venerdì 13 gennaio 2012

caracciolo e letta l'europa è finita libro

L’EUROPA E’ FINITA
Enrico Letta -  Lucio Caracciolo

Sull'Europa, e sull’ euro, non siamo mai andati molto d'accordo. Ma abbiamo sempre pensato che a ogni svolta del processo d'integrazione fosse utile confrontarsi, senza pregiudizi e senza tabù.
Nel 1998, la nascita della moneta unica ci ha dato t opportunità di duellare a distanza con due pubblicazioni parallele, edite da Laterza: Euro Sì. Morire per Maastricht (Enrico Letta) ed Euro No. Non morire per Maastricht (Lucio Caracciolo). Qualche anno dopo, t avvio della fase costituente è sembrata t occasione giusta per aprire un dibattito a tutto campo sul futuro del vecchio continente, il Dialogo intorno all'Europa.

Questo libro nasce dalla crisi che negli ultimi mesi ha drammaticamente investito l'Europa. Nasce dalla inaudita violenza esplosa sulle strade di Atene; dai futili compromessi raggiunti dalle istituzioni di Bruxelles; dalle umilianti perorazioni provenienti dalle autorità di Washington.
Abbiamo ritenuto che la gravità della crisi dell' euro metta in dubbio l'esistenza stessa dell'Europa, almeno così come l'abbiamo conosciuta fino a oggi. Mai come in questa fase, quindi l'incontro (e lo scontro) di opinioni divergenti è necessario per stimolare un più ampio dibattito sull'Europa che vogliamo.

gli Autori

Che cos'è l'Europa dopo la crisi?

Enrico Letta: L'Europa è una potenza mondiale che ha caratteristiche geografiche, storiche, politiche e culturali comuni. Ovviamente, le forme di questa omogeneità sono diverse da quelle che abbiamo conosciuto all' epoca della formazione degli Stati nazionali come la Storia ce li ha tramandati. Intendo dire che il senso di pluriappartenenza, un'appartenenza a più livelli, è caratteristica oggi essenziale della vita di ognuno di noi, e il livello di appartenenza europeo non potrà mai coprire, asciugare, contraddire il senso di appartenenza a un'entità statuale, nazionale. Quindi l'Europa dovrà essere una potenza mondiale, costruita su base federale, in cui l'appartenenza alla dimensione europea e allo stesso tempo a quella nazionale sarà una caratteristica ineliminabile. Questo già di per sé dipinge cos'è l'Europa: una potenza mondiale in cui la pluriappartenenza, la molteplicità delle appartenenze, è nel Dna di ogni suo cittadino.
Cerco di declinare questo concetto attorno al tema dei confini, della storia, dell'idea di democrazia e di quella di comunità.
Cominciamo dai confini.
L'unità geografica europea è molto marcata, è data sostanzialmente dai confini del mare, e il mare conta molto. I confini dell' oceano, i confini del Mediterraneo. Ed evidentemente, la parte dell'Europa in cui i confini sono più labili, l'Europa orientale, è quella dove il mare è assente e il confine è marcato da due grandi entità, la Russia e la Turchia, non a caso due grandi imperi del passato. È un confine nel quale un piede dell'una e dell' altra sono dentro la dimensione europea, mentre un piede è senza dubbio fuori. Quindi, un' entità geografica facilmente delimitabile a nord, a sud, a ovest, mentre il confine orientale è più labile, comunque un' entità geografica molto definibile.
Storicamente l'Europa è un' entità molto definita.
Sono gli Stati che hanno fatto la Storia del mondo come l'abbiamo conosciuta fino alla seconda guerra mondiale, sono gli Stati che hanno diviso il mondo in zone d'influenza, sono gli Stati che hanno costruito la civiltà occidentale come l'abbiamo conosciuta in questi secoli. È la somma delle civiltà che hanno costruito l'Occidente fino a ieri. E che oggi devono darsi una nuova missione.
Quelle europee sono società che hanno condiviso un'idea di democrazia. È stata la condizione per l'approdo nell'Unione europea di Paesi chiaramente europei, perché Praga e Budapest sono sempre state capitali europee, ma hanno vissuto un'epoca di assenza di democrazia e sono tornate nell' alveo dell'Unione europea non soltanto quando è caduto economicamente il comunismo ma quando dalla dittatura comunista si è passati alla democrazia. Quindi, le nostre sono società che condividono una stessa idea di democrazia, che oggi per fortuna appartiene anche a molti altri, ma che originariamente trova fra i nostri Stati un profondo elemento di condivisione.
Sono società che vengono da una parte di mondo in cui il legame con la terra, il vincolo con le origini è diverso da quello che si vive in molte altre parti del mondo, e questo caratterizza la modalità con cui si costruisce uno Stato, con cui si costruisce una comunità. Le nostre sono tutte società - a Treviri come a Toledo, a Lecce come a Rocamadour - caratterizzate dal fatto che su ognuno dei nostri territori sono passati millenni di storia. Millenni di storia vuol dire che il rapporto tra il cittadino e il suo territorio non è lasco, è un rapporto profondo, un rapporto nel quale ogni costruzione si sovrappone a costruzioni precedenti, anche fisicamente, e in cui ognuno è portatore di un testimone che ha raccolto da generazioni precedenti.
E questa è una caratteristica determinante che unifica le nostre comunità all'interno del territorio europeo.
Mettiamola così: ogni cittadino europeo declina coordinate spazio-temporali differenti da quelle che declina un cittadino statunitense, un cittadino che vive nella Pampa argentina, un cittadino che vive in un' altra parte del mondo. È una differenza profonda, che ci caratterizza, in cui confluiscono una serie di risvolti culturali e religiosi; sono tutte comunità unite da una profonda presenza di una tradizione religiosa cristiana, con le sue caratteristiche di radicamento sul territorio, radicamento attraverso il sistema parrocchiale mitico, tutte caratteristiche che accomunano i nostri territori in modo molto forte. Le nostre, quindi, sono anche società nelle quali il senso della comunità è fondamentale. La parola «comunità» unisce in modo molto marcato. Non è un caso che il primo nome istituzionale dell'Europa sia stato «Comunità». Sono però anche società nelle quali il ceppo linguistico è molto diverso. Questo è uno dei punti chiave. C'è stato un tempo in cui il latino prima, l'italiano poi, erano le lingue della globalizzazione europea, poi è stato il francese, varie volte nei ricorsi storici si è tentato di far sì che fosse il tedesco, ma si è tentato di imporlo con metodi, diciamo così, coercitivi. E poi invece il 50ft power dell'inglese ha vinto, e qui onestamente va detto,
ha vinto più dall'esterno che dall'interno, nel senso che è stata la forza della cultura mediaticova americana a imporre l'inglese, cioè l'inglese ha vinto non come inglese britannico ma come inglese americano.
La somma di queste realtà fa dell'Europa una potenza con caratteristiche comuni forti e distinte, con la possibilità di costruire un Dna raccontato attraverso alcune delle caratteristiche che ho fin qui menzionato. È un Dna che ci accomuna, che ci fa sentire simili quando interloquiamo con le altre parti del pianeta, e in cui le differenze tra noi, anche se forti, alla fine vanno considerate con la stessa logica con cui abbiamo guardato nei decenni scorsi alle differenze all'interno delle nazioni. Perché sempre di più quello che differenzia uno spagnolo da un francese o da un italiano sarà simile a quello che nella nostra aneddotica differenziava un veneto da un sardo, un toscano da un siciliano. Ecco perché penso che il popolo europeo sia più avanti delle istituzioni europee, e la cultura europea sia più avanti delle istituzioni europee, perché la globalizzazione ha fatto passi da gigante nel mondo e automaticamente ha portato l'Europa ad avere una sua identità quasi obbligata. L'unico modo per dare ancora forza nel mondo alle singole identità di quegli Stati europei, che si erano spartiti il mondo fino a cinquant' anni fa, è l'Unione europea.
L'Europa ha poi una sua dimensione militare e di politica estera, in parte espressa e in buona parte inespressa, che ne fa un soggetto mondiale con grandi potenzialità. Laddove l'Europa è intervenuta negli ultimi anni ha sempre giocato un ruolo positivo. Ricordo la lezione drammatica della ex Iugoslavia, secondo me il turning point di una consapevolezza degli europei delle loro responsabilità nei confronti del mondo. Quel dramma è carico di omissioni, colpe, responsabilità dei genocidi che ricadono su tutti noi europei, che abbiamo assistito senza essere in grado di fermarli.
Ho impresse nella mente, in modo vivido, le immagini che ho vissuto stando accanto a Nino Anndreatta quando era ministro degli Esteri nel 1993 e 1994. Lui, europeista di impronta asburgica, non si dava pace per l'incapacità europea di fronte agli scontri fra serbi, croati, bosniaci. Mi ricordo che l'impegno per capire concretamente ciò che accadeva, e per mettere in campo soluzioni, era tanto più intenso quanto più dolorosa era la percezione delle colpe e dei peccati di omissione dovuti alla lentezza dell' azione di un'Europa unita a parole ma divisa nei fatti. Aveva fatto mettere nel suo ufficio una grande carta geografica dei Balcani, la studiava l' 11l' conosceva a memoria i risvolti storici, culturali, demografici.
Da quella vicenda passi avanti sono stati fatti. come. Oggi l'Unione europea dimostra una capacità di azione, e anche di azione congiunta, che fa guardare al futuro con ottimismo. Il caso del Libano è sotto gli occhi di tutti: gli europei, da soli, e con l'intervento determinante del governo Prodi, hanno portato a conclusione una vicenda molto complessa, che quindici anni fa sarebbe stata risolta con l'arrivo dei Marines.
Il fatto che siano gli europei a giocare questi ruoli è positivo. Ovviamente molto c'è da fare, perché su questo fronte l'Europa ha arrancato, e si lavora ancora senza la necessaria capacità di integrazione. In nuce però vediamo che anche questa è una caratteristica dell'Europa come potenza mondiale, del ruolo che essa può giocare nel mondo, perché non ho dubbi che rispetto alle altre potenze l'idea che in una parte del mondo in cui c'è una tensione, un conflitto, arrivino gli europei, è portatrice di maggiore potenzialità di soluzione del problema rispetto all'idea che arrivi il contingente cinese o il contingente americano. E credo che questo, in prospettiva, sia un tema che ci carica di responsabilità. Essere potenza mondiale in quanto Europa, volerlo essere, non soltanto perché si costruisce il G3 (il trinomio Usa-Europa-Cina), ma perché si hanno poi le responsabilità conseguenti, comporta appunto valutazioni, oneri, capacità d'integrazione, decisioni faticose. E qui le scelte di tagli alle spese militari che in questo 2010 ogni Paese europeo ha intrapreso per rispondere alla crisi finanziaria rischia di compromettere in maniera significativa questa assunzione di responsabilità.

Lucio Caracciolo: Se la domanda è quale sia la «natura della bestia», osserverei che non c'è una bestia, c'è un bio parco attrezzato in cui convivono una quantità di animali domestici, di varia taglia, con varie storie e varie ambizioni.
Partirei dall'Europa intesa come Unione europea, sottolineando che i termini non sono sinonimi. Nello spazio che geograficamente viene collocato sotto il nome Europa - dall' oceano Atlantico agli Urali _ incrociamo una cinquantina di Stati. Ventiisette sono oggi nell'Unione europea, sedici nell'euuro. Una buona metà degli Stati europei, a cominciare da diverse entità balcaniche per continuare con alcuni ex satelliti sovietici, per tacere di Vaticano, Norvegia, Svizzera e principati vari, non fanno parte dell'Unione europea.
Che cos'è oggi l'Unione europea? Oggi come ieri è ciò che gli Stati che ne fanno parte hanno deciso che sia. Codificandolo in trattati internazionali. Il Trattato di Lisbona è una sorta di testo unico di tali trattati. Non dobbiamo mai dimenticare la natura internazionalistica di questa strana costruzione. Non esiste un soggetto Europa che si autodetermina. L'Unione europea è determinata da chi ne fa parte. Un grande compromesso geopolitico fra entità sovrane. Le quali nei decenni hanno ceduto per contratto quote crescenti di sovranità a istituzioni comunitarie, e ora stanno cercando di recuperarne alcune parti per le vie brevi, politiche.
Questo processo non ha determinato alcuna potenza di alcun genere, ma ha contribuito a tenere in vita le grandi, medie, piccole potenze che ne fanno parte. E ha costruito un sistema di istituzioni, di relazioni più o meno regolate, che ha permesso al grande sconfitto delle due guerre mondiali, il continente europeo, di ritrovare insieme alla pace un invidiabile benessere. Questo non dobbiamo mai dimenticarlo. L'Europa è probabilmente l'area al mondo dove si vive meglio, tanto è vero che la gente vuole entrarci, non uscirne (salvo alcuni giovani cervelli che non trovano il posto di lavoro che meriterebbero).
L'Unione europea è dunque uno spazio pacifico, sviluppato, dotato di strutture molto radicate di welfare che oggi non siamo più in grado di sostenere nella misura cui eravamo abituati, soprattutto per causa del nostro declino demografico. Questa è la posta in gioco della crisi attuale, la vera materia di scontro.
La caratteristica di questo agiato quanto senescente bioparco è che coloro che ne fanno parte hanno deciso di mettere in comune alcune risorse, salvo poi rispartirsele fra loro - penso anzitutto alla politica di coesione - in base ad alcune regole e ai rapporti di forza che le interpretano. Risorse non ingentissime, in termini materiali: se guardiamo al bilancio europeo, equivale a quello della regione Lombardia. Molto più rilevanti in termini simbolici, almeno fra gli Stati dell'Eurozona, che condividono la moneta.
Questa è l'Unione europea, o se si preferisce l'Europa, che abbiamo. Quando passiamo a parlare di quella che vorremmo, o di quella che immaginiamo sarà, dobbiamo fare un salto logico.
Con questa premessa, per aiutare la discussione, vorrei accennare qui all'Europa che preferirei, ma che mi pare piuttosto improbabile. E partitamente a quella che mi pare probabile di qui a quindici,vent’anni.
L'Europa che vorrei dovrebbe essere anzitutto un grande spazio di democrazia, di libertà e di protezioni sociali nei limiti in cui demografia ed economia ce lo permetteranno. Sotto il profilo istituzionale, non penso a un'Ue-Stato. Vedo semmai diversi sottogruppi europei, alcuni più, altri meno integrati. I primi potrebbero sviluppare delle confederazioni europee, cioè degli Stati con diversi livelli di sovranità concordata, gli altri svilupperebbero l'integrazione attuale, approfondendone gli aspetti economici (per esempio riguardo alla mobilità della forza lavoro), a istituzioni politiche più o meno costanti.
Già adesso osserviamo alcuni Stati membri che tendono a convergere, a raggrupparsi in maniera informale, perché hanno più risorse in comune _ per esempio l'euro - e agiscono in maniera più coordinata rispetto ad altri Stati membri. Lo abbiamo visto anche sul fronte geopolitico in alcune gravi crisi recenti, come quella della Georgia, dove ci siamo divisi quasi spontaneamente sulla base dei rispettivi rapporti storici con la Russia. Ecco quindi che i baltici e i polacchi, e in quel caso anche gli ucraini che non fanno ancora parte dell'Unione europea, si schierano contro Mosca, mentre gli europei occidentali, in particolare francesi, italiani e tedeschi, ne accettano in buona parte le ragioni.
Esistono insomma per storia, percorsi commerciali ed esperienze economiche, prossimità geografiche, delle linee di convergenza o divergenza che ritagliano dei sottoinsiemi geopolitici. Se poi ventisette non è il numero finale ma prima o poi saremo trenta o trentacinque, queste spinte diventeranno ancora più forti. Penso che la formazione di gruppi o di nuclei all'interno dell'Unione europea sia l'unica forma di «approfondimento» (per usare il gergo brussellese) oggi possibile. Ciò che invece non riesco a vedere è, non dico l'unificazione politica a ventisette, ma nemmeno un'ulteriore integrazione nello spazio comunitario complessivo. Penso che sui gruppi o nuclei europei si giochi la partita geopolitica dei prossimi anni e decenni.
Se da italiano posso esprimere una preferenza, e immaginare dunque una vasta Unione europea come cornice economica e di stabilità che contenga in sé diverse Europe più o meno confederate, credo che dovremmo puntare a fondare un Euronucleo centrato sull'Europa occidentale, intesa come spazio di civiltà relativamente omogeneo. L'Europa che ha coltivato il seme dell' avventura comunitaria. Storicamente lo spazio di elezione della civiltà romano-germanica. Geopoliticamente ed economicamente, la parte più fortunata del continente, che dopo la seconda guerra mondiale si trovò sotto la protezione americana. Un insieme alquanto più omogeneo di quello disegnato dall'Ue a ventisette. Insomma, le ragioni che ci legano a Madrid o a Parigi non sono le stesse che ci legano a Vilnius o a Sofia.
Penso a una Confederazione europea nell'Unione europea, che comprenda i sei Paesi fondatori (Italia, Francia, Germania, Olanda, Lussemburgo e Belgio) più Spagna, Portogallo, Austria. Aggiungerei la Svizzera, se mai gli elvetici dovessero cambiare idea sull'Europa, cosa di cui dubito fortemente. Escludo quindi le isole britanniche, la cui storia si fonda sull'idea di impedire l'unità europea. Ed escludo anche nuovi o risorti Stati dell'Europa centrale e orientale, la cui priorità attuale non è l'integrazione comunitaria ma il consolidamento della recuperata sovranità nazionale. In termini diacronici, sono nazioni risorgimentali. Alcune delle quali ancora in cerca di confini stabili.
Fin qui la mia Europa ideale. Non impossibile, ma nemmeno probabile.
Passo ora dalla volontà alla probabilità. Credo sia probabile che nei prossimi anni e decenni non avremo meno ma più frontiere all'interno dello spazio europeo, e forse anche dentro l'Unione europea. Perché alla tabe originaria - un processo senza meta - si è aggiunta la difficile (di)gestione di nuovi soggetti sempre più eterogenei rispetto al gruppo di partenza. Inoltre, l'Europa mette in questione la stabilità geopolitica di alcuni Stati membri. Alcuni popoli europei - penso ai catalani piuttosto che ai fiamminghi o agli scozzesi - usano l'Europa come grimaldello per emanciparsi, in prospettiva, dai rispettivi Stati (multi)nazionali, o almeno per conquistare autonomie sempre più accentuate.
L'attuale crisi economica, che è sempre più una crisi sociale, rischia poi di mettere in questione il senso concreto degli Stati nazionali, a cominciare dal nostro. Quando i tedeschi riscoprono l'Euronucleo come insieme riservato ai Paesi connessi all'economia e alla cultura monetaria germanica, constatiamo che ne risulta rafforzata la tesi «padana» per cui il Nord Italia pertiene a questo spazio, il Sud niente affatto.
Ciò che abbiamo detto finora ci porta a concludere che l'Ue, avendo esaurito la spinta integrativa, sviluppi una forza centrifuga non solo fra gli Stati membri, ma alloro interno.
Non so fino a dove si spingeranno fra vent'anni i confini dell'Unione europea, se ancora esisterà. In ogni caso mi pare difficile che possa recuperare una funzione integrativa, mentre probabilmente si acccentuerà la tendenza opposta. Ne risulterà una geopolitica più complessa, quindi di più ardua gestione.
Altro che potenza mondiale, caro Enrico.
Noto di passaggio che il termine «potenza» è piuttosto eterodosso in Europa, tanto è vero che non viene quasi mai utilizzato. Anzi, l'Europa degli europeisti è una forma di temperamento delle pootenze europee, se non una negazione della stessa idea di potenza. Al massimo, si accenna all'Europa «potenza civile», dove l'accento cade sull' aggettivo e non sul sostantivo, a marcare la differenza tra l'Europa e gli Stati Uniti, la Russia o la Cina, che hanno una loro idea di potenza a tutto tondo. Ciò vale soprattutto per gli americani, dotati di una visione messianica del proprio ruolo nel mondo. Quanto di più lontano dal nostro modo di pensare.
Questo ci porta poi a trascurare il fattore militare della potenza. Anche ammettendo per puro gusto dell' argomento la nascita di un esercito europeo, chi lo comanderebbe? E per quali scopi? Un comandante francese, ad esempio, nelle guerre post jugoslave avrebbe schierato le truppe europee a fianco dei serbi, un tedesco avrebbe incitato i croati. N ella crisi georgiana, un comandante lituano o polacco ci avrebbe schierato a protezione di Tbilisi, un tedesco o un francese avrebbe coperto l'invasione russa. Se poi il comando fosse a rotazione, ammireremmo le nostre forze armate impegnate in manovre da Marina borbonica, avanti e indietro, a destra e a sinistra ...
Infine, vedo male francesi e britannici consentire a ciprioti, maltesi o soprattutto tedeschi di mettere il dito sulle rispettive valigette nucleari.

EL: Volevo aggiungere, proprio in fondo a questa discussione sulla «natura della bestia», che l'Europa è l'euro. Nel senso che a tutte le identità e a tutte le considerazioni che nei decenni hanno accompagnato l'idea e il racconto di che cos'è l'Europa e quali siano le sue caratteristiche, oggi se ne è aggiunta una particolarmente rilevante.
Nelle nostre vite il peso della dimensione monetaria, economica, commerciale è immenso. Non soltanto perché ognuno di noi 1'euro lo ha nel portafoglio, e non soltanto perché la moneta, insieme ai confini, alla spada e alla lingua è sempre stata la caratteristica fondante di un' entità statuale, di una comunità che si riconosce in quanto tale e delimita appunto i confini della propria appartenenza; ma anche perché in un' epoca di globalizzazione dell' economia, accanto alla moneta prevalente, cioè il dollaro, si è affiancata nel mondo un'altra moneta forte, l'euro. Esistono altre monete importanti, come la moneta cinese, quella giapponese, la britannica, la svizzera, però le due monete forti nel mondo sono il dollaro e l'euro, le monete che riescono ad avere influenza al di fuori dell' area nella quale sono tecnicamente utilizzate. E questo mi pare il concetto di moneta forte, nel senso che le altre sono forti perché sono l'espressione di un' economia forte, Cina e Giappone in particolare, ma l'influenza al di fuori dei confini geografici dentro i quali operano come divisa di scambio è sicuramente più ridotta. Quindi, l'euro costituisce un punto di riferimento cruciale. Ribadisco, l'Europa oggi è l'euro, e l'identificazione che questo comporta, l'identità nel racconto di cosa siamo oggi noi europei, ha aggiunto credo un elemento cruciale.
Questo dato è fondamentale, e va ben oltre gli alti e bassi della moneta nei corsi mondiali, ma è proprio un elemento di identificazione straordinario, che ha quasi più importanza simbolica rispetto a quella economica e commerciale, che pure è molto marcata. Noi abbiamo aggiunto al simbolo della geografia, quindi dei confini, quello della moneta, ed è ovvio che questo richiama la discussione attorno agli altri simboli, che sono appunto la lingua e la spada. Ma il passo avanti sulla moneta rappresenta un punto di non ritorno, perché oggi la moneta conta più della spada, cosa che non era un tempo.
Sarà la moneta che porterà la spada, e non viceversa.

LC: lo penso che alla fine non saranno né la moneta né la spada a determinare il futuro della nostra Unione europea, ma la politica, e prima ancora, la cultura. D'altronde l'euro è una decisione politica, non una necessità economica.
Questo mi riporta alla questione della democrazia. Perché alla fine le dimensioni spaziali dello Stato in cui vivo sono importanti, ma più di tutto mi interessa il carattere delle istituzioni. Il mio timore è che l'Ue finisca per delegittimare le democrazie nazionali - le uniche di cui disponiamo - senza produrre una democrazia europea.
Ne consegue che le decisioni sul nostro futuro europeo dovrebbero essere prese dalle democrazie nazionali e non dalle istituzioni comunitarie. Solo così supereremo l'esoterismo europeista e ancoreremo l'Europa ai suoi cittadini, non a chi presume di meglio interpretarne le necessità. Se per fare l'Europa dobbiamo negare il cittadino, tengo il cittadino e butto l'Europa.

Euro: dov' è l'errore?

LC: L'Europa è finita? No. Non è mai cominciata. A mezzo secolo dai Trattati di Roma, siamo ancora al work in progresso O peggio, in regress. Perché un' architettura eternamente incompiuta e senza progetto prima o poi tende a collassare.
Il punto di svolta è il 1989, quando ci facemmo trovare impreparati all' appuntamento della caduta del Muro. Invece di completare l'unione politica puntammo su una semi unione monetaria e su un faticoso e indefinito «allargamento». Nell'illusione, per alcuni, che l'euro avrebbe indotto l'Europa a tutto tondo. Nell'implicita rassegnazione, per altri, che con la cortina di ferro cadessero le ragioni strategiche che avevano tenuto insieme, in due blocchi separati ma fondati l'uno sull'altro, gli europei dell'Est e quelli dell'Ovest. E che nulla avrebbe potuto farne un soggetto geopolitico unitario. Dalla fine dell'Europa bisecata non sarebbe scaturita un'Europa unita, ma frammenti di Europa. Da allora, di Stato europeo non si parla più. O è solo retorica.
La mia tesi è che non esiste un rapporto sequenziale fra euro ed Europa, fra moneta e unione politica. Semmai il contrario: l'unione monetaria fra alcuni Paesi dell'Unione europea ha contribuito a liquidare le vaghe prospettive federaliste evocate da alcuni suoi padri, senza produrre un' alternativa. Oggi siamo meno europei di vent' anni fa. E quindi nel mondo contiamo meno. Sotto questo decisivo profilo geopolitico, l'euro ha fallito.
Eppure i nostri dirigenti politici parlano di Europa come se esistesse, e al nome aggiungono un predicato. L'Europa dice, l'Europa fa, l'Europa dovrebbe fare ... trascurando che l'Europa, dopo oltre mezzo secolo di «processo di integrazione», continua a non essere un soggetto politico. Euro o non euro. Non basta dare a Obama o a Hu Jintao il numero di telefono di Herman van Rompuy perché lo
chiamino.

La crisi greca ha svelato il bluff geopolitico codificato nel Trattato di Maastricht (1992). Contrariaamente a quanto gli europeisti ci avevano raccontato nei primi anni Novanta e talvolta continuano a raccontarci - con un sovrappiù di retorica che rivela la debolezza del loro argomento -l' euro non solo non era e non è l'anticamera dell'Europa soggetto politico, ma ne è la negazione. Perché non si costruisce una casa comune - la fantomatica «unione politica», mai definita nella sua architettura - partendo dal tetto - la moneta. È lo Stato che batte moneta, non viceversa. E l'euro non solo non ha uno Stato alle spalle, ne ha troppi. Ciascuno dei quali vincolato alle proprie storie, ai propri interessi, alle proprie politiche fiscali e di bilancio, alla propria cultura di politica economica e monetaria.
A Maastricht abbiamo azzardato un salto mortale mai tentato in passato. La storia dirà se fu coragggio o incoscienza. La cronaca di questi anni inclina verso la seconda ipotesi. La crisi dei debiti sovrani di alcuni Stati europei - parte della più vasta vicenda che riguarda anzitutto la principale potenza mondiale, gli Stati Uniti d'America, ma anche Gran Bretagna, Giappone e altre economie avanzate - ha messo in evidenza l'insostenibilità dello scalino che continua a separare moneta e politica nell'Eurozona. Uno scalino sempre più alto e pericoloso.
Perché, contrariamente a quella che parrebbe la logica, si è voluta fare l'unione monetaria senza fare contemporaneamente l'unione politica ed economica? Qui ci soccorre una succinta archeologia dell' euro. È vero che i progetti di moneta europea risalgono almeno agli anni Settanta, ma non avremmo l'euro senza il 1989. Il clic che ha condotto all' euro è stato l'unificazione tedesca, che ha riportato in evidenza le profonde differenze culturali, politiche e monetarie che dividono gli europei e che la guerra fredda aveva occultato, non superato. Soprattutto in Francia, ma anche in Italia e in quasi tutti i Paesi dell' allora Comunità - in modo addirittura parossistico in Gran Bretagna - in quegli anni si temeva che la Germania unificata diventasse una tale potenza politica economica e monetaria da dominare il continente. Alcuni, come il presidente francese Mitterrand, la signora Thattcher, lo stesso Andreotti, temevano che l'unificazione avrebbe risvegliato in Germania antiche e mai sopite vocazioni imperiali. Stavolta con il veicolo del marco, piuttosto che con i panzer. Di qui l'idea che la Germania dovesse pagare un prezzo all'Europa per la sua unificazione e che questo prezzo fosse il suo asset strategico, la Deutsche Mark. Insieme alla Bundesbank. Il marco era la moneta europea di fatto, la Bundesbank era la Banca centrale europea di fatto.
Contro l'opinione di chi - in Italia se non ricordo male era Andreatta a sostenerlo - riteneva che tutto sommato la soluzione migliore per l'Europa sarebbe stata di battezzare tout court il marco tedesco come moneta europea. Ma all' epoca la germanofobia galoppava e non se ne fece nulla.
Sicché noi europei occidentali, francesi in testa, imponemmo alla Germania di cedere il marco Ðche la maggioranza dei tedeschi voleva conservare perché significava benessere e nuova identità per un popolo atterrato dalla catastrofe del nazismo - e di coprodurre insieme a noi una valuta chiamata euro. Dopo molte incertezze e mal di pancia, il canncelliere Kohl accettò. Con il retropensiero che graazie al mercato di capitali attratto dall' euro la Gerrmania avrebbe pilotato lo sviluppo dell'Europa centrorientale. In nome dell'Europa. Come sempre, l'Europa e il presunto «interesse europeo» serrvivano da foglia di fico dell'interesse nazionale. Infatti la Germania non pensava a un euro per tutta l'Europa - roba da europeismo ingenuo - quanto a una moneta dell' area del marco: un vestito europeo per la moneta tedesca. Per questo Kohl negoziò tanto scrupolosamente i «criteri di Maastricht», che non erano genericamente economici ma riferiti alle politiche di bilancio degli Stati da ammettere nell'Eurozona, a cominciare dai rapporti deficit-PiI e debito-Pil. Chi non rispondesse ai criteri «virtuosi» tipici della consolidata prassi germanica nella gestione della moneta e dei conti pubblici avrebbe trovato la strada all'euro sbarrata. Un ulteriore retropensiero era che grazie a questo approccio «germanico» si sarebbe potuto sopperire alla mancanza di una politica di bilancio concordata fra i Paesi membri, di cui fosse responsabile un'autorità poliitica sovranazionale - l'Europa che non si voleva o poteva creare.
Accettammo poi che sorgesse una Banca centrale europea intesa come done della Bundesbank, non
per caso insediata a Francoforte, e con una cultura di politica monetaria strettamente tedesca. Ossia monomaniaca del contenimento dell'inflazione sottto il2%, a prescindere dalla congiuntura economica, sociale o politica dei vari Paesi.
In questa visione tedesca dell' euro era incorporata l'idea che se la Germania doveva pagare agli altri europei il prezzo della loro paura per la sua presunta vocazione imperiale cedendo loro i due massimi beni pubblici - marco e Banca Federale - in cambio gli altri europei dovevano accedere alla cultura monetaria tedesca. Una rivalsa per le altrui germanofobie, sotto forma di clausola di esclusione dei Paesi «viziosi» dal privilegio dell' euro, senza la quale Kohl non avrebbe potuto vendere l'euro al suo riottoso pubblico.
Su questo la Germania combatté e perse la sua battaglia geopolitica ed economica. Quella intorno a chi avesse diritto all' euro e chi no. Perse sia perché spagnoli e italiani alla fine decisero che pur di non essere emarginati dall' euro avrebbero fatto ogni sacrificio utile a far parte del drappello fondatore dell'Eurozona, sia perché la Germania si scoprì molto meno «virtuosa» di quanto immaginasse, anche perché nel frattempo aveva scoperto che il fardello dell' ex Rdt era molto più pesante del previsto.
Certo nessuno a Berlino immaginava che la dracma potesse maritarsi al marco per generare l'euro, e molti dubitavano dell' ammissibilità della peseta e della stessa lira. Se riprendiamo in mano i giornali tedeschi o olandesi della seconda metà degli anni Novanta, quando si dibatteva del diritto di questo o quello Stato di entrare nell'euro, vi troviamo gli stessi stereotipi che corrono di nuovo oggi, sull'onda della crisi partita dalla Grecia: PIGS (Portogallo, Italia, Grecia e Spagna = maiali), Club Med e altre simpatiche definizioni di stampo antropologico. Categorie irrazionali ma potentemente radicate nelle opinioni pubbliche e nelle élite, che illustrano il presunto carattere dei vari popoli, echeggiando le teorie di Schumpeter sulla cultura monetaria come espressione della cultura nazionale. Quindici anni dopo, senza dracma né peseta né lira ma con l'euro in mano, siamo ancora a questo genere di polemica etnomonetaria. Un razzismo soft. Alla faccia dell' affratellamento europeo che l'euro avrebbe inevitabilmente generato.
Nella crisi attuale riscopriamo queste antiche «categorie». In particolare, riscopriamo la paura e insieme la ripugnanza tedesca ad accettare lo scadimento dell' euro/marco ideale a un vincolo monetario che obbliga i più forti (e virtuosi) a soccorrere i più deboli (e scorretti): un'unione per il trasferimento della ricchezza dai migliori ai peggiori. Che indurrebbe le cicale a succhiare il sangue delle formiche. In assenza di un potere politico legittimato capace di produrre e imporre una sola politica economica pubblica per tutti coloro che battono e usano l'euro. La famosa Europa, quella vera.
Oggi riscopriamo la tabe originaria dell' euro.
Non tanto il fatto che non corrisponda a un'area valutaria ottimale nel senso di Mundell. Semmai, il fatto che non sia sorretto da un potere sovrano. Ecco quindi riemergere la vecchia tentazione tedesca dell' euromarco, una moneta che esprima un' area economica omogenea, quella tedesca e dei suoi satelliti: Benelux, Francia (per ragioni soprattutto geopolitiche), Austria e forse qualche Paese dell'ex Est, come la Slovacchia. TI grande punto interrogativo resta l'Italia.
In conclusione, per il futuro vedo tre possibilità: o adeguiamo l'euro alla non-Europa attuale, ossia ne celebriamo il funerale e cerchiamo di pilotare il passaggio ad altre monete senza eccessivi traumi (improbabile); oppure adeguiamo questa non- Europa all'euro, creando le istituzioni politiche ed economiche per il governo dell' euro, insomma facciamo davvero l'Europa (altrettanto o più improbabile?). La terza e meno azzardata ipotesi è che ci rassegniamo a gestire queste crisi croniche, finché non ne scoppierà una che non sarà più semplicemente la ripetizione delle precedenti, ma uno choc tale da costringere alcuni Paesi a uscire dall' euro o a rifondarlo. In tal caso i forti cercherebbero di rivalersi sui deboli, ma non è detto che ci riuscirebbero. Mentre è scontato che si tratterebbe di un trauma dalle conseguenze non immaginabili.

EL: Penso che la nostra analisi debba partire da due punti fermi. Il primo è che l'euro è stato un successo superiore alle aspettative. Il secondo è che, a differenza di quello che tu ritieni, l'euro è l'anticamera dell'unione politica. Ed è l'unica anticamera possibile. Perché all'unione politica non si potrà mai arrivare, e non si arriverà, per semplice volontarismo dei governi, che su questi temi si muovono soltanto sull'impeto dell'urgenza e della necessità. Così come l'Europa è nata dopo la guerra, e per via della guerra; così come l'euro è nato dopo la riunificazione tedesca e la fine del muro di Berlino; allo stesso modo, l'unione politica non può che nascere dalla crisi, dalla grande crisi finanziaria a causa della quale l'Europa rischia di implodere proprio quando sulla scena mondiale è nato il G2, che sta spettacolarmente sostituendo il G8 e il G20.
C'è un'immagine divertente evocata da Chris Patten. Riprendendo uno dei simboli tipici della Guida Michelin - che quando c'è un posto particolarmente bello da vedere mette un simbolino con la scritta «vaut le voyage» -, Patten segnalava che per Obama, che in questi mesi ha viaggiato ovunque, Bruxelles «ne vaut pas le voyage», vale a dire che Obama ha preferito affrontare tutti i vertici possibili e immaginabili con chiunque, cinesi in testa, piuttosto che andare a Bruxelles a incontrare una sfilza di personaggi, ognuno dei quali si dice il rappresentante dell'Europa, chi perché presidente di turno, chi perché presidente del Consiglio, chi perché presidente della Commissione e chi perché alto rappresentante per la politica estera comune.
Allora, è proprio di fronte alla crisi evidente dell'Europa che dall' euro può nascere l'Europa politica, perché ci si rende oggi conto che questo passo è essenziale e inevitabile.
Voglio approfondire questi punti.
Primo. L'euro è stato un successo, e lo è stato al di là delle aspettative, innanzitutto per la capacità di integrazione e di unificazione che ha avuto. In questi anni ha funzionato tra i Paesi che lo hanno adottato e ha fatto conquiste. Se il meccanismo di allargamento ha portato a sedici - e con l'Estonia a diciassette - i Paesi in cui circola l'euro, questo è segno di successo. In questo decennio, la moneta europea ha vissuto a pari livello con il dollaro. Anzi, è cresciuto in modo significativo, e in molti Paesi terzi si è richiesta l'interlocuzione con l'euro come possibile contraltare a un mondo che non si vuole unipolare, ma multipolare. Il ruolo globale dell' euro è una caratteristica di questo mondo articolato. E anche l'altalenante valore della moneta rientra in dinamiche fisiologiche. Lo stesso attuale deprezzamento può avere effetti benefici sulla ripresa dell'industria europea.
Anche tecnicamente l'euro ha funzionato. Molti pensavano che sarebbe stato complesso farlo funzionare, invece non è stato così, e anche la Banca centrale europea ha dimostrato ottime capacità. La sua gestione durante la crisi economico-finanziaria è stata di gran lunga migliore rispetto a quella della Federal Reserve. Se si deve fare un paragone tra le performance sulle due sponde dell' Atlantico, sulla politica vincono gli Stati Uniti, ma sulla moneta vince l'Europa: voglio dire che la Bce batte la Federal Reserve, mentre il governo americano batte i governi europei sulla capacità di risposta e rilancio. E in fondo siccome la crisi ha le proprie origini nel sistema economico americano, non in quello europeo, non dimentichiamo che fino alla crisi, l'euro ha imposto ai Paesi il giusto mix tra rigore e sviluppo. Ha tenuto sotto controllo i conti pubblici di diversi Paesi. Il meccanismo del vincolo esterno ha funzionato. L'Italia in questo è emblematica. Perché la nostra esperienza storica, a partire dal ventennio fascista, ha reso difficile e complicata la legittimazione di uno Stato forte. Il vincolo esterno non solo ci ha consentito di risanare i conti e di entrare nell' euro. Ha modernizzato il nostro sistema normativo in una miriade di aspetti. Prendiamo il caso delle norme ambientali. Tutta la legislazione italiana in questo ambito deriva dall' applicazione di direttive e regolamenti comunitari. Se non fossimo parte dell'Unione europea non esito a pensare che ci ritroveremmo con gli stessi tubi di scappamento che si incontrano nelle strade delle megalopoli del terzo mondo.
L'euro è stato attaccato duramente dall' opinione pubblica e da forze mediatiche e politiche che ne hanno raccontato gli effetti nefasti sul potere d'acquisto dei consumatori. Spesso e volentieri è stato indicato come la causa di molti guai delle famiglie italiane, francesi e di altri Paesi. Quest'immagine è stata un duro colpo, perché in parecchi Stati, Italia in testa, il passaggio del change aver è stato gestito dal governo in carica in modo superficiale e sciatto, senza mantenere l'obbligo della doppia prezzatura per un periodo considerevolmente lungo, cosa che con buone probabilità avrebbe diminuito le spinte speculative.

Tutte queste cose messe insieme mi fanno pensare e dire che l'euro, nel decennio che abbiamo alle spalle, è stato un successo, forse la più grande realizzazione dell'Europa. Sicuramente l'euro racconta al mondo un'unità maggiore di quella realmente esistente, e siccome nel mondo, come nella politica e nella società, i simboli contano, arrivo a dire che la moneta comune ha in un certo senso sostituito l'esercito: invece dell' esercito europeo, oggi abbiamo l'euro, simbolo della capacità di rappresentanza e di identificazione; un totem, appunto, attorno al quale gli europei possano sentirsi tali.
Secondo punto. L'euro è l'anticamera della futura unione politica perché, rispetto alla crisi, rende evidenti quali sono i termini della questione: o si abbandona la moneta unica e si torna alle monete nazionali, e quindi ai singoli Stati membri, facendo dell'Unione europea un' area di libero scambio dunque andando indietro su molte conquiste di questi anni - oppure si va avanti. Ma andare avanti vuol dire che oggi siamo di fronte a questa alternativa secca solo perché c'è l'euro. Se l'euro non ci fosse stato non ci troveremmo di fronte a questa scelta.
L'agenda che oggi vede al primo punto la necessità di fare passi avanti sull'unione economica e politica sicuramente sarebbe diversa, perché ogni governo ha di fronte tutta la sua opinione pubblica, che è anche il suo elettorato. Lo si è visto nei tentennamenti drammatici del cancelliere tedesco. C'è una differenza abissale tra quello che abbiamo visto quindici, venti anni fa, quando l'elettorato e la pubblica opinione tedesca, allora come ora, invocavano prudenza, ma la capacità di guida e la leadership del cancelliere di allora, Helmut Kohl, modificò i fatti della storia. La prudenza dell' attuale cancelliere, invece, ha prodotto effetti opposti.
Per opinioni pubbliche disorientate e spaesate sono molto più importanti le immagini della Grecia, come anche le notizie del clima di austerità inedito negli altri Paesi europei, che i discorsi di professori o accademici o anche astratti ragionamenti di banchieri e leader politici. Quelle immagini dimostrano che il partecipare a una moneta importante, insieme ai vantaggi che offre, richiede anche un rigore nei comportamenti; è come far parte del condominio di un palazzo nel quale ci sono delle regole, si gode dei beni comuni, però bisogna anche rispettare le regole, altrimenti salta tutto. E il rischio di essere espulsi dal palazzo e abbandonati in strada è evidente. I greci lo hanno vissuto sulle loro spalle, rischiamo di riviverlo su quelle di altri, perché in questa fase siamo tutti sotto scacco.
Mi sembra che la nostra conversazione debba partire da un chiarimento o da una discussione dialettica proprio su questi punti.

LC: Seguo volentieri la tua proposta. Sul primo punto sono d'accordo. Il successo «tecnico» dell'euro è andato al di là di molte aspettative. Ricordo che quando l'euro nacque, molti autorevoli commentatori ed economisti ne prevedevano il rapido affossamento. Ricordo la battuta di un noto socioologo tedesco: «Tenete ancora gli stampi della lira perché vi serviranno presto». Tra gli indicatori del successo «tecnico» che tu non hai citato ma mi sembra importante evocare, il fatto che l'euro, in qualche misura, sia diventato una moneta internazionale di riserva. Il dato interessante, a conferma che spesso in questi progetti domina l'eterogenesi dei fini, è che l'idea della valuta di riserva non era certamente tedesca. Mentre era sicuramente (ora non più, credo) lo spauracchio degli americani, i quali vedevano nell' euro una minaccia all' egemonia globale del dollaro. Gli Stati Uniti fecero di tutto per sabotarlo durante la sua gestazione. Fecero sapere agli alleati europei che il progetto non li convinceva affatto. E appoggiarono coloro che nei vari Paesi europei erano avversi all' euro. Ma questo relativo successo della moneta non ha affatto prodotto un maggiore integrazione europea. E vengo così al tuo secondo punto.
L'argomento principe dell' europeismo classico prevede il passaggio graduale dall'unione economica, e quindi dal mercato unico, alla moneta unica. E di qui verso qualcosa di imprecisato chiamato «unità politica» perché la parola Stato fa paura. Esattamente quanto non è accaduto.
Mi sono sempre chiesto come fosse possibile affidarsi a questo curioso determinismo paramarxista

per cui dalla struttura economica procede la sovrastruttura politica. E soprattutto: com'è possibile che si continui a parlare di Europa senza volerla fare? La risposta temo sia semplice: non esiste oggi un'idea condivisa di Europa, ma tutti hanno paura di chiamare il bluff. I nostri leader non vogliono ammetterlo, perché in fondo anche le non-idee hanno una loro inerzia, specie quando si materializzano in formidabili strutture e in carriere invidiabili. Che siano autoreferenziali interessa meno.
Il paradosso è che almeno fino a qualche tempo fa esisteva in molti Paesi europei un' opinione pubblica disposta all'Europa. Allo Stato europeo, federale o confederale che fosse. Erano semmai i leader a non crederei, o a crederci nei discorsi della domenica. E questo fin dall'inizio dell'impresa comunitaria. È la radice economicista ed elitista - dunque antidemocratica - che alimenta l'idea di Europa dal secondo dopoguerra almeno fino al 1989. E che produce il suo ultimo urrà con l'euro. Un'Europa per non con gli europei, elaborata da un club di ottimati nei loro inaccessibili laboratori.
Quell' europeismo si considerava figlio di una fii10sofia della storia che avrebbe prodotto l'Europa per surrogazione tecnocratica, non per effetto di una scelta politica discussa e condivisa, ritenuta impossibile. Un tentativo titanico, che meriterebbe un' analisi aperta e approfondita, invece dei mascheramenti che tuttora lo occultano. Un orizzonte talmente astratto dalle dinamiche storiche da contenere in nuce le premesse della sua irrealizzabilità. O meglio della produzione di tutt'altro, di istituzioni comunitarie regolate per trattato internazionale che convivono, sempre più subordinate, con gli Stati che avrebbero dovuto superare e che invece tendono sempre più a dominarle. L'opposto dell'ideale europeo «puro», inteso come sovranità che si legittima in sé e per sé. Questa è l'essenza dell' europeismo come l'abbiamo finora conosciuto e che sopravvive alla sua morte cerebrale, avvenuta partorendo l'euro senza Europa. Il fallimento di quell'ideale rivoluzionario - un vero e proprio assalto al cielo, chiamato Europa - ha favorito il processo di disintegrazione europea reso più visibile dalla crisi greca, ma in atto da almeno vent'anni. Ossia da quando non siamo riusciti a metterei d'accordo su come rispondere alle sfide geopolitiche e culturali del dopo guerra fredda. E abbiamo pensato di surrogare un progetto geopolitico con una moneta. Che poi avrebbe dovuto produrlo.
In occasione del ventesimo anniversario della caduta del Muro, Carlo Azeglio Ciampi ha lucidamente ammesso la morte dell' europeismo, di cui egli è stato uno dei più appassionati araldi. «Dietro quelle pietre che cadevano [ ... ] si può amaramente rilevare che si è finito per infrangere il sogno degli Stati Uniti d'Europa. Per chi, come me, ha sempre vagheggiato un'Europa che si confrontasse alla pari con l'America, che avesse gli stessi poteri, una chiara sovranità dominante su quelle nazionali, occorre prendere atto che la caduta di quel muro ha significato la fine dell'ideale europeista unitario».
Non solo l'europeismo unitario è finito, ma quella stella spenta ha prodotto un fuoco di artificio di pseudoeuropeismi, ossia di «europeismi» strumentali, dove l'invocazione dell'Europa serve solo specifici interessi nazionali o subnazionali. Quando non corporativi o addirittura privati. Un sedicente europeismo che non produce l'Europa è di fatto un antieuropeismo.
L'impatto dell'europeismo-zombi con le concreete sfide geopolitiche e culturali espresse nei diversi contesti e nelle diverse storie europee - perché non vi è una, ma tante storie europee, o almeno tante diversissime idee di una storia che ciascun europeo concepisce a suo modo - ha rianimato il sabba dei nazionalismi, dei regionalismi, dei particolarismi. Senza nessuna regia europea. Tanto che sessant' anni dopo lo sbarco in Normandia sono stati ancora una volta gli americani a spiegare agli europei - o meglio Obama alla Merkel- che cosa si dovesse fare per evitare che l'incendio greco si propagasse al resto d'Europa e del mondo. Senza il pressing di Obama durante il vertice europeo del 9 maggio, probabilmente il cancelliere tedesco non avrebbe convinto la recalcitrante Bundesbank - il cui presidente potrebbe presto diventare presidente della Bce - ad accettare il principio rivoluzionario di una Bce che, sia pure sul mercato secondario, promette di mettersi in pancia i titoli dei Paesi più problematici in nome della salvezza della nostra moneta.

Ma torno al punto: la logica paradossale dell' europeismo. Ora ci sono diverse analisi, piuttosto fondate, che vedono nell' europeismo la maschera che gli Stati nazionali usano da oltre mezzo secolo per meglio proteggere i rispettivi interessi e la loro stessa residua sovranità. E fin qui nulla di sorprendente, per chi non viva arrampicato su un albero.
Trovo invece straordinariamente affascinante e originale il ragionamento dell' europeismo «alto». Quello che nonostante tutto continua a crederci davvero. O almeno non sa rinunciare a credere. Questi, più che rispettabili politici e pensatori, mi ricordano Tertulliano: credo quia absurdum. È una fede. Una fede, per me paradossale, nelle virtù salvifiche delle crisi. La tesi: dobbiamo stare molto male per diventare buoni. Più costruiamo meccanismi imperfetti -1' euro senza Europa -, più ci costringiamo a perfezionarli. A questo può portare la sfiducia degli eletti nei cittadini europei, o futuri tali.
Soffrire fa bene all'Europa? Non condivido. Confesso di non essere obiettivo nella mia analisi, perché il cilicio continua a sembrarmi una forma di perversione anziché un veicolo di perfezionamento. Dunque non mi convince la teoria dell' europeismo classico, fondata sulla speranza nell'effetto maieutico delle crisi.
Tu stesso hai citato l'esempio della seconda guerra mondiale o dell' attuale crisi economica. La crescente consapevolezza del deficit politico dell'Europa prodotta dalla crisi dell' euro sarebbe destinata a produrre più Europa. Mi pare un'idea catastrofica. In senso tecnico.
Per me le catastrofi sono catastrofi, le crisi crisi.
Punto. E non sono affatto certo che mi o ci migliorino. Tanto meno che facciano l'Europa. È semmai durante le crisi che emergono i nostri lati peggiori: nefandezze collettive talvolta riscattate dall' eroismo di pochi. Egoismi, diffidenze, chiusure, tentazione di scaricare sui più deboli i problemi dei forti (e viceversa). In ogni caso, anche se la teoria delle catastrofi potesse un giorno molto futuro rivelarsi corretta e dunque produrre davvero l'Europa, preferirei non rischiare l'esperimento. Invoco il principio di precauzione.
A tale principio generale dell'europeismo classico quello nostrano aggiunge un prezioso codicillo: il vincolo esterno. Tu ne hai fatto le lodi. lo non ci riesco proprio. Anzi, lo considero la tabe nazionale. Un riflesso pericoloso perché fondato sulla radicale sfiducia in noi stessi. Nell'Italia e negli italiani. Ma se non siamo capaci di governarci da soli, in che senso saremmo una repubblica e una democrazia?
Se non ci fidiamo di noi stessi, dobbiamo per forza cercare qualche soggetto esterno che abbia tempo da perdere con l'Italia, per eterodirigerla.
Così è stato durante la guerra fredda con gli Stati Uniti, sul piano strategico, e (molto meno) con la Comunità europea, sul piano economico ma soprattutto come orizzonte ideale. Ma se abbiamo una tale idea di noi stessi, come possiamo sorprenderci se poi i tedeschi ci annoverano tra i Pigs o se i francesi dal sopracciglio perennemente alzato ci ricordano la differenza di legittimazione ed efficienza tra il loro Stato e il nostro?
Ci poniamo volutamente in una condizione di inferiorità che non ci permette di essere percepiti come pari da chi si considera al cuore del progetto europeo. Ciò rende paradossale il nostro europeismo, perché è tanto più spinto quanto più grave è la sfiducia in noi stessi. È l'esatto contrario dell'idea di Europa dei Paesi più forti: l'Europa come moltiplicatore della propria potenza, non come compensazione della propria impotenza.
Il vincolo esterno è la dichiarazione di non-europeità dell'Italia.
Sul piano pratico, se il vincolo esterno può aver prodotto qualche risultato utile, costringendoci ai sacrifici necessari a non essere esclusi dalla prima ondata dell' euro, oggi mi pare abbia esaurito la sua funzione. In questo clima di disincanto dell' opinione pubblica rispetto alle idee europeiste, e di assenza di un progetto europeo, proporre ad esempio una tassa sull'Europa in nome dell'Europa mi parrebbe velleitario.
Se l'Italia vorrà avere un ruolo di rilievo in Europa nei prossimi anni, dovrà prima di tutto occuparsi di se stessa, recuperando un'idea sufficientemente forte di unità nazionale. Non possiamo pensare che l'Italia venga surrogata, o addirittura sublimata, da un'Europa che oggi non c'è e da Stati partner che hanno sufficienti problemi propri per occuparsi anche dei nostri.
Purtroppo non mi pare che nel nostro Paese ci sia sufficiente consapevolezza di ciò. Continuiamo a riprodurre questo stato di minorità geopolitica e psicologica, sperando che ci sia sempre qualche mamma Europa o mamma America a salvarci da noi stessi.
Come possiamo rimediare? In primo luogo, torrnando a essere interessanti per noi stessi. Dobbiamo riscoprire le ragioni per cui abbiamo bisogno di uno Stato che non sia semplicemente la somma algebrica delle sue componenti funzionali. C'è un vantaggio comune ad appartenere all' edificio Italia. Ma non possiamo darlo per scontato, pensando di cavarcela con la retorica e con le parate militari. O vagheggiare il cosiddetto federalismo. In un Paese dove efficienza e legittimazione dello Stato non solo sono storicamente deficit arie ma decrescenti, parlare di federalismo significa lavorare per lo smantellamento di quel poco di istituzioni comuni di cui ancora disponiamo. Significa produrre un patchwork di regioni semi-indipendenti molto dissimili tra loro sotto ogni profilo, che dovrebbero essere tenute assieme miracolosamente da un centro sempre più delegittimato. E come per l'europeismo, il federalismo all'italiana non esprime un progetto. Non vuole esprimerlo, per non doversi confrontare con un paradigma.
Il paradosso è che invece di utilizzare lo slancio europeo per costruire un'Italia che si tenga in piedi con le proprie gambe e dia, in quanto tale, un proprio contributo alla costruzione dell'Europa, con il mito del vincolo esterno abbiamo contribuito a decostruire quel poco che rimane del nostro Stato democratico.

EL: La vicenda greca è indicativa del fatto che l'Europa è di fronte a un bivio e così non può più andare avanti. Perché in Grecia, quello che è clamoroso non sono tanto le proteste di piazza e le difficoltà di oggi, quanto l'incapacità, - vuoi per scarsa volontà politica, vuoi per assenza di regole - del guardiano europeo di fare l'azione giusta di prevenzione, perché la classe politica greca non compisse le nefandezze che ha compiuto. Mi riferisco, anzitutto, alla Commissione. Questo è il punto essenziale, perché com' è possibile - oggi lo dicono tutti, ma è l'esito di un processo avvenuto negli ultimi tre-quattro anni - che a un Paese, che ha la nostra stessa moneta e se lascia bruciare la propria casa brucia tutto il condominio, sia permesso di aumentare del 30% gli stipendi dei dipendenti pubblici, come è avvenuto prima di ogni consultazione elettorale degli ultimi anni? Ho citato solo un piccolo caso, sul quale non mi risulta che ci sia stata da parte di Bruxelles la capacità di intervenire per fermare quanto stava accadendo. E ancora, com'è immaginabile che un Paese possa truccare i conti e trasmettere cifre sbagliate a Bruxelles? Ed è immaginabile che Bruxelles «si beva» tali conti e non riesca a bloccare questa deriva?
Qui, secondo me, entra in campo la questione fondamentale e cioè che siccome il condominio è comune, non è semplicemente ammissibile che ognuno sia padrone a casa propria senza che vi sia una capacità di gestione comune del condominio.
Perché quello che è successo con la Grecia è la dimostrazione che, in alcuni anni, in quel Paese sono state dilapidate risorse pubbliche senza che Bruxelles fosse in grado di intervenire. Gli effetti sono stati drammatici per ognuno di noi. È evidente che l'Europa così non può andare avanti, perché gli strumenti politici a disposizione non sono sufficienti e la tecnocrazia non è in grado di supplire. Perché scelte come queste potevano avvenire quando non avevamo la stessa moneta, ma oggi, con la stessa moneta, il virus e il contagio sono arrivati direttamente a noi.
Ecco perché penso che questa vicenda obblighi al salto in avanti. Quanto alle considerazioni di tiipo etnico, genetico e via dicendo, vorrei osservare che, ad esempio, fra un trentino e un calabrese ci sono differenze profonde. Penso che proprio noi italiani, abituati a differenze così forti, possiamo essere il paradigma di che cosa significhi convivere dentro un'unica entità federale, perché noi dobbiamo creare un'Unione federale, a livello europeo, sapendo che dentro questa Unione abbiamo fatto convivere Trento, Cagliari, Santa Maria di Leuca, Trapani ... Questi sono punti di confine diiversi e lontani che convivono dentro lo Stato italiano, con la stessa lingua italiana, luoghi in cui tutti devono scegliere se votare Berlusconi o Prodi, Berlusconi o Veltroni o, domani, Fini o Bersani. Chi in Italia vive a Varese, ha il doppio del reddito pro capite di chi vive in Calabria, e questi sono due tra i punti mediamente più alto e mediamente più basso che ci sono in Europa. Certo, ci sono punte più basse e punte più alte, ma non esistono altri Paesi europei dove la distanza è così marcata come quella che c'è in Italia. Se la viviamo da noi, perché non si può viverla in Europa? Lo dico perché la Grecia e la Germania sono antitetiche, ma proprio per questo io credo ci sia bisogno di una capacità di guida politica centrale in grado di obbligare ognuno a seguire le regole, sapendo che infrangerle può causare disastri.
Ci ricordiamo dei francesi e dei tedeschi nei primi anni Duemila? Ci ricordiamo ancora della notte del 24 novembre 2003, quando la Presidenza italiana dell'Ue salvò francesi e tedeschi dalle sanzioni per eccessi di disavanzo che la Commissione avrebbe dovuto imporre loro?

LC: Secondo te non era giusto? Per immaginare l'Italia che sanziona Francia e Germania in nome dell'Europa bisogna aver assunto una certa dose di allucinogeni.

EL: lo penso che una parte della crisi di oggi sia figlia di quella decisione. Perché quella decisione ha minato la credibilità del patto di stabilità europeo. Il patto di stabilità da quel momento non è stato più lo stesso, perché quando si è capito che quel Patto poteva valere per la Grecia, o per il Portogallo, ma non valeva per Francia e Germania, a quel punto la Grecia si è ritenuta libera di non osservarlo.

LC: Vuoi sostenere che qualcuno abbia mai preso il patto di stabilità sul serio, cogente ed equivalente allo stesso titolo per lussemburghesi, greci, italiani e tedeschi?

EL: Sì. Perché se fino ad allora la Grecia 'si era mantenuta mediamente virtuosa, da quel momento in poi si è sentita svincolata, ritenendo che quelle regole non esistessero più. Parte della crisi, dunque, nasce con gli atteggiamenti di francesi e tedeschi e con la decisione della presidenza italiana, che fu profondamente sbagliata. Detto ciò, non ho dubbi che ci siano questioni genetiche, differenze di vario genere, ma penso che possano assolutamente convivere, a maggior ragione oggi che siamo tutti più abituati alla complessità. Viviamo in un mondo articolato e orizzontale, anche per via della Rete, nel quale stiamo imparando a far convivere differenze e multipolarità. E io penso che tutto questo possa tranquillamente convivere dentro un' entità federale europea in grado di rafforzare la sua dimensione unitaria. Non penso che sia qualcosa di ineluttabile; non è la parola giusta, penso che la parola giusta sia «missione», la missione dell'Europa nel mondo.
Vogliamo far continuare il declino dei nostri Stati, che per secoli hanno dominato il mondo, quando il mondo era diviso tra francesi, britannici, spagnoli? Oggi possiamo scegliere di far andare avanti questo declino e far durare ancora un po' una situazione di relativo potere e di influenza, oppure possiamo farcene una ragione - e io credo che una classe dirigente matura se ne farà una ragione - e rilanciare attraverso l'unica modalità possibile: l'Europa. Perché di fronte alla Cina, all'India, agli Stati Uniti, l'unica dimensione possibile per noi è quella europea, che ci consente di mantenere identità e tradizione e di sublimarle dentro una tradizione, l'unica che ci permette di stare nel mondo avendo voce per starci. Altrimenti ogni Paese avrà una voce sempre più flebile. Noi italiani avremo alcune cose che nessuno ci toccherà mai - l'archeologia, la lirica, qualche punta di eccellenza nell'industria - dopo di che rischieremo sempre più di essere in declino. L'Europa, e il vivere dentro questa giusta dimensione, ci consente di arrestare questo declino.

LC: Credo sia giusto spendere una parola in difesa di Bruxelles. Troppo facile sparare sulla Commissione. Non ci sto. Intanto, ricordiamo che cos'è questa Commissione. Un organismo pletorico composto da politici di non primissima scelta, spesso presieduto da un ex leader di un Paese non decisivo, espresso dai leader nazionali in carica. I commissari non sono né eletti né filosofi. I leader che li scelgono li trattano da segreteria tecnica. Da funzionari. E vogliamo addossare loro le colpe di ciò che non va nell'Unione europea?

Ora, nel caso greco è evidente che la Commissione ha le sue colpe, perché ha avallato i bilanci truccati della Grecia di Karamanlis (e non solo). Ma i conti pubblici non sono di marmo, non più di quanto lo siano i bilanci delle aziende private. La differenza è fra trucchi indecenti e aggiustamenti accettabili, non fra Bene e Male. Est modus in rebus, un latino che i greci hanno dimenticato.
Sarebbe interessante analizzare come funzionano i meccanismi statistici all'interno dell'Unione europea. Eurostat in realtà è il recettore, con qualche correzione, dei dati prodotti dagli istituti di statistica nazionali. Dei quali alcuni sono effettivamente indipendenti e rigorosi, come l'Istat, altri molto meno. Un ministro dell'Economia greco può manipolare i dati, uno italiano no. Come si possano derivare grandezze omogenee da culture statistiche, tecniche e input politici diversi in un universo a ventisette, mi riesce difficile capire.
La Grecia poi, lo sapevamo tutti, ha un' economia di modesto volume. Il settore di punta, quello degli armatori, è di fatto offshore. Gli emuli di Onassis portano i denari all' estero, comprano appartamenti di lusso a Londra o a New York. Non pagano le tasse: in Grecia solo sei cittadini su circa undici milioni hanno denunciato più di un milione di euro al fisco. Il pericolo è fare di questa giusta critica un argomento etnico. Un razzismo appena mascherato.
Questa forse è la peggiore delle derive della tecnocrazia, che tendendo a esautorare la politica riporta in auge gli stereotipi culturali. Come se vi fossero Paesi geneticamente dediti a spendere e spandere, e altri Paesi costitutivamente dediti alla virtù. In ogni stereotipo, come in ogni leggenda, c'è una base di verità. Farne però la regola immutabile, il destino di un popolo, è la fine della politica.
Nel caso dell' euro, concepire come hanno fatto e tendono di nuovo a fare i tedeschi, un Euronucleo di Paesi automaticamente virtuosi, è un modo di ragionare antipolitico. Una sorta di etnomonetarismo. Trascurando, come tu ricordavi, che la stessa Germania, oltre naturalmente alla Francia, ha allegramente deviato dalle presunte virtù e dalle regole scritte in più di un' occasione. E dimenticando che gli altri europei hanno pagato un prezzo molto alto per l'unificazione tedesca, contribuendo allo sforzo di Berlino volto a riempire il buco nero della Rdt con enormi trasferimenti finanziari, dai risultati peraltro discutibili. E purtroppo questo etnomonetarismo si sposa con analoghe tendenze interne agli Stati membri. Penso anzitutto al Belgio, ma anche all'Italia, alla propaganda leghista sull'inconciliabilità fra Nord e Sud.

EL: Credo che il senso della crisi sia dato proprio dal fatto che gli ultimi mesi hanno visto il protagonismo di due istituzioni che hanno sede sull' altra sponda dell' Atlantico. Il governo degli Stati Uniti e il Fondo monetario, entrambi a Washington, hanno avuto una parte straordinaria. Guardando gli esiti, alla fine hanno giocato anche un ruolo positivo, ma - ovviamente ragiono come europeo - dico che questo è un vulnus. È la dimostrazione, il segno del fatto che o facciamo il passo avanti o non saremo mai una potenza. Ho difficoltà a immaginare che se una crisi come quella greca si fosse verificata in un' altra parte del mondo, o nello stesso continente nordamericano, sarebbe stata Bruxelles a risolvere il problema. E questo è un punto chiave della nostra vicenda. L'Europa deve essere ambiziosa. Se l'Europa non è ambiziosa, non è. L'Europa timida, con obiettivi dettati da agende domestiche, richiede l'arrivo dell' aiuto esterno, che siano i berretti verdi o l'équipe del Fondo monetario. Dopo di che, ci sono diverse controdeduzioni.
Il Fondo monetario è pagato in buona parte dagli europei, è diretto da un europeo, quindi, di fatto, è un'istituzione in cui l'Europa gioca un ruolo fondamentale. Però, insisto, i simboli contano. Per esempio, proprio a proposito della sede, nello Statuto del Fondo monetario c'è scritto che ha sede nel Paese che ha la quota percentuale più alta del capitale del Fondo. Quindi il Fondo non ha sede a Bruxelles, a Parigi o a Lussemburgo soltanto perché le quote europee sono divise tra loro. E sarebbe invece un gesto di ambizione forte unire le quote europee e candidarsi a spostare la sede del Fondo monetario in Europa. A questo aggiungiamo l'umiliazione che l'intervento di Obama sulla Merkel ha rappresentato per l'Europa, ma io aggiungerei anche per la stessa Germania. È dovuto intervenire il «presidente del mondo» per convincere la cancelliera a sbloccare l'accordo sul pacchetto di aiuti alla Grecia.
Credo che qui ci sia tutto il senso della crisi. Di una crisi di consapevolezza e di ambizione. Qui sta anche il senso della nostra riflessione, perché noi potremmo anche continuare a vivacchiare così, ma le vicende ultime dimostrano che siamo arrivati a un momento decisivo e siamo obbligati a fare un passo avanti o un passo indietro. lo vorrei che facessimo un passo avanti, ovviamente. Ma ho l'impressione che la situazione non sia più governabile perché si è arrivati a un tale livello di complessità e di integrazione che uno statu qua gestito nel modo pasticciato in cui le istituzioni europee lo stanno gestendo, o lo hanno gestito nei mesi scorsi, è insostenibile. È vero, poi c'è stata la resipiscenza degli ultimi tempi, però il giudizio complessivo è pesante. Anche dal punto di vista politico.
La Commissione europea, all' esplodere della crisi del200B-2009, è sostanzialmente affondata. Il pallino è stato preso dai governi, inizialmente con buoni risultati. La presidenza francese nella seconda metà del200B ha affrontato bene la crisi: la Commissione invece è affondata. Dopo di che per premio è stato confermato il presidente di quella Commissione, dando il segno esatto che l'istituzione comunitaria più è debole, più viene premiata dai governi. Governi che poi non sono stati in grado di prendersi le loro responsabilità, di fare le loro scelte. E qui sta il senso profondo della crisi nella quale versiamo, e che si supererà soltanto con un grande passo avanti.

LC: Sì, è stata un'umiliazione, sono d'accordo. Il termine «umiliazione» è stato usato pubblicamente dal presidente della Banca centrale europea, Trichet, quando si è dovuto far ricorso al Fondo monetario internazionale, dunque anche all' America, per salvare l'euro dalle tempeste greche.
Questo ci dà la misura delle nostre ambizioni.
Sono d'accordo con te che non possiamo gestire lo statu quo. Lo statu quo non è mai statico. Meno che mai adesso. Se non diamo slancio alle ambizioni euuropee, rischiamo di non disporre della massa critica sufficiente per affrontare le crisi che incombono. E stavolta mamma America non ci salverà. Ha altro cm pensare.

Riusciremo a evitare il G2?

EL: La crisi aiuta la ricerca di una soluzione politica. È una spinta formidabile a fare ciò che in tempi normali non saremmo stati in grado di fare.
Questa affermazione prelude a un' altra immediatamente conseguente, e cioè che quelle stesse cose sarebbe stato meglio riuscire a farle senza crisi. Ritengo, però, che si debba prendere atto dell'ineludibile. Stiamo parlando di un processo unico nella storia. Non si tratta di due Paesi che si fondono, di uno Stato federale che nasce per acquisizioni successive o di uno Stato unitario che si federalizza. Stiamo parlando di un processo totalmente diverso che vede nella caratteristica antropologica la sua componente essenziale. Parliamo di Stati abituati a essere grandi Paesi del mondo, Stati che nei secoli hanno dominato il mondo, Stati che si sono divisi il mondo. Se prendiamo la mappa delle colonizzazioni dei secoli passati, vediamo che il mondo era diviso tra spagnoli, portoghesi, britannici, belgi e olandesi; un po' meno fra italiani e tedeschi. Questa storia è arrivata fino al Novecento. Abbiamo chiamato «mondiali» due guerre europee, e già la dizione ci dice che il mondo era eurocentrico. Nelle stesse carte geografiche l'Europa era al centro. Il cambiamento nella storia del mondo avviene a cavallo di questo secolo e rappresenta uno stravolgimento totale. L'arrivo di Cina, India, Brasile, Russia modifica tutto: i confini del mondo, i pesi demografici, le caratteristiche dei mercati mondiali, il commercio internazionale. E l'accelerazione del progresso tecnologico, che in termini informativi consente l'integrazione di tutti, rende questo processo ancora più accelerato.
Per i singoli Paesi europei vale quello che noi potremmo definire il paradigma italiano: quello di un Paese che arriva alla fine del XX secolo come «Paese grande in un mondo piccolo» e si ritrova nel XXI secolo come «Paese medio in un mondo grande». Eravamo un Paese grande in un mondo piccolo perché il mondo in cui noi italiani eravamo grande potenza era costituito da Nord America, Europa occidentale, Giappone, Corea, Australia e poco altro. Dentro questo mondo noi eravamo una grande potenza, talmente grande - siamo arrivati a essere la quinta potenza industriale - che siamo stati tra i Paesi fondatori della Comunità europea e siamo stati parte del G7. Poi, all'improvviso, il mondo è cambiato.
In quindici-venti anni è triplicato: all'Europa occidentale si è aggiunta quella orientale, all'Europa classica e riunificata si sono aggiunte la Russia, la Turchia; poi sono arrivate la Cina e l'India, l'America Latina con il successo straordinario del Brasile. Dentro questo cambiamento le nostre dimensioni, demograficamente e geograficamente, sono rimaste le stesse e l'Italia, da Paese grande in un mondo piccolo, è diventato un Paese medio in un mondo grande.
La nostra capacità di produrre ricchezza continua a essere molto importante. Ma in questa dimensione completamente mutata, lo stesso ragionamento può essere fatto in termini non molto differenti anche per altri Paesi europei, dalla Francia, alla stessa Germania, alla Spagna, ognuno ovviamente con le proprie peculiarità. La Francia e la Gran Bretagna hanno 1'opzione nucleare e lo status conferito dalla presenza nel Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite come membri permanenti. La Germania, con la riunificazione, ha accresciuto la sua dimensione geografica e demografica. Di fatto, è un gradino sopra, però tutti sappiamo che se fra cinque anni, quindi non nel prossimo secolo, andassimo a stilare la classifica del G7 del 2015, presumibilmente vedremmo la Germania al settimo posto come primo Paese europeo. Gli altri Paesi europei verrebbero tutti dopo. Siccome il G7 fu costituito sulla base oggettiva del Pil, cioè sulla capacità di produrre ricchezza, e l'Italia poté entrarvi grazie a esso (perché avevamo i titoli per essere il sesto o il settimo), non è un caso che oggi stiamo tutti cominciando a inventarci modalità diverse di calcolo per definire una grande potenza, mi riferisco al dibattito sulla fine del Pil, alla commissione di Sarkozy della quale hanno fatto parte grandi economisti come Joseph Stiglitz, Amartya Sen e Jeann Paul Fitoussi. Accanto a uno sforzo genuino di ammodernamento della scienza economica, si avverte chiaramente un tentativo europeo di trovare surrogati statistici che ci consentano di mantenere quella leadership perduta. Perché sul Pil noi finiremo in serie B. In serie A ci andranno, appunto, i BRICs.
Questo tema del cambiamento, del grande cambiamento, dell'essere oggi un Paese medio in un mondo grande, così come gli altri Paesi europei, ci obbliga a guardare in faccia la realtà. Ci obbliga a dire che se vogliamo evitare il G2, l'unica opzione è che ci sia il G3, perché già il G20 si sta dimostrando non in grado di sostituire completamente la forza, anche simbolica, che nei decenni scorsi ebbero il G7 e il G8. Il G20, dopo una partenza molto forte, oggi segna il passo, probabilmente perché ha un'identità indefinita e dei confini poco precisi. Ricordo di aver ascoltato, a Oslo, il primo ministro norvegese Stoltenberg, che, argomentando in modo inattaccabile, si chiedeva perché - dal momento che il numero 20 era stato scelto in maniera del tutto arbitraria, visto che ai 20 erano stati aggiunti in via informale Spagna e Olanda, che statisticamente sono il21 o e il 22° Paese nel ranking mentre la Norvegia è il 23° - la Norvegia fosse stata appunto esclusa dal G20; il G7, invece, era chiaro nei suoi confini e non modificabile.
Il tema di fondo è che il mondo del futuro sarà probabilmente il mondo del G2, o, in alternativa, del G3, se saremo in grado di costruire il polo europeo. Questo ragionamento sulla perdita di velocità dei singoli Stati europei è oggettivo. Vi è una miriade di indicatori, dalle quote del commercio mondiale' al peso delle università nei ranking mondiali, all'utilizzo delle lingue. Il tema di fondo è che questo calo di velocità dei singoli Stati europei, in un mondo che soltanto sessant'anni fa chiamava mondiale una guerra europea, può essere recuperato soltanto attraverso una crescita del polo europeo.
Le opinioni pubbliche oggi, con il passare del tempo e con i cambi generazionali, sono sempre più in grado di cogliere e vivere tutti questi cambiamenti in modo meno traumatico, perché le nuove generazioni sono abituate a viaggiare, a stare dentro la dimensione europea, a parlare inglese, a vivere in condizioni diverse dalle generazioni precedenti, sicuramente più ostili a forme di integrazione che rischiano di scolorire le identità nazionali. A mio avviso, più il tempo passa, più la crescita dell'identità europea e dell'integrazione è facilitata.

La questione complessiva, però, è molto chiara.
Le leadership politiche dei singoli Paesi europei non hanno la forza di portare definitivamente la questione al tavolo delle decisioni senza lo stress e l'impulso che soltanto le crisi riescono a dare. L'Europa è nata per via della guerra, senza la guerra probabilmente non ci sarebbe stata l'Europa. E con la crisi è arrivata una sorta di guerra. Dobbiamo renderci conto che la crisi economica ha portato a una perdita di ricchezza paragonabile a quelle che avvengono durante un conflitto. Il rapporto tra crisi e salto in avanti è complesso, ma è quello che oggi mi fa dire che questo è il momento di compiere il grande passo verso un'ulteriore integrazione europea. Se non approfittiamo della crisi perdiamo una grande opportunità. Ce lo dicono le terribili immagini della Grecia, le difficoltà dei singoli Paesi membri, e soprattutto il fatto che tutti i leader politici europei chiedono oggi un vincolo esterno per imporre a elettorati, corporazioni e corpi intermedi riluttanti, scelte necessarie che nessuno ha la forza di imporre autonomamente.

LC: L'ho detto e lo ripeto: se per fare l'Europa ci vuole una catastrofe io mi tengo questa non- Europa. E comunque l'idea che serva una grande crisi, magari un' altra guerra mondiale, per produrre l'unità politica europea mi sembra una proposta difficile da vendere o da far digerire alle nostre opinioni pubbliche.
Sono invece d'accordo sulla necessità di progettare l'Europa sullo sfondo dei formidabili mutamenti geopolitici e geoeconomici in corso nel mondo. Il contrario di quanto ha inclinato a fare l'europeismo classico o il paraeuropeismo delle istituzioni comunitarie, impegnate a contemplarsi l'ombelico in quanto ombelico del mondo. D'accordissimo dunque sul G3, solo che non ve n'è traccia. E questo ci riporta al tabù fondamentale: la mancanza di un'idea condivisa, di un progetto comune che sfoci prima o poi in un soggetto geopolitico degno di chiamarsi Europa.
Quando parliamo di Europa, non sappiamo bene di che cosa stiamo parlando. Ci sono almeno altrettante Europe quanti europei. La paradossale premessa dell' europeismo era proprio di evitare questo problema, per aggirarlo. Ma se noi non sappiamo chi siamo e che cosa vogliamo diventare, i nostri interlocutori nel mondo non perderanno tempo con noi. Questo vale per cinesi e americani, ma anche per cileni o malgasci. Non è questione di dimensioni, ma dell'impossibilità di prendere sul serio un'Europa che non si prende sul serio. Valga la famosa copertina di un non eurofilo settimanale britannico, che a suo tempo presentò una (rara) missione del predecessore di Obama a Bruxelles sotto il titolo: «Bush goes to Belgium».
Trovo tipicamente europeista che si nomini un paraministro degli Esteri europeo nella persona dell'ineffabile baronessa Ashton, si allestisca una vasta e costosa «diplomazia europea» con sedi nei cinque continenti, salvo mancare di una politica estera europea. Uno spreco di intelligenze e talenti diplomatici a spese dei contribuenti europei. E la conferma che l'autoironia non regna a Bruxelles.
Le istituzioni comunitarie seguono una logica puramente inerziale. Abbiamo deciso che serve una politica estera europea? Non riusciamo a produrla, come è ovvio, visto che le politiche estere le fanno gli Stati e l'Ue non lo è? Benissimo, la mimiamo. Come si possa così aspirare a un G3 che ci elevi al rango di Washington e di Pechino, confesso che mi sfugge. In ogni caso con le baronesse Ashton e i Van Rompuy diventa difficile convincere cinesi e americani che l'Europa unita sia un orizzonte intorno al quale valga la pena di spendere energie intellettuali e politiche.
Vogliamo sfruttare le opportunità della crisi, perché anche il peggior disastro può insegnarci qualcosa, come tu suggerisci? D'accordo. La mia proposta è semplice: dimentichiamo l'europeismo.
Ringraziamolo per quello che di straordinario ha prodotto, sotto l'impulso americano, dalla seconda guerra mondiale all'unificazione tedesca. E passiamo a progettare l'Europa. Discutendone pubblicamente e senza tabù. Il contrario dell' europeismo. Solo allora potremo stabilire se abbia senso immaginare un soggetto geopolitico europeo, ed eventualmente quali siano le alternative praticabili.

Ma ora vorrei segnalare una questione di metodo. Per sfruttare davvero la crisi bisogna disimparare alcune verità ricevute. Dobbiamo cancellare i vecchi file per poterne immettere di nuovi nei nostri computer. Il primo file da cancellare è la matrice dell'europeismo elitista, dunque antieuropeo. Quello per cui, come diceva Jacques Delors: «l'Europa avanza mascherata». O ci togliamo la maschera, o siamo finiti.
Un altro file da eliminare? La leggenda, a suo tempo ripetuta anche per convincere gli scettici della necessità della nuova moneta, per cui l'Unione europea e l'euro garantiscono la pace sul continente. Una sfortunata coincidenza (coincidenza?) vuole che l'euro sia stato concepito contestualmente allo scoppio della prima guerra combattuta in Europa dopo il 1945, quella nell' ex Iugoslavia. Dobbiamo ricordare a noi stessi che la pace in Europa è stata garantita anzitutto dagli Stati Uniti per difendersi, difendendo noi, dalla minaccia sovietica. Di qui la Nato. Gli equilibri della guerra fredda imponevano la pace in Europa. Altrimenti sarebbe stata la terza guerra mondiale. Non attribuiamo a noi stessi meriti che non abbiamo. Non dimentichiamo mai che l'Europa è frutto non solamente dei De Gasperi, dei Monnet, degli Schuman, degli Adenauer e degli Spaak, ma soprattutto di una fondamentale decisione geopolitica americana. Non a caso la Nato viene prima della Comunità economica europea. E non a caso gli americani ci dissero, subito dopo la fine della seconda guerra mondiale: «Se volete restare parte del mondo libero e democratico e se volete contare sul nostro appoggio dovete stare con noi e in pace tra voi, smantellando i vostri obsoleti imperi coloniali per far fronte comune contro la minaccia sovietica».
Non dimentichiamo mai il primo padre dell'Europa, Harry Truman. Il presidente del Piano Marshall e della Nato. E, specularmente, Stalin, il contromodello dal quale noi europei occidentali potevamo difenderci solo stando insieme sotto la protezione americana.
Quanto ai padri europei dell'Europa, erano personalità politiche eccezionali. Irripetibili o quanto meno irripetute. Lungimiranti. Non proprio simili ai loro attuali epigoni. E piuttosto avulsi dalle rispettive tradizioni nazionali. De Gasperi era un italiano sui generis, così come Monnet non esprimeva la mentalità del classico statista francese, per tacere di Schuman. De Gasperi era un ex parlamentare asburgico che poteva comunicare in tedesco con il renano Adenauer - il quale detestava Berlino e tutto ciò che sapesse di prussiano, e se invocava l'unificazione tedesca era solo perché consapevole che in quel contesto storico non si sarebbe fatta - o con il lorenese Schuman, nato in Lussemburgo e cittadino tedesco fino a 32 anni. Insomma, erano politici di frontiera, in senso anche biografico.
La loro funzione è stata decisiva, e ha fruttificato almeno fino agli anni Ottanta, quando si è passati allo stallo e poi alla disintegrazione mascherata da allargamento. Anche se forse gli storici del futuro individueranno nel 1973, anno dell' ammissione nella Cee di una potenza vocazionalmente avversa a qualsiasi tipo di unificazione europea - il Regno Unito -, l'inizio della fine.
Gli ultimi vent'anni più che unificare l'Europa hanno accentuato il distacco fra istituzioni comunitarie e Stati nazionali. I quali hanno vieppiù ridotto gli spazi di Bruxelles proprio mentre l'europeismo ne incrinava la legittimazione democratica. La crisi della legittimazione democratica e dell' efficienza dei nostri Stati nazionali, inscritta nell' europeismo, non è stata compensata da una maggiore efficienza delle istituzioni comunitarie. La crisi degli Stati nazionali non è stata compensata dal successo dell'De. Anzi, le due parabole discendenti hanno proceduto insieme. Ma la perdita di credibilità di Bruxelles è molto più veloce di quella di Parigi o di Berlino - non parliamo di Vilnius o Praga. Per cui a oggi i vincitori di questa corsa a ritroso sono gli Stati nazionali, i perdenti Parlamento e Commissione.
L'Europa delle regole e dei regolamenti, che avrebbe dovuto surrogare l'insufficienza della volontà politica europea, segna l'arretramento della politica. Della democrazia. Nelle istituzioni comunitarie - di per sé assai lontane da qualsiasi paradigma democratico - e in qualche misura anche nei nostri Stati democratici.
Le regole affascinano gli europeisti perché scavalcano la politica. Ma fino a un certo punto. Perché una volta fissata la regola si trovano i modi per aggirarla in base agli interessi e ai rapporti di forza. L'abbiamo visto con i famosi criteri di Maastricht: lo stesso Paese che per virtù teutoniche cercava di imporli, alla fine li ha ripetutamente violati. Tra parentesi, questo è uno dei motivi per cui noi e altri «maiali» siamo stati ammessi nel club dell' euro: il Paese virtuoso si è rivelato molto meno virtuoso di quanto pretendesse.
Lo vediamo nei caotici vertici notturni del Consiglio europeo, che finiscono per produrre compromessi al grado più basso possibile.
Conclusione: questo strano europeismo non solo non ha prodotto l'Europa, ma sta corrodendo le democrazie nazionali e lo spazio della politica nella vita pubblica.

EL: Devi però tener conto del fatto che questa dinamica avviene in un tempo nel quale la politica di per sé registra un downgrading impressionante. In tutti i Paesi, il ruolo della comunicazione, il rapporto tra leadership e carisma, l'approccio populistico, sono ingredienti che modificano completamente il prodotto finale. E la politica in quanto tale assume le caratteristiche di una rappresentazione in cui la partecipazione dell' elettore è un fatto antropologico. L'Italia ne è 1'esempio massimo.
La vicenda europea alla quale ti riferisci si inserisce in un contesto in cui la politica, rappresentandosi così, lascia in campo un vuoto, che in questo caso è stato riempito da dinamiche di stampo tecnocratico che - in questo concordo con te - non hanno un diretto rapporto con la volontà popolare. Molto nasce dal fatto, però, che quegli stessi eletti dei parlamenti nazionali, quegli stessi governanti nazionali hanno volutamente fatto tre passi di lato, perché quei bivi erano troppo complessi e quindi era meglio lasciare al tecnocrate di Bruxelles la decisione difficile da prendere e da spiegare al proprio elettorato. Salvo poi dare la colpa ai tecnocrati di Bruxelles per scelte di cui ogni singolo politico o rappresentante del Parlamento avrebbe dovuto assumersi la responsabilità. La stessa ricorrente polemica contro la burocrazia di Bruxelles, in parte anche giustificata, è bene che tenga sempre conto che il numero dei funzionari della Commissione europea è pari a quello dei dipendenti del solo comune di Milano!
Il vero tema, secondo me, è la contraddizione di una politica che ha aggiunto metodi pubblicitari tipici di un modello americano ai metodi novecenteschi di ricerca del consenso, legati a pratiche spesso clientelari. Ma tutto questo non ha nulla a che vedere con la scelta tra due alternative sulla gestione dell' euro, o della governance economica o di altre politiche economiche nazionali. A quel punto lo spazio è stato occupato da altri. E aggiungo: meno male che è stato occupato da altri!

LC: Se la politica soffre di emorragie, non vedo perché bisogna aggiungerei anche un salasso tecnocratico.
Noi tendiamo purtroppo a rimuovere il nostro passato recente. E a immaginarci come un continente spontaneamente democratico. Noi pensiamo di essere più democratici degli altri. Come se la democrazia fosse nel nostro Dna. Ma le nostre culture politiche otto-novecentesche non brillavano per vocazione democratica. Le nostre democrazie sono conquiste pagate con il sangue delle nostre sconfitte nella guerra civile europea del 1914-1945. Fino alla metà del secolo scorso, e spesso oltre, i capi della Germania o dell'Italia, della Spagna o del Portogallo, dell'Ungheria o della Romania, non erano esattamente dei liberaldemocratici. Non erano occidentali. Erano europei. Europei ma non liberali e non democratici. La grande conquista della guerra fredda è stata la coniugazione di Occidente ed Europa nel segno della democrazia. Che tale vincolo sia eterno, ne dubito. Continuando a minare la logica della politica democratica, potremmo risvegliare le bestie intolleranti che animarono i nostri avi.

EL: Penso che la risposta debba chiamare in causa una riflessione su che cosa vogliono dire oggi la politica e la democrazia. Il grande tema mi sembra proprio questo. Abbiamo costruito per approssimazioni e stratificazioni successive un' architettura istituzionale europea barocca. Siamo tutti contenti di avere un presidente fisso del Consiglio europeo, ma tutti sappiamo che questa architettura istituzionale è, appunto, barocca, complessa, farraginosa. Ma soprattutto è incomprensibile al cittadino europeo. Mentre con l'Europa di una volta potevamo far sì che il confine tra politica e tecnocrazia a livello europeo fosse labile e che la Commissione euroopea fosse un soggetto a cavallo tra le due dinamiche, oggi credo che questo non serva più a fare il passo successivo. La necessità che l'Europa sia gestita da leadership politiche è fortissima, perché il salto verso l'Europa politica necessita di leadership politica.
La crisi che stiamo vivendo è una spinta formidabile per fare il salto verso un'Europa politica, ma sono anche convinto che soltanto leadership politiche convinceranno definitivamente i cittadini e li accompagneranno. Qui il salto di qualità non può che avvenire attraverso una faticosa e difficile ma ineluttabile transizione verso una dimensione politica europea.
Finché non eleggeremo un presidente europeo votato direttamente dai 500 milioni di elettori europei, in una campagna elettorale in cui io, cittadino italiano che voto a Pisa, trovi nel mio seggio elettorale la scelta se votare per Tony Blair, Romano Prodi o Angela Merkel, non avremo compiuto quel passo decisivo.

LC: Possiamo anche votare un presidente europeo. Ma per poter rendere questo presidente qualcosa di più di una mera controfigura occorre uno Stato europeo. Altrimenti che presidente è? Un capo di Stato senza Stato? Senza status?

EL: Dobbiamo dare nuovi poteri a questo presidente, certo. Non ho dubbi che debba essere eletto direttamente con poteri, ma aggiungo che sempre di più la comunicazione e la politica passano attraverso la legittimazione di un voto diretto dei cittadini europei. Secondo me sarebbe impressionante la forza di un leader politico europeo votato dai cittadini e non votato dai leader politici dei singoli Stati. Se prendiamo il terzetto Barroso, lady Ashton e Van Rompuy, ho difficoltà a immaginare che uno di questi tre possa essere un potenziale concorrente in una competizione per diventare il presidente europeo eletto direttamente dai cittadini. Occorrono personaggi che siano in grado di stabilire un rapporto con l'intera opinione pubblica europea. Questo meccanismo darà forza alle leadership e cambierà il rapporto con le opinioni pubbliche, rendendole in grado di capire che l'interesse nazionale o l'interesse del proprio territorio non necessariamente è difeso da un leader che provenga esclusivamente ed etnicamente dal proprio territorio, perché in epoca di globalizzazione quell'interesse combacia con quello di tanti altri europei e ci sono persone in grado di rappresentarlo meglio di quanto possa fare il leader del proprio singolo Paese. In alcuni casi anche un piccolo Paese può esprimere un grande leader. Penso al primo ministro lussemburghese Juncker, il quale ha leadership e forza maggiore rispetto al peso del suo Paese, anche attraverso la presidenza dell'Eurogruppo.
Quello che voglio dire è che è entrata prepotentemente in campo l'opinione pubblica europea, che prima non esisteva. E questa opinione pubblica europea oggi è più cosciente e presente di prima. Vive attraverso simboli e simbologie anche esteriori rispetto alla politica. Se si prende per esempio un tema della vita di tutti i giorni come quello del calcio, si vede che oggi il peso e il rapporto tra il campionato europeo e quelli nazionali non sono quelli di un tempo.
Ho accennato alle giovani generazioni. Credo che per l'Europa abbia fatto di più la Ryanair di tante direttive comunitarie. La Ryanair è stata un elemento di integrazione formidabile, consentendo la mobilità transnazionale di tutti gli europei che non potevano volare. Ha unito l'Europa. Quando ero uno studente universitario, il biglietto per andare a Bruxelles a fare le ricerche per la mia tesi e tornare in giornata costava un milione di lire, altrimenti occorreva incrociare più biglietti a date fisse per poter andare su e giù a costi meno proibitivi, ma sempre tripli o quadrupli rispetto ai costi di oggi. Grazie alle low cost viaggiamo e viviamo una dimensione europea come mai ci è capitato di fare. E oggi è maturo il tempo di una pubblica opinione e un elettorato europei. Dobbiamo cogliere questa
maturazione il più rapidamente possibile, perché ciò può consentire di far compiere all'Europa quel passo avanti che altrimenti non farà mai. Sono quindi d'accordo con te sul fatto che la politica e la leadership politica sono in grado di innescare dei processi che altrimenti non partirebbero.

LC: Su questo modo di ragionare il mio dissenso è radicale.
Quando dicevo che bisogna disimparare l'europeismo classico, mi riferivo anche al fatto che l'europeismo classico tende a confondere la dimensione dell' essere con quella del dover essere. Parla del dover essere come se esistesse. Imprime ai suoi argomenti un tono moralistico. Dunque non fa politica.
Contesto che esista un'opinione pubblica europea. Niente affatto. Esistono diverse opinioni pubbliche nazionali in Europa. La prova? Ogni volta che si tenta di varare un medium europeo, non funziona. Non si riesce a vendere lo stesso giornale a Cipro e a Dublino, a Roma e a Riga, a Londra e a Lubiana, a Parigi e a Berlino (nemmeno a Berlino e a Francoforte). Le culture e i gusti di queste popolazioni, tutte orgogliosamente rivendicanti la loro radice europea, sono troppo diverse.

EL: Non sono d'accordo. Se guardi la sostanza dei prodotti, piuttosto che la cornice, ti accorgi che
i prodotti delle nostre televisioni sono tutti uguali. Sono dei format che girano da Paese a Paese, molti dei quali sono identici. Il calcio sostanzialmente è un prodotto unico e paneuropeo. Penso invece che sotto questo profilo qui ci sia stato un grosso passo avanti. Senza dubbio vi è un problema linguistico, che si è ulteriormente aggravato con l'allargamento dell'Unione europea. E la questione linguistica è un punto limitante. Ma forse sulla questione dell'opinione pubblica bisogna guardare più alla sostanza che alla forma.

LC: Se parliamo di format Tv, hai ragione tu, funzionano ben oltre i limiti nazionali. Ma non perché siano europei, perché sono «globali», o quasi. Di matrice spesso non europea, giacché importati dall' America o dal Giappone.
Quanto al calcio. Noi constatiamo allo stesso tempo il downgrading delle coppe europee - con una Champions League che non è più la Coppa dei Campioni - e il downgrading dei campionati nazionali, che ormai non si sa nemmeno più in che giorno si giochino. Il parallelismo con il doppio declino politico comunitario-nazionale mi pare lampante.
Quanto alla lingua, non attribuirei alla mancanza di una lingua europea le carenze del dibattito europeo. Ci si può capire anche a partire da idiomi diversi, usando quella sorta di lingua franca che è oggi l'inglese. Il problema è semmai che l'europeismo parla una lingua morta, un gergo volutamente incomprensibile o intraducibile - mi viene in mente il mitico acquis - parole in cerca di significato. Di qui la provocazione di Diego Marani, l'inventore dell'europanto, un miscuglio di termini dalle diverse lingue europee per protesta contro l' «integralismo linguistico» e la perdita di senso della neolingua brussellese. Il gergo deputato a esprimere - si fa per dire - regole incomprensibili al cittadino europeo, in modo che le decisioni politiche che a esse si richiamano sfuggano allo scrutinio delle opinioni pubbliche.

È l'allargamento la causa di tutti i mali?

LC: Nell'Unione europea vi sono diverse categorie di membri. Uno dei criteri di distinzione è l'anno di ingresso. In qualsiasi club, che sia l'Unione europea piuttosto che il Club della pipa, chi entra dopo è in una posizione meno avvantaggiata rispetto ai soci fondatori.
Sull' «allargamento» a est esiste una certa mitologia. Quando si è determinata l'emergenza geopolitica causata dal crollo del Muro e dalla riunificazione della Germania, non esistendo una road map europea su come procedere insieme abbiamo vissuto una crisi strategica che ha prodotto tre conseguenze. La prima è che, non essendoci un accordo sui fini e sui confini dell'Ue, si è deciso di surrogare tale intesa con la moneta unica. La seconda è che, almeno a parole, si è voluto attribuire a questa moneta un carattere geopolitico, come premessa dell' «approfondimento» politico dell'Unione europea. La terza è che i passi successivi, in carenza di una strategia, sono stati disegnati dall'inerzia, quando non da logiche puramente nazionali in conflitto fra loro.

Il crollo dell'impero sovietico aveva lasciato al nostro oriente un vuoto geopolitico che doveva in qualche modo essere colmato. La Russia appariva incapace di farlo. Non era intenzione americana comunque lasciare ai russi ciò che era stato sovietico. Anche se gli americani, dopo il 1990, pensavano di potersi occupare del loro giardino di casa, o comunque di questioni più scottanti di quella europea, che consideravano risolta.
Restava la pressione dei Paesi appena emancipati dalla morsa sovietica, ansiosi di accedere all'insieme euroatlantico, che si trovavano di fronte un'Europa occidentale apatica e divisa sul come rispondere a tale rivendicazione.
La pressione degli ex satelliti sovietici era rivolta verso la Nato prima che verso l'Unione europea. Ricordo che quando la Polonia ottenne di accedere all'Alleanza atlantica, il presidente K wasniewski volle adornare il suo palazzo con la bandiera della Nato, affiancata a quella nazionale. Nessun presidente europeo aveva mai esposto lo stendardo atlantico alle finestre della sua sede. Ciò per sottolineare quali fossero le priorità di quelle nazioni, soprattutto dei polacchi e dei baltici: priorità di sicurezza, di garanzia americana rispetto allo spettro del ritorno dell'imperialismo russo. Se dagli Stati Uniti si volevano soldati, dall'Europa si volevano soldi. Si immaginava l'ingresso nell'Unione europea come una forma d'innalzamento di rango, di prestigio - certo - ma più concretamente come diritto di accesso ai fondi europei.
Da parte dei Paesi già membri dell'Unione europea, Italia inclusa, non si avvertiva una grande urgenza di includere il più presto possibile l'Est nell'Ovest. La visione italiana dell' area compresa tra la Germania e la Russia inclinava a vedervi problemi di carattere geopolitico e geostrategico che potevano essere sanati anzitutto dall' estensione della Nato. Era un modo di pretendere dagli americani un contributo ai costi dell'integrazione dell' ex impero sovietico nella sfera euroatlantica.
Fra i grandi Paesi europei, però, due avevano una posizione più definita.
La Germania, che immaginava, anche attraverso l'euro, di costituire alla propria frontiera orientale un' area di influenza e sviluppo che legasse l'ex Est a sé, anzitutto dal punto di vista economico e commerciale, per stabilizzare un' area storicamente critica. Berlino era favorevole a un allargamento alla Mitteleuropa - la sua sfera di influenza classica -, non ai Balcani.
L'altro protagonista ad avere le idee chiare sull' allargamento a est era la Gran Bretagna. In parte perché condivideva la russofobia di quei Paesi; in parte perché vedeva l'ex Est come un' area da non lasciare al predominio esclusivo della Germania; e in parte perché, come gli americani, voleva collegare gli ex satelliti di Mosca al mondo atlantico più che al mondo europeo. Londra non voleva «europeizzare» l'ex Est, voleva «atlantizzarlo» anche attraverso Unione europea. Con ciò rendendo complessivamente l'Ue meno europea e più atlantica. E ha vinto. L'allargamento battezzato da Bruxelles è stato un grande successo di Londra e Washington. Ne è uscita un'Ue meno coesa, più diluita, istintivamente più filoamericana. Mentre l'ex «Europa americana» si è legata a Mosca come mai in passato, soprattutto per via energetica, ma non solo.

EL: Le crisi successive all' allargamento sono figlie degli errori nei primi anni Novanta. L'errore più grave è stato il fatto di non aver capito che l'uscita dalla sfera di influenza sovietica di quei Paesi necessitava di un immediato ancoraggio istituzionale all'Unione europea. E invece, contestualmente alla caduta del muro di Berlino, l'Ue ha dato un'accelerata impressionante alla sua unificazione interna e, contemporaneamente, non ha dato la necessaria accelerazione all' ancoraggio istituzionale di quei Paesi all'Europa. In quegli anni furono firmati degli accordi di associazione, furono investiti molti soldi. Ma ciò non toglie che il messaggio allora proveniente dall'Europa era che dovevano considerarsi Paesi di serie C, e che il passaggio alla serie B avrebbe richiesto molto tempo; figuriamoci la serie A. Questo ha comportato un immediato e profondo sentimento di disincanto nelle opinioni pubbliche di quei Paesi nei confronti dell'Europa. Al quale ha fatto seguito quello che è accaduto tra il 2001 e il 2003: Torri gemelle, Afghanistan, Iraq. In quel momento gli Stati Uniti avevano la necessità strategica di fidelizzare delle alleanze, e questo ha portato i Paesi dell'Europa centro-orientale, anche a causa delle titubanze europee nei loro confronti, a rispondere positivamente agli inviti e a stipulare accordi molto stretti con gli Stati Uniti, anche a costo di dividere l'Europa. Complice anche il fatto che l'America vuol dire l'inglese, McDonald's, i film di Hollywood, vuol dire tante cose che hanno a che fare con l'immagine di quel consumismo americano che ha colmato il vuoto che decenni di economia collettivista aveva lasciato nei Paesi dell'Europa centro-orientale.
L'Europa si è trovata, negli anni Duemila, a dover correre ai ripari rispetto ai danni fatti nei primi anni Novanta. Cosa si sarebbe dovuto fare allora? A mio avviso, era necessario costruire un'architettura all' altezza della sfida del crollo del muro di Berlino. Non certo limitare o azzoppare il processo d'integrazione interno tra i vecchi membri dell'Unione. Ma inserire il processo all'interno di un' architettura più ampia che ancorasse istituzionalmente, da subito, i Paesi dell'Europa centrorientale.
Forse i ventisette avrebbero dovuto essere integrati all'interno di una Confederazione europea, con i suoi simboli, la sua bandiera, le sue sedi, affinché questo ingresso immediato fosse subito percepito come un fatto istituzionalmente irreversibile, e come una manifestazione della piena cittadinanza delle popolazioni e delle classi dirigenti di quei Paesi nel progetto europeo. E ribadisco, senza che questo andasse a scapito del fatto che il cuore dell'Europa classica facesse passi avanti sul terreno dell'Unione economica e monetaria, e quindi dell'euro. Ma non aver fatto queste scelte, e aver trascinato invece per quattordici anni il percorso di avvicinamento dei nuovi Paesi membri, anche quelli più evidentemente vicini a noi, come la Slovenia o l'Estonia, ha comportato gravi problemi.

LC: In che senso l'Estonia è vicina a noi?

EL: Nel senso che è culturalmente e geograficamente omogenea alla Finlandia, un Paese membro dell'euro.
E la Slovenia è un Paese che, da tutti i punti di vista, è omogeneo all' Austria e all'Italia.
L'aver trascinato l'allargamento per troppo tempo è un punto chiave, ed è stato affrontato a fatica quando ci si è resi conto che politicamente la vicenda era stata gestita male, con scarsa leadership e scarsa visione. E si è dovuto correre ai ripari. L'apertura del 2004 va quindi intesa come un tentativo in questo senso. Un tentativo giusto, a mio avviso. Le scelte compiute dalla Commissione guidata da Romano Prodi e dal Consiglio europeo in quel passaggio vanno difese, pur essendo state scelte che hanno scontato i tentennamenti degli anni Novanta.
Dopo di che, però, tutti questi sfasamenti hanno portato alle crisi successive che conosciamo. Crisi difficili, perché nel frattempo le opinioni pubbliche di quei Paesi erano scappate. Penso alla Polonia, alla Repubblica Ceca. Penso a opinioni pubbliche che molto rapidamente si sono rivoltate contro Bruxelles. Hanno scelto gli Stati Uniti come alleato di riferimento. Un alleato che chiedeva impegni più semplici, più diretti, fedeltà all' alleanza. Il tutto in una logica di forte contrapposizione con la Russia. Quella stessa contrapposizione che non può essere, strategicamente, il Dna della politica estera dell'Unione europea. Con la Russia dobbiamo convivere e dialogare. Non foss' altro perché la nostra bolletta energetica dipende in buona parte dal rapporto con i russi.
Questi punti sono essenziali per capire le ragioni di quelle dinamiche e soprattutto perché, nei momenti più cruciali per l'Unione europea, ci siamo trovati a dover fare i conti con la demagogia di Vaaclav Klaus, addirittura presidente di turno all' apice della crisi finanziaria, oppure con le pretese dei gemelli Lech e Jaroslaw Kaczyriski, rispettivamente presidente e primo ministro della Polonia nella fase determinante dei negoziati sul Trattato di Lisbona.
Oggi ci troviamo a dover gestire una storia fatta di contraddizioni profonde. Non è vero quello che tante volte si è detto, ovvero che i guai dell'Europa nascono dalle contraddizioni interne al rapporto tra i Paesi fondatori. Non è così. Che alcuni dei «nuovi» Paesi abbiano cominciato a usare i loro piccoli o grandi poteri di veto per bloccare il processo su singole questioni è stato un elemento molto negativo. Soprattutto, il processo di allargamento condotto in quel modo ha finito per creare la difficoltà del Consiglio europeo e della Commissione a ventisette nel quale l'esercizio della leadership è molto complesso e difficile. La leadership nelle istituzioni è mancata anche perché il livello di preparazione dei commissari si è molto abbassato nel tempo. Abbiamo assistito, anche di recente, a spettacoli francamente imbarazzanti, di aspiranti Commissari provenienti dai <<nuovi» Paesi che non hanno passato le audizioni al Parlamento europeo perché sprovvisti dei requisiti minimi per accedere alla carica.
Riassumendo: c'è un problema, c'è stato un problema, e questo problema si è acuito nel tempo. La domanda da porsi è: che cosa fare adesso? Posto che sull'analisi non abbiamo tesi perfettamente collimanti, sul da farsi potremmo trovare punti di convergenza.
Vi è un grandissimo rischio, che va a tutti costi scongiurato: credo che la crisi finanziaria, l'incapacità dell'Europa di gestirla e l'aver rinunciato a mettere in campo strumenti adeguati per gestire le crisi dei Paesi dell' area euro renda molto più tiepido lo sguardo dell'Europa ai suoi futuri allargamenti. Il problema di fondo è che quando parliamo di futuri allargamenti parliamo di interesse nazionale dell'Italia. Perché l'adesione di alcuni Paesi del prossimo round, e penso alla Croazia, alla Serbia e alla Macedonia, rappresenta per l'Italia un elemento di stabilizzazione fondamentale. Non dimentichiamoci che abbiamo, da più di un decennio, migliaia di soldati impegnati nella stabilizzazione dei Balcani. Quella presenza costa centinaia di milioni di euro l'anno ai contribuenti. E se quest' area non è stata in grado di provvedere da sé alla propria pacificazione lo dobbiamo in parte anche agli errori passati dell'Europa.
Con la Turchia, inoltre, l'Europa commette un gravissimo errore. In prospettiva, escludere la Turchia dal processo di allargamento avrà gravi conseguenze sugli equilibri economici e politici del nostro Continente. Peggio ancora è stato far balenare eventualità che le istituzioni europee e le opinioni pubbliche di alcuni Paesi non hanno alcuna intenzione di appoggiare. Credo che sia un errore profondo per tanti motivi. Anzitutto perché la Turchia è un Paese chiave dal punto di vista geopolitico, che consentirebbe all'Europa di completare il caleidoscopio, di essere una potenza articolata. Senza la Turchia l'Europa si inchina agli Stati Uniti, perché lo sguardo dei turchi volgerà inevitabilmente verso la sponda occidentale dell' Atlantico. In secondo luogo, perché la Turchia è un soggetto economico molto importante, in particolare per le imprese italiane. Un Paese che ha fatto enormi passi in avanti, cui vanno riconosciuti grandi meriti dal punto di vista della democratizzazione e degli altri principi determinanti per poter essere candidati all'adesione.
Non possiamo però abbandonare la consapevolezza che un ulteriore allargamento, che porti l'Ue a superare la soglia dei trenta Paesi membri, deve fare i conti con la crisi attuale, e con la necessità di rompere cioè il grande tabù dell'Europa politica.
Dalla crisi si esce con la costituzione degli Stati Uniti d'Europa dei Paesi che costituiscono il «nocciolo duro» dell'Unione europea, mettendo insieme, e subito, ciò che attualmente li tiene separati. È questo il tema su cui riflettere. Ormai !'integrazione delle loro economie e delle loro società è tale che un passo avanti è nell'interesse di tutti. È un passo fattibile, ed è soprattutto un passo necessario al proseguimento del processo di allargamento dell'Unione nel suo complesso, che è un elemento utile per la pace, per la stabilità, e per la forza economica dell'Europa.
Quindi l'ingresso della Turchia è innegabilmente nell'interesse strategico dell'Europa. Il mio auspicio è che la crisi in corso possa finalmente portare alla nascita degli Stati Uniti d'Europa tra un nocciolo ristretto di Paesi, attorno al quale vi sia una più ampia Confederazione europea. E penso che la Turchia debba far parte di questa Confederazione.

LC: Concordo sull'Euronucleo, purché naturalmente l'Italia ne faccia parte. E concordo sul fatto che la Turchia possa accedere all'Unione europea.
Ma lasciami tornare al senso dell' allargamento.
Le parole dell' eurogergo hanno spesso un significato recondito. Il termine allargamento sembra indicare l'espansione di un soggetto ad altri soggetti. Ma se il soggetto non c'è, che cosa allarghiamo? L'incrocio dell'Unione incompiuta con le ritrovate o reinventate sovranità a est di Berlino ha prodotto una commistione di spinte diverse, non un tutto armonico. La differenza principale si riassume nel rapporto con la storia. La nostra idea di Europa Pintendo l'idea occidentale - parte dal principio che il passato è passato. A est di Berlino la storia è invece sempre contemporanea. Per chi ne dubitasse, rammento il recente atteggiamento di Budapest, che ha denunciato di fatto il Trattato del Trianon concedendo il passaporto ai magiari d'oltreconfine, in Slovacchia come in Serbia, in Romania o altrove. Orban non si considera il capo del governo ungherese, ma della nazione magiara. E si potrebbero fare molti altri esempi di geopolitiche mal digerite, a cominciare dalle ambizioni romene sulla Moldavia. Per tacere naturalmente della Russia.
Qui misuriamo l'inconsistenza dell'egemonia tedesca sull' ex Est. E incrociamo la questione di fondo che ha segnato la storia dell'Europa moderna e contemporanea e che non abbiamo ancora risolto. Riguarda il ruolo della Germania. Non dobbiamo mai dimenticare che il 1989-1990 non solo ci colse di sorpresa, ma scatenò nelle principali cancellerie europee il panico rispetto al pericolo di una «grande Germania» che avrebbe assunto un rango troppo dominante in Europa. Sicché Berlino dovette pagare scambiando il marco con l'euro. Il quale è frutto di una germanofobia europea di fondo, mai del tutto superata - nemmeno in Germania. Lo abbiamo visto anche in questi mesi nella crisi greca, quando la Germania si è imbizzarrita rispetto alla prospettiva di trasformare l'unione monetaria in un'unione di trasferimenti, in cui i Paesi più virtuosi si impegnano a trasferire ai Paesi che hanno una gestione «allegra» della finanza pubblica le risorse necessarie a evitarne il fallimento, perché questo diventerebbe poi un fallimento di tutti. In sintesi, il principio per cui la Germania paga per gli altri è inaccettabile per i tedeschi. Anche se poi sono dovuti venire a patti con la necessità di impedire il collasso dell'Eurozona, annacquando il loro Villo.
Infine la questione turca, che ci porta inevitabilmente a ragionare sui confini dell'Europa.
Condivido l'idea che Ankara debba essere parte di uno spazio europeo largo e lasco, che tu chiami Confederazione, mentre io userei questo termine per descrivere l'eventuale Euronucleo. Nel quale non c'è ovviamente posto per la Turchia, se il criterio di fondo è quello dell' omogeneità culturale e politica.
La Turchia avrebbe invece i titoli per entrare nell'Unione europea in quanto area essenzialmente economica. Ma i turchi non stanno più al gioco nostro: fingiamo di trattare ma in realtà non li vogliamo. Erdogan non vuole umiliarsi per pia ti re un posto nell'Ue. E poi ha già ottenuto molto di ciò che voleva da noi, ovvero un vincolo esterno per limitare il margine d'intervento delle forze armate, depotenziandole in nome delle riforme richieste da Bruxelles. E allargando la base democratica del Paese. In Turchia la traduzione geopolitica di democrazia è Oriente. La politica estera neo-ottomana della Turchia, forse un po' ambiziosa rispetto alle sue possibilità, riflette l'idea che il rapporto con l'Occidente non è più centrale. Ankara gioca la sua partita a 360 gradi, dai Balcani al Caucaso, dal Vicino Oriente all' Asia centrale, dall'Europa al Mediterraneo. E dopo la crisi di Gaza Erdogan si offre come faro del mondo musulmano più eccitato contro Israele, oscurando persino Ahmadinejad.
Non dimentichiamo infine che la Turchia è molto grande per i parametri dell'Unione europea. Se i tedeschi non la vogliono, è perché la considerano troppo ingombrante prima che troppo diversa. Non vogliono accettare, ad esempio, che il gruppo parlamentare più numeroso a Strasburgo possa essere quello turco, come la demografia presto imporrebbe.

EL: Vorrei aggiungere che l'attuale vicenda della tempesta finanziaria ci indica la strada. Di fatto, l'Europa a ventisette è andata sullo sfondo, e in queste settimane ha preso piede l'Europa dei sediici. Questo mi sembra un punto chiave.
L'Europa dei sedici è molto più gestibile, per tanti motivi.

LC: Nell'Europa dei sedici sono però emerse le fratture che abbiamo visto, ad esempio tra Germania e Grecia.

EL: Infatti il problema è proprio questo. L'Europa dei sedici rappresenta un luogo più piccolo, nel quale le leadership emergono più facilmente, ma anche i problemi esplodono se le leadership si rivelano insufficienti. Questo dovrebbe indicarci che l'Europa dei sedici deve tirare le conseguenze della crisi e fare un grande passo avanti. Verso una maggiore capacità di prevenzione e gestione delle crisi attraverso il Fondo monetario europeo da costituire. Verso una maggiore capacità di prevenzione degli sconfinamenti di bilancio. Verso una rappresentanza esterna finalmente unita. E soprattutto verso la creazione dell'Unione economica attraverso la messa in comune di tanti aspetti: dalle politiche fiscali, alle riforme strutturali, alle politiche per la crescita individuate dalla Strategia di Lisbona, cui non è seguita una fase di attuazione adeguata. Insomma, dalla crisi viene l'indicazione del cammino da seguire. Dalle crisi nascono le grandi scelte. E quindi penso che la soluzione della crisi passi attraverso la costituzione attorno ai Paesi dell'Eurozona degli Stati Uniti d'Europa. E vista all'interno di questa logica, la vicenda dell' i:lllargamento ritrova la sua ragion d'essere. È il modello dell'Europa a cerchi concentrici, imperniato sulla piena integrazione del primo cerchio. Perché mettendo in sicurezza l'accelerazione del «nocciolo duro» verso approdi federali o confederali, il rapporto con i Paesi dell'Europa centro-orientale diventa gestibile.

LC: Siamo sempre lì: come tutti gli europeisti Doc, ami le crisi. lo le temo.

Dalla catastrofe, l'unione politica?

EL: Ti propongo una riflessione. Quello che è accaduto con la crisi dell' euro lo abbiamo già visto. Il patto di stabilità attuale non ha funzionato. Il semplice coordinamento, molto blando, delle politiche economiche non è più sostenibile. L'assenza di unione politica ci costringe a tornate di estenuanti negoziati e di insoddisfacenti compromessi, come si è visto dalla fatica spesa per arrivare anche solo al Trattato di Lisbona. Gli europei hanno risposto concretamente alla crisi greca soltanto quando si sono trovati sull' orlo del baratro. E alla fine la risposta è stata soprattutto diretta a tranquillizzare i mercati.
Quali sono dunque oggi gli elementi su cui bisogna lavorare per un cambiamento drammatico e immediato del modo di esistere dell' euro, se riteniamo che l'euro abbia ancora una ragione di esistere? A mio avviso, abbiamo bisogno di una discontinuità drastica con il passato e di compiere scelte coraggiose.
Nel contesto dell'euro, queste scelte sarebbero articolate in quattro punti essenziali.
Primo punto. Bisogna che vi siano scelte e regole per le quali i Paesi membri non abbiano più un grado di autonomia tale da poter pregiudicare la stabilità dell'intera Eurozona. Dobbiamo quindi dotarci di autorità paneuropee che siano in grado di evitare quello che è successo con la Grecia. Questo nuovo modello di vigilanza dovrà riguardare anzitutto le statistiche: credo che Eurostat debba incorporare gli istituti di statistica nazionali, dando vita a un soggetto unico. Il punto chiave non è l'accentramento dei poteri, ma la fusione di culture e di abitudini nazionali; una sorta di meticciato statistico, in cui se il direttore dell'Istat di domani verrà dalla Finlandia, questa non sia percepita come un'ingerenza, ma come una fonte di valore aggiunto per l'affidabilità delle nostre statistiche e quindi dei nostri conti pubblici. Può sembrare molto tecnico, ma la certezza dei numeri è una questione di primaria rilevanza politica, perché da essa dipende la qualità di tutte le scelte di politica economica. Se il direttore dell'Istat greco fosse stato un olandese o uno spagnolo, impermeabile alle pressioni politiche nazionali, forse la crisi greca non avrebbe mai assunto proporzioni così drammatiche. Dobbiamo comprendere che il dramma di questi anni è stata la tendenza dei governi a far dire ai numeri ciò che volevano. Dobbiamo fare di tutto per smentire quel simpatico professore universitario di statistica, il quale tentava di smitizzare la propria materia raccontandoci che se un uomo tiene la testa nel freezer e i piedi nel forno acceso, per la statistica sta mediamente bene.
Secondo punto. Occorre rinunciare a un grado di sovranità nazionale per consentire alle istituzioni europee, e in particolare alla Banca centrale europea, di essere rigorosi, e per certi versi invasivi, per poter ragionare sul fatto che i debiti vanno in qualche modo condivisi. In altre parole, deve esserci una capacità degli Stati membri di fidarsi del debito altrui. Quello che mi ha colpito di questa crisi dell'Eurozona è che, pur non essendoci più le divise nazionali, e non potendosi più verificare attacchi speculativi sulla moneta, vi è stato tuttavia un feroce attacco speculativo sugli spread dei titoli di Stato. Ed è su questo che si è creato il caos. È necessario fare un grande passo in avanti rispetto alla piena separazione dei debiti pubblici dell'Eurozona, dando vita a una capacità, anche parziale, di condivisione.
Terzo punto, e forse il più difficile da raggiungere: serve a tutti i costi una legge finanziaria europea.
Per rovesciare questo meccanismo occorrono naturalmente istituzioni europee molto più forti e una leadership europea davvero incisiva.
Mi sembra che questi tre elementi siano essenziali. E tutti e tre comprendono, a mio avviso, uh ulteriore rafforzamento della Banca centrale europea, che ha saputo gestire il tempo della crisi, soprattutto se paragonata alla Federal Reserve. La forza e la competenza che caratterizzano la Bce vanno spese e usate di più, anche alla luce della evidente debolezza della Commissione.
Emerge qui un quarto punto, a mio avviso spensabile. Dobbiamo costruire una struttura europea che sia in grado di accompagnare i Paesi nel momento in cui si verificano situazioni di difficoltà e negli inevitabili riassestamenti di bilancio. Penso a una struttura quasi commissariale, composta da funzionari che possano affiancarsi alle autorità nazionali dei diversi Paesi e, ove necessario, sostituire queste autorità per prendere le decisioni più difficili. Il Fondo monetario internazionale, tradizionalmente preposto a svolgere un ruolo di questo tipo attraverso la condizionalità, non ha dato sempre grande prova di sé. Occorre quindi una task force europea, forte e legittimata, che sulla base di un mandato europeo sia in grado di intervenire e di sistemare le cose. È stato chiamato Fondo monetario europeo. Possiamo chiamarlo come vogliamo, ma è una delle questioni essenziali, perché senza un'istituzione di pronto intervento che sia in grado di affiancare i Paesi che non ce la fanno, non andremo molto lontano.
Ricapitolando: quattro cambiamenti sostanziali che, tra Bruxelles e Francoforte, accentrino le scelte di politica economica. Assegnando ovviamente un ruolo molto significativo al Parlamento europeo. Occorre però superare la discrasia tra un' assemblea a ventisette e una moneta unica ancora a sedici. Si potrebbe immaginare un coordinamento tra le commissioni di bilancio e finanze dei sedici parlamenti nazionali dell'Eurozona, che costituiscano l'interfaccia dell'Eurogruppo e della Banca centrale europea. Perché il coinvolgimento dell'istituzione parlamentare è fondamentale per il controllo democratico di questo meccanismo. Altrimenti si potrebbe rafforzare il ruolo del Parlamento europeo, sapendo però che in questo caso si troverebbe davanti non solo Trichet, ma anche i singoli governatori delle banche centrali nazionali che non utilizzano l'euro. E quindi con una difficoltà oggettiva. Oggi il Parlamento europeo dialoga molto con Trichet. Ma che nel dialogo con la Bce vi siano europarlamentari che provengono da Paesi per cui Trichet non è il giusto interlocutore è una contraddizione oggettiva.
Concludo osservando che tutti questi ragionamenti dimostrano quanto sia difficile aggiustare una costruzione che è «nata male». Probabilmente sarebbe più semplice ripartire da zero, con un nocciolo di Paesi volenterosi, una coalition of the willling, costituendo attorno a questo nocciolo un'arrchitettura istituzionale molto semplice, molto diretta e facilmente riconoscibile dai cittadini. La grande contraddizione della crisi dell' euro è proprio questa. Ha messo a nudo i guai della costruzione europea e delle strutture di governance dell'euro. Ma allo stesso tempo la crisi ci indica che abbiamo bisogno di compiere un grande passo in avanti verso un'Europa più unita, verso gli Stati Uniti d'Europa composti da un gruppo ristretto di Paesi, e che questo passo deve avvenire attorno alla moneta unica.

LC: Il tuo ragionamento, descritto come tecnico, ha invece una forte vena utopica. Vorrebbe raddrizzare i meccanismi mal concepiti dell'unione monetaria attraverso degli aggiustamenti, in parte tecnici, in parte politici, che però non toccano la questione di fondo, ovvero la sovranità europea e quindi la sovranità sulla moneta. È possibile immaginare una politica monetaria in assenza di un' autorità che sia responsabile della gestione di una politica di bilancio, di una politica fiscale per tutti i Paesi che fanno parte della moneta unica? lo penso di no. Mi pare che anche tu lo pensi, soltanto che tu credi di poter surrogare la mancanza di uno Stato europeo con strumenti intermedi di tipo funzionalistico. La questione dell' euro invece ci riporta inevitabilmente alla, questione della sovranità, perché la moneta è sovranità. Almeno lo era fino all' avvento dell'euro ...
Voi europeisti parlate dell'euro quasi fosse una moneta il cui carattere possa astrarre dai Paesi che ne fanno parte, dall' omogeneità delle economie che l'esprimono. Eppure i tedeschi e gli olandesi avevano concepito Maastricht come la costituzione materiale di un euro forte, dell' euro a cinque, da estendere eventualmente a sette, se poi l'Italia e la Spagna ce l'avessero fatta. Adesso abbiamo un euro a sedici, anzi a diciassette a partire dal gennaio 2011. Più avanti entreranno forse altri Paesi. Si pone un problema di omogeneità culturale, oltre che economica, che non può essere risolto da qualche aggiustamento tecnico. Come dicevo, dobbiamo decidere se abbassare l'euro all'Ue o elevare l'Ue all' euro. Ed eventualmente in che tempi e in che termini, attraverso quali compromessi. Soprattutto, con quali Paesi e in vista di quali istituzioni politiche comuni.
Tu parlavi prima del Parlamento europeo. Ma il Parlamento europeo in questa crisi dell' euro è stato
totalmente assente. lo ricordo che quando ci furono le elezioni europee, si disse che questa per il Parlamento sarebbe stata la legislatura della svolta, che ne avrebbe esaltato il ruolo fondamentale. Dov'è Strasburgo? Di Bruxelles e dei commissari abbiamo già detto. Il fatto è che tutto è stato ancora una volta gestito - malamente - da coloro che hanno una qualche autorità effettiva: i principali governi dell'Eurozona. E naturalmente dagli Stati Uniti, in quanto supervisori di ultima istanza quando gli europei non riescono a mettersi d'accordo e quando la crisi non è più solamente europea ma occidentale.
Ma questa moneta a sedici o a diciassette, o quanti saranno, può effettivamente produrre istituzioni politiche efficienti e legittimate? Magari non gli Stati Uniti d'Europa, che non mi sembrano di immediata attualità, ma comunque qualcosa di simile a quello che tu prefiguri? E se dovessimo produrre una finanziaria europea, quale sarebbe l'autorità preposta a redigerla? Si possono commissariare o autocommissariare i governi nazionali? Mi permetterai di dubitarne.

EL: Secondo me noi italiani abbiamo una marcia in più per cercare di convincere gli altri. Perché nella nostra esperienza nazionale, come dicevo prima, convivono differenze molto profonde, sia di tipo qualitativo sia di tipo quantitativo. Prendiamo la Valle d'Aosta, il Molise e la Lombardia. Regioni piccole come cittadine, a fianco di altre che da sole sarebbero l'ottavo Paese europeo. Nel contesto della finanziaria nazionale vi è una trattativa diretta e meccanismi di autonomia delle singole regioni, ma le differenze sono impressionanti. Quindi guardando all'euro,in cui convivono il Lussemburgo, la Francia e Cipro, i fondamental1 sono essenzialmente gli stessi.· Anche in termini di grandi dinamiche: la crescita, la demografia, il benessere, i debiti. La convergenza tra i diversi Paesi dell' euro c'è stata, quindi penso che il passo in avanti possa avvenire, e noi italiani abbiamo una grande responsabilità. Anzitutto perché questo passo ci interessa più che ad altri. Ma anche perché possiamo raccontare, e dimostrare, che meccanismi di questo genere possono funzionare.

LC: Parlando di noi, tu ti riferisci all' omogeneità economico-sociale. Ma sopra alla Lombardia, al Molise e al Piemonte c'è l'Italia, l'autorità politica di ultima istanza - almeno finora - che ricompone questo mosaico. Non si può applicare questo ragionamento alla scala europea, perché non c'è l'Europa.
Torniamo quindi al punto di partenza. Il tuo ragionamento mi sembra uno sviluppo radical-utopistico del funzionalismo, per cui istituzioni e funzioni che si scoprono imperfette devono essere surrogate da autorità non-statuali e non legittimate da meccanismi democratici condivisi. Sicché le attuali istituzioni democratiche nazionali dovrebbero finire per autocommissariarsi per il bene della nostra moneta. Mi sembra politicamente difficile. Con tutto quello di buono che l'esperimento della moneta «unica» (nell'Ue ne circolano altre undici, ma continuiamo a chiamarla così, misteri dell' eurogergo) può aver prodotto sotto il profilo economico, dobbiamo prendere atto che abbiamo raggiunto e superato il limite entro il quale il funzionalismo aveva un effetto integrativo. Adesso ha una funzione disintegrativa. Senza un' autorità che gestisca una politica di bilancio e fiscale comune per tutti i Paesi dell'Eurozona, le basi dell'unione monetaria sono sotto stress permanente. I singoli Paesi non si fidano l'uno dell'altro. Alcuni truccano i bilanci scommettendo sul fatto che ormai l'unione monetaria sia un'unione di trasferimenti dai «virtuosi» ai «viziosi». Questa è l'idea della Grecia: faccio quello che mi pare sapendo che ci sarà la Germania, insieme agli altri soci più ricchi e corretti, a tapparmi i buchi. Mentre i Paesi «virtuosi», come appunto la Germania, non vogliono automaticamente coprire quelli che «virtuosi» non sono, perché questo è contrario allo spirito di Maastricht. E quindi ricominciano a ragionare sulla prospettiva di un euro più ristretto.
Tu ricordavi che vi è stato un attacco ai titoli di Stato di alcuni Paesi, nel contesto della vasta crisi dei debiti sovrani. La risposta che ci propone l'ortodossia di Francoforte e in parte anche di Bruxelles è una sorta di deflazione organizzata. Mentre si garantiscono le nefandezze greche, sperando non si ripetano più (e perché mai?), si distribuiscono i sacrifici tra i Paesi europei, colpendo in maniera radicale quel «cuscinetto» di spesa pubblica che ha finora contribuito a tenere insieme le nostre società. Rischiando di soffocare la ripresa in nome del rischio di futura inflazione. Mi colpisce di questo approccio l'apparente indifferenza per le sue ricadute non solo sociali, ma persino di ordine democratico.
Stiamo chiedendo in nome dell'Europa sacrifici che i cittadini europei non sono disposti a concedere. Diamo così alimento alle teorie cospirative degli estremisti, che vedono un solo grande complotto mondiale di speculatori, banchieri e loro tirapiedi politici. Con l'Europa pallido vampiro che affonda i denti nei nostri corpi infiacchiti dalla recessione. Temo che presto potremo trovarci di fronte a rivolte di piazza, a ondate di violenza, quanto meno a una protesta diffusa e rabbiosa che metterà sotto pressione le nostre istituzioni democratiche. Credo che il «rigore» così astrattamente concepito sia una risposta sbagliata, che avrebbe un effetto deprimente sulla stessa idea di Europa, per quel che ne resta. Non penso solo alla Grecia, ma anche all'Italia, una volta che alcuni ammortizzatori sociali avranno terminato o ridotto il loro effetto.
Se Europa non vorrà più dire pace e benessere, ma violenza e deflazione, chi oserà più difenderla?

EL: Secondo me hai toccato un punto chiave. Il mondo è cambiato improvvisamente, e il futuro di noi europei, delle singole società e dei singoli cittadini europei ha una caratteristica fondamentale. Nei secoli scorsi abbiamo goduto, rispetto a tutti gli altri, di livelli di benessere impressionanti. Dobbiamo prendere coscienza che in un mondo interdipendente occorre costruire, abbandonando l'egoismo degli ultimi decenni, un nuovo equilibrio sociale. Quando parlo dell' egoismo degli ultimi decenni parlo di fenomeni come lo squilibrio demografico, molto accentuato nei Paesi mediterranei, Spagna e Italia in testa, meno rilevabile in Francia e nei Paesi scandinavi, ma comunque la caratteristica che distingue l'Europa dal resto del mondo, e soprattutto la caratteristica che accomuna l'Europa occidentale a quella centro-orientale e oltre, perché anche la Russia vive una decrescita demografica impressionante.
Questa situazione, alla quale si unisce il fatto che in Europa si vive benissimo, e che le aspettative di vita aumentano marcatamente, ci porta a società in cui la percentuale demografica degli anziani incanutisce l'intera popolazione.
Le nostre società non sopportano complessivamente gli ingressi degli immigrati, e questo vale in Italia come in Spagna, in Francia, in Olanda. Società che sembravano più capaci di gestire il fenomeno della multietnicità rispetto a noi. Mi ricordo che quando i «bleus», la nazionale francese, vinsero la Coppa del Mondo nel 1998, quella squadra «multicolore» fu elevata a simbolo della Francia che sa cogliere la sfida dell'integrazione. Un'immagine fuorviante, se si pensa a quello che è avvenuto qualche anno dopo nelle banlieues. In Olanda il fenomeno dell'immigrazione ha seguito una parabola drammatica, di forti tensioni e di violenze agghiaccianti. Più recentemente, basta vedere i toni della campagna elettorale britannica del maggio 2010, nella quale il tema dell'immigrazione è stato determinante. In Italia, poi, l'immigrazione è la pietra d'angolo del successo elettorale della Lega.

Tutte queste cose messe assieme ci raccontano di un'Europa in cui la difesa del benessere acquisito e la volontà di impedire mutamenti dello statu qua, rendono le nostre società incapaci di comprendere la quantità di cambiamento necessario per poter vivere dentro un mondo diverso. Ma dobbiamo essere consapevoli che questa evoluzione è necessaria.
Il tema di fondo quindi è: esistono leadership in Europa in grado di parlare all' opinione pubblica senza essere influenzate dalle richieste di conservazione che vengono dall' opinione pubblica stessa? La gente sembra volersi far dire che tutto rimarrà così, che reggeremo all' assalto, che continueremo a usufruire di livelli di benessere e di protezione sociale nonostante i tassi di crescita più bassi del mondo. Credo che il tema della missione delle leadership e dei cittadini europei sia fondamentale. E interpreto gli attacchi ai titoli di Stato greci, spagnoli e portoghesi non come semplice sfiducia nei confronti del fatto che la Grecia e l'Ungheria abbiano truccato i conti o che in Spagna sia finita la bolla immobiliare, ma come un gesto di sfiducia da parte del resto del mondo sul fatto che l'Europa abbia le capacità di gestire il proprio futuro. Dieci anni fa nel mondo si era, al contrario, scommesso sul futuro dell'Europa, nonostante alcune sue contraddizioni, perché dieci anni fa l'Europa viveva una fase di dinamismo. E oggi questa sfiducia del mondo è soltanto l'inizio se non riusciremo a reagire. Oggi il mondo dice all'Europa: «Siete vecchi, mentalmente ingessati e aristocratici, siete incapaci di vedere il futuro e maldisposti a condividere la vostra ricchezza con altri». E le riforme di cui parliamo sono semplici strumenti per rendere i cittadini europei consapevoli di tutto questo, e per raccontare che questi cambiamenti sono indispensabili per poter dare alle prossime generazioni una prospettiva di benessere e di crescita, sperando che gli assalti al Parlamento greco o gli impiegati di banca asfissiati dai candelotti fumogeni siano soltanto drammatici episodi che non si ripetano. Occorre suturare questa ferita e utilizzare la drammaticità di questi episodi per comprendere e accettare l’entità dei cambiamenti e dei sacrifici necessari per scongiurare che l'Europa imbocchi la strada di un declino inesorabile.

LC: Credo che siamo arrivati al cuore della questione, quella della democrazia e della pace sociale. L'Europa è stata concepita, e ci è stata raccontata, come la garanzia della pace, del benessere e della democrazia nel vecchio continente. Da vent’anni questo non è più così scontato nel senso comune di molti europei.
Siamo arrivati al punto in cui le istituzioni europee, che avrebbero dovuto gradualmente assumere dei poteri sempre più rilevanti, e alla fine, in un disegno ideale, produrre quelli che tu chiami gli Stati Uniti d'Europa, hanno parzialmente delegittimato i poteri nazionali ma non hanno affatto prodotto una democrazia europea.
Rischiamo dunque di cadere fra due sedie. Fra l'Europa incompiuta e gli Stati nazionali deliquescenti. L'euro non ci salverà. 1'euro è l'ultimo «urrà», l'ultima carica di cavalleria di un'Europa che si costruisce per funzioni, ormai esaurita ma a oggi senza alternative.
Tu hai toccato la questione centrale della demografia e quindi dell'immigrazione. Qui ci giochiamo veramente tutto. Se alle due crisi politiche parallele - europea e nazionale - sommiamo i problemi dovuti al fatto che non facciamo abbastanza figli e non riusciamo a surrogare questa carenza integrando la maggior parte degli immigrati, incriniamo il patto sociale che regge le nostre democrazie.
In tale contesto si pone il problema della leaderrship. Questa crisi conferma la scarsa autorevolezza della leadership tedesca. Altro che grande Germania! Tutti si attendevano che la Germania, in quanto massima economia continentale, autoproclamata depositaria della virtù monetaria, avrebbe assunto le responsabilità che spettano ai nocchieri quando la barca affronta una tempesta. Non è stato così. Abbiamo visto che il cancelliere Merkel aveva in mente prima le elezioni in Nord Reno-Westfalia, poi la sorte della Grecia e quindi dell' euro. E allora viene da chiedersi che sistema sia quello in cui di fronte a un' emergenza comune ciascuno pensa prima, se non solo, agli affari suoi. E a come socializzare le perdite, scaricandole sui più deboli. Non voglio criminalizzare la signora Merkel. Fatto è che i nostri leader rispondono a elettorati nazionali o regionali. A questi stessi politici chiediamo di accollarsi responsabilità europee, in assenza di una constituency europea. Il problema non sta dunque nei dirigenti, ma nelle incongruenze dei nostri sistemi politico-istituzionali. Gestire il bluff europeo è roba da Superman. Non possiamo prendercela con i noostri capi perché non sono Nembo Kid.

EL: Ma l'unica soluzione è proprio la constituenncy europea. Fino a quando non ci sarà, la constituency regionale obbligherà il leader politico ad anteporre le proprie esigenze e i propri interessi a quelli dell'Unione.

LC: Siamo perfettamente d'accordo. Ma mi spieghi come puoi avere una constituency europea senza uno Stato europeo?
A forza di giocare con la pseudo Europa, temo che la gente comincerà a mettere in discussione non tanto l'Europa quanto la democrazia. Quel poco o molto di democrazia che resiste nei nostri Stati.

EL: Concordo, questa è la vera sfida che ci troviamo ad affrontare. Mi ha colpito che questo problema sia emerso come uno degli aspetti chiave dell'ultima enciclica sociale, la Caritas in Veritate. La separazione tra mercato e democrazia è uno dei grandi problemi del nostro tempo. E il tema di come ripristinare il collegamento tra questi due luoghi e tra i due linguaggi connessi è ineludibile, e in un certo senso drammatico. Oggi le nostre società chiedono decisionismo. Non vogliono liturgie, discussioni, compromessi. E pur di avere questo decisionismo, soprattutto sul tema della sicurezza, sono pronte ad accettare limitazioni della libertà individuale. È un sentimento molto pericoloso, perché sta rapidamente prendendo piede, soprattutto nelle fasce più abbienti della popolazione. Ed è un sentimento che tocca soprattutto noi europei, perché la parte del mondo che viaggia alla velocità più rapida è la Cina, che non ha la nostra stessa tradizione democratica.

LC: Condividi l'impressione che la crescente attrazione degli europei per il decisionismo - io lo chiamo autoritarismo - discende anche dal fallimento di questa «Europa senza Europa»?

EL: Penso che tu abbia ragione. Ma credo che, almeno in parte, questa tendenza sia ascrivibile al progresso tecnologico. La diffusione dell'informazione in tempo reale ha profondamente modificato la percezione dell' autorità e del potere, abbassando i livelli di «non conoscenza». E in fondo credo che sia un fatto positivo. Nell'ignoranza si sono annidate nel corso dei decenni le peggiori nefandezze del potere politico, anche nelle nostre democrazie, perché si è creata una sorta di impunità. La sfida sarà quella di gestire correttamente la dimensione del tempo reale e quella della massima trasparenza. Questo chiama in causa direttamente noi europei, perché la nostra cifra è quella del benessere unito alle tradizioni democratiche.

Gli europei e gli italiani possono fare a meno dell'Europa?

EL: Quello che è successo, la parabola che ha portato alla crisi, non è un fatto solo negativo. Non perché, come dici tu, l'integrazione europea richieda una catastrofe come condizione imprescindibile per il proseguimento di questo cammino. Ma perché quello che è avvenuto dimostra che vi è una linearità nel processo d'integrazione. E che aver voluto costruire la moneta non avendo fatto i passi necessari a evitare la crisi in atto è stato un errore grave. Cosa che si doveva e poteva prevedere. L'esito finale è esattamente ciò che si immaginava. Se, dei grandi elementi che costituiscono una statualità -la moneta, l'esercito, la leadership politica, i confini -, si decide di condividerne alcuni, come si è fatto in Europa ma non viene condivisa la leadership politica che rimane a livello nazionale o addirittura subnazionale, l'effetto non può che essere il corto circuito.

LC: Che cosa c'è di positivo in tutto questo?

EL: Che vi è un percorso assolutamente lineare.

Si è capito che per andare in quella direzione, nell'" direzione di una moneta unica forte e stabile, bisogna fare passi avanti sugli altri domini. Aver pensato che la dinamica monetaria e quella politico-economica fossero scindibili è stato un errore clamoroso.
Stiamo forse ripetendo le dinamiche di quello che avvenne nel periodo 1952-1954, quando in fondo la fortuna dell'Europa fu il voto contrario dell'Assemblea nazionale francese che bloccò il progetto per una Comunità europea di difesa. E di conseguenza l'integrazione europea si spostò sul dominio economico, che a quel tempo sembrava un ripiego, rispetto a una fase in cui la guerra fredda e il conflitto in Corea ponevano la politica estera e la dimensione militare al centro dell' agenda politica. Ecco, quel ripiego è stato la fortuna del nostro continente, perché l'economia è diventata invece il traino della politica europea.
Oggi si ricongiunge il quadro di allora. Perché sappiamo che la condivisione dei cinque elementi che fanno la statualità è una condizione che necessita un completamento, nel senso che alla condivisione dei confini, del mercato e della moneta dobbiamo aggiungere la condivisione della «spada» e di una leadership politica sovranazionale. La crisi ci avverte che questo ricongiungimento non è più rinviabile, altrimenti saremo costretti a tornare indietro anche sugli obiettivi già raggiunti. Quando parlo di linearità intendo che tutto questo era ampiamente prevedibile. Nel momento in cui prendiamo coscienza del fatto che il cancelliere tedesco ha preso in ostaggio il Consiglio europeo, come è avvenuto in attesa dell' esito elettorale di un seppur importante Land (le elezioni Nord Reno-Westfalia che si sono tenute il 9 maggio 2010), e sulla base di questo si è determinata la decisione collettiva sulla crisi dell' euro, abbiamo il senso delle conseguenze di un disegno incompiuto. La storia ci obbliga a fare i conti. E quello che è accaduto nel 2010, anno in cui si è avuta l'impressione che l'Europa come l'abbiamo conosciuta fosse finita, ci obbliga ad affrontare il fatto che dobbiamo necessariamente ricongiungere i cinque elementi della statualità, rimettendo ordine alle storture di un soggetto asimmetrico. Altrimenti l'Europa non ce la farà. Credo che la volontà politica vada indirizzata tutta verso questo obiettivo. E credo che la grande paura che ha attanagliato le nostre opinioni pubbliche nelle ultime settimane debba portare a delle conseguenze. In fondo, credo che abbiano voluto dire di più per le prospettive future dell'Europa i giorni in cui Atene bruciava che non la miriade di consigli europei e conferenze intergovernative che si sono susseguiti in questi anni. Ma per cristallizzare questi passi avanti, e interiorizzare queste scelte in modo definitivo è necessario che brucino Lisbona, Dublino e Budapest oltre che Atene? Credo, e spero, che non sia così.

LC: Tu sei un leader politico, e quindi dovresti riuscire a spiegare la positività di quello che è successo ai tuoi elettori. Credo che ti riuscirà piuttosto difficile. Un incendio è un incendio; molti incendi sono molti incendi. E la crisi che stiamo vivendo a mio avviso non ha nulla di positivo. Anzi, nasce proprio dall' assenza di una prospettiva comune tra i principali Paesi europei sul da farsi. Insomma, se vogliamo parlare di unione politica dobbiamo parlare di politica.
Ascoltandoti, e conoscendo il tuo carattere moderato, mi colpisce l'impronta rivoluzionaria del tuo ragionamento. Quando parli di Europa mi sembri un bolscevico, che si augura che la crisi finaale del capitalismo diffonda nelle masse la consapevolezza dell' oppressione di classe, spingendole ad affidarsi al Partito per conquistare il socialismo. Perché questo è il destino dell'umanità scoperto da Marx. Sostituisci Europa a socialismo e hai il ritratto dell'ideologia europeista.
lo non credo che la crisi che stiamo vivendo renda gli europei più consapevoli della necessità dell'Europa. Però il tuo ragionamento è interessante, perché lo sento ripetere ormai da molto tempo e da persone di diverso orientamento politico, che si riconoscono in tale presunta necessità della storia. Ora, non vedo alcuna necessità della storia, né nel caso europeo né in alcun altro caso. Sarò troppo ottimista, ma resto convinto che la storia non sia data ma sia anche frutto delle nostre azioni, spesso involontarie, nei brevi limiti della nostra esistenza e scontando l'inerzia formidabile del passato.

Vale anche per l'Europa. Non vi è nessuna linearità nell'integrazione europea, ma nemmeno nella disintegrazione. Prendiamo il mercato unico. Ricordo che quando si parlò di moneta unica, la si presentò come illogico completamento del mercato unico. Ora prendiamo atto che il mercato unico non c'è. Ma allora che fine ha fatto la premessa logica - ed economica - dell'euro?
Che cosa conviene fare? lo parto dal principio che a noi l'Europa convenga, ma che a questo punto non possa più risolversi nella prosecuzione della nobile avventura europeista.
L'Europa che sogno è uno Stato confederale, dotato quindi di vari livelli di sovranità, dall'Europa al comune. I suoi confini saranno quelli dell'Europa centro-occidentale che ho sopra evocato. Questa Confederazione europea sarà una potenza attiva su scala globale. E sarà parte della molto più vasta e lasca Unione europea, da estendere a sud-est, verso la Turchia e il Nord Africa, che chiamerei quindi Unione euromediterranea.
Come si avvicina questo sogno? Non certo a partire dalle istituzioni comunitarie, perché non hanno la legittimità né l'autorità per farlo. Qualsiasi proposta per l'Europa futura non può che partire dalle autorità nazionali, le sole titolate a organizzare il consenso dei cittadini. Penso dunque a un progetto geopolitico che nasca dall'iniziativa dei parlamenti e dei governi dei Paesi interessati a formare la Confederazione Europa. Non un'Unione sancita da un trattato internazionale, ma un nuovo Stato fondato sulla costituzione confederale elaborata da un' assemblea costituente eletta nei singoli Paesi su liste europee. Un'impresa del genere deve però partire dalle basi nazionali, da un aperto e conflittuale dibattito pubblico. L'Europa deve togliersi la maschera. Non se la toglierà da sola, dobbiamo farlo noi europei.
L'Italia dovrebbe promuovere questo progetto.
Perché se come al solito aspetta il segnale altrui, non è affatto scontato che arrivi. Se davvero si costituisse un Euronucleo paracarolingio, forse ne saremmo esclusi. In tal caso metteremmo a rischio l'unità nazionale. Perché se il criterio di quel nucleo è l'appartenenza alla sfera economica tedesca, Fino a Verona ci siamo, più a sud molto meno. Bossi avrebbe buon gioco a rispolverare i suoi argomenti secessionisti. Per la Lega l'Euronucleo torneerebbe a rivelarsi la leva per dividere l'Italia, non per unire l'Europa.
E l'unica reazione possibile è quella di metterci definitivamente insieme come europei.

EL: L'Europa si accinge ad affrontare un lungo periodo di austerità. E io credo che i singoli Paesi europei, se rimangono da soli, rischino il declino. Viceversa, se noi rimescoliamo al nostro interno le nostre energie e i nostri talenti, mettendoci in competizione ma in un unico spazio economico e soprattutto politico, che possa attrarre anche le migliori energie di altre parti del mondo, allora non vedo un futuro di declino.
Dobbiamo mettere da parte tutto ciò che non è fondamentale. A partire dalle vecchie maglie dell'Ottocento e del Novecento: dell'impero britannico, dell'impero francese, dell'italianità e della forza germanica. Quelle sono le maglie del declino.
Dobbiamo giocare con la maglia europea, l'unica che può portare al rilancio e al risorgimento delle nostre economie e delle società. Credo che la partita di civiltà che noi giochiamo oggi sia questa.
Pensavamo che il declino delle dinamiche e dei destini nazionali potesse dipanarsi gradualmente nel tempo. Invece questo declino c'è oggi, ed è brutalmente evidente.
Per questo dico che la crisi è un fatto positivo. La crisi ci toglie gli alibi, hic et nunc.

LC: Purtroppo non è l'unica reazione possibile.
È la reazione auspicabile, ma ce ne sono molte altre. Compresa la disintegrazione di alcune democrazie nazionali, almeno delle più deboli. Italia inclusa.  Il paradosso del machiavellismo europeista è che non avendo prodotto uno straccio di Europa, ha lasciato gli Stati nazionali ad affrontare soli e divisi il vento della crisi. Non ci sono più alibi. Non ci sono altri livelli istituzionali su cui scaricare le responsabilità principali. In nome dell'Europa che non c'è stiamo regredendo verso il particolarismo più gretto.

Talvolta mi sembra che nella tempesta abbiamo perso consapevolezza dei nostri privilegi. Non siamo un continente sottosviluppato. Questa è la parte più benestante del mondo. Se siamo in declino certamente lo siamo, non fosse che per 1'emergere dell’Asia e di altre macroregioni dinamiche e ambiziose - partiamo da un gradino molto alto. Può essere che quando avremo arrestato il declino ci scopriremo in una condizione di persistente privilegio rispetto a gran parte dell'umanità.
Mi piace molto la tua metafora: ci vuole un rimescolamento del sangue europeo. Anzi euromediterraneo. In fondo, il nostro destino, come europei e come italiani, dipende largamente da quale integrazione riusciremo a produrre con le popolazioni allogene che puntano verso il nostro continente o già lo abitano. Qui ci giochiamo il futuro. L'Italia e l'Europa di domani saranno segnate dalla nostra abilità o dal nostro fallimento nell'integrare figli e nipoti degli immigrati. Aiutandoli a diventare italiani ed europei a pieno titolo, aiuteremo noi stessi a restarlo.





caracciolo e letta l'europa è finita libro

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