
decennio 1960-1970
crescita annua del reddito nazionale 5.5%
crescita annua delle entrate 6,1%
26 crescita annua della spesa pubblica 6,3%
decennio 1970-1980
crescita annua del reddito nazionale 2,7%
crescita annua delle entrate 4,3%
crescita annua della spesa pubblica 6,3 %
Nel decennio 60 c'è stata una corrispondenza, una omogeneità tra dinamica del reddito, delle entrate e della spesa pubblica.
Nel decennio 70, al contrario, a fronte di un abbassamento del tasso di crescita del reddito e delle entrate, la spesa pubblica ha registrato una crescita annua costante del 6,3% annuo, come negli anni 60. Si è determinata così una contraddizione strutturale tra livello del reddito e delle entrate e livello della spesa pubblica.

7) Elementi comparativi internazionali

7.1 Se si considerano alcuni altri dati di tipo comparativo, i «nodi» della finanza pubblica italiana emergono con maggiore nettezza.
La levitazione del livello è una caratteristica di tutti gli stati capitalistici avanzati durante gli ultimi due decenni, ma più accentuata a partire dagli anni '70. Nella maggiore parte dei paesi europei il livello di spesa tra il 1977 e il 1979 è arrivato al 50% del PIL: in alcuni paesi, in cui forte e radicata è la politica sociale, come Svezia, Norvegia e Danimarca, tale percentuale è ancora più elevata; l'Italia tra il 1977 e il 1979 si colloca ancora sul 44%, mentre gli USA e il Giappone, le più forti potenze economiche del mondo capitalistico, sono attestati ad un livello di spesa intorno al 30% del PIL. Si è già notato che nel 1981 la spesa pubblica italiana si attesta attorno al 52% del PIL.
Tale percentuale si è portata a154% nel 1982: si tratta di un livello significativamente superiore a quello di altri paesi europei, come Francia, Germania e Inghilterra.
La forte crescita della spesa pubblica nel corso degli anni 70 e la sua accelerazione durante l'ultimo biennio 81-82 sono fenomeni in larga misura comuni alla maggior parte dei paesi occidentali.

In Italia però hanno assunto una particolare accentuazione e caratteristiche che, specie in prospettiva, possono condizionare una politica economica diretta allo sviluppo della produzione e dell'occupazione.
7.2 Comunque, ciò che caratterizza la struttura e la dinamica della finanza pubblica italiana rispetto ad altri paesi non è tanto la tendenza incrementale della spesa e del livello (tetto) da essa raggiunto, che sono sostanzialmente comuni agli altri paesi sviluppati, quanto il tipo di finanziamento della spesa pubblica italiana che solo in parte viene attuato attraverso le entrate fiscali, mentre in notevole misura avviene attraverso il finanziamento in deficit della spesa pubblica. E questo l'elemento maggiormente differenziante la finanza pubblica italiana da quella di altri paesi
7.3 Alla levitazione della spesa non ha infatti corrisposto un eguale intensificazione della pressione fiscale; sebbene quest'ultima, mantenutasi a livelli stabili nel periodo 1970-75, sia poi in crescita notevolmente dopo il 1977 , raggiungendo nel 1981 il 36% del PIL.
Nonostante la forte crescita della pressione fiscale, anche nella più recente fase, come è stato documentato nelle scorse settimane dallo stesso Ministro delle Finanze Forte, in Italia la pressione fiscale in rapporto al PIL risulta inferiore a quella dei principali paesi industrializzati, anche se, d'altro canto, la sua incidenza sui redditi dei lavoratori dipendenti risulta particolarmente pesante e squilibrata. Il livello delle entrate resta organicamente inferiore a quello dei paesi analoghi a: nostro, e questo è il risultato del carattere distorto ed iniquo del sistema fiscale e parafiscale, in cui è enorme il livello dell'evasione. Basti pensare che, nel decennio, la quota del lavoro dipendente sul reddito complessivo gravato dalle imposte dirette è salito dal41 al 75%, mentre quella del lavoro autonomo è scesa dal l k al 3%, quella delle proprietà dei terreni e dei fabbricati dal 18 al 3% e quella delle imprese dal 23 al 19%.
Circa il rapporto tra spesa corrente ed entrate tributarie si consideri questo dato: nel 1981 rispetto al 1980 le entrate sono aumentate del 24,4% le spese correnti sono cresciute del 30,5 %.

8) Problemi istituzionali, procedurali e tecnici

8.1 Circa gli aspetti più propriamente strutturali, politico-istituzionali. procedurali e tecnici, basterà far riferimento ad alcune caratteristiche generali della finanza pubblica italiana:
a) l'estrema rigidità delle sue strutture, procedure e dinamiche;
b) le tecniche di bilancio fondate sostanzialmente sul metodo incrementale quantitativo sulla base della «spesa storica»;
c) la contraddizione strutturale tra il pressoché totale accentramento sul lato delle entrate e l'estrema decentralizzazione ed articolazione dei centri di spesa sul lato dei flussi di spesa pubblica che definisce una finanza pubblica di puro trasferimento;
d) il peso crescente delle banche nella gestione dei flussi finanziari originati dai bilanci pubblici e lo svuotamento dell'amministrazione pubblica (centrale e periferica) attuato tramite il trasferimento di molte funzioni a favore di banche ed altri enti.
8.2 La grande crisi fiscale dei paesi capitalistici sviluppati, i caratteri strutturali, istituzionali e procedurali della finanza pubblica, le peculiarità del sistema di potere democristiano, definiscono alcuni aspetti generali del fenomeno di fondo: la progressiva incontrollabilità della finanza pubblica italiana, che ha cause ed effetti specifici, in particolare sotto il profilo istituzionale. Ad esempio, la recente vicenda delle misure finanziare governative e dell'accordo sindacale di gennaio, sotto il profilo specificatamente istituzionale, rappresenta un'ennesima e gravissima tappa nello svuotamento di fatto della riforma della contabilità e del bilancio dello Stato (L. 468/78) e soprattutto della natura e del ruolo della Legge finanziaria, assestando un altro colpo al ruolo di indirizzo e di controllo da parte del Parlamento sulla finanza pubblica.

9) Alcuni nodi strutturali della finanza pubblica italiana 9.2 Alcuni luoghi comuni.

Quanto più le caratteristiche della spesa pubblica e la dilatazione del disavanzo pongono con urgenza il problema del bilancio pubblico, tanto più il dibattito viene sottratto ad una adeguata riflessione teorica e ricerca empirica per diventare un fuoco incrociato di proposizioni che assomigliano sempre più ad una sequela di luoghi comuni. In particolare questo sembra avvenire nel caso della «caccia al colpevole» dell'inflazione e della stagnazione che chiudono in una morsa l'economia italiana.
Tra le opinioni più diffuse è quella per cui la spesa pubblica è tra i più importanti fattori di accelerazione dell'inflazione, e che al suo eccesso sarebbe dovuto il ristagno degli investimenti privati e dell'economia nel suo complesso.
In particolare ciò viene sostenuto additando la crescita dei disavanzi pubblici.
Invero, a partire dai primi anni '70, il caso italiano registra - è cosa nota - due eventi abbastanza nuovi: da un lato l'elevata dinamica dei prezzi, e dall'altro il forte aumento della spesa pubblica. Poiché all'aumento della spesa non ha corrisposto un'adeguata crescita delle entrate pubbliche è stato abbastanza semplice collegare la formazione dei disavanzi all'aumento dei prezzi, e quindi porre una relazione del tipo causa-effetto tra ampiezza del disavanzo della finanza pubblica e andamento crescente dei prezzi. .
Si è stabilito così un nesso casuale, molto frequentemente enunciato, in base al quale livelli elevati di disavanzo portano con sé necessariamente livelli elevati di inflazione, sulla base di una relazione meccanica i cui meccanismi di trasmissione vengono però quasi sempre ignorati o dati per scontati. In particolare, il finanziamento del disavanzo è stato spesso accusato di essere al tempo stesso inflazionistico e « spiazzante» per l'economia reale del paese.
Si ha, in altre parole, sempre più l'impressione che la fondatezza dei nessi causali enunciati risiede più nel fatto di essere frequentemente ripetuti che in una rigorosa impostazione di analisi teorica e di ricerca empirica. Ne segue che quanto più il problema della finanza pubblica diventa rilevante, tanto più aumenta la confusione al riguardo. In questa caotica situazione una messa a punto sulle asserzioni più frequenti intorno alla finanza pubblica appare quanto mai effettivamente e tempestivamente necessaria.
Intanto è da ritenere molto discutibile l'opinione per cui sarebbe possibile stabilire in assoluto delle relazioni certe ed univoche tra livello della spesa pubblica, ampiezza del disavanzo, livello di attività del sistema economico e tasso di aumento dei prezzi. Si consideri la meccanicità del nesso frequentemente enunciato (ma raramente illustrato analiticamente) tra livello della spesa pubblica e il tasso di inflazione: il motivo per cui la spesa pubblica dovrebbe essere inflazionistica dipende dal fatto che essa attiva domanda aggiuntiva, ma in condizioni lontane da quelle di piena occupazione questa può attivare inflazione solo in presenza di strozzature settoriali nella produzione di beni di investimento. E non si vede perché questo dovrebbe riguardare in particolare la spesa pubblica e non qualsiasi altra componente della domanda aggregata. D'altronde, come è noto, il disavanzo della pubblica amministrazione non costituisce assolutamente un indice degli effetti del bilancio stesso. In altre parole, occorre entrare nel merito di ciò che si cela nell'universo della finanza pubblica. « La semplice realtà che dietro la etichetta di entrata pubblica e di spesa si celano realtà completamente diverse comporta che non è sufficiente ragionare in termini di entrate, ma che si deve ragionare in termini di composizione delle entrate, non più in termini di spesa pubblica ma di composizione della spesa pubblica.

9.2 La composizione della finanza pubblica.

È noto infatti che le diverse componenti della spesa pubblica non hanno gli stessi effetti moltiplicati vi e che quindi non trasmettono gli stessi impulsi sulle altre variabili macro-economiche. In particolare, l'intensità degli effetti della spesa per investimento è più ampia di quella di una spesa per consumi pubblici che a sua volta è più ampia di quella per trasferimenti alle famiglie. Quando si e valutare gli impulsi che un bilancio trasmette all'economia reale è  necessario considerare singolarmente per lo meno queste tre categorie.

D'altra parte, sul lato delle entrate, si devono almeno tenere distinte e dirette da quelle indirette e dai contributi sociali. Anche in questo caso è agli effetti moltiplicativi di segno negativo crescono quando si passa dalle imposte dirette alle imposte indirette, ai contributi sociali a carico della pro '
Sotto il profilo del finanziamento della spesa pubblica vi sono effetti a seconda che una spesa pubblica venga finanziata con prelievo oppure di base monetaria, o con operazioni nel mercato aperto mediante vendite di titoli da parte delle autorità al pubblico. Si considerino alcuni elementi di  composizione delle entrate: mentre nel 1950 il gettito dei costi effettivi rappresentava un quarto dell'intero prelievo obbligatorio ( correvano per il 55 % le imposte indirette e per appena i120% il gettito proveniente dall'imposizione diretta) nell'anno 1977 si è stimato che a fronte di un gettito proveniente dalle imposte dirette pari al 27% del totale il peso dei contributi sociali è quasi del 40% del totale e quello delle imposte indirette il 32%. In complesso, fino alla fine degli anni '70, il peso delle imposte indirette e dei contributi sociali è sceso appena dall'BO% al 72% del gettito complessivo (al 69% se del gettito dei contributi sociali si sottrae la quota a carico dei lavoratori e che può essere assimilata a quella proveniente da una vera e propria imposta diretta).
Ora, dato per noto che i contributi sociali a carico dei datori di lavoro e le imposte indirette tendono a trasferirsi sui prezzi finali di vendita si può affermare che quasi tre quarti del gettito complessivo in Italia è costituito dai tributi che manifestano sicuramente i loro effetti sull'economia tramite il sistema dei prezzi. Ciò pare esclusivo dell'Italia, in quanto detta percentuale (contributi sociali effettivi a carico del datore di lavoro e imposte indirette) nel 1977 scende, ad esempio, al 44% negli USA, a145% in Giappone, a146% in Inghilterra, a152% in Germania Federale e al 33% in Danimarca.

9.3 Caratteri differenziali del prelievo obbligatorio in Italia

Pare indubbio che la struttura del prelievo obbligatorio esistente in Italia abbia contribuito, in anni in cui i salari si sono avvicinati a quelli dei paesi comunitari, ad elevare il costo del lavoro ed i prezzi. Ma esso ha anche altri effetti. Innanzitutto si può avanzare l'ipotesi che in Italia rimanga basso il gettito delle imposte dirette anche perché è sufficientemente alto quello delle indirette e dei contributi sociali. Si vuoi dire, cioè, che a fronte di un dato volume di spesa che deve essere finanziato con prelievo obbligatorio si è preferito nei fatti fare affidamento su queste forme di imposizione piuttosto che al sistema progressivo delle imposte dirette, che avrebbe determinato in modo diverso la distribuzione del reddito tra classi, una volta assolta l'imposta. In questo modo si è consentito che la distribuzione del reddito (dopo le imposte) tra le parti sociali avvenisse in base al diverso grado di monopolio che ogni parte detiene sui mercati. Chi è in grado di trasferire sui prezzi le imposte o di difendersi dagli aumenti dei prezzi, o di evadere le imposte mantiene la propria quota di reddito reale, a scapito di chi ne subisce gli aumenti.
Si è lasciato al controllo che le «forze di mercato» hanno sui prezzi la determinazione delle quote relative di reddito reale, rinunciando con il sistema delle imposte dirette progressive e con un'efficace lotta all'evasione, ad una diversa redistribuzione del reddito.
Dai raffronti internazionali si può trarre lo spunto per ritenere che il sistema del prelievo obbligatorio in Italia funzioni in concreto con costi superiori rispetto ad altri paesi. Ogni provvedimento che aumenti tributi che si scaricano sui prezzi esercita (a spesa pubblica invariata) effetti di riduzione della domanda interna più ampi di quelli che, a parità di prelievo, sono riconducibili ad un provvedimento che aumenti il carico tributario diretto. Si può allora concludere che per un uguale saggio di variazione del prelievo obbligatorio, stante l’attuale struttura dello stesso, saranno tendenzialmente maggiori gli effetti restrittivi in Italia rispetto ad altri paesi. Si sommano cioè effetti negativi da più lati: incremento dei prezzi, incremento del costo del lavoro, iniqua distribuzione dei redditi, effetti restrittivi nell'economia reale.

LINEE PROPOSITIVE E D'INTERVENTO

Si riassumono di seguito sommariamente alcuni criteri generali e linee di intervento, validi anche per il sindacato, per il risanamento dei conti pubblici, per la qualificazione della finanza pubblica sia sul lato delle entrate che delle spese, per un incremento generale della produttività nell'uso delle risorse pubbliche, in una linea antideflattiva e antirecessiva.

Centralità politica

1) Acquisire e generalizzare la consapevolezza circa la centralità della questione della finanza pubblica, a livello di quadri dirigenti e di massa, dei termini essenziali del problema, delle linee di intervento portanti, quale «pezzo» fondamentale di una strategia di cambiamento.

Vincolo del tetto della spesa pubblica

2) Acquisire l'oggettività del vincolo della non ulteriore espandibilità dei livelli attuali di spesa pubblica complessiva (54% sul PIL) e quindi realizzare un passaggio nello stesso ruolo del sindacato da espansivo e qualificativo della spesa pubblica, assumendo per questa fase come linea centrale d'intervento quella della qualificazione della spesa pubblica.

Finanziamenti in deficit

3) Contenere e bloccare l'espansione del deficit pubblico: riduzione progressiva, ma certa e programmata, del deficit pubblico. Insomma, si tratta di superare la anomalia italiana del finanziamento in deficit della spesa pubblica, cioè il finanziamento della spesa pubblica indebitando progressivamente lo Stato. Si tratta di superare lo squilibrio strutturale tra livello della spesa pubblica e livello delle entrate tributarie, soprattutto realizzando una adeguata imposizione sui grandi patrimoni mobiliari e immobiliari.

Composizione delle entrate e delle uscite

4) Ma il terreno fondamentale di intervento è quello della trasformazione nella composizione della finanza pubblica, agendo sia sulla composizione delle entrate sia su quella della spesa pubblica.

4.1 Nel paragrafo relativo ai <<nodi» della finanza pubblica italiana, si è già parlato della particolare composizione delle entrate in Italia. Da quella analisi scaturiscono le seguenti indicazioni:
a) la necessità di un incremento complessivo delle entrate tributarie rispetto alle uscite per ridurre il finanziamento in deficit della spesa pubblica;
b) la necessità di una riduzione progressiva della quota della  componente delle entrate, cioè della quota delle entrate per contributi sociali, il cui livello supera abbondantemente quelli degli altri paesi europei, penalizzando il sistema delle imprese produttive e i lavoratori dipendenti, una riduzione già avviata n la prassi della fiscalizzazione degli oneri sociali, e da promuovere anche il  «graduale trasferimento al fisco di quei contributi che hanno natura assiste e di quelli oggi destinati al finanziamento del sistema sanitario»;
c) riordinare le imposte indirette (accorpamenti IVA, evasione I A. una linea complessiva che non prevede l'espansione delle quota percentuale  stessa rispetto alle imposte dirette, proprio perché, tra l'altro, le imposte indire. p. oltre a colpire i consumi popolari, sono quelle che più direttamente  sui prezzi alimentando la spirale inflazionistica;
d) incrementare la I componente delle entrate, cioè la quota delle en dirette che potenzialmente risultano quelle più eque (progressività) e meno  azionistiche, e, dato che la pressione tributaria sui lavoratori dipendenti è di gran lunga eccessiva e iniqua, incrementare la quota di questa campo e  significa battersi per «l'introduzione di nuovi prelievi, anche con la riforma delle forme di imposizione esistenti: riordinamento dell'imposizione sui patrimoni immobiliari, riforma dell'imposizione sui capitali e sulle rendite, istituzione i imposta sulle grandi ricchezze», in particolare, sotto un diverso profilo, realizzare uno spazio effettivo di autonomia impositiva degli enti locali sugli immobili riordinando l'attuale caotico sistema impositivo che vige sugli immobili stessi;
e) adozione e applicazione immediata delle misure già proposte e alcune varate per la lotta all'evasione fiscale (registratori di cassa, controlli incrociati tra sistema previdenziale e sistema fiscale anche attraverso i nuovi mezzi informatici, riforma dell'amministrazione finanziaria e decentramento dell'accertamento tributario, anche con il concorso degli enti locali);
f) revisione del sistema delle esenzioni che privilegia oggi, indipendentemente dal reddito effettivo, intere fasce di contribuenti. .
4.2 Sul lato della composizione delle uscite, cioè della spesa pubblica, la linea di riconversione-riqualificazione così si può definire:
a) in generale, occorre procedere ad un rigoroso contenimento della spesa corrente, e, laddove possibile riduzioni di «pezzi» della spesa corrente, e,. al contrario ad un incremento e qualificazione della spesa in conto capitale;
b) contenimento e riduzione della spesa per trasferimenti;
c) qualificazione della spesa per consumi e servizi pubblici;
d) incrementi e qualificazione della spesa per investimenti.
Insomma, si tratta di agire tra le 3 componenti della spesa pubblica (trasferimenti, consumi pubblici, investimenti), da una parte per qualificare ciascuna delle componenti e dall'altra per riequilibrare l'intera composizione riducendo la quota dei trasferimenti qualificando quella per consumi pubblici ed espandendo quella per investimenti.
5) manovrabilità della finanza pubblica. Problemi istituzionali, procedurali, tecnici ed amministrativi
In questo ambito si collocano 3 gruppi di problemi:
a) le tecniche di bilancio, la programmazione e il calcolo degli effetti economico-sociale degli interventi pubblici e delle politiche di bilancio, il riordino e il rinnovamento della pubblica amministrazione per un incremento strutturale della sua produttività;
b) le esigenze specifiche di riordino e riforma istituzionale in particolare della finanza locale, regionale, sanitaria e previdenziale;
c) le grandi riforme istituzionali afferenti la parte «alta» dello Stato.
5.1) Programmazione e bilancio. La programmazione, il calcolo e il controllo degli effetti degli interventi pubblici e delle manovre finanziarie pubbliche.
Dato che, come si è detto, non esiste un rapporto causale di tipo meccanico tra volume complessivo della spesa pubblica, disavanzo e suo finanziamento, composi zone della finanza pubblica, etc., assume a questo puto una importante notevole il problema degli strumenti disponibili a rendere funzionale la finanza pubblica, e la spesa in particolare, alla realizzazione degli obiettivi di politica economica e sociale che si vogliono conseguire: tra questi strumenti assumono un ruolo rilevante le TECNICHE DI VALUTAZIONE ECONOMICA DELLA SPESA PUBBLICA.
L'uso di metodi di programmazione e di valutazione della spesa pubblica, è ormai diffuso da decenni altrove (negli USA, in molti paesi europei, in organismi internazionali. Ciò ha comportato il moltiplicarsi di metodologie e il loro continuo perfezionamento. Ormai, su ciascuna categoria di intervento esiste una molteplicità di metodi: ad esempio per la spesa relativa all'istruzione vengono adottate le analisi COSTI-BENEFICI, il metodo degli indicatori sociali, le misurazioni del «capitolo umano»; egualmente per sanità e le spese sociali vi sono numerò se metodologie; altrettanto numerose sono le metodologie nel campo degli investimenti pubblici.
Tra le tecniche più sviluppate vi è quella dell'analisi COSTI-BENEFICI i ci elementi essenziali sono:
a) la determinazione degli OBIETTIVI
b) la quantificazione dei COSTI in relazione alle ALTERNATIVE PROGETTUALI;
c) la stima dei BENEFICI e la loro quantificazione in funzione alle alterantive progettuali, in modo tale che il confronto tra benefici netti fornisce gli elementi per la scelta della soluzione ottimale; ad esempio, se l'obiettivo è il disinquinamento di una certa area, si valutano i costi alternativi in relazione alle possibili esecuzioni tecniche: pochi grandi depuratori o molti e diffusi, e, i relativi benefici delle diverse soluzioni.
L'analisi costi-benefici è una metodologia molto analoga a quella adottata dalle grandi organizzazioni private e tende per ciascun intervento a minimizzare i costi e massimizzare i benefici.
Le diversità di approccio nascono dall'evidente considerazione della divergenza tra obiettivi PRIVATI e obiettivi di PUBBLICA UTILITÀ. Da qui scaturisce la difficoltà di una IMPORTAZIONE MECCANICA DI QUESTE MEETODOLOGIE NEL SETTORE PUBBLICO. Infatti, nel settore pubblico è determinante il criterio della PRODUTTIVITÀ SOCIALE, cioè dell'EFFICAACIA. Il che non deve portare pigramente ad escludere almeno un uso parziale e sperimentale, bilanciato da criteri di produttività sociale, di tali tecniche. In molti casi, nel settore pubblico, l'applicazione parziale dell'analisi costi-benefici è comunque meglio di niente. '
Lo studio e la sperimentazione di tali metodologie sono presupposti indispensabili per il rilancio, in termini nuovi, dell'idea e della linea della programmazione, dopo le deludenti sperimentazioni degli anni 60 e 70.

5.2) Le tecniche di bilancio

Un campo più specifico di immediato intervento è quello relativo delle tecniche di bilancio, alla procedure di spesa.
Occorre muovere considerando la logica che sta dietro le tecniche tradizionali di costruzione del bilancio, la quale si articola essenzialmente in tre fasi:
a) il livello e la composizione della spesa dell'anno precedente vegano estrapolati e riconfermati all'anno successivo:
b) questa base storica viene, poi, incrementata in relazione in particolare agli incrementi retributivi e agli incrementi delle materie prime previsti per l'anno successivo;
c) come terza operazione, questo livello di spesa è ulteriormente aumentato in relazione a (eventuali) nuovi programmi.
Questo metodo, definibile di tipo incrementale, pone innanzi tutto problemi di sostenibilità quantitativa di livelli di spesa automaticamente crescenti; dà per scontato che le attività poste in essere nell'anno precedente siano state giuste ed essenziali per il conseguimento degli obiettivi prefissati, che debbono quindi essere CONTINUATE nell'anno successivo, che richiedono aumenti di spesa almeno per quanto riguarda l'aumento dei costi rispetto alla dinamica inflattiva.
Si tratta, quindi, di un metodo RIGIDO, non elastico, di mero ed automatico aumento quantitativo dell'ESISTENTE.
Più in generale, il tradizionale assetto di bilanci pubblici e delle procedure di spesa è rimasto fondato sulla legislazione del 1923-24, che risulta centrato su tre materie: la gestione del patrimonio, la stipulazione dei contratti e le procedure di spesa. Nel corso degli anni, allorché si registrano modificazioni profonde nella realtà del paese, queste tre materie assumono diversa rilevanza:
a) le entrate derivanti dal patrimonio perdono importanza rispetto alle ENTRATE TRIBUTARIE;
b) i contratti non rappresentano più il punto centrale delle procedure di spesa;
c) la spesa pubblica DIRETTA assume una nuova grande rilevanza, in quanto diventa il principale strumento di intervento pubblico nella redistribuzione del reddito e nell' economia.
Così, dagli anni '60 in poi, tre nuovi problemi balzano alla ribalta:
a) l'èccessiva dilatazione della spesa pubblica;

b) la farraginosità e la lunghezza dei TEMPI delle procedure di spesa;
c) l'ingente mole dei TRASFERIMENTI di bilancio ad altri enti pubblici e soggetti privati.
Il documento di bilancio diventa via via COMPLESSO, di difficile lettura, sempre meno VERITERIO; comincia a diventare incontrollabile il deficit pubblico:
a) la lunghezza dei tempi di attuazione delle procedure di spesa fa sì che non vi sia coincidenza tra somme iscritte in bilancio e loro effettiva spesa nell'anno finanziario, comportando di conseguenza l'ingente massa dei RESIDUI PASSIIVI;
b) il bilancio, a causa dei TRASFERIMENTI ad altri centri di spesa, cessa di essere un documento veritiero in cui sono indicate tutte le entrate e tutte le uscite dello Stato.
Insomma, le risorse stanziate nei singoli capitoli a favore dei vari Ministeri NON vengono spese in significativa misura dai Ministeri ma vengono spese da altri soggetti pubblici. Ma, in questo modo si vengono a controllare gli SPOSTAAMENTI DI RISORSE da un ente all'altro, non le spese effettive. Negli anni 70, a questo scenario già difficile, si aggiunge la crisi economica ad aggravere il tutto, e, poi l'inasprirsi dello scontro sociale e politico attorno all'intervento pubblico e al ruolo re distributivo dei bilanci pubblici.
Nasce da qui la necessità della RIFORMA del bilancio e delle procedure di spesa.
La riforma è stata, per l'appunto, avviata dalla legge 468/78, in quanto PRIMO passo che doveva essere completato in modo organico.
Queste sono le novità essenziali introdotte dalla legge 468/78:
a) è stato individuato il SETTORE PUBBLICO ALLARGATO, per realizzare un primo passo verso la chiarezza dei conti dell'insieme degli enti pubblici, per controllare la dinamica dei TRASFERIMENTI da un ente all'altro;
b) preso atto del carattere POLIENNALE delle più importanti leggi di spesa, la nuova normativa ha previsto, accanto al bilancio annuale, un bilancio PLURIENNALE (da 3 a 5 anni);
c) accanto al bilancio annuale di COMPETENZA (che tiene conto di tutti i debiti e crediti dello Stato - anche quelli inesigibili) si affianca un bilancio di CASSA, fondato su ciò che si prevede sarà effettivamente incassato e che sarà pagato;
d) si impone agli enti pubblici l'obbligo di fornire un flusso continuo di INFORMAZIONI sui flussi reali delle risorse, per offrire al governo e al parlamento una base più concreta di controllo;
e) accanto al bilancio dello Stato, si istituisce la LEGGE FINANZIARIA, che nasce con la capacità di MODIFICARE TUTTE LE LEGGI approvate nel corso dell'anno dal parlamento, sia quelle che prevedono un'entrata sia una uscita, una sorta di super-legge per il controllo congiunturale della finanza pubblica.
Alla prova dei fatti, dal 1979 al 1983, ecco i risultati effettivi:
a) alla legge 468/78 non sono seguite altre leggi di riforma dei bilanci;
b) il bilancio pluriennale riveste sostanzialmente un carattere fittizio/formale;
c) progressivo svuotamento e snaturamento del ruolo della legge finanziaria;
d) non vi è stata alcuna seria innovazione nelle PROCEDURE di spesa, le quali da una parte rimangono incentrate negli schemi del 1923-24 e dall'altra registrano una GIUNGLA DI DEROGHE, una giungla normativa, con una sovrapposizione di CONTROLLI (dalla ragioneria del tesoro alla corte dei conti) che risultano essere controlli CONTABILI/FORMALI e non controlli sostanziali sui processi di spesa e sui risultati della spesa.

LA LEGGE 468/78 RIMANE ANCORA TUTTA DA APPLICARE
Nei fatti, a tutt'oggi, le tecniche di bilancio continuano a fondarsi sul MEEDOTO INCREMENtALE DELLA SPESA STORICA. D'altro canto, spesso si assiste alla PRATICA e alla teorizzazione del dilettantismo e dell'improvvisazione, cioè al metodo che potremmo definire del «CAVARSELA ALLA MENO PEGGIO» che affiderebbe tutte le scelte all'INTUITO della classe dirigente.

A questi metodi si vanno contrapponendo - e bisogna contrapporre - metodi nuovi. Nella sostanza, al contrario del metodo RIGIDO incrementale occorre avviare e consolidare la tendenza ad indicare come principio di razionalità delle decisioni di bilancio la CONTINUA REVISIONE DEI PROCESSI IN ATTO, dei bilanci dell'anno passato, della passata composizione della spesa, dei RISULLT A TI ottenuti, una logica cioè radicalmente opposta al metodo conservatore incrementale.

5.3) La «questione amministrativa»

Volendo affrontare i temi del risanamento finanziario pubblico e della qualificazione della spesa pubblica, pur partendo dai problemi specifici della finanza pubblica (livello della spesa, deficit pubblico, composizione della spesa, tecniche di bilancio, etc.), dopo questo ampio giro panoramico, si finisce per reimbattersi nella QUESTIONE AMMINISTRATIVA, del riordino della PA, dell'efficienza ed efficacia della P A.
«Questione amministrativa» significa porre il problema dei PROCESSI DI ATTUAZIONE delle decisioni di manovra di bilancio, il rapporto tra decisione politico-normativa e attuazione da parte della PA.
Sotto questo profilo, i punti essenziali paiono i seguenti:
a) è ormai notorio che si vada via via registrando un DIVARIO, spesso incolmabile, tra obiettivi posti in sede politico/legislativa e processi reali di attuazione;
b) quindi, la «questione amministrativa» si ripropone in termini nuovi ed urgenti rispetto alle concezioni del passato, nel senso che è in crisi definitivamente la concezione per cui vi sarebbe o vi dovrebbe essere UN RAPPORTO LINEAARE CONSEGUENZIALE E COERENTE tra momento della direzione politica e momento dell'attuazione amministrativa, nella quale concezione la PA sarebbe un APPARATO NEUTRALE rispetto al «manovratore politico»;
c) ne consegue che la battaglia per la modernizzazione, il riordino e la realizzazione di processi riformatori della P A va REIMPOST AT A, a partire dalle precedenti considerazioni, nel senso che si tratta di fare emergere l'alta valenza politica e la specificità della battaglia sulla «questione amministrativa», anche dal punto di vista del sindacato la cui iniziativa troppo spesso si è infranta, dopo le conquiste legislative, proprio nel momento attuativo;
d) infatti, molto spesso, nella fase decisionale, nel provvedimento di legge rimangono ampi spazi di AMBIGUITÀ e indeterminatezza, giacché alcune contraddizioni della fase parlamentare-legislativa vengono SCARICATE nella fase attuativa, cioè lo scontro politico-sociale è RINVIATO alla fase attuativa;
e) altre difficoltà vengono generate dal fatto che non vi è una netta separazione tra «POLITICA» e «AMMINISTRAZIONE», tra politici e alti gradi della burocrazia, essendo molteplici i collegamenti e i canali tra potere politico/interessi organizzati/P A, essendo molti i canali di penetrazione delle pressioni contrastanti nella PA, a fronte della estrema DEBOLEZZA del controllo democratico sulla PA;
f) le difficoltà attuative dipendono anche dal fatto che spesso vi è soltanto una identificazione astratta e cartacea delle funzioni e delle competenze attribuite ai diversi organi della P A, mancando un adeguato accertamento delle reali disponibilità in termini di risorse umane, di mezzi, di possibilità reali di coordinamento;
g) si continua ad ignorare che, al di là delle indicazioni delle leggi, la P A e il pubblico impiego nel complesso, le singole unità della P A e del PI, si danno spesso OBIETTIVI PROPRI da perseguire, utilizzando da una parte l'arma della RIIGIDITÀ normativa e dall'altra della DISCREZIONALITA nella prassi informale, in una logica di AUTOCONSERVAZIONE CORPORATIVA di sé;
h) incide negativamente la larga SCONNESSIONE tra le indicazioni legislative e le PROCEDURE di attuazione, talché vi sono non poche leggi senza corrispettive e specifiche procedure di attuazione;

i) il tutto è aggravato dalla generalizzata parcellizzazione e frammentazione dei compiti, dei procedimenti, nel senso che su uno stesso obiettivo - quando c'è - intervengono più soggetti assolutamente scoordinati tra loro.
Il senso che consegue dall' analisi tratteggiata è che il risana mento della finanza pubblica è, per così dire, CONSUSTANZIALE, inscindibilmente connesso all'incremento di produttività della PA. non si dà l'uno senza l'altra.
E, la battaglia per la modernizzazione della PA va riaffrontata tenendo conto almeno di due criteri:
a - la massa enorme di analisi, valutazioni, proposte presenti in documenti e progetti ben noti, dal Rapporto Giannini sulla PA del 1979 al Rapporto FORRMEZ sui ministeri del 1982, i quali rimangono perfettamente all'ordine del giorno tra le oggettive priorità di tutte le forze progressiste;
b -la necessità di realizzare uno sforzo, diversamente dal passato recente, pur senza abbandonare il fronte ALTO della lotta di tipo politico-istituzionale, per impegnare di più le forze del progresso, in particolare il sindacato, anche, e per certi versi soprattutto, sul fronte BASSO dell'iniziativa, sull'organizzazione del lavoro della PA e nei servizi, sulla dimensione empirico-organizzativa delle funzioni e degli apparati pubblici.
6) 8 misure per il risanamento della finanza del settore pubblico allargato a* attuazione aggiornamento completamento della legge 468/78 per la riforma del bilancio dello Stato e modifica delle tecniche di bilancio;
b * revisione del sistema tributario;
c* emanazione di una nuova legge per la finanza regionale;
d* riforma della finanza locale;
e * riordino del sistema pensionistico e previdenziale;
f* attuazione della riforma sanitaria, anche mediante gli aggiornamenti di aspetti normativi resisi necessari ai fini dell'attuazione della riforma stessa, specie per quanto attiene il finanziamento da ricondurre progressivamente nell'alveo del gettito tributario;
g * riforma dell'assistenza;
h* congrua attuazione della legge-quadro per il PI e dei meccanismi per il controllo di flussi di spesa per il PL

7) Tre grandi riforme istituzionali funzionali al risanamento della finanza pubblica .

a) riforma della struttura del governo centrale, a partire dalla presidenza del consiglio ai fini del necessario rafforzamento della sua capacità di coordinamento, di direzione collegiale, di forza ed autorità decisionale, in particolare nella manovra di bilancio e nel controllo dei centri di spesa;
b) innovazioni istituzionali e procedurali volte a rafforzare la capacità del Parlamento di attrezzarsi per contare ed intervenire a determinare gli indirizzi fondamentali dell'economia e della POLITICA FINANZIARIA PUBBLICA, nella politica internazionale, nell'avvenire della scienza e della cultura, nei grandi temi della giustizia e dei servizi sociali;
c) rilancio dell'autonomia delle Regioni quali enti di programmazione e non di amministrazione, rilancio delle deleghe regionali agli enti locali, riforma dell'ordinamento delle autonomie locali, per un riordino qualitativo delle autonomie, presupposto essenziale per un uso qualificato delle risorse pubbliche gestite a livello decentrato.

8) La finanza regionale e locale

Per questo aspetto rinviamo alla comunicazione relativa al bilancio preventivo 1983 della Regione Lazio che tratteggia anche i temi della finanza regionale e alla comunicazione specifica sulla finanza locale.
Riassumiamo qui brevissime considerazioni generali:

8.1. Le recenti vicende giudiziarie, con la parallela ondata scandalistica, che hanno interessato amministratori e giunte locali, al di là delle pesanti strumentalizzazioni e del polverone anche qualunquistico montato, e, acquisito ovviamente che chi ha commesso reati venga punito, hanno po'sto grandi e seri problemi oggettivi.
A) la necessità di definire più nettamente la responsabilità dei giudici, in modo da evitare la confusione tra agitazioni scandalistiche, RISULTANZE PENALI, e, RESPONSABILITA POLITICO AMMINISTRATIVE sulle quali la titotlarità spetta agli amministratori e il giudizio deve potersi esprimere sul piano politico e non penale.
B) Occorre affrontare fino in fondo la questione morale, a livello centrale e periferico, cioè recidere il rapporto patologico che si è istituito tra partiti, gruppi di potere e apparati dello Stato; per ricostruire una distinzione di ruolo e di autonomia dei partiti rispetto alle assemblee elettive, agli esecutivi (governo centrale e giunte regionali), allo Stato e alle istituzioni in generale; andando alla radice di quel sistema che produce ed espande la corruzione, cioè la sparizione delle leve del potere pubblico, la lottizzazione tra partiti e correnti, l'inefficienza e la farragine dei sistemi di controllo, la macchinosità dei controlli e così via.
C) Tra le misure più urgenti da adottare vi sono quelle relative alla riforma dei meccanismi degli appalti, dei concorsi, delle NOMINE, e, sotto un profilo diverso, l'adeguamento dello status e dei trattamenti degli Amministratori locali.
D) Occorre procedere ad un riordino ed ad una semplificazione dei sistemi dei controlli, che oggi sono molteplici, di carattere giurisdizionale e contabile, gerarchico, obsoleto e farraginoso.
Un assurdo ed inutile retaggio ottocentesco tutto fondato sui controlli preventivi di legittimità sugli atti delle Autonomie Locali che non ci tutelano dalla corruzione.
Per ridare centralità al problema del rapporto tra governanti e governati, nel momento in cui le forme tradizionali di partecipazione dei cittadini all'Amministrazione Pubblica risultano largamente inadeguati e ormai insufficienti o addirittura inefficaci i suoi canali.
Le tematiche del controllo e della trasparenza in realtà sono aspetti decisivi, ma finora trascurati di un rapporto più ricco tra cittadino ed istituzioni, nel senso che la stessa cultura e pratica delle forze progressiste sono state carenti rispetto ai MECCANISMI o ALLE PROCEDURE con cui assicurare successo alle ambizioni di democrazia.
Le stesse possibilità aperte dai nuovi mezzi di informazione e informatici creano le premesse per cui dovrebbero cadere molti segreti, molti tabù, per cui i Consigli (Comunali, Regionali), le opposizioni, e quindi anche i cittadini dovrebbero essere messi nelle condizioni concrete di sapere di più, di capire di più tante cose dell'Amministrazione quotidiana, di controllarne in concreto validità ed efficacia, di soddisfare richieste di informazione, ad es., per quel che riguarda i FLUSSI DI SPESA, i destinatari dei contributi, i risultati effettivi degli interventi, per un controllo effettivo, per una verifica cioè dell'efficacia, della congruità, della validità degli atti e soprattutto dei risultati dell'amministrazione.
Dopo il logoramento delle esperienze partecipative degli anni 70, occorre rilanciare con forza il PASSAGGIO DEI POTERI AGLI ORGANI DECENNTRA TI, in particolare nelle aree metropolitane, per favorire la diffusione di esperienze di autogoverno. Ma i canali tradizionali della partecipazione non esauriscono il problema. Sono sorti in questi anni nuove identità sociali e nuovi bisogni, che in parte esigono di essere riconosciuti politicamente e in parte tendono a mantenersi distinti dalle formazioni politiche ed istituzionali e anche dal sindacato. Prende vita un nuovo associazionismo, non sempre riconducibile à caratteri comuni. Il suo contenuto di fondo si può definire come una ricerca di nuovi rapporti tra persone e con la natura, e il suo strumento principale è il VOLONTARIATO.

E) L'esigenza di affermare con più nettezza è quella della DISTINZIONE DI RESPONSABILITÀ DIVERSE, tra responsabilità politiche, amministrative e tecniche (ad es. nelle USL), tra assemblee elettive ed esecutivi, tra maggioranze ed opposizioni, tra ruolo autonomo del sindacato e controparti pubbliche specie da parte delle categorie del P.I.

F) Occorre misurarsi con rinnovato slancio, da parte delle autonomie locali, con i problemi INEDITI posti da processi di crisi/ristrutturazione, specie nelle aree urbane, in particolare nella realtà delle GRANDI METROPOLI, con l'emergenza di nuovi ceti produttivi e professionali del terziario avanzato e della produzione scientifica, culturale e dello spettacolo.

G) Il rilancio del ruolo delle autonomie locali è interdipendente rispetto al varo delle grandi riforme istituzionali da una parte, e alla ripresa di una linea e un processo di cambiamento nella direzione nazionale del paese, quale necessario riferimento complessivo per offrire una sponda e uno sbocco concreto ai problemi e alle iniziative degli enti locali.

H) Ma, il problema di fondo, che si ripropone con rinnovata urgenza e drammaticità, è quello di SUPERARE LA DECREPITEZZA E L'INCONNGRUENZA DELLA LEGISLAZIONE IN MATERIA DI POTERI LOCALI E DI FINANZA LOCALE.

Il caos legislativo è talmente ampio talché è diventato oggettivamente difficile e non invidiabile il mestiere dell'amministratore locale. Volendo, qualunque magistrato potrebbe paralizzare completamente l'attività degli enti locali.
Deriva da qui l'assoluta centralità per il 1983/84 del RIORDINO QUALIITATIVO dei poteri locali e della finanza locale, delle riforme delle autonomie locali e della finanza locale.
Vogliamo ribadire che non si tratta di riforme quantitative, per così dire, cioè volte all'aumento delle competenze e delle risorse disponibili, ma di RIFORME QUALITATIVE volte a riordinare le attuali competenze e il monte risorse oggi già .'R attribuite agli enti locali.

8.2. Criteri per la riforma della finanza regionale e locale

Tre sono i criteri ispiratori generali per la riforma della finanza locale:
a) contenimento della disponibilità delle risorse degli anti locali non oltre i tetti programmati di inflazione;
b) rafforzamento dei processi di PEREQUAZIONE verticale e territoriale (grandi e piccoli comuni, nord-sud) nella distribuzione delle risorse;
c) espansione della autonomia impositiva.
Più nel concreto, sulle linee per un riordino qualitativo della finanza regionale e locale, nei contenuti dobbiamo tenere presente:
a) che un assetto unitario non per settori o per fondi della finanza regionale è la prima condizione perché si realizzi un vero coordinamento dell'intera finanza pubblica e una sua programmazione;
b) che la finanza locale comprende tutte le funzioni che la legge attribuisce a Comuni e Provincie; la finanza sanitaria, quindi, e quella per i trasporti sono parti integranti della finanza locale;
c) che il riequilibrio delle risorse di esércizio e di investimento tra gli Enti locali delle zone ricche e delle zone povere (del mezzogiorno in particolare) deve diventare uno dei principali obiettivi di una nuova politica meridionalistica;
d) che l'autonomia impositiva non deve essere concepita come un ritaglio, a favore degli Enti locali, di una fetta di tributi e di contribuenti, ma come la strada per coinvolgere l'intero ordinamento nell'esercizio del potere fiscale e al tempo stesso come la condizione per rendere finalmente efficiente, ordinato e giusto il sistema tributario.
Sull'imposta comunale sui fabbricati (ICOF) i punti essenziali sui quali dare battaglia sono:
- riordino generale e unificazione della imposizione sugli immobili con soppressione o radicale riduzione dei tributi esistenti;
esenzione o riduzione per la prima casa;
- collegamento tra politica fiscale e politica per l'edilizia abitativa;

- titolarità piena del Comune, entrate parzialmente aggiuntive dei trasferimenti statali e parzialmente sostitutive, con percentuali differenziate tra nord sud;
- deve essere assicurata èon norme serie e con poteri reali, la partecipazione del Comune all'accertamento delle imposte sul reddito e alla lotta all'evasione. 9) Finanza pubblica ed economia reale
In questo nesso vi è il punto di partenza e il punto di conclusione, cioè l'asse centrale, dell'intero ragionamento sinora svolto. Se è vero che l'attuale dissesto della finanza pubblica aggrava la crisi economica ed occupazionale, è vero anche il contrario cioè che l'esorbitanza della spesa pubblica è causata precisamente da questo tipo di sviluppo e dalla sua crisi.
E, dunque, un risanamento finanziario effettivo, eccetto aggiustamenti contingenti, non può veramente essere perseguito senza una trasformazione degli indirizzi dello sviluppo, senza cioè che si eviti di scaricare continuamente sulla finanza pubblica una somma di contraddizioni che nascono dal modo di produzione, senza aumentare la produttività del sistema economico, il prodotto interno lordo cioè la ricchezza nazionale, e, per questa via allargare la base impositiva per l'incremento del gettito fiscale.
Occorre, perciò, una svolta nell'economia come presupposto principale per il risanamento finanziario, una svolta nella politica economica e industriale del Governo, non una velleitaria « RIPRESA» DEL VECCHIO SVILUPPO, ma una politica per il cambiamento, per innescare un nuovo sviluppo, una nuova qualità dello sviluppo secondo una impostazione reflattiva.
Sotto questo profilo, emerge che la stessa manovra finanziaria ed economica, condotta o tentata dal Governo Fanfani, è completamente organicamente AL DI SOTTO della portata vera della crisi, della imponenza dei processi di ristrutturazione, della portata dei problemi, e delle soluzioni necessarie:
a) perché tale politica non incide sulle cause strutturali dell'attuale dissesto della finanza pubblica, per cui, non incidendo sulle ragioni vere della crisi dei conti pubblici, finisce per riprodurre e alimentare i meccanismi perversi che hanno generato tale dissesto finanziario;
b) perché gli stessi obiettivi e misure di rientro del disavanzo pubblico perseguiti in qualche modo dal Governo, non solo non sono state realizzate, ma non sono realizzabili come manovra finanziaria a se stante, giacché questa manovra non incide in alcun modo sull'economia reale, anzi finisce per incidervi in modo spiazzante e negativo, e in tal modo non incide su una delle due leve del risanamento finanziario che è l'intervento attivo della manovra finanziaria pubblica sull'economia reale.


I SOLDI DELLO STATO – 2   1984

Giuseppe De Santis e Carlo Rossi dell’istituto regionale programmazione economica Lazio (IRSPEL): «Analisi e valutazione sul bilancio 1983 della Regione Lazio».

PREMESSA

1) La finalità generale della presente scheda è quella di fornire un INQUADRAMENTO COMPLESSIVO, di informazione e di valutazione, sul bilancio preventivo per il 1983 della Regione Lazio, quale SUPPORTO di sfondo all'impostazione del convegno su «Sindacato e finanza pubblica», per ancorare lo stesso, in modo robusto e concreto, alla realtà finanziaria regionale.
2) Vi è, inoltre, una finalità specifica della scheda volta a definire lo scenario generale di riferimento entro cui inserire le singole comunicazioni predisposte per il convegno (sanità, scuola, ecc.).
3) In tal modo d procedere vi è la sottolineatura di un METODO di lavoro che va rafforzato: la necessità di una appropriazione più profonda ed organica da parte dell'intero gruppo dirigente della CGIL di alcuni punti di riferimento e strumenti complessivi nei quali innestare le elaborazioni e gli interventi settoriali. Sotto questo profilo, appunto, il bilancio della Regione è uno dei punti imprescindibili.
Ebbene, finora l'impegno tradizionale profuso di informazione/eleborazione/valutazione attorno ai bilanci degli enti pubblici e, in particolare, attorno ai bilanci della Regione non sempre è risultato SUFFICIENTE.
a) E ciò almeno da quattro punti di vista, in quanto si è trattato, in qualche modo, di un impegno OCCASIONALE E DISCONTINUO, realizzato quasi esclusivamente nella fase di approvazione del bilancio stesso, senza seguire l'intero iter della manovra finanziaria regionale nel complesso dell'esercizio, dai preventivi agli assestamenti, ai consuntivi, alle connessioni tra diversi esercizi, alla verifica del rapporto tra progetti e risultati;
b) un impegno DELEGATO esclusivamente alla struttura confederale regionale;
c) una elaborazione, anche sul piano strettamente TECNICO, approssimativa;
d) di approcci esclusivamente ed empiricamente SETTORIALISTICI, secondo il caso e le necessità contingenti, a questo o all'altro capitolo di entrata e di spesa da parte di singole strutture categoriali, comprensoriali, in confronti non di rado confusi e scarsamente attendibili con assessori e funzionari regionali.
4) Lo schema della SCHEDA è il seguente:
a) alcuni caratteri di fondo dell'assetto finanziario delle Regioni, della s tura della finanza regionale e della sua evoluzione;
b) cenni sul rapporto tra bilancio preventivo per il 1982 della Regione Lazio con i progetti di intervento in esso contenuti e il bilancio preventivo per il 19 ..• ; c) dati informativi essenziali sul bilancio preventivo per il1983 della Regione Lazio;
d) qualche considerazione sulla relazione allegata al bilancio preventivo per il 1983 della Regione Lazio;
e) enucleazione dei NODI centrali della manovra di bilancio per il 1983 della Regione Lazio (mutui, progetti, residui);
f) considerazioni sul rapporto tra bilancio preventivo 1983 e protocollo d'intesa tra gi unta regionale e Federazione unitaria CG IL - CIS L - UIL del Lazio; g) indicazioni per la lettura del bilancio preventivo 1983 della Regione Lazio.

I ALCUNI CARATIERI DI FONDO DELLA FINANZA REGIONALE

1) Il carattere di fondo della finanza regionale è la SUBORDINAZIONE pressocché completa della finanza regionale allo Stato e al governo centrali, alla contabilità dello Stato, in quanto essenzialmente FINANZA DERIVATA e trasferita dal centro,
a) ciò sia sotto il profilo delle entrate, delle spese che dei meccanismi di contabilità;
b) deriva da qui la sostanziale veridicità della definizione per cui le REEGIONI SONO MERE AGENZIE DI SPESA dello Stato centrale, con un rapporto di subordinazione diretta dei singoli Assessorati ai corrispettivi Ministeri;
c) ciononostante, è pur vero che alle Regioni rimane un sia pur limitato spazio di AUTONOMIA FINANZIARIA che le stesse Regioni non sempre gestiscono e sviluppano in modo adeguato, specie le Regioni del centro sud;
d) per le Regioni ne conseguono due fronti di iniziativa: confronto con il governo centrale per battere tendenze centralistiche, riconquistare ed allargare gli spazi di autonomia, per il rilancio dell'autonomia regionalistica e dello Stato delle autonomie locali,
- impegno per gestire bene gli spazi di autonomia comunque attualmente disponibili per le Regioni, sviluppandone al massimo le potenzialità.

2) L'assetto normativa di base della finanza regionale.

Le basi normative essenziali si possono schematicamente raccogliere in due gruppi (fonti generali e altre fonti):
a) Legge 281/70 sulla finanza regionale; Legge 335/76 sulla contabilità regionale; Legge 336/76 su ulteriori misure di finanza regionale; per la Regione Lazio l'assetto della contabilità è definito dalla L.R. 15/77;
b) leggi settoriali di spesa (es., sanità, trasporti), legge finanziaria annuale, decreti contenenti tagli alla spesa pubblica.

3) Il modello tipo di funzionamento della manovra finanziaria regionale. Si articola attraverso 6 passaggi e strumenti:

a) a monte, il Piano regionale di sviluppo;
b) il bilancio pluriennale, cioè la quantificazione in termini di risorse del Piano di sviluppo;
c) le leggi regionali di spesa che fissano gli obiettivi e le procedure, rinviando al bilancio annuale la determinazione delle quote di spesa;
d) il bilancio annuale che quantifica le quote annuali di spesa prevista dal bilancio pluriennale, autorizza accertamenti e riscossioni delle entrate e impegni e pagamenti di spese;
e) le ulteriori misure normative (delibere), amministrative ed operative (progetti operativi per riscossioni, pagamenti, attuazione dei progetti);
f) il conto consolidato, cioè il bilancio consuntivo, e la verifica dei risultati. La logica contenuta in questo meccanismo è che il bilancio non è una mera operazione contabile e formale. AI contrario, si prevede una interconnessione sostanziale tra Programmazione e bilancio, tra scelte, progetti, bilancio, controllo e verifica dei risultati. E si tratta di una parte determinante dell'intero PROGETTTO REGIONALISTICO. Nei fatti, a tutt'oggi, questa SFIDA rimane ancora completamente aperta per le Regioni e gli amministratori regionali. .
Su questo terreno, allo stesso sindacato rimane il compito di incalzare le Regioni per fuoriuscire da una gestione meramente contabile del procedimento sopradescritto .
4) Alcuni dati e tendenze della finanza regionale a livello nazionale. 4-1) Le entrate.
Le regioni coprono ormai oltre il 95% dei loro bilanci con TRASFERIIMENTI STA TALI; per l' 1,5 % contribuiscono le riscossioni fiscali proprie e per il 3% le rendite patrimoniali. Nel 1981 le risorse da trasferimento statale hanno raggiunto i 33.617 miliardi, con un incremento percentuale rispetto al 1980 del 21,8%, e con una netta decelerazione rispetto al 1979/80 allorché si ebbe un incremento pari al 42,3%. Nel complesso dei trasferimenti crescono le quote di parte corrente e diminuiscono quelle in conto capitale per investimenti.

4-2) Le spese.

Dai dati nazionali risulta che tra il 1979 e il 1980 la capacità di spesa delle Regioni tende a migliorare, in modo abbastanza netto, il che significa che vi sono concrete potenzialità di accelerare le dinamiche delle spese.

4-3) I mutui.

Dai dati nazionali risulta che il RICORSO AI MUTUI non è frequente e comunque attiva un monte risorse molto ridotto. In particolare, meno del 17% delle somme previste con l'attivazione dei mutui - nei bilanci preventivi - viene poi effettivamente riscosso ed utilizzato.

4-4) I flussi di cassa.

Sul lato della contabilità, si va via via accentuando il controllo rigido da parte del Ministero del Tesoro dei flussi di cassa, cioè sui flussi concreti delle risorse, attraverso l'impostazione di VINCOLI rigidissimi ai prelevamenti che le Regioni possono fare presso i conti correnti a loro intestati presso la Tesoreria centrale dello Stato, la trasformazione da fruttiferi ad infruttiferi dei conti correnti aperti presso la Tesoreria centrale, l'eliminazione dei pagamenti diretti tra enti pubblici e Regioni.
Dall'insieme di queste misure emerge una tendenza di fondo: mentre nel passato recente il controllo statale sulle regioni è passato attraverso lo strumento del VINCOLO DI DESTINAZIONE delle risorse, oggi si sta passando ad un tipo di controllo centrato sulla quantità e la rapidità di erogazione dei flussi di cassa.

II REGIONE LAZIO: BILANCIO PREVENTIVO PER IL 1982 E BILANNCIO PREVENTIVO PER IL 1983

La valutazione del rapporto tra i caratteri e i risultati del bilancio preventivo per il 1982 e l'impostazione del bilancio preventivo per il 1983 è il criterio più elementare e concreto per una valutazione, fondata sui dati di fatto, dell'ipotesi di manovra finanziaria regionale per il 1983.

1) Il bilancio 1982

a) è rimasto sostanzialmente INAPPLICATO;
b) è mancata non solo la realizzazione, ma anche l'elaborazione e la presentazione dei PROGETTI OPERATIVI previsti nel bilancio 1982;
c) dell'intera somma destinata agli investimenti è stato speso proco più del 17%;
d) ben 10 dei progetti del 1982 (41 miliardi) sono semplicemente slittati nel bilancio preventivo per il 1983.
2) Rispetto a quanto previsto nel bilancio 1982 e nei programmi della Regione, tra le inadempienze più significative risultano le seguenti:
a) non elaborato il «Quadro di riferimento territoriale della programmazione»;
b) il Piano regionale di sviluppo, scaduto nel 1981, non è stato finora ripresentato;
c) l'Osservatorio sulla spesa regionale non è stato ancora realizzato;
d) il bilancio consuntivo del 1982 o almeno il quadro essenziale dei risultati del 1982 non sono ancora disponibili;

e) ancora troppo lunga e travagliata è la costruzione concreta dell'Osservaatorio sul mercato del lavoro.
3) In sintesi: i programmi del 1982 risultano inapplicati, gli stessi progetti 1982 vengono semplicemente slittati nel bilancio 1983.
Ma allora, quale credibilità complessiva può avere l'intero bilancio 1983?

III ALCUNI ELEMENTI DI INFORMAZIONE GENERALE SUL BILANCIO 1983 DELLA REGIONE LAZIO

1) Entrate ed uscite previste in termini di competenza (autorizzazione degli accertamenti delle entrate e degli impegni di spesa):
- 5.445,769 miliardi
- incremento rispetto al 1982: 1.368 miliardi (+ 33,5%).
Si tratta di un INCREMENTO consistente, dovuto ad una più attenta pressione e ad un intervento sulle entrate DERIVATE e PROPRIE. L'incremento è dovuto soprattutto alla quota del fondo sanitario e del fondo trasporti.

2) In termini di previsioni di cassa (previsioni sui flussi reali circa le riscossioni e i pagamenti), si prevede, grosso modo, la stessa cifra di competenza con un intero incremento (oltre 100 miliardi), cioè 5.552,799 miliardi.

3) Residui
I residui passivi (somme impegnate e non ancora pagate) sono stimati in 454 mld, con una riduzione di 192,3 mld rispetto alle previsioni del 1982.
Ciò attesterebbe una maggiore capacità di spesa della Regione nel 1982. Ma, ciò non risulta dagli atti ufficiali e conosciuti della Regione.
Per definire alcuni criteri di valutazione del problema, si formulano le tre seguenti considerazioni:
a) è presumibile che le spese siano state realizzate soprattutto mediante atti amministrativi ed operativi, secondo il metodo della SPESA A PIOGGIA, piuttosto che mediante l'attuazione dei progetti previsti nel bilancio 1982, che, come si è detto, risultano inapplicati;
b) la riduzione prevista dei residui passivi esprime, in qualche modo, una tendenza che dal 1979 in poi caratterizza tutte le Regioni, compresa la Regione Lazio, cioè l'aumento significativo della loro CAPACITÀ DI SPESA;
Questa palese opacità circa i residui rinvia al problema più generale della TRASPARENZA della P.A., dei controlli, onde evitare l'accrescersi della questione morale all'interno dello stesso sistema delle autonomie locali.
4) Avanzo di amministrazione: 136,400 mld Giacenza di cassa: 30 mld
5) Fondi liberi e fondi vincolati
a) trasferimenti statali con vincolo di destinato: 85% della dotazione globale
b) fondi liberi: 8,5 % circa (430 mld)
c) finanze straordinarie cioè sostanzialmente i mutui: 4,5% (25 mld per il 1983)
d) saldo finanziario della gestione precedente: 2%.

IV NODI CENTRALI DELLA MANOVRA DI BILANCIO PER IL 1983 DELLA REGIONE LAZIO

1) Ai fini di un corretto inquadramento della manovra di bilancio occorrerebbe te ne conto di tutta una serie di nodi centrali, afferenti direttamente e/o indirettamente il bilancio, che la politica regionale dovrebbe affrontare e risolvere:
a) il rapporto tra Programmazione e Bilancio;

b) il rapporto Stato Regioni Enti Locali; politica delle deleghe;
c) la politica dei Mutui;
d) la qualità e la fattibilità dei progetti operativi;
e) il controllo della spesa, la verifica dei risultati, e, in questo ambito il governo dei residui;
f) il rapporto tra i punti precedenti e il modello organizzativo regionale, le procedure, il governo del personale regionale.

2) Tuttavia, per esigenza di brevità e di sintesi, si preferisce concentrare l'attenzione su quello che è, in qualche modo, il nodo centrale, cioè sul PROOGRAMMA DEI MUTUI che risulta essere il PERNO di tutto il Bilancio 1983 e di quello pluriennale 1983/1985, la più grossa NOVITA, la questione attorno a cui ruota tutto il resto e tutta la gamma dei progetti presenti nel bilancio regionale.
Il programma dei mutui assunto dalla Regione può essere sintetizzato nel modo seguente:
a) 1 a operazione: recupero di un pacchetto di risorse di cui la Regione già dispone (circa 130 miliardi) e riutilizzo dello stesso per il 1983/1985;
b) 2 a operazione: con le risorse così recuperate si ipotizza di ottenere il mutuo pluriennale, destinando cioè le risorse re cupe rate per il pagamento degli interessi e per le quote annuali di ammortamento per il primo triennio 83/85.
Il meccanismo funzionerebbe così:
• 1983: uso di 23,5 miliardi delle risorse recuperate, di cui 14,6 miliardi per interessi e 8,9 miliardi per quota capitale d'ammortamento, ottenendo 254,5 miliardi di mutui;
• 1984: uso di 44,5 miliardi delle risorse recuperate, di cui 27,1 miliardi per interessi e 17,7 miliardi per quota d'ammortamento, ottenendo 264,5 miliardi di mutui;
• 1985: uso di 58,3 miliardi delle risorse recuperate, di cui 42,3 miliardi per interessi e 26 miliardi per quote d'ammortamento, ottenendo 301,6 miliardi di mutui.
Il totale dei mutui nel triennio 1983/1985 ammonterebbe a 820,6 miliardi, per cui aggiungendovi un ulteriore pacchetto di risorse regionali si perverrebbe alle somme di L. 945,400 miliardi di finanziamenti per progetti detti AGGGIUNTIVI.
• L'ipotesi è quella di attivare muti al tasso del 17%, con il sistema bancario pubblico e privato del Lazio, cioè attraverso un gruppo di banche chiamate a gestire la tesoreria regionale .
• Le risorse attivabili con i mutui andrebbero poi impegnate per realizzare ben 50 progetti circa in 14 settori di intervento regionale (cfr. elenco n. 5, pago 3783, Bilancio preventivo per il 1983), che coprirebbero un'area vastissima di problemi (agricoltura, metanizzazione Alto Lazio, energia, formazione professionale, case per giovani coppie e anziani, piano impianti per potenziare i trasporti pubblici nel Lazio, aree industriali, e, soprattutto, grandi infrastrutture).

3) Rilievi critici sul progetto mutui

a) vi è una palese contraddittorietà tra la completa inapplicazione dei progetti previsti nel Bilancio 1982 e l'ambiziosissimo progetto delineato nel Bilancio 1983 che, di per sé, rende poco credibile la fattibilità di quest'ultimo;
b) vi è una eccessiva dispersione dei terreni d intervento, i progetti sono quantitativamente troppi e troppo dispersivi, inoltre dei 50 progetti previsti soltanto 10-15 risultano abbastanza definiti e con copertura finanziaria assicurata; c) il complesso dei progetti non risulta adeguatamente definito sul piano tecnico-operativo;
d) buona parte dei progetti risulta semplicemente slittata dal 1982 al 1983 ;
e) vi è una serie di definizioni retoriche e propagandistiche, riferite al progetto mutui, del tipo «risorse aggiuntive», «progetti aggiuntivi», etc., che risultano improprie e perfino distorcenti circa la disponibilità delle risorse e il rapporto tra i vari esercizi finanziari, se si tiene conto che, ad esempio, dei 14 miliardi per l'agricoltura considerati «aggiuntivi» ben 9,5 miliardi sono slittati dal 1982, dei 12 miliardi per l'edilizia abitativa ben 8 miliardi soni slittati dal 1982;

f) la stessa distribuzione delle risorse - derivanti da mutui - per settori progettuali prevede una concentrazione assoluta nel settore delle grandi infrastrutture con un simmetrico scarsissimo impegno nei settori direttamente produttivi; infatti si va dal 33% delle risorse per le grandi infrastrutture al 6,6% per l'industria, al 10% per la sanità, al 9,36% per la formazione professionale, all'8,9% per opere igienico-sanitarie, etc.;
g) inoltre, pur essendo ormai a metà dell'esercizio finanziario 1983, i risultati della ricerca dei mutui sono tuttora sconosciuti, anzi della stessa trattativa con le banche per ottenere i mutui non si hanno notizie;
h) la precedente considerazione mette in evidenza un punto critico di tutta l'operazione mutui, cioè la mancata definizione da parte della giunta regionale dei TEMPI e delle MODALITÀ delle trattative con le banche, la fattibilità concreta dell'operazione progettata, la verifica della credibilità stessa della Regione rispetto alle banche su quello che è il banco di prova determinante e cioè la capacità della Regione di elaborare e realizzare i progetti per i quali si intende fare ricorso ai mutui a tassi del 17%, e, considerando la scarsa rilevanza che finora hanno avuto le operazioni di ricorso e di attivazione dei mutui da parte delle Regioni così come risulta dai dati nazionali sovracitati.

4) La logica del Bilancio 1983 e del Bilancio pluriennale 1983-85

a) si è già detto che il fulcro della politica regionale, delineata nel bilancio, è la POLITICA DELLE INFRASTRUTTURE (vedi relazione allegata al Bilancio, pp. 3515-3430);
b) sono assolutamente carenti o inesistenti gli interventi per gli INVESTIIMENTI NEI SETTORI PRODUTTIVI e innanzitutto nell'industria; in altre parole non c'è una strategia e un programma operativo per combattere la crisi e per fuoriuscire dalla stessa;
c) tutto l'intervento è centrato sulle infrastrutture, come si faceva nelle classiche politiche statali degli anni 60;
d) assolutamente carente e negativo è il modo in cui nel Bilancio e nella relazione è trattato il problema dell'OCCUPAZIONE nel Lazio, il quale viene trattato come PROBLEMA A SÉ STANTE, distaccato dalla politica generale degli investimenti; per l'occupazione l'intervento regionale si limita alla costituzione dell'Osservatorio sul mercato del lavoro e ad una politica dispersiva e dequalificata nel settore della formazione professionale.

V ALCUNE CONSIDERAZIONI SULLA RELAZIONE ALLEGATA AL BILANCIO 1983

1) La relazione da una parte è ampia, per certi aspetti dettagliata e ricca di spunti, specie per quanto riguarda la parte relativa all'analisi economicoriale del Lazio, dall'altra parte è contraddittoria e confusa e anche, su non pochi aspetti obsoleta e carente sotto il profilo culturale e tecnico-economico, ad esempio per l'utilizzo di analisi e dati sorpassati dell'OCSE e dell'ISTAT.
2) Circa la filosofia generale che si tende di dare al Bilancio, la relazione allude per il Lazio al concetto di SOCIETÀ-SPUGNA, elaborato per tutto il paese dal XVI Rapporto CENSIS, senza minimamente spiegare di che si tratta, riciclando ancora una volta meccanicisticamente oscuri e ambigui concetti sociologistici di dubbia capacità analitica, come già si era fatto nella relazione allegata al Bilancio preventivo 1982 allorché altrettanto disinvoltamente si era parlato di transizione dallo «stato del benessere alla società del benessere».
3) La contraddizione più vistosa presente nella relazione è quella tra la PREMESSA nella quale si allude, senza alcuna pratica dimostrazione, ad una società laziale che tutto sommato sa reggere l'impatto con la crisi, sa auto adeguarsi per interna vitalità, e, la parte analitica sulla realtà laziale dalla quale emerge uno stato profondo e strutturale di crisi.
4) Un aspetto per così dire CURIOSO della relazione consiste nel fatto che essa, pur contenendo un'analisi puntuale ed impietosa dell'ampia mappa dei PUNTI DI CRISI dell'apparato industriale laziale, in particolare per quanto attiene al settore dell'elettronica civile, non contiene letteralmente NESSUNA proposta di intervento regionale sulle crisi stesse.

5) I dati proposti sullo stato dell'occupazione nel Lazio sono non solo drammatici ma in via di peggioramento rispetto a tutte le medie nazionali.
Il quadro descritto nella relazione è il seguente:
- industria: - 2,2% di occupati rispetto all'anno passato (Italia: - 1,8%);
- terziario: + 2,6% (Italia: + 2,9%);
- edilizia: - 5,6% (Italia: + 2,7%).

6) Più in generale, emerge una subalternità totale alla politica economica e finanziaria restrittiva e recessiva del governo centrale, salvo qualche timido cenno critico al quale non consegue alcuna indicazione alternativa.

7) Perfino laddove la relazione esprime correttamente una critica abbastanza esplicita contro le tendenze centralizzatrici volte a mortificare l'autonomia regionale da parte dello Stato centrale, come ad esempio, rispetto alla perpetuazione dei tradizionali meccanismi di intervento straordinario nel Mezzogiorno tramite la Cassa per il Mezzogiorno che coinvolge una parte del territorio meridionale del Lazio estromettendo nei fatti il ruolo della Regione, ci si limita ad auspicare debolmente il superamento di tali meccanismi antiregionalistici senza esplicitare controproposte precise e impegnative a proposito e senza delineare il conseguente impegno politico e vertenziale nei confronti del governo centrale.

VI IL PROTOCOLLO D'INTESA TRA FEDERAZIONE UNITARIA E GIUNTA REGIONALE IN RAPPORTO AL BILANCIO 1983

Dato che buona parte dei contenuti del Protocollo d'intesa riguarda proprio l'area dei progetti da attivare mediante il meccanismo dei mutui, la realizzazione di tali intese viene a dipendere, di conseguenza, dalla reale fattibilità e realizzabilità dell'operazione mutui. Se la stessa venisse ritardata, inceppata e gravemente ridotta, l'intero Protocollo d'intesa rischierebbe di vanificarsi e di ridursi a ben poca cosa.

VII ALCUNE INDICAZIONI PER LA LETTURA DEL BILANCIO PREEVENTIVO 1983 DELLA REGIONE LAZIO

1) Relazione allegata al Bilancio

a) parte IV, in particolare sul programma dei mutui, pp. 3481-3532;
b) parte II, analisi economico-territoriale del Lazio, spunti relativi alla attività 1982, progetti per il 1983, pp. 3407-3464.

2) Cinque tabelle con la quantificazione delle risorse destinate nel triennio 1983-85 a finanziare i cinque programmi-obiettivo (sviluppo dell'apparato produttivo e dell'occupazione, politica delle infrastrutture, riqualificazione dei servizi e degli interventi per il benessere sociale, utilizzazione e assetti del territorio, organizzazione istituzionale), pp. 3512-3516.

3) Tabelle sulla sanità:

a) situazione debitori a del settore sanità dal 1975 al 1981;

b) fondo sanitario regionale di parte corrente per il 1982, pp. 3521-3522. 4) Tabelle relative ai 45-50 progetti per 14 settori da attivare soprattutto con i mutui, pago 3535.

5) Testo della legge di bilancio, pp. 3545-35/48.

6) Quadro generale riassuntivo del Bilancio per l'anno finanziario 1983, residui/competenza/cassa, pp. 3551-3553.

7) Due allegati al quadro generale riassuntivo:

a) allegato n. 1, fondo sviluppo (quota fissa, quota variabile, leggi settoriali, altre voci di entrata) e fondo per funzioni delegate con il DPR 616/77), pp. 3554-3561;
b) allegato n. 2, complesso delle risorse della Regione (fondi statali, risorse proprie, ricorso al credito) per funzioni normali (competenza: 4.806,345 miliardi) e funzioni di sviluppo (competenza: 639,429 miliardi), pp. 3557-3561.

8) Tabella A, previsione entrata 1983

6 titoli, 52 categorie, capitoli; pp. 3565-3597; riassunti e riepilogo entrate, pp. 3598-3604.

9) Tabella B, previsione spesa 1983

5 programmi-obiettivo, settori, capitoli; da pago 3607 in poi; è di grande rilevanza il settore XXVD sui FONDI GLOBALI, per finanziare oneri derivanti 48 da provvedimenti legislativi che si perfezioneranno dopo l'approvazione del

Bilancio (161 miliardi), pago 3734; riassunto spesa, pp. 3744-3760. 10) Riassunto spesa
- in 2 titoli (spese correnti e spese investimenti);
- in 16 categorie (9 categorie per spese correnti e 7 categorie per spese investimenti) ;
- in 12 sezioni funzionali;
- pp. 3763-3765.
Ciò ai fini del raccordo con l'intera finanza pubblica, per consentire la costruzione del conto consolidato del settore pubblico allargato.
11) Sei elenchi, pp. 3769-3799: .
a) spese obbligatorie (personale, interessi sui mutui, contributi costanti agli enti locali, residui passivi perenti sul piano amministrativo ma reclamati dai creditori, etc.);
b) capitoli di spesa per i quali sono possibili pagamenti mediante ordine di accreditamento a funzionari delegati;
c) garanzie prestate dalla Regione (150 miliardi);
d) capitoli di spesa rispetto ai quali si potrà attivare il fondo globale (161 miliardi) dopo l'approvazione di nuovi provvedimenti legislativi non ancora perfezionati all'atto di approvazione del Bilancio preventivo;
e) il quinto elenco è quello più importante tra gli altri in quanto è quello che definisce il programma dei mutui;
f) il sesto elenco registra i capitoli di spesa nei quali si è realizzato il saldo finanziario positivo nel 1982.
12) Bilancio pluriennale 1983-85, pp. 3801-3962:
a) previsione entrate; nel riepilogo delle entrate c'è la tabella con l'articolazione delle risorse in fondi liberi, vincolati, mutui, saldo finanziario (pag. 3815);

b) previsione spesa (da pago 3819 in poi), con 24 quadri riassuntivi dei progetti da finanziare con i mutui, con una distinzione tra interventi continuativi e «aggiuntivi» e interventi a carico esclusivo della Regione, mediante finanziamenti CEE e mediante finanziamenti di altri enti pubblici e privati;
c) quadro riassuntivo spesa nel triennio, pago 3852;
d) allegato A (interventi continuativi o ricorrenti - statali e regionali - per funzioni normali) da pago 3857 in poi;
allegato B (interventi per funzioni di sviluppo) da pago 3897 in poi; allegato C (interventi « aggiuntivi») da pago 3905 in poi.








IL DECRETO DELLA DISCORDIA  1984
C.RI.P.E.S.

Sulla vicenda del decreto sul costo del lavoro non convertito in legge sono corsi fiumi di inchiostro. Era inevitabile. Abbiamo vissuto due mesi di particolare tensione, di straordinario impegno, di vivacissima polemica. Lo scontro sindacale e politico è stato durissimo ed ha messo in discussione scelte che sembravano irreversibili e metodi di lavoro tradizionali. E' emersa, giorno dopo giorno, una diffusa e consapevole volontà di partecipazione concreta, di coinvolgimento diretto nelle scelte sul decreto. E ciò è avvenuto in molti modi: con gli scioperi, con il referendum, con la raccolta delle firme, con le petizioni in Parlamento e con la eccezionale, ineguagliabile manifestazione del 24 marzo a Roma. In Parlamento il PCI, dopo vent'anni, è ricorso di nuovo all'ostruzionismo.
Da più parti è stato affermato che dopo la esperienza dei 60 giorni di polemica e di lotta sul decreto nulla rimarrà come prima. Nel sindacato, infatti, è stato rimesso in discussione praticamente tutto: il tipo di unità sindacale da costruire, l'autonomia sindacale, la democrazia interna, il rapporto sindacato-Stato, sindacato-istituzioni, il ruolo delle strutture sindacali di base. Si è tornati a discutere sul significato, oggi, del sindacato di classe, sul ruolo dei consigli di fabbrica e di azienda.
Su questi argomenti si è esercitata la riflessione e la polemica, si sono dette e scritte cose di fuoco e molti sono "usciti allo scoperto" con l'inusitato linguaggio della franchezza rivelando pensieri e sentimenti mai fatti conoscere prima.
Abbiamo voluto raccogliere le più significative posizioni espresse da alcuni protagonisti di quelle straordinarie giornate ripercorrendo le tappe della indimenticabile battaglia con l'intento di offrire ai militanti sindacali, ai lavoratori, una ulteriore occasione di riflettere su una vicenda veramente emblematica per tutto il movimento operaio e democratico.
Ringraziamo Giuseppe De Santis che ha curato con intelligenza e rigore la pubblicazione, per conto del C.RI. P.ES., di questo dossier.

Leo Canullo

Capitolo primo
LA PAROLA AI PROTAGONISTI

Parlano alcuni protagonisti di queste settimane comunque straordinarie: Lama, Carniti, Del Turco, Trentin, Merloni e altri. Così alcuni dei delegati protagonisti delle autoconvocazioni prima, dei coordinamenti, della giornata del 24 marzo, poi. Parlano in presa diretta, mediante interviste a caldo, nel vivo degli eventi, delle polemiche, delle lotte.
Apre la serie la celebre e perentoria intervista a Lama, dal titolo emblematico "Un pugno di mosche in cambio dell'anima", in cui rivendica fino in fondo la giustezza del rifiuto da parte della maggioranza della CGIL di apporre la propria firma ad una intesa che rischiava di mutare la natura stessa del sindacato italiano (La Repubblica, 18/2/84).
Trentin affonda la sua analisi, con la lucidità che gli è consueta, all'interno dell'intero decennio passato, alla ricerca delle radici anche più lontane dell'odierna crisi sindacale, di cui individua una causa negli stessi difetti congeniti del patto federativo del 1972, in particolare nel fatto che esso ha sancito una sorta di DICOTOMIA tra strutture sindacali esterne al posto di lavoro e consigli dei delegati, la schizofrenia di un movimento sindacale che sarebbe proceduto, dal 1972 in poi, su una "doppia velocità": burocratica nei suoi centri di direzione e partecipata nelle sue istanze di base, cioè nei consigli (TI Manifesto, 23/2/84).
Tra i segni più inquietanti emersi nel recente terremoto politicosindacale, campeggia certamente quello scritto da Carniti con l'intervista all'Europeo. Estrema forzatura polemica, minaccia tattica o vero e proprio progetto politico di fondo che sia, resta una delle eredità più pesanti e provocatorie di questi giorni. Essa non può essere ignorata e accantonata nel dimenticatoio delle cose effimere. Occorre riflettervi fino in fondo, senza fingerne l'inesistenza, proprio per poterla combattere con estrema determinazione. L'ipotesi è grave, la tentazione di sperimentarla potrebbe consolidarsi. E' quella della costruzione di un sindacato governativo, incentrato su un progetto egemonico della CISL e di un sindacato di opposizione, nel quale andrebbero ricacciati ed isolati i lavoratori comunisti. Secondo uno schema che De Mita ha immaginato per tutta la società italiana, per cui, in un universo riduttivamente bipolare, tutta la ricca realtà politica e sindacale italiana, si ridurrebbe ad una tenaglia dentro la quale rimarrebbero schiacciate, tra il polo conservatore e quello rappresentato dal PCI, tutte le altre esperienze politiche e culturali presenti in Italia. Tutti capiscono che con un sindacato di questo tipo e nella polarizzazione che deliberatamente cerca di imporre (tra sindacato di regime e sindacato di opposizione), non c'è più spazio per le minoranze, non c'è più spazio per l'autonomia sindacale.
Ben altro è il senso politico profondamente unitario della manifestazione del 24 marzo. "L'esperienza del movimento, la stessa gioiosa fiducia presente nei partecipanti alla manifestazione esprimeva la sicurezza di una forza ih grado di riappropriarsi della direzione del movimento sindacale attraverso un profondo rinnovamento dei suoi metodi di decisione ... La manifestazione del 24 è vincolante nei suoi mandati: ha espresso una domanda di partecipazione e di democrazia che non potrà mai più essere elusa, almeno dalla GCIL".
Appunto, la CGIL. Osserva giustamente Del Turco: "Questa situazione di divisione nella CGIL non può reggere per molto tempo. La divisione e i dissensi o si risolvono subito, oppure un'organizzazione come la nostra, di quattro milioni e mezzo di iscritti, è destinata a conoscere momenti ancora più drammatici" (La Repubblica, 31/3/84). Ma, se è pur vero che quanto è avvenuto non è un INCIIDENTE DI PERCORSO, allora occorre risolvere attraverso una NUOV A sintesi unitaria i problemi esplosi, si senza inutili esasperazioni settarie, ma senza rimuovere e illusoriamente diplomatizzare le ragioni profonde dei dissensi e dei problemi: si tratta di assolvere da parte di tutti, intanto nella CGIL, al mandato del 24 marzo, dei consigli, dei delegati.
Le interviste ai delegati testimoniano questo: esiste, vitale e propulsivo, un radicatissimo tessuto di democrazia unitaria di base, fondato sull'esperienza dei consigli, fatto di retroterra economicole e di storie diverse, di età e cultura diverse, ma che chiede ostinatamente di non essere ulteriormente mortificato, ma di tornare al centro della vita democratica del sindacato, rinnovandone i contenuti rivendicativi, i modelli contrattuali, gli assetti salariali. Si rifletta attentamente da parte di tutti, sugli spaccati di storie di vita e di viva milizia sindacale presenti nelle conversazioni qui di seguito raccolte. Si colga l'insieme e i il senso di queste storie, prima di gridare agli autoconvocati, agli arroccati, agli operaisti, ai movimentisti, agli islamici. La storia, ad esempio, di Giovanni Landi, 48 anni, operaio alla aNi di Brescia, delegato della CISL, tra i massimi promotori delle lotte e della manifestazione del 24 marzo, attualmente in polemica ma interno alla sua organizzazione, la CISL, militante democristiano che appunto del proprio partito dice: "Se c'è un partito aperto, deemocratico, molto più democratico del sindacato, è proprio questo strano partito che è la DC". La storia di Gianguido Naldi, 34 anni, tecnico della Gd, comunista bolognese, il quale, volendo indicare all'intervistatore che è diverso il giovane delegato di fabbrica di oggi da quello degli anni 60, conclude l'intervista dicendo: " Amo Kafka ed Herman Hesse, ma non mi dispiace Flaubert". Se è vero, che questi delegati non rappresentano tutto l'universo, in via di modificazione, del lavoro dipendente, è pur vero che senza o contro di loro non è possibile la vita e il rinnovamento del sindacato italiano.

Capitolo secondo
CRISI E RINNOVAMENTO DEL SINDACATO

"Voltiamo pagina": . questa è la lezione dei fatti. Rinnovare il sindacato. Voltare pagina, ma. per dove? La ricerca è aperta. Dirigenti sindacali, politici, intellettuali tracciano, in questo capitolo, alcune direttrici di marcia, pongono opzioni, anche alternative: primato della democrazia rappresentativa delle strutture sindacali o della democrazia diretta o sintesi tra organizzazione e movimento; quale tipo di centralità unificante della battaglia per il lavoro; rinnovamento unitario della CGIL o scissione. Tre punti, in qualche modo unificanti, sembrano emergere dal dibattito. Primo: è la crisi del sindacato, di tutte le confederazioni, CGIL compresa. Secondo: la crisi nasce essenzialmente dalla obsolescenza sindacale rispetto alle trasformazioni del lavoro. Terzo: è necessaria una profonda riforma della struttura e dei contenuti della contrattazione.
Il rinnovamento, dunque. Ma, da dove muovere, a quali forze attingere? Lama non ha dubbi a proposito: "la conquista di una nuova frontiera nella strategia deve essa opera, oggi come negli anni 50, del sindacato, di questo sindacato". Non è dalle ceneri, dalla dissoluzione di questo sindacato che "potrebbe sorgere il sindacato di domani, come l'araba fenice della mitologia greca". Occorre radicare il rinnovamento nell'humus più peculiare e vivo del patrimonio unitario del sindacalismo italiano: quel tentativo originale di sintesi, da riconquistare ed innovare giorno per giorno, tra difesa degli interessi immediati dei lavoratori occupati e difesa degli interessi generali degli occupati, dei disoccupati, dei pensionati. Il rinnovamento abbisogna di molti contributi, a partire dai luoghi di lavoro, e di una mobilitazione dei cervelli, delle esperienze di tecnici, ricercatori, economisti, esperti di organizzazione aziendale. Perché "la forza, prima ancora della legittimità, vera di un sindacato consiste nel grado di partecipazione e di consenso che esso riesce a stabilire e mantenere con la massa dei lavoratori interessati" (L'Unità, 19/2/84). Presupposto imprenscindibile: fare i conti con il movimento reale che si è di spiegato nel Paese. Sul movimento sono legittime valutazioni diverse, ma da parte di tutti ne va riconosciuta la legittimità e la rappresentatività.
Rinnovamento democratico e rinnovamento dei contenuti del sindacato; due facce della stessa medaglia.
I dirigenti della CISL di Venezia, nella lettera aperta ai consigli, nell'assumere che "le lacerazioni di questi giorni sono il risultato di anni di crisi di iniziativa sindacale", richiamano tutti a perseguire effettivamente la centralità dell'occupazione, anche nel senso della riforma e della redistribuzione del lavoro esistente (L'Unità, 13/4/84).
"Se un sindacato nuovo deve sorgere, questo non potrà essere basato su motivi contingenti ma sui caratteri che l'evoluzione economica e sociale andrà sviluppando: è questo il punto di vista assunto da Giacarlo :Mazzocchi, economista, dell'area democristiana. Tre sono le tendenze fondamentali da fronteggiare: l'irrefrenabile internazionalizzazione dell'economia; l'accelerata mobilità delle risorse e fra esse del lavoro; le trasformazioni del lavoro e delle professioni. A quest'ultimo proposito, Mazzocchi è convinto che "per il futuro del .3indacato la questione più grave e complessa rimarrà quella di costruire la navicella per atterrare su quel pianeta sconosciuto che è il mondo dei servizi e del terziario" (Il Giorno, 1/4/84).
Altro sembra essere l'approccio di Mario Mezzanotte, responsabile nazionale dei problemi sindacali del PSI, che focalizza l'attenzione sugli sbocchi che, a suo avviso, potrebbe avere la stessa lacerazione interna alla CGIL. Mezzanotte non esita ad alludere crudamente, perfino nei particolari tecnici, ad un vero e proprio processo di scissione della CGIL. Tra le vie d'uscita alle lacerazioni ve n'è una "imposta dalla forza cieca delle cose, che ha un esito abbastanza obbligato: rimangono da definire solo le procedure operative, anche queste abbastanza scontate: i singoli componenti della corrente socialista della CGIL nazionale non dovrebbero fare altro che comunicare ai datori di lavoro, sia pubblici che privati, con atto formale, l'avvenuta loro costituzione in componente autonoma e così richiedere - categoria per categoria - che i contributi sindacali vengano devoluti ad un loro fiduciario, nella proporzione sancita del numero dei firmatari facenti parte degli organi statutari: la parola successiva spetterebbe ai legali che dovrebbero dirimere' la questione della divisione patrimoniale" (L'Avanti!, 28/3/84).
Sul tema discriminante e scottante dei consigli dei delegati, le opzioni sono alternative e contrapposte. Rilancio qualificato dei consiglio dissoluzione. Non mancano posizioni teoriche e strategiche, se non altro apprezzabili per la loro cruda franchezza, le quali prevedono la liquidazione dei consigli e il ripristino delle sezioni aziendali delle singole confederazioni. Si veda la posizione, sotto questo profilo esemplare del giurista Federico Mancini (Sole 24 Ore, 10/3/84).

Emblematica nel rappresentare elementi di dibattito e di orientamento presenti nell'area socialista, in particolare per quanto attiene le forme organizzative di rappresentanza del sindacato dopo gli eventi del 14 febbraio, è la tavola rotonda di "Mondo operaio. Netta appare l'accentuazione alla valorizzazione del primato della democrazia rappresentativa degli apparati sindacali. Ma allora, i consigli?

Capitolo terzo
IL MOVIMENTO

Il 24 marzo: una data emblematica e discriminante nella recente cronaca sindacale e politica. Forse, una di quelle giornate destinate a rimanere, oltre la cronaca. I materiali di questo capitolo ruotano, appunto, attorno alla manifestazione del 24 marzo. Ne sono protagonisti i consigli e la CGIL, "La carta della democrazia" del Palalido e il discorso di Lama a Piazza S. Giovanni. Preme, su tutto, la domanda di democrazia da parte del movimento, per una "rifondazione democratica e pluralistica del sindacato, ricostruendo la partecipazione dei lavoratori adesso", com'è scritto nella introduzione ai 5 punti della "carta della democrazia", approvata dall'assemblea nazionale dei 5.000 delegati presenti al Palalido di Milano. Il 24 marzo è stato oggettivamente il banco di prova, di massa, della forza, della maturità politica e sindacale, della tensione unitaria e rinnovatrice del movimento: affermazione della legittimità del movimento, al di là dei giudizi diversi che nei suoi confronti possano esprimersi.
Per la verità, nei giorni immediatamente precedenti la manifestazione del 24, sul movimento si è detto tutto e il contrario di tutto: soggetto "rifondatore" del sindacato o, al contrario, affossatore di 20 anni di storia sindacale. Assolutamente prevalenti, prima del 24 marzo, i giudizi allarmistici, anche velenosi, con punte grevi:
"Dopo gli scioperi di partito, la grande adunata del 24, altrettanto di partito, che si sta preparando per rivendicare il diritto di veto del PCI, presenta pericoli già ampiamente sottolineati. Il pericolo che il corteo di Roma segni un solco incolmabile nell'unità sindacale; il pericolo che l'estremizzazione della protesta dia fiato alle velleità delle frange rivoluzionarie, avveleni ulteriormente i rapporti fra le forze politiche, trasformi la maschera cunhalista, indossata dal PCI, da travestimento momentaneo, come molti comunisti auspicano, in connotato duraturo ( ... ). Alla unicità della manifestazione si aggiunge la difficoltà a spiegarla secondo la logica prevalente nelle democrazie moderne ( ... ). La ricerca allora scivola inevitabilmente verso altri modelli di comportamento politico: le adunate islamiche, come le ha definite Carniti, oppure i grandi raduni peronisti, o quelle mobilitazioni negli stati totalitari comunisti".
Il 25 marzo mattina, preconizzato da alcuni come l'incerto day after, il giorno dopo apocalittico della dissoluzione del sindacato italiano, ognuno poteva leggere, su gran parte della stampa nazionale, su alcuni degli stessi quotidiani artefici della precedente campagna di demonizzazione, cronache e giudizi, sulla manifestazione, di segno completamente diverso, o comunque più veritieri e sensati. "La Stampa" deve ammettere che "non basta dire che il successo era scontato e che aver portato a Roma un milione di lavoratori mentre nelle capacità di mobilitazione del PCI e della CGIL. Questo è vero, ma lo è altrettanto il fatto che queste persone sono venute con le loro gambe perché sentivano che la convocazione corrispondeva alle loro idee". Giovanni Russo, sul "Corriere della Sera" individua la novità della manifestazione, "che la toglie dalla serie delle tradizionali dimostrazioni protestatarie", nel "riconoscimento che occorre ormai un sindacato nuovo, democratico, veramente rappresentativo, accompagnato dall'autocritica di non aver avvertito in tempo le novità dei processi produttivi e la nascita di fasce nuove di lavoratori". Gianni Rocca, su "la repubblica" osserva che il 24 "è stato un happening popolare, quale da tempo non era dato da vedere", realizzato da "quel composito popolo di sinistra, fatto di operai, impiegati, studenti, pensionati", quel popolo che "si riscopre ludico e gioioso nelle sfilate del 10 maggio e teso e politicizzato nelle risposte di piazza alle truffe dei governi o alle stragi dell'eversione". Perciò, secondo Rocca, "domani la battaglia riprenderà, ma con nuove consapevolezze da parte di tutti. Checché ne dicano i teorici della scheda bianca, c'è un paese che segue, che partecipa, che vuol contare. un paese maturo".
Il 24 marzo è stato molte cose, anche il discorso di Lama. Si può dire che tutti i commentatori hanno dovuto misurarsi con lo spessore del messaggio che Lama ha lanciato da Piazza S. Giovanni a tutto il paese, al Parlamento, a tutto il sindacato, quale espressione della razionalità politica della composita realtà di quel popolo raccolto nella piazza, protagonista di 60 giorni di lotta. Razionalità fondata su caposaldi fermi ed inequivocabili. Le istituzioni democratiche: "Questa piazza non si contrappone al Parlamento, ma ne rispetta e ne esalta i poteri". La democrazia sindacale: "Noi non pensiamo, come qualcuno ha detto di scioglierci nel movimento, ma vi vogliamo affondare radici indistruttibili, perché soltanto dall'identificazione dell'organizzazione con le masse dei lavoratori nasce la forza del sindacato e la sua vera unità". n rinnovamento delle politiche rivendicative: "Ogni conquista sindacale, anche la più autentica e fondamentale, è legata al suo tempo. Mitizzare certe conquiste del passato, rinunciando a vedere ciò che passa sotto i nostri occhi e. che cambia, è errore grave. Per questo noi abbiamo deciso una ricerca libera, senza schemi prefissati, per una riforma profonda delle politiche contrattuali e salariali". L'unità: "Anche in presenza di questa grande manifestazione non ci acceca l'orgoglio, non nutriamo la pretesa boriosa di bastare a noi stessi e di rappresentare da soli l'intero movimento operaio".


Capitolo quarto
COMMENTI

Quale futuro per il sindacato? Qual'è la natura profonda della crisi sindacale, quali le sue cause non contingenti? Sono i due quesiti centrali attorno ai quali ruotano i commenti - raccolti in questo capitolo - di Accomero, Cassase, Giugni, Asor Rosa, Foa, Ardigò, e altri economisti, sociologi, studiosi di relazioni industriali. Si tratta di approcci diversi, di analisi e previsioni variegate, tutte più o meno ricche di intuizioni e suggestioni, comunque significative: il rapporto tra le recenti strategie della CISL e l'atteggiamento della CGIL, l'invito al sindacato affinché torni "a fare il proprio mestiere", la previsione della "società post-sindacale", eccetera.
Un nodo centrale posto è quello del rapporto tra CISL e CGIL.
Per Dal Co "la resa dei conti oggi in atto trova radici in un processo di divaricazione tra la linea della CISL e quella della CGIL, che si manifesta con l'esaurirsi della cosiddetta linea dell'Eur". A fronte delle scelte operate dalla CISL, verso la stabilizzazione di una sede centrale di confronto con il governo nella suggestione delle teorie della scambio politico, mediante la redistribuzione del potere negoziale all'interno dei vari livelli dell'organizzazione con la completa delega dell'iniziativa POLITICA nelle mani del gruppo dirigente confederale e la residua compentenza SINDACALE nelle mani delle organizzazioni di categoria e aziendali, non è venuta, secondo Dal Co, da parte della CGIL una indicazione strategica alternativa, la quale si è attestata di fatto su una posizione essenzialmente difensiva. Il risultato è stato quello di una neutralizzazione reciproca tra le diverse strategie sindacali. Lo stesso accordo del 22 gennaio 1983 registra uno stallo, risulta un puntello temporaneo, al di là del quale tutti i nodi della crisi della politica rivendicativa rimangono irrisolti (Politica ed economia, 3/84).
Quale rapporto vi è tra la crisi del sindacato quale "soggetto politico" e i ritardi del sindacato nel rappresentare il lavoro che cambia? Ecco un altro nodo centrale. A questo proposito, tra i più lucidi e sferzanti è il contributo di Accornero, per il quale, intanto, "non si può dire che il dibattito di queste settimane abbia già dato sufficienti spunti di discussione, sul presente e sul futuro del sindacato". Anzi, "sta di fatto che sull'essere e sul divenire del sindacato si leggono soltanto orgogliose rivendicazioni di purezza e consolanti certezze di ruolo". Al contrario, Accornero invita a dire la verità su alcuni scogli brucianti, a porsi delle domande vere e non degli interrogativi retorici. Accornero individua quattro priorità: sottoporre a verifica critica l'esperienza del sindacato quale "soggetto politico" nel corso dell'ultimo quindicennio, piuttosto che attardarsi attorno all'astratta alternativa "centralizzazione sÌ e centralizzazione no"; costruire REGOLE CERTE della democrazia sindacale diretta e rappresentativa; riformare la scala mobile; fare i conti, sviluppandone tutte le potenzialità rinnovatrici, con quel ciclo diffuso di accordi aziendali in cui si contrattano i piani di ripresa e di sviluppo delle imprese "che consistono nel costruirsi e definirsi a livello aziendale di nuovi sistemi di convenienze tra lavoratori e imprenditori, in cui il sindacato recupera il suo ruolo" di rappresentanza del lavoro che cambia (Rinascita, n. 11,1'6/3/84).
Una delle linee di riflessione riemerse nel dibattito è quella del ritorno al proprio mestiere". Sotto questo profilo, emblematica e, per certi versi, liquidatoria è la tesi di Cassese per cui, dato che i sindacati registrano via via maggiori difficoltà a rappresentare interessi generali, occorre prendere atto che i sindacati si sono spinti, troppo in avanti assumendo ruoli e competenze improprie e perciò insostenibili. "A questo punto sono maturi i tempi perché ognuno torni a fare il suo mestiere", conclude Cassese, alludendo ad un sindacato confinato nella fabbrica che rinuncia definitivamente ad ogni velleità di proporsi come soggetto politico autonomo della trasformazione (TI Messaggero, 13/3/84).
Il futuro del sindacato prevede anche un futuro "senza" sindacato, addirittura una SOCIETA' POST-SINDACALE. Per Giugni la rottura sindacale, appena consumata si apre a due scenari con esiti totalmente divergenti. "Una positiva, qualora essa costituisse la premessa per la liberazione di latenti energie creative, capaci di un grande impegno di ricerca e di rinnovamento, in cui la concorrenza tra identità diverse, la concordia discors, produca ciò che l'unità priva di contenuti non era riuscita a produrre". L'altra eventualità, "con la distruzione del tessuto e con esso del valore unitario, può accelerare la crisi di rappresentatività, sostanziandosi nel rifiuto dei lavoratori a identificarsi con una sigla confederale". Questo secondo Giugni è l'esito più probabile. "C'è la prospettiva, densa di incognite, che la società post-industriale in formazione sia anche una società post-sindacale" (La Repubblica, 14/3/84). Più concreti, più lontani da suggestioni sociologiche e futurologiche, risultano quegli approcci che pongono la domanda: quale sindacale per quale politica economica, per quali alleanze? Asor Rosa indica nell'alleanza delle forze produttive contro la rendita finanziaria, immobiliare e dell'intermediazione, nel patto tra i produttori, nell'alleanza per lo sviluppo - richiamando significativamente il Comitato Centrale del PCI introdotto da Reichlin, svoltosi nel novembre 1983 l'asse strategico insieme del rinnovamento e del rilancio del sindacato e della sinistra (La Repubblica, 21/3/84).
Nel complesso dei commenti appare di non secondario rilievo l'atteggiamento di Tarantelli nei confronti del decreto del 14 febbraio, di cui, in qualche modo, egli stesso ha una sia pure indiretta e lata paternità. Tarantelli sembra preoccupato e impegnato, innanzitutto, a prendere le distanze dal decreto stesso. Sostiene che il decreto non realizza, sul piano dei contenuti, alcuna vera forma di scambio politico a favore del sindacato, soprattutto perché manca al suo interno l'attacco a "forme gravi e antiche di vera indecenza amministrativa, dall'evasione fiscale al clientelismo della spesa pubblica". Poi, sulla base della riproposizione della strategia della PREDEE'n:RMINAZIONE SALARIALE, Tarantelli propone due linee di intervento: realizzare un vero scambio politico che includa risultati significativi come l'imposta patrimoniale ordinaria e la ricostruzione di una congrua contrattazione aziendale come necessaria e compatibile interfaccia dello scambio politico centralizzato (La Repubblica, 28/2/84) .
La ClsL è il tema privilegiato di Ardigò. Secondo il politologo cattolico Carniti "abbandona la tradizione e il sindacalismo e del movimento sociale dei cattolici e non si accorge che consegnandosi ad una trattativa centralizzata con il governo, il sindacato come è oggi muore nel giro di dieci anni" (L'Unità, 8/4/84).
In un ambito più specificamente teorico, l'attuale bufera sindacale ha riproposto contributi e attualizzato studi e ricerche che, pur muovendosi in un orizzonte teorico generale, possono risultare stimolanti anche ai fini più immediati della prassi sindacale. A titolo di semplificazione, si richiamano, in questo capitolo, da una parte ricerche sulle mutazioni della stessa soggettività operaia e dall'altra si propone una "scheda" di Carrieri su alcune linee di ricerca assunte da studiosi delle relazioni sindacali nello scenario della recessione e della crisi dello stato sociale. In particolare Carrieri sembra individuare il problema dei problemi, per ciò che attiene la crisi sindacale e la crisi del negoziato centralizzato, nel sistema politico complessivo, in particolare in tre elementi interconnessi: l'instabilità delle coalizioni governative, l'inadeguatezza riformatrice dei programmi delle suddette coalizioni governative, e, l'insufficienza delle strutture amministrative e attuative dei programmi governativi (Il Manifesto, 22/3/84).

Capitolo quinto
LA BEFFA FISCALE

L'attacco al salprio e lo scandalo fiscale: é il binomio che, da solo, svela la natura c1assista dello scontro sociale, sindacale e politico in atto. Non poteva mancare in questo dossier uno specifico spazio sulla beffa fiscale: i dati del "libro bianco" del fisco sui redditi dichiarati per l'anno 1981, il commento graffiante e straordinariamente efficace di Scalfari, le riflessioni severe di Pellicani sull'impegno che un riformismo vero deve spendere per sradicare lo scandalo fiscale, le analisi e le proposte di alcuni tra i massimi esperti dei problemi della finanza pubblica: Visco, Cavazzuti, Riva.
I dati del "libro bianco" del ministro Visentini parlano da soli.
Nel maggio del 1982 gli italiani hanno denunciato al fisco per i redditi del 1981 un reddito medio annuo lordo di 8,6 milioni, poco più di 600 mila lire nette al mese. Le persone che quest'anno hanno guadagnato al di sotto dei lO milioni sono il 66% del totale, ben il 91 % è sotto i 15 milioni. Commercianti e imprenditori denunciano redditi medi intorno ai 7 - 8 milioni annui, inferiori a quelli di molti lavoratori dipendenti. Quasi il 60% delle aziende ha denunciato perdite o redditi nulli. Solo 16 mila persone dichiarano di aver percepito oltre 100 milioni nel 1981. Insomma, paga sempre e soltanto Pantalone, il lavoratore dipendente. Le cifre sono impressionanti e oggettivamente provocatorie, mettono sotto accusa l'intero assetto c1assista dei rapporti sociali e il complesso delle forze sociali e politiche dominanti del paese. Come si può accettare che, nelle medie dei dati, un operaio denunci 300 mila lire in più di un imprenditore? Che soltanto 16 mila italiani denunciano oltre 100 milioni?
N on si tratta soltanto e soprattutto di una esplosiva questione di giustizia, di basilare equità. Anzi, la questione sociale, la questione sindacale si intreccia sempre più con la questione fiscale. Proprio la crisi economica, l'inflazione, il peso soffocante delle rendite, l'attacco al salario hanno via via imposto e radicalizzato, per il sindacato, la centralità della questione fiscale in termini storicamente inediti. Per i lavoratori dipendenti e per il sindacato la centralità. del fisco si pone almeno sotto quattro profili:
l) la battaglia per l'occupazione, architrave dell'attuale strategia sindacale, a partire ad esempio dalla necessità del finanziamento pubblico degli stessi piani straordinari per l'occupazione giovanile nel mezzogiorno e di sostegno pubblico ai contratti di solidarietà, questa battaglia sarebbe pregiudicata senza una redistribuzione massiccia di risorse, mediante una robusta inversione di tendenza nella politica fiscale, specie in una fase nella quale la rivoluzione tecnologica in atto ha polverizzato la tradizionale equazione "più investimenti eguale più occupazione";
2) la riforma della struttura del salario, che se non si vuole rischiare di ridurla ad un abbassamento della copertura media assicurata dalla scala mobile prima del decreto del 14 febbraio a danno delle fasce medio-basse dei lavoratori, richiede da una parte l'eliminazione strutturale del drenaggio fiscale sulla busta paga e dall'altra parte, in considerazione della necessità unanimamente condivisa di abbattere i fenomeni gravi di appiattimento del ventaglio delle retribuzioni aggravati dall'attuale struttura della scala mobile a punto unico e che penalizza le fasce medio-alte delle professionalità, richiede nell'ambito della riforma delle indicizzazioni e della scala mobile l'uso dello strumento fiscale, probabilmente in termini di meccanismi di defiscalizzazione da individuare e precisare nel corso del dibattito già avviato per la riforma della struttura del salario, in modo che l'obiettivo giusto e improcrastinabile di superare gli appiattimenti delle fasce medio alte di lavoratori non si traduca in una simmetrica penalizzazione delle fasce medio-basse;

3) per il sindacato, l'asse di una seria politica economica oggi non può essere quella della com'pressione ulteriore del salario ai fini di ricostruire per questa via soltanto i necessari margini di accumulazione per le imprese, ma deve essere quella di spostare risorse dall'area gigantesca - peraltro arricchita dall'inflazione a due cifre dell'ultimo decennio - della rendita finanziaria, immobiliare e dell'intermediazione all'area dello sviluppo, dell'uso produttivo delle risorse, costruendo su queste convenienze reciproche l'alleanza delle forze produttive (imprese e lavoratori), per lo sviluppo, contro le forze del parassitismo, delle economia cartacea e finanziaria, del vero partito dell'inflazione;
4) la giustizia fiscale è il presupposto elementare per politiche efficaci ed eque di rigore per lo sviluppo, e, per la stessa tenuta della compagine sociale in termini di convivenza democratica. Non a caso la piattaforma della Federazione Unitaria, posta a base della stessa trattativa con il governo, poneva il fisco - con le tre richieste centrali dell'imposta patrimoniale ordinaria, della tassazione dei titoli di Stato, dell'effettiva inversione di tendenza nella tassazione dei lavoratori autonomi - quale architrave della propria proposta. A queste proposte, da parte del governo sono state contrapposte soltanto vaghe promesse e qualche misura poco significativa. TI fisco, nella sostanza, poteva essere un punto importante per la possibile adesione della CCIL all'accordo: qui, sul piano dei contenuti, si è prodotta la rottura da parte della maggioranza della CCIL nella notte di San Valentino. Perciò, allorquando agli inizi di aprile, nel momento più aspro dello scontro nel paese e nel Parlamento sul decreto, fu pubblicato il "libro bianco" sul fisco, esso ebbe l'effetto di un fulmine a ciel sereno, un impatto destabilizzante tra gli alfieri del decreto, perché esso rendeva materialmente visibile, non solo l'ingiustizia, ma soprattutto la pochezza dal punto di vista della politica economica della filosofia contenuta nel decreto. .
E comunque da qui, dal fisco, che occorrerà ripartire oggi, costruendo un vero e proprio movimento popolare per la giustizia fiscale, quale base per una svolta nella politica economica, di una fattibile battaglia per l'occupazione, per un uso riequilibratore della leva fiscale nella stessa riforma della struttura del salario. C'è da augurarsi soltanto che le tante lacrime di coccodrillo versate copiosamente attorno al "libro bianco" non si traducono, per l'ennesima volta, nella solita, intollerabile prova di ipocrisia trasformistica. Che almeno tutte le organizzazioni sindacali diano prova di fattiva coerenza, oltre le piattaforme scritte e poi abbandonate in modi sin troppo disinvolti, gli appelli, le parole.
Così Scalfari si rivolge al Presidente del Consiglio: "Avanti, onorevole Craxi. Lei che ha fornito di sé una immagine tanto volitiva di combattente di buone cause, non vuole cimentarsi con la sola causa che vale la pena di essere affrontata fino in fondo! ( ... )
"Finora lei ha aperto una guerra tra poveri per portare a casa qualche spicciolo prelevato dalle solite tasche. Non si può dunque stupire se incontra così vivaci resistenze. Ma provi a mirare più alto. Ci sono almeno quarantamila miliardi da recuperare alle casse dello Stato. Si dia da fare e passerà alla storia" (La Repubblica, 1-2/4/84).
Anche Pellicani, noto intellettuale socialista, proprio sullo scandalo fiscale, che è - a suo parere -la vera questione morale del paese, richiama le carenze il riformismo del PSI: "Occorre passare dalle enunci azioni . di principio alle realizzazioni concrete. In caso contrario, la filosofia riformista si trasforma o in vuota retorica o, peggio, in un inganno e autoinganno" (TI Giorno, 2/4/84).
La questione fiscale è materia centrale, complessa e delicata. Per affrontarla sul serio occorre sgomberare il terreno dagli equivoci, dalle improvvisazioni, dagli approcci velleitari e distorti, soprattutto per quanto attiene la distinzione di ruoli istituzionali, di rappresentanza, l'attribuzione costituzionale delle compentenze. Se da una parte non è contestabile in alcun modo ai lavoratori dipendenti organizzati nel sindacato il diritto di porre al centro delle proprie piattaforme di politica economica i temi fiscali, di battersi coerentemente per l'equità fiscale e di operare autonomamente opzioni contrattuali e salariali che tengano conto anche dell'assetto fiscale del paese e cioè della complessiva distribuzione dei redditi e della ricchezza; dall'altra parte, il fisco è materia di cui ha la suprema compentenza il Parlamento.

Opportunamente nota Riva che "la patente ingiustizia del sistema fiscale è questione che non può essere sommata o confusa con altre perché essa ha una valenza politica che la pone, per suo conto, in cima ai tanti problemi emergenti nel paese. ( ... ) La questione fiscale coinvolge principi che non possono essere oggetto di scambio con alcunché".
"Per esempio, è avvilente l'idea stessa che, nel protocollo d'intesa tra governo e sindacati, sia stato inserito un impegno dell'esecutivo a un maggiore rigore tributario come condizione per ottenere arrendevolezza dalla controparte sulla scala mobile" (La Repubblica, 3/4/84).
Altri contributi, quelli di Visco e Cavazzuti, contengono proposte anche tecnicamente puntuali di riordino fiscale. Piro, capogruppo PSI alla commissione finanze e tesoro della Camera, fa il punto sui risultati passati, sulle misure recenti e sulle proposte per l'immediato futuro, da parte del governo, in materia fiscale (Avanti!, 5/4/84).
Insomma lo stesso movimento di lotta, espressosi in queste settimane, oltre la lotta nei confronti del decreto-bis sulla scala mobile, l'iniziativa per sviluppare la contrattazione articolata e aziendale, l'avvio del dibattito di una nuova riforma della contrattazione e della astruttura del salario, se vuole porre concretamente e non retoricamente al centro la battaglia per l'occupazione, non può prescindere dalla immediata necessità di incardinare l'intera iniziativa proprio sulla riforma fiscale, contro lo "schifo" di cui parla no gli stessi responsabili dello stesso.

Capitolo sesto
LO SCONTRO POLITICO

La rottura dell'unità sindacale e l'inequivocabile esplicitazione della crisi' di tutto il sindacato, due mesi intensissimi di lotte, scioperi, cortei, con la più grande manifestazione di massa - quella del 24 marzo - dell'Italia repubblicana, uno scontro parlamentare tra i più aspri che la storia parlamentare degli ultimi anni ricordi, una contesa dura tra i partiti della sinistra di intensità inquietante, il riaffiorare di argomentazioni e toni polemici tra maggioranza e opposizione che hanno riportato alla memoria gli anni '50: tale bufera, tutto questo terremoto politico-sindacale per tre-quattro punti di scala mobile tagliata? E' stata un po' questa la domanda che è stata posta, e legittimamente per cogliere la portata e la natura dello scontro in atto, e anche posta in termini retorici e strumentali magari per accusare l'opposizione politica di sinistra di ostilità preconcetta contro il Presidente del Consiglio socialista e bollare il complessivo movimento di lotta espressosi nel paese come agitazione prodotta e strumentalizzata di un partito, il PCI, senza alcuna specifica connotazione sindacale.
Di che si è trattato?
Di uno scontro tutto sindacale, o al contrario tutto politico, o di un modesto scontro sindacale enfatizzato strumentalizzato e travolto da una ben più ampia contesa politica, o ancora di un grande scontro sindacale che per la sua stessa portata generale si è allargato oggettivamente investendo l'intera sfera politica del paese?
La verità, come i fatti si sono incaricati di dimostrare nell'arco di qualche settimana, è che si è trattato insieme, da una parte, di uno scontro di carattere genuinamente sindacale e, dall'altra parte, di uno scontro politico oggettivamente interconnesso alla portata generale dello stesso scontro di natura sindacale: ambedue da assumere per quel che sono, senza inutili rimozioni, ma senza rinunciare alla virtù della distinzione tra gli aspetti sindacali, quelli politici, gli inntrecci peraltro inevitabili tra queste due sfere.
Il movimento di lotta sindacale e lo scontro politicore hanno molteplici regioni sindacali e politiche. Sotto il profilo sindacale:
l) il taglio del salario, anche ma non solo con la decurtazione dei punti di scala mobile;
2) la predeterminazione della scala mobile e quindi la istituzionalizzazione della trattativa annuale centralizzata sul salario;
3) l'attacco autoritario, mediante il decreto, alla libertà e autonomia della contrattazione;

4) la riproposizione, nella filosofia sottesa al decreto, di una politica economica iniqua ed inefficace tutta centrata sul costo del lavoro ;
5) l'ulteriore e pesante mortificazione della democrazia sindacale e del rapporto democratico tra sindacato e lavoratori iscritti e non iscritti;
6) in generale, l'attacco alla natura e al ruolo del sindacato nella società, quale soggetto politico autonomo della trasformazione e della democrazia italiana, con il disegno di fame una sorte di istituzione parastatale subalterna e legittimata sostanzialmente dal governo e dalle contorparti. Insomma, da una parte è incontestabile la natura strettamente sindacale di questi sei gruppi di temi e dall'altra parte è evidente nell'insieme la loro portata generale che finisce per investire oggettivamente l'intero sistema politico e ciascuno dei partiti in gioco. Ma vi è di più.
Infatti, anche sotto il profilo direttamente politico, sono emersi una serie di nodi che hanno riacceso la contesa politica:
l) il rapporto tra politiche salariali e scelte contrattuali e rivendicative, politica di tutti i redditi e questione fiscale, e, scelte di politica economica generale;
2) il rapporto tra democrazia sindacale, natura del sindacato, pratica , della cosiddetta concertazione triangolare centralizzata, e, circuito istituzionale rappresentativo e decisionale della Repubblica e in priimo luogo ruolo del Parlamento, rapporto tra rappresentatività sindacale e rappresentatività del Parlamento e ruolo dei partiti, compresa l'opposizione:
3) le impostazioni "decisionistiche" in rapporto al ruolo del sindacato, del parlamento, dei partiti;
4) le questioni di riforma istituzionale, le regole della democrazia, le regole del gioco;
5) il ruolo del PCI, in relazione al suo storico insediamento sociale nella classe operaia e tra i lavoratori dipendenti in particolare, la crisi e la necessità di superare il sistema politico bloccato;
6) lo scontro, accentuato dalla presidenza socialista del governo, nella maggioranza pentapartitica per conquistare il centro dello schieramento sociale c politico, che si traduce spesso nella rincorsa a destra, c, l'acutizzazione dello scontro dell'intero pentapartito e del PSI nei confronti del PCI.
In altre parole, si sono riproposte le grandi questioni di quale politica economica per uscire dalla crisi, quale democrazia, quale sindacato, in relazione alla permamente attualità politica della questione comunista in ltalia nella prospettiva di una alternativa politica.
Ecco, tutto questo è tornato alla ribalta, in qualche modo catalizzato dalla vicenda sindacale. Nasce da qui la duplice valenza dello scontro, insieme sindacale e politico, l'intreccio a volte inestricabile tra le due sfere. Ma, proprio perciò è opportuno non fingere di non vedere tale intreccio, ma occorre anche tener distinte le due dimensioni.
Per rendere solo pallidamente una idea della natura e della diimensione dello scontro politico-parlamentare sarebbe stato necessario compilare almeno un libro-dossier specifico. In questo breve capitolo ci si è limitato a riproporre alcuni pochi materiali emblematici ed esemplificativi: sullo scontro a sinistra tra PCI e PSI (con gli articoli di Intini e Reichlin), sulle contraddizioni e gli elementi di scollamento prodottisi nella maggioranza pentapartitica specie per effetto del movimento di lotta e della opposizione parlamentare al decreto e sui tentativi di trovare una via d'uscita dal vicolo cieco de,l decreto (con le proposte del PRI, il documento dell'Esecutivo del PSl, fino alle proposte Forlani), sulla fortissima valenza politica dello scontro (con i commenti di Scalfari e De Luca).
"La maschera di Cunhal sta cambiando il PCI" è stata la tesi ossessivamente ripetuta di Intini, direttore dell'Avanti!, che è stato indubbiamente uno dei protagonisti più irruenti nella polemica tra PCI e PSI (Avanti!, 16/3/84).
Dall 'altra parte, Reichlin, responsabile dei problemi economici del PC I, sintetizza il giudizio del PCI sulla linea di Craxi criticandolo seccamente per essersi posto "sulla strada dell'avventura" (L'Unità, 16/2/84).
In un editoriale che è stato oggetto di grandissima attenzione e polemica, De Luca tenta di individuare le ragioni meno contingenti della politica craxiana negli orientamenti strategici di fondo, scandagliando le tesi congressuali del PSI, ricavandone l'ipotesi di una vera e propria fuoriuscita del PSI dalla scena della sinistra e del riformismo stesso (La Repubblica, 22/3/84).

Il PRI, pur attenendosi formalmente alla più stretta disciplina di maggioranza, nella sostanza si è attestato su una posizione permanentemente critica nei confronti di Craxi, attaccando il decreto stesso e più in generale la politica ispirata dal Presidente del Consiglio, sia dal lato dei contenuti di politica economica per lo scarso rigore sia dal lato del metodo democratico per lo' scarso consenso. "Rigore e consenso": è stata questa la bandiera del PRI nei 60 giorni.
La DC si è venuta a trovare in una posizione scomoda, sia sul piano strategico, dati i risultati confusi sotto il profilo delle scelte di strategia realizzati dal proprio recente congresso, sia sul piano tattico immediato, da un duplice versante: per la sfrenata concorrenza al centro dello schieramento sociale e politico imposta da Craxi e per i rischi di scollamento con una parte della sua base sociale popolare a seguito del decreto e del movimento di lotta nel paese. L'articolo di Galloni, qui riproposto, emblematizza efficacemente la posizione della DC e il suo modo di atteggiarsi in queste settimane.
Secondo Galloni "occorre disinnescare al più presto una tensione artificialmente accesa sull'utilizzazione dello scontro nel Parlamento e nel Paese, per raggiungere effimeri e contrapposti obiettivi di pura facciata, qual'è quella di dimostrare l'efficienza di un decisionismo capace di sfidare la piazza o quello di metter in difficoltà il Governo, anche ricorrendo all'uso spregiudicato dei regolamenti parlamentari" (Il Popolo, 1-2/4/84).
Scalfari sostiene che l'inefficacia, dal punto di vista della lotta all'inflazione, del decreto e il carattere errato di esso, sotto il profilo del metodo, cioè la scelta della predeterminazione della scala mobile senza il consenso vasto di tutto il Sindacato, non sono causali "perché i suoi autori si proponevano, in realtà, obiettivi diversi da quelli puramente economici della lotta all'inflazione. Si proponevano primariamente, obiettivi di lotta politica e sindacale ( ... ). L'obiettivo di Carniti è chiaro, se non altro perché l 'ha indicato lui stesso, con apprezzabile seppur brutale franchezza: diventare l'interlocutore privilegiato del governo, in un sistema neo-corporativo di relazioni industiali. L'obiettivo del Presidente del Consiglio è altrettanto chiaro: togliere potere al PCI e, a questo fine, cambiare i regolamenti 'parlaamentari. L'obiettivo di Berlinguer è, poi, addirittura cristallino: impedire che gli obiettivi di Craxi e di Carniti si realizzino" (La Repubbblica,8-9/4/84).
La cosiddetta proposta di mediazione di Forlani del 13/4/84 conviene sia oggetto di meditazione. Ciò in quanto è un capolavoro di astuzia ambigua e trasformistica: infatti, Forlani, da una parte, per così dire, tenta di scavalcare a sinistra Craxi, facendosi paladino della modifica del decreto in termini, peraltro, similari a quelli avanzati dall'esecutivo del PSI il 3/4/84 e, dall'altra parte, ripropone, dopo questi 60 giorni, una inquietante ipoteca di destra, allorché propone nel caso in cui le parti sociali non trovino rapidamente un accordo per la riforma della scala mobile entro il 1984, che il governo deve ritenersi legittimamente autorizzato a imporre un intervento legislativo di imperio ben più pesante del decreto del 14 febbraio (li Popolo, 14/4/84). Ma, perseverare è veramente diabolico. Fortunatamente, questa volta, contro l'ipoteca Forlani si è immediatamente levata la protesta della CISL, della UIL, oltre che della CGIL e la critica dagli altri ambienti socialisti. Forse, questi 60 giorni hanno comunque lasciato. pe tutti. qualche lezione salutare.

Capitolo settimo
LA PIAZZA E IL PARLAMENTO

"TI vera patere era in mano. ai sindacati, non al Parlamenta. Chi decideva, di fatta, la politica economica era la frazione di classe politica arroccata dentro. il sindacata. Patendo, in ogni momento, mobilitare la piazza, essa esercitava un diritta di veto. illuminata sulle decisioni del governo".
L'empasse della politica italiana è determinata dalla spartizione "tra chi è legittimata a governare, ma non si sente abbastanza forte per farla, e chi governare farse potrebbe, ma non riesce ad averne l'investitura. Ecco., can il decreta del 14 febbraio., questa spartizione negativa è stata per la prima volta messa in crisi": insomma, il patere di veto. del sindacata, e sua tramite del Pci, è rotta!

Questa è la sostanza della tesi, sopra espressa dal professor Miglia, di quel partita "decisionista" che ha plaudita al decreta del 14 febbraio. (TI Sale 24 are, 3/3/84). Già, il patere di veto.: ma, casa si nasconde dietro questo concetto, quali nodi strutturali e istituzionali del sistema politica italiana?
La vicenda politica-sindacale dei sessanta giorni ha riproposta, in forme drastiche, un 'intera gamma di nodi istituzionali: dal rapporto tra diritti della maggioranza e quelli dell'apposizione, cioè del diritto-dovere di decidere e del diritto-dovere di apparsi, al rapporto democratico e dialettica tra lotta e partecipazione di massa e Parlamento, dai pericoli di autonomia e prevaricazione istituzionale rispetta all'intera circuito. rappresentativa e decisionale da parte di certe pratiche di trattativa neocorparativa centralizzata di cui in particolare Carniti si è fatta alfiere tra i più determinati, alla congruità dei regolamenti parlamentari. E pai, su tutti, il problema dei prablemi: le strozzature strutturali del sistema politica italiana, cioè la DEMOCRAZIA BLOCCATA can una maggioranza che è da sempre al governo e can una opposizione che è da sempre esclusa dal governo, la necessità vitale per la stessa democrazia italiana di un ricambia sociale e politica della direzione del paese, la centralità e attualità della questione comunista, insomma.
"La storia di questi sessanta giorni appena trascorsi, sottolinea Cuazza su Rassegna Sindacale del 20/4/84, dimostra che nel sistema politica italiana il gioco democratico è statico.. Ciò è dovuto' alla cosiddetta democrazia bloccata, nel senso. che non esistano., da almeno. quarant'anni a questa parte, passibilità di alternanza, ma ci sana state sala alleanze consociative compresa quella del governo Craxi. A meno che non si vaglia decidere di sterilizzare politicamente e completamente altre il trenta per cento dell 'elettorato italiana, che per di più è prevalentemente collocata nel manda della produzione e del lavora, questa trenta per cento in qualche modo occorre farla pesare; comunque, sul piana sindacale non può essere espropriata di un sua diritta: contrattare il proprio salario.. Se di decisionismo politico si vuol parlare, conclude Cuazza, occorre allora sbloccare prima di tutta, il nastro. sistema democratica versa l'unica alternativa possibile: l'alternativa delle forze politiche al governo".
I materiali presenti in questa capitala alludano., appunto, ad alcuni di tali nodi politico-istituzionali: veto. e decisionismo (Miglia, Amata); trattativa centralizzata e assetto. istituzionale del paese (Riva, Scalfari); movimento democratico di lotta contra il decreta, eversione e Parlamenta (Cavedan, Radatà); regolamenti parlamentari (Roggi, Spagnoli, Bianco, Formica).
"L'Italia non ha un governo, sostiene Amato, perché in Italia si ha del governo una concezione transattiva, grazie alla quale si arriva a decidere solo ciò su cui tutti sono d'accordo". Ciò "genera un incrocio di poteri di veto e quando le decisioni vengono sono decisioni non coordinate tra loro".
"( ... ) Le decisioni che si adottano sono settoriali, frammentarie e attinenti per lo più alla tutela beneficale di interessi minori, mentre le decisioni di innovazione e di riforma si perdono nei meandri delle istituzioni e non riescono a giungere in porto". Per cui "le decisioni possibili sono solo quelle dei benefici e delle transazioni compensative, condivise dalla stessa opposizione" (il Messaggero, 30/ 3/84). Ma il problema non è decidere o non decidere, certo che occorre decidere. La questione è "cosa" e "come" decidere. La verità è che, se da una parte nessuno può impedire alla maggioranza di esercitare i suoi diritti, dall'altra questi diritti non possono consistere nel potere della maggioranza di fare tutto quello che le pare, magari tentando, nei fatti, informalmente, unilateralmente, a sciabolate, di cambiare le regole del gioco nel corso del gioco stesso senza il consenso di una parte dei giocatori. D'altronde, la forma costituzionale vigente in Italia "non è affatto del tipo maggioritario puro, bensì è congegnata proprio in modo da escludere qualsiasi dittatura della maggioranza". con una serie di garanzie e di contrappesi, come ha scritto un giurista attento quale Vezio Crisafulli.
Altro nodo è quello del rapporto tra un sindacato fortemente centralizzato-istituzionalizzato e prerogative delle assemblee elettive. A questo proposito, interrogandosi sulla vera paternità del decreto del 14 febbraio, Eugenio Scalfari si richiama alle stesse dichiarazioni di Carniti "quando ha sostenuto che il testo del decreto non è la favoleggiata riappropriazione della materia del costo del lavoro da parte del governo e dell'opposizione, bensì la promulgazione con valore erga omnes di un patto tra il governo, una parte del movimento sindacale e la Confindustria" (La Repubblica, 18-19/3/84). Aggiunge Riva che "al termine di una trattativa esasperata e controversa, una parte del sindacato ha preteso di dettare al governo stesso il testo stesso del decreto legge da inviare al Parlamento, con la minacciosa condizione accompagnatoria che esso avrebbe dovuto essere approvato così com'è. ( ... ) Non era mai avvenuto che un tale esproprio di prerogative venisse formalizzato con il beneplacito del governo. ( ... ) Si 'è deciso facendo passare per fermezza quella che invece è rinuncia sul decisivo terreno dei principi dello Stato di diritto" (La Repubblica, 9/3/84). Ecco il punto: il delinearsi e il consolidarsi inquietante di una sorta di autonomia istituzionale della contrattazione neocorporativa centralizzata nei confronti delle assemblee elettive, che la rottura da parte della maggioranza della CCIL il 14 febbraio ha messo in crisi.
"La piazza e il Parlamento": è stato un altro dei nodi istituzionali e politici al centro delle polemiche e dello scontro. Qualcuno inopinatamente ha sentito persino il bisogno di scomodare interi drappelli di insigni costituzionalisti per sapere se - nell'Italia repubblicana nata dalla resistenza popolare contro il fascismo, nell'Italia democratica e pluralista, nella quale proprio la classe operaia e le classi popolari nelle organizzazioni e nei movimenti democratici di massa e in primo luogo nel sindacato hanno sbarrato la porta all'eversione terroristica e a tutte le trame antidemocratiche - era o meno legittimo, dalla parte di masse di lavoratori in lotta, scendere democraticamente nelle piazze, per "intimidire" una maggioranza governativa impegnata a far passare in Parlamento una misura contestata da una parte determinante del sindacato e da aree vastissime di lavoratori peraltro neppure consultati in proposito. Non è mancato chi, come Cavedon, sul Popolo, muovendo dalla costatazione che nell'ultimo documento delle BR si faceva riferimento alla possibilità di rilanciare le trame eversive, "saldandole al clima e alle lotte che caratterizzano questo momento della vita del paese", giunge alla provocatoria conclusione che "quando si soffia nel fuoco non si sa in quale direzione andrà la fiamma e il PCI commette un grave errore e una grave imprudenza fomentando le piazze. Non si possono infatti radunare migliaia e migliaia di persone, con gli slogan più accesi, con una terminologia che richiama gli anni più duri dello scontro frontale e poi defilarsi senza assumere le responsabilità specifiche che queste manifestazioni comportano" (TI Popolo, 13/3/84) .. Questo è lo scenario, l'universo unidimensionale di Cavedon. C'è da auspicare che la sollecitudine un po' farisaica di Cavedon sia stata almeno modicamente pacata a piazza San Giovanni il 24 marzo.

Capitolo ottavo
LA RIFORMA DELLA CONTRATTAZIONE E DELLA STRUTTURA DEL SALARIO

Che fare?, ecco il punto. Per il sindacato, per uscire dalla crisi del sindacato, per rinnovare il sindacato. Nei capitoli precedenti abbiamo tentato di riproporre, in modo per lo più esemplificativo e per evocazione, eventi, scadenze, personaggi, umori e giudizi, con l'obiettivo di cogliere e tener presente l'ampio e policromo spettro di problemi e la portata profonda del terremoto politico-sindacale che ha scosso il paese nei sessanta giorni dal 14 febbraio al 16 aprile. Abbiamo assemblato, così, i materiali per gruppi tematici: svolgimento, motivi e commenti dei diretti protagonisti sulla rottura della notte di San Valentino, la crisi e il rinnovamento del sindacato., il movimento di lotta, i commenti sul presente e sul futuro del sindacato, la beffa fiscale e la politica economica, lo scontro politico-parlamentare, i nodi istituzionali emergenti dalla crisi del sistema politico bloccato. Ebbene, all'interno di questo insieme di nodi che chiedono di essere sciolti con il concorso di altri protagonisti-istituzioni, partiti, nuovi movimenti e nuove forme di rappresentanza politica, forze intellettuali e della scienza, della tecnica, etc. - oltre che con il contributo del sindacato, vi è il problema del che fare nello SPECIFICO SINDACALE.
Allora, se è vero che il motivo specifico della crisi sindacale, oltre la crisi di democrazia, sul piano dei contenuti - si veda a questo proposito il secondo capitolo - sta nella obsolescenza della strategia rivendicativa, nella crisi della contrattazione e dell'attuale sistema retributivo, il cimento sindacale specifico da affrontare prioritariamente sta proprio nella riforma della contrattazione e della struttura del salario. E', appunto, il tema di questo capitolo conclusivo, che è il capitolo sul domani immediato, dopo i sessanta giorni, sul che fare del sindacato. Perciò, anche sotto il profilo quantitativo, è un capitolo centrale dell'intero dossier. Perché contiene i problemi specificamente sindacali che la bufera recente ci consegna in modo irremissibile e che d'altronde erano, in forme più o meno latenti, maturi ben prima che esplodesse così violentemente la crisi sindacale. TI mandato dei sessanta giorni è questo: rinnovare senza indugi la contrattazione e la struttura del salario. I materiali qui presenti possono essere accorrpati in tre blocchi: l) i primi orientamenti e proposte per un processo di riforma e di rinnovamento delle politiche rivendicative e del sistema di contrattazione predisposti dalla CGIL (la relazione di Garavini al Comitato direttivo del 16 marzo, il documento della segreteria per la fase preparatoria della Conferenza nazionale di Chianciano del 17-18-19 aprile e il documento finale sulla riforma del salario ivi approvato) con commenti ed arricchimenti tecnici e politici (Di Gioia, letto, Celata); 2) un ventaglio ampiamente rappresentativo di proposte tecnico-politiche sulla riforma della struttura del salario e in particolare del sistema di indicizzazione dei salari, elaborate da economisti ed esperti (Baffi, Monti, Visco e altri autori), corredate da valutazioni quantitative sugli effetti concreti nella busta paga; 3) orientamenti e proposte sulla struttura del salario che stanno maturando in seno alle altre confederazioni sindacali e in sede politica (convegno Dil sulla riforma della contrattazione e del salario del 9·10-11 aprile. De Michelis).
Sarebbe temerario in questa sede tentare una sintesi, sia pure di questo programma di orientamenti e proposte in particolare per la riforma del salario. Sia consentita, però, a questo punto, una considerazione conclusiva di tipo generale, di impostazione e di metodo, seppure essa già fuoriesca dai limiti cronologici, documentari e politici di questo dossier, dalla sua oggettiva modestia. La caduta del decreto del 14 febbraio, la presentazione di un nuovo decreto modificato rispetto al precedente, gli stessi risultati certamente non conclusivi né adeguati all'altezza delle sfide presenti, eppure parzialmente ed embrionalmente fecondi della Conferenza di Chianciano della CGIL delineano, in qualche modo una fase relativamente nuova dopo i sessanta giorni. Il movimento di lotta ha incassato, comunque, dei risultati positivi, che non erano scontati, da non sottovalutare: 1) il riconoscimento, specie dopo la manifestazione del 24 marzo, della sua forza, razionalità e legittimità; 2) la caduta del primo decreto e il conseguente superamento della filosofia della predeterminazione della scala mobile con l'avvio della riaffermazione dell'integrità delle prerogative contrattuali del sindacato in materia salariale. 3) l'aver affermato l'incontestabile necessità ed urgenza del rinnovamento democratico del sindacato incardinato sul rinnovato ruolo centrale dei consigli, e del rinnovamento rivendicativo e contrattuale di tutto il sindacato; 4) i segnali di un avvio, almeno temporaneo e parziale, di una revoca in dubbio di una politica economica a senso unico scaricata sulle spalle dei lavoratori, considerato il larghissimo riconoscimento di avviare a superamento lo "scandalo fiscale" prodotto dall'area gigantesca della rendita; 5) la battuta di arresto inferta alle tentazioni decisionistiche e autoritarie. Ora, l'iniziativa e la lotta devono proseguire, articolandosi e arricchendosi nella quantità e irrobustendosi nella qualità, a partire dalle postazioni più avanzate riconquistate. L'iniziativa dovrà necessariamente realizzare l'intreccio di più fronti di lotta e di ricerca: 1) innanzittutto la lotta nei confronti del decreto-bis, con l'obiettivo netto e centrale di riconquistare il livello medio di copertura della scala mobile antecedente al decreto del 14 febbraio, cioè quello previsto dall'accordo del 22 gennaio 1983; 2) la diffusione e l'articolazione della contrattazione, mediante il rilancio immediato di un nuovo ciclo di contrattazione aziendale e territoriale, quale imprescindibile e concreto antidoto agli stessi rischi e tentazioni alla centralizzazione totalizzante, e, quale base materiale di radicalmente del processo di rinnovamento democratico del sindacato, del ruolo dei delegati e dei consigli; 3) la concreta e articolata pratica della centralità dell'obiettivo dell'occupazione, a partire dai livelli di contrattazione categoriali e aziendali, in particolare sui regimi di orario per la redistribuzione del lavoro, fino all'impegno rinnovato per una svolta di politica economica fondata sulla redistribuzione delle risorse dalla rendita allo svilupppo e cioè sulla centralità della riforma fiscale quale presupposto della battaglia per l'occupazione, .da affermare con un vero e proprio movimento popolare di lotta. Ebbene, su questi tre filoni interconnessi e ciascuno indispensabile al successo degli altri - procedendo al rinnovamento democratico del sindacato fondato sui consigli e sulla sintesi, certo difficile e sempre da riconquistare ma feconda e senza alternative, tra organizzazione e movimento - deve potersi incardinare, prima, il dibattito democratico e di massa, poi, mediante l'anticipazione sperimentale da realizzare nelle prossime settimane in sede articolata e aziendale, le scelte di riforma della contrattazione della struttura del salario.
La riforma della contrattazione del salario deve essere un poderoso, democratico, concreto e articolato processo, per approssimazioni sperimentali. Sapendo sia che sono necessari tempi adeguati, sia che i tempi disponibili non sono infiniti ma oggettivamente limitati, sia che i mesi ancora disponibili del 1984 vanno utilizzati appieno. :'I é sulla difensiva, neanche in modi inerziali e svogliati. LA RIFaRIA DELLA C01\TRATTAZIONE DEL SALARIO E' UNA NECESSSITA', DEI LAVORATORI E DEL SINDACATO, in primo luogo della CGIL. Va realizzata bene e presto. Occorre maturare, a partire dalla conferenza di Chianciano, opzioni chiare ed efficaci per la riforma del salario, realizzare un confronto di massa aperto e severo, realizzare il radicamento progressivo di un orientamento di massa saldo, ragionato e vincente, in autunno occorre formalizzare le scelte operative per i prossimi rinnovi contrattuali. Guai a noi, giungere agli appuntamenti delle scelte non rinviabili, disarmati e divisi, magari beoti. Sarebbe, più del recente passato, l'autunno della paralisi, della rissa, dei veti, e concretamente dello slittamento dei tempi dei prossimi rinnovi contrattuali, con il conseguente reinnesco delle pressioni e dei ricatti autoritari contro le prerogative contrattuali del sindacato e contro la sua piena sovranità nel contrattare il salario, compresa la materia centrale della struttura della irdicizzazione dei salari. Ancora una volta potremmo trovarci si fronte all'insostenibile dilemma: o di dover tempestivamente decidere, con l'acqua alla gola, senza esserne in grado o di subire quella spirale di rinvii e di pressanti ricatti, e in questo caso, o si decide subendo altrui disegni quindi assumendo altrui decisioni o altri soggetti ne approfittano per legittimare in qualche modo interventi autoritari sul salario. Attenzione, perché in queste direzione giocano molti fattori presenti in campo: l'oggettiva difficoltà e complessità di una seria riforma della contrattazione e della struttura del salario, le incertezze nostre, cioè nei lavoratori iscritti o che fanno riferimento alla CGIL e nei gruppi dirigenti della CG IL, il rinvio da parte dalla CISL al tardo autunno prossimo della propria conferenza destinata a formulare le proposte per la riforma del salario, l'ipoteca posta da Forlani di un intervento autoritario ben più pesante sul salario, le imprevidenti uscite di qualche ministro che si propone non già di contribuire alla riforma della struttura del salario, per quanto sia di sua competenza, a partire dall'uso della leva fiscale sull'assetto retributivo, ma minaccia di volere "fare a pezzi la busta paga".
Ma, se proprio è inevitabile che per i lavoratori gli esami non finiscano mai, che almeno i ministri della repubblica cerchino di far tesoro degli ammaestramenti recentemente ricevuti. o


















GLI UOMINI DEI POTERI OCCULTI A ROMA 1984-85

LA P2 NEGLI APPARATI MINISTERIALI
Giuseppe De Santis


Premessa

Questa comunicazione si articola in tre parti. La prima parte riprende dati di analisi, ormai ben noti, sulla quantità e qualità dell'insediamento piduista negli apparati pubblici, in particolare nei ministeri, perché è bene partire dalla realtà, in modo che non sia rimossa. La seconda parte riguarda il destino dei piduisti dopo la scoperta degli elenchi e lo scioglimento per legge della P2, sia per quanto attiene i pochi interventi di bonifica realizzati (interventi disciplinari sugli ufficiali delle forze armate) o recentemente determinati (Corte di Cassazione relativamente ali magistrati piduisti) sia per quanto attiene l'area maggioritaria di completa impunità in particolare nei settori della P .A.
La terza parte, in modo necessariamente problematico è relativa alle ipotesi e alle linee di intervento per una opera di bonifica, sia in termini di emergenza, sia accennando alle misure volte alla rimozione delle cause strutturali che hanno determinato il naturale insediamento della P2 nel sistema di potere attuale.

1. - Presenza e addensamenti dei piduisti nella P.A., in particolare nei ministeri

1) Sui 962 affiliati alla P2, 400 'risultano iscritti a Roma.

L'organigramma complessivo della loggia negli apparati pubblici ammonta a ben 422 effettivi. Gran parte dei 400 iscritti a Roma risultano funzionari e dirigenti operanti negli apparati ministeriali.


2) Le ipotesi e le proposte di bonifica non possono non muovere dall'analisi del peculiare insediamento, della particolare topografia della P2 e da cenni di valutazione sulle motivazioni dello stesso.
Come è noto, Licio Gelli nella sua opera di reclutamento si muove essenzialmente lungo 5 direttrici:
a) servizi segreti e potere militare;
b) vertici delle istituzioni e delle strutture pubbliche, magistratura inclusa, e, della P.A. propriamente intesa;
c) area dei partiti di governo;
d) mondo finanziario;
e) settore dei mezzi di informazione.

3) Negli elenchi rinvenuti a Castiglion Fibocchi gli iscritti risultano ripartiti per settori di appartenenza. Il settore più consistente risulta quello delle forze armate nel quale figurano:
52 ufficiali dei carabinieri,
9 dell'Aeronautica,
29 della Marina,
50 dell'Esercito,
- 37 della Guardia di Finanza, 6 della Pubblica Sicurezza.
In totale 183 unità, di cui al Ministero della Difesa 152. Risulta un addensamento in tre punti: Carabinieri, Esercito, Guardia di Finanza.
Si .tratta, in gran parte, come è noto, dei massimi vertici delle FF.AA.

L'elemento che emerge tra tutti è la presenza nella, P2 di tutti i massimi vertici dei servizi di sicurezza.

In particolare, dopo la riforma dei servizi segreti del 1978, i capi dei servizi risultano tutti negli elenchi della P2. Il secondo elemento che emerge è la radicata presenza piduista nei vertici e nei gangli vitali della Guardi'a di Finanza.
4) Stiamo cas1 parlando dei Ministeri della Difesa, degli Interni, in parte delle Finanze. Va ricordato che nel settore di competenze del Ministero delle Finanze, oltre a numerosi e importanti militari, compresi i comandanti della Guardia di Finanza, risultano appartenere alla P2 un numero non irrilevante di funzionari civili, almeno una decina in compiti di rilevante responsabilità. Al Ministero delle Finanze 'risultano complessivamente 52 affiliati.
In questo gruppo occorre tenere presente anche il Ministero di Grazia e Giustizia, ove risulta:no 21 iscritti.
Il Ministero degli Interni ha un organico di: 19 iscritti, tra i quali:
4 questori,
3 prefetti,
3 vice-prefetti,
1 ispettore di P.S.,
1 direttore dei servizi di polizia di frontiera, 1 direttore di squadra mobile;
3 commissari di P.S.
5) Un secondo gruppo di Ministeri profondamente interessati dalla infiltrazione piduista è quello dei ministeri che governano l'attività economica e finanziaria dello Stato. Un rilievo particolare merita la penetrazione nel Ministero del Tesoro e in quello del Commercio con ['Estero.
Emerge che nelle liste della P2 sono inclusi 'sia alti dirigenti del Ministero del Tesoro e sia importanti personaggi posti in istituti come la Sace (Società di Assicurazione per i Crediti all'Esportazione) e come la Banca d'Italia, che hanno funzioni decisive in tema di rapporti finanziari con l'estero, nonché esponenti di numerose banche pubbliche e private. L'insediamento piduista in Ministeri quali quelli del Tesoro e del Commercio con l'Estero acquis1!a più netta rilevanza se collegata alla presenza contestuale alla direzione di quegli stessi Ministeri di Ministri figuranti nelle liste P2, con una corte inquietante di segretari particolari e di segreterie tecniche di affiliazione piduista. Al Commercio con l'Estero la P2 si è insediata al massimo livello, con il direttore generale delle valute, poi dirigente della Sace.

Si è operato cos1 il controllo piduista in un settore chiave dell'amministrazione statale dalla quale passano tutte le operazioni di natura valutaria. Va aggiunto che presso il Ministero del Commercio con l'Estero funziona pure un Comitato interministeriale composto da Rappresentanti dei Ministeri degli Esteri, dell'Industria, della Difesa, delle Finanze e del Commercio con l'Estro, nonché del SISMI, che esercita il controllo sulla vendita delle armi a paesi terzi.
In altri termini, è da sottolineare che Ministeri come quello del Tesoro e del Commercio con l'Estero sono determinanti anche ai fini della politica economica dello Stato in riferimento ai rapporti internazionali.

7) Ritornando .all'insediamento piduista nei Ministeri, in particolare- quelli finanziari ed economici:

_ Ministero del Tesoro, Ivi comprese le banche: ben 67 iscritti; _ Ministero delle PP.SS.: 22 isoritti, (17 dipendenti IRI, 4 dipendenti ENl);

Ministero dell'Industria e del Commercio: 13 iscritti (il vicepresidente del CNEN, il direttore generale del Ministero dell'Industria, l'amministratore delegato dell'INA, il primo dirigente del ruolo del personale dei servizi dell'energia nucleare c/o NATO il Bruxelles).

8) Il terzo punto nevralgico è il Ministero degli Affari Esteri, dove si contano 4 affiliati in posizioni strategiche, di cui un ambasciatore a capo della segreteria generale e un direttore della ragioneria centrale. E' un Ministero chiave sotto il profilo dell'agibilità piduista, e di Gelli in primo luogo, negli intensi rapporti con paesi esteri, in particolare con quelli. della America Latina. Dagli atti della Commissione P2 risulta estesa e comprovata la cortina protettiva nei confronti di Gelli e della sua attività "d'estero da parte di ambienti del Ministero degli Esteri.

9) per completare a quadro dei ministeri:
Ministero della P.I.: 34 elementi;
Ministero della Sanità: 3 iscritti, tra cui i primi dirigenti della Divisione I Affari Generali e della Divisione VI Proofessioni s'anita'rie;
- Ministero Agricoltura: 1 iscritto;
_ Ministero Trasporti: 2 iscritti, tra cui a direttore di un aeroporto;
- Ministero Lavoro: 1 iscritto;
_ Ministero Beni Culturali: 4 iscritti;
_ Ministero Coordinamento Ricerca Scientifica e tecnologica: 3 i'scritti, tra cui il Direttore generale del C.N.R.;
Ministero Interventi straordinari nel Mezzogiorno: 1 iscritto; _ Ministero Marina Mercantile: 2 iscritti;
_ Ministero Affari Generali: 1 iscritto.
10) Con riferimento ad altri enti o istituti diversi dai Ministeri, si rilevano i seguenti dati:
- INPS: 3 iscritti;
- Corte dei Cont,i: 3 iscritti;
Avvocatura dello Stato e Consiglio di Stato: 1 iscritto Ciascuno;
- SISDE: 4 iscritti;
- Presidenza della Repubblica: 3 iscritti.
11) Tre punti chiave:

Già questi dati e1ement,ari, di per sé dimostrano che l'infiltrazione piduista si è concentrata in modo lucido e funzionale in tre punti chiave del potere:
a) i Ministeri dell'Ordine ed in particolare nei servizi segreti e nel potere militare;
b) i Ministeri economici, in particolare si noti, quelli finanziari (Tesoro, Banca d'Italia, Commercio con l'estero, Finanze e PP.SS.);
c) aree dei rapporti internazionali cioè in apparati pubblici determinanti nel governo dei rapporti finanziari innanzitutto, ma anche economici, politici e militari (Ministero degli Affari Esteri, lo stesso Tesoro, in particolare il Commercio con l'estero/SACE), nei quali canali passa anche il governo del commercio delle armi verso paesi terzi.
E' delineata, così, con questi tre punti chiave, plasticamente la struttura-base dell'organigramma piduista, la base e il supporto materiali dell'attività affaristica, il segno del progetto politico piduista.
Ripeto, soltanto in questo modo, risulta il ruolo delicato e determinante di cui un piccolo Ministero, come quello del Commercio con l'Estero che altrimenti resterebbe in ombra amministrativa.
12) Il potere nelle aree opache della continuità burocratico. E' proprio l'ampiezza del reclutamento nei primi due settori (servizi segreti-potere militare e apparati pubblici/P.A.) che sta a dimostrare il carattere non banale del disegno piduista, cioè il carattere non solo affaristico, ma politico del disegno, come è stato più volte sottolineato dalla Commissione Anse1mi.
Se, infatti, può sembrare perfino ovvio l'ampio reclutamento nell'ambito dei servizi segreti, e la sua integrazione con una larghissima schiera di militari, proprio l'attenzione 1'1volta alla burocrazia, così come agli uomini del potere economico pubblico, rivela una analisi lucida e real1stica delle strutture effettive del potere.
Insomma, vengono privilegiate le istituzioni e le aree della continuità-burocratico-amministrativa, considerate come quelle che possono conferire base solida e stabilità ad una nuova organizzazione del potere nel nostro Paese.

D'altronde la preminenza del reclutamento nei vertici della P.A. può considerarsi la riprova del ricic1aggio del prima dìsegno gelliano - il golpismo strisciante- nel disegna piduista proprio della seconda metà degli anni 70: la gestione ordinaria dei meccanismi di potere ai fini di un profondo condizionamento dell'intero sistema dall'interno.
13) Affarismo e politica.
Proprio negli apparati della P.A., nella burocrazia, nella area più opaca e meno visibile della burocrazia, la P2 ha trovato l'humus naturale per realizzare quel connubio, quella simbiosi tra affarismo e politica che è il connotato specifica del diispositivo fatta di interesse materiale, di lucida organizzazione e di politica, che è il sistema gelliano.
Il connubio affari-politica è l'elemento da mettere a fuoco.
Nei meandri della P.A. il retroterra affaristica rappresentato dai sostegni clientelari alle nomine, alla carriera, alla stessa concorsualità interna alla P.A., alla attribuzione di incarichi più pregnanti nell'organigramma politico-amministrativa è il vero punto di forza, insieme ai servizi segreti, del sistema e del potere gelliana.
II - Collocazione e mobilità dei piduisti nei Ministeri dopo la scoperta degli elenchi P2 e lo scioglimento della P2.
Qual'è stata il destina dei piduisti operanti nei Ministeri, e in particolare dei funzionari civili, dopo la scoperta degli elenchi P2 e la scioglimento per legge della P2?
1) Da una ricognizione, sia pure approssimativa, che abbiamo condotta empiricamente come sindacato, utilizzando anche e conoscenze dette delle nostre organizzazioni aziendali operanti nei vari Ministeri emerge un quadro 'sconfortante ed inquietante.
2) I piduisti risultanti non più presenti sano soltanto quelli deceduti a allontanati per sopraggiunti limiti di età, cioè per pensionamento. E sono questi una quota assolutamente minoritaria.
3) Nessuno degli altri funzionari civili ha persa il posta prima ricoperta.
4) Nessuno si è vista retrocedere nella 'sede gerarchica in una :responsabilità di minore rilievo.

5) Alcuni sono stati rimossi dalla carica precedentemente ricoperta, ma per assumerne un'altra di pari rilevanza.

6) Altri sono 'stati rimossi dalla carica precedentemente ricoperta ma per assumere un incarico di maggiore rilevan2!a, cioè sano stati promossi.
Valgano alcuni esempi:
a) Ministero per il Commercio con l'Estero:
dei 2 piduisti ivi insediati ai vertici, uno opera al vertice dell'ICE (Istituto Commercia Estera), l'altro si è vista attribuire il compita di direttore della Sace di Barcellona;
b) Ministero delle Finanze:
l'ex direttore dell’ Ufficio Imposte Dirette è diventato Direttore del Centro di Servizio di La Rustica che, come è evidente, è una carica di altissima responsabilità gestionale";
c) Ministero del Tesoro:
l'ex direttor,e generale del Ministero è diventato direttore generale delle Pensiani di Guena;
d) Ministero della Difesa:
il vice direttore per il personale della Marina rimane ad espletare la medesima carica;
e) Ministero della Marina Mercantile:
l'ex responsabile della Capitaneria di Porto Ostia-Fiumicino è, aggi, responsabile della Capitaneria di Civitavecchia, che è una responsabilità più rilevante, sul piano concreto, della precedente.
In conclusione, l'area degli apparati pubblici, in partic01aare dei funzionari civili dei ministeri, risulta a tutt'oggi la più estranea ed impermeabile a qualunque operazione, sia, pure embrionale a parziale, di bonifica antipiduista.
E' l'area di massima impunità. Ciò risulta particolarmente grave ed inquietante anche a fronte di tentativi, di determinazioni recenti, e, sia pure parzialissima bonifica delineatasi o avviata altrove (forze armate, Magistratura, perfino in qualche faro caso nel settore dei politici).
1) La maggior parte degli ufficiali delle forze ,armate che figurano negli elenchi sono stati sottopasti ad inchieste disciplinari e precisamente n. 138 da parte del Ministero della Difesa, n. 4 del Ministero dell'Interno per quanto attiene gli ufficiali della Polizia e n. 23 del Ministero delle Finanze per quanto attiene gli ufficiali della Guardia di Finanza.
Le inchieste che hanno comportato vere e proprie conclusioni riguardano quelli che erano in qualche modo ancora in servizio, mentre per quelli che figurano in pensione, in ausiliaria, in congedo assoluto o in riserva sono state archiviate. Per quanto attiene gli ufficiali dell'Esercito le inchieste sono state 47 che si sono concluse con:
31 proscioglimenti
9 applicazioni di sanzioni 8 archiviazioni.
Per gli ufficiali di Marina vi sono state: 27 inchieste e si sono concluse con:
12 proscioglimenti
11 applicazioni di sanzioni 4 archiviazioni.
Per gli ufficiali dell'Aeronautica vi sono state: 10 inchieste e si sono concluse con:
5 prosciogli menti
2 applicazioni di sanzioni 3 archiviazioni.
Per gli ufficiali dei Carabinieri vi sono state: 54 inchieste e si sono concluse con:
26 proscioglimenti
20 applicazioni di sanzioni 4 archiviazioni.
Per gli ufficiali di Polizia vi sono state: 4 inchieste e si sono concluse con:
1 proscioglimento
3 applicazioni di sanzioni.
Per gli ufficiali della Guardia di Finanza vi sono state: 23 inchieste e ,si sono concluse con:
10 proscioglimenti
13 applicazioni di sanzioni.

Va sottolineato però che per coloro che erano in qualche modo in servizio la sanzione applicata è stata generalmente e semplicemente quella del rimprovero.
Le 'stesse pronunce di proscioglimento 'sono state emesse sì perché non risultava pienamente approvata l'appartenenza dell'ufficiale alla loggia P2, ma facendo a tal fine unicamente fondamento sul diniego di appartenenza alla loggia dell'ufficiale intercettato.
2) Per l'area della Magistratura va sottolineata e apprezzata la rece11tissima determinazione della Corte di Cassazione che ha esaminato ed è intervenuta nel problema dei magistrati iscritti alla P2 per realizzare la bonifica in questo campo .
3) Circa il settore politico (dirigenti di partito, parlamentari, ministri e sottosegretari, consiglieri e assessori) il processo di bonifica risulta nel complesso negativo e parzialissimo, nonostante casi rarissimi di autoammissione di responsabilità e di autoemarginazione dalla politica, vicende politico-ministeriali emblematiche ma isolate (caso dimissioni Pietro Longo), qualche parzialissima bonifica nei partiti mediante la mancata ripresentazione di alcuni piduisti alle elezioni e la ,ricollocazione in compiti di secondaria rilevanza.
Resta comunque il fatto che l'area della P.A. e dei funzionari civili è quella a tutt'oggi più impermeabile, dove il governo e il ministro degli Interni, nonostante lo scioglimento per decreto della P2 e le ,risultanze della Commissione Anselmi, si sono limitati a lasciare "libertà di coscienza" alle singole amministrazioni, le quali di fronte alle normative generali e specifiche del pubblico impiego sono approdate al nulla di fatto.

III - Ipotesi e linee di intervento nella P.A., spazi di iniziativa sindacale, ai fini di un'opera di bonifica e di rinnovamento.

Le ipotesi e le linee di intervento, anche sotto il profilo degli spazi di iniziativa del sindacato, poste necessariamente in forma interrogativa e problematica, si possono articolare in 2 filoni: l'intervento di emergenza ai fini immediati di una bonifica antipiduista nella P.A. e l'intervento strutturale per combattere alle radici le condizioni che hanno determinato l'insediamento naturale della P2 nei gangli vitali delle istituzioni e degli apparati pubblici.
1) Ipotesi e linee per l'intervento di emergenza:
a) promozione di una campagna di conoscenza, riflessione, dibattito e denuncia sul fenomeno P2, anche da parte sindacale, quale espressione della più generale questione morale, con iniziative diffuse negli stessi posti di lavoro che hanno registrato l'insediamento piduista;
b) verificare, per l'immediato, la possibilità di attivare nella P.A., nell'area in particolare dei funzionari civili e dell’alta dirigenza, le determinazioni e le strumentazioni di bonifica sperimentate, avviate o comunque assunte della Corte di Cassazione per la magistratura e le ,stesse indagini disciplinari sia pur parzialmente e debolmente adottate per gli ufficiali delle forze armate;
c) verificare la possibilità di realizzare nella salvaguardia di tutte le garanzie costituzionali, sulla base delle determinazioni innovative (scioglimento della P2), degli atti politici (conclusioni della Commissione Anselmi), delle decisioni della Corte di Cassazione e delle esperienze embrionali di bonififica antipiduista già realizzate, di impostare sulla base della palese contraddizione da una parte l'art 97 della costituzione (assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione), l'art. 98 (i pubblici ,impiegati sono al servizio del1a nazione), il giuramento di fedeltà alla Repubblica prestato dai pubblici dipendenti, più in generale i diritti e doveri del pubblico dipendente, e dall'altra parte la "militanza" piduista già come definita dalle norme di affiliazione che si riportano in allegato, indagini e poi interventi disciplinari, amministrativi e giudiziari.
2) Ipotesi e linee di intervento strutturale
a) per quanto ci riguarda come sindacato, dindo, rinnovamento e sviluppo pieno di una nuova ,stagione di contrattazione sindacale anche nella P.A. e nei Ministeri, fondata sull'applicazione piena della L. 93 cioè la Legge-quadro nel P.I., in particolare attivando effettivamente il diritto all'informazione promuovendo una nuova contrattazione articolata e decentrata soprattutto nella organizzazione del lavoro, nella produttività della P .A., nella professionalità; .
b) riforme, piena contrattazione, controllo democratico dei meccanismi di reclutamento nel P .1., dei concorsi, insieme a quella di formazione, aggiornamento e qualificazione professionale, e per i quadri degli apparati pubblici e degli enti economici pubblici, delle nomine;
c) riforma della Dirigenza nella P.A.;
d) ripresa e applicazione del progetto. Giannini;
e) riforma della giustizia politica;
f) riforma dei controlli sulla P.A., nuovo rapporto tra cittadini e P.A., cioè rafforzare e diffondere le sedi di controllo: in concreto e nel breve periodo, questo significa opporsi ai tentativi di normalizzare la Magistratura e di ridurre il ruolo del Parlamento a quello di mera registrazione. Se, anzi, non venisse ricostruito il grado necessario di trasparenza istituzionale, eventuali riforme che accumulassero maggiori poteri in sedi sempre meno controllabili aggraverebbero notevolmente i fenomeni oggetto dei nostri lavori, cioè la diffusione pervasiva dei poteri occulti. Deve crescere nel 'suo complesso la visibilità delle grandi organizzazioni pubbliche e private, diminuire il potere proprietario di oligarchie burocratiche sulle risorse pubbliche, divenire più forte il circuito dei controlli diffusi. In fondo, la P2 è una espressione, non si può dire neppure unica ed estrema, di un processo più generale di estensione del "cripto-governo", di "clandestinizzazione della politica", di crescita del tasso di opacità della politica e del potere, del tasso complessivo di segretezza rinvenibile in un sistema.

Alla opacità occorre contrapporre la visibilità e la trasparenza, alla cultura delle impunità quella dei controlli.
Su questa frontiera drammatica un nodo organizzativo spetta anche al sindacato romano, alla Camera del Lavoro di Roma.


















































GLI UOMINI DEI POTERI OCCULTI A ROMA 1984-85

LA P2 NEGLI APPARATI MINISTERIALI
Giuseppe De Santis


Premessa

Questa comunicazione si articola in tre parti. La prima parte riprende dati di analisi, ormai ben noti, sulla quantità e qualità dell'insediamento piduista negli apparati pubblici, in particolare nei ministeri, perché è bene partire dalla realtà, in modo che non sia rimossa. La seconda parte riguarda il destino dei piduisti dopo la scoperta degli elenchi e lo scioglimento per legge della P2, sia per quanto attiene i pochi interventi di bonifica realizzati (interventi disciplinari sugli ufficiali delle forze armate) o recentemente determinati (Corte di Cassazione relativamente ali magistrati piduisti) sia per quanto attiene l'area maggioritaria di completa impunità in particolare nei settori della P .A.
La terza parte, in modo necessariamente problematico è relativa alle ipotesi e alle linee di intervento per una opera di bonifica, sia in termini di emergenza, sia accennando alle misure volte alla rimozione delle cause strutturali che hanno determinato il naturale insediamento della P2 nel sistema di potere attuale.

1. - Presenza e addensamenti dei piduisti nella P.A., in particolare nei ministeri

1) Sui 962 affiliati alla P2, 400 'risultano iscritti a Roma.

L'organigramma complessivo della loggia negli apparati pubblici ammonta a ben 422 effettivi. Gran parte dei 400 iscritti a Roma risultano funzionari e dirigenti operanti negli apparati ministeriali.


2) Le ipotesi e le proposte di bonifica non possono non muovere dall'analisi del peculiare insediamento, della particolare topografia della P2 e da cenni di valutazione sulle motivazioni dello stesso.
Come è noto, Licio Gelli nella sua opera di reclutamento si muove essenzialmente lungo 5 direttrici:
a) servizi segreti e potere militare;
b) vertici delle istituzioni e delle strutture pubbliche, magistratura inclusa, e, della P.A. propriamente intesa;
c) area dei partiti di governo;
d) mondo finanziario;
e) settore dei mezzi di informazione.

3) Negli elenchi rinvenuti a Castiglion Fibocchi gli iscritti risultano ripartiti per settori di appartenenza. Il settore più consistente risulta quello delle forze armate nel quale figurano:
52 ufficiali dei carabinieri,
9 dell'Aeronautica,
29 della Marina,
50 dell'Esercito,
- 37 della Guardia di Finanza, 6 della Pubblica Sicurezza.
In totale 183 unità, di cui al Ministero della Difesa 152. Risulta un addensamento in tre punti: Carabinieri, Esercito, Guardia di Finanza.
Si .tratta, in gran parte, come è noto, dei massimi vertici delle FF.AA.

L'elemento che emerge tra tutti è la presenza nella, P2 di tutti i massimi vertici dei servizi di sicurezza.

In particolare, dopo la riforma dei servizi segreti del 1978, i capi dei servizi risultano tutti negli elenchi della P2. Il secondo elemento che emerge è la radicata presenza piduista nei vertici e nei gangli vitali della Guardi'a di Finanza.
4) Stiamo cas1 parlando dei Ministeri della Difesa, degli Interni, in parte delle Finanze. Va ricordato che nel settore di competenze del Ministero delle Finanze, oltre a numerosi e importanti militari, compresi i comandanti della Guardia di Finanza, risultano appartenere alla P2 un numero non irrilevante di funzionari civili, almeno una decina in compiti di rilevante responsabilità. Al Ministero delle Finanze 'risultano complessivamente 52 affiliati.
In questo gruppo occorre tenere presente anche il Ministero di Grazia e Giustizia, ove risulta:no 21 iscritti.
Il Ministero degli Interni ha un organico di: 19 iscritti, tra i quali:
4 questori,
3 prefetti,
3 vice-prefetti,
1 ispettore di P.S.,
1 direttore dei servizi di polizia di frontiera, 1 direttore di squadra mobile;
3 commissari di P.S.
5) Un secondo gruppo di Ministeri profondamente interessati dalla infiltrazione piduista è quello dei ministeri che governano l'attività economica e finanziaria dello Stato. Un rilievo particolare merita la penetrazione nel Ministero del Tesoro e in quello del Commercio con ['Estero.
Emerge che nelle liste della P2 sono inclusi 'sia alti dirigenti del Ministero del Tesoro e sia importanti personaggi posti in istituti come la Sace (Società di Assicurazione per i Crediti all'Esportazione) e come la Banca d'Italia, che hanno funzioni decisive in tema di rapporti finanziari con l'estero, nonché esponenti di numerose banche pubbliche e private. L'insediamento piduista in Ministeri quali quelli del Tesoro e del Commercio con l'Estero acquis1!a più netta rilevanza se collegata alla presenza contestuale alla direzione di quegli stessi Ministeri di Ministri figuranti nelle liste P2, con una corte inquietante di segretari particolari e di segreterie tecniche di affiliazione piduista. Al Commercio con l'Estero la P2 si è insediata al massimo livello, con il direttore generale delle valute, poi dirigente della Sace.

Si è operato cos1 il controllo piduista in un settore chiave dell'amministrazione statale dalla quale passano tutte le operazioni di natura valutaria. Va aggiunto che presso il Ministero del Commercio con l'Estero funziona pure un Comitato interministeriale composto da Rappresentanti dei Ministeri degli Esteri, dell'Industria, della Difesa, delle Finanze e del Commercio con l'Estro, nonché del SISMI, che esercita il controllo sulla vendita delle armi a paesi terzi.
In altri termini, è da sottolineare che Ministeri come quello del Tesoro e del Commercio con l'Estero sono determinanti anche ai fini della politica economica dello Stato in riferimento ai rapporti internazionali.

7) Ritornando .all'insediamento piduista nei Ministeri, in particolare- quelli finanziari ed economici:

_ Ministero del Tesoro, Ivi comprese le banche: ben 67 iscritti; _ Ministero delle PP.SS.: 22 isoritti, (17 dipendenti IRI, 4 dipendenti ENl);

Ministero dell'Industria e del Commercio: 13 iscritti (il vicepresidente del CNEN, il direttore generale del Ministero dell'Industria, l'amministratore delegato dell'INA, il primo dirigente del ruolo del personale dei servizi dell'energia nucleare c/o NATO il Bruxelles).

8) Il terzo punto nevralgico è il Ministero degli Affari Esteri, dove si contano 4 affiliati in posizioni strategiche, di cui un ambasciatore a capo della segreteria generale e un direttore della ragioneria centrale. E' un Ministero chiave sotto il profilo dell'agibilità piduista, e di Gelli in primo luogo, negli intensi rapporti con paesi esteri, in particolare con quelli. della America Latina. Dagli atti della Commissione P2 risulta estesa e comprovata la cortina protettiva nei confronti di Gelli e della sua attività "d'estero da parte di ambienti del Ministero degli Esteri.

9) per completare a quadro dei ministeri:
Ministero della P.I.: 34 elementi;
Ministero della Sanità: 3 iscritti, tra cui i primi dirigenti della Divisione I Affari Generali e della Divisione VI Proofessioni s'anita'rie;
- Ministero Agricoltura: 1 iscritto;
_ Ministero Trasporti: 2 iscritti, tra cui a direttore di un aeroporto;
- Ministero Lavoro: 1 iscritto;
_ Ministero Beni Culturali: 4 iscritti;
_ Ministero Coordinamento Ricerca Scientifica e tecnologica: 3 i'scritti, tra cui il Direttore generale del C.N.R.;
Ministero Interventi straordinari nel Mezzogiorno: 1 iscritto; _ Ministero Marina Mercantile: 2 iscritti;
_ Ministero Affari Generali: 1 iscritto.
10) Con riferimento ad altri enti o istituti diversi dai Ministeri, si rilevano i seguenti dati:
- INPS: 3 iscritti;
- Corte dei Cont,i: 3 iscritti;
Avvocatura dello Stato e Consiglio di Stato: 1 iscritto Ciascuno;
- SISDE: 4 iscritti;
- Presidenza della Repubblica: 3 iscritti.
11) Tre punti chiave:

Già questi dati e1ement,ari, di per sé dimostrano che l'infiltrazione piduista si è concentrata in modo lucido e funzionale in tre punti chiave del potere:
a) i Ministeri dell'Ordine ed in particolare nei servizi segreti e nel potere militare;
b) i Ministeri economici, in particolare si noti, quelli finanziari (Tesoro, Banca d'Italia, Commercio con l'estero, Finanze e PP.SS.);
c) aree dei rapporti internazionali cioè in apparati pubblici determinanti nel governo dei rapporti finanziari innanzitutto, ma anche economici, politici e militari (Ministero degli Affari Esteri, lo stesso Tesoro, in particolare il Commercio con l'estero/SACE), nei quali canali passa anche il governo del commercio delle armi verso paesi terzi.
E' delineata, così, con questi tre punti chiave, plasticamente la struttura-base dell'organigramma piduista, la base e il supporto materiali dell'attività affaristica, il segno del progetto politico piduista.
Ripeto, soltanto in questo modo, risulta il ruolo delicato e determinante di cui un piccolo Ministero, come quello del Commercio con l'Estero che altrimenti resterebbe in ombra amministrativa.
12) Il potere nelle aree opache della continuità burocratico. E' proprio l'ampiezza del reclutamento nei primi due settori (servizi segreti-potere militare e apparati pubblici/P.A.) che sta a dimostrare il carattere non banale del disegno piduista, cioè il carattere non solo affaristico, ma politico del disegno, come è stato più volte sottolineato dalla Commissione Anse1mi.
Se, infatti, può sembrare perfino ovvio l'ampio reclutamento nell'ambito dei servizi segreti, e la sua integrazione con una larghissima schiera di militari, proprio l'attenzione 1'1volta alla burocrazia, così come agli uomini del potere economico pubblico, rivela una analisi lucida e real1stica delle strutture effettive del potere.
Insomma, vengono privilegiate le istituzioni e le aree della continuità-burocratico-amministrativa, considerate come quelle che possono conferire base solida e stabilità ad una nuova organizzazione del potere nel nostro Paese.

D'altronde la preminenza del reclutamento nei vertici della P.A. può considerarsi la riprova del ricic1aggio del prima dìsegno gelliano - il golpismo strisciante- nel disegna piduista proprio della seconda metà degli anni 70: la gestione ordinaria dei meccanismi di potere ai fini di un profondo condizionamento dell'intero sistema dall'interno.
13) Affarismo e politica.
Proprio negli apparati della P.A., nella burocrazia, nella area più opaca e meno visibile della burocrazia, la P2 ha trovato l'humus naturale per realizzare quel connubio, quella simbiosi tra affarismo e politica che è il connotato specifica del diispositivo fatta di interesse materiale, di lucida organizzazione e di politica, che è il sistema gelliano.
Il connubio affari-politica è l'elemento da mettere a fuoco.
Nei meandri della P.A. il retroterra affaristica rappresentato dai sostegni clientelari alle nomine, alla carriera, alla stessa concorsualità interna alla P.A., alla attribuzione di incarichi più pregnanti nell'organigramma politico-amministrativa è il vero punto di forza, insieme ai servizi segreti, del sistema e del potere gelliana.
II - Collocazione e mobilità dei piduisti nei Ministeri dopo la scoperta degli elenchi P2 e lo scioglimento della P2.
Qual'è stata il destina dei piduisti operanti nei Ministeri, e in particolare dei funzionari civili, dopo la scoperta degli elenchi P2 e la scioglimento per legge della P2?
1) Da una ricognizione, sia pure approssimativa, che abbiamo condotta empiricamente come sindacato, utilizzando anche e conoscenze dette delle nostre organizzazioni aziendali operanti nei vari Ministeri emerge un quadro 'sconfortante ed inquietante.
2) I piduisti risultanti non più presenti sano soltanto quelli deceduti a allontanati per sopraggiunti limiti di età, cioè per pensionamento. E sono questi una quota assolutamente minoritaria.
3) Nessuno degli altri funzionari civili ha persa il posta prima ricoperta.
4) Nessuno si è vista retrocedere nella 'sede gerarchica in una :responsabilità di minore rilievo.

5) Alcuni sono stati rimossi dalla carica precedentemente ricoperta, ma per assumerne un'altra di pari rilevanza.

6) Altri sono 'stati rimossi dalla carica precedentemente ricoperta ma per assumere un incarico di maggiore rilevan2!a, cioè sano stati promossi.
Valgano alcuni esempi:
a) Ministero per il Commercio con l'Estero:
dei 2 piduisti ivi insediati ai vertici, uno opera al vertice dell'ICE (Istituto Commercia Estera), l'altro si è vista attribuire il compita di direttore della Sace di Barcellona;
b) Ministero delle Finanze:
l'ex direttore dell’ Ufficio Imposte Dirette è diventato Direttore del Centro di Servizio di La Rustica che, come è evidente, è una carica di altissima responsabilità gestionale";
c) Ministero del Tesoro:
l'ex direttor,e generale del Ministero è diventato direttore generale delle Pensiani di Guena;
d) Ministero della Difesa:
il vice direttore per il personale della Marina rimane ad espletare la medesima carica;
e) Ministero della Marina Mercantile:
l'ex responsabile della Capitaneria di Porto Ostia-Fiumicino è, aggi, responsabile della Capitaneria di Civitavecchia, che è una responsabilità più rilevante, sul piano concreto, della precedente.
In conclusione, l'area degli apparati pubblici, in partic01aare dei funzionari civili dei ministeri, risulta a tutt'oggi la più estranea ed impermeabile a qualunque operazione, sia, pure embrionale a parziale, di bonifica antipiduista.
E' l'area di massima impunità. Ciò risulta particolarmente grave ed inquietante anche a fronte di tentativi, di determinazioni recenti, e, sia pure parzialissima bonifica delineatasi o avviata altrove (forze armate, Magistratura, perfino in qualche faro caso nel settore dei politici).
1) La maggior parte degli ufficiali delle forze ,armate che figurano negli elenchi sono stati sottopasti ad inchieste disciplinari e precisamente n. 138 da parte del Ministero della Difesa, n. 4 del Ministero dell'Interno per quanto attiene gli ufficiali della Polizia e n. 23 del Ministero delle Finanze per quanto attiene gli ufficiali della Guardia di Finanza.
Le inchieste che hanno comportato vere e proprie conclusioni riguardano quelli che erano in qualche modo ancora in servizio, mentre per quelli che figurano in pensione, in ausiliaria, in congedo assoluto o in riserva sono state archiviate. Per quanto attiene gli ufficiali dell'Esercito le inchieste sono state 47 che si sono concluse con:
31 proscioglimenti
9 applicazioni di sanzioni 8 archiviazioni.
Per gli ufficiali di Marina vi sono state: 27 inchieste e si sono concluse con:
12 proscioglimenti
11 applicazioni di sanzioni 4 archiviazioni.
Per gli ufficiali dell'Aeronautica vi sono state: 10 inchieste e si sono concluse con:
5 prosciogli menti
2 applicazioni di sanzioni 3 archiviazioni.
Per gli ufficiali dei Carabinieri vi sono state: 54 inchieste e si sono concluse con:
26 proscioglimenti
20 applicazioni di sanzioni 4 archiviazioni.
Per gli ufficiali di Polizia vi sono state: 4 inchieste e si sono concluse con:
1 proscioglimento
3 applicazioni di sanzioni.
Per gli ufficiali della Guardia di Finanza vi sono state: 23 inchieste e ,si sono concluse con:
10 proscioglimenti
13 applicazioni di sanzioni.

Va sottolineato però che per coloro che erano in qualche modo in servizio la sanzione applicata è stata generalmente e semplicemente quella del rimprovero.
Le 'stesse pronunce di proscioglimento 'sono state emesse sì perché non risultava pienamente approvata l'appartenenza dell'ufficiale alla loggia P2, ma facendo a tal fine unicamente fondamento sul diniego di appartenenza alla loggia dell'ufficiale intercettato.
2) Per l'area della Magistratura va sottolineata e apprezzata la rece11tissima determinazione della Corte di Cassazione che ha esaminato ed è intervenuta nel problema dei magistrati iscritti alla P2 per realizzare la bonifica in questo campo .
3) Circa il settore politico (dirigenti di partito, parlamentari, ministri e sottosegretari, consiglieri e assessori) il processo di bonifica risulta nel complesso negativo e parzialissimo, nonostante casi rarissimi di autoammissione di responsabilità e di autoemarginazione dalla politica, vicende politico-ministeriali emblematiche ma isolate (caso dimissioni Pietro Longo), qualche parzialissima bonifica nei partiti mediante la mancata ripresentazione di alcuni piduisti alle elezioni e la ,ricollocazione in compiti di secondaria rilevanza.
Resta comunque il fatto che l'area della P.A. e dei funzionari civili è quella a tutt'oggi più impermeabile, dove il governo e il ministro degli Interni, nonostante lo scioglimento per decreto della P2 e le ,risultanze della Commissione Anselmi, si sono limitati a lasciare "libertà di coscienza" alle singole amministrazioni, le quali di fronte alle normative generali e specifiche del pubblico impiego sono approdate al nulla di fatto.

III - Ipotesi e linee di intervento nella P.A., spazi di iniziativa sindacale, ai fini di un'opera di bonifica e di rinnovamento.

Le ipotesi e le linee di intervento, anche sotto il profilo degli spazi di iniziativa del sindacato, poste necessariamente in forma interrogativa e problematica, si possono articolare in 2 filoni: l'intervento di emergenza ai fini immediati di una bonifica antipiduista nella P.A. e l'intervento strutturale per combattere alle radici le condizioni che hanno determinato l'insediamento naturale della P2 nei gangli vitali delle istituzioni e degli apparati pubblici.
1) Ipotesi e linee per l'intervento di emergenza:
a) promozione di una campagna di conoscenza, riflessione, dibattito e denuncia sul fenomeno P2, anche da parte sindacale, quale espressione della più generale questione morale, con iniziative diffuse negli stessi posti di lavoro che hanno registrato l'insediamento piduista;
b) verificare, per l'immediato, la possibilità di attivare nella P.A., nell'area in particolare dei funzionari civili e dell’alta dirigenza, le determinazioni e le strumentazioni di bonifica sperimentate, avviate o comunque assunte della Corte di Cassazione per la magistratura e le ,stesse indagini disciplinari sia pur parzialmente e debolmente adottate per gli ufficiali delle forze armate;
c) verificare la possibilità di realizzare nella salvaguardia di tutte le garanzie costituzionali, sulla base delle determinazioni innovative (scioglimento della P2), degli atti politici (conclusioni della Commissione Anselmi), delle decisioni della Corte di Cassazione e delle esperienze embrionali di bonififica antipiduista già realizzate, di impostare sulla base della palese contraddizione da una parte l'art 97 della costituzione (assicurare il buon andamento e l'imparzialità dell'amministrazione), l'art. 98 (i pubblici ,impiegati sono al servizio del1a nazione), il giuramento di fedeltà alla Repubblica prestato dai pubblici dipendenti, più in generale i diritti e doveri del pubblico dipendente, e dall'altra parte la "militanza" piduista già come definita dalle norme di affiliazione che si riportano in allegato, indagini e poi interventi disciplinari, amministrativi e giudiziari.
2) Ipotesi e linee di intervento strutturale
a) per quanto ci riguarda come sindacato, dindo, rinnovamento e sviluppo pieno di una nuova ,stagione di contrattazione sindacale anche nella P.A. e nei Ministeri, fondata sull'applicazione piena della L. 93 cioè la Legge-quadro nel P.I., in particolare attivando effettivamente il diritto all'informazione promuovendo una nuova contrattazione articolata e decentrata soprattutto nella organizzazione del lavoro, nella produttività della P .A., nella professionalità; .
b) riforme, piena contrattazione, controllo democratico dei meccanismi di reclutamento nel P .1., dei concorsi, insieme a quella di formazione, aggiornamento e qualificazione professionale, e per i quadri degli apparati pubblici e degli enti economici pubblici, delle nomine;
c) riforma della Dirigenza nella P.A.;
d) ripresa e applicazione del progetto. Giannini;
e) riforma della giustizia politica;
f) riforma dei controlli sulla P.A., nuovo rapporto tra cittadini e P.A., cioè rafforzare e diffondere le sedi di controllo: in concreto e nel breve periodo, questo significa opporsi ai tentativi di normalizzare la Magistratura e di ridurre il ruolo del Parlamento a quello di mera registrazione. Se, anzi, non venisse ricostruito il grado necessario di trasparenza istituzionale, eventuali riforme che accumulassero maggiori poteri in sedi sempre meno controllabili aggraverebbero notevolmente i fenomeni oggetto dei nostri lavori, cioè la diffusione pervasiva dei poteri occulti. Deve crescere nel 'suo complesso la visibilità delle grandi organizzazioni pubbliche e private, diminuire il potere proprietario di oligarchie burocratiche sulle risorse pubbliche, divenire più forte il circuito dei controlli diffusi. In fondo, la P2 è una espressione, non si può dire neppure unica ed estrema, di un processo più generale di estensione del "cripto-governo", di "clandestinizzazione della politica", di crescita del tasso di opacità della politica e del potere, del tasso complessivo di segretezza rinvenibile in un sistema.

Alla opacità occorre contrapporre la visibilità e la trasparenza, alla cultura delle impunità quella dei controlli.
Su questa frontiera drammatica un nodo organizzativo spetta anche al sindacato romano, alla Camera del Lavoro di Roma.
















































FRAMMENTI  DA UN SEMINARIO, scritto nel 1986-87
Giuseppe De Santis

LE AMICIZIE PARTICOLARI
Il vicedirettore mi spostò  nella camerata del terzo piano. Michele lo lasciarono al secondo. Le regole contro le “amicizie particolari” erano scattate.
Il padre spirituale aveva picchiato sull’argomento con più ardore  del solito, nel ritiro di primavera, dedicato alla purezza. “L’uomo è il fiammifero la donna è la paglia”.
L’anno scolastico, anche per i ragazzi del seminario  minore di Termoli stava per concludersi, con il ritorno a casa per due mesi di vacanza.
Le difese della castità andavano decisamente potenziate.

I SANTI BAMBINI
L’esempio di santi adolescenti ci era di sprone.
Luigi Gonzaga, Domenico Savio e altri, pallidissimi nei santini allineati sulle scrivanie.
Non era impresa  da poco concepire di accostare il ritmo di tali santi bambini, che avevano bruciato le tappe della santità, come risultava dai panegirici.

LA TENDA SUL LETTO
Il rettore: “Ciascuno dorma ben disteso nel letto, con le braccia fuori dalla coperta. La coperta non è una tenda d’accampamento”.
Qualche volta puntualizzò di non toccarsi
Un po’ di manovre  sotto le tende proseguirono, tuttavia. “Ho avuto anche qualche tentazione impura”, mi riuscì di dire in confessione.

IL BALLO DEL PREFETTO
Una sera, ben oltre l’ora del Silenzio, l’intero camerata dei ginnasiali si animò di un circospetto ma diffuso movimento. La luce centrale dell’immenso contenitore di 50 letti era spenta. Sette-otto torce elettriche, con i raggi giallognoli, tagliavano nel buio  un palcoscenico di luce sulla parete di fondo.
Sul set si esibiva di Prefetto  dei seminaristi, in un vivace balletto tipo can-can solitario. Dismessa la regolare tonaca nera, il Prefetto era in mutande.
I suoi movimenti, proiettati dalle torce, segnavano sulla parete oscure fantasie.

IL MAGAZZINO DEGLI EROI
“Il più grande di tutti è S. Paolo, per il vigore polemico: è il mio modello”, disse Michele. “Per me, è S. Tommaso”, replicai.
Passeggiavamo lungo il perimetro del cortile del seminario, un catino nel pomeriggio assolato.
Conservando sugli eroi.
Nelle teste dei due seminaristi si snocciolava l’intera sfilata dei modelli. Anzi, il supermercato: S. Pietro, il potere; S. Paolo, la passione; S. Francesco, l’umiltà; Don Bosco, la carità.
Personaggi, simboli, fantasmi diversi, spesso opposti, tutti remoti: potenti e integralisti, proto sindacalisti ed ecologici. Un grande magazzino.

IL SALTO NEL BUIO
Il seminarista più buono venne chiamato a partecipare al gioco.
Il buio era completo sui castelli romani.
“Per diventare socio della società segreta, devi fare un giro attorno al Convento, al buio, e avvicinarti verso il campo di calcio, sempre al buio. Noi t’aspettiamo dalla parte del campo”, gli proponemmo.
Egli eseguì con scrupolo la prova, costeggiando, rasente il muro, l’enorme Convento di Grottaferrata, dove passavamo in Ritiro l’ultimo mese delle vacanze.
Concluso il circuito: “Adesso, di corsa, devi venire da questa parte, dove senti le voci”.
Fattosi coraggio, avviò l’ultima  corsa nel buio.
Un attimo dopo, un urlo sordo, seguito da un tonfo.
Era precipitato sotto, nel campo sportivo, da un’altezza di circa tre metri.
Il gioco consisteva in questo: far volare il cursore, dimentico – complice  il buio – della precisa geografia del luogo, dal colle del Convento, giù nel campo di calcio ricavato dai fianchi del colle stesso, ma a circa tre metri sotto.
Il campo era tutto di terra battuta.

I FUNZIONARI DI DIO
L’organizzazione funzionava secondo un orario ben consegnato, in quindici operazioni:
Svezia: ore 6
Pulizia: ore 6-6, 20
Messa: 6,20-7,10
Colazione: 7,10 – 7,30
Scuola:7,30-13
Pranzo: 13,30-14,15
Prima ricreazione: 14,15-14,50
Primo studio: 14,50-16,30
Seconda ricreazione: 16,30-16,50
Secondo studio: 16,50-18
Funzioni religiose: 18-19,40
Cena: 19,40 – 20,30
Terza ricreazione: 20,30-21
In camerata: 21
Silenzio: 21,20
Otto ore tra scuola e studio pomeridiano, tre ore di pratiche religiose, un’ora e mezza di ricreazione, tre ore per tutto il resto.
Lo stesso orario sta per i piccoli alunni delle medie inferiori che per i grandi studenti del ginnasio.
La preghiera, l’Istituzione centrale, era incessante, oltre la messa mattutina e le funzioni pomeridiane : alla sveglia, a colazione, pranzo e cena, prima del Silenzio, intervallata, per metà  dall’orario di pranzo e cena, dalla lettura del Martirologo romano, per tutti i santi giorni dell’anno. Via via intensificata, in progressione geometrica, il sabato, la domenica, nelle feste comandate. Egemone nei periodi di particolare devozione che costellano l’intero calendario, per lunghe settimane.
Totalizzante nei Ritiri, svolti in assoluto silenzio, che duravano anche oltre dieci giorni ciascuno.
I Superiori spiegarono, una volta, che se molta disciplina è necessaria per fare dei buoni funzionari dello Stato, ben più alta disciplina è richiesta ai futuri funzionari di Dio.
Un orario idoneo, per futuri funzionari.
Un'ora e mezza al giorno di ricreazione doveva bastare, per ragazzi - per lo più figli di contadini, dei paesi interni del Sud - con un coriaceo retaggio di vagabondaggi all'aperto, liberi, fino all'abbandono a volte.

Il prete grasso

Estreme erano le mie pretese riguardo ai preti. Avevo la maledetta mania di confrontarli con San Francesco d'Assisi.

"Se la modestia e la carità sono virtù cardinali, come si spiega che, tra voi preti, ve ne sono di ricchi, proprietari di case opulente e di splendide automobili, e grassi e ingordi", ebbi il coraggio di chiedere direttamente al Vescovo della Diocesi.

Sua Eminenza mi puntò addosso uno sguardo quasi allegro e parlando lentamente: "1 preti devono servire il Signore. Assolvono un compito altissimo. Hanno bisogno, perciò, di tutta la vigoria e di tutti i mezzi pratici necessari. Ecco, che non vi è contraddizione".
Mi abbracciò, sollevandomi di peso da terra sulla sfera gagliarda della sua pancia, davvero liscia e calda, senza contrasto.

Le cinque partite in contemporanea

Nel cortile, lungo cinquanta metri per trenta, chiuso da tutti i lati dalle alte mura del Seminario e aperto solo dal cielo, i cènto seminaristi davano sfogo alle loro giovani vite nelle tre pause ludiche quotidianamente concesse, di mezz'ora ciascuna.
Era d’obbligo muoversi, almeno passeggiare, molto apprezzata la corsa. Comunque si finiva per giocare tutti a pallone.
I cento si dividevano in gruppi di venti - ciascuno ripartito in due squadre - e ingaggiavano cinque partite, dieci contro dieci.
Ogni coppia di squadre poteva disporre di uno spazio di dieci metri per trenta.
Lo spazio, cinquanta metri per trenta, equivalente a quello di un minuto campo di calcio, veniva miracolosamente calcato da ben cinque coppie di squadre.
Nei trenta minuti disponibili, esplodevano, in contemporanea, cinque partite, dieci squadre, cento furie;
Gli urti, i driblings aspri, gli urli, le cadute sul cement-o armato, le pallonate ossessive che si scaricavano sui muri producevano un subbuglio forsennato. La ristrettezza degli spazi maturò anche certuni usi calcistici: quello più in voga, da noi, era di scaricare ripetute pallonate addosso ai reietti di ciascuna formazione in campo.
L'attività calcistica era molto raccomandata dai Superiori.
"Lo sport sgrava il corpo e la mente dalla pigrizia e dal vizio", era una delle massime più menzionate.
Lo sgravio si ripeteva sistematico tre volte al giorno, sia pure in fretta. In quegli anni non c'era squadra di provincia delle serie cadette che non avesse nelle prooprie file qualche calciatore ex-seminarista.

I profeti e l'attore

La lezione su Darwin si era impigliata dentro le nostre verità sul creato.
Rivolgendosi, oltre che al gruppo dei seminaristi frequentati il liceo-ginnasio statale, a tutti i ginnasiali della classe, il Professore: "n punto di vista teologico è noto. Se trattiamo di profeti, allora consideriamoli tutti. Copernico, Darwin, Nietzsche, Freud, Kafka: non sono profeti anch'essi?".
Quei nomi, illustri e minacciosi, mi evocarono fantasmi. In realtà, mi erano sconosciuti.
Di Don Bosco conoscevo vita e miracoli, in particolare, dopo la lettura della poderosa biografia regalatami dal Vescovo. Freud era uno straniero. Mi sembravano personaggi mondani, del mondo dello spettacolo.
Il Professore era un irregolare, tra tutti gli insegnanti: rinsecchito, livido, maligno, materialista dichiarato, ritenuto fallito dai colleghi, persino comunista.
Era un personaggio bizzarro e da compatire, benché mi lasciasse addosso una sottile attrazione.
Fui colto, d'improvviso, da una insensata fantasia:
"Chissà come rimarrebbe di stucco Monsignore se, un giorno, diventassi come lui: ateo e comunista", L'attore, che era in me, era in agguato.

Il vulcano Popocatepetl nella latrina

Michele era uno specialista negli studi clandestini o meglio nello studiare clandestino. Ne aveva inventato tutti i marchingegni possibili, nel severo ordinamento del Seminario.
Tre ore scarse di studio pomeridiane erano insufficienti a soddisfare la smania. La vera e propria furia di studiare che si era impossessata di una ristretta pattuglia di ginnasiali.
"Quanto è alto il vulcano Popocatepet1?". "Cinquemilatrecentoottantasei metri". "Dove si trova il Gran lago degli orsi?". "Nei territori di Nord-Ovest del Canada".
"Qual è il paese maggiore produttore di oppio?". La sfida tra me e Michele poteva continuare per ore intere, soprattutto in Storia e Geografia, celati in una delle laide cellette della latrina desolata del terzo piano, di notte, dopo il Silenzio, alla luce violacea della illuminazione notturna, dialogando fitto a bassissimo volume.
La consuetudine di albergare in coppia nel cesso, non propriamente salutare, se reiterata nel freddo sano dell'inverno senza riscaldamento alcuno del Seminario vescovile di Termoli, stava a confermare le "amicizie particolari" .
Il luogo di studio clandestino per eccellenza era dentro il letto. Ficcato sotto la coperta dalla testa ai piedi, disteso sul fianco destro, con il manuale semiaperto davanti agli occhi, alla luce stenta di una torcia elettrica tascabile, ho trascorso centinaia di ore, dopo il Silenzio oltre la mezzanotte, studiando disperatamente ciascuna delle nove materie d'insegnamento, in particolare latino e greco, acquattandomi nella cavità del materasso ogniqualvolta intuivo il Vicerettore in giro d'ispezione notturna.
La furia di studiare invadeva segretamente lo spazio delle pratiche religiose quanto più declinava il fervore. Il corpo partecipava alla Messa e alla recita del Rosario, mimando fedelmente i riti, la testa era affaccendata a ripetere a memoria, centinaia di volte, i verbi greci.
La smania onnivora mi possedeva negli interstizi degli spostamenti quotidiani da un dovere all' altro, nelle pigre file che ci muoveva da un locale all'altro, fino a invadere i minuti di Silenzio a pranzo e a cena dediti all'ascolto della lettura del Martirologio romano, persino gli attimi iniziali della ricreazione, nel cortile, prima che esplodesse la solita mischia calcistica.
La scuola clandestina schivò la vigilanza dei Superiori, sebbene qualche sospetto indusse il Rettore a minacciare: "La smodata sete di sapere mortifica la fede e la pietà".
La figura di San Tommaso d'Aquino, dall'alto del suo sapere inoppugnabile, poneva al contrario ai nostri occhi l'alternativo contrasto tra fede e ignoranza, tutelando l'orgoglio e la miseria degli studi ginnasiali.

La statua di marmo

Mi apparve la Madonna di marmo del secondo piano.
Nella Cappella dove, a mezzanotte, mi ero recato in visita. La notte era gelida negli androni bui del Seminario. A cena, avevo pescato due vermi lessi nella pasta in brodo che le monache del sotterraneo avevano cucinato. La mattina, si era conclusa la maratona delle interrogazioni del secondo trimestre.
Il Predicatore: "La Madonna è la bella signora che ci scalda".

Il totofamiglia

"Dio, la Madonna, cristo: il Padre, la Madre, il Fratello", .
"Cristo è il fratello maggiore".
"Fratelli di Cristo, figli adottivi di Dio".
"Tre madri: la madre che ci ha generato, la Chiesa, la Patria".
"Il figlio prodigo peccò contro il padre e se stesso, ma fu perdonato".
"Santa Caterina scelse Cristo come sposo". "Mediteremo, stamattina, il mistero della Sacra famiglia".

"L'Avvento è l'attesa della nascita".

Il banchetto

"I sali si nutrono degli elementi chimici della terra. Le piante si nutrono di sali.
Gli animali si nutrono delle piante. Gli uomini si nutrono degli animali.
Il sacrificio è giusto, perché gli alberi sono superiori . ai sali, gli animali alle piante, gli uomini agli animali.
Dio si nutre degli uomini".
"Che io sia modellato, come legno mi lasci intagliare, diventi una statua".

Gli angoli delle stalle

L'estate fu piena di turbamenti. Come previsto dal Padre spirituale: esattamente.
Le ragazze gioca vano irrequiete sull' aia, sui balconi, nelle nicchie vuote del magazzino, dietro gli alberi, negli orti.
I polpacci rilucevano dagli angoli bui delle stalle. Si spalancava l'abisso.
Non c'era esercizio spirituale che tenesse.

Il conto del padre
"Ma, a che servono tanti studi, se non sai manco contare quanti sacchi di grano ci toccano?".
L'inesorabile interrogativo di mio padre mi schioccò addosso più crudele di una scudisciata.
"Un parassita che se la fa con quei cornuti dei preti", sibilò, avviandosi a controllare il lavoro indolente dei braccianti avventizi addetti alla meta di paglia.
La fatica della trebbiatura volgeva alla fine, mentre mi dissimulavo, torvo in viso come Giuda, ai bordi dell'aia, rancoroso e vendicativo, inghiottito nei gurgiti di una desolata umiliazione.
Lo stridio assordante della trebbiatrice, il ronzio delle pulegge che la collegavano al trattore cingolato, il trambusto degli operai, delle donne, dei bambini, delle voci, si andavano attutendo.
V'era da concludere con la divisione del grano. 100 quintali in tutto: 50 al padrone, 5 al trebbiatore, 5 agli operai e braccianti, 7 al commerciante, 2 al trasportatore, 7 da conservare per la prossima semina, 3 per la farina, 24 restanti per la vendita, intanto per acquistare le quote di concime e di attrezzature destinate alla prossima stagione.
Era questo il conteggio da fare.
Il anni di scuola, compreso il ginnasio, di temi sulla primavera, di fondazioni di Roma, di verbi latini e greci, di donzellette che vengono pimpanti dalla campagna.
Le febbrili devozioni.
" Il padre chiedeva il conto.
Il conto di un anno.

I carri armati

L'automobile del Vescovo, nera e leggera, si inerpicava sulle colline, d'agosto.
La radio: "I carri armati sono a Praga".
Nessuno commentò: il Vescovo, il Segretario, il Rettore.
Sul sedile posteriore sentivo, d'improvviso, che il prete non sarebbe stato il mio mestiere.
Non sapevo né perché ero entrato né perché mi apprestassi ad uscirne.
L'automobile continuò serena e cupa la sua corsa.

La libertà di Carla

Carla era energica, passionale, di sottile intelletto, spietata nella polemica. I capelli fulvi inondavano di bagliori rossastri l'intera figura, slanciata e salda.
Nel liceo era rispettata e temuta dai compagni di classe e dagli insegnanti.
Per tutti destinata a grandi cose. Distante da tutti gli adolescenti informi e neghittosi.
Nei lenti pomeriggi di studio comune nel salotto di casa sua, originava da lei, dal suo corpo, un'oscura frenesia, esplosioni remote. Da regioni ferine. Come furie soffocate.
Non il genio o la felicità, ma la follia l'attendeva a Roma, appena varcate le soglie dell'università.
La libertà era giunta troppo tardi e infinita.

Il furfante cristiano

Nella regione immensa e remota vi era un solo partito. Sempre.
Il partito era lo Stato.
Consueta la via dalla Chiesa al partito. La savia complicità: millenaria.
Un furfante cristiano è un cristiano. Il parti to era popolare.
La politica era la libertà.

Il consigliere del Papa

"Chi parla per primo impone il tema: è sempre in vantaggio sugli altri".
"La politica più la morale: altrimenti è guerra". "Un normale politico. è meglio di un prete mediocre".
Monsignor Capovilla concluse il discorso, elegante, mobile, come la sua figura aquilina.
Consigliere particolare del Papa mite, morto il Papa era stato esiliato in Provincia dalla Curia.
Così, si acconciava, premuroso, a dare incoraggiamenti all'ignavo gruppuscolo di mocciosi intenzionati a far politica, senza esatti moventi.
"Tra noi ci azzanniamo come belve", commentò l'esperto deputato della circoscrizione.

Bertrand Russell e il ministro

C'erano tutti i maggiorenti del partito, della zona. Il Ministro si congratulò per l'egregia attività della locale sezione del movimento giovanile. 1 dati del tesseramento erano ottimi.
Chiese: "Cosa leggi?", a proposito di un volume che avevo infilato sotto il braccio, per caso.
"Bertrand Russell, La conoscenza umana", risposi. "È superato da tanto tempo", concluse.
Ma le lodi erano sentite, per una cordiale vivacità degli occhi, dentro le occhiaie, le enormi occhiaie livide.
La morte l'avrebbe preso tre mesi dopo.

Gli dei sulla terra

La Politica era nell'aria. Dappertutto. Sconosciuta.
Naturale. Seducente. Necessaria. Mobile. Irruente. Sorda. Totale.
Onde intense destavano passioni tra uomini remoti. Gli dei erano scesi sulla terra.
Nella regione lontana echeggiavano baleni di fuoco. Nei visceri della Balena.

Le donne artificiali
"Gli studenti bruciano Parigi". "Bel Air la notte del massacro". "La violenza, la riscossa", chi è mancato questa volta ... ".
Dedicammo la copertina del primo numero della rivista a Charles Manson. Il titolo della testata: "I giovani del dialogo". Brani di Pavese, Ungaretti, Kafka, Maahatma Ghandi, Luter King, Bakunin, Giovanni XXIII, Marx, John Kennedy. Un'inchiesta sul trucco delle donne, artificiali e inafferrabili: un pezzo forte di una rivista contro la contestazione.
Non sapevamo ancora che in certe lontane università qualcuno aveva proclamato l'amore libero.
Con il ciclostile del Parroco.

Le filosofie della miseria

La povertà redentrice dei cristiani. La scelta dei figli dei fiori. La lotta di classe e l'onore austero degli operai. Il successo. L'intellettuale è superiore. Il bohemien. L'essere e l'avere. La politica buona: potere giusto, potere sobrio. Una briciola di ricchezza per tutti. Il parassitismo inerte dell'eterna adolescenza.

L'uomo che si fa da sé. La creatività riscatta la miseria. La miseria: fame, lordura, vergogna, invidia, odio, vendetta. Non si riscatta.






























ATTIVITA’ 1987-88
PROGRAMMI 1989-90
Associazione Metamorfosis

Presentazione

Non è facile illustrare in modo piano le pagine che seguono. Esse, infatti, intendono rappresentare sinteticamente l'attività ricca e tutt' altro che lineare prodotta da una nuova Associazione culturale romana: Metamorfosis.
L'Associazione è stata lo sbocco naturale che abbiamo voluto dare ad un fermento e ad un travaglio culturale e politico in corso da anni.
Questa dimensione che abbiamo costruito a Roma vuole soddisfare, con disincantato spirito di ricerca, una sete di riscontri, una aggregazione di dettagli reali e intende riaffermare, con una particolare attenzione e sensibilità verso il "nuovo" e verso la "complessità", l'autonomia del vissuto quotidiano, della dimensione sociale rispetto alle categorie precostituite della politica, delle mode.
Proviamo a seguire il filo della nostra attività, così come si è liberamente sviluppato in questo anno e mezzo.
Fondamentale per la nostra ricerca è la "letteratura", codice aperto e dinamico, con i suoi linguaggi e le sue opzioni.
La rivista' 'Foreste sommerse", quadrimestrale giunto al suo terzo numero e patrocinato dal Comune di Cortona (Arezzo), intende "decodificare" pratiche e costumi attraverso una ricognizione dei segni, delle culture e delle caratteristiche, in primo luogo letterarie, prodotte dal mutamento e dalle nuove omologazioni.
Ogni numero viene "istruito" da seminari tematizzati e seguito da incontri pubblici.
La rivista, che affronta temi monografici, intende privilegiare il fenomeno dei "nuovi autori" (anche attraverso il progetto di banca degli inediti).
Le recensioni ottenute e i pareri sono più che incoraggianti per continuare nell'impresa.
Scrive Claudio Magris: "Credo proprio di essere partito da un rifiuto della nostalgia, di ogni operazione di restauro per fare i conti, invece, con la nostra situazione di esiliati, di sfrattati, per vedere se questo significa perdita dei valori, del senso dell'esistenza, oppure se, e in che misura, con una piccola guerriglia quotidiana, sia possibile ritessere un filo, trovare ancora un significato".
Una dimensione rinnovata della politica che sappia anche trascendere il contingente, sprovincializzarsi ed essere, al tempo stesso, strumento per la "guerriglia quotidiana", di cui parla Magris, significa anche impadronirsi di (e destrutturare) parole e categorie come "progresso", "crescita", "compatibilità", ecc.

È questo il senso di alcune iniziative promosse dall' Associazione o da essa ospitate.
Ad esempio, per quanto riguarda il tema relativo alle contraddizioni tra economia ed ambiente vanno segnalati:
- i due libri L'onda verde e Le culture dei verdi, frutto di una elaborazione collettiva che ha contribuito alla nascita di Metamorfosis;
- il workshop sugli orizzonti dello sviluppo e sulle compatibilità ambientali;
- il rapporto e la collaborazione con le Case della scienza e dell'energia di Roma sui problemi del risparmio energetico e della riorganizzazione dell'area urbana.

Ma l'esigenza di una nuova concezione della politica non poteva e non può eludere il nodo della "tradizione" della sinistra, storica e non.
Da qui è nata la scelta di periodizzare una ricerca a partire dal "fatidico" 1977, volendo confrontarsi, innanzitutto, con o la rimozione che si è avuta di quella vicenda.

L'attenzione si è posta e si pone soprattutto sui molteplici percorsi seguiti in questi anni dalle soggettività sociali frammentate e "sommerse" dall'onda neoconservatrice.
Lo stesso scossone elettorale del giugno 1987 ha prodotto un impulso vitale nella discussione e nell'iniziativa di quanti, nella sinistra romana, ritengono ingiusto ed errato "modernizzarsi" mediante un esorcistico rogo delle ragioni originali di una storia collettiva che non è finita.
Questi sono stati i motivi della nascita di un Centro di ricerca politica che, faticosamente, ha tentato di tracciare un itinerario possibile tra teoria e prassi, tra tradizione e discontinuità.

Gli errori sono inevitabili quando si percorrono itinerari nuovi ed in modo trasparente. Ma tali errori non sono stati così gravi da giustificare l'uso di categorie interpretative banali e vecchie per il nostro esperimento.
Ora abbiamo davanti a noi un percorso difficile ed irto di asperità.
Il bilancio dell'intensa attività che è alle nostre spalle è positivo ed il gran numero di persone coinvolte nelle nostre iniziative lo sta a confermare.

Metamorfosis deve riqualificare la sua attività di studio e di iniziativa.
Non intendiamo muoverci in presuntuosa solitudine, ma interagire Con altre esperienze.
Pari dignità e rispetto reciproco: questo chiediamo, offrendoci allo stesso tempo come interlocutori e come energie disponibili alla definizione di percorsi comuni.
Andare contro corrente è faticoso, ma non è un dogma.
Forse può essere esaltante.

ATTIVITA’ 1987-1988

"Foreste sommerse"
Quadrimestrale di letteratura e cultura

Novità di valori, di conoscenze, di senso e di linguaggi si sono via via profilate negli ultimi anni. Queste mutazioni hanno avuto luogo ovunque e hanno trovato un punto alto e specifico nella letteratura, che appare oggi uno dei "codici" più aperti, dinamici e stimolanti.
Le novità e le mutazioni che abbiamo di fronte producono anche forti omologazioni culturali, ma contemporaneamente stimolano il proliferare di differenze.
"Foreste sommerse" intende fare i conti con la velocità di questi cambiamenti e con le relative diffusioni di conoscenze. Il ruolo della rivista è di ricerca e di verifica sulle caratteristiche di queste novità nei saperi e nelle espressioni, attraverso l'attenzione ai diversi modi in cui tali cambiamenti sono vissuti da una grande metropoli o viceversa da una città "a misura d'uomo".
Hanno importanza primaria i linguaggi, i nuovi codici. In questo quadro il fenomeno dei nuovi scrittori è emblematico e contiene attualmente un grande numero di indicazioni di queste metamorfosi della comunicazione e dell'espressione.
"Foreste sommerse" vuole creare uno spazio di riflessione e di comunicazione che, partendo dal fenomeno dei nuovi autori letterari e dai linguaggi in cui si esprimono, allarghi allo stesso tempo gli orizzonti della ricerca.
"Foreste sommerse" e le sue iniziative collaterali si sono mosse da Cortona, ma scegliendo fino dall'inizio un destinatario nazionale. L'idea di partenza è che anche una città senza distorsioni metropolitane può diventare punto di riferimento per operazioni culturali a carattere nazionale.
Va ancora sperimentata la possibilità di canali effettivi di comunicazione e di scambio tra la dimensione metropolitana e la dimensione locale e territoriale dei centri minori, o se invece ci si trova ormai di fronte a realtà scisse ed incapaci di dialogare.
La rivista svolge una funzione di "servizio" per il lettore.

Le monografie, le rubriche e gli interventi sono sempre corredati da bibliografie, schede, segnai azioni e documentazioni. Rispetto ad altre riviste che hanno come priorità il desiderio di proporre una linea culturale univoca, la nostra rivista si caratterizza per il diverso stile di informazione culturale che, a partire della centralità della letteratura, intende fornire al lettore.
Le informazioni e le segnalazioni non sono neutre, ma scelte attraverso una chiave di lettura che privilegia l'intreccio tra diverse discipline.
"Foreste sommerse" non nasce dalla necessità predeterminata di "fare tendenza", ma si fonda sulla collaborazione tra promotori differenti tra loro per formazione, aspettative e motivazioni.
La costruzione di una identità non crediamo si possa inventare con la pura mediazione tra idee diverse, ma avviando un lavoro di ricerca e di elaborazione. Si tratta di un procedimento da svolgere in itinere e in progressione.
La rivista vuole proporre un ragionamento sul significato "simbolico" dei nuovi autori, come punta di un fenomeno più vasto e complesso che non può essere ridotto al problema del rapporto tra esordienti e mercato editoriale. Il fenomeno dei nuovi scrittori sembra avere una accentuazione particolare nelle giovani generazioni (quelle che si sono affacciate alla vita culturale e politica negli anni Settanta e Ottanta), ma non è nostra intenzione proporre una discriminante puramente generazionale. Riteniamo ad esempio che in questa dimensione "nuova" uno spazio significativo sia rappresentato dall'universo delle autrici, dalla scrittura femminile, e più in generale dal rapporto tra scrittura, soggettività e politica.
Nei confronti della crescente richiesta di comunicazione scritta, proveniente soprattutto da fasce di età che hanno vissuto la scolarità di massa anche nell'istruzione superiore, settori importanti della critica e della cultura italiana propongono chiusure e rifiuti pregiudiziali. Contro questo orientamento alla riduzione anche quantitativa delle persone che scrivono e che pubblicano, la nostra rivista intende opporre viceversa un segnale di sollecitazione e promozione verso la scrittura.

Molti dei proponenti di "Foreste sommerse" (e dei probabili interlocutori) hanno vissuto precedenti stagioni di iniziativa e di impegno politico. Negli anni Settanta le forme tradizionali della politica (partitica o militante) hanno rappresentato per larghe aree giovanili uno strumento pur contraddittorio per scoprire il nuovo, per conoscersi, per cambiare come per ricordare. Oggi queste forme tradizionali della politica dimostrano "incomprensioni" verso aspirazioni nuove o non più solo materiali. Di fronte alle mutazione di pensiero e di linguaggi si rivela una difficoltà di parlare, di interloquire, di socializzare.
Nell'agire quotidiano si delineano lentamente e in modo sommerso delle sottili reti di "resistenza" contro l'omologazione a un sistema politico e culturale ritenuto astratto e distante. Queste "resistenze" producono comunicazioni ed estetiche nuove, spesso giudicate a torto impolitiche, che prefigurano passaggi a una cultura dell'equilibrio con la natura, l'altro, il diverso.
Crediamo che sia positivo allora valorizzare la cultura del "frammento", intesa come cultura delle autonomie individuali e collettive. Ma ciò non significa, per noi, supina accettazione di forme di colonizzazione culturale che, anche quando si esprimono in modi apparentemente neutrali, sono finalizzate a una frantumazione pilotata del sapere e alla costruzione di aree culturali fra loro non comunicanti.

Sommario del n.1

MONOGRAFIA: Minimalismo

La cornice
Minimalismo: il movimento che non c’è di Fabio Giovannini

All’interno
Minimalismo: le relazioni interpersonali di Enrico Euli

I testi
I valori della scrittura di David Leavitt
Minime influenze di Raymond Carver

Il materiale
Gli autori
Minimalismo in libreria
“Minimabilia”: per una bibliografia italiana del minimalismo di Alessandro Gebbia

INEDITI
Racconto di Antonella Anedda
Gli appunti di Tiziana Pozzessere
Intermezzo n.3 di Antonello Zanda
El, ella i l’home del biodegradable di Josep M. Pujol

INTERSEZIONI
Primi perimetri di Enrico Euli

RUBRICHE
Fuori dalla città: Città amata di Marco Gherardi
Cercare sentieri: il teatro dei carcerati di Pietro Ingrao
Quando la fantasia abbatte un muro di Pierpaolo Andriani
Altre riviste: “Vomito” colloquio con Vincenzo Sparagna

APPENDICE
Foreste sommerse di Fabrizio Clementi


Sommario del n.2

MONOGRAFIA: Letteratura verde

La cornice
Un bosco di parole di Fabio Giovannini

All’interno
Fantascienze ecologiche di Sergio Brancato
Il bosco di Terradilei di Anna Maria Crispino
Animali parlanti di Entico Euli
Il bosco delle fiabe di Francesca Lazzarato
Paesaggi di Tizziana Pozzese

I testi
Catasti di Valerio Magrelli
Per un amico verde di Renzo Paris
“Alle erbe, alle piante, alle fronde, perdute muse” di Antonio Veneziani
Il bosco d’amore, l’amore nel bosco di Mario Spinella
Il cerchio bianco di Christa Wolf

Il materiale
Natura, ecologia e letteratura
Sette itinerari per l’ecoletteratura
Trame verdi nella recente letteratura italiana

INEDITI
Frammenti di un seminario di Giuseppe De Santis
Stranieri di Gian Carlo Sammito
Una lettera d’amore di Alessandro Iovinelli
Une laison dangereuse di Jacqueline Spaccini

INTERSEZIONI
L’intersezione  genetica di Fabrizio Clementi

RUBRICHE
Fuori dalla città: Uomo fortunato di Dario Paccino
Cercare sentieri: Atopia o del dolore del Moderno di Nichi Vendola
Altre riviste: Movimenti – periodici di Andrea Baglioni

APPENDICE
Verde verso l’azzurro di Antonio Gramsci


Sommario del n. 3

MONOGRAFIA: La politica e la scrittura

La cornice
La sinistra che scrive di Giuseppe De Santis e Fabio Giovannini

All'interno
Nuove estetiche nuove politiche di Enrico Euli
1977: ovvero la ricerca della memoria di Fabrizio Clementi

I testi
Il sangue della letteratura di Salvatore Mannuzzu
Niccolò di Salvatore Mannuzzu
Dandies e stracciono di Marco Gherardi Fiabe dannate di Marco Gherardi
L'ossessione del mercato di Luca Canali
I gioielli di Mecenate di Luca Canali

Il materiale
Sinistra e letteratura: una bibliografia
a cura di Giuseppe De Santis e Rita Madotto

INEDITI
Il topo di Ileana Taddei
I maiali di Roberto Zamparelli
This poem is for bear di Gary Snyder

INTERSEZIONI

Ma la caduta di una bomba è uguale alla caduta di unafoglia? di Renzo Paris

RUBRICHE
Fuori dalla città: Ricominciare dal principio di Pietro M. Toesca
Cercare sentieri: Imparare a sceneggiare di Roberto Piccone
Scrivere il cinema di Massimo Moscati
Altre riviste: La scrittura oggi: riviste letterarie e giovani autori di Fabio De Rossi, Marco Gasparini e Claudio Razeto

Finecorsa di Marco Gherardi

"Marco Gherardi raccoglie in Finecorsa alcune poesie scritte in un arco di tempo ampio ma tuttavia legate dalla continuità di un disegno narrativo omogeneo e compatto. Questa "tenuta" della scrittura, questa resistenza alle tensioni centrifughe di una voce narrante piena di curiosità di dire del mondo quotidiano, delle sue cose, dei suoi eventi, è raggiunto attraverso due felici giochi di prospettiva che orientano, per così dire, la raccolta. Uno è quello denunciato subito, in apertura del libro, con la citazione dello shakespeariano Timone di Atene e del tema dell'oro che di quel dramma è un leit-motiv. L'altra prospettiva che unifica e da senso assieme alla tensione di una volontà di giudizio, etica, che così si afferma - è quella invece indicata dal titolo, una 'finecorsa' che se 'chiude' in un itinerario compiuto il girovagare delle esperienze e dei racconti permette a quella erratica coscienza del tempo che qui si manifesta, 'di affermarsi in un bilancio preciso di esistenza e di conoscenza".
(Giorgio Patrizi, in "Rinascita", 24 dicembre 1988)

Il volume pubblicato come supplemento a "Foreste somerrse" (pp. 128, lire 20.000) è distribuito in libreria e può essere richiesto all'Associazione Metamorfosis.


Le iniziative di "Foreste sommerse"

Il 21 marzo 1988, presso il Teatro Argot, ha avuto luogo un incontro-dibattito dal titolo: Quali riviste per i nuovi linguaggi. Il ruolo e il significato di una rete di periodici di letteratura e cultura per la diffusione di nuove forme comunicative. Erano presenti direttori e redattori di "Foreste sommerse", "Linea d'ombra", "Noi donne", "Palomar". "Soolathia" e "20-30". Nell'incontro sono state discusse le potenzialità e i problemi delle riviste di letteratura e cultura e sono stati affrontati i presupposti di un futuro incontro sulla normativa e i sostegni pubblici alle riviste non commerciali.
Il 26 aprile 1988 la rivista "Foreste sommerse" ha promosso e coordinato il dibattito Minimalismo: moda editoriale o nuovo mito americano?, svolto presso il centro culturale Mondoperaio. Hanno partecipato !rene Bignardi di "La Repubblica", Tommaso Di Francesco di "Il Manifesto", Renato Nicolini, deputato, e gli scrittori Gaetano Cappelli e Maurizio Cohen.
In occasione dell'uscita di "Foreste sommerse" n. 2, dedicata al rapporto tra ecologia e letteratura, la rivista ha promosso il dibattito "Letteratura verde: l'ambientalismo ha condizionato la scrittura?" che si è svolto a Roma il 24 novembre 1988. Hanno partecipato Armando Gnisci, docente di Letterature comparate all'Università di Roma, Renzo Paris; scrittore, Enzo Tiezzi docente di Chimica fisica e deputato. Ha coordinato Fabio Giovannini.
Il 28 ottobre 1988 "Foreste sommerse" ha partecipato al dibattito "La scrittura oggi" che si è svolto a Bari con la presenza di Raffaele Nigro, scrittore, e di Stefano Bronzini, dell'Università di Potenza. La rivista ha preso parte inoltre alll'incontro "Riviste letterarie e giovani autori" con Giuliano Manacorda e Francesco Muzioli, docenti universitari, Gabriella Sica di "Prato pagano" e Mina Matteo di "L'immaginazione", svolto si presso l'Università "La Sapienza" di Rooma il 22 novembre 1988.
Hanno scritto di "Foreste sommerse"

Le riviste, quelle vere, quelle che esistono per "stato di necessità", non solo non demordono, ma fioriscono. È il caso di "Foreste sommerse", che nasce a Cortona in territorio extra-metropolitano, puntando però su un destinatario nazionale.
Tommaso di Francesco, "Il manifesto", 16 aprile 1988.

Il programma di "Foreste sommerse" convince: ripercorrere il noto, riscoprire l'escluso e il rimosso. La strada è quella dell'intersezione.
Ottavio Cecchi, "Rinascita", 7 maggio 1988.

"Foreste sommerse" mi pare consapevolmente mirata a maturare in un discorso ibrido e mutante, che ama ritrovarsi in zone di confine, reintegrazione, rielaborazione critica, inventario e catalogazione produttiva tra letteratura, scienza, politica, fantascienza, ecc. .
Alberto Abruzzese, "Il mattino", 13 settembre 1988.

"Foreste sommerse" rappresentata una confortante novità nel panorama editoriale italiano. Un quadrimestrale di sottili valenze letterarie.
Giancarlo Susanna, "Storie", novembre 1988 ..


IL COLLETTIVO REDAZIONALE DI FORENSE SOMMERSE

Fabrizio Clementi, Anna Maria Crispino" Fabio Giovannini (coordinatore), Anna Maria Guadagni, Enrico Euli.
Progetto grafico a cura di Alberto Olivetti.


AMBIENTALISMO

Il tema dell'ambiente e lo studio delle tendenze facenti capo all'ecologia hanno impegnato l'associazione nel corso del 1987 e del 1988.
Nel 1987 si è costituito un gruppo di lavoro dedicato alle principali correnti internazionali del pensiero verde privilegiando soprattutto autori stranieri non sufficientemente noti nel nostro paese, mentre l''ambientalismo italiano sarà oggetto di una ulteriore fase di ricerca.
I primi risultati della ricerca sono stati pubblicati nel volume, edito da Dedalo, Le culture dei verdi. Un'analisi critica del pensiero ecologista. L'uscita del libro ha rappresentato solo una prima tappa di un percorso più lungo e articolato, che ha visto la realizzazione di altre iniziative di rilievo. Tra queste è utile segnalare un workshop, tenutosi nei locali dell'associazione, sul tema: "Gli orizzonti dello sviluppo tra compatibilità economiche ed ambientali".
La presenza di studiosi (P. Degli Espinosa, S. D'Albergo,
S. Sartori, e altri) e un intenso dibattito hanno caratterizz11to quell'appuntamento, fornendo ulteriori stimoli e suggerimenti per il prosieguo dei lavori.
Non meno importante la presentazione pubblica del libro Le culture dei verdi presso la "Casa della Cultura". L'iniziativa, che registrò un grande numero di partecipanti, diede luogo ad una ricca ed accesa discussione tra gli invitati (G. Berlinguer, A. Sofri, A. Langer, R. Rossanda, G. Cotturri) e il pubblico intervenuto.
Successivamente l'associazione - nell'intento di approfondire le problematiche emerse - ha ospitato un seminario sui rapporti tra pensiero ecologista e marxismo (in particolare il c.d. neomarxismo), raccogliendo interventi, comunicazioni e adesioni da parte di numerosi intellettuali. Si ricordano le presenze di: D. Paccino,R. Sbardella, M. Melotti, P. Deegli Espinosa, E. Modugno, A. Zanini, M. Bellofiore, L. Zaagato, S. Bologna. ecc.


Le culture dei verdi

L'ecologismo si occupa delle distribuzioni provocate dalla società industriale. L'opinione basilare del pensiero ambientalista è che energia e materie prime sono state manipolate dalla società industriale in modo indiscriminato, smisurato, imprevidente. Se il marxismo criticava solo i danni del dominio capitalistico sull'industrialismo illimitato e proponeva uno sviluppo ancora più vasto (superati gli ostacoli frapposti dalla società capitalistica), l'ecologismo si occupa viceversa dei limiti dello sviluppo nella società industriale in quanto tale.
La priorità ambientale non risolve tutti i problemi, ma una nuova visione dell'equilibrio uomo-natura acquista caratteri estendibili nello spazio (agli altri popoli anche non sviluppati) e nel tempo (alle generazioni future). .
La proposta che parte dal punto di vista verde rivela quindi elementi di svolta rispetto alle due principali culture presenti nel dibattito sullo sviluppo, quella liberale e quella marxista.
La questione ambientale appare insieme come una novità e una difficoltà per l'intero pensiero occidentale, dando luogo a speranze e preoccupazioni, a rischi di sopravvalutazione e sottovalutazione, in ogni caso ad una dinamica che coinvolge aspetti profondi del nostro modo di pensare. La questione ambientale e il punto di vista verde costituiscono qualcosa di più di uno stimolo: si tratta piuttosto di una vera e propria sfida sul terreno della modernità e dei problemi dell'individuo.
Assumere un punto di vista verde non è di per sé una soluzione, ma la sfida consente di cogliere interpretazioni e allusioni per affrontare in modo nuovo la questione dello sviluppo. Il punto di vista verde, infatti, da risposte di carattere epocale, e diventa un passaggio obbligato per una riconsiderazione di "stile" nel modo di pensare.
Il rinnovamento richiesto dalle tematiche verdi è allora prima di tutto culturale. Si tratta di un rinnovamento che è diventato oggetto decisivo della riflessione culturale e politica a partire dai primi anni Settanta, con il Rapporto Meadows del Club di Roma sui limiti dello sviluppo. Il giudizio su questo rapporto è tuttora occasione di polemiche, anche all'interno della stessa area ecologica, per i suoi aspetti di indubbio dirigismo, per le soluzioni autoritarie che ne possono conseguire sul piano dei razionamenti e di una politica "della scarsità", e per le premesse metodologiche e statistiche errate.
Il Rapporto del Club di Roma resta uno spartiacque, al di là delle intenzioni dei suoi estensori e delle scelte preordinate che ne stavano alla base. Introducendo il concetto di "limiti dello sviluppo" il Rapporto ha infatti messo in discussione un paradigma che durava da centinaia di anni: il paradigma dell'industrialismo. Questo paradigma metteva del tutto in ombra le conseguenze della produzione sulla realtà fisica e sociale esterna, e incentrava il pensiero economico sui beni producibili.
Fino agli anni Settanta era durato il successo della producibilità di merci, ora viceversa viene avanti la "coscienza dei limiti", e con essa domande di nuovo genere. Si passa da un ragionamento di producibilità ad uno di limiti e di ambiente. E la novità non può risiedere semplicemente nei "vincoli" che anche il Rapporto Meadows prefigura (cioè adattarsi all'idea di tassi di crescita minori), ma è di diversa impostazione, di progetto basato su diversi valori e diverse scelte "in positivo", e pone il problema culturale, organizzativo, produttivo, di mettere al centro la "qualità".
Da questo punto di vista non ha molta importanza che il catastrofismo sia stato sconfessato dalla realtà. È importante invece che si sia dovuta riconoscere l'esigenza di un tetto rispetto a questo tipo di sviluppo, acquisendo la consapevolezza che i progressi quantitativi non possono risolvere i problemi sociali, i divari, i rapporti con la natura.

La questione ambientale suggerisce un'altra linea di ragionamento, che fa dei concetti di qualità e di equilibrio lo sbocco di componenti e interessi diversi, anche in termini culturali, morali ed estetici, e di nuovi diritti del cittadino allo spazio o al tempo fruibile.
Tra molte differenze le forze intellettuali "verdi" contribuiscono al superamento del sapere tradizionale, riproponendo l'utopia di una società in cui il tutto prevale sulle parti, e che nello stesso tempo chiede decentramento e partecipazione. Si delinea a poco a poco un nuovo paradigma.
I "pensatori" verdi, i "maestri" di quell'arcipelago di movimenti che da alcuni anni sta attraversando molti paesi soprattutto europei, non costituiscono una "scuola" coerente e rigida. Tra di loro corre solo un filo (un filo verde, ovviamente) che li collega senza per questo renderli univoci. Le culture dei verdi, infatti, sono nutrite di elementi anche molto differenziati.
Tutte le linee culturali presenti nell'ecologismo, comunque, sembrano approdare a una critica dell'industrialismo che a poco a poco si traduce in nuova proposta anche economica. Le implicazioni economiche, però, non diventano prevalenti, e il pensiero verde continua a costituirsi anche al di fuori di questa tematizzazione: le novità eminentemente culturali dei verdi mantengono una importanza primaria e stanno contribuendo alla diffusione nel vocabolario politico di termini come qualità, diversità, multipolarità, corporeità, naturalità, equilibrio, ecc.
L'ambiente, allora, diventa una nuova priorità. Una priorità che non va intesa come difesa della natura incontaminata, ma come insistenza nel porre il problema di un nuovo ed equilibrato rapporto uomo-natura, per fondare una identità collettiva che liberi da una egemonia culturale incentrata sulla "producibilità" e l'espansione industralistica.


Gli orizzonti dello sviluppo tra compatibilità economiche e ambientati

L'affermarsi della questione ambientale e la crescita dei movimenti di massa che su di essa hanno fondato la loro identità e il loro campo privilegiato di azione, rivestono una posizione ed un ruolo di particolare interesse all'interno dello scenario politico-sociale dei maggiori paesi industrializzati.
Problematiche come lo sfruttamento dell'energia nucleare e la tutela dell'eco-sistema, obiettivo ormai da tutti giustamente rivendicato, sono diventate centrali nell'attuale dibattito in corso tra i partiti e le forze istituzionali, ma hanno assunto progressivamente anche un'importanza decisiva nella formazione degli orientamenti culturali e politici complessivi di vasti strati sociali, suscitando discussioni, lotte, scelte e schieramenti.
È sembrato, pertanto, utile proseguire ed incentivare la riflessione mediante l'organizzazione di momenti seminari ali che, coinvolgendo personalità qualificate (studiosi, tecnici, uomini politici, rappresentanti dei partiti e del mondo del lavoro, esperti, ecc.), siano in grado di allargare il confronto sui molteplici nodi toccati dal libro Le culture dei verdi e di arricchire la ricerca in merito. Nello specifico, si è ritenuto opportuno, ovviamente come ipotesi da sottoporre al parere dei relatori, di dedicare il primo incontro soprattutto ai seguenti argomenti:
a) questione ambientale e ridefinizione di un nuovo modello di sviluppo;
b) valutazione quantitativa delle risorse disponibili, determinazione del fabbisogno energetico (caso Italia) ed ipotesi alternative di piano energetico;
c) mutamenti subiti dal mercato del lavoro, trasformazioni della composizione della forza-lavoro ed economie informali; d) nuove tecnologie, rivoluzione informatica, organizzazione del lavoro.
Tale schema di dibattito prende spunto, in particolare, da tre contributi presenti ne Le culture dei verdi. Essi riguardano rispettivamente l'analisi critica del rapporto Meadows sui "Limiti dello sviluppo", la valorizzazione dell'impianto teorico elaborato da André Gorz e una riflessione sui recenti contributi di Giorgio Ruffolo.




Marxismo e ambientalismo

L'attualità del dibattito politico-culturale fa registrare da qualche tempo una forte polarizzazione del contendere circa l'emergenza della questione ambientale, l'irruzione sulla scena sociale delle forze ecologiste e la penetrazione del cosiddetto pensiero verde. Queste problematiche hanno in parte accompagnato e sostituito i già controversi temi relativi alla "crisi del marxismo" ed alla "crisi della ragione e della modernità" .
Siamo convinti, al di la delle mode intellettuali, che esse costituiscono una costellazione imprescindibile, poiché rivolgono al pensiero critico interrogativi di grande rilievo, che toccano direttamente la condizione umana nel suo affacciarsi alle soglie del terzo millennio.
Pertanto riteniamo che su questi terreni vada ripresa la riflessione ed incentivata l'elaborazione, evitando di recepire passivamente gli ultimi prodotti immessi sul mercato delle idee, ma confrontandosi invece senza pregiudizi con quelle culture, anche estranee al patrimonio tradizionale della sinistra, che possono comunque offrire occasione di dibattito e stimolo efficace.
Negli anni passati abbiamo assistito ad una fuga precipitosa e spesso indecorosa di molti intellettuali dal marxismo, quasi una gara a chi si disfaceva prima del proprio bagaglio ideale, a chi rimuoveva con maggior vigore le proprie radici. Così la stessa definizione di "marxista" è divenuta ambigua e per i più indesiderata, mentre si allargava e diversificava il ventaglio degli "approdi teorici" a cui la pletora degli ex marxisti affidava il proprio riciclaggio intellettuale.
Ci pare interessante, quindi, il tentativo di coinvolgere in un appuntamento seminariale, di discussione e approfondimento degli argomenti indicati, alcuni dei protagonisti di questo "grande esodo" insieme ad altri che tale esodo non hanno, invece, intrapreso, tuttora rivendicando la propria internità all'orizzonte concettuale delineato da Marx quale insostituibile strumento di interpretazione e trasformazione del reale.
Sottoponiamo all'attenzione dei partecipanti due nuclei tematici "forti", su cui ci sembra prioritario ed opportuno avviare la discussione:
A) Scienza, Natura ed Esperienza, tra limiti dello sviluppo ed onnipotenza della tecnologia;
B) Lotta di classe, movimenti di massa, autonomie sociali e forme della politica: l'esperienza delle nuove soggettività.


IL ’77 E DINTORNI 

La riflessione sui "nuovi soggetti" e i movimenti degli anni '70, sulla crisi delle forme tradizionali di aggregazione e militanza, sulla necessità di formulare nuovi codici e modelli alternativi di socialità, costituisce uno dei terreni principali di intervento dell'associazione.
A questo proposito, nel febbraio 1988, è stato realizzato un seminario di studio sugli eventi del Movimento del '77 e sulla sua controversa eredità.
L'incontro, preceduto da una nota introduttiva di F. Clementi, è stato istruito da tre papers, redatti rispettivamente da: F. Giovannini (Il PCI ed il '77), U. Zona (Le radici teorico-politiche del movimento del '77), E. Euli (Parabole e traiettorie del pacifismo organizzato in Italia).
La discussione ha registrato una notevole ricchezza di spunti ed ha portato alla luce problematiche non ancora esaurite, pur nella differenza di impostazioni e punti di riferimento ideali emersi tra i numerosi partecipanti provenienti da diverse aree politiche e culturali.

Il Movimento del '77 e i percorsi della sinistra sommersa

Fu il 1977 uno spartiacque definitivo tra il movimento operaio, le sue organizzazioni politiche storiche, il suo patrimonio di lotte e il suo bagaglio teorico, e l'estesissimo e non omogeneo mondo dei "nuovi soggetti" che allora (ed ancora prima nel '68) fece emergere - in una prospettiva apparentemente non componibile con quella della sinistra storica èbisogni e rivendicazioni radicali?

La frattura politica e sociale che si ebbe allora non è, forse, all'origine della diaspora, del processo di frantumazione e dispersione di importanti energie progressiste che ha caratterizzato il periodo successivo?
Porre oggi queste domande ha un senso non solo per ricostruire una memoria storica collettiva su quelle vicende, ma soprattutto per capire quanto quella frattura, non ancora analizzata fino in fondo, abbia a che fare con la crisi di identità della sinistra in generale, e di quella comunista, in particolare.
Per la generazione che si è avvicinata alla politica e alla sinistra in quegli anni, le domande di cui parlavamo assumono un valore ancora più forte, in quanto esprimono l'esigenza di fare un bilancio della propria esperienza di vita e del percorso politico-culturale compiuto a partire da quelle scelte. Inoltre, l'idea che sia sufficiente per la sinistra il terreno di confronto (con tutte le sue "oggettive" e rigide compatibilità) offerto/imposto dalle forze dominanti, è una pura illusione foriera di esiti non felici.
Ricostruire, seppure parzialmente, quella vicenda storica può essere utile a colmare uno dei tanti "buchi neri" presenti nella memoria della sinistra.
È necessario capire se:
a) si tratta di una generazione politica bruciata dall'esperienza del cruciale 1977, oppure per quella generazione si può parlare solo di integrazione, deriva esistenziale o terrorismo?;
b) i pochi "sopravvissuti" nelle sedi tradizionali della politica rappresentano quella generazione, oppure c'è un'altra presenza diffusa e frammentata che può essere riattivata e valorizzata?


UNA NUOVA IDENTITA’ DELLA SINISTRA

Una delle ragioni fondamentali della crisi in cui versa la sinistra italiana viene sempre più spesso identificata nella perdita di autonomia culturale e nell'esaurimento delle sue capacità di analisi e proposta.
Occorre, quindi, ricercare percorsi politici e rivolti non soltanto a superare la crisi di un partito, ma piuttosto tesi a ricostruire una nuova identità ed una nuova egemonia della sinistra.
Lo sforzo che si richiede a chi vuole muoversi in questa direzione è grande. È necessaria, infatti, non solo una impegnativa e crescente autoassunzione di responsabilità, ma anche la capacità e il coraggio di percorrere itinerari politici e culturali nuovi, partendo da quel sentimento di "liberazione" dal mito della grande Organizzazione (intesa come insieme di regole e di riti auto legittimanti) e dal mito della delega (intesa come esclusiva o principale forma di comunicazione nella società moderna) che può nascere dallo stato di smarrimento e di frustrazione ancora fortemente presente a sinistra.
In questa analisi politico-culturale non poteva rimanere assente una riflessione sul Partito Comunista Italiano, perché esso costituisce, nella storia nazionale, un patrimonio collettivo che va ben oltre la sua dimensione meramente organizzativa.
All'indomani del risultato elettorale del giugno '87 venne pubblicata su alcuni quotidiani nazionali una lettera di iscritti e non iscritti al PCI che intendevano intervenire in modo non emotivo su quel "trauma".
I firmatari di quella lettera promossero successivamente (luglio) un seminario di discussione che ha visto una alta partecipazione e che si è rivelato ricco di spunti e di proposte significative.
Nel mese di ottobre dello stesso anno, è stato organizzato un incontro seminariale sul libro di G. Vacca Tra compromesso e solidarietà alla presenza dell' autore. In seguito è nata (22 gennaio 1988) la proposta di un "Centro di ricerca politica" al fine di promuovere una serie di incontri.
Parallelamente sono state avviate forme di comunicazione con altre iniziative che da località diverse hanno manifestato la stessa esigenza di discussione e di riflessione politica e culturale.

Nel 1988 si sono attivati due corsi seminari ali aventi ad oggetto il tema della crisi culturale ed organizzativa del PC! e quello del lavoro dipendente e delle nuove forme di alienazione.
Il primo ha provvisoriamente concluso la sua attività con la elaborazione e la diffusione di un documento (luglio '88) e con la organizzazione di un seminario cittadino (ottobre '88).
Va inoltre segnalata la partecipazione ad un incontro nazionale di studio tenutosi sempre a Roma lo scorso ottobre.
Il corso sul tema del lavoro dipendente ha prodotto un documento di base dal quale verrà tratta la tematizzazione per una serie di incontri e di seminari.

Tematizzazione per l'incontro seminariale sul libro di G. Vacca Fra compromesso e solidarietà

1. La situazione attuale richiede una discussione nuova e radicale. Questa discussione deve avere esplicitamente il carattere di una rifondazione della sinistra dopo un ciclo politico concluso. Si tratta di avviare la costruzione di una sinistra nuova e plurali sta (anche nella collocazione rispetto al governo), una sinistra in grado di guidare e di indirizzare, e non di subire, la sfida dell'innovazione e della modernizzazione.
La microstoria italiana degli anni Settanta segnalava un più generale finale d'epoca. Anche per questo la dimensione sovranazionale di una nuova politica di sinistra non può ridursi solo all'Europa (o alla sinistra europea) ma deve mantenere la percezione di un carattere mondiale e multi laterale dei processi in atto.
Non si tratta di avanzare rivendicazioni nostalgiche per passate stagioni politiche. Anzi, deve restare forte la consapevolezza che occorre andare oltre i confini tipici del precedente decennio. La politica non è più riconducibile solo alla forma partito. Nuove tematiche, spesso con caratteristiche trasversali, si sono affermate con forza negli ultimi anni. Le istanze verdi e ambientaliste, il pacifismo, le contraddizioni di sesso, sono alcune delle sfide contemporanee non riducibili alle tradizionali organizzazioni partitiche sindacali. Crescono quelle che sono state definite' 'militanze senza appartenenza", maturano figure di soggettività collettiva dai contorni più ampi di quelli di partito e basate su fattori eminentemente culturali. Siamo di fronte a una complessa varietà nelle forme politiche, nei modi di espressione e di autorganizzazione.
Non ci sono scorciatoie di ingegneria istituzionale pèr affrontare il fenomeno di una restrizione delle sedi di partecipazione e della conseguente trasformazione dei partiti in macchine elettorali finalizzate alla propria auto-conservazione, con una crisi verticale della democrazia rappresentativa e degli strumenti di partecipazione.
Non è sufficiente nemmeno la divisione sul concetto di "fuoriuscita dal capitalismo". Ciò a cui, ad esempio, le tematiche ambientaliste e il "verde" alludono è una nuova qualità dello sviluppo, che rimetta in discussione categorie della società industriale nel suo complesso, e anche tradizionali idee della democrazia. Riemerge la richiesta di poteri democratici diffusi, senza torsioni stataliste, per una politica che non sia chiusa nella prospettiva dell'occupazione del potere statale o della permanenza in esso a qualsiasi condizione.
Appare necessario allora aprire una fase di metamorfosi e moltiplicazione delle forme politiche, sperimentando anche nuove sedi intermedie tra partito e movimento.
Il Pci e la sinistra necessitano di un rinnovamento generazionale e soprattutto di una innovazione nella cultura politica.
Dal divario e dallo scontro tra contenuti innovatori e forme tradizionali dell'azione politica nasce l'esigenza di nuovi linguaggi che non lascino il cosa fare scisso dal chi lo fa e come.
Per una mutazione e una innovazione delle forme politiche occorre destrutturare e riclassificare gli apparati tradizionali della sinistra, liberando politicamente le energie delle varie successioni generazionali. Per questo motivo oggi più che in altre fasi le formule organizzative e la composizione dei gruppi dirigenti in un partito di sinistra (e in particolare nel Pci) non possono restare separate da un confronto di merito sulle questioni e i nodi politici dell'ultimo decennio e del recente periodo. Se risultano superate alcune vecchie contrapposizioni tra "anime" diverse e cristallizzate, si dimostra ancora più evidente che le ricomposizioni anche solo esteriormente unitarie tra linee politiche divergenti non sono più proponibili.
Appare valido il richiamo all'esigenza che un ricambio nei dirigenti politici, ai vari livelli, avvenga anche attraverso la valorizzazione di energie esterne agli apparati di partito.
2. Quanti si sono avvicinati alla politica e alla sinistra nel corso degli anni Settanta hanno dato alla politica anche un forte valore "esistenziale", interpretando in modo nuovo (e non "religioso") il rapporto tra politica e bisogni concreti, etica e identità. Per questa generazione si pone ora il quesito se valga ancora la pena di continuare a impegnarsi e a "fare politica" nell'accezione di impegno generale e complessivo, quando da parte della sinistra e del Pci sembra venire solo una cultura politica invecchiata e inadeguata alle sfide della modernità.
Si tratta di una generazione che, proprio perché affacciatasi alla politica negli anni Settanta, non ha vissuto antichi complessi di "colpa" di carattere ideologico da cui emendarsi (come lo statalismo o la "inaffidabilità democratica"). Per questa generazione non ha quindi senso una riscoperta con caratteri subalterni del modernismo o di una certa accezione del "riformismo", e che riguarda eventualmente altre fasce anagrafiche e politiche.
Idee e suggestioni di cambiamento per la società e la cultura italiana che il Pci ha veicolato negli anni Settanta sono state alla base dell'ingresso nel partito Comunista o del consenso al Pci da parte di consistenti aree giovanili. Oggi molte idee di cambiamento e trasformazione vengono cancellate o svuotate di significato in una corsa all'omologazione non sempre consapevole e attraverso il decadimento di un empirismo privo di identità politica.
Queste riflessioni non possono essere ridotte a spunti polemici o a lagnanze periodiche. Si tratta viceversa di un segnale di disponibilità da parte di un'area importante del consenso della sinistra, per formazione, attività e dati anagrafici. Un'area che a determinate condizioni è disposta a continuare o a riprendere un impegno attivo nella politica. Se segnali di questo tipo dovessero cadere nel vuoto, le ipotesi di declino per parti importanti della sinistra italiana e di un distacco da esse di intere generazioni otterrebbero una ulteriore e preoccupante conferma.

Per la costituzione di un centro di ricerca politica a Roma


Le strutture organizzate della sinistra romana, che pure anche di recente hanno espresso vivacità e speranze di rinnovamento, vivono una fase non lineare nel rapporto con la società e con le altre forze politiche. È diventato più difficile far circolare idee e posizioni articolate in una situazione in cui il centro degli apparati si mostra estraneo, indifferente od ostile alle sollecitazioni che provengono dalla realtà politica e sociale.
Di qui nasce la necessità di momenti di discussione autopromossi e di strumenti di comunicazione adeguati, costruendo ad esempio un laboratorio di comunicazione politica e sociale, e accentuando le collaborazioni con organismi già esistenti (associazioni culturali della sinistra, agenzie di stampa, riviste, ecc.).
È stata viceversa esclusa ogni ipotesi di "organizzazione" , interna o collaterale a un partito. L'esigenza primaria non è infatti identificata in una battaglia interna per conquistare posizioni di potere, ma in un impegno straordinario di forze ed energie nella prospettiva di una rifondazione della sinistra nel suo complesso.
Sono state indicate alcune priorità per ricerche orientate e iniziative sui seguenti temi:
1) la macchina di partito e sindacale: i processi di formazione della decisione e dei gruppi dirigenti;
2) lavoro e nuove sofferenze nella società del neoindividualismo e delle altre tecnologie;
3) ambiente, economia ed innovazione: polo industriale ed emergenza della questione ambientale a Roma;

4) strumenti di comunicazione e circolazione delle idee nella sinistra romana: forme di aggregazione, associazioni, periodici;
5) il sistema politico-istituzionale locale e nazionale ipotesi di superamento delle pratiche consociative e di lottizzazione.

Gruppo di lavoro su: Il caso PCI (febbraio-luglio 1988)

Il gruppo di lavoro è stato introdotto da un'ampia relazione che ha proposto come impianto di studio l'analisi delle posizioni politico-culturali presenti nel Pci e la riforma democratica della forma partito.
Il corso, cui hanno partecipato circa quaranta persone, si è articolato per gruppi di lavoro e per discussioni generali utilizzando anche contributi scritti presentati singolarmente o da piccoli gruppi.
È stato deciso di dare più ampia circolazione al dibattito sviluppatosi all'interno del gruppo, attraverso la forma del documento-lettera aperta, affrontando in particolare tre dei temi discussi:
1. il rapporto tra partito (Pci) e società democratica complessa;
2. l'identità sociale e culturale del Pci;
3. le nuove regole interne per un partito democratico.
Il documento è stato pubblicato e diffuso a Roma tra luglio e ottobre 1988 ed è disponibile presso l'archivio dell'associazione Metamorfosis.
Il giorno 26 ottobre 1988 si è tenuto presso la sala dibattiti di "Paese Sera" un incontro sui temi trattati nel documento. La riunione è stata introdotta da tre relazioni.
Il giorno 29 ottobre 1988 si è svolto presso la sala dell' Arancio un seminario nazionale sul tema: "L'Autonomia dei comunisti fra tradizione e progetto". L'iniziativa ha inteso rappresentare un primo invito ad una discussione autorganizzata attorno ai nodi dell'identità e delle prospettive delle forze di alternativa. Le sintesi delle relazioni e degli interventi sono state pubblicate sulla rivista A Sinistra n. 1, dico 1988.


RICERCA TEORICA

Un seminario di ricerca teorica si è avviato nell'ambito dell'associazione Metamorfosis nel gennaio 1988. Una rete di incontri aperti alle ambiguità, con una immersione (radicale) nei "punti alti" del mondo esistenziale moderno e contemporaneo.
Il tentativo è quello di rianno dare i fili di una trama, innterrelando saperi e soggettività. È necessario, ha scritto Franco Rella, interrogarsi Oggi su un accesso alla verità al di fuori della volontà di potenza, attraverso la modalità della finzione e della comunicazione.
Il centro di ricerca teorica vuole studiare nuovi codici, contaminazione di generi, sondare nuove forme di comunicazione e riaffermare l'autonomia della cultura rispetto alla politica, agli specialismi, alle "mode": recuperare, cioè, la dimensione generale di un lo polimorfo.
"In noi - scrive Proust - esistono idee, creature addormentate, che non possono nascere ed essere redente se non riusciamo a rompere la loro crisalide, condotti ad esse, senza ancora conoscerle, dal presentimento della loro bellezza. Era sempre così. Era sempre all'interno di immagini che presentivo la verità preziosa".
Dal groviglio di codici e di suggestioni è possibile estrarre una chiave di lettura: utilizzare, frantumare, trascendere le schegge di realtà, vederle, interrogarle, scomporle, ricomporle e sovrapporle, convocare il loro contrario. Il loro destino è di essere prese e stritolate negli "ingranaggi" della critica, facendone altrettanti strumenti per penetrare un po' più in profondità. L'oggetto, il significato è cogliere - attraverso una pluralità di fonti, di stili, di frammenti di ricerca - la differenza, lo scarto, la Metamorfosi.
È stato privilegiato il codice letterario e la letteratura filosofica mitteleuropea.

Le schede essenziali per inquadrare l'intero percorso (in modo particolare per il ciclo "centrale": il moderno) sono:
F. Rella, Miti e figure del Moderno: che ricostruisce il quadro filosofico, critico, di conoscenza e di senso dell'uomo moderno e contemporaneo, lo "spirito" del nostro tempo; C. Magris, Itaca e oltre: che, in una raccolta di recensioni e critiche letterarie, si sofferma sulla scena letterario-filosofica mitteleuropea. .
Gli incontri si articolano in: introduzione; lettura dei teesti; percorsi di lettura e bibliografia; conversazioni "libere".

PROGRAMMI 1989-1990

UN POSSIBILE ITINERARIO

L'anno di sperimentazione che è alle nostre spalle ha prodotto risultati interessanti, che stimolano una proposta di riqualificazione dell'attività dell' Associazione di indubbio impegno.
Il passaggio da una struttura-contenitore di iniziative diverse tra loro e sostanzialmente auto promosse e autorganizzare, ad un organismo con una propria soggettività politica e culturale è reso necessario da almeno due fattori.
Il primo riguarda la necessità di sedimentazione, non solo all'esterno, ma anche all'interno di Metamorfosis, della ricchissima attività svolta nel periodo che va dal secondo semestre 1987 a tutto il 1988.
Il secondo elemento va riferito alla richiesta di maggiore qualificazione dell'attività di Metamorfosis, in grado di svolgere una più incisiva capacità di selezione dei temi su cui intervenire e di investimento delle risorse umane ed economiche.
Da una parte, quindi, Metamorfosis deve caratterizzar si come autonomo soggetto politico-culturale nel panorama delle associazioni romane (seguendo sempre lo stile, la formula dell'autopromozione e dell'autorganizzazione, con il minimo possibile di burocratizzazione dell'attività), dall'altra l'Associazione deve riqualificarsi anche come strutture di servizio e come strumento di comunicazione per i soci e per tutti gli interlocutori interessati o interessabili alla nostra attività.
Ciò significa, per un possibile programma 1989-1990:
1. l'avvio di corsi di auto formazione politica e culturale;
2. l'allargamento del circuito (abbonamenti, scambi) della rivista "Foreste sommerse" e parallelamente:
- la nascita di una collana editoriale (già inaugurata con la pubblicazione del libro di poesie di Marco Gherardi); - l'attuazione del progetto "banca inediti";
- l'avvio di un corso sulla scrittura.
3. La realizzazione di un periodico dell' Associazione inserito nella rete di comunicazione territoriale e nazionale. 4. La definizione di un progetto editoriale, avvalendosi dell'editing elettronico.
5. La costruzione, di concerto con il CRIPES, di un archivio-biblioteca a tema.


FORESTE SOMMERSE

L'attività di "Foreste sommerse" nel 1989

I temi dei tre numeri della rivista per il 1989 saranno definiti attraverso incontri collettivi di discussione: tra gli argomenti principali sono previsti il rapporto tra nuovi scrittori e nuove estetiche, la città, il lavoro nella letteratura.

Nel corso dell'anno si svolgeranno una serie di conferenze e seminari a Cortona, che "Foreste sommerse" continua a considerare un luogo importante per intrecciare nuove reti di comunicazione e di rapporto tra dimensione metropolitana e piccoli centri.
A Roma, inoltre, "Foreste sommerse" collaborerà all'iniziativa "I luoghi della cultura: le riviste letterarie", promossa dal Comune di Roma, che prevede una emeroteca delle riviste di letteratura; una mostra, incontri e convegni nell'autunno 1989.

Proposta per una "Banca degli inediti"

Il fenomeno della scrittura inedita, soprattutto ma non esclusivamente giovanile, sta assumendo rilevanza sociale. La contraddizione tra aumento qualitativo e quantitativo delle persone che scrivono e vecchi meccanismi di selezione dell'editoria sta diventando sempre più evidente.
Si tratta di notevoli energie latenti, che trovano quasi sempre nel mercato editoriale una chiusura impermeabile, mentre la nuova scrittura esige al contrario comunicazione e circolazione. In questo contesto sono cresciuti a dismisura i premi letterari, trasformati molte volte in illusori trampolini per autori che invece continuano a vedere disattesi i propri desideri di comunicazione.
Di fronte a questo fenomeno non è praticabile solo la strada della corsa al successo individuale o l'inevitabile frustrazione.
La proposta ideata da "Foreste sommerse" di una "Banca di inediti" nasce proprio dall'intenzione di uscire dalla forbice da un parte dell' "assedio" alle case editrici e alle riviste cui vengono inviati centinaia di manoscritti che non avranno mai sbocco editoriale, e dall'altra della proliferazione dei premi letterari.
È nostra convinzione che un ruolo decisivo possono compierlo le biblioteche pubbliche, al di fuori dei consueti concorsi letterari. Le biblioteche comunali possono essere il soggetto per un primo esperimento di nuovo approccio al problema degli autori inediti. Usufruendo delle strutture e del personale delle Biblioteche si tratta di promuovere l'idea di una "Banca degli inediti". All'indirizzo della Biblioteca potranno essere inviati racconti romanzi, "frammenti" e poesie.
I testi verranno catalogati e messi a disposizione del pubblico che potrà consultarli nell'ambito del regolamento e delle funzioni della Biblioteca stessa.
Fermo restando che tutti i diritti rimangono in possesso degli autori, il materiale archiviato sarà inoltre a disposizione delle case editrici che potranno usufruire di un riferimento ampio e agevole per eventuali scelte di pubblicazione. Per divulgare l'iniziativa si appronteranno quindi specifici interventi indirizzati alle case editrici. Andranno individuate anche alcune ulteriori collaborazioni. In primo luogo le riviste di letteratura a carattere locale e nazionale, che già attualmente costituiscano un catalizzatore per l'invio di inediti. In secondo luogo i principali premi letterari dedicati ai nuovi autori (ad esempio il Premio Italo Calvino promosso da "Linea d'Ombra" e da "L'Indice").
Inoltre andrà stabilito un contatto con l'iniziativa di Pier Vittorio Tondelli e del "Lavoro Editoriale" dedicata agli inediti giovanili.
Tra le sottosezioni in cui articolare la catalogazione può essere prevista, poi, una attenzione alla scrittura nelle carceri, con la collaborazione del periodico dell'Arci "Ora d'aria" che di recente ha iniziato una raccolta di testi letterari scritti da carcerati.
Andrà precisato e diffuso un semplice regolamento per accedere (come autori o come lettori) alla Banca degli inediti. Saranno indicate le caratteristiche tecniche dei dattiloscritti ed ogni autore dovrà compilare una scheda bibliografico o informativa. Dopo sei-otto mesi dall'inizio dell'esperimento va prevista una scadenza di discussione pubblica sullo sviluppo dell'iniziativa, attraverso una "convention" dei nuoovi autori che funga anche da "antipremio" letterario.


AMBIENTALISMO
Metamorfosis, dopo il primo anno di attività, ritiene opportuno costituire un gruppo di lavoro e di approfondimento del dibattito sulle tematiche ambientali e, tra le diverse iniziative, avviare una indagine sul rapporto tra impresa, ambiente e occupazione.
Appare centrale, infatti, analizzare la posizione degli organismi di rappresentanza delle imprese, muovendo dai documenti prodotti sulle tematiche ambientali, (vedi per esempio gli atti del convegno della Confindustria "Una politica per l'ambiente", maggio 1987) e dalle concrete strategie imprenditoriali (cfr. il recente discorso di G. Agnelli all'Accademia dei Lincei, febbraio 1989).
I nodi strategici da affrontare sono:
l) analisi della categoria della "compatibilità" in relazione alle dinamiche tra leggi di mercato e politiche di tutela ambientale;
2) l'ambiente inteso come vincolo opportunità per le imprese;
3) le istituzioni pubbliche nella politica di risanamento ambientale, in particolare modo rispetto al settore produttivo;
4) il rapporto tra produttori e consumatori;
5) interrelazione Nord-Sud e questione ambientale (lavoro da istruire prendendo spunto dalla campagna internazionale denominata "Riconversione ecologica del debito del Terzo Mondo").
Si intende articolare la ricerca con seminari, workshop, interviste a esponenti della Confindustria, ecologisti, sindacalisti, manager, etc.
Va inoltre ulteriormente sviluppato lo studio e l'analisi delle diverse culture verdi e ambientaliste ponendole a confronto . con le altre scuole di pensiero.
Particolare attenzione dovrà essere dedicato alle trasformazione che la tematica ecologica ha indotto nelle correnti teoriche del pensiero critico (ad esempio le tendenze ecomarxiste).

IL ’77 E I PERCORSI SOMMERSI DELLA SINISTRA

Dopo il seminario tenuto si lo scorso anno, si ritiene opportuno mettere in cantiere due iniziative:

a) raccolta e pubblicazione degli atti del seminario sul movimento del '77.

b) promozione di una iniziativa pubblica di studio sugli aspetti politici e di costume prodotti dai movimenti degli anni Settanta. Una "traccia" possibile può muoversi dalla constatazione che il sapere sociale prodotto dalle lotte degli anni Settanta è stato progressivamente trasformato in strumento di governo del cambiamento tecnologico ed economico, e che un insieme di conoscenze prodotte dai movimenti si è trasfuso in meccanismi di funzionamento della società italiana.

I CORSI DI AUTOFORMAZIONE PER UN PENSIERO CRITICO

1. Ogni pratica sociale ed ogni teoria politica richiede "punti di vista" autonomi sui processi storici contemporanei. Questi punti non sono delle astrazioni ideologiche, ma scaturiscono da condizioni determinate in cui ognuno di noi vive ed opera.
Nuove relazioni si sono instaurate, o possono instaurarsi tra i soggetti, i valori e le prassi.
2. Il caso italiano e la mondializzazione dei processi di cambiamento: la "modernizzazione" sociale degli anni '600'80. C'è bisogno di capire le ragioni e i modi in cui è avvenuto lo sfondamento dal campo politico realizzato dalle lotte sociali e dai movimenti a cavallo degli anni '70-'80.
Una storia dolorosa si è svolta e per elaborarla si deve ricostruire una memoria.
3. Questa premessa è necessaria per sgombrare il campo da un equivoco possibile.
Autoformazione non come autosufficienza dei saperi, ma come impegno diretto, senza deleghe e mediazioni di sorta, nell'impresa di ricostruzione storica e di approfondimento analitico dei problemi che oggi si presentano.

Questa ricerca deve essere svolta partendo dalla esperienza, dalle illusioni, dalle idee che ognuno di noi ha accumulato negli anni.
Nuove prassi, individuali e sociali, si sono affermate. Esse, però, cozzano con vecchie forme di comunicazione e con transizione del sapere e dei saperi.
4. La proliferazione spontanea di numerose "scuole di formazione" di ambito cattolico (Martini Sorge), ambientalistico (Università verdi), delle donne (Virginia Woolf), attesta il bisogno diffuso di una nuova e più diretta circolazione di saperi.
La nostra proposta, nasce con caratteristiche generazionali e politiche definite e riassunte in parte anche in questo opuscolo.
Essa intende mantenere fermi tre elementi:

a) forte intreccio tra teoria e prassi;

b) un arco temporale non breve;

c) una metodologia didattica elastica (lezioni, seminari, iniziative pubbliche).

La nostra proposta per il 1989-90 si impernia su due questioni:

1. Il lavoro dipendente e le moderne forme di alienazione;

2. Il caso PSI: paradigma di una mutazione politica della sinistra;


Lavoro dipendente e moderne forme di alienazione

Obiettivo del seminario è quello di cogliere, attraverso le analisi delle trasformazioni avvenute nel lavoro, i presupposti scientifici per la costruzione di un nuovo processo di emancipazione fondato sul lavoro e dal lavoro. Assumiamo, come ipotesi di verificare, la centralità del lavoro salariato stipendiato poiché riteniamo che questo specifico rapporto di produzione sia ancora caratteristico della società moderna; infatti esso assolve, anche se in forme diverse dal recente passato, la funzione centrale nella produzione della ricchezza, assorbe la maggioranza delle energie lavorative non solo per la quantità ma anche per la qualità. Le condizioni nel suo svolgimento e gli effetti che produce sia sui soggetti produttori sia sui fruitori costituiscono gli elementi oggettivi per una nuova coscienza di classe e per la ripresa di un processo di emancipazione.
La ricerca si svilupperà con seminari tematici, incontri, bibliografie e analisi, costruzione di materiali di comunicazione.
La ricerca sulle trasformazioni avvenute nel lavoro nasce dalla convinzione che sia le informazioni, le conoscenze, le idee riguardanti il lavoro nella società capitalistica moderna, sia le forme assunte dal lavoro sono insufficienti per costruire un progetto di trasformazione e di emancipazione del lavoro e dal lavoro, mentre nell'informazione comunicata dai . mass-media si tende a consolidare nella coscienza comune una accettazione della realtà così com'è, il cui orizzonte sarebbe insuperabile, o al massimo, estendibile quantitativamente secondo il modo esistente. di organizzarsi, di vivere, di produrre.
A noi sembra che sia venuta meno la consapevolezza che la fabbrica, il posto di lavoro informatizzato, le nuove attività nei servizi, le attività nell'elettronica, ecc. rappresentano il punto di arrivo e di cristallizzazione di uno sviluppo storico-sociale determinato dalla scienza in generale, e più specificatamente del modo con cui il "sapere" si è venuto articolando nel lavoro e nei diversi lavori.

Ricostruire questa consapevolezza, questa coscienza critica del tempo in cui viviamo comporta l'impegno ad attraversare in modo rigoroso saperi ed ideologie consolidate e circolanti nell'arco dell'ultimo decennio; significa inoltre costruire o quanto meno ipotizzare una metodologia, un apparato teorico di riferimento verificabile e in grado di proporre un'altra lettura, un ulteriore angolo di visuale relativo al lavoro e per il lavoro.
Si tratta innanzitutto di colmare un ritardo nella conoscenza e nella comunicazione della sinistra; le analisi sul lavoro oscillano molto spesso tra l'aspetto descrittivo di nuove attività o delle funzioni generali, e l'attenzione enfatica ai dettagli, ai settori. In altre parole non è disponibile una strumentazione di riferimento, una organizzazione dei dati e delle analisi.
I mutamenti avvenuti nel lavoro in questi anni hanno determinato la modifica di comportamenti sociali, di consuetudini, di atteggiamenti psicologici, hanno rivoluzionato progetti di vita, riguardano le libertà individuali, la democrazia.
Esiste oggi una produzione, una diffusione e un consumo gigantesco di dati e notizie che tuttavia non si configurano come informazioni fruibili e decifrabili dalla maggior parte delle persone: o sono dati settori ali per addetti, o affermazioni generiche, oppure "postulati scientifici" di cui non è facilmente verificabile l'attendibilità sia dal punto di vista teorico che pratico. Al di là dei motivi che lo producono, il risultato è che questa inadeguatezza dell'informazione, agendo come uno specchio deformante che di volta in volta opacizza o esalta le trasformazioni delle attività lavorative, le fa apparire come fenomeni grandi e incontrollabili rispetto ai quali la maggioranza degli individui è del tutto estranea.
Così pure per la conoscenza, per la forma e il modo di produzione della scienza e per la sua applicazione nelle attività lavorative.
Allo stesso modo è cresciuta a dismisura la quantità e la qualità della conoscenza scientifica, la specializzazione in molti settori del sapere; si è articolata e diversificata la ricerca e contemporaneamente l'altissimo grado di specializzazione e divisione del lavoro raggiunto in particolare dalla meccanica, nell'elettronica, nella chimica e nella medicina, ha scomposto e selezionato sia la conoscenza scolastica di base sia quella professionale e accademica, subordinandola sempre più ad una esigenza esterna.
In questa situazione è cresciuta esponenzialmente la difficoltà a capire l'insieme, a collegare e intrecciare i diversi campi dell' attività umana.
Paradossalmente non il modo naturale o l'universo, ma proprio il mondo ideato e costruito dall'uomo, le sue macchine, le sue tecniche, la sua organizzazione risultano di difficile comprensione, gestione e controllo: il modo di produzione capitalistica ha determinato e informato la scienza e la conoscenza secondo i propri fini. Se questa è stata una necessità o meglio la realtà di tutte le società industriali per raggiungere l'attuale stadio di sviluppo e di complessità, sicuramente oggi quel modello organizzativo, conoscitivo, operativo, mostra tutti i suoi limiti: negli obiettivi che si prefigge e che non riesce ad attuare (soluzione dei problemi dello sviluppo, su scala locale o mondiale) negli effetti che produce sugli individui, sull'ambiente, ecc ..
Proprio questa difficoltà a gestire e o comprendere l'insieme sviluppa l'affermarsi di un senso di estraneità verso la complessità la quale, quasi una fede religiosa, appare necessaria anche se non capita o agita dall'individuo. In corrispondenza di ciò si alimentano e si rafforzano le attività, le conoscenze settori ali come il terreno unico ed esclusivo di una identità, ancorché separata, lavorativa e sociale, sia essa quella di un moderno tornitore, di un avvocato, di un ingegnere o di un medico.

* * *

Il seminario si svolgerà in due cicli e sulla base delle tre coppie concettuali:

l) Lavoro-Sapere (lavoro, scienza, tecnologia)

2) Lavoro-Tempo (tempo di lavoro e tempi di vita)
3) Lavoro-Ideologia (rappresentazioni, immagini e idee sul lavoro nella sinistra e nella società).

Questa suddivisione affronta i momenti centrali della condizione di lavoro e di vita nella società attuale.
I tre filoni individuati si baseranno su un apparato documentale e bibliografico, da alcuni autori classici fino a ricerche e riflessioni attuali.
I seminari si svilupperanno in 9-10 incontri da tenersi con cadenza quindicinale a partire dalla primavera del 1989.
Si svolgeranno' attraverso: a) lettura dei testi centrali; b) proposizioni di una chiave di lettura critica e di strumenti aggiornati di interpretazione.
La realizzazione pratica vedrà l'alternarsi dei singoli partecipanti all'illustrazione di temi ruotanti intorno ai tre filoni fondamentali.
I corsi si avvarranno dei contributi specifici di ricercatori, esperti e sindacalisti. Il testo completo illustrativo del ciclo dei seminari di formazione-auto formazione sul lavoro corredato della bibliografia razionata può essere reperito presso l'Associazione Metamorfosis.

II caso Psi: paradigma di una mutazione politica della sinistra

Attraverso le lezioni ed i seminari si intende rileggere la vicenda politica del Psi intrecciandola ad alcuni passaggi nodali della sinistra italiana, sia sul piano strettamente politico (Pci, estrema sinistra, sinistra senza appartenenza), che su quello più propriamente culturale (autonomia del politico; ruolo degli intellettuali; nozione di modernizzazione; ecc.).
La costruzione di un "corso" di studio su questo tema potrebbe svolgersi su una traccia di base come quella che segue, da arricchire con altre tematizzazioni che si intersecano con essa:

1. 20 giugno 1976: analisi di una crisi

1.1 La crisi del Psi viene da lontano.
Dal 1948 il Psi oscilla tra Dc e Pci. Ciò gli procura un'assenza di identità e di autonomia che rende instabile il suo ruolo.
1.2 È questa incerta identità che moltiplica le correnti e le fazioni interne e che indebolisce ulteriormente l'identità socialista.
1.3 La polarizzazione del sistema politico-istituzionale raggiunge il massimo ed il Psi viene sconfitto.

2. La ricerca dell'autonomia

2.1 Autonomia e revisionismo nella cultura (1975/81: Bobbio-Colletti)
Col 1975-76 incomincia la ricerca dell'autonomia socialista. Si sceglie, in questa prima fase, la strada più semplice, cioè più classica: il revisionismo socialdemocratico. Hanno, dunque, un grande ruolo la "cultura" e gli intellettuali: fondamentale in questa ricerca è la rivista "Mondoperaio".
2.2 Revisionismo della politica.
Anche in politica questo revisionismo incomincia a funzionare come modernizzazione e razionalizzazione del sistema politico italiano.

3. Un altro revisionismo: ovvero in principio era l'azione (Craxi-Amato ).
Con il 1981 questo revisionismo subisce un'ulteriore accelerazione. Si privilegia la rottura delle tradizioni consolidate.
L'azione viene privilegiata alla teoria: è il momento dei "politici".

 RICERCA TEORICA

Sulla scorta del lavoro svolto nel corso del 1988, il centro di ricerca teorica prosegue la sua indagine sul moderno. Tra matasse aggrovigliate di sfumature e posizioni' forti, ostili all'agevole interpretazione, e improvvise aperture di luce sulla condizione umana nel pensiero dell'età industriale e postindustriale, il filo che ha provato ad attraversare il pensiero di Nietzsche e Baudelaire, quello di Kafka, fino alle idee di Freud e alle ipotesi di Lasch, si prepara ad incontrare Proust, Musil, Benjamin e Canetti.
L'idea forte resta quella di riscoprire la crescita di un pensiero "altro", distinto da una gelida cultura della sopravvivenza, alla ricerca di una dimensione globale ampia, non più ristretta nel respiro corto della divisione dei saperi. Superando così le facili tentazioni di una politica ridotta a tecnica dell'agire e di una letteratura per pochi fatta di erudizioni e di finte passioni.
La forma seminariale, basata sull'intreccio dei generi e delle forme di comunicazione, è apparsa la più adatta al tentativo sviluppato fino ad oggi.


DALLO STATUTO DELL’ASSOCIAZIONE

Articolo 2 (Finalità dell' Associazione)

L'Associazione intende sviluppare ricerche e studi sui processi di trasformazione che investono tutti i saperi, la letteratura e le altre forme di comunicazione, la politica ed il pensiero filosofico, la sociologia, le scienze, con una verifica delle caratteristiche di queste novità nei linguaggi, nei valori, nei contenuti e nel senso.
L'Associazione svolge la propria attività, dedicando una attenzione particolare ai miti e alle figure del moderno in tutte le loro espressioni, attraverso la più larga dialettica di posizioni, con l'apporto di competenze e orientamenti diversi e con approcci interdisciplinari.
L'Associazione ritiene importante confrontare le diverse modalità con cui tali cambiamenti sono vissuti sia in una grande città come Roma, sia in dimensioni locali e territoriali che rivestono un particolare interesse per tradizioni e attività attuale. In questo senso l'Associazione si indirizza agli enti locali come importanti interlocutori per la realizzazione delle finalità statutarie.

Articolo 3 (Attività)

Per il proseguimento degli scopi sociali l'Associazione:
a) promuove, anche in collaborazione con altre strutture e avvalendosi di consulenze esterne, studi, convegni, seminari, incontri e ogni altra iniziativa scientifica e culturale idonea a realizzare le finalità statutarie;
b) promuove una rivista periodica di letteratura e cultura denominata "Foreste Sommerse" ed altre attività editooriali che risultino corrispondenti alle finalità dell'associazione; svolge ogni altra attività direttamente o indirettamente utile al raggiungimento delle finalità statutarie.

Articolo 6 (Soci)

Possono essere soci dell' Associazione tutti coloro che si riconoscono nelle finalità di cui al precedente art. 2, si impegnano ad accettare lo Statuto e ad attenersi alle deliberazioni che regolamenteranno la vita sociale.




LE CARICHE SOCIALI DELL’ASSOCIAZIONE


Presidente: Fabrizio Clementi Segretario: Raffaele Pirisi
Consiglio di Amministrazione: Fabrizio Clementi, Roberto Copioli, Fabio Giovannini, Raffaele Pirisi
Soci fondatori: Fabrizio Clementi, Roberto Copioli, Enrico Euli, Fabio Giovannini, Simone Micozzi, Raffaele Pirisi, Lucia Tombolini


PER ADERIRE ALL’ASSOCIAZIONE METAMORFOSIS

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IL MATERIALE 1986
Sinistra e letteratura: una bibliografia a cura di Giuseppe De Santis e Rita Madotto
La presente scelta bibliografica delinea una mappa di materiali a nostro parere significativi nel rapporto tra letteratura e politica e tra sinistra e scrittura. Si tratta di una selezione ampia e libera, non sistematica.
I testi sono suddivisi in quattro settori: i dirigenti politici, gli intellettuali, i militanti, i letterati.
In particolare è preso in considerazione l’ultimo quindicennio, e la maggior parte delle indicazioni bibliografiche riguarda  il periodo più recente (1984-1988). Nella disposizione abbiamo invertito l’ordine cronologico.
Sono esclusi dalla bibliografia, salvo qualche riferimento, alcuni grandi autori (ad esempio Calvino, Morante, Moravia, Pasolini, Sciascia, Volponi), poiché abbiamo data per scontata la loro determinante  importanza riguardo al nostro tema di analisi e abbiamo ritenuto ovvio il rinvio al numeroso materiale critico che li riguarda.
E’ stata privilegiata la narrativa (romanzi, racconti) e la memorialistica (diari, autobiografie, biografie, memorie); vi sono anche interviste, reportages e libri giornalistici utili al nostro fine; vi è inoltre qualche segnalazione (testi, antologie, critiche) dalla innumerevole produzione poetica che richiederebbe un lavoro specifico.
Abbiamo inserito anche una selezione di contributi critici che fanno da sfondo alla nostra ricerca (Cadioli, Ferretti, Manacorda, Spinazzola) o sono direttamente pertinenti (Asor Rosa, Fortini, Paris). Sotto quest’ultimo aspetto è da segnalare soprattutto il volume di Borghello Linea rossa, che affronta  il nostro stesso tema  per quanto riguarda gli anni Settanta, e al quale rinviamo per quel decennio.
Alcuni squilibri quantitativi presenti nella bibliografia (le molte segnalazioni della classifica memorialistica (le molte segnalazioni della classica memorialistica del Pci o della collana “Il Pane e le rose” della Savelli) servono a sottolineare la rottura e gli scarti profondi, nella scrittura della sinistra, tra gli anni Settanta e Ottanta.
La bibliografia registra anche due vistose omissioni. In particolare la scrittura delle donne e la scrittura influenzata dall’ecologia. Per queste due donne aree rinviamo da una parte ai periodici almanacchi Firmato donna, e dall’altra alla monografia del n.2 di “Foreste sommerse” dedicata alla letteratura verde. Tali rinvii sono da considerare integrazioni della bibliografia che segue.
















LA PAROLA AL CONFLITTO -1990
Esperienze e proposte degli autoconvocati del PCI (1987-1990)
A cura di Fabrizio Clementi e Fabio Giovannini


Introduzione
Fabrizio Clementi e Fabio Giovannini

1. Il ruolo e il significato delle autoconvocazioni

II Pci ha vissuto in questo ultimo periodo una fase storica.
Era impensabile che si potessero adottare schemi mentali e comportamenti politici tradizionali ed ordinari. In particolare non poteva essere riciclato un modello burocratico elitario (sostenuto talora da un battaglione d'assalto di intellettuali) per convincere della giusta intuizione di alcuni leader una base ritenuta incolta ed emotiva.
L'operazione di Occhetto ha, quindi, involontariamente infranto un mito: quello dietro il quale si celava l'unanimismo di facciata (ancora presente in tanti sì) e il burocratismo, che sono stati cause non secondarie della barriera emersa in questi anni tra il partito e ampie aree sociali.
In questo periodo è diventato indispensabile definire un percorso effettivamente democratico, quindi anti-leaderistico, imperniato su proposte e comportamenti coerenti. Non è stato e non è facile, anche perché l'uso spregiudicato dei mass media tende a condizionare le discussioni politiche degli organismi collettivi, e quasi tutta la stampa, in primo luogo La Repubblica e l'Unità, ha scelto di sostenere la proposta di Occhetto, concentrando l'attenzione sulle immagini e suHe frasi ad effetto (si veda il dossier a p. 59 di questo volume). Inoltre, difficilmente poteva avere chiarezza o limpidezza un dibattito nel Pci regolato da una "costituzione materiale" interna priva di trasparenza, di regole e di comportamenti autenticamente democratici. Corridoi, abitazioni private, località balneari, talvolta scuole di partito: sono queste le più frequenti sedi decisionali.
Un tentativo di introdurre concezioni e pratiche partecipative tipiche della dialettica democratica conflittuale è stato rappresentato dal metodo (che è anche contenuto) dall'autoconvocazione degli iscritti al Pci e dei simpatizzanti, come prima forma di autodeterminazione da praticare anche nella lotta politica. È un comportamento, quello dell'autoconvocazione, insieme alle azioni dirette autodeterminate, che rinasce e si sviluppa con l'esperienza dei nuovi movimenti, delle azioni dirette nonviolente, del femminismo, e che anche aree operaie e del mondo del lavoro hanno tentato di realizzare nel recente passato.
L'autoconvocazione, infatti, nasce come controtendenza rispetto ad una fase di omologazione dei comportamenti, ed è a sua volta un comportamento "trasgressivo" che ha già alle sue spalle una storia e una pratica diffusa. Anche il metodo è sostanza: nell'auto convocazione si esprime un'assunzione diretta di responsabilità, una comunicazione orizzontale in tempo reale, una trasversalità che vuole oltrepassare - non trasformisticamente - i confini delle appartenenze organizzative, un intreccio tra teoria-prassi per la costruzione di reti sociali.
L'autoconvocazione si basa su una bassa propensione alla delega: è azione diretta, è realizzazione di momenti di discussione autopromossi. È il tentativo di utilizzare il meglio della stagione politica degli anni settanta e dei movimenti successivi.
L'autoconvocazione affonda le sue radici storiche e culturali in un libertarismo che non si limita alla testimonianza, ma produce iniziativa e attivazione di individui e collettività. È in questo senso che possono essere lette le tematizzazioni sulla "azione diretta non violenta" (in cui gli individui sono protagonisti) e le grandi esperienze dei movimenti ecopacifisti. Per l'autoconvocazione si potrebbero usare le stesse parole del teorico americano della nonviolenza Gene Sharp a proposito delle azioni dirette nonviolente: "L'azione nonviolenta non è un metodo passivo, non è assenza di azione: è un'azione ... Non è un tentativo di evitare o di ignorare il conflitto, ma una risposta al problema di "come" agire in modo efficace nella lotta politica e in particolare di come esercitare efficacemente il potere". Inoltre come la nonviolenza anche l'autoconvocazione "non ha un programma di conquista del potere", ma avvia a una trasformazione dei rapporti di forza che produce trasferimenti di potere (Cfr. G. Sharp, Politica dell'azione non violenta, I. Potere e lotta, Torino, Gruppo Abele, 1986).
I movimenti delle donne, da parte loro, hanno praticato l'autoconvocazione arricchendola con le elaborazioni sull'autodeterminazione. Non a caso la Carta degli intenti con cui venne sciolta nel 1982 la vecchia esperienza organizzativa dell'Udi fissava tra le sue regole, accanto all'autofinanziamento e all'autoproposizione agli incarichi di responsabilità, anche l'autoconvoocazione di gruppi (liberamente costituiti secondo interessi e progetti locali) e dell'assemblea generale (come unica sede legittima di sintesi politica e decisionale a livello nazionale).
Anche nel sorgere di forme di associazionismo volontario si può cogliere un richiamo analogo a quello che spinge alle auto''convocazioni: l'esigenza di vivere bisogni collettivi come bisogni individuali, per una democrazia dei soggetti che riconosce e valorizza il ruolo dell'individualità, senza esasperarne la sua unicità. Contemporaneamente nell'autoconvocazione si realizza una nuova visione dell'etica, non più separata dalla politica, così come non più separata può essere la sfera pubblica da quella privata: concetti e motivazioni ben diverse dalle tesi delle teorie sistemiche luhmaniane e dalla stessa teoria politica e pratica della liberal democrazia. L'autoconvocazione è una delle forme moderne del conflitto, innestata nel sociale e nell'individuale allo stesso tempo. Scrive Pietro Barcellona: "Il conflitto esprime comunque il bisogno fondamentale di prendere la parola, di dare valore a qualcosa che non è già definito, compreso nell'ordine esistente, nei linguaggi codificati. Il conflitto riproduce nella congiuntura storica la struttura contraddittoria del nostro bisogno d'individualità (come individui, come gruppi sociali o classi, come etnie, come generazioni) e del nostro bisogno di generalità, di comunicazione" (P. Barcellona, Il ritorrno del legame sociale, Torino, Boringhieri, 1990, p.136).
È significativo, allora, che una consistente esperienza di autoconvocazione abbia attraversato il mondo del lavoro a parrtire dagli anni ottanta. L'autoconvocazione operaia nasce, in Italia, con la stagione di lotte del 1984, in risposta a quella passivizzazione e subalternità dei vertici sindacali che porterà alla sconfitta del referendum sulla scala mobile. Nati tra le file della Cgil e dello stesso Pei, gli autoconvocati operai riuscirono anche a realizzare una grande manifestazione nel marzo del 1984, su contenuti molto critici verso i vertici sindacali. Uno strano movimento anche quello degli auto convocati operai, intermittente ma capace di ripresentarsi sulla scena nei momenti più difficili: così è avvenuto tra i metalmeccanici che, nei primi mesi del 1990, hanno elaborato una "piattaforma alternativa" e hanno messo a dura prova il consenso di Fim, Fiom e Uilm nelle fabbriche e negli attivi di zona, fino a realizzare una importante assemblea nazionale a Milano il 7 marzo 1990, dove cinquecento delegati hanno riproposto i nodi della democrazia sindacale. E sempre in tema di democrazia e sindacato, il termine "autoconvocati" è poi riapparso nel mondo sindacale con un certo rilievo di recente, in occasione del documento firmato da 39 sindacalisti della Cgil nel maggio del 1990 e che ha portato alla affollatissima assemblea del 16 giugno a Roma.
Né sono mancati gli usi più vari e contraddittori del termine "auto convocazione", in particolare da parte della stampa: persino i cacciatori del Pci, riuniti in una sezione romana in previsione del referendum del 3 giugno 1990 sulla caccia, sono stati definiti "autoconvocati" dai giornali.
È dal 1987, poi, che si sviluppa l'esperienza degli autoconvocati del Pci, con sue caratteristiche e sue peculiarità originali. Autoconvocazione significa prendere iniziative senza attendere messianicamente le "giuste" indicazioni di capi o funzionari, e senza assistere passivamente a uno spettacolo: l'autoconvocazione nel Pci è stata caratterizzata dalla richiesta di rimettere, in piena libertà e autonomia, nelle mani di ogni iscritto e di ogni elettore le scelte riguardanti non solo la forma e il nome di un partito, ma soprattutto l'uso di un patrimonio sociale ed umano come quello che si è accumulato attorno al partito comunista italiano.

2. Il Pci e il suo declino

Gli auto convocati comunisti sono giunti preparati culturalmente e politicamente all'accelerazione del processo disgregativo del Pci operata da Occhetto. Dal 1987 le iniziative autoconvocate hanno messo in luce una duplice incapacità del gruppo dirigente del Pci: l'incapacità di avviare un'analisi critica sulle ragioni profonde della crisi del partito e, contestualmente, l'incapacità di una autoriforma politica, culturale ed organizzativa.
Si è molto discusso in questi mesi della "doppiezza" del Pci e della politica togliattiana. In realtà il Pci di Occhetto ha operato la riduzione della famosa "doppiezza" ad uno solo dei suoi lati: il lato della politica quotidiana dentro l'ambito delle compatibilità date.
Il partito comunista italiano si è sempre più separato in un Pci dei dirigenti, un Pci dei militanti, e un Pci degli elettori e del popolo di sinistra: tre Pci spesso incomunicanti tra loro e portatori di istanze ed esigenze differenziate. Questa divaricazione è entrata in cortocircuito anche in ragione dei problemi di democrazia interna che hanno contraddistinto il Pci come tutti i partiti italiani (giacché, al di là della formula del centralismo democratico, tutti i partiti hanno manifestato e manifestano un analogo e spesso ben superiore deficit di democrazia).
Il Pci è stato tra gli artefici della democrazia italiana, ne ha difeso le conquiste e ha tentato di allargare gli spazi e i poteri democratici, ma contemporaneamente la sua vita interna restava ostacolata da una grave carenza di democrazia. Questa contraddizione si è fatta più acuta e visibile negli anni settanta. In particolare il Pci non è riuscito ad assumere le istanze democratiche e dinamiche della generazione post '68, che non poteva accettare una mera cooptazione negli apparati partitici e rifiutava ogni logica autoritaria e dirigistica.
L'esperienza politica ed umana fatta in questi anni nel partito comunista ha permesso di constatare come anche lo scarto tra analisi (sempre più debole e meno autonoma) della realtà nazionale ed internazionale e comportamenti politici concreti non nasca oggi. La cultura politica del Pci fin dalla metà degli anni sessanta ha cominciato a scontrarsi da una parte con le tendenze emancipatorie della società e dall'altra parte con uno sviluppo diretto dalle forze capitalistiche che ha prodotto, in seguito, modifiche strutturali negli ordinamenti sociali, politici ed istituzionali a livello sovranazionale e nazionale.
È anche per questi motivi che il Pci si è trovato sempre più costretto ad inseguire i mutamenti della società ed "esterno" ai movimenti che la attraversavano: l'esempio della rottura generazionale e politica rappresentata dal '77, vero e proprio "buco nero" nella memoria del Pci, è in questo senso significativa. Da quelle difficoltà e da quelle contraddizioni degli anni settanta ha origine il declino del Pci.
La compartecipazione attiva del Pci alla cultura emergenzialista di quegli anni ha acuito le difficoltà ed ha inquinato la cultura democratica del partito. L'incapacità di fuoriuscire da quella logica emergenziale e appiattita sull'esistente ha contribuito alla mancata assunzione da parte del Pci di un progetto di riforme istituzionali democratiche-sociali in grado di superare il degrado del sistema politico italiano.

3. Il “nuovo" Pci

Con l'elezione di Occhetto a segretario generale il declino del Pci viene connotato fortemente da una svolta a destra nella prospettiva politica assegnata al partito (vedi la kermesse ideologica su Togliatti e la "fine del comunismo") e dal ruolo che il "nuovo" gruppo dirigente si veniva attribuendo.
L'esito attuale era prevedibile perché proprio il XVIII congresso mentre affermava verbosamente la necessità di rilanciare una forte identità del Pci attraverso la riscoperta e la valorizzazione di una autonoma ricerca e analisi critica della società in cambiamento, allo stesso tempo affidava il compito ad un gruppo dirigente allevato in una cultura politica ormai in crisi e non attrezzata ad affrontare il nuovo, né sul piano culturale né su quello politico.

Il mix tra vecchi dirigenti del passato e "giovani" capi allevati nella cultura apparatizia non poteva che essere nefasto. In realtà analizzando le biografie politiche della nuova generazione di dirigenti cooptata al comando del partito si constatano tutti i limiti di una leadership che ha fondato le sue fortune sul carrierismo, sulla scalata più arcaica degli apparati, sull'assenza di autonomi percorsi lavorativi, professionali, culturali (funzionari della Fgci fin da giovanissimi, poi immediatamente spostati a incarichi di partito, sempre nella necessità di non manifestare comportamenti e posizioni politiche sgradite al "centro" mediatore che ha diretto il Pci negli ultimi decenni).
Con queste premesse e con questa leadership non stupisce, allora, che il Pci abbia vissuto di recente anche un grave declino culturale. Ogni autonomia di analisi è stata sostituita da un riciclaggio frammentato e confuso di riflessioni ed elaborazioni svolte altrove e svuotate dei loro contenuti storico-sociali (Spd, Gorbaciov, accademici e opinionisti italiani laico-radicali, segmenti sparsi femministi, verdi, pacifisti). Questi elementi, in realtà, rappresentano la cornice solo verbale di politiche sempre più improvvisate, nella loro "concretezza" politicista e subalterna ai ceti e alle culture dominanti.
Il risultato del XIX congresso, per altro, ha confermato le ragioni di un giudizio critico sul metodo e sulla sostanza dell'operazione di Occhetto. Gli autoconvocati comunisti hanno sostenuto a ragione che una proposta politica non può essere valutata astraendo dalle forme in cui viene presentata: l'operazione occhettiana è stata imposta da un esecutivo, secondo un emulato stile craxiano del "fatto compiuto", anticipando le proprie scelte ai giornali prima ancora di coinvolgere l'insieme del Pci, per costringere tutto il partito a inseguire la via indicata dal segretario. L'operazione di Occhetto ha inoltre fruito dell'appoggio quasi unanime della stampa, e in particolare dell'Unità che ha svolto e continuato a svolgere un ruolo manipolatorio, con una ossessionante campagna volta a presentare l'ipotesi di Occhetto come "l'unica via" di rinnovamento, etichettando ogni altra ipotesi come conservazione, resistenza, freno. Il peso del gruppo dirigente in questo scontro ha quindi reso non libera la discussione, riducendo spesso il dibattito a una mera "conta" tra sì e no.
E qui conviene ricordare come gli autoconvocati del Pci proposero (novembre 1989) agli organi dirigenti del partito di attuare la norma statutaria approvata al XVIII congresso, che consente la presentazione di mozioni nazionali anche agli iscritti (previa regolamentazione del Comitato centrale). Memorabile fu la risposta "informale" che il giovane responsabile dell'organizzazione, Piero Fassino, dette agli autoconvocati: dopo aver vanamente tentato di negare l'esistenza della norma statutaria Fassino sostenne la bizzarra tesi secondo la quale, essendo lui stesso l'autore materiale della norma, la sua interpretazione "autentica" della medesima portava ad escludere l'attuazione della "folle" richiesta degli autoconvocati.
Sul piano dei contenuti, invece, i "nuovocorsisti", per affrontare la complessità e difficoltà della situazione italiana, hanno scelto la scorciatoia semplificatoria della dissoluzione di una identità, dimenticando che essa appartiene non alle élites dei dirigenti, ma ad intere aree sociali e generazionali. Invece di aprire e far vivere un processo sociale di rifondazione del Pci e della sinistra, mettendo in discussione il proprio ruolo (esecutivo) di dirigenti ed attivando tutte le energie e le idee presenti nel sociale e che si esprimono anche con nuove conflittualità, la maggioranza del gruppo dirigente e dell'apparato ha deciso di dissolvere un'intera "anima" dell'opposizione nel nostro paese per esigenze di omologazione ai metodi e ai riti del sistema politico più trasformista e continui sta d'Europa.
Con e dopo il congresso di Bologna si è profilata inoltre una nuova oligarchia politica alla guida del Pci costituita da una parte dei tradizionali "consiglieri del principe", cioè una serie di esponenti accademici e degli apparati politici non direttamente identificabili con gli organismi dirigenti ufficiali del Pci. In particolare alcune forze presenti nel governo ombra (che dovrebbero diventare l'autentica "direzione politica", secondo Pasquino), insieme ad una parte della Sinistra Indipendente e della emergente "sinistra dei club" si sono proposti di "guidare" la politica del Pci. L'esistenza di questa dimensione neogarchica, trasversale a diverse aree politiche esterne al Pci, si è manifestata concretamente subito dopo il congresso, con le pressioni da parte di esponenti del governo ombra contro il movimento degli studenti universitari, per paralizzare una eventuale collocazione del Pci a fianco della Pantera, e in seguito con il coinvolgi mento del Pci nella promozione dei referendum sulle leggi elettorali.
L'obiettivo di questo gruppo autopromossosi dirigente - cui è stata concessa ospitalità nei "piani alti" della politica - è quello di sostituirsi ("alternarsi") all'attuale classe politica italiana. La nuova formazione politica dovrebbe consentire ad un ceto tecnocratico di occupare posti di potere ai fini di una efficiente razionalizzazione del sistema. Per realizzare quest'obiettivo si intende utilizzare un decisionismo autoritario (o "autorevole" come lo chiama Federico Stame) in cui convergono vecchio dirigismo stalinista ed efficientismo tecnocratico (i vecchi consiglieri del principe che si candidano alla direzione politica in prima persona).
Va avanti parallelamente una operazione ideologica e propagandistica per sostenere la tesi che i comunisti italiani sono stati "il Male" (dalle polemiche sul 18 aprile 1948, tese a dimostrare che la Dc ha salvato l'Italia dal comunismo, fino all'indecorosa campagna sull'antifascismo, prendendo lo spunto dalle "rivelazioni" sui fatti accaduti a Reggio Emilia nel dopoguerra). Si è trattato di una operazione in parte subita, in parte alimentata dal gruppo dirigente di Occhetto e supportata dall'Unità, in particolare nella sua seconda pagina diventata il pulpito principale di una martellante campagna contro il comunismo (gli articoli di Bolaffi e De Giovanni, e in altre parti del giornale le identiche tesi sostenute da vari redattori e collaboratori, quasi sempre ex-funzionari di partito o della Fgci, coordinati da Renzo Foa già quando era condirettore).
È stato troppo comodo dire, come ha fatto Occhetto nel discorso alla Bolognina, che "tutto" era in discussione. Per noi, invece, era ed è in discussione e va cambiato tutto ciò che ha impedito, dentro e fuori il partito, l'emancipazione individuale e collettiva. In questo senso molti militanti hanno inteso l'affermazione "la democrazia è un valore universale" come l'ennesimo, ulteriore inganno, come una vuota formula.
Il partito è uno strumento le cui modalità di funzionamento non possono essere in contraddizione con i valori e i fini per i quali ci si intende battere. Libertà, uguaglianza, pluralismo, democrazia formale e sostanziale devono entrare nelle procedure e nella vita dei partiti, e devono essere considerati elementi costitutivi di una nuova cultura politica comunista. Dopo anni di paralisi, e con la perdita di capacità propulsiva da parte di tutto il gruppo dirigente del Pci, è stato mistificante appellarsi all'unità del partito per comprimere o condizionare il dibattito, talvolta agitando il vecchio spettro del "frazionismo" e ora della scissione. L'unità del partito ha senso solo se si basa su un sentire comune, se è capace di produrre vere sintesi tra le diverse posizioni e se riesce a sollecitare gli appartenenti al partito a realizzare comportamenti conseguenti all'analisi e alla proposta.
Il raggiungimento di questo obiettivo, ormai molto improbabile dentro una stessa formazione politica, pena il trasformismo, dipende da ogni singolo aderente o simpatizzante, con la partecipazione diretta e l'auto assunzione di responsabilità e di quote di potere.
Le iniziative autoconvocate che si sono sviluppate in questi mesi dimostrano che nel Pci e dal Pci possono emergere posizioni ed energie non omologate. E la ricchezza di idee e di segnali presenti nelle discussioni auto convocate dimostrano anche che la proposta di Occhetto non è l'unica via di uscita dall'agonia e dal declino in cui versava da anni il Pci. Quella proposta è solo una delle proposte possibili, anzi è forse una delle meno praticabili e delle meno innovatrici. Esistono delle alternative alla operazione di Occhetto, e alternative in avanti, non solo "difensive-resistenziali".
Di fronte a questa situazione la semplice divisione in mozioni congressuali ha dimostrato fragilità politica e debolezza culturale. Per l'affermarsi di una proposta alternativa alla maggioranza occhettiana e come futura garanzia della sopravvivenza di una soggettività comunista in Italia non può quindi essere riposta fiducia e speranza esclusivamente in una riproposizione del contrasto tra mozioni congressuali. Di fronte alle oscillazioni che continuano ad attraversare i gruppi dirigenti del Pci (che appaiono sempre più lontani rispetto al corpo sociale del partito e che producono danni anche all'esterno) appare coerente e incisiva la proposta di approssimarsi al XX congresso con la consapevolezza che sono mature le condizioni per procedere ad una separazione tra le due o tre grandi aree del partito (comunista, riformista-migliorista e liberaI-radicale, già apparatizia) come atto dinamico per una rifondazione della sinistra italiana che ne rispetti il carattere pluralistico.
Questa proposta merita non solo attenzione, ma necessita di ulteriori arricchimenti perché possa orientarsi verso la costruzione di quella rete di soggetti alternativi e antagonisti al sistema capitalistico che oltrepassi una dimensione semplicemente minoritaria-protestataria. Ma anche questa prospettiva rischia di rimanere confinata nel recinto delle manovre politiciste se non emerge quanto prima una capacità di elaborazione e di iniziativa politica, senza rimanere nella paralisi in attesa dello svolgimento di appuntamenti politico-organizzativi meramente interni.
La rifondazione del Pci, o la costruzione di una nuova soggettività comunista, assume un senso se inserita dentro l'ipotesi di una federazione di differenti forze di sinistra che intendono oltrepassare i limiti e i confini del capitalismo. Questa nuova forma politica, anche attraverso convenzioni programmatiche itineranti nella società italiana, deve essere capace di individuare direzioni di marcia e obiettivi di lotta praticabili. Il colore di questa federazione non potrà che essere autenticamente arcobaleno, muovendo dalla ricerca dei consistenti minimi comuni denominatori di questa sinistra alternativa troppo spesso frantumata da vecchie contrapposizioni e rigidità.

4. Gli autoconvocati comunisti per la rifondazione della sinistra

Da un bilancio della vicenda appena trascorsa è possibile individuare snodi e passaggi che mettano in moto analisi e praatiche politiche in controtendenza rispetto all'indirizzo preso dal Pci di Occhetto, di Napolitano e dei "nuovi" tecnocrati.

Nel Pci le autoconvocazioni sviluppatesi dopo la svolta di Occhetto non si sono rivolte solo alla seconda mozione, ma ai molti compagni che non ritenevano esaustivi i documenti congressuali del sì e del no, e anche all'esterno del Pci verso un'aarea di elettori e di simpatizzanti cui le discussioni congressuali non hanno saputo parlare.
L'autoconvocazione va infatti considerata non solo nella sua anomalia comportamentale, ma nella potenzialità di arricchimento culturale e di concreto contributo per frenare e convertire in positivo quella scissione silenziosa che non si è mai fermata.
La sostanza politico-culturale dell'autoconvocazione muove dalla tradizione e dalla prospettiva comunista (non solo del Pci), ma con una grande innovazione teorico-pratica sulla base di altre culture ed esperienze.
L'autoconvocazione è quindi un metodo, ma anche una esperienza politica che ha espresso una tendenza nel dibattito in corso a sinistra e nel Pci.
L'identità che si va costruendo attraverso le autoconvocazioni tende quindi a rendersi autonoma dai partiti e dalle forze politiche esistenti, anche dal Pci: è una identità che si è formata principalmente dentro al Pci, anche se da tempo si è arricchita ed innovata anche grazie all'incontro con altre esperienze.
L'autoconvocazione è una tipica iniziativa politica interna/esterna, che non riguarda solo i militanti di un partito. Non a caso tra i firmatari e i promotori delle varie iniziative autoconvocate dei comunisti si trovano sia iscritti che non iscritti al Pci.
In realtà l'autoconvocazione non ci pare una formula temporanea e contingente di fronte alla svolta occhettiana, ma una scelta, anche etica e culturale, di un nuovo modo di fare politica che si basa sulla responsabilizzazione individuale e collettiva, e una modalità importante di comunicazione dinamica per attivare aree che si vogliono svincolare (senza rinunciare alla propria identità) dalle logiche di appartenenza organizzativa. Per questo l'autoconvocazione è una proposta strategica che non può essere limitata soltanto ai militanti del Pci.
Proprio in quanto scelta strategica le auto convocazioni nel Pci sono andate avanti, segnalate e rese evidenti nel partito spesso in modo deciso, superando timidezze o timori. L'autoconvocazione ha tentato anche di dare risposta politica al senso che assume oggi la militanza dentro e fuori un partito come il Pci, e tanto più dentro o fuori la costruzione della "nuova formazione politica". Si tratta di chiedersi se e come può proseguire la nostra militanza politica dentro e fuori il partito.
La fase costituente sta liberando energie che vanno recuperate, valorizzando anche le collocazioni e le competenze individuali ai fini della costruzione di una autonoma rete della sinistra alternativa e di sedi politiche collettive.
Il progetto è dunque ambizioso, ma corrispondente ad esigenze diffuse per quanto ancora deboli o scarsamente visibili.
Il bilancio dell'esperienza degli autoconvocati del Pci ha numerosi aspetti positivi. Le autoconvocazioni hanno riguardato centinaia di compagni in diverse parti d'Italia, con significativi momenti di mobilitazione collettiva, ottenendo una consistente visibilità sulla stampa nazionale, riuscendo a volte a rompere anche lo sbarramento censorio dell'Unità di D'Alema e Foa. Durante la scorsa fase congressuale, poi, laddove il documento "Per la rifondazione del Pci e della sinistra" è stato presentato come mozione collegata alla 2, ha ottenuto una notevole attenzione e consenso, e ha contribuito ad attivare forme di comunicazione permanente con settori di partito in varie città. Molti temi e formule proposti nel dibattito congressuale dalle iniziative auto convocate, poi, sono stati ripresi dal dibattito nazionale o da iniziative di vario genere: è il caso di parole chiave come liquidazione, rifondazione, sinistra sommersa e diffusa, nuove regole di vita democratica del partito, ecc.
Significativa è stata in particolare la capacità di promuovere e di attivare una rete di rapporti con altre esperienze politiche di sinistra, instaurando nel con tempo importanti contatti con una serie di personalità e soggetti del mondo politicomentare, culturale, ed infine realizzando iniziative sia nel campo editoriale e dell'informazione (rivista A sinistra, compartecipazione a radio locali) sia in quello più propriamente politico (co-promozione del Comitato per la difesa e il rilancio della Costituzione ).
Non va nascosto che difficile e non sempre lineare è stato spesso il rapporto tra le autoconvocazioni e altre aree politiche, anche interne al Pci e al cosiddetto "fronte del No" sul piano nazionale e locale, per diversi motivi. Sono le eredità di uno stile politico tradizionale e continuista con il vecchio dirigismo burocratico del Pci e dell'idea che il rapporto principale o esclusivo sia quello tra ruoli politici: da questa vecchia e deteriore concezione nessuna componente storica del Pci, compresa quella "ingraiana", ha saputo o voluto veramente liberarsi.
Il dissolvimento del Pci va invece affrontato con l'iniziativa consapevole di una soggettività politica e sociale dei comunisti italiani capace di andare oltre antiche preclusioni, schemi, condizionamenti.
Contestualmente alla fase costituente della nuova formazione politica può essere ampliata la capacità autonoma dei comunisti in termini di idee, di iniziative e di azioni dirette. Mentre la maggioranza del gruppo dirigente del Pci si avvia a fondare una formazione partitica non comunista, ma con tutti i vizi centralistici del passato, si fa più urgente l'esigenza di avviare una nuova esperienza politica comunista. Sono proprio le vicende più recenti (riaffermazione dell'egemonia capitalista sul sud del mondo anche attraverso l'iniziativa militare, come è accaduto nel Golfo Persico; attacco alla matrice antifascista della Repubblica italiana; ossessiva persecuzione - per ora solo culturale - verso l'anomalia comunista) che confermano la necessità di un'attiva e organica posizione critica verso gli assetti di potere dominanti.
L'aggettivo "comunista" non va certo inteso come indicazione di una verità assoluta, ma come capacità di esprimere punti di vista autonomi, analisi critiche e proposte alternative in grado di sollecitare iniziative sociali. La crisi che attraversa i nuovi movimenti, costretti a muoversi solo su obiettivi parziali e in dimensioni elettoralistiche e politiciste tipiche del sistema dei partiti, è sintomatica degli effetti negativi conseguenti all'assenza di un pensiero critico sul versante economico-sociale e di un comportamento coerentemente antagonista.
Si tratta di costruire e rafforzare iniziative, sedi e reti che attivino e mettano in circolazione, anche nel Pci, soggetti ed esperienze oggi frammentate e sparse in più sedi.

Per sostenere questa sfida è necessario affiancare all'esperienza dell'autoconvocazione momenti di autorganizzazione che rappresentino punti di riferimento visibili per tutte le forze di sinistra. L'area dei "comunisti democratici" nata dal "fronte del No" rimane uno degli interlocutori della nostra iniziativa, non l'unico. È neessario che da questa area emergano prese di posizione e azioni coerenti con le aspettative di una larga fascia di militanti del Pci e della sinistra.
L'impegno unitario deve andare nella direzione di costruire una o più reti di energie politiche, sulla base di minimi comuni denominatori. Questa rete si può esprimere in forum, o in convenzioni delle forme politiche della sinistra diffusa e non "emersa". In questo senso non tutte le differenze e le diversità sono uguali: il referente deve essere quella sinistra sociale capace di esprimere autonomia critica verso l'esistente e di produrre esperienze.
Questo è stato anche il motivo della nostra critica alle iniziative della "sinistra sommersa" del cinema Capranica. Per noi sinistra sommersa significa ridare la parola a chi per troppo tempo non l'ha avuta, far contare chi non ha avuto spazio, ricostruire una memoria storica di sinistra e promuovere "quadri sociali" anche attraverso percorsi di autoformazione. I soggetti cui riferirsi sono associazioni, movimenti, esperienze di volontariato, lavoratori dipendenti, donne (non solo le donne "in carriera", ma anche quelle emarginate), gli immigrati, i giovani, gli studenti, i ceti orientati a sinistra. Ben altro dalla miscela di "nuovi mandarini", che sembrano voler far valere il reddito, il ruolo (accademico) o le posizioni di comando: i "club" del Capranica rivelavano un'operazione ben diversa anche da quella dell'Eliseo, quando Berlinguer si rivolse direttamente, ma in modo antico, al mondo della cultura.
La sinistra sociale a cui ci riferiamo è diffusa territorialmente, pretende che lo stato funzioni ma vuole più ampi poteri locali, oggi svuotati di peso. Si tratta di movimenti e soggetti che dissentono o sono lontani dal progetto politico occhettiano. Sono infatti portatori di idee che non potranno realizzarsi nella prospettiva moderata scelta dalla maggioranza del Pci. Sono energie che affermano un nuovo nesso tra teoria e prassi, e pongono quindi problemi di diritti, poteri, pratiche, sedi politiche altre. In una dimensione di "democrazia sociale" autogovernante che è sconosciuta alla cultura politica di gran parte del nuovo gruppo dirigente del Pci, non a caso tutto proteso ad affrontare con gli strumenti dell'ingegneria istituzionale determinati problemi del sistema politico italiano.
Per creare una rete di sinistra, come la intendono gli autoconvocati, occorre privilegiare i minimi comuni denominatori sugli elementi (storici e molteplici) di divisione. Questa rete deve guardare alle diverse soggettività comuniste e "contemporaneamente" a una sinistra più generale, che non accetta le compatibilità date, che mantiene una carica conflittuale, di opposizione e di alternativa talvolta senza voler riconoscersi nel pur variegato orizzonte comunista.
Per dare sostanza alla rete è indispensabile individuare nodi programmatici e contenuti chiari, da porre in tempi molto rapidi al centro di iniziative politiche concrete. Dal nostro punto di vista molte delle linee principali su cui orientare l'attività sono indicate nel documento "Per la rifondazi6ne del Pci e della sinistra" (vedi in questo libro a p.82) e in altri materiali prodotti con il contributo delle esperienze autoconvocate. Su questi ed altri contenuti programmatici vanno organizzati appuntamenti politici (sia insieme ad aree del Pci, sia insieme ad altre forze politiche e aree di sinistra) non solo di dibattito, ma anche di azione diretta. La novità di fondo deve essere rappresentata dalla capacità di uscire da una attività concentrata su avversari interni al Pci (la lotta contro il progetto di Occhetto) per ritrovare una presenza in momenti di conflitto sociale e politico esterni alle vicende di un partito.
Il Pci di Occhetto ha tentato di suscitare interesse per la fase costituente soprattutto all'esterno del partito. L'altra sinistra, che non si riconosce nell'operazione occhettiana, deve suscitare maggiore consenso e attivare maggiori energie, mettendo in sintonia le forze di provenienza marxista, quelle della differenza sessuale che ribalta l'ordine costituito, dell'ecologia politica, del pacifismo che produce azione politica nonviolenta, e del nuovo internazionalismo solidale e cooperante. Questa area deve polarizzare l'intelligenza diffusa e non subalterna ai miti tecnologici, nella fabbrica come nel terziario, il proletariato e il ceto medio non omologato, e tutte le forme di rifiuto delle moderne alienazioni. Non si tratta di una "unificazione" (che richiama vecchi tentativi, tutti non riusciti) di forze diverse, ma di una sintonia e armonia tra pezzi di mobilitazione a sinistra che attualmente hanno ancora pochi momenti comuni di iniziativa.

LE ORIGINI

La prima lettera al Comitato centrale (24 giugno 1987)

Il 24 giugno 1987 trentacinque iscritti e simpatizzanti del Pci firmano una lettera aperta al Comitato centrale del Pci. La lettera viene recapitata ai membri del Comitato centrale in occasione della seduta del 27 luglio. L'Unità non ne dà notizia, mentre Paese sera e Il Manifesto la pubblicano integralmente. La Repubblica, con un articolo in seconda pagina, definisce la lettera al Comitato centrale "lettera dei trentenni".
Una riflessione critica sul risultato elettorale che si riduca ad una rinnovata contrapposizione tra impostazioni ormai superate ("governativisti" contro "movimentisti") può solo ottenere l'ennesima improduttiva mediazione.
Un declino storico del Pci corrisponde ai desideri di diverse forze e tendenze. Ma se di declino si dovesse parlare, deve essere anche detto che non si tratta ancora di un processo ineluttabile. Per invertire questa tendenza non bastano semplici aggiustamenti o peggio apparenti compattezze unanimistiche del partito. Occorre innanzitutto un ricambio profondo nei gruppi dirigenti del Pci, e un ricambio anche generazionale, con la valorizzazione di energie che provengono dall'esterno degli apparati di partito.
L'occasione che ci viene data dal test elettorale per ricominciare a parlare ed a fare politica non va persa, ed è bene che sia data e sollecitata ad ogni militante, ad ogni cittadino, ad ogni gruppo sociale la possibilità di esprimere la propria esperienza e la propria proposta, in una discussione pienamente
libera. Solo in questo modo può costruirsi, ad esempio, una Convenzione programmatica che non si riduca ad una mera operazione verticistica e di facciata costretta a continui adattamenti tattici.
L'accresciuta partecipazione al voto è stata generalmente interpretata sulla base dei suoi effetti negativi, di polverizzazione della rappresentanza. Non si è riflettuto sul fatto che gli spazi di agibilità democratica (partecipazione diffusa alla vita sociale, economica e politica) del nostro sistema si sono progressivamente ridotti al punto che il momento elettorale è divenuto nel senso comune l'unico luogo di partecipazione reale alla vita politica del nostro paese.
Dopo lo svuotamento di poteri delle sedi di intervento diretto dei cittadini (dal consiglio di quartiere a quello di fabbrica), dopo la trasformazione delle sedi intermedie della rappresentanza in organismi partitocratici, dopo la riduzione del partito politico in struttura apparatizia e di supporto ai suoi rappresentanti nelle varie sedi istituzionali, non pare che tutto sia risolvibile e semplificabile con una nuova soluzione tecnica (la riforma elettorale).
Appare quindi determinante fare i conti con le ragioni profonde del disagio sociale (e delle aspettative di cambiamento) che anche queste elezioni hanno fatto emergere, seppure in un modo che non facilita una lettura lineare. Non può essere tenuto separato questo disagio dalle ragioni economiche e politiche che lo hanno causato e che riguardano aspetti essenziali del modo di produzione e di consumo del nostro sistema. La stessa questione ambientale non può rappresentare certo l'ennesima aggiunta alle tematiche tradizionali, ma è una opportunità per ricomporre l'area sociale delle forze di progresso e prospettare un nuovo scenario economico di compatibilità, e un nuovo ordine di valori, sui quali chiedere il consenso e l'iniziativa dei cittadini. Il problema verde, infatti, esige dalla sinistra una mutazione di pensiero che la renda capace di governare un nuovo sviluppo cominciando a togliere le decisioni che riguardano l'ambiente dal condizionamento dell'economia di mercato.
La riduzione dell'azione politica del Pci al momento elettorale e a quello istituzionale può forse rientrare in quel processo più generale di "modernizzazione" della politica che vede i partiti trasformarsi progressivamente in macchine elettorali per l'organizzazione di un consenso sempre più passivo. Ma per il Pci questo è in netta contraddizione non solo con la sua storia e con le caratteristiche attive della sua base sociale, ma anche con la sua identità di soggetto politico del cambiamento, capace di aggregare istanze anche diverse tra loro sulla base di scelte politiche, economiche ed istituzionali realmente alternative a quelle dominanti.
Noi, che facciamo parte di una generazione avvicinatasi alla politica e al partito comunista negli anni settanta, riteniamo che la fase sia straordinaria e non consenta ricerche di mediazioni, o unanimità fittizie con rischi di paralisi. Nel corso di questo decennio più volte nel Pci sono state apportate correzioni a scelte politiche di carattere strategico non sempre adeguatamente motivate e che hanno provocato un certo disorientamento nel partito e nella sinistra, ma soprattutto nei confronti di quelle aree sociali cui tali proposte erano riferite. Non è stato mai chiarito il confine tra mutamento di linea a seguito di una diversa analisi della realtà italiana e, invece, l'adattamento conseguente ad errate valutazioni e conduzioni politiche da parte di gruppi dirigenti che pure rimangono ai vertici dei vari livelli del partito, non si capisce bene in nome di quale "continuità".
Occorre allora promuovere effettivamente un rinnovamento profondo che avvii nel partito e nella sua area politica e culturale un processo di discussione che contenga anche elementi di rifondazione.


Il seminario dell'ottobre 1987:
per una nuova identità della sinistra
(19 ottobre 1987)

1. La situazione attuale richiede una discussione nuova e radicale. Questa discussione deve avere esplicitamente il carattere di una "rifondazione della sinistra" dopo un ciclo politico concluso. Si tratta di avviare la costruzione di una sinistra nuova e pluralista (anche nella collocazione rispetto al governo), una sinistra in grado di guidare e di indirizzare, e non di subire, la sfida dell'innovazione e della modernizzazione.
La microstoria italiana degli anni settanta segnalava un più generale finale d'epoca. Anche per questo la dimensione sovranazionale di una nuova politica di sinistra non può ridursi solo all'Europa (o alla sinistra europea) ma deve mantenere la percezione di un carattere mondiale e multilaterale dei processi in atto.
Non si tratta di avanzare rivendicazioni nostalgiche per passate stagioni politiche. Anzi, deve restare forte la consapevolezza che occorre andare oltre i confini tipici del precedente decennio. La politica non è più riconducibile solo alla forma partito. Nuove tematiche, spesso con caratteristiche trasversali, si sono affermate con forza negli ultimi anni. Le istanze verdi e ambientaliste, il pacifismo, le contraddizioni di sesso, sono alcune delle sfide contemporanee non riducibili alle tradizionali organizzazioni partitiche e sindacali. Crescono quelle che sono state definite "militanze senza appartenenza", maturano figure di soggettività collettiva dai contorni più ampi di quelli di partito e basate su fattori eminentemente culturali. Siamo di fronte a una complessa varietà nelle forme politiche, nei modi di espressione e di autorganizzazione.
Non ci sono scorciatoie di ingegneria istituzionale per affrontare il fenomeno di una restrizione delle sedi di partecipazione e della conseguente trasformazione dei partiti in macchine elettorali finalizzate alla propria auto-conservazione, con una crisi verticale della democrazia rappresentativa e degli strumenti di partecipazione.
Non è sufficiente nemmeno la divisione sul concetto di "fuoriuscita dal capitalismo". Ciò a cui, ad esempio, le tematiche ambientaliste e il verde alludono è una nuova qualità dello sviluppo, che rimetta in discussione categorie della società industriale nel suo complesso, e anche tradizionali idee della democrazia. Riemerge la richiesta di poteri democratici diffusi, senza torsioni stataliste, per una politica che non sia chiusa nella prospettiva dell'occupazione del potere statale o della permanenza di esso a qualsiasi condizione. Appare necessario allora aprire una fase di metamorfosi e moltiplicazione delle forme politiche, sperimentando anche nuove sedi intermedie tra partito e movimento.
Il Pci e la sinistra necessitano di un rinnovamento generazionale e soprattutto di una innovazione nella cultura politica. Dal divario e dallo scontro tra contenuti innovatori e forme tradizionali dell'azione nasce l'esigenza di nuovi linguaggi che non lascino il cosa fare scisso dal chi lo fa e come.
Per una mutazione e una innovazione delle forme politiche occorre destrutturare e riclassificare gli apparati tradizionali della sinistra, liberando politicamente le energie delle varie successioni generazionali. Per questo motivo oggi più che in altre fasi le formule organizzative e la composizione dei gruppi dirigenti in un partito di sinistra (e in particolare nel Pci) non possono restare separate da un confronto di merito sulle questioni e i nodi politici dell'ultimo decennio e del recente periodo. Se risultano superate alcune vecchie contrapposizioni tra "anime" diverse e cristallizzate, si dimostra ancora più evidente che le ricomposizioni anche solo esteriormente unitarie tra linee politiche divergenti non sono più proponibili.
Appare valido il richiamo all'esigenza che un ricambio nei dirigenti politici, ai vari livelli, avvenga anche attraverso la valorizzazione di energie esterne agli apparati di partito.

2. Quanti si sono avvicinati alla politica e alla sinistra nel corso degli anni settanta hanno dato alla politica anche un forte valore esistenziale, interpretando in modo nuovo (e non religioso") il rapporto tra politica e bisogni concreti, etica e identità. Per questa generazione si pone ora il quesito se valga ancora la pena di continuare a impegnarsi e a fare politica nell'accezione di impegno generale e complessivo, quando da parte della sinistra e del Pci sembra venire solo una cultura politica invecchiata e inadeguata alle sfide della modernità.
Si tratta di una generazione che, proprio perché affacciatasi alla politica negli anni settanta, non ha vissuto antichi "complessi" di colpa di carattere ideologico da cui emendarsi (come lo statalismo o la "inaffidabilità democratica"). Per questa generazione non ha quindi senso una riscoperta con caratteri subalterni del modernismo o di una certa accezione del riformismo, e che riguarda eventualmente altre fasce anagrafiche e politiche.
Idee e suggestioni di cambiamento per la società e la cultura italiana che il Pci ha veicolato negli anni settanta sono state alla base dell'ingresso nel partito comunista o del consenso al Pci da parte di consistenti aree giovanili. Oggi molte idee di cambiamento e trasformazione vengono cancellate o svuotate di significato in una corsa all'omologazione non sempre consapevole e attraverso il decadimento di un empirismo privo di identità politica.
Queste riflessioni non possono essere ridotte a spunti polemici o a lagnanze periodiche. Si tratta viceversa di un segnale di disponibilità da parte di un'area importante del consenso della sinistra, per formazione, attività e dati anagrafici. Un'area che a determinate condizioni è disposta a continuare o a riprendere un impegno attivo nella politica. Se segnali di questo tipo dovessero cadere nel vuoto, le ipotesi di declino per parti importanti della sinistra italiana e di un distacco da esse di intere generazioni otterrebbero una ulteriore e preoccupante conferma.

La seconda lettera al Comitato centrale del Pci sull'autonomia dei comunisti
( 23 Novembre 1987)

Il 23 novembre 1987 settanta iscritti al Pci firmano una lettera aperta al Comitato centrale del partito "Per l'autonomia politico culturale dei comunisti".

L'esigenza di rilanciare un dibattito chiarificatore tra i comunisti italiani e nell'intera sinistra d'alternativa si è fatta in questi mesi sempre più acuta. Essa non nasce solo dall'esito negativo il voto del 14 giugno, ma dalla diffusa coscienza che sono venuti al pettine i nodi della strategia, della identità e dell'autonomia del partito comunista.

Dopo l'ultima sessione del Comitato centrale del Pci si è fatta più forte la preoccupazione che nel gruppo dirigente si sottovaluti la necessità di mantenere forte e costante la capacità critica verso i processi di cosiddetta "modernizzazione", guidati in campo internazionale e interno negli ultimi anni dalle forze dominanti del capitalismo mondiale.
I militanti del partito e della sinistra avvertono l'importanza essenziale dell'anomalia del "caso italiano", caratterizzato da un rapporto tra capitalismo e democrazia nel quale il ruolo rivoluzionario dei movimenti di massa acquista significati nuovi per fare emergere ed organizzare domande non negoziabili su valori di trasformazione della società e dello stato (riconoscimento della diversità di sesso, qualità del lavoro e occupazione, pace, uguaglianza, ambiente, ecc.), gravemente compromessi dalla controffensiva conservatrice che ha avuto devastanti effetti di allargamento delle disuguaglianze, di destrutturazione sociale, di degenerazione individualistica e corporativa.
I comunisti devono rilanciare consapevolmente il valore della propria storia e identità, attraverso un rinnovamento profondo del proprio rapporto con la società, ripensando le culture e le forme attuali del potere e della democrazia, spostando l'asse del potere reale verso la società civile sia all'est che all'ovest; devono rifiutare di rinchiudersi nel ghetto di uno schieramento parlamentare volto solo a redistribuire la gestione amministrativa del potere, in una semplice "alternanza" verso la Dc, e devono agire contro il pericolo che si favorisca "l'autonomia del politico" con riforme istituzionali subalterne al decisionismo "movimentista" dell'area radicaI-socialista.
I comunisti e le forze realmente di sinistra aspirano infatti a rappresentare, in modo più complessivo e articolato che in passato, vere e proprie alternative di senso, opposte alla logica di modernizzazione regressiva del sistema capitalistico, strettamente intrecciate con la contraddizione riguardante lo sfruttamento del lavoro umano e l'alienazione di masse sempre più estese.
I comunisti e la sinistra non possono abdicare alla prospettiva di controllo sociale del potere di accumulazione in cambio di illusori risultati politici di fase.
Per concorrere ad elaborare, nella composita sinistra europea, un progetto di alternativa che esalti il primato dei valori sociali sullo spirito di profitto del capitalismo, occorre sciogliere i nodi più difficili elusi nel XVII congresso del Pci, riformando innanzitutto gli strumenti organizzativi che stentano a riflettere in forma democratica la volontà dei militanti e delle forze sociali presenti nella sinistra italiana.
Noi riteniamo che la prossima sessione del Cc, diversamente dalla precedente, debba affrontare con un dibattito chiarificatore e straordinario le cause del preoccupante degrado del Pci, per contribuire a rianimare la partecipazione e ad esaltare un protagonismo non formale di tutti i militanti anche in forme inedite.

PRIME RIFLESSIONI

Il primo documento: per una nuova identità del Pci e della sinistra
(22 luglio 1988)

Durante un dibattito con Massimo D'Alema alla festa dell'Unità di Castel Sant'Angelo a Roma, il 22 luglio 1988, è diffuso il documento "Per una nuova identità della sinistra ", dove viene chiesto, tra l'altro, che una mozione con 2.000 firme possa essere discussa dal congresso nazionale del partito. Il Messaggero definisce il testo "un documento di rifondazione dal basso".
A) Questo documento è il frutto di una elaborazione comune di compagni iscritti e non iscritti al Pci, che ritengono la crisi politica ed organizzativa del Pci espressiva della perdita di autonomia culturale e dell'esaurimento della capacità di analisi e di proposta politica dell'intera sinistra.
D'altra parte il Pci, nella storia nazionale, costituisce un patrimonio collettivo che va ben oltre la propria dimensione organizzativa.

Intervenire, quindi, significa per noi ricercare percorsi politici ed organizzativi, non soltanto rivolti a superare la crisi di un partito, ma soprattutto intesi a ricostruire una nuova identità ed egemonia della sinistra.
A poco serve disquisire sul carattere più o meno ineluttabile del declino. Quel che è certo oggi è che il Pci non riesce ad essere un polo di riferimento e di attrazione per i giovani e per i movimenti emersi in questi anni, né soggetto di promozione e direzione del conflitto sociale. Quel che è certo è che il Pci non si presenta come partito portatore di un processo di cambiamento profondo, autonomo, nei confronti della modernizzazione in atto. Quel che è certo è che l'identità del Pci, così come è stata costruita nel dopoguerra, non rappresenta più per la società un riferimento alternativo credibile.
In questi anni vi è stata anzi una sostanziale impermeabilità dell'organizzazione comunista verso fenomeni di rilevante valore politico e culturale che ha condotto il Pci, chiusosi progressivamente in una dimensione quasi esclusivamente elettorale lamentare, ad una frequente estraneità, e talvolta contrapposizione con i movimenti della società.
È questo l'effetto di una politica praticata dai gruppi dirigenti che ha prodotto non solo un degrado ed un impoverimento del confronto all'interno del partito, nonché la mortificazione e la perdita di forze attive e creative, ma anche una dinamica di verticalizzazione della formazione della decisione politica e dei gruppi dirigenti fino al richiamo al mito della gerarchia e, addirittura, al carisma.
Prima ancora che il rifiuto del metodo della cooptazione (ciò che nella pratica effettiva ha significato l'annullamento delle responsabilità del singolo dirigente anche per le decisioni di propria pertinenza) va ribadito il rifiuto di una pratica politica di tipo discendente che fa intendere che il Pci è (appartiene al) suo gruppo dirigente, per cui un dirigente intermedio non è responsabile di chi rappresenta (iscritti alla sezione o alla federazione) ma piuttosto nei confronti dell'istanza superiore di cui si sente il rappresentante.
La nostra tesi, invece, si muove in senso opposto, seppure senza alcuna illusione nel mito del vertice "cattivo" e della base "buona", ma semmai convinti che democrazia è conflitto, è confronto, è reale ascolto e sintesi di culture ed esperienze diverse:
l) Il Pci è dei suoi iscritti e ciò richiede un processo e sedi di legittimazione del potere politico dal basso (nella formazione della decisione politica e dei gruppi dirigenti con revocabilità del mandato).
2) Il Pci è dei suoi iscritti e ciò richiede forme di legittimazione del potere politico dall'esterno (con partecipazione alle decisioni: sedi intermedie tra partito e movimenti/società).
3) Il Pci è (sottoposto al controllo) dei cittadini anche per effetto del finanziamento pubblico, e ciò richiede una legittimazione democratica di tutti gli incarichi pubblici più rilevanti, con voto e revoca del mandato.
Queste proposte che offriamo come primo, ma concreto contributo alla discussione del Pci e della sinistra, richiedono degli atti e degli strumenti precisi: l) il metodo dell'autoconvocazione come arricchimento delle forme di partecipazione alla elaborazione politica; 2) la volontà e la capacità di costruire una rete di rapporti tra esperienze politiche diverse, ma interessate alla comunicazione ed alla cooperazione ("federazione di forme politiche"); 3) contribuire in vario modo ad una conferenza programmatica della sinistra nella quale indirizzare le diffuse, seppure disperse e frammentate, esperienze politiche, economiche e sociali.
B) Il vecchio modello di partito massa fondato sull'alleanza di strati sociali diversi attorno alla centralità-egemonia della classe operaia è in crisi. Per ricostruire una nuova identità due problemi si pongono con assoluta priorità: quali interessi specifici rappresentare, perché senza di ciò c'è l'interclassismo perseguibile però da chi detiene il potere, oppure il partito d'opinione; e quale è il terreno di unificazione con interessi generali, poiché senza questo si rischia di cadere in una logica corporativa e subalterna.
La nostra tesi è:
l) il partito comunista è il partito della classe operaia e del mondo del lavoro: il mondo della produzione delle merci, ma anche della produzione di scienza, di cultura, di informazione, di serviizi, di beni immateriali; il mondo del lavoro nero, sommerso, senza protezione, sicurezza e garanzia; il mondo della disoccupazione, sottoccupazione e dequalificazione (secondo l'analisi indicata dalla conferenza delle lavoratrici e dei lavoratori comunisti);
2) il partito non può tuttavia guardare solo alle nuove forme di dominio sociale, ma anche alle domande antagoniste che riguardano il controllo sul processo produttivo ed il controllo sulle condizioni di esistenza. Occorre affermare una pratica politica, autonoma ed alternativa, che si rifondi sulle grandi contraddizioni del nostro tempo (di classe, di sesso, ambiente, nord e sud del mondo), svolgendole nella loro intera portata e radicalità, non quindi come sommatoria e mera mediazione di domande settoriali, ma tendendo a nuovi assetti di potere e di civiltà;
3) rivendichiamo all'idea di socialismo la capacità di proporre delle ipotesi di riorganizzazione generale della società, dell'economia e della politica; di rilanciare la critica alla società capitalistica valorizzando tutti i contributi più vivi ed innovativi del pensiero politico della sinistra.
La proposta di un "nuovo corso", di un "nuovo partito comunista" quale moderno partito riformatore sembra assai lontana, nei termini in cui va affermandosi nel gruppo dirigente, dalla fisionomia sopra delineata.
La funzione del partito diviene sempre più di immagine, come risulta dai principali compiti ad esso attribuiti: saper usare parole chiave ed operare scelte emblematiche. Le modifiche consistono nell'ipotizzare una forte determinazione della direzione, senza defatiganti mediazioni, e la riconsiderazione di tutte le strutture di partito per rendere più libere e bidirezionali le linee di scorrimento fra partito e società civile.
Per ora si prevede soltanto la revisione del rapporto tra funzionari e non funzionari negli organismi dirigenti. Un centro forte ed autorevole e diffusi sensori attivi: non nel senso di una capacità democratica di dibattito e sintesi (di alta mediazione) ma come autorità gerarchica e perciò burocratica.
Infatti nei partiti moderni non possono essere eluse, almeno formalmente, le questioni della visibilità e trasparenza del dibattito e nella formazione delle scelte, e della possibilità di espressione di progetti diversi. Però il gruppo dirigente, nel momento in cui si afferma ciò ed in contrasto con la parola chiave della discontinuità adottata per l'immagine politica ma non per la forma organizzativa, sembra individuare quale condizione indispensabile della propria capacità di azione l'opera e il riconoscimento di un'autorità.
È evidente peraltro che una ricerca ed azioni politiche che non riescono ad approdare ad un programma, ed una discussione sui cambiamenti intervenuti nel partito che non riesce a decollare con sufficiente organicità, sono i sintomi della esistenza di un conflitto che, se viene negato, costringe la direzione politica, se vuol essere operativa, ad assumere un tratto autoritario.
C) Lo statuto del Pci prevede che il congresso nazionale stabilisca la linea generale del partito e, con altra dizione, che il conngresso nazionale fissi la linea politica ed il programma del partità. Nulla viene specificato circa particolari modalità. La prassi è che il congresso discute linee deliberate dalla direzione e approvate dal Comitato centrale: nei fatti la gestione del congresso è propria dei gruppi dirigenti uscenti.
Lo Statuto regola la composizione del congresso, costituita da delegati eletti dai congressi federali, in proporzione agli iscritti. A loro volta i congressi federali sono costituiti da delegati votati dalle sezioni in proporzione agli iscritti.
La gestione esercitata dai gruppi dirigenti uscenti determina la composizione delle delegazioni dai punti di vista sostanziali della conferma dei gruppi dirigenti stessi e del consenso alla linea maggioritaria. La procedura sommariamente descritta non può corrispondere alle necessità odierne che sono: l'avvio della formazione di nuovi gruppi dirigenti e la ricerca dei motivi della inadeguatezza di quelli attuali e dell'apparato sotto la cui gestione si è effettuato un ulteriore ridimensionamento del partito; la necessità di scegliere esplicitamente tra opzioni diverse, comportamento estraneo, per i modi stessi della sua formazione, al gruppo dirigente attuale del partito; la tensione di uno sforzo analitico e politico possibile soltanto con l'impegno di tutto il partito, senza dare alcunché di scontato, così da valorizzare tutte le risorse ed i saperi. Se non si vuole un dibattito limitato alle opzioni presenti nella attuale direzione, ma più ricco, occorre utilizzare da subito la elaborazione dal basso e quella della società. Quindi:
1) una mozione sottoscritta da 2.000 iscritti diventa a tutti gli effetti un documento che deve essere votato al congresso nazionale e dunque discusso nei congressi di sezione e federali. I primi firmatari della mozione fanno parte di diritto delle commissioni, nazionale e federali, che gestiscono i rispettivi congressi.
2) Ogni congresso federale prima della sessione congressuale attua una sessione pubblica con ascolto delle organizzazioni sociali, culturali, di categoria, ecc., con verbalizzazione delle osservazioni presentate. I congressi di sezione pongono particolare attenzione alla preparazione e alla partecipazione alla sessione pubblica.
3) Ciò vale anche per il congresso nazionale.
4) La composizione dei delegati ai congressi, federali e nazionale, deve rispecchiare la percentuale di consensi raggiunta da ciascuna delle mozioni. A tal fine si opera il recupero dei resti, mediante elezione a riserva nei congressi deleganti anche di compagni che si riconoscono in mozioni di minoranza. La procedura ipotizzata vale fino alla composizione delle delegazioni al congresso nazionale e non per la elezione nel Comitato centrale.

La lettera di un gruppo di lavoratori della Breda di Sesto San Giovanni
(15 agosto 1988)

Il 15 agosto 1988 l'Unità pubblica la lettera di un gruppo di lavoratori comunisti della Breda Fucine di Sesto San Giovanni. La letteera porta le firme di: Sabino Malizia, Anselmo Brambilla, Gelmino Fortuna, Ermenegildo Sanna, Carmelo Contino, Giuseppe De Stefani, Ernesto Trepiedi, Gaetano Morano, Lino Bonafede, Serse Mazzapicchio, Gaetano Dessi, Virgilio Pompeo e Vincenzo Serreti.

Il Pei che vorremmo
Le diverse opinioni nel gruppo dirigente, talvolta opposte e tra loro alternative, sulla strategia e sulla natura stessa del Pci, vanno rese esplicite e trasparenti, tanto più in fase precongressuale, anche con mozioni o tesi alternative, informandone corrrettamente gli iscritti senza pregiudiziali o discriminazioni tra buoni e cattivi, per poi chiamare l'insieme del partito a pronunciarsi. Per decidere alla fine della consultazione, non all'inizio, quali siano "effettivamente" le tesi di maggioranza su cui impegnare il partito nell'azione unitaria, con organismi dirigenti in cui le diverse opinioni siano rappresentate sulla base del consenso ricevuto.
Bisogna uscire dalla ambiguità e dalle estenuanti mediazioni che scontentano tutti e paralizzano l'azione del Pci. Bisogna scegliere con grande chiarezza, senza di che il declino, non solo elettorale, e la progressiva passività e rassegnazione dei militanti (con il conseguente grave indebolimento dell'organizzazione) rischiano di diventare una triste realtà.
La prima scelta riguarda l'identità del Pci: se vogliamo cioè essere un partito comunista, sia pur rinnovato e al passo con i tempi, senza quindi anacronistiche nostalgie, un partito che considera la prospettiva del socialismo e del comunismo come il proprio orizzonte storico e ideale; o se viceversa vogliamo diventare un partito socialdemocratico che si candida a gestire la modernizzazione capitalistica, temperandone le spinte più conservatrici, in un quadro però di subalterna accettazione delle "compatibilità del sistema" e cioè del predominio dei grandi gruppi monopolistici nella vita del paese e di una logica di politica estera che ad ogni altra considerazione antepone la "solidarietà atlantica".
Non sono questioni "astratte". A questa scelta veniamo quotidianamente sollecitati dai più autorevoli giornali della borghesia (a cui certo non mancano senso della concretezza e coscienza di classe) e dai partiti (Psi, Psdi, Pri) che si dichiarano disposti a concertare col Pci una linea non già di alternativa a questa società, ma di alternanza su basi socialdemocratiche, con un programma moderato, funzionale a quella che oggi viene definita la "conquista del centro". Oggi persino Agnelli auspica questa alternanza.
Dalle dichiarazioni di Lama, Fanti, Borghini ed altri è apparso chiaro che una parte non trascurabile del gruppo dirigente sostiene apertamente questa prospettiva, fino a prefigurare una integrazione del Pci nell'Internazionale socialista e una unificazione con il Psi di Craxi, per dare vita anche in Italia ad una grande sinistra socialdemocratica paragonabile, con le varianti tattiche del caso, al partito di Mitterand in Francia, di Gonzalez in Spagna, della Spd in Germania.
Non si può certo negare che questa linea abbia una sua coerenza e organicità. Essa presenta però, fra gli altri, un piccolo "inconveniente", quello cioè di prospettare la liquidazione del Pci come partito comunista (e scusate se è poco). Non si tratterebbe in questo caso di un "declino", ma di un vero e proprio autoaffondamento. Chiarezza impone che tutti i comunisti, che nel Pci non si sono pentiti di essere comunisti, compiano una scelta di netta differenziazione da queste posizioni, a cominciare dal "centro" del partito che deve uscire da una persistente ambiguità.
La seconda scelta riguarda il programma: i comunisti non sono astratti predicatori del "sole dell'avvenire", né nostalgici "guardiani del museo della rivoluzione" (sarebbe il caso di smetterla con certe etichette). Ma anche qui bisogna intendersi. L'offensiva capitalistica dell'ultimo decennio, dilagata in occidente anche sul piano culturale, le crisi che hanno segnato l'esperienza e l'immagine dei paesi socialisti (oggi in ripresa), il miglioramento del tenore di vita di alcuni strati intermedi delle società capitalistiche avanzate, hanno inciso profondamente sugli orientamenti di larghi settori della popolazione, favorendone lo spostamento su posizioni politiche e ideali più moderate. Ciò ha creato difficoltà obiettive a tutte le forze, comuniste e di sinistra, che in occidente sono portatrici delle idee di trasformazione sociale. Anche così si spiega (ecco alcuni dati "strutturali" delle tendenze elettorali) una parte del trasferimento di voti dal Pci al Psi; e sarebbe illusorio pensare di contendere l'egemonia a Craxi sul suo terreno, quello cioè del moderatismo riformista e dell'uso spregiudicato del potere  anche clientelare - derivante dall'esercizio del governo e dall'alleanza con alcuni gruppi capitalistici. Vale in questi casi il detto secondo cui "l'originale è più credibile della copia".
Né il dato elettorale può diventare l'unico metro di giudizio: bisogna vedere su quale programma si prendono i voti. Il dramma è quando il calo elettorale si accompagna alla crisi dell'identità e dell'organizzazione, perché così vengono meno gli stessi presupposti di una possibile ripresa. E non si dica che sarebbero venute meno nella società italiana le basi sociali, politiche e ideali per una linea di lotta. Il 70% degli italiani attivi sono lavoratori dipendenti, soggetti a forme nuove di sfruttamento e alienazione, obiettivamente interessati, sia pure in forme diverse, ad una linea di rivalutazione salariale, di riduzione dell'orario di lavoro, di radicale riforma fiscale e ad una complessiva redistribuzione del reddito nazionale (e del potere) dal capitale al lavoro. Un nuovo regime di salari e orari è fondamentale per le donne che vogliono poter meglio conciliare lavoro e famiglia. Sono almeno 20 milioni (un terzo della popolazione) gli italiani lavoratori, pensionati o disoccupati, che vivono in condizioni di povertà o disagio economico, interessati quindi ad una linea netta di giustizia sociale. E se è vero che i "sì" non prevalsero nel referendum sulla scala mobile, essi raccolsero pur tuttavia il 46% dei consensi, nonostante l'atteggiamento contrario di molti dirigenti del partito e della Cgil.
Per non parlare di grandi questioni nazionali come la difesa della democrazia e della sovranità delle assemblee elettive dallo strapotere delle grandi concentrazioni monopolistiche, la salvaguardia dell'ambiente, il disarmo. Recenti sondaggi indicano che il 78% degli italiani si dichiara contrario alla presenza di armi e basi nucleari straniere sul territorio nazionale e si dimostra quindi sensibile ad un'iniziativa, nel Parlamento e nel paese, che dovesse impugnare con determinazione e senza tentennamenti questa bandiera, a cominciare dagli F16.
Per una politica non di "disarmo unilaterale", ma di riequilibrio al ribasso; una linea che può essere favorita da singoli atti o gesti anche unilaterali che non modificherebbero l'equilibrio complessivo e che non possono essere sollecitati e apprezzati quando li compie Gorbaciov e invece visti con orrore quando dovremmo essere noi ad esprimerli.

E si potrebbe continuare.
Su questi temi la politica del Pci è stata debole ed incerta, "né carne né pesce". Alle indicazioni emerse dalla Conferenza dei lavoratori non sono seguite iniziative corrispondenti, mentre in tema di disarmo siamo più a destra del Parlamento della Danimarca, che pure fa parte della Nato.
È chiaro che un siffatto programma di lotta accentuerebbe la conflittualità nei confronti del grande padronato, dei partiti di governo, della Nato e comporterebbe anche una serie di chiarimenti nel movimento sindacale da verificare con la consultazione dei lavoratori. Ma se non vogliamo essere subalterni a Craxi, non vediamo altra via per la ripresa di un'autonoma funzione di un partito comunista nella società italiana, per la costruzione di un movimento di lotta che gradualmente modifichi i rapporti di forza tra le classi e crei nel paese le condizioni di un nuovo blocco sociale alternativo a quello dominante, che sappia incidere sugli orientamenti delle altre forze politiche e preparare così le condizioni per un'autentica alternativa anche di governo. Ciò esclude ogni settarismo e contempla la ricerca anche dall'opposizione di tutte le convergenze possibili con le forze interne alla maggioranza, innanzitutto col Psi, per determinare anche il più piccolo passo avanti.
La terza scelta riguarda la concezione del partito e dell'organizzazione. Non si costruisce alcun movimento di lotta con un
partito che diventa sempre più un partito d'opinione, in cui le sezioni si svuotano, anche perché contano sempre meno, e la militanza si dissolve. Si tratta dunque di infondere nuova linfa vitale e fiducia in sé in quelle centinaia di migliaia di compagni che formano il nerbo militante dell'organizzazione: anche in ciò sta il valore concreto di una ripresa forte dell'ideale comunista. Bisogna ricostruire una rete capillare di sezioni e cellule nei luoghi di lavoro e di studio, nei centri di ricerca, capace di comprendere e di aderire, non solo nei convegni, alle novità di una società in profonda trasformazione, per incidere su di essa. Si tratta in breve di saper essere comunisti oggi, in questa parte del mondo, partecipi in piena autonomia del grande rivoluzionamento teorico-politico che caratterizza il movimento comunista in ogni continente: per rinnovare noi stessi nel profondo, restando però noi stessi.

L'ANALISI

Il primo seminario nazionale degli autoconvocati su "L'autonomia dei comunisti fra tradizione e progetto"
(29 ottobre 1988)

Il 29 ottobre 1988 si svolge a Roma, nella sala dell'Arancio, un seminario nazionale autoconvocato. I materiali che seguono costituiscono una breve sintesi delle comunicazioni presentate nel corso del seminario. Si inaugura, in questo incontro, un percorso che, senza sottovalutare la necessità di contribuire al dibattito apertosi nel Pci in vista del congresso, tuttavia è orientato a costituire un primo approccio ad una discussione autorganizzata attorno ai nodi dell'identità e delle prospettive delle fone di alternativa.

Il nuovo corso del Pci
Franco Astengo

La crisi del Pci sta assumendo un peso enorme all'interno della vicenda politica del nostro paese. Siamo al punto in cui si rende plausibile una previsione di cancellazione di quella "anomalia italiana" che proprio la realtà del partito comunista ha rappresentato nella storia degli ultimi decenni. È così cresciuta, all'interno del gruppo dirigente del Pci, l'idea di arrivare a quello che è stato definito il "nuovo corso": un "nuovo corso" che appare contrassegnato dall'ansia di individuare, anche sul piano teorico, la nuova qualità delle contradddizioni emergenti nella società moderna.

Per la rifondazione della sinistra
Fabrizio Clementi

La crisi vera del Pci (quella che gli impedisce di essere soggetto politico attivo e propulsivo) fa seguito ad un continuo conglobamento di temi senza riconoscerne la piena valenza e le relative soggettività politiche; scaturisce, inoltre, da politiche che individuano obiettivi non praticabili e dalla pretesa di realizzare determinati obiettivi senza lotte.

Potere sociale e internazionale del capitale
Salvatore D'Albergo

L'obiettivo di portare la democrazia a regolare poteri e diritti che oggi le sono sottratti, va perseguito sviluppando fino in fondo l'intuizione ecologista della necessità di far prevalere una concezione qualitativa e non quantitativa della produzione, dando centralità a tutti i valori sociali, non solo a quello ambientale quindi, che caratterizzano il nesso tra qualità del lavoro e qualità della vita.

Soggetti nuovi e nuove contraddizioni politiche e sociali
Giuseppe De Santis

Il problema teorico e politico non è nell'ammettere l'esistenza dei campi conflittuali, ma nella scelta della portata antagonistica dei nuovi conflitti rispetto ai confini delle forme di dominio attuale e delle compatibilità di quello esistente.

Il trend negativo della sinistra in Europa
Franco Ferrari

Due caratteristiche distintive dei partiti comunisti rispetto alla socialdemocrazia (il legame con l'Urss e la maggiore rigidità della dialettica interna) hanno certamente contribuito al loro generale stato di difficoltà e, in qualche caso, di vera e propria crisi. Alla riduzione del consenso elettorale, degli iscritti e dei militanti, si è aggiunta una crescente polarizzazione del dibattito interno che ha portato a numerose scissioni (Francia, Gran Bretagna, Finlandia, Olanda, Spagna, eurocomunisti greci).

Il Pci e i movimenti nella fase della crisi
Fabio Giovannini

Un partito di sinistra che non voglia diventare semplice macchina di gestione del potere deve aggiornare la propria elaborazione culturale, mantenendo una dimensione etica in un rapporto non liquidatorio con le proprie origini. Ma da questo compito impegnativo non si esce con operazioni di facciata, con elenchi di problemi e movimenti che non corrispondono a modificazioni della propria politica.

La cultura politica dei comunisti oggi
Vittorio Parola

Occorre passare dalla monocultura togliattiana alla pluralità delle culture socialiste, uscendo dal feticcio dei vincenti e penetrando nella cultura dei vinti, scoprendo e non occultando le ragioni del conflitto. Aveva ragione Gramsci o Togliatti nel '26? Nel '56 aveva ragione il partito o gli intellettuali che lo lasciavano? Le ragioni storiche della frattura del Manifesto a favore di chi pendono?

Da Operai e capitale a Capitale e operai
Antonio Peduzzi

È intervenuto un mutamento dei rapporti di forza che si traduce in una cosa diversa dall'antagonismo. La sconfitta politica neutralizza, annichilisce il perdente e lo assorbe in seno al vincitore.

Crisi e prospettive delle grandi riforme tra gli anni '70 e '80
Angelo Ruggeri

Non è difficile capire come, anziché di "innovazione", si deve parlare per questi anni di "restaurazione". O, meglio, si deve parlare di innovazione nel senso in cui ne parla Marx, come di un cambiamento tecnico di superficie che serve per conservare in profondità, rapporti sociali e forme di dominio.

L'OPPOSIZIONE

Il volantino davanti a Botteghe Oscure: non siamo d'accordo con la "liquidazione" del Pci
(15 novembre 1989)

Il 15 novembre 1989, mentre i membri della direzione del Pci escono dal portone di via delle Botteghe Oscure, viene effettuato il volantinaggio di un testo dal titolo "Non siamo d'accordo con la liquidazione del Pci": è il primo segnale di mobilitazione autoconvocata contro l'operazione di Occhetto. il testo del volantino portava la firma di Fabrizio Clementi e Fabio Giovannini.

Il Pci, come ogni partito della sinistra europea, ha bisogno di una rifondazione.
Il sistema politico-istituzionale dell'occidente ha bisogno di una profonda e, per certi versi, radicale riforma democratica e progressista. E per realizzare questo obiettivo urge la presenza di un forte schieramento politico e sociale alternativo allo stato di cose presenti.
Quello che sta avvenendo, per come è stato impostato, non va verso una rifondazione, ma verso lo scioglimento del Pci.
Per affrontare la complessità e la difficoltà della situazione politica italiana viene scelta la scorciatoia semplificatoria della dissoluzione di una identità che non è solo di un partito e dei suoi gruppi dirigenti, ma di intere aree sociali e generazionali.
Ancora una volta le decisioni del Pci sono prese dall'alto, mutuando il dominante uso cinico e spregiudicato dei mass media ed invitando iscritti ed elettori a ratificare scelte già compiute sotto la veste di un inconcepibile unanimismo del gruppo dirigente.
Invece di aprire e far vivere un processo sociale di rifondazione del Pci e della sinistra, aprendo il partito alle energie e alle idee presenti nella società e che si esprimono anche con nuove conflittualità, si cancella un punto di riferimento per l'opposizione nel nostro paese, per esigenze di omologazione ai metodi, ai riti del sistema politico più trasformista e "continuista" d'Europa.
Un regalo insperato al CAF ed ai gestori delle note "rinascite democratiche".
Noi siamo convinti, come iscritti, simpatizzanti e semplici persone di sinistra, che il Pci - ma anche gli altri partiti - non sono di proprietà dei dirigenti, ma dei militanti, degli elettori e (con la scelta del finanziamento pubblico) dei cittadini in generale.

Sono questi che devono esprimere una decisione, non tanto e non solo sui nomi, ma sulle politiche concrete, sui comportamenti di un partito.
Non ci sono sedi, non ci sono regole per consentire ciò.
Se certi dirigenti fossero più fiduciosi di se stessi e della società "onesta e produttiva", capirebbero che per rifondare una sinistra d'alternativa italiana e transnazionale non c'è bisogno di cancellare la propria identità storica, sociale (ed umana). Non si richiede una mera agitazione spettacolare, ma battaglie su contenuti e su programmi concreti.

Una lettera a Il manifesto: comunisti, vediamoci lunedì, a Botteghe Oscure
(18 novembre 1989)

Una lettera pubblicata da Il manifesto del 18 novembre 1989 e un volantino distribuito durante il corteo nazionale contro la legge sulla droga invitano i militanti e gli elettori comunisti e della sinistra ad incontrarsi davanti al palazzo di via delle Botteghe Oscure nel giorno di apertura del Comitato centrale. La lettera portava le firme di Franco Astengo e Laurana Lajolo.
È necessario trovare sedi e modi per opporsi alla liquidazione del Pci. Ogni cittadino interessato ai destini della sinistra dovrebbe assumersi responsabilità precise, autopromuovendo iniziative per respingere un'ipotesi di azzeramento della propria storia e della propria identità. La vicenda del Pci sta suscitando un dibattito appassionato, ricco di forti tensioni emotive, ma anche di pulsioni della democrazia italiana, e debbono essere raccolte e portate avanti perché non prevalga lo smarrimento e la confusione o si profilino atteggiamenti conservatori. Opporsi alla liquidazione del patrimonio storico politico rappresentato dal Pci non può significare un semplice arroccamento di identità, rifiutando le sfide della storia. Si tratta di porre, con precisione e nettezza, la questione, del tutto irrisolta dal "nuovo corso", della costruzione di uno schieramento politicosociale antagonista al sistema di potere democristiano ed al craxismo.
Non vale del resto, proprio per ciò che questo patrimonio rappresenta, rifarsi strumentalmente alle grandi modificazioni in atto ad est, disconoscendo di fatto la capacità di impatto che in quella direzione è stata dimostrata proprio dal complesso del movimento comunista italiano.
Opporsi alla liquidazione del Pci deve voler dire battersi contro un processo di omologazione e di indifferente convergenza al "centro" delle forze politiche italiane, tale da mettere in pericolo la stessa qualità di fondo della nostra democrazia, proprio perché si porrebbero in primo piano rischi di subalternità a quelle ipotesi neoautoritarie comprese, soltanto per fare un esempio, nella proposta di elezione diretta del presidente della repubblica. La direzione del Pci parla di avvio di una nuova "fase costituente", ma intendendo questo slogan come ricomposizione di sigle partitiche e senza tener conto della necessità di una fase costituente "sociale", che si fondi su una rete di forze, energie e movimenti attivi nella società. In questo senso va l'appello lanciato nei giorni scorsi da Fabrizio Clementi e Fabio Giovannini, che ha raccolto vasti consensi da diverse parti d'Italia. Riprendendo quindi quelle indicazioni l'obiettivo deve essere quello di sviluppare un'iniziativa politica dal basso basandosi sul metodo dell'autoconvocazione. Potrebbe così apparire opportuna una proposta, rivolta ai militanti ed agli elettori comunisti e della sinistra, di mobilitazione e presenza perché nel pomeriggio di lunedì 20 novembre, giornata di apertura del Comitato centrale del Pci, si svolga a Roma, davanti al palazzo di via delle Botteghe Oscure, un appuntamento di incontro e di dibattito mirato ad esprimere una posizione politica di dissenso verso il metodo sin qui seguito e verso la prospettiva, perdente e pericolosa, che si va delineando. Vedersi e discutere assieme lunedì pomeriggio sotto Botteghe Oscure sarebbe anche un segnale di fiducia nelle energie della sinistra e del partito comunista.

La protesta durante il Comitato centrale del Pci: le ragioni di un dissenso
(20 novembre 1989)

Il 20 novembre 1989 centinaia di persone rispondono all'appello e manifestano a Botteghe Oscure. Durante la protesta Piero Fassino, della segreteria del Pci, si dichiara disponibile ad un incontro. Viene chiesto che l'assemblea si svolga all'aperto, per consentire a tutti di partecipare: la risposta è negativa e l'assemblea si tiene all'interno del palazzo. In strada ci sono delle intemperanze: i giornali del giorno seguente daranno spazio unicamente a queste intemperanze ignorando il documento "Le ragioni di un dissenso" diffuso e firmato durante l'iniziativa.
Il nostro dissenso e la nostra critica alla proposta del segretario del Pci Achille Occhetto sono motivate dalle seguenti ragioni:
l. Il Pci è necessario per garantire lo sviluppo e le condizioni delle lotte e delle iniziative politiche e sociali in Italia. Vi è un patrimonio accumulato in questi anni sulla base di una ispiraazione originale ai valori di liberazione e del comunismo.
2. Il Pci è necessario perché possa vivere e concretizzarsi una critica ed una azione antagonista alle moderne forme di alienazione e sfruttamento prodotte dal capitalismo.
3. L'originalità del Pci e della tradizione comunista italiana rappresentano, pur con tutte le contraddizioni di questi ultimi anni, un percorso che non ha nulla in comune con il tipo di organizzazione del potere realizzato nei paesi dell'est. Ecco perché i comunisti italiani hanno l'orgoglio di avere anticipato una iniziativa che trova oggi conferma nei processi in corso in quei paesi.
4. Si è affermato, in larghi settori della società italiana, un nuovo modo di fare politica ed una aspirazione a una diversa concezione e pratica democratica che fa leva sulla volontà di autodeterminazione e sulla capacità di autogoverno individuale e collettivo. Queste spinte e queste domande non hanno trovato risposta adeguata dai partiti italiani ed anche dal Pci.
5. Il Pci deve riuscire a stabilire e favorire nuove relazioni all'interno di una vera e propria rete di culture e movimenti in grado di contaminare le forme organizzative e i gruppi dirigenti. Il primo passo deve essere non la negazione della propria identità, ma la capacità di criticare un modello e un costume che rimarrebbero altrimenti intatti sotto le macerie della precedente organizzazione.
6. C'è bisogno di un partito comunista e di una sinistra che sappiano produrre idee e comportamenti conseguenti. Che sappiano liberare le utopie e le energie individuali e collettive dalle pastoie burocratiche come dalle pratiche decisioniste e autoritarie.
7. In questo contesto è essenziale che nella società civile sia promosso e favorito un processo che inverta i rapporti interni alle istituzioni ed ai partiti, sin qui dominati dagli apparati di vertice.
8. Risultano pertanto decisive le esperienze di autogoverno e autoconvocazione come modo concreto di contrastare un processo di liquidazione e di semplificazione della complessità sociale e politica e per favorire la nascita di una nuova intelaiatura che consenta la rappresentazione democratica delle domande e dei bisogni sociali.
9. Vi è infine una ragione di metodo. Una proposta politica non può essere valutata astraendo dalle forme in cui viene presentata. Una operazione "imposta" da un esecutivo, anticipata sulla stampa e presentata come l'unica via di rinnovamento, ha l'effetto di etichettare ogni dissenso, o anche ogni altra proposta come conservazione, resistenza, freno. Il dilemma che ne consegue, tra accettazione della proposta così com'è o destabilizzazione del gruppo dirigente, vizia il dibattito e lo rende non libero.

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Dossier su l'Unità
14 novembre - 3 dicembre 1989: venti giorni di disinformazione e di mistificazione
 (6 dicembre 1989)

Il 6 dicembre 1989 una nuova assemblea autoconvocata è promossa, presso la sezione Testaccio, da trenta iscritti romani. Il tema discusso è "Nuove regole per un congresso di rifondazione democratica del partito comunista italiano". Nel corso dell'iniziativa viene diffuso un dossier su l'Unità (14 novembre - 3 dicembre 1989: venti giorni di disinformazione e di mistificazione). l'Unità attribuisce il dossier a Cossutta ed evita di informare sui contenuti del testo.
Nel Pci si è aperta una fase di discussione e di lotta politica senza precedenti. Un congresso straordinario è alle porte e a tutti deve essere garantita la possibilità di far valere le proprie idee e di conoscere correttamente la varietà delle opinioni esistenti. In questo senso decisivo è il ruolo del giornale del partito comunista italiano l'Unità.
Le prime settimane di confronto sull'operazione avviata da Occhetto costringono a lanciare un allarme e una denuncia per l'uso distorto che viene fatto del quotidiano del Pci. L'informazione su quanto avviene nel partito e nella società, e sulle diverse posizioni in campo, è insufficiente e manipolata. L'orientamento del giornale è unilaterale, schiacciato sulle posizioni della segreteria del partito.
L'Unità, che aveva avviato una importante trasformazione, passando da "organo" del partito a "giornale", sembra ora ricadere rapidamente nella vecchia funzione di "organo" del Pci, o meglio della sua segreteria e di una corrente interna. Questo arretramento preoccupante dell'Unità mortifica anche la dignità dei giornalisti che lì lavorano, e che giustamente hanno enfatizzato nel recente passato il loro essere giornalisti e non funzionari partitici.
L'Unità assomiglia sempre di più a l'Avanti di Craxi (e quindi alla Scinteia di Ceausescu), per il culto incondizionato del "capo", per il servilismo verso i gruppi dirigenti del partito, per la censura metodica e oculata delle posizioni sgradite al direttore del giornale e al segretario del partito.
I metodi della disinformazione operata dall'Unità sono rozzi ed evidenti in alcuni casi, più sottili in altri. Il primo grave ostacolo a una discussione serena in vista del congresso è costituito dal considerare i pareri contrari all'operazione Occhetto solo come "ospiti" di un giornale ben altrimenti orientato. E l'Unità, poi, sceglie di pubblicare opinioni sempre e comunque interne alle voci del tradizionale ceto politico, allargate solo alle firme illustri di origine accademica e senza consentire l'emergere di diverse e nuove soggettività. Non c'è quindi pluralismo, vista la sproporzione quantitativa tra gli interventi favorevoli a Occhetto e quelli dubbiosi o contrari. E non c'è pluralismo quando tu tti gli articoli della cronaca politica sono preorientati e monocordi nell'intento di marginalizzare dubbi e perplessità verso l'operazione Occhetto.
Un esempio. Nei venti giorni che vanno dal 14 novembre al 3 dicembre 1989 la pagina due dell'Unità, che accoglie di consueto interventi politici e interviste, ha ospitato 40 pezzi imperniati sulla proposta Occhetto (escluse le rubriche fisse in taglio bassso). Di questi pezzi, 29 riportavano opinioni favorevoli a Occhetto (Pannella, Pasquino, Veca, Veltroni, Ceruti, Telò, Manconi, De Biasi, Giolitti, Colajanni, Orfei, Fiandrotti, L.Berrlinguer, Hobsbawm, Pedrazzi, Mattioli-Scalia, Vitale, Tranfaaglia, Serra, Cerutti, Antoniazzi, Gambetta, Filippi, Salvati, Mussi, Ottolengbi, Vigevani, Toraldo di Francia, Prosperi), due erano opinioni di "supporto" culturale all'operazione del segreetario (Glotz e Nolte), sette erano opinioni contrarie (due articoli di Minucci e Barcellona, Maselli, Volonté, Masina) e quattro erano espressione di dubbi e preoccupazioni (Rodotà, Dalla Chiesa, Sorge, Cotturri). Degli editoriali dedicati alla svolta, in questi venti giorni, nessuno è stato scritto da dirigenti o intellettuali che non fossero allineati con il segretario. La sproporzione di voci è talmente palese che non c'è bisogno di commentarla.
L'indicatore più efficace dell'uso di parte del quotidiano {'Unità è fornito dalle titolazioni. Come viene dimostrato nelle pagine che seguono, i titoli sono indecorosamente uniformi, faziosi, schierati. Il metodo più utilizzato, ad esempio per dare conto di una discussione in un comitato federale, è quello di estrapolare frasi degli interventi a favore fra virgolette e fare di queste frasi il titolo. L'Unità, tra l'altro, tenta una strana mediazione tra esigenze opposte: da una parte vuole accettare la sfida del mercato, dall'altra non rinuncia a una funzione di "direzione politica" verso i lettori. L'atteggiamento è ancora quello "pedagogico", che ha il compito di guidare ed indirizzare un lettore e un militante che si vorrebbe privo di autonomia di ragionamento e giudizio. Senza una inversione di tendenza nella gestione del dibattito precongressuale da parte dell'Unità rischiano di mancare le basi minime per un confronto realmente democratico.

L'Unità è un giornale che dovrebbe essere sempre aperto alle diverse voci che animano il partito comunista, la sinistra, i movimenti. Ancor più aperto e pluralista deve essere oggi, attribuendo pari dignità alle opinioni. E altrettanto dovrebbero fare le altre voci dell'area comunista, da Italia Radio alla futura nuova serie di Rinascita.

Martedì 14 novembre

Si apre l'offensiva per il cambiamento del nome al partito e per sostenere l'operazione di Occhetto. L'editoriale, a firma di Nicola Tranfaglia, è esplicito sin dal titolo: Le idee e i nomi dei partiti. A fianco il titolo grande: La via nuova del Pci: "Compagni, tutto sta cambiando". Si annuncia anche una intervista a Edgar Morin (La sinistra dopo il cataclisma) che occupa una intera pagina interna. È una intervista che non ha nessun collegamento con l'iniziativa di Occhetto, ma viene presentata come supporto all'operazione del segretario. Il titolo l giorni di un nuovo inizio si rivela identico a quello dato il giorno dopo alla relazione di Occhetto alla direzione: Un nuovo inizio davanti a noi. Le pagine di "Politica interna" sono ancora parzialmente neutrali. II pezzo di Giorgio Frasca Polara si basa su notizie d'agenzia e su "indiscrezioni", ma il titolo forza (Il Pci accelera il cambiamento) dando per scontato che il cambiamento possibile è solo quello operato da Occhetto. Il taglio basso della stessa pagina già prepara il terreno all'impostazione dei giorni seguenti: l'obiettivo è quello di alludere alla "unità del partito". Il titolo dell'articolo dedicato alla caduta elettorale del Pci a Nocera suona Dove il Pci si divide senza ritrovare la gente.

Mercoledi 15 novembre

L'editoriale è di Massimo D'Alema. Il titolo a centro pagina è Un nuovo partito per la sinistra: un titolo che ha già deciso che la "nuova formazione politica" di Occhetto sarà un partito. A fianco si richiama un intervento di Peter Glotz Questoper noi fu Bad Godesberg. Glotz segue in seconda, accanto a una lunga lettera aperta a Occhetto di Marco Pannella che appoggia l'idea di un partito democratico di stampo anglosassone. In "Politica interna" inizia la manipolazione e la torsione delle notizie. Fin dai titoli si vuole indicare che chi appoggia Occhettto è ragionevole e moderno, mentre chi è contrario è intransigente ed emotivo. Così il sì di Lama è "caloroso", mentre il no di Cossutta è "secco". Un pastone riporta per 220 righe dichiarazioni favorevoli a Occhetto (Napolitano, Ferrara, Corbani, Lama, ecc.) e limita a 80 righe lo spazio per "quelli che a quel nome si sentono ancora legati e lo ritengono in grado di rappresentare i sogni e le aspirazioni di questa società": dunque chi ha dubbi sulla operazione di Occhetto è un sognatore. Il giornalista inaugura anche l'interminabile serie di complimenti a Occhetto per il suo "coraggio": il Pci, infatti, starebbe scrivendo "la pagina più difficile e coraggiosa della propria storia". Accanto al pezzo sulla relazione di Occhetto si dà immediatamente il via alle dichiarazioni rassicuranti e al coro dei sì. Sotto il titolo Le capitali rosse rilanciano: "Serve a rinnovare la politica", Rita De Buono informa che da Bologna e Modena vengono "immediati consensi alle novità di Occhetto" (in realtà l'articolo cita solo i due segretari di federazione e due segretari di zona). Le perplessità sono isolate in dieci righe dedicate alle interviste ai passanti da parte di una tv locale. A fianco, un articolo di Cecilia Meli che riporta anche molti commenti negativi di intellettuali toscani, che però spariscono dal titolo: Firenze commenta la svolta: "Una sfida per il nostro futuro".

Giovedì 16 novembre

In prima pagina solo cinque righe annunciano che "ci sono stati anche dei dissensi" nella riunione di direzione. Inizia invece l'operazione "successo e rassicurazione". Dc e Psi: la novità Pci cambia le cose; i verdi: è un gesto di grande coraggio. Arriva anche l'appoggio esterno di Maurice Duverger: Sviluppo coerente della vostra storia. In taglio basso un inusitato spazio, in quella collocazione, per un intervento di Michele Serra: Compagni, credetemi, è giusto così. La seconda pagina è per Gianfranco Pasquino, che definisce "esaltante" l'operazione di Occhetto. Nella "Politica interna" Pier Giorgio Boatti annuncia, non si capisce grazie a quale sondaggio, che "gli operai comunisti della Fiat Mirafiori approvano il progetto di rifondazione del partito". Nel titolo sull'inchiesta condotta da Italia Radio su metà dei segretari di sezione romani (90 su 180) sparisce la consistenza (22%) degli indecisi e resta solo 62% di sì e 16% contrari. Due giornalisti, Marina Mastroduca e Onide Donati, danno molto spazio ai dubbi occupandosi di Bologna e della sezione Ponte Milvio di Roma: forse è per questo che le loro firme appariranno ben poco nei giorni seguenti. Sopra i titoli si istituzionalizza la dicitura La svolta del Pci: viene così sancito definitivamente il fatto compiuto. Una intera pagina è dedicata agli strappi nella storia del Pei e agli apprezzamenti positivi ricevuti da Occhetto, mentre un'altra pagina è occupata dai commenti, tutti favorevoli, di esponenti di Psi, Pri, Psdi, De, Verdi, Cisl e UiI. La colonna destra della "Politica interna" dà brevi notizie, ma 5 su 7 sono a favore di Occhetto. Poche righe anche per il volantinaggio avvenuto sotto Botteghe Oscure, senza dare informazioni sui contenuti del testo che veniva distribuito. Inizia anche la sequela di prelati che lodano l'iniziativa di Occhetto: si parte con il vescovo di Ravenna che parla di "una svolta innovatrice". La campagna filo-Occhetto invade anche la pagina "Cultura e spettacoli" con un gigantesco articolo (forse il più lungo mai pubblicato in quella pagina) di Mario Telò:
L'eredità di Bad Godesberg.

Venerdì 17 novembre

Editoriale di Antonio Bassolino. In seconda, una intervista a Salvatore Veca che "spiega le ragioni del suo sì alla proposta di Occhetto". Nella "Politica interna" alcuni articoli sono ancora dubitativi (Sergio Criscuoli dà conto delle telefonate che giungono a Botteghe Oscure, pur definendole "onda emozionale"), ma si tenta di accreditare comunque l'appoggio dei ceti operai alla operazione Occhetto: All'Aljà di Arese: Forse è giusto, il nuovo corso non bastava più. Continua l'elenco dei consensi, poi, con le posizioni di esponenti del partito socialista francese e del senatore Massimo Riva. Uguale spazio occupano due interviste favorevoli a Occhetto, quella di Bruno Trentin in terza pagina, e quella del vicepresidente della Confindustria in sesta (titolo: lo imprenditore dico: andate avanti e sbloccate questo sistema politico).

La contestazione al meeting della "sinistra dei club": no ai nuovi mandarini
(10 febbraio 1990)

Il 10 febbraio 1990, durante il meeting degli intellettuali della sinistra dei club al cinema Capranica di Roma, viene effettuata una protesta non violenta: volantini vengono lanciati dalla galleria e viene affisso uno striscione. 1 giornali attribuiscono l'iniziativa ai "cosiddetti autoconvocati". Mentre si distribuiscono volantini critici dal titolo "No ai nuovi mandarini", lo striscione viene tempestivamente ammainato da Anita Pasquali del Comitato centrale del Pci.


La "sinistra sommersa" che si riunisce oggi non ha badato a spese e non ha certamente rifiutato il sostegno dell'apparato Pci per garantirsi il successo dell'iniziativa.
Ma quale sinistra sommersa è oggi chiamata a raccolta?
Dalla seconda metà degli anni '70 esiste infatti una sinistra sommersa e diffusa: è composta da aree sociali (intellettualità diffusa, lavoro dipendente e operaio), frantumate ed emarginate e sulle quali non si è mai avuta una attenzione da parte della politica e degli specialisti.
Certamente tale sinistra è stata sommersa dalla restaurazione conservatrice degli anni '80 ma anche dall'omologazione, dai nuovi conformismi, dalle passività e dai protagonismi effimeri che si sono affermati anche nella sinistra.

"Sinistra sommersa" diventa in effetti una espressione indecente quando viene usata da firme che di "sommerso" non hanno nulla.
È interessante la composizione sociale di questa "sinistra sommersa" per come si autorappresenta: professori universitari c dirigenti sindacali innanzitutto, e poi le professionalità "emerse" e le caste manageriali.
Gli intellettuali "sommersi" adesso vogliono rischiare il salto da semplici consiglieri del principe a candidati all'esercizio di un ruolo dirigente, utilizzando un metodo simile a quello della maggioranza silenziosa degli anni '70.
Propugnando un riformismo totalizzante (che pretende di far sparire ogni altra opzione a sinistra) si mettono tra l'altro in soffitta tutte le categorie sociali e i ceti privi di titoli onorifici o accademici. È la sinistra sommersa dei nuovi mandarini, dei cooptati nella politica, nelle carriere universitarie, nelle burocrazie sindacali.
Sarebbe interessante sapere, a proposito di molti docenti universitari che si proclamano "sinistra sommersa", cosa abbiano fatto per favorire la nascita di nuovi studiosi, di nuove energie sociali rispetto alle gerarchie del mondo accademico: in realtà molti di loro sono sempre stati chiusi nelle stanze del potere e assenti dalla realtà sociale, spesso controparte dei movimenti.
Senza generalizzare, dispiace che nell'operazione siano rimaste coinvolte persone sincere, accanto a chi ambisce soprattutto a diventare il nuovo ceto politico oligarchico "di sinistra".
Siamo di fronte a un prodotto degli anni '80 interno a quelle istanze governativistiche, dell'efficientismo tecnocratico e aciale, che si sono affermate anche nel nostro paese.
Nella storia italiana recente, dal dopoguerra agli anni '70, il Pci e gli intellettuali tentarono di essere strumento di liberazione e emancipazione della società civile oppressa dai governi centristi e della modernizzazione capitalistica. Invece Occhetto e la "sinistra sommersa" rischiano di diventare nuovi strumenti di dominio a sinistra: da qui nasce l'allarme per il profilarsi di una sinistra di regime.
C'è qualcosa di angosciante alla base di questo indirizzo della sinistra. La disperazione di un cambiamento impossibile (molti tra i firmatari della "sinistra sommersa" negli anni '70 criticavano il Pci perché troppo riformista) si riconverte ad una concezione oligarchica e neo-autoritaria del potere e della politica. Con questi strumenti forse avverrebbe uno sblocco del sistema politico, ma certamente all'indietro.
Si assisterebbe alla fine di ogni idea di opposizione radicale e incalzante al sistema di cose esistente, riducendo la sinistra ad una corsa per l'alternanza di regime.
Gli anni '90, in questo scenario, diventerebbero veramente duri soprattutto per chi intende affermare teorie e prassi politiche democratiche fondate su un basso tasso di delega e sull'auutonomia critica nei confronti dell'esistente.

LE PROPOSTE

Nuove regole per un congresso straordinario di rifondazione democratica del Pci
(14 dicembre 1989)

Premessa
Le proposte contenute in questo documento concernono, essenzialmente, le modalità di svolgimento del prossimo congresso straordinario.
Esse scaturiscono da significative esperienze politiche individuali e collettive e da una elaborazione sul partito che si è sviluppata da tempo anche attraverso numerose iniziative autoconvocate. '
Queste proposte sono precedute da alcune sintetiche riflessioni che consentono di comprendere le motivazioni dei proponenti.

Siamo convinti che mai come in questo momento parlare di nuove regole corrisponda all'esigenza di concretizzazione di alcune scelte di valore (libertà, pluralismo, diffusione del potere decisionale) per le quali i comunisti si sono sempre battuti.
1. Non c'è dubbio che il partito attraversa una grave crisi e che è necessario innovare la sua cultura politica, definire nuove modalità di funzionamento ed anche una nuova struttura.
Non accogliamo l'idea di costituire una nuova formazione politica della sinistra, assai improbabile perché contemporaneamente indefinita e totalizzante, ma crediamo prioritario procedere ad una rifondazione del Pci, perché esso divenga attore del cambiamento, di una riorganizzazione dell'economia, della società e della politica con gli altri soggetti della sinistra.
Un Pci rifondato deve saper esprimere il bisogno di liberazione che scaturisce dal rifiuto del modello capitalistico dominante ed egemone, dall'aspirazione all'emancipazione del sud del mondo ed è presente nei travolgenti processi in atto nei paesi dell'Europa orientale.
2. Ciò richiede un partito in cui venga definitivamente meno ogni residuo di centralismo e dove si attuino un reale confronto ed una reale dialettica fra le diverse culture presenti. Ciascuna di queste deve poter mantenere la propria particolarità di impostazione, a pena di impoverire tutto il dibattito: intelligenze ed esperienze differenti suscettibili di convergere e coincidere su determinati punti, possono produrre sintesi autentiche, in quanto espressioni di autonomia nell'analisi, nella proposta e, soprattutto, di "coerenza" nei comportamenti politici conseguenti, ma non di esaurirsi in essi.
Non si ipotizza un partito federativo o un partito genericamente democratico o "radical", ma un rinnovato partito comunista in cui cooperino forze (e singoli) espressione del pluralismo di percorsi alla base dell'adesione ad un programma di critica dell'esistente, identificabile nell'orizzonte teorico del socialismo.
3. Un siffatto partito postula il superamento:
a) della funzione regolatrice del cosiddetto centro, mediatore tra opposte spinte e tendenze, (auto)investito del compito di realizzare una sintesi unitaria sulla base della limatura formale delle diverse posizioni e che vive sulla separazione tra ciò che viene detto e la pratica politica effettiva;
b) del metodo della cooptazione, funzionale alla raccolta del consenso sulle proposte del gruppo dirigente, ma non funzionarie alla percezione e alla piena espressione dei bisogni sociali e politici e quindi non protagonista del mutamento;
c) di una concezione del partito inteso come strumento o patrimonio storico del gruppo dirigente in base alla quale gli strumenti del partito sono orientati a gestire una linea, ad assicurare consenso e stabilità alla leadership (a rispondere alla "proprietà" come più volte si è detto su l'Unità).
4. È urgente prendere atto di quanto finora asserito per impostare correttamente la fase congressuale, evitando di usare in modo immotivato o generico espressioni come "frazionismo", appelli retorici all'unità del partito smentiti da un uso non corretto di questo, ed evitando astratte preoccupazioni circa la nascita delle correnti e di conseguenti e possibili cristallizzazioni politiche. Ma, ancora di più, bisogna evitare di ridurre l'impegno attivo del militante a quello passivo dell'adesione ad uno schieramento o ad una posizione proveniente dall'alto.
Il migliore antidoto è il confronto senza reticenze e l'accettazione piena di poter essere messi in discussione, tutti, dal segretario generale al compagno appena iscritto. 11 partito si rafforza e ogni prospettiva politica può recuperare capacità propulsiva se la discussione è libera, nella misura in cui ogni soggettività interna al partito (dirigenti e semplici iscritti) può incidere in tempo reale nel processo decisionale.

Proposte

A. Mozioni congressuali

1. Tutte le mozioni presentate hanno uguale dignità.
Esse devono essere presentate entro una data fissata dal Comitato centrale; devono essere pubblicate, diffuse, esaminate e votate in tutti i congressi.

Ciò consente di superare una visione unilaterale che attribuisce valore centrale alla mozione del segretario. Il riconoscimento di pari dignità a tutte le mozioni, sia nella presentazione che nella discussione, consente lo sviluppo di un processo democratico fondato sull'ascolto, sul confronto e sul rispetto delle diversità di opinioni.
Non è sufficiente la sola regola formale, ma è necessario modificare un costume politico diffuso che fa ritenere l'eventuale bocciatura della mozione del segretario come un danno per il partito.
2. Le mozioni non sono emendabili.
Gli eventuali ordini del giorno non possono proporre una particolare lettura o interpretazione delle mozioni, sia nel testo complessivo che su singoli punti delle mozioni.

B. Soggetti proponenti

1. Le mozioni sono presentate al Comitato centrale da componenti del Cc stesso, i quali hanno diritto all'utilizzazione delle strutture del partito, comprese quelle finanziarie.
2. Lo Statuto afferma, all'art. 11.2, che: "Documenti diversi possono essere presentati al Comitato centrale ed in tutte le istanze congressuali. Le modalità di presentazione devono essere stabilite dal Comitato centrale nel regolamento congressuale". Pertanto è opportuno prevedere la presentazione di mozioni da parte di istanze diverse dal Comitato centrale o da iscritti, aventi pari dignità con le altre e regolate da procedure definite (identico iter congressuale, identiche prerogative e garanzie ).
Può e deve cominciare a funzionare una logica diversa da quella centralistica che limita il dibattito alla scelta tra posizioni proposte dall'alto.
Il carattere straordinario e la delicatezza del prossimo congresso, centrato sul futuro del partito, impongono una estrema chiarezza, evitando possibili fraintendimenti.
Chiediamo al Comitato centrale di pronunciarsi su questo aspetto e sulla nostra proposta che è questa: la mozione presentata da iscritti o da istanze diverse (sulla base di criteri e di modalità da definire) deve contenere una dichiarazione di affiliazione - mozione collegata - ad una delle mozioni che, per comodità, chiamiamo centrali. Il voto su tale mozione equivale ad un voto per la mozione centrale a cui si fa esplicitamente riferimento. Naturalmente l'affiliazione si basa, soprattutto in relazione al dibattito congressuale in sede nazionale, su un consenso bilaterale: ciò può comportare arricchimenti e maggiore caratterizzazione politica della mozione centrale di riferimento.
Le eventuali mozioni collegate devono essere presentate al Comitato centrale entro una determinata scadenza.

C. Delegati al congresso

Tutti i delegati al congresso devono essere eletti a partire dai congressi di base percorrendo per intero l'iter sino al congresso nazionale.
Non vi può essere riserva a favore dell'apparato o dei dirigenti: non vi sono perciò delegati di diritto. Tutti i delegati al congresso nazionale devono essere inizialmente delegati da una organizzazione di base al congresso federale. I dirigenti devono pertanto indicare l'organizzazione di base nella quale intendono candidarsi.

D. Garanzie congressuali

La gestione della fase congressuale deve essere garantita rispettivamente dalla Commissione nazionale di garanzia e dalle commissioni federali appositamente costituite (anche con la presenza di compagni non appartenenti al Comitato centrale o ai vari comitati federali).

Gli organismi dirigenti ai diversi livelli dirigono l'attività politica, ma non gestiscono i congressi, rispetto ai quali si presentano dimissionari, anche al fine di consentire un giudizio sul proprio operato.
In occasione dei congressi, le rispettive Commissioni di garanzia agiscono da ufficio elettorale con il compito di accettare le liste dei candidati e di effettuare lo spoglio delle schede. Nelle sezioni le funzioni di ufficio elettorale sono svolte dalla presidenza del congresso.
E. Liste dei candidati e voto
Il voto sulle mozioni e sui candidati è segreto.
Le liste dei candidati sono riferite alle diverse mozioni. Il voto alla mozione indica, oltre il livello di consenso, il numero di eleggibili (nelle proporzioni stabilite rispetto agli iscritti). Funziona, cioè, come un voto di lista, mentre il voto sui candidati ha il valore di voto di preferenza.

La proposta di mozione congressuale nazionale degli autoconvocati
Per la rifondazione del Pci e della sinistra
(15 gennaio 1990)

Questo documento, elaborato sulla base delle iniziative autoconvocate che si sono svolte in questi mesi, poteva essere una mozione nazionale dal basso. Purtroppo il regolamento congressuale, varato dall'ultimo Comitato centrale del Pci, non lo ha consentito.
Nello Statuto approvato al XVIII congresso era presente una norma importante. All'articolo 11 (1 congressi), secondo comma, si legge che, oltre ai documenti congressuali espressi dal Comitato centrale, anche altri documenti nazionali sulla base di precise modalità "possono essere presentati al Cc e in tutte le istanze congressuali".
Si trattava di una affermazione fondamentale per stimolare un contributo vero dei militanti e degli iscritti, consentendo l'espressione di posizioni articolate e non solo di "schierarsi" con i testi elaborati dai gruppi dirigenti.
Per questo abbiamo deciso di elaborare questo testo, prefiggendoci di sostenere due argomenti: SI a un congresso che rifondi un nuovo partito comunista democratico per riformare la politica e sbloccare il sistema politico, e quindi NO alla proposta di Occhetto.
Questo testo si rivolge sia a chi già si identifica in una delle mozioni centrali promosse da membri dal Cc, così come ai molti che non sentono come pienamente adeguata e convincente nessuna delle tre mozioni sui cui si è avviata la discussione congressuale, ed anche a quanti, dentro e fuori la struttura organizzata del Pci, vivono questa fase con disorientamento.
Gli anni ottanta si sono caratterizzati per la passività, la spoliticizzazione e la subalternità generalizzata nei comportamenti. Questa passività si è riprodotta, affermata e consolidata anche nel Pci. Noi vogliamo rompere oggi questa passività nel Pci e quindi nella società, come condizione importante per rendere protagonisti della propria storia singoli e collettività.
L'operazione di Occhetto va in direzione opposta. Per affrontare la complessità e la difficoltà della situazione politica italiana e l'indubbia grave crisi del Pci, viene scelta la scorciatoia semplificatoria della dissoluzione di una identità che non è solo di un partito e dei suoi gruppi dirigenti, ma di intere aree sociali e generazionali.
Non sono analizzate le responsabilità di questi ultimi dieci anni, ma solo avanzate critiche generiche al partito come insieme simbolico, accomunando in modo indifferenziato fatti separati nel tempo, oppure superati dalla elaborazione e dalla prassi successiva, e salvando viceversa le responsabilità specifiche. Tutto viene ridotto alla categoria del "ritardo", perdendo distinzione e concretezza: dove e quando si è sbagliato, dove e quando si è fatto bene. Tutto viene assorbito in un passato che si annebbia di fronte alla categoria forte della modernità.
L'iniziativa che è all'origine della mozione numero 1 fa propria un'idea della politica moderna intesa come emergenza, celerità, razionalizzazione tecnocratica, e che ha come corollario il decisionismo e la riduzione della politica a spettacolo e immagine, con una riscoperta del "coraggio" e dell'atto autonomo di un "capo".

È un'operazione pensata e realizzata come scontro tutto interno al gruppo dirigente nazionale: per questo motivo il dibattito congressuale si svolge su tre mozioni presentate da membri del Cc, e si è esclusa la possibilità di mozioni nazionali dal basso. Questa scelta produce un iter congressuale di semplice conta tra i gruppi dirigenti e negli apparati. La base sociale del Pci (i suoi iscritti, ma anche i suoi elettori e i simpatizzanti) viene ulteriormente emarginata e costretta a dividersi su opzioni indicate dal vertice.
Riteniamo che il partito comunista debba essere rinnovato profondamente, oltre che nei programmi, anche nel modo di organizzarsi e di discutere. Il rinnovamento democratico del partito è una discriminante fondamentale, infatti, per superare la crisi di insediamento sociale e di rappresentanza politica. Ma ciò non può che avvenire con un allargamento della democrazia sostanziale.
Il dibattito nella sinistra italiana deve essere chiaro e trasparente, senza un eccesso di parole che confondono e distolgono l'attenzione dalla sostanza dei problemi e delle proposte: l'operazione di Occhetto, invece, sovrappone a poche proposte di fondo una marea verbale che si presta a opposte interpretaziooni e annebbia il vero centro della discussione.
Quella che è stata definita la "liquidazione" del Pci avviene attraverso dichiarazioni vuote di sostanza, ma molto affascinanti nella agitazione verbale, tramite un uso spregiudicato dei mass media e con il metodo del fatto compiuto: si moltiplicano anche nel Pci le decisioni prese da gruppi sempre più ristretti e incontrollabili.
Da tutto ciò si discosta il metodo dell'autoconvocazione, dell'autoorganizzazione e dell'autopromozione: il gusto di fare politica in prima persona, con azioni dirette, con discussioni autopromosse a tutti i livelli.

1. L'onda neo-conservatrice sulle culture politiche

Dalle dinamiche internazionali nate alla fine degli anni settanta si è prodotta un'onda neoconservatrice, reaganiana e thatcheriana, che gli anni ottanta hanno consolidato e assestato nelle sue coordinate: a dimostrazione del perdurare di questo fenomeno, la Thatcher è succeduta alla Thatcher, a Reagan è succeduto un altro repubblicano (Bush), in Germania la Dc di Kohl continua a governare.
L'onda neo-conservatrice si è installata anche nel caso italiano con una sua specificità: la restaurazione capitalistica si è infatti innestata nella sconfitta del movimento operaio, nella metodica scomposizione di ogni antagonismo e nella passivizzazione delle aree sociali deboli o non omologate. Eppure la sconfitta del movimento operaio e della sinistra conflittuale non è mai stata riconosciuta e analizzata pienamente proprio dai suoi principali soggetti, il Pci e la Cgil, che l'hanno subìta e introiettata.
A sinistra sono convissute due impostazioni antitetiche, soprattutto all'interno del Pci (dove si è prodotto quindi il massimo di confusione e scompiglio): a) la convinzione che i processi di ristrutturazione fossero transitori e che la sinistra mantenesse inalterato il proprio essenziale ruolo storico; b) l'accettazione sempre crescente del terreno e delle compatibilità imposte dall'avversario.
In realtà nell'occidente e in particolare in Italia si è affermata una pratica, un modello e una filosofia di tipo centralistico o governativistico-autoritario-gerarchico (presente anche dietro alcune proposte di "governo mondiale"): il potere viene gestito prescindendo sempre più da ogni vera trasparenza e da una ricerca di legittimazione autenticamente democratica. Questa concezione e questa pratica si sono progressivamente affermate come regole dell'esistente in tutti i settori della v,ita sociale, economica, politica, culturale, istituzionale, partitica, ecc.
In Italia l'assenza di una vera opposizione ha prodotto danni non solo alla qualità della vita, ma soprattutto sul piano culturale: gran parte della "sinistra" e dei suoi leader ha finito per legittimare i propri ruoli all'interno delle coordinate esistenti.

È possibile però, sia a livello internazionale che nella nostra esperienza di questi anni, rintracciare iniziative, vicende, percorsi alternativi e conflittuali con il quadro dominante.
È quindi possibile definire un orizzonte alternativo a quello centralistico-gerarchico, delineando una mappa esemplificativa delle contro tendenze che solo in parte sono indicate e analizzate nelle tre mozioni congressuali.

a) Le trasformazioni del mondo.

Sul piano internazionale gli esempi del Centro America (con la straordinaria vicenda del Nicaragua), di Tian An Men, dei palestinesi e delle lotte nell'Africa australe, dell'Europa dell'est, mettono in luce il protagonismo dei popoli nei processi di liberazione imperniati sull'idea fondante dell'autodeterminazione e della sovranità popolare come fonte e legittima zio ne di ogni potere politico, istituzionale, economico.
I processi di trasformazione in atto sconvolgono tutte le concezioni "diplomatiche': della politica, dimostrando che i tempi della libertà e i tempi delle oligarchie politiche dominanti non coincidono: il gradualismo, anche nel superamento dei blocchi e nel disarmo, è stato totalmente contraddetto dai fatti. Questo insegnamento riguarda anche la stagnazione dei paesi occidentali, a partire dall'Italia: anche in questa parte del mondo deve saltare la gabbia dei tempi della politica che condizionano e comprimono i tempi della liberazione individuale e collettiva.
Questi processi indicano anche il tramonto di ogni ipotesi eurocentrica e propongono come emergenti altre aree geografiche (il sud e l'est), che stanno tra l'altro entrando "dentro" l'occidente (movimenti migratori, società multirazziali).
Inoltre tali processi presentano sulla scena politica una moltitudine di soggetti nuovi. Come la sinistra europea non può essere ridotta ai partiti socialdemocratici (ma va allargata alle forze comuniste, ad alcuni partiti verdi, ai movimenti alternativi), così è grave che il Pci continui a privilegiare il rapporto con i partiti al potere nei paesi dell'est (anche se con nuove sigle), piuttosto che con altre formazioni politiche di sinistra, gruppi informali e di opposizione, ecc.

b) La priorità ambientale.

Il problema ambientale non è una delle tante questioni che la politica deve affrontare, ma è una nuova priorità. Acquisire le indicazioni dell'ambientalismo richiede di mettere in discussione il concetto di "crescita", che è ormai diventato insostenibile per l'ecosfera: il futuro del pianeta è possibile solo se viene accolto il concetto di sviluppo sostenibile e non solo "compatibile". Uno sviluppo che non comprometta le condizioni di vita delle generazioni future non può basarsi sul concetto di compatibilità, ma deve scegliere il criterio della sostenibilità, cioè su una economia che il pianeta sia in grado di sostenere. Va messo profondamente in discussione il modo capitalistico di produzione, con interventi sui consumi dei paesi industriali, riqualificandoli, ridistribuendoli e rendendo li nell'immediato almeno stazionari ai valori attuali, evitando che un prolungarsi dell'attuale ritmo di crescita dei consumi (e quindi di uso delle risorse e di devastazione dell'ambiente) penalizzi irreparabilmente i paesi ancora poveri e le generazioni future.
Una vera politica ambientalista deve proporre, ad esempio, la riconversione ecologica del debito del terzo mondo, favorendo la nascita di modelli di sviluppo auto centrati.

c) Il conflitto tra i sessi.

Su questo tema è giusto rimandare alla autonoma e specifica elaborazione delle donne, sottolineando soltanto alcuni aspetti generali.
La rivoluzione femminile, e la rimessa in discussione dei ruoli sessuali è solo agli inizi. Questa rivoluzione non può essere letta solo come un passaggio della storia di emancipazione di un sesso, ma deve essere assunta e trasformata in strumento di liberazione dell'individuo moderno, senza per questo accogliere ipotesi riduttive di annullamento della diversità e della contraddizione tra i sessi.
Il movimento delle donne, infatti, sconvolge e supera tutte le teorie e le pratiche politiche: la critica femminista al modello occidentale "maschile" contiene anche elementi di critica del dominio indiscusso della produzione, delle sue ragioni, dei suoi ritmi, dei suoi valori, e comporta quindi una critica all'individualismo, al produttivismo, al culto della crescita illimitata, alla divisione sessuale del lavoro.
Va evitato invece il rischio di ridurre il conflitto sessuale ad una ennesima cooptazione negli assetti di potere esistenti, magari sotto la formula della lobby, delle quote e della rappresentanza.

d) Il lavoro e il tempo.

La rivoluzione tecnologica è ormai compiuta, ed è stata realizzata dal capitalismo. Questo sviluppo delle tecnologie è giunto a uno stadio che produce nuove alienazioni e impone quindi la messa in discussione e la critica delle innovazioni tecnologiche ed anche la riappropriazione dell'uso di tali innovazioni da parte dei soggetti sociali.
Per la prima volta diventa possibile realizzare una liberazione del lavoro e dal lavoro. È soprattutto il sindacato che dovrebbe rappresentare bisogni e interessi legati a questa prospettiva di liberazione, ma è necessario un sindacato diverso da quello attuale e non più subalterno culturalmente: ciò è possibile in particolare superando la tendenza dei sindacati confederali al monopolio della rappresentanza, modificando l'automatismo della delega, oltrepassando l'arcaica divisione in componenti partitiche e la subalternità verso le compatibilità precostituite.
Occorre assumere la padronanza delle innovazioni oggi offerte dalle tecnologie. La riduzione del tempo di lavoro non va vista come flessibilità pur sempre condizionata dalle esigenze del ciclo produttivo (i tempi delle macchine), ma come una opportunità per passare dalla organizzazione coatta e gerarchica del lavoro a una nuova organizzazione sia del tempo extralavorativo che del tempo di lavoro. Questa opportunità è oggi anche economicamente possibile, grazie all'accumulazione prodotta dalla ristrutturazione capitalistica di questi anni.
Forme di autogestione del proprio lavoro, anche in termini di tempo, sono contenute in diverse esperienze di lotte dei lavoratori e delle lavoratrici. Ma le forze di sinistra hanno spesso preferito appiattirsi sui luoghi comuni del padronato e non cogliere l'occasione offerta da quelle vicende.
La questione del tempo riqualifica anche il conflitto di classe.
Il moltiplicarsi di altri conflitti e di altre contraddizioni non elimina infatti il valore del conflitto di classe, che arricchisce gli altri conflitti e ne è a sua volta arricchito. È tuttora decisivo nelle società moderne lo scarto tra chi è proprietario dei beni di produzione da una parte, e i lavoratori dipendenti e vaste aree sociali dall'altra. La sinistra italiana accettando di integrarsi nelle compatibilità esistenti ha finito per limitarsi a proporre i cosiddetti "diritti di cittadinanza": si è dimenticato che gli interessi collettivi per affermarsi (o resistere) devono attivare lo strumento del conflitto. Le dispute sulla regolamentazione del diritto di sciopero o sul diritto di manifestare sono un segno preoccupante di questa nuova subalternità del sindacato e della sinistra.

2. Movimenti, soggetti antagonisti di sinistra e cultura democratica

Accanto alla individuazione dei movimenti che contengono istanze di cambiamento è necessario il riconoscimento dei conflitti sociali, con attenzione alle nuove composizioni di classe, in particolare di fronte al delinearsi nelle società sviluppate di vasti ceti intermedi.
È insufficiente identificare soltanto occasioni e sedi del conflitto o soggetti coinvolti, mentre occoorre una concezione nuova della democrazia e del potere che i movimenti portano con sé.

L'esperienza dei nuovi movimenti, delle azioni dirette nonviolente, del femminismo, dei movimenti di liberazione omosessuale, dei movimenti studenteschi e giovanili e anche di aree operaie e del mondo del lavoro, indica come esigenze primarie:
a) l'autodeterminazione;
b) un'idea di "popolo" inteso non come "massa" indistinta, di cui organizzare il consenso passivo verso politiche espresse dall'alto, ma come complesso di individui consapevoli che le proprie condizioni sono fonte del potere;
c) la democrazia come insieme di regole dinamiche che garantiscono, e non impediscono, l'affermazione di interessi sociali; d) la democrazia come effettiva organizzazione di poteri sociali distribuiti sul territorio per passare dalla struttura oligarchica del potere a quella diffusa.
I movimenti nuovi ripropongono una critica alla democrazia puramente formale e all'ingabbiamento di ogni presenza attiva del sociale dentro i luoghi della democrazia rappresentativa. Di fronte alla concentrazione di poteri in corso, ai "piani di rinascita democratica" (P2), alle ipotesi di riforme istituzionali verticistiche tendenti ad affermare forme di legittimazione del potere di tipo carismatico e plebiscitario, si pone il problema di quale potere e quale democrazia.
Non è sufficiente confrontarsi con i movimenti e i comportamenti sociali nuovi, o accoglierne solo gli aspetti più superficiali: Occorre farsi contaminare dai conflitti che questi soggetti esprimono o possono esprimere. E ciò anche per contrastare i fenomeni di crisi che questi stessi movimenti oggi indubbiamente vivono.
Non è possibile, ad esempio, parlare di nonviolenza senza porre il tema della difesa popolare nonviolenta, al posto degli eserciti e del servizio di leva. Non è possibile fare i conti con il pacifismo senza proporre iniziative unilaterali di disarmo e la tematica del non allineamento.
Un partito di sinistra che non voglia diventare semplice macchina di gestione del potere deve aggiornare la propria elaborazione culturale, evitando di limitarsi a operazioni di facciata, assorbimento di slogan e simboli, elenchi di problemi e di movimenti senza che ciò corrisponda a modificazioni della propria politica.
È sempre più decisiva una battaglia culturale, di fronte alla progressiva invasione dell'informazione, così come del sistema scolastico e universitario, da parte del mercato. La sinistra accetta progressivamente le regole del gioco che vanno affermandosi in questo settore e, non essendo attrezzata a questa situazione, sta gestendo in modo assai discutibile anche segmenti del sistema dell'informazione della propria area (la vicenda dei network delle radio libere e il caso di Paese sera
sono emblematici).

3.La forma partito

La forma partito va verso una sua relativizzazione e riduzione storica e deve essere tendenzialmente superata, nella prospettiva di una crescita della società civile. Ma nella realtà odierna i partiti hanno travalicato a dismisura la loro funzione originaria, diventando gli strumenti di dominio per oligarchie di varia natura.
Vanno respinti i due modelli di partito dominanti nel nostro secolo: il partito unico con funzioni di guida autoritaria sulla società (tipico delle esperienze dell'est); il partito elettorale egemonizzato da leadership tecnocratiche e tendenzialmente antidemocratico (tipico dell'occidente e influente anche nel sud del mondo).
Lo sblocco del sistema politico può nascere proprio da una riforma dei partiti che favorisca la partecipazione dei cittadini, consolidando il numero dei votanti alle elezioni, e non attraverso l'illusoria scorciatoia di una riforma elettorale che potrebbe anzi rivelarsi un ulteriore inganno nei confronti dei cittadini.
La proposta di "nuova formazione politica" non affronta nessuno dei problemi qui enunciati. Il rischio di trasformismo è dovuto al tentativo di unire forze e culture tra loro antitetiche, la cui convergenza è possibile solo non mettendo in discussione i fondamenti deteriori della politica moderna e della vita interna ai partiti: potere oligarchico e burocratico, elettoralismo, ecc.

Viceversa un percorso di rifondazione democratica del Pci e non di liquidazione, se vuole fornire un contributo chiaro ed esemplare per la riforma della politica nel nostro paese, deve caratterizzarsi assumendo e coerentemente applicando tre condizioni:
a) il Pci è dei suoi iscritti e ciò richiede una legittimazione del potere politico dal basso (nella formazione delle decisioni e dei gruppi dirigenti con revocabilità del mandato);
b) il Pci è dei suoi elettori e ciò richiede forme di controllo sul potere politico dall'esterno (con partecipazione alle decisioni, sedi intermedie tra partiti e movimenti/società);
c) il Pci è sottoposto al controllo dei cittadini anche per effetto del finanziamento pubblico, e ciò richiede una legittimazione democratica di tutti gli incarichi pubblici, anche con il voto e la revoca del mandato.
Un partito orizzontale, quindi, e non più gerarchico. Un partito delle diversità, che accolga e valorizzi le appartenenze parziali, che sappia superare insieme all'unanimismo anche una disciplina interna di altri tempi. Alla categoria della "unità del partito", mistificatrice di una ben differente realtà, si deve sostituire l'intreccio tra autonomia nell'analisi, nella proposta e, soprattutto, la coerenza nei comportamenti politici conseguenti. Bisogna evitare di ridurre l'impegno attivo del militante a quello passivo dell'adesione a uno schieramento o a una posizione proveniente dall'alto: e questa esigenza non si risolve con il semplice strumento delle correnti.
Una rifondazione democratica richiede un radicale cambiamento del vecchio modello di partito, "smontando" quella che oggi è divenuta una organizzazione ministeriale e centralistica del Pci e destrutturando gli apparati, per recuperare e innovare l'esperienza del partito come luogo di formazione per culture, identità, programmi alternativi allo stato di cose presenti: l'apparato non va abolito o penalizzato in quanto tale, ma reso struttura di servizio per l'area sociale che si riferisce al Pci. Non vanno confuse le funzioni di servizio con quelle dirigenziali, che devono essere sottoposte a nuove regole di controllo, di legittimazione e anche di revoca.
Siamo convinti che mai come in questo momento parlare di nuove regole corrisponde all'esigenza di concretizzare alcune scelte di valore (libertà, pluralismo, diffusione del potere decisionale) per le quali i comunisti italiani si sono sempre battuti.
Da queste considerazioni deriva la necessità del superamento:
1) della funzione regolatrice del cosiddetto "centro", mediatore tra opposte spinte e tendenze, (auto)investito del compito di realizzare una unità sulla base della limatura formale delle diverse posizioni, e che vive sulla separazione tra ciò che viene detto e la pratica politica effettiva;
2) del metodo della cooptazione, che non viene eliminato nella proposta di "nuova formazione politica", ma affinato e ammodernato come dimostra la pratica più recente: il metodo della cooptazione è funzionale alla raccolta del consenso sulle proposte del gruppo dirigente, ma non alla percezione e alla piena espressione dei bisogni sociali e politici;
3) di una concezione del partito come strumento o patrimonio storico del gruppo dirigente, che ha portato a utilizzare gli strumenti del partito per gestire una linea e assicurare consenso e stabilità alla leadership.

4. Per un altro comunismo
Sotto la parola "comunismo" si sono identificate strategie politiche e opzioni ideali diverse, molteplici e spesso tra loro contraddittorie. Se il nome "comunista" è stato utilizzato da esperienze storiche dispotiche all'est, non per questo ha perso di valore l'istanza di liberazione che questo nome contiene.
L'idea di comunismo ha avuto per lungo tempo anche la capacità di rappresentare innovazione e oggi, libera dal modello negativo dei regimi autoritari statalisti, può avere una nuova, grande opportunità.
La parola "comunismo" rappresenta tuttora una delle frontiere più avanzate per costruire una democrazia sociale (individuando le regole e la radice sociale del potere, e le sue articolazioni), e per coniugare le istanze classiche della critica al capitalismo con le nuove critiche alle moderne alienazioni e al burocratismo autoritario.
Il riferimento al comunismo non è un obbligo per la sinistra, ma una sfida, in quanto prospettiva diversa da quella capitalistica. Chi non ritiene di accettare questa sfida può trovare altre forze politiche in cui confluire, ma non può pretendere di sopprimere la parola "comunista" per farla sparire dal vocabolario politico.
Una sinistra priva di un soggetto comunista si impoverirebbe e si automutilerebbe di una energia culturale e politica importante: una visione plurali sta e laica della sinistra deve valorizzare le diversità e le anomalie e non cancellarle.
I soggetti che hanno vissuto l'esperienza del comunismo italiano (e internazionale) possono a pieno titolo e con pari dignità essere parte costitutiva di una sinistra plurima che intenda criticare e trasformare lo stato di cose presenti.

5. Le nostre proposte

1) Proponiamo la rifondazione democratica del Pci.
2) Respingiamo la proposta di Occhetto.
3) Proponiamo una serie di convenzioni e di incontri programmatici volti non tanto a produrre documenti di analisi e generiche carte di intenti, ma obiettivi concretizzabili subito in iniziative di lotta. Queste convenzioni dovrebbero permettere la costruzione di un programma itinerante e una rete di energie di sinistra anche in forma federativa, non solo attraverso assemblee plenarie nazionali ma con una articolazione territoriale che faccia proprio lo slogan "pensare globalmente, agire localmente".
Vogliamo infine indicare a titolo esemplificativo, e senza pretese di esaustività, alcune linee prioritarie su cui costruire primi obiettivi politici concreti:
Promuovere azioni dirette non violente e campagne di obiezione fiscale per ottenere una drastica riduzione dei bilanci per la difesa, la riconversione delle industrie belliche, la soppressione e l'eliminazione dal suolo italiano di basi ed armamenti militari stranieri.
Promuovere iniziative, referendum e campagne sulle tematiche ambientali che abbiano come primi obiettivi:
a) la riconversione ecologica dei debiti del terzo mondo: l'Italia e i paesi Cee con atti unilaterali debbono rinunciare ai crediti nei confronti dei paesi più poveri, per trasformarli in investimenti a favore dell'ambiente e di uno sviluppo economico sostenibile per i paesi meno industrializzati;
b) piani energetici territoriali, per una prospettiva energetica non nucleare o delle macro centrali e basata su risparmio e fonti rinnovabili: va affermato e praticato a livello locale un modello istituzionale che valorizzi il ruolo programmatorio dell'istituzione territoriale nella domanda e offerta di energia;
c) le iniziative di valutazione dell'impatto ambientale devono condurre alla sospensione di tutte le costruzioni di autostrade e al rilancio del sistema ferroviario.
Promuovere e favorire la nascita di associazioni, iniziative di volontariato e di formazione professionale, centri sociali di aggregazione politica e culturale, contro l'intreccio tra affari, politica e mafia nel Mezzogiorno. La lotta ai poteri criminali organizati va inoltre strettamente legata all'antiproibizionismo per gli stupefacenti.
Riformare i partiti per sbloccare il sistema politico, con alcuni provvedimenti minimi: statuti interni effettivamente democratici, primarie obbligatorie per la selezione dei candidati sia per i gruppi dirigenti sia per gli incarichi pubblici-rappresentativi. Se non si attiverà un'autoriforma in tempi brevi diventa necessaria una legge d'iniziativa popolare tesa ad affermare una disciplina democratica dei partiti, coerentemente con il fatto che i partiti in seguito al finanziamento pubblico non sono più mere associazioni private. Una riforma analoga, tra l'altro, diventa sempre più urgente anche per il sindacato. Tutto ciò è condizione essenziale e preliminare per restituire spazio alle forme di auto organizzazione nella società, dall'associazionismo al volontariato.

I comunisti autoconvocati e il XIX congresso del Pci: testo diffuso al congresso nazionale di Bologna
(5 marzo 1990)

Lunedì 5 marzo 1990 si è svolta a Roma una riunione dei comunisti autoconvocati per mettere a confronto le diverse esperienze realizzate nel corso del dibattito congressuale del Pci,
1) Si ribadiscono i contenuti inediti e innovativi di una pratica politica come quella degli autoconvocati, presente non solo nel Pci ma anche nel mondo sindacale: azioni dirette, azioni nonviolente, autonomia critica. Questi comportamenti, per quanto frammentati, hanno già una propria storia dentro alle azioni non delegate degli ultimi decenni. Sul piano teorico le autoconvocazioni si caratterizzano per la critica anticapitalistica, la ricerca di nuove forme di solidarietà, la valorizzazione dell'individuo in una dimensione sociale,
2) Le autoconvocazioni nel Pci hanno avuto i seguenti caratteri:
a) volontà di riattualizzare una memoria storica e i migliori contenuti politici di un patrimonio di lotta accumulato in questi decenni;
b) attivazione delle energie antagoniste ancora presenti all'interno del Pci, rimaste a lungo bloccate da una pratica politica paralizzante;
c) volontà di collegare queste forze a una realtà più ampia di militanze senza appartenenza organizzativa;
d) un conflitto inevitabile con una cultura politica dei gruppi dirigenti allo stesso tempo esaurita e autoconservativa e che si manifesta pienamente nel trasformismo e nel politicismo dell'operazione di Occhetto.
3) Senza l'emersione di un vera scelta di contenuti nel Pci, o di fronte a non auspicabili soluzioni "pasticciate" dell'ultima ora, la fase costituente di una nuova formazione politica rapppresenterà paradossalmente la morte definitiva di ogni aspirazione "rivoluzionaria" nell'area sociale di sinistra e comunista che ha fatto riferimento al Pci, e nello stesso tempo la fine di un soggetto politico davvero "riformatore".
L'approdo di Occhetto è un partito elettorale tra i tanti già esistenti, e forse più spregiudicato e antidemocratico di altri. Gli autoconvocati denunciano il continuismo burocratico e stalinista presente nel gruppo occhettiano che cerca, per sopravvivere, l'incontro con settori tecnocratici emergenti (la "sinistra dei club" del cinema Capranica).
L'indirizzo preso dal dibattito del Pci sembra portare a una alternativa secca, al di là dei tabù sulle parole: o scissione o corrente.
La risposta deve ovviamente attendere la fine del congresso.
L'esperienza degli autoconvocati va in realtà in un'altra direzione: la costruzione di gruppi informali e militanze multiple per realizzare reti sociali e pratiche politiche dirette, antagoniste anche a quelle decise dai gruppi dirigenti.
Su queste prospettive i comunisti autoconvocati promuoveranno nelle prossime settimane seminari e iniziative locali e nazionali.

Per un congresso libero, dimissioni di Occhetto e di tutto il gruppo dirigente
(22 settembre 1990)

Volantino distribuito al festival dell'Unità di Modena
Il XX congresso deve rappresentare l'opportunità per costruire su basi nuove l'alternativa al sistema sociale e di potere dato. Per questo obiettivo è necessario rivitalizzare le energie sociali che si sono aggregate dentro e intorno al Pci, e che da anni sono state sottoposte a continui bombardamenti psicologici e politici per distruggerle, isolarle e spingerle alla deriva. Queste energie rappresentano il valore maggiore della politica diffusa e della "sinistra sommersa" che non è quella rampante su cui ha puntato l'operazione di Occhetto.

È oggi evidente che l'intera operazione di Occhetto e del suo gruppo dirigente è stata sbagliata in tutto: nel metodo, nella ricerca delle alleanze, nelle analisi della società attuale ed anche nei comportamenti politici concreti (dalle incertezze sulla legge universitaria, con il conseguente isolamento del movimento della Pantera, alla astensione sulla guerra nel Golfo).
Questi sono i risultati della operazione di Occhetto:
- la pratica decisionista dei fatti compiuti, dalla Bolognina ad oggi, ha mortificato e ridotto la democrazia interna;
- è dilagata la scissione silenziosa (sezioni chiuse, tesseramento paralizzato, abbandono della politica da parte di molti militanti);
- l'Unità, che vive la sua più grave crisi finanziaria, è subordinata a esigenze di parte ed è ora avviata alla svendita e allo snaturamento della sua funzione di giornale sociale;
- la Costituente non è decollata, per ammissione dello stesso D'Alema;
- il Pci è stato subalterno al governo in occasioni decisive, ad esempio nella discussione sul diritto di sciopero e sulla finanziaria.
In questo quadro la campagna contro la Resistenza antifascista, ambiguamente affrontata da l'Unità e da alcuni settori della dirigenza del Pci, ha reso evidente che gli attacchi politici e culturali di questi mesi sono stati rivolti verso l'anomalia comunista per colpire l'assetto costituzionale democratico e avviare la costruzione della "seconda repubblica". Il segretario del Pci non ha detto finora una sola parola per reagire a questa campagna, e anche se lo farà oggi, alla Festa di Modena, sarà comunque tardi per i danni gravi che il partito ha già subito in queste settimane.
Occhetto alla Bolognina disse che era giunto il momento di "cambiare tutto". Gli auto convocati (iscritti, simpatizzanti e dirigenti sociali del Pci) da tempo denunciano molte delle ragioni di fondo della crisi del partito e nel documento nazionale per il XIX congresso, (Per la rifondazione del Pci e della sinistra, la cui presentazione e divulgazione sono state "democraticamente" impedite) hanno indicato anche precise proposte politiche e programmatiche: per noi va innanzitutto cambiato ciò che ha impedito l'emancipazione e la valorizzazione delle energie vive della sinistra, e in particolare va cambiato un modello gerarchico e burocratico del partito.
Nel Pci, come negli altri partiti italiani, siamo di fronte all'eeaurimento del ruolo e della capacità propulsiva di quella che viene definita leadership. La subalternità di gran parte del gruppo dirigente del Pci (oggi egemonizzato da un effimero compromesso tra l'anima liberaI-radicale e quella burocraticogliorista) mette in luce innanzitutto la perdita di ogni autonomia critica nei confronti dei problemi esistenti (economia, lavoro, ambiente, pace) con la pretesa cooptazione del gruppo dirigente di Occhetto nella élite dominante di questo paese: in questo modo i ceti dominanti non vengono più intesi come soggetti da mettere in discussione alla radice, ma con i quali bisogna "alternarsi". L'operazione di Occhetto è stata definita dai suoi laudatori "coraggiosa". Oggi l'atto di intelligenza e di coraggio che chiediamo alle compagne e ai compagni dirigenti della maggioranza del Sì è di dimettersi dai loro ruoli, scendendo a discutere e lottare insieme a chi non appartiene alle élite e agli apparati, per ricostruire le ragioni di un impegno a sinistra.
In questi mesi è stato travolto anche qualsiasi elemento di fiducia nella correttezza, nella coerenza e negli effettivi Comportamenti democratici del gruppo dirigente.
La rifondazione del Pci e della sinistra non può che nascere dal basso, dalla società, dai luoghi del vivere civile.
Questa rifondazione riguarda l'insieme della vita politica italiana e non solo il Pci. Non sono necessarie abiure o liquidazioni di identità. Non può esserci rifondazione se non si destrutturano le vecchie forme-partito. Occhetto viceversa ha lanciato una fase costituente usando i vecchi modelli del partito centralistico (e senza rinunciare all'indottrinamento attraverso il giornale del partito, o alla mobilitazione degli apparati per predeterminare l'esito delle discussioni).

Il metodo dell'autoconvocazione, allora, è un utile simbolo dei possibili arricchimenti delle forme di partecipazione alla elaborazione politica e prefigura un tipo di organizzazione che non si basi più su un modello "verticale", ma orizzontale.

Schede sui beni patrimoniali del Pci e sulla situazione dell'Unità
(Arco, 28-29-30 settembre 1990)

Al seminario di Arco (Trento) dei "comunisti democratici" tenutosi il 28-29-30 settembre 1990, gli autoconvocati del Pci presentano un dossier che contiene, tra l'altro, due schede sui beni patrimoniali del partito e sulla situazione del quotidiano l'Unità

L'uso e la destinazione del patrimonio del partito: un problema di democrazia

Nei dieci mesi in cui si sono discusse le opzioni sul futuro del Pci nel XIX congresso, nel dibattito attuale che prepara lo snodo cruciale del XX, non si è affrontato, specialmente a livello di base, il tema della gestione, dell'utilizzo attuale e del destino del patrimonio del partito.
Non si tratta solo di un problema di diritto ma, prima di tutto, di democrazia.
Infatti quali che siano gli esiti del prossimo congresso, va detto con chiarezza da parte dei promotori della svolta quali saranno i rapporti della "Cosa" con l'ingente patrimonio che la sottoscrizione, la contribuzione e il lavoro dei comunisti hanno costituito in questi anni e che oggi è rappresentato dalle centinaia di strutture, sedi di sezione, di federazione, case del popolo e dai beni strumentali di proprietà del partito, in primo luogo de l'Unità.
Negli anni si è affermata una visione del problema strettamente legata al verticismo con cui il partito veniva gestito: per questo il problema del patrimonio appare come un problema del gruppo dirigente, come se proprietario ne fosse il gruppo dirigente stesso.
Ciò non è vero per il partito, come non lo è per il suo patrimonio: esso è dei suoi iscritti, e per effetto del finanziamento pubblico dei partiti se ne deve rispondere democraticamente anche agli elettori.
Non è pensabile che nella discussione della nuova formazione politica non si sia previsto anche questo aspetto.
Non è pensabile che questo aspetto non venga chiarito oggi a tutto il partito, perché se ne discuta apertamente e pubblicamente nel dibattito congressuale.
È irresponsabile portare il partito alla fase in cui, realisticamente, devono quanto meno ipotizzarsi possibilità di separazione di significative realtà, con i beni del partito affidati o intestati fiduciariamente a compagni che, come tutti, saranno chiamati ad esercitare le opzioni su cui il congresso si dovrà pronunciare, senza che su questo tema non si siano discusse, a priori, regole precise.
Come e da chi verrà speso dopo il congresso il patrimonio accumulato dai comunisti italiani?
Si pensa di trasferire l'intero patrimonio dell'attuale Pci tramite l'adesione alla "Cosa" degli attuali intestatari in via fiduciaria dei beni?
Nel caso in cui in sezioni o federazioni prevalgano scelte diverse da quelle maggioritarie, si intende proporre una consensuale separazione dei beni, o si intende affrontare anche l'eventualità di controversie giudiziarie per la rivendicazione dei beni stessi?
In quale modo si evolverà il mandato per cui oggi i compagni sono titolari dei beni, una volta che il partito mandante sia cessato e in sua vece sia sorta una forza politica che si vuole non trasformazione del Pci, ma ente del tutto nuovo sia soggettivamente, sia per la sua struttura, sia per il suo programma?
A stretto rigore, se si respinge l'idea che la nuova forza politica sia risultato di una mera trasformazione dell'attuale Pci, e si insiste invece sul suo carattere di novità, si deve ritenere che questa non possa succedere al Pci nella titolarità del suo patrimonio, se non attraverso atti di conferimento del patrimonio stesso decisi quanto meno dalla maggioranza qualificata degli iscritti dell'attuale partito comunista.
In assenza di un tale esplicito atto non sarà consentito ad alcun gruppo dirigente il trasferimento del patrimonio del partito senza che ciò rappresenti una vera e propria espropriazione ai danni di tutti quegli iscritti del Pci che non si siano espressi a favore della "Cosa" o si siano espressi esplicitamente per la conservazione dell'attuale partito.
È pertanto necessario che in tutte le federazioni si costituiscano gruppi di lavoro sul tema, che effettuino la ricognizione dei beni e che discutano le regole cui attenersi per la loro gestione e controllo nella fase congressuale ed in quella successiva, per garantirne la trasparenza e tutelare i diritti degli iscritti.

L'Unità: per un giornale di informazione e di inchiesta sociale, pluralista e non anticomunista

1. Questo testo nasce dalla reazione a quella che riteniamo una censura costante e non più tollerabile operata da l'Unità su numerose esperienze politiche originali che si sono sviluppate di recente. La circolazione di idee diverse dal teatrino della politica si scontra con una vera censura autoritaria, proprio nel momento in cui l'Unità si apre a senso unico verso esterni laiico-moderati e ospita articoli esplicitamente anticomunisti.
Forniamo solo tre esempi significativi:
a) La mancata pubblicazione delle nuove regole congressuali approvate a Bologna e che comprendevano la possibilità di elaborare piattaforme politiche dal basso.
b) La cancellazione metodica dei punti di vista sulle riforme elettorali maturati fuori dai circoli politici e accademici, impedendo ai lettori di conoscere le ragioni di quanti si oppongono ai referendum elettorali in nome del rilancio del progetto democratico della nostra Costituzione.
c) L'ostracismo e le denigrazioni costanti verso le elaborazioni di realtà politiche e sindacali non tradizionali (autoconvocazioni, sindacalismo non confederale, ecc.).
2. Durante la gestione D'Alema!Foa dell'Unità abbiamo purtroppo constatato casi eclatanti di faziosità, manipolazione della verità e censura, in particolare dopo la svolta di Occhetto. Si rinvia al documentato dossier sull'Unità distribuito durante una assemblea pubblica il 6 dicembre 1989 e i cui contenuti i lettori dell'Unità non hanno mai potuto conoscere e contro il quale la direzione del giornale, scorrettamente, ha rivolto più attacchi.
3. Come iscritti e simpatizzanti del Pci abbiamo sperato in un rilancio dell'Unità come giornale culturalmente autonomo e critico verso l'esistente. Viceversa abbiamo assistito ai tentativi di trasformare il corpo redazionale in una casta separata e in uno strumento di amplificazione' delle correnti dominanti (sia le correnti culturali e ideologiche, sia la "corrente" maggioritaria nel Pci) e si è tentata una dinamica di pedissequa imitazione di Repubblica. Se prevalesse questa impostazione si avrebbe un ulteriore degrado culturale, con pericolose ricadute sul corpo sociale del Pci e della sinistra.
4. Alcuni di noi da anni tentano di proporre all'Unità di collegarsi ai possibili "corrispondenti sociali" del giornale. Le risposte sono state talvolta sprezzanti e non certo incoraggianti. Ma restiamo convinti della necessità di un giornale che sappia fare inchiesta sociale per capire a fondo le trasformazioni in corso, sfuggendo al privilegio per i "primi attori" del teatro più tradizionale della politica.
5. Il punto cruciale oggi è rappresentato da queste domande: chi è il proprietario vero dell'Unità? chi decide dell'Unità? e chi decide nell'Unità (dato che sembra accantonato il metodo degli organismi collegiali e democratici)? Milioni di compagni e militanti hanno fatto il giornale nel corso della sua storia. Essi rappresentano il patrimonio sociale dell'Unità e ne hanno prodotto anche il patrimonio economico con le sottoscrizioni e l'opera di diffusione volontaria: è questo per noi il vero proprietario dell'Unità. Quale uso viene fatto di questo patrimonio sociale ed economico? Riteniamo una beffa lo slogan "da lettore a protagonista", di fronte al deficit finanziario e al calo di copie vendute, come ha segnalato la stessa Unità senza dare però convincenti specificazioni o spiegazioni, e di fronte alle annunciate e clamorose operazioni finanziarie per ottenere decine e decine di miliardi.
6. Siamo consapevoli che abbiamo a che fare con operazioni disinvolte e ciniche, e per questo le semplici lamentazioni non bastano più. Ci appelliamo ai lettori, ai compagni redattori più sensibili, alle istanze democratiche che hanno sostenuto l'Unità in questi anni perché non assistano più passivamente alla deriva del loro giornale: anche l'Unità va rifondata, con un dibattito trasparente e aperto, per farne un giornale di informazione e di inchiesta sociale, pluralista e non anticomunista.

I due documenti che seguono sono stati elaborati e diffusi dal "Comitato per la difesa e il rilancio della Costituzione", di cui gli autoconvocati del Pci fanno parte.


LA DEMOCRAZIA NON SI TOCCA

Un appello: rilanciare la Costituzione per estendere la democrazia
(giugno 1990)

I promotori, di questo appello, appartenenti a diverse realtà della sinistra romana, si rivolgono a tutti coloro che intendono operare per l'attuazione piena dei principi e del progetto democratico sanciti dalla Costituzione italiana, affinché aderiscano al Comitato per la difesa ed il rilancio della Costituzione.
La necessità di dar vita al Comitato nasce dalla grave preoccupazione per la riduzione degli spazi di democrazia reale e di partecipazione effettiva dei cittadini alla direzione di una società sempre più segnata dalla presenza di vecchie e nuove oligarchie, di potenti gruppi politico-finanziari che egemonizzano ogni ramo della vita sociale, culturale e politica, vanificando le forme pluralistiche e riducendo le stesse norme costituzionali a vuote ed inapplicate affermazioni.
Il ventennio trascorso è stato caratterizzato da veri e propri attentati al tessuto democratico del nostro paese (stragi, terrorismi, deviazioni istituzionali, piani piduistici e mafiosi, modernizzazioni selvagge) che anche a causa della non adeguata opposizione di sinistra hanno creato i presupposti delle varie controriforme ratificate anche a colpi di decreto-legge e con maggioranze aventi perfino il sostegno del Msi.
La riproposizione ed il peggioramento del Concordato statochiesa, il taglio della scala mobile, il decreto Berlusconi e la pseudoriforma di Mammi sulle telecomunicazioni, il voto palese alla Camera, la mancata approvazione della legge sulla violenza sessuale, la controriforma Ruberti sull'Università, la criminalizzazione dei tossicodipendenti, l'affossamento del referendum sulla giusta causa per il licenziamento nelle piccole imprese, le limitazioni del diritto di sciopero, sono alcune tappe di realizzazione di un chiaro progetto restauratore e reazionario che oggi punta a riscrivere la stessa Costituzione per cancellarne i principi democratici anche sulla carta.
In tal senso l'attuale dibattito sulle cosiddette "riforme istituzionali" si configura oggi come il terreno di un ulteriore passaggio in questa direzione, essendo nettamente dominato dalle proposte di segno accentratore, autoritario e carismatico, da quelle di repubblica presidenziale a quelle di sistema maggioritario elettorale ed elezione diretta del leader, queste ultime prefigurate nei referendum elettorali.
Per queste ragioni il Comitato intende impegnarsi subito in una prima, fondamentale battaglia di opposizione non solo alla deriva presidenzialista, ma anche a tale iniziativa referendaria, che tende a superare il metodo della proporzionale nelle elezioni per sostituirlo con sistemi che, mediante l'uso del premio di maggioranza e del ballottaggio forzato, tendono a determinare una drastica riduzione della rappresentanza della pluralità di espressioni politiche e della complessità sociale.
Non è con soluzioni di ingegneria elettorale ed istituzionale, infatti, che possono essere adeguatamente affrontate e risolte le degenerazioni del sistema politico italiano, derivanti dalla divaricazione che esiste tra le finalità sociali di una politica democratica e il modo determinato di fare politica dei partiti.
È evidente, del resto, come nell'attuale contesto le riforme prospettate nei referendum elettorali agevolino la ristrutturazione, in un sistema di rappresentanza politica che, attraverso il compattamento delle attuali forze politiche, ne limiti la dialettica a mera alternanza all'interno di un medesimo sistema di potere. Nel quadro attuale è del resto evidente come la difesa ed il rilancio della Costituzione, lungi dal configurarsi come un arroccamento nel passato, sia, invece, l'avvio di un'ampia battaglia per la ricostruzione di un tessuto democratico e per il recupero del progetto complessivo di società pluralista e partecipativa che la Costituzione contiene, anche estendendolo ed attualizzandolo alla luce delle nuove istanze sociali.
Rilanciare la Costituzione significa:
- assumere la centralità dei problemi sociali e dei bisogni veri della gente contro l'imposizione da parte delle burocrazie partitiche di tematiche strumentali o di politica-spettacolo;
- riaprire il confronto di massa sulle forme di partecipazione, di autogoverno, di rappresentanza, per un nuovo modo di essere della politica;
- rimettere in discussione il rapporto pubblico-privato e gli attuali processi di privatizzazione, riproponendo la funzione sociale della proprietà;
- ridare importanza al pluralismo delle idee e delle istanze, con particolare riferimento alla gestione dei mezzi di comunicazione di massa.
Su questi basi è nato, ed ha già raccolto le prime adesioni il Comitato per la difesa ed il rilancio della Costituzione e su queste basi il Comitato chiede l'adesione di tutti coloro che intendono impegnarsi nella stessa direzione, al fine di procedere a iniziative di studio, di informazione e di lotta sui temi che riguardano la salvaguardia dell'effettività dei diritti dei cittadini e dello sviluppo in senso democratico della società.

Perché no ai referendum elettorali
(luglio 1990)

Da alcune settimane si stanno raccogliendo firme per l'indizione di tre referendum per la modifica del sistema elettorale.
Poiché il livello di confusione è alto ed è stato artatamente alimentato anche per non far capire il vero contenuto antidemocratico di questa iniziativa referendaria, crediamo necessario offrire alcuni spunti di informazione e di riflessione critica, in base ai quali vorremmo motivare la proposta di non firmare la richiesta dei tre referendum.

1. I tre quesiti

a) Con il tortuoso quesito sulla legge elettorale del Senato si intende ottenere un voto personalizzato che faccia eleggere un solo senatore per ogni circoscrizione elettorale;
b) per quanto riguarda il voto per la Camera dei deputati i promotori chiedono che l'elettore non possa esprimere più di una preferenza (attualmente sono quattro);
c) infine si richiede una complicatissima abrogazione di norme elettorali per i comuni, che otterrebbe come risultato l'introduzione nei comuni con più di 5.000 abitanti del sistema maggioritario (chi vince si prende i quattro quinti dei seggi disponibili e alle altre forze andrebbe il residuo quinto).

2. Chi sono i promotori

I promotori dei tre referendum sono docenti universitari, parlamentari e liberi professionisti appartenenti a diverse aree politiche.

Ma quello che colpisce di più di questo nucleo di attori è l'eterogeneità dei fini che essi assegnano ai tre referendum e che possono essere così riassunti:
- governi forti e meno condizionamenti per i leaders (in italiano questo termine si traduce in "capi");
- sblocco del sistema politico per favorire l'alternanza tra due partiti o fra due coalizioni (alternanza è cosa ben diversa dall'alternativa all'attuale sistema di potere politicoziario );
- dare un potere di scelta "immediata" ai cittadini, i quali, comunque, rimangono subordinati alle indicazioni dei vertici dei partiti e delle cordate di potere.
3. Con questi referendum si riduce il potere politico dei cittadini Anche a prescindere dalla obiezione fondamentale di "incostituzionalità" di questi referendum, in quanto il nostro costituente, sottraendo la materia elettorale dagli oggetti referendari, voleva impedire che il diritto delle minoranze ad essere rappresentate fosse messo nelle mani della maggioranza (Longi, Il Giorno, 3.6.90), ci sono almeno tre buone ragioni per opporsi a questi referendum.
Va contestata l'utilizzazione strumentale, per fini di lotta politica, di un fondamentale strumento di democrazia diretta quale è il referendum abrogativo. Già con il grave precedente del referendum "sui giudici" si è affermata una pratica di promozione dall'alto di uno strumento politico, il referendum, che la Costituzione affida all'iniziativa popolare, fuori dalle dinamiche dei partiti o delle élites.
Insomma i partiti, tramite il ceto politico-accademico di questo paese, non soddisfatti degli innumerevoli spazi da essi occupati, vogliono impadronirsi e snaturare uno strumento costituzionale, manovrando la massa degli elettori come se si trattasse di un corpo amorfo da gettare di volta in volta sull"'arena politica".

4. Quale risultato raggiungono questi tre referendum?

a) Con il sistema uninominale rigido proposto per il Senato, si intenderebbe superare la degenerazione partitocratica personalizzando il voto al punto tale che chi prende più voti deve poi rappresentare tutti: si propone, cioè, il vecchio modello del "principe giusto e forte", sottovalutando il rischio che per ogni
Leoluca Orlando possono essere eletti "direttamente" dieci, cento Ciccio Mazzetta.
Tralasciando ogni commento sulla regressione culturale che tale modello implicherebbe sulla qualità sociale della nostra democrazia, è interessante sapere che laddove (Senato e provincia) già funziona un sistema uninominale, gli apparati dei partiti contano moltissimo: l'attribuzione dei collegi sicuri alla maggioranza interna e di quelli disperati alle opposizioni è la regola generalmente praticata.
b) Con il sistema maggioritario proposto per i comuni (che gli stessi promotori riconoscono essere squilibrato e non adeguato "a rompere il potere degli apparati di partito nella scelta degli eletti") si riduce il potere delle opposizioni ad un ruolo di comparsa, confidando sul fatto che le forze politiche, una volta divenute somiglianti tra loro, possano facilmente alternarsi nell'esercizio di governo.
Meccanismi di tipo maggioritario tendono ad introdurre nel nostro ordinamento modelli bipolari e, quindi, di riduzione della libertà di organizzazione democratica e di sviluppo dell'articolazione sociale della democrazia politica. I promotori dei referendum, taluni dei quali sono raffinati cultori delle esperienze conservatrici estere (Thatcher, De Gaulle), trascurano le peculiari contraddizioni sociali ed economiche dell'Italia, che rendono questo paese non sottoponibile a sperimentazioni meccaniche di modelli importati dall'estero.
c) Lo stesso referendum che tende a ridurre a una sola -per la Camera dei deputati - le preferenze, intacca il potere di voto personale dei cittadini con il pretesto di combattere "gli accordi di potere posti alla base delle cordate di preferenza". Ciò appare effimero, perché le cordate sono organizzate a monte, nelle sedi informa li, e poi perché è da dimostrare che le cordate di potere coinvolgono tutte le decine di milioni di elettori. In realtà, come già segnalava il giudice costituzionale Alberto Malagugini, si vuole annullare la stessa possibilità di scelta di candidati diversi da parte dell'elettore e rafforzare il potere di selezione da parte delle oligarchie che contano.
Pertanto la situazione paradossale sarebbe questa: lo "scettro" della sovranità, lungi dal tornare nella sede naturale che è il corpo elettorale, sarebbe ancora più nelle mani dei signori delle tessere e delle varie mafie.
Il sistema di governo imperniato sui principi elettorali di tipo maggioritario è la tipica controfigura di sistemi autoritari e pseudodemocratici, come il sistema di governo presidenziale, in quanto modello precostituito contro gli interessi sociali più deboli. Tutta la storia sociale e politica contemporanea testimonia, infatti, che la garanzia di una autonomia della società dalla simbiosi tra grandi potentati, palesi e occulti, e vertici dello stato è data anzitutto dal pluralismo istituzionalizzato tramite il principio di rappresentanza proporzionale.
A differenza dei promotori dei tre referendum, noi crediamo che attraverso la generalizzazione del sistema uninominale e la scomparsa del sistema proporzionale nelle elezioni politiche, e attraverso la designazione preliminare del sindaco e del blocco delle liste nelle elezioni amministrative, siano ingigantite le funzioni e il potere degli apparati, non più solo di partito.
5. Con questi referendum si dà un colpo mortale alla repubblica democratica fondata sul protagonismo sociale
Questi referendum, spostando l'attenzione popolare dalla linea della partecipazione diffusa e costante al potere politico a quella della decisione per la governabilità, ovvero dalla linea del conflitto sociale a quella della gestione del potere, manifestano tutto il loro carattere elitario e "bonapartista" che si vuole, giustamente, imputare alle ipotesi craxiane e reazionarie di presidenzialismo. Queste impostazioni approfondiranno ulteriormente le divisioni nella società e, soprattutto, consolideranno un assetto gerarchizzato attorno agli interessi forti (finanziari, mafiosi, ecc).
Come è possibile che anche dei democratici, pure presenti tra i promotori, giungano a favorire tali prospettive?
Principalmente, crediamo, per due motivi:
a) La perdita di memoria storico-costituzionale.
La repubblica nata dalla Resistenza deve i suoi fondamenti al carattere di massa della lotta al fascismo, al pluralismo sociale e politico che ha avuto la forza di respingere la dittatura su cui si reggeva il dominio capitalistico, consacrando nella nuova Costituzione le basi di uno stato di democrazia sociale che intreccia principi di democrazia politica, economica e sociale. Strumento portante del pluralismo che ha assicurato la tenuta del sistema democratico in Italia è stato, sin dal primo momento, la rappresentanza proporzionale delle forze politiche e sociali nelle elezioni: tale principio, non a caso, è stato contestato e attaccato sin dall'inizio dalle forze conservatrici e reazionarie che hanno tramato ripetutamente contro la repubblica (da ultimo con il piano di rinascita democratica della P2 che è ora in piena fase di attuazione).
b) La perdita di identità della sinistra come forza del cambiamento politico e sociale.
La riduzione di democrazia che, sotto il pretesto della governabilità, è operante dal finire degli anni '70 per iniziativa del pentapartito è sfociata negli anni '80 in una strategia di "riforme istituzionali" ambiguamente proposte per ristrutturare con poteri dall'alto un sistema di governo volto a snaturare sin primis la Costituzione anziché portare a compimento il suo progetto democratico-sociale. La confusione che via via si è determinata negli ultimi anni è tale che anche esponenti di sinistra sono giunti a condividere critiche generiche alla "partitocrazia" che hanno origine nella destra sociale e politica, anziché fare proprie le esigenze di allargamento della democrazia coerenti con la tradizione storica e il radicamento sociale della sinistra.
In questo modo la sinistra ha assistito passivamente, quando non vi ha partecipato, alla martellante campagna verso l'opinione pubblica sull'''invecchiamento'' della Costituzione, favorendo il pericoloso indebolimento di quella lunga opera di educazione alla Costituzione che era divenuta cultura diffusa in strati sociali non trascurabili del nostro paese.

Nell'Italia dei trasformismi anche gran parte della "classe politica" agita oggi il feticcio delle riforme istituzionali ed elettorali come panacea dei mali italiani. Si dice che gli italiani devono poter scegliere un governo. Ma se avessero voluto solo questo potevano farlo anche ora: conoscevano benissimo i partiti ai quali affidarsi, se il loro fosse stato solo un bisogno di "governabilità". Se non lo hanno sin qui fatto, forse perché hanno anzitutto bisogno di capire che cosa vogliono fare i partiti e come.

6. No ai referendum elettorali. Si ad una riforma democratica dello stato e dei partiti in nome della libertà e dei diritti dei cittadini ad autogovernarsi
La nostra posizione muove da una radicale critica dell'esistente. Siamo ben consapevoli che l'indebolimento del tessuto democratico e la riduzione progressiva degli spazi di iniziativa sociale è stato favorito anche dal degrado culturale e dalla perdita di autonomia dei gruppi dirigenti dei partiti antifascisti che hanno trasformato le sedi politiche e quelle rappresentative degli interessi generali in strumenti di potere oligarchico e in stanze di compensazione di interessi assai poco generali.
Ma per il raggiungimento di un giusto fine (la liberazione della politica e della società dal peso asfissiante del ceto politico di vertice) non vale un qualsiasi mezzo.
Il nostro approccio al problema vuole essere diverso e più lungimirante.
a) La forma partito va verso una sua relativizzazione e riduzione storica a fronte della prospettiva di crescita e di autorganizzazione della società civile. Ma nella realtà odierna i partiti hanno travalicato a dismisura la loro funzione originaria, che va recuperata, diventando gli strumenti di dominio per oligarchie di varia natura. Più che di velleitarie scorciatoie c'è bisogno, quindi, di uno sforzo collettivo per riportare i partiti dentro i confini stabiliti dalla Costituzione (art,49).
b) Vanno pertanto respinti i due modelli di partito dominanti nel nostro secolo: il partito unico con funzioni di guida autoritaria sulla società; il partito elettorale egemonizzato da leadership tecnocratiche e tendenzialmente 'antidemocratico.
c) Lo sblocco del sistema politico può nascere proprio da una "riforma dei partiti", che può essere imposta dal basso e che favorisca la partecipazione dei cittadini, consolidando il numero dei votanti alle elezioni e non attraverso l'illusoria e pericolosa scorciatoia di una riforma elettorale che si rivelerebbe come una ulteriore truffa nei confronti dei cittadini.
Crediamo che la gente sia meno qualunquista di quanto immaginino alcuni intellettuali; comunque non è fomentando ulteriori contrapposizioni tra politica e società che si intraprende una strada responsabile per uscire dalla grave crisi che vive la nostra democrazia.
Si provi, piuttosto, a mettere i "piedi nel piatto" della politica:
- impegnandosi a far entrare la democrazia (la Costituzione!) nei partiti;
- costruendo forme di legittimazione sociale del mandato rappresentativo che garantisca controlli effettivi anche con la revocabilità del mandato;
- riconoscendo, con i relativi poteri, le forme di autorganizzazione sociale.
Politica e diritto possono, debbono camminare insieme. È illusorio pensare che strumenti di tecnica istituzionale possano sostituirsi alla crisi della politica.
Se si dovesse scegliere una strategia istituzionale per riformare la politica sarebbe preferibile adottare la formula della legge di iniziativa popolare volta a democratizzare i partiti e i sindacati, eventualmente rilanciando la richiesta di referendum sul finanziamento pubblico sui partiti come sollecitazione verso il legislatore.
Chiediamo che si cominci a discutere di questo.

DUE CASI ESEMPLARI

Riabilitare la sezione di Como
(gennaio - febbraio 1988)


Quando l'Unità rende noto che il direttivo della sezione Gramsci di Como è stato sospeso d'autorità dalla federazione, un gruppo di iscritti al Pci invia una lettera a Natta, Pajetta e Chiaromonte chiedendo di litigare ogni ombra di interventi di tipo autoritario. I firmatari della lettera verranno convocati dalla Commissione centrale di controllo, che tenterà di dissuaderli dal proseguire iniziative a sostegno del direttivo della sezione comasca. Il direttivo della sezione Gramsci spiega le proprie ragioni in un documento. La risposta arriverà, indirettamente, attraverso una lettera di Pajetta e D'Alema agli organismi dirigenti della federazione di Como, in cui si dà via libera alla liquidazione del direttivo di sezione. In seguito a questa vicenda sei membri del direttivo della sezione Gramsci rassegneranno le dimissioni dal partito.

La lettera di un gruppo di iscritti a Natta, Pajetta e Chiaromonte
(Roma 8 febbraio 1988)

Cari compagni, siamo rimasti sconcertati dalla notizia apparsa sull'Unità (2 e 4 febbraio) riguardante il provvedimento di sospensione preso dalla federazione di Como nei confronti dell'intero direttivo della sezione "Gramsci" della stessa città.
Ci colpisce innanzitutto il fatto che possiamo leggere sull'Unità solo la verità del segretario di quella federazione e di dover leggere le posizioni dei compagni sospesi solo su altri giornali.
Ma la cosa più grave è che sono atti del tipo di quelli adottati dalla federazione di Como a colpire la credibilità complessiva del partito comunista nella battaglia per i diritti di cittadinanza e per quei diritti che non sono né negoziabili, né comprimibili in alcuna maniera.
Critichiamo tutte le tendenze a ridurre su un piano disciplinare od organizzativo problemi che hanno innanzitutto natura politica.
Esse possono pericolosamente inficiare la ricerca in atto nel Pci (e che non riguarda solo il nostro partito) di nuove regole concernenti le questioni della trasparenza, della partecipazione alle decisioni politiche e della democrazia interna.
Non intendiamo in questa sede interferire nel merito della vicenda comasca. Ma ormai si è voluto dare rilevanza nazionale a quel fatto ed è bene, perciò, che non vi sia nei compagni e nell'opinione pubblica democratica alcuna ombra di dubbio sulla legittimità e sulla correttezza della dinamica che si è aperta a Como.
La vicenda di Como, infatti, può essere una cartina di tornasole per fugare anche solo le ombre di possibili interventi di tipo autoritario che, pur essendo sempre più estranei al costume del Pci, di tanto in tanto riemergono.
Al XVII congresso di Firenze venne ribadito che la pluralità di opinioni all'interno del partito comunista e la loro possibilità di dispiegarsi compiutamente è non solo cosa legittima, ma rappresenta elemento di "arricchimento" della vita interna del Pci. Passare dalle parole ai fatti significa innanzitutto comprendere che non si tratta soltanto di garantire un diritto di cittadinanza al dissenso, ma di consentire in forme inedite il dispiegamento del pluralismo anche all'interno di un partito.
È questa appunto la sfida che ci viene rivolta da un cambiamento sociale e politico sempre più ricco e complesso e che non può non riguardare quegli organismi, come i partiti, che tanto peso hanno raggiunto in vicende che riguardano la collettività.
Auspichiamo, pertanto, che sia modificato l'approccio assunto nella vicenda di Como e che si affrontino con spirito radicalmente diverso questioni che sono politiche e prima ancora culturali. Altrimenti procede davvero male la discussione (ancora troppo chiusa) sui problemi del partito e che sarà oggetto di dibattito di un prossimo Comitato centrale del Pci.
Rivendichiamo come militanti e come cittadini democratici il diritto ad intervenire nella ricerca in corso su di un nuovo modo di intendere e di praticare la politica, perché siamo convinti che non è un tema delegabile.

Pietro Barrera, Isabella Bibolotti, Fabrizio Clementi, Massimo Caccia, Carlo Di Cicca, Sandra Del Fattore, Giuseppe De Santis, Fabio Giovannini, Maurizio Marcelli, Gennaro Lopez, Vittorio Parola, Tonino Quadrini, Luciano Seller.

La lettera del direttivo della sezione Gramsci a Natta, alla direezione, alle commissioni centrale e regionale di controllo
(Como 11 gennaio 1988)

Il direttiva della sezione A. Gramsci di Como, fatto oggetto di una sanzione politica (scioglimento) per le sue opinioni, senza essere stato messo al corrente delle contestazioni, senza essere stato ascoltato e avere avuto il diritto di controbattere, secondo i diritti previsti dallo Statuto (articoli 6, 53, 55) ed elementari valori giuridici, chiede:
I) che venga fatta decadere una decisione illegittima e politicamente dannosa configurandosi come una "purga" proprio mentre il partito tenta di dare alla società l'idea e l'immagine di nuovi spazi di discussione e di libertà;
2) di essere messo in condizioni di sostenere le proprie ragioni;
3) di essere sentito dal segretario del partito e dalla commissione centrale di controllo perché sia possibile quel dibattito politico che fino ad oggi è stato impedito.
Il direttiva della Gramsci ritiene lo scioglimento, di fatto un provvedimento disciplinare, inaccettabile nel metodo e nel contenuto.
Nel metodo - come vi abbiamo anticipato nel nostro telegramma - perché il direttiva di sezione ha ricevuto comunicazione di una "sentenza" a processo concluso e dopo essere stato privato del diritto di difendersi in quanto tenuto all'oscuro di tutto.
È una prassi che ha violato lo Statuto e che appare strabiliante a compagni che per anni si sono battuti nel partito e nel paese per difendere e allargare i diritti e le libertà dei singoli lavoratori e dei cittadini e per lo sviluppo del partito. ( ... ) Non un solo fatto viene contestato, ma le posizioni politiche del direttivo, come si evince dal linguaggio indeterminato ed elusivo adottato nel provvedimento. Si vuole cancellare la presenza politica del direttivo, evitando il confronto da noi sempre cercato. Denunciamo che si tenta di colpire, attraverso un provvedimento disciplinare, un modo che, se anche talvolta è diverso, è comunque legittimo, di intendere il "fare politica" in città e all'interno del nostro partito. ( ... ) Ora dobbiamo amaramente constatare che con questo atto di violenza si vuole colpire la nostra profonda convinzione della necessità di confrontarsi ed essere aperti verso la realtà sociale, affinché il partito sia in grado di dirigere le trasformazioni, e non subirle, secondo valori democraticamente costruiti e individuati.
Ricordiamo un episodio che riteniamo importante.
La conferenza cittadina svoltasi nel 1984 accolse le proposte politiche avanzate dalla nostra e da altre sezioni e decise, mettendo in minoranza i dirigenti, la ricostituzione di un Comitato cittadino che colmasse lo scollamento avvenuto in città tra federazione e base, tra gruppo consiliare e cittadini. Contro questo organismo, espresso dalle sezioni, venne messo in atto un sistematico boicottaggio da parte di alcuni dirigenti che sentivano le sezioni più come un ostacolo che come momento attivo indispensabile di iniziativa politica nel territorio (vedi le proposte dell'allora responsabile di organizzazione).
Il risultato in città è stato la perdita sempre più vistosa di molti militanti allontanatisi anche per la progressiva mancanza di spazi. ( ... ) Si rimprovera al nostro direttivo di essere "in contrasto con la linea politica nazionale e locale del Pci", ma non si precisa su cosa. Siamo convinti che il nostro impegno per una maggiore democrazia non contrasti con la linea politica nazionale.
In questi mesi la sezione ha promosso la nascita di un Comitato contro la guerra, dopo l'irresponsabile decisione del governo di inviare nostre navi nel golfo Persico. A questo Comitato hanno dato il loro appoggio politico o di iniziativa Democrazia proletaria, l'associazione Italia-Nicaragua, Rossoscuola, le Adi, le Liste verdi, il Collettivo di controinformazione di Cantù. Il successo ottenuto da noi in questa iniziativa ci sembra, anche per la concomitanza temporale, alla base dell'intervento punitivo. ( ... ) Cari compagni, riteniamo di essere oggetto di un grave attacco lesivo di diritti democratici fondamentali.
Ci batteremo, secondo il dovere di iscritti e militanti del Pci, con tutte le nostre forze perché si instauri quella discussione che fin qui è stata impedita, per conservare al Pci di Como, alla sinistra e alla società, spazi vitali e ineliminabili di libertà, ricerca, agibilità politica, dibattito e iniziativa.

La lettera di Pajetta e D'Alema alla federazione e alla commissione federale di controllo di Como
(19 gennaio 1988)

Cari compagni, vi informiamo che abbiamo esaminato i documenti relativi allo scioglimento del Comitato direttivo della sezione "A. Gramsci" di Como e le motivazioni che hanno consigliato il Comitato federale e la Commissione federale di controllo, d'accordo con il Comitato regionale, a prendere questa grave decisione.
Abbiamo inoltre preso atto del rispetto delle procedure previste dall'articolo 57 dello Statuto del partito, compresa la decisione di nominare un Comitato provvisorio con l'incarico di convocare il Congresso di sezione.
Nell'approvare l'operato del CF e della CFC, vi invitiamo ad operare affinché nella sezione "A. Gramsci" di Como il nostro partito ritrovi la sua unità, nell'azione comune tesa al rafforzamento della nostra organizzazione, alla salvaguardia del suo costume interno e del suo prestigio.
È necessario far intendere al maggior numero di compagni, con fermezza, ma con pazienza, la necessità (in questo momento difficile, ma nel quale si aprono nuove possibilità al partito) di lavorare insieme e di difendere una linea politica che può permettere al Partito stesso di essere riconosciuto dai lavoratori come la forza unitaria e di avanguardia del movimento operaio e popolare del nostro paese. Portate a conoscenza di tutti i compagni della sezione questa lettera e la vostra e nostra volontà di vedere attiva e operante la sezione.

Saluti fraterni.
Giancarlo Pajetta Massimo D'Alema

Varese: una tessera negata
(11 gennaio 1990)

L'll gennaio 1990 il direttivo della sezione Pci di Gazzada (Varese) respinge la richiesta di iscrizione di Gian Marco Martignoni. Le "imputazioni" sono che Martignoni ha promosso iniziative autoconvocate e ha sostenuto posizioni "anticomuniste di sinistra". Anche il ricorso alla commissione federale di garanzia (20.2.90) ha esito negativo: la commissione rimprovera a Martignoni di non essersi dissociato dai volantini diffusi dal coordinamento provinciale dei comunisti autoconvocati. Qui viene pubblicato un volantino del coordinamento degli autoconvocati di Varese.

A distanza di soli 6 giorni da quando gli era stata "concessa", Mauro Ferrario, giovane ambientalista, pacifista e cattolicoformista, ha restituito la tessera al Pci di Gazzada. L'ha restituita per gli insultanti apprezzamenti che su di lui, comunista, erano stati fatti dal segretario della locale sezione (che durante la festa del tesseramento, l'aveva pubblicamente tacciato di "anticomunismo"), motivando il suo gesto anche con la "discriminazione" che la stessa sezione ha operato nei confronti di un altro eco-pacifista, sindacalista e comunista, Gian Marco Martignoni, a cui la tessera è stata addirittura rifiutata.
A Gazzada, proprio coloro che si dichiarano d'accordo con Occhetto di prendere a pretesto le vicende dei paesi dell'est, per non chiamarsi più "comunisti" e dare vita ad una nuova formazione politica, in cui convivere con chi non è mai stato comunista - o persino, in passato, indicato come anticomunista (Pannella) - bollano come "nemico" e "anticomunista" chi "in passato", non iscritto al Pci, si è permesso di esercitare diritti costituzionalmente garantiti (anche per gli iscritti di partito), come la libertà di opinione e di critica, in quanto "non sottaceva il dissenso nei confronti delle scelte e del ruolo del Pci", e nei confronti di "dirigenti nazionali e non, che tali linee politiche andavano esprimendo", come scrive il segretario della sezione Pci di Gazzada.

Da un lato si dà la tessera a vari richiedenti che "da destra" (vedi dichiarazioni all'Unità di Marcenaro ed altri) motivano di iscriversi per contribuire a sciogliere e a sostituire il Pci con un'altra "cosa"; la dirigenza nazionale del Pci propone di restituire "l'onore politico", cioè la tessera, agli espulsi del Manifesto (che però loro hanno sdegnosamente rifiutato); si invita, con inserzioni sulla stampa, con appelli dei dirigenti nazionali e dai muri delle città, ad iscriversi al Pci per partecipare al dibattito aperto dalle escogitazioni improvvisate di Occhetto, per aprirsi a tutti i soggetti della sinistra, innanzitutto ad ecosti e cattolici democratici, come M. Ferrario e G. M. Martignoni; dall'altro lato quando alcuni di questi "soggetti" chiedono di iscriversi e partecipare, si bollano come "anticomunisti" e si rifiuta la tessera, emettendo sentenze anziché dare risposte politiche, senza nemmeno aver mai ascoltato gli ignari imputati, senza mai aver verificato e comprovato i capi d'accusa.
Rinnovamento e discontinuità nella prassi degli occhettiani sono solo escogitazioni per coprire una sostanziale continuità di logiche e di metodi.
Nella mentalità dell'occhettismo, cambiare nome a un partito è una trovata come un'altra, non dissimile da una nuova proposta per una Giunta, da un nuovo slogan "giovane e moderno" per la prossima tornata elettorale, o per una campagna di vendita delle saponette. Con in più l'idea che questa sia la politica, che non ne esistano altre.
Da episodi come questi si può capire come il Pci sconti, in una volta sola, ad ogni livello, una regola non scritta di selezione dei quadri dirigenti.
Una regola che da troppo tempo premia il conformismo e la mediocrità culturale, l'improvvisazione scambiata per genialità politica, il piccolo cinismo per sano realismo, il sapere coniare formule ad effetto per capacità di fare politica.
In questo caso si trattava invece di persone che hanno lavorato con i comunisti e come comunisti, anche se da posizioni critiche verso il Pc i, per il quale hanno molte volte votato e invitato a votare (anche con appelli a pagamento). Quindi con procedura e decisione di stampo "brezneviano", si è voluto, da posizioni ormai di ex-comunisti pentiti e vergognosi della loro storia e nome, anacronisticamente, e quindi solo strumentalmente, sancire come "anticomunisti" e "anti Pci" questi nuovi soggetti che avevano osato chiedere la tessera. "Soggetti" che, nonostante le passate critiche (in ogni caso legittime e dunque non usabili come capi d'imputazione) al deficit comunista del Pci, ritengono che il "Pci sia un patrimonio fondamentale non dei soli iscritti", indispensabile per la democrazia e i lavoratori italiani. Un patrimonio che abbiamo sempre detto essere di tutti e che, come tale, deve essere difeso e salvaguardato.
( .... ) Un gesto che conferma la superficialità strumentale dell'uso che si fa della caduta dei regimi dell'est, non già per democrazia, ma per coprire il cambiamento di campo, il rovesciamento di posizioni, l'abbandono della lotta di classe e per una democrazia effettiva, capace di assoggettare i monopoli agli interessi collettivi.
Una continuità con le cose peggiori e una discontinuità con quelle migliori.

CRONOLOGIA

Le iniziative degli autoconvocati comunisti
(giugno 1987 - settembre 1990)

24 giugno 1987. La prima lettera al Comitato centrale: la "lettera dei trentenni" (p. 25).

1 luglio 7987. Su La Repubblica appare una rettifica per il singolare refuso presente nell'articolo dedicato da quel giornale alla "lettera dei trentenni": un "non" saltato faceva intendere che i firmatari erano favorevoli alle riforme elettorali.
2 luglio 1987. Di fronte al persistente rifiuto dell'Unità di dare notizia della "lettera dei trentenni" al Comitato centrale, viene inviata una protesta al direttore. La risposta è ancora negativa, c solo il 28 luglio sarà possibile ai lettori dell'Unità conoscere l'esistenza del documento: nella pagina delle lettere, infatti, viene ospitato un breve articolo del primo firmatario della "lettera aperta", con il titolo Noi trentenni chiediamo ai comunisti.
10 luglio 1987. Viene lanciato da Franco Astengo e Salvatore d'Albergo un appello "per una coerente ripresa del dibattito ed un positivo chiarimento politico nel Pci e nell'intera sinistra d'opposizione e d'alternativa", chiedendo una assise congressuale straordinaria.
20 luglio 1987. Un gruppo di sottoscrittori della "lettera dei trentenni" si riunisce a Roma e decide di proseguire incontri informali e seminari.
19 ottobre 1987. Seminario autoconvocato a Roma sul tema "Una nuova identità della sinistra" (p. 28).
23 novembre 1987. La seconda lettera al Comitato centrale (p. 31).
24 novembre 1987. Carmine Fotia su Il Manifesto conia la definizione "autoconvocati del Pci" con un articolo sulla seconda lettera al Comitato centrale in cui si annuncia "Nel Pci nascono gli autoconvocati". Da parte sua Giuliano Ferrara sul Corriere della Sera attribuisce la lettera ad Ingrao.
27 novembre 1987. Il Manifesto pubblica quasi integralmente la seconda lettera al Comitato centrale. L'Unità prosegue nella censura.
12 dicembre 1987. A Parma si svolge una assemblea autoconvocata cui partecipa un gruppo di firmatari della seconda lettera giunti da varie parti d'Italia. Viene redatto un documento in cui si dà una valutazione della seduta del Comitato centrale, rilevando come si sia aperta una importante discussione nel gruppo dirigente, espresso anche dalle diverse posizioni al momento del voto, significativo di una "situazione straordinaria all'interno dell'area comunista". Contro la politica della governabilità viene ribadita la necessità di consolidare le basi della democrazia politica, economica e sociale.
22 gennaio 1988. Si incontrano i firmatari romani delle due lettere al Comitato centrale. Viene proposta la costituzione di un Centro di ricerca politica. Negli stessi giorni nasce a Milano il Laboratorio di iniziativa e comunicazione politica e sociale, espresso da altri firmatari della seconda lettera.
5 febbraio 1988. Ulteriore riunione nazionale auto convocata a Parma.
8 febbraio 1988. Lettera a Natta, Pajetta e Chiaromonte dopo lo scioglimento del direttivo della sezione Gramsci del Pci di Como (p. 121).
19 marzo 1988. A Sesto San Giovanni il Laboratorio di iniziativa e comunicazione politica e sociale organizza insieme al Cipec, Mpa, Centro culturale C. Marchesi un dibattito per la difesa del diritto di sciopero. L'obiettivo è di "garantire lo sciopero e restituire al sindacato un ruolo coerente con lo sviluppo della democrazia politica-economica-sociale".
26 marzo 1988. In seguito alle conferenze operaie del Pci e di Dp, il Laboratorio di iniziativa e comunicazione politica e sociale organizza con il Cipec un seminario a Vicenza sul tema "Il ruolo dei lavoratori per il controllo politico e sociale della produzione".
19 maggio 1988. Seminario del Centro di ricerca politica su "Forme dell'azione politica". Relazione di apertura sul Pci: "Il processo di formazione della decisione politica e dei gruppi dirigenti nel partito comunista italiano".
14 giugno 1988. Seminario a Roma del Centro di ricerca politica sul "nuovo corso" del Pci.
25 giugno 1988. Rinascita pubblica una lettera di Franco Ferrari con il titolo Democrazia e rinnovamento del partito: viene tagliato l'unico passaggio in cui si richiamavano le iniziative degli autoconvocati.

19 luglio 1988. Il Comitato centrale del Pci nel corso della sua riunione riceve una "dichiarazione collettiva" di un gruppo di militanti comunisti autoconvocati di varie parti d'Italia. Il docuumento viene definito "di ispirazione ingraiana" da La Stampa.
22 luglio 1988. Viene reso pubblico il documento "Per una nuova identità del Pci e della sinistra" (p. 35).
19 ottobre 1988. Riunione seminariale a Roma del Centro di ricerca politica.
26 ottobre 1988. In concomitanza con il dibattito al Comitato centrale del Pci, si svolge una assemblea autoconvocata presso la sala di Paese Sera, a Roma, dove viene presentato e discusso il documento "Per una nuova identità del Pci e della sinistra".
29 ottobre 1988. Seminario alla Sala dell'Arancio di Roma su "L'autonomia dei comunisti fra tradizione e progetto" (p. 47)'.
Dicembre 1988. Viene pubblicato il numero uno del mensile Il sinistra, nato da un incontro tra diverse forze della sinistra, [l'a cui gli autoconvocati del Pci.
2 aprile 1989. Gli autoconvocati del Pci aderiscono alla raccolta di firme per il referendum sulla giusta causa promosso da Op.
15 maggio 1989. Seminario degli autoconvocati di Roma sulla sinistra rosso-verde americana, con la partecipazione di Frank Annunziato dell'università del Connecticut.
15 novembre 1989. Volantinaggio sotto Botteghe Oscure contro la svolta di Occhetto (p. 53).
17 novembre 1989. Un documento viene diffuso con la firma di 12 iscritti al Pci parmense che esprimono l'esigenza di realizzare momenti di discussione autoconvocata "per impedire che il dibattito sulla proposta di Occhetto sia regolamentato secondo i tempi e i modi scelti da ristretti organismi dirigenti al fine di precostituire l'esito finale.
18 novembre 1989. Lettera al Manifesto per un appuntamento a Botteghe Oscure (p. 55).
24 novembre 1987. Carmine Fotia su Il Manifesto conia la definizione "autoconvocati del Pci" con un articolo sulla seconda lettera al Comitato centrale in cui si annuncia "Nel Pci nascono gli autoconvocati". Da parte sua Giuliano Ferrara sul Corriere della Sera attribuisce la lettera ad Ingrao.
27 novembre 1987. Il Manifesto pubblica quasi integralmente la seconda lettera al Comitato centrale. L'Unità prosegue nella censura.
12 dicembre 1987. A Parma si svolge una assemblea autoconnvocata cui partecipa un gruppo di firmatari della seconda lettera giunti da varie parti d'Italia. Viene redatto un documento in cui si dà una valutazione della seduta del Comitato centrale, rilevando come si sia aperta una importante discussione nel gruppo dirigente, espresso anche dalle diverse posizioni al momento del voto, significativo di una "situazione straordinaria all'interno dell'area comunista". Contro la politica della governabilità viene ribadita la necessità di consolidare le basi della democrazia politica, economica e sociale.
22 gennaio 1988. Si incontrano i firmatari romani delle due lettere al Comitato centrale. Viene proposta la costituzione di un Centro di ricerca politica. Negli stessi giorni nasce a Milano il Laboratorio di iniziativa e comunicazione politica e sociale, espresso da altri firmatari della seconda lettera.
5 febbraio 1988. Ulteriore riunione nazionale autoconvocata a Parma.
8 febbraio 1988. Lettera a Natta, Pajetta e Chiaromonte dopo lo scioglimento del direttivo della sezione Gramsci del Pci di Como (p. 121).
19 marzo 1988. A Sesto San Giovanni il Laboratorio di iniziativa e comunicazione politica e sociale organizza insieme al Cipec, Mpa, Centro culturale C. Marchesi un dibattito per la difesa del diritto di sciopero. L'obiettivo è di "garantire lo sciopero e restituire al sindacato un ruolo coerente con lo sviluppo della democrazia politica-economica-sociale".
26 marzo 1988. In seguito alle conferenze operaie del Pci e di Dp, il Laboratorio di iniziativa e comunicazione politica e sociale organizza con il Cipec un seminario a Vicenza sul tema "Il ruolo dei lavoratori per il controllo politico e sociale della produzione".

19 maggio 1988. Seminario del Centro di ricerca politica su "Forme dell'azione politica". Relazione di apertura sul Pci: "Il processo di formazione della decisione politica e dei gruppi dirigenti nel partito comunista italiano".
74 giugno 1988. Seminario a Roma del Centro di ricerca politica sul "nuovo corso" del Pci.
25 giugno 1988. Rinascita pubblica una lettera di Franco Ferrari con il titolo Democrazia e rinnovamento del partito: viene tagliato l'unico passaggio in cui si richiamavano le iniziative degli autoconvocati.
19 luglio 1988. Il Comitato centrale del Pci nel corso della sua riunione riceve una "dichiarazione collettiva" di un gruppo di militanti comunisti autoconvocati di varie parti d'Italia. Il documento viene definito "di ispirazione ingraiana" da La Stampa.
22 luglio 1988. Viene reso pubblico il documento "Per una nuova identità del Pci e della sinistra" (p. 35).
19 ottobre 1988. Riunione seminariale a Roma del Centro di ricerca politica.
26 ottobre 1988. In concomitanza con il dibattito al Comitato centrale del Pci, si svolge una assemblea autoconvocata presso la sala di Paese Sera, a Roma, dove viene presentato e discusso il documento "Per una nuova identità del Pci e della sinistra".
29 ottobre 1988. Seminario alla Sala dell'Arancio di Roma su "L'autonomia dei comunisti fra tradizione e progetto" (p. 47)'.
Dicembre 1988. Viene pubblicato il numero uno del mensile A sinistra, nato da un incontro tra diverse forze della sinistra, tra cui gli autoconvocati del Pci.
2 aprile 1989. Gli autoconvocati del Pci aderiscono alla raccolta di firme per il referendum sulla giusta causa promosso da Op.
15 maggio 1989. Seminario degli autoconvocati di Roma sulla sinistra rosso-verde americana, con la partecipazione di Frank Annunziato dell'università del Connecticut.
15 novembre 1989. Volantinaggio sotto Botteghe Oscure contro la svolta di Occhetto (p. 53).
17 novembre 1989. Un documento viene diffuso con la firma di 12 iscritti al Pci parmense che esprimono l'esigenza di realizzare momenti di discussione autoconvocata "per impedire che il dibattito sulla proposta di Occhetto sia regolamentato secondo i tempi e i modi scelti da ristretti organismi dirigenti al fine di precostituire l'esito finale.
18 novembre 1989. Lettera al Manifesto per un appuntamento a Botteghe Oscure (p. 55).
20 novembre 1989. Manifestazione sotto Botteghe Oscure (p. 57).
24 novembre 1989. Ventiquattro iscritti di diverse sezioni romane del Pci promuovono una assemblea autoconvocata presso la sezione Nuova Tuscolana sul tema "Per l'identità comunista e la rifondazione della politica". La federazione romana del Pci effettua pressioni per impedire l'assemblea, mentre su La Repubblica nel giorno stesso dell'assemblea appare un articolo in cui si afferma che l'iniziativa si è già svolta e che è stata "in scala molto ridotta". Il Corriere della Sera, invece, parlerà di oltre duecento persone presenti.
2 dicembre 1989. Gli autoconvocati del Pci partecipano alla fondazione di Charta '90, insieme a numerosi dirigenti, delegati e militanti della Cgil di vari settori. L'obiettivo è di discutere le ragioni di un  lancio delle lotte sociali, su spinta autonoma dei lavoratori e degli organismi di base.
4 dicembre 1989. Continuano le richieste di rettifica e riparazione nei confronti dell'Unità per la notizia falsa del 24 novembre sull'assemblea a Nuova Tuscolana e del 3 dicembre sull'assemblea promossa da trenta iscritti alla sezione Testaccio di Roma.
6 dicembre 1989. Assemblea autoconvocata alla sezione Testaccio di Roma. Presentazione di un dossier su l'Unità (p. 59).
7 dicembre 1989. I curatori del dossier su l'Unità inviano una lettera al giornale del Pci chiedendo di precisare contenuti e paternità del documento. "Richiamiamo l'Unità al senso di responsabilità", è scritto tra l'altro nella lettera, "evitando di falsificare le posizioni di chi dissente per alimentare un clima di intolleranza nei loro confronti". Né questa né una successiva richiesta di rettifica viene presa in considerazione dalla direzione dell'Unità.

8 dicembre 1989. Al congresso nazionale di Democrazia Proletaria a Rimini viene svolto un intervento che porta nel congresso l'esperienza delle autoconvocazioni del Pci.
14 dicembre 1989. L'assemblea alla sezione Ostiense vara il documento "Nuove regole per un congresso straordinario di rifondazione democratica del Pci" (p. 77).
16 dicembre 1989. La Repubblica dà notizia dell'autoconvocazione di iscritti a 17 sezioni genovesi, che approvano un documento di critica alla segreteria nazionale del Pci. Giordano Bruschi dichiara: "Il frazionismo non lo facciamo noi, ma i dirigenti attraverso i mezzi di informazione".
18 dicembre 1989. Il direttore dell'Unità, Massimo D'Alema, riceve un articolo dal titolo "Spunti e temi per una rifondazione democratica del partito comunista italiano" che illustra le posizioni degli autoconvocati, con richiesta di pubblicazione. Di fronte al persistente rifiuto del direttore, G.Cotturri, A.Langer, S.Mannuzzu, S.Rodotà inviano una lettera a D'Alema perché sia garantita l'espressione di tutte le posizioni politiche. Non viene data nessuna risposta.
19 dicembre 1989. Si svolge a Roma un dibattito su "Le metamorfosidei partiti, la sinistra tra ricerca di identità e nuovi traasformismi", con Franco Russo, deputato verde arcobaleno, Fausto Bertinotti, segretario confederale della Cgil e Fabrizio Clementi degli autoconvocati del Pci.
20 dicembre 1989. Viene inviato al direttore dell'Unità D'Alema e al condirettore Foa il testo del documento sulle "Nuove regole". Non viene pubblicato.
21 dicembre 1989. Viene distribuita ai membri del Comitato centrale del Pci una cartellina con il documento "Per la rifondazione del Pci e della sinistra", le proposte di "Nuove regole" e il "Dossier su l'Unità". La cartellina per correttezza era stata consegnata anticipatamente alla Commissione per le regole congressuali presso la direzione del Pci. Gli autoconvocati del nord l:llettuano un volantinaggio sotto il palazzo di via delle Botteghe Oscure.
10 gennaio 1990. Dibattito a Roma tra gli autoconvocati del Pci ed altri esponenti della sinistra sul tema "La sinistra di fronte alla nuova sfida della storia: quali prospettive per gli anni novanta". Massimo D'Alema viene vivacemente contestato.
11 gennaio 1990. Il direttivo della sezione Pci di Gazzada (Varese) respinge la richiesta di iscrizione di Gian Marco Martignoni, per avere svolto "iniziative autoconvocate" (p. 126).
15 gennaio 1990. Presso la sezione Garbatella del Pci, a Roma, si svolge un'assemblea dei comunisti autoconvocati sul tema "Una proposta nazionale dal basso per la rifondazione del Pci". Viene presentato il testo del documento politico "Per la rifondazione del Pci e della sinistra", poi presentato come mozione collegata alla numero due in numerose sezioni (p. 82).
16 gennaio 1990. Un trafiletto anonimo su La Stampa attacca duramente gli autoconvocati, affermando che "il movimento è in crisi di esaurimento" e che l'esperienza delle autoconvocazioni è fallita. Agli auto convocati, inoltre, viene imputato di essere responsabili dei "calci all'auto di Luciano Lama". Una lettera di rettifica per l'articolo apparso sulla Stampa viene inviata al direttore del giornale. Una ulteriore richiesta di rettifica è inviata sei giorni dopo anche al capo della redazione romana della Stampa, di nuovo senza esito.
22 gennaio 1990. Gli autoconvocati del Pci di Roma inviano una lettera di solidarietà al movimento universitario della Pantera. "Al vostro movimento", si legge nella lettera, "ci unisce il metodo della autoconvocazione, intesa come azione diretta fuori e oltre i leaderismi e le burocrazie di partito".
25 gennaio 1990. Iniziano a Roma le trasmissioni autogestite degli autoconvocati del Pci sugli 88.900 di Radio Proletaria. Il titolo della trasmissione, che si svolgerà ogni martedì e giovedì fino al mese di luglio, è "Un'ora con gli autoconvocati del Pci. Un punto di vista originale sul dibattito nel partito comunista e nella sinistra. Autoconvocarsi per oltrepassare le gerarchie politiche e le burocrazie".
30 gennaio 1990. Viene richiesto ufficialmente alla Commissione nazionale per il congresso di pubblicare su l'Unità il documento "Per la rifondazione" ai sensi del regolamento congressuale e sulla base di quanto già avvenuto sull'Unità per iniziative simili. Ancora nessuna risposta.
31 gennaio 1990. Alla Casa della Cultura di Roma viene presentato il documento "Per la rifondazione", illustrato dai primi firmatari e discusso da Maria Luisa Boccia, direttrice di "Reti", Paolo degli Espinosa, della direzione nazionale della Lega ambiente, Paolo Franco, segretario nazionale Fiom Cgil, Domenico Jervolino, direttore di A sinistra, Vittoria Tola, della segreteria romana del Pci e membro del Comitato centrale. Una manchette pubblicitaria che doveva apparire sulle pagine romane dell'Unità per informare dell'iniziativa alla Casa della cultura non viene pubblicata.
6 febbraio 1990. In una lettera alla Commissione per il congresso gli autoconvocati rinnovano la richiesta di pubblicazione su l'Unità del documento congressuale "Per la rifondazione" di appoggio alla mozione due.
10 febbraio 1990. Contestazione durante il meeting della sinistra dei club al cinema Capranica di Roma (p. 72).
15 febbraio 1990. N elle pagine romane dell' Unità viene pubblicata una manchette con stralci del documento "Per la rifondazione". È l'unico spazio concesso dal giornale del Pci al documento.
20 febbraio 1990. Gli auto convocati partecipano al dibattito "La democrazia serve: quale? a chi? a che? Partecipazione, rappresentanza, diritti", promosso dalle riviste A sinistra e Per l'alternativa.
22 febbraio 1990. Ennesima lettera all'Unità, questa volta al condirettore Renzo Foa, per chiedere la pubblicazione dell'articolo degli autoconvocati concordato con il giornale e consegnato il 18 dicembre 1989. Nonostante i congressi di base siano ormai conclusi, e pertanto non vi sia più "pericolo" di influenzare le votazioni su mozioni e delegati, l'Unità non risponde e continua a impedire ai suoi lettori la conoscenza di una posizione politico-teorica originale e diversa.
5 marzo 1990. Riunione dei comunisti autoconvocati in occasione del XIX congresso del Pci (p. 95).
14 marzo 1990. In un comunicato stampa gli autoconvocati esprimono preoccupazione per gli "impressionanti processi di concentrazione nel sistema dei media" e appoggiano la protesi il dei redattori di Radio Proletaria volta a garantire la sussistenza per le emittenti radiofoniche radicate nel territorio.
1 aprile 1990. Gli autoconvocati del Pci partecipano al dibattito pubblico "La sinistra alternativa e le elezioni" che si svolge all'Aula di Chimica biologica dell'Università di Roma.
2 maggio 1990. Gli autoconvocati del Pci intervengono all'assemblea "L'informazione: un diritto negato" che si svolge al Palazzo Valentini di Roma.
14 maggio 1990. Un gruppo di iscritti al Pci (tra cui Luciano Canfora, Laura Conti, Salvatore D'Albergo) invia una lettera aperta ad Alessandro N atta e Pietro Ingrao chiedendo di non rinunciare al principio della proporzionale nella legislazione elettorale.
15 maggio 1990. Assemblea autopromossa alla sezione Pci Trionfale di Roma. L'assemblea discute un documento dal titolo "Uscire a sinistra dall'immobilismo" e vota un ordine del giorno in cui si propone di creare Comitati per la difesa e il rilancio della Costituzione.
28 maggio 1990. Intervento degli autoconvocati nel corso dell'assemblea romana della seconda mozione: l'Unità, secondo un vecchio cliché, parla di "sedicenti autoconvocati".
29 maggio 1990. Gli autoconvocati del Pci prendono parte alla tavola rotonda organizzata da Radio proletaria sulle prospettive della sinistra.
1 agosto 1990. In una lettera a Il Manifesto gli autoconvocati del Pci ricordano che la parola chiave "rifondazione", assunta nel Pci come orizzonte dell'iniziativa della minoranza, è stata introdotta dagli autoconvocati nel dibattito fin dal 1987.
27 agosto 1990. A Cosenza viene annunciata una riunione autoconvocata per dar vita a un "Circolo per la rifondazione della sinistra". Mario Brunetti, uno dei promotori, propone di unire forze per la costruzione di un "'isola alternativa":
28 agosto 1990. Gli autoconvocati partecipano al dibattito "Contro la guerra" promosso dal Comitato per la difesa e il rilancio della Costituzione presso Montecitorio, a Roma.
3 settembre 1990. Numerosi pacifisti del Pci si autoconvocano all'ingresso della tenda-dibattito alla Festa dell'Unità di Firenze, dove è previsto un discorso di Giorgio Napolitano. I pacifisti comunisti fiorentini, scrive Il Manifesto, distribuivano polemicamente ramoscelli d'olivo.

18 settembre 1990. Gli autoconvocati del Pci diffondono un comunicato stampa in cui denunciano il grave atto censori o compiuto dai responsabili della Festa nazionale dell'Unità di Modena: senza alcuna motivazione è stato infatti rifiutato uno spazio per il dibattito sulla "rifondazione della politica" proposto dagli autoconvocati e che doveva svolgersi il 21 settembre.
22 settembre 1990. Volantinaggio al Festival nazionale dell'Unità di Modena (p. 99).
28 settembre 1990. Gli autoconvocati del Pci presentano un dossier nel corso del seminario di Arco dei "comunisti democratici" (p. 102).


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