venerdì 13 gennaio 2012

danilo zolo libro

GLOBALIZZAZIONE
Danilo Zolo

Premessa

In queste pagine ho tracciato una mappa dei principali problemi che oggi vengono discussi sotto l'etichetta della globalizzazione'. Mi ha spinto a scriverle una motivazione molto semplice: attraverso uno sforzo di analisi concettuale e di chiarificazione teorica vorrei contribuire a limitare l'uso retorico o puramente ideologico di una nozione - globalizzazione - che ritengo, a certe condizioni, utile e importante.
Più in profondità, vorrei offrire al lettore qualche elemento di orientamento critico di fronte a una letteratura sovrabbondante che ha fatto della globalizzazione una sorta di paradigma della situazione umana contemporanea: un concetto ordinatore ed esplicativo generalissimo, capace, da solo, di dare un senso - positivo o negativo 8alla transizione dell'umanità verso il terzo millennio. In realtà, i processi di globalizzazione sono molto complessi e investono ambiti sociali nettamente differenziati: l'economia, le comunicazioni di massa, la politica interna e internazionale, l'ecologia, il diritto, le strategie militari.
In ciascuno di questi ambiti, ciò che chiamiamo sommariamente 'globalizzazione' presenta profili molto specifici. Analizzando selettivamente i diversi ambiti e mostrandone le connessioni, le interdipendenze ma anche la relativa autonomia funzionale, queste pagine vorrebbero - per usare un linguaggio sistemico - contribuire a ridurre la complessità cognitiva del mondo in cui viviamo. Un ambiente altamente complesso è sinonimo di incertezza, e quindi, dal punto di vista dei soggetti che vi sono immersi, di insicurezza e di paura.
Oggi più che mai l'insicurezza e la paura sono pane quotidiano della grande maggioranza degli uomini, non solo di quelli che sopravvivono nelle aree più povere del mondo, e non solo di quelli che premono alle frontiere dei paesi ricchi in cerca di una vita migliore. Anche nelle democrazie del benessere regnano per molti - non certo per tutti l'insicurezza e la paura. Le politiche di riforma dello Stato sociale stanno erodendo le strutture della protezione sociale, spalancando la vita dei soggetti più deboli ai rischi di un mondo dominato dalla competizione, dal conflitto e dalla guerra. Su questo mondo l'attentato dell' 11 settembre e le prigioni di Guantanamo proiettano un unico, opprimente cono d'ombra: l'ombra nichilista del global terrorismo e della replica repressiva e militare dell'Occidente.
Cercare di orientarsi criticamente di fronte a questo panorama così complesso e rischioso è il primo passo - probabilmente il solo che in questo momento ci sia consentito - per recuperare lucidità intellettuale e, forse, un filo di speranza: la speranza che il movimento di protesta contro gli aspetti intollerabili della globalizzazione che in questi anni si è diffuso in Occidente si saldi con una rivolta politica in molte altre parti del mondo.

GLOBALIZZAZIONE
Una mappa dei problemi

1 – Definire la globalizzazione

Il termine 'globalizzazione' (globalization, mondialisation, Globalisierung) si è affermato entro la letteratura economica, politica, sociologica e multimediale dell'Occidente nell'ultimo decennio del secolo scorso. Fa riferimento a un processo di estensione 'globale' delle azioni sociali fra gli esseri umani, tale da coprire lo spazio territoriale e demografico dell'intero pianeta. Il termine si è diffuso in sincronia con una fase di accelerazione dei fenomeni di integrazione economica- che secondo alcuni studiosi erano già in atto nel mondo occidentale nel corso della rivoluzione industriale, fra Settecento e Ottocento.

Già in pensatori come il sociologo Claude- Henri de Saint-Simon e come lo studioso di geopolitica Halford J. MacKinder si era affacciata l'idea che la modernizzazione avrebbe condotto a una progressiva integrazione del mondo. Altri autori - Amartya Sen, fra questi2 pl'anno risalire l'inizio della globalizzazione alle grandi scoperte geografiche nel corso del Rinascimento europeo e allo sviluppo dei commerci intercontinentali. Altri ancora sottolineano in particolare il rilievo della conquista spagnola e portoghese del 'nuovo mondo'. La tendenza all'unificazione geografica, economica e politica del globo avrebbe poi trovato sviluppo prima nell'Impero britannico e poi, fra Ottocento e Novecento, nella dominazione coloniale europea. In questo senso, come emerge in particolare dai «Subaltern Studies», ci sarebbe una linea di continuità fra colonialismo, post colonialismo e globalizzazione.
Per quanto riguarda gli sviluppi più recenti della globalizzazione, si ritiene che essi assumano particolare consistenza negli ultimi tre decenni del Novecento. In questo senso più specifico, con il termine 'globalizzazione' si intende denotare il processo sociale - fortemente influenzato dallo sviluppo tecnologico, dalla crescente rapidità dei trasporti e dalla 'rivoluzione informatica' - che ha dato vita a una vera e propria rete mondiale di connessioni spaziali e di interdipendenze funzionali. Questa 'rete' mette in contatto fra loro un numero crescente di attori sociali e di eventi economici, politici, culturali e comunicativi, un tempo disconnessi a causa delle distanze geografiche o di barriere cognitive e sociali di vario tipo. In questo senso si parla di 'contrazione' della dimensione spaziale e di quella temporale come una delle human consequences della globalizzazione soggettivamente più percepite.
Sono numerose, e molto diverse fra loro, le proposte di definizione della globalizzazione come l'insieme dei processi di integrazione globale e regionale oggi in corso a livello planetario. Può essere utile analizzare qui alcune delle più rilevanti, mettendole a confronto in una sequenza di crescente 'valutatività' etico-politica.
Una delle più fortunate definizioni di 'globalizzazione' è quella proposta dal sociologo inglese Anthony Giddens, secondo il quale il termine designa l'intensificazione di relazioni sociali mondiali che collegano tra loro località molto lontane, facendo sì che gli eventi locali vengano modellati da eventi che si verificano a migliaia di chilometri di distanza e viceversa».
L'effetto più generale della globalizzazione sarebbe dunque quello di modificare la rappresentazione sociali della' distanza', di attenuare il rilievo dello spazio territoriale e di ridisegnare i 'confini' del mondo senza tuttavia abbatterli. Per quanto riguarda i suoi contenuti, Giddens pensa che la globalizzazione presenti le caratteristiche tipiche della modernità, incluse l'idea dello Stato nazionale, l'economia capitalistica, la divisione del lavoro, il militarismo. La globalizzazione è dunque essenzialmente un'espansione della modernità dall'ambito  europeo-occidentale al mondo intero: è la modernità su scala globale. Globalizzazione e modernizzazione coincidono.
Nonostante le molte critiche che le sono state rivolte, questa definizione conserva a mio parere il pregio della sobrietà semantica, della prudenza esplicativa e dell' apertura pluridimensionale. Secondo Giddens la interconnectedness che 'globalizza' i fenomeni sociali ha come premessa la rivoluzione tecnologica e informatica, ma a partire da questo nucleo originario essa ha coinvolto ampi settori dell' economia, della cultura, delle comunicazioni di massa, della politica internazionale e delle strategie militari.
Fra le molte altre definizioni disponibili, espresse soprattutto dalla cultura di lingua inglese in questi anni, è da segnalare quella proposta da Ian Clark. Per Clark la globalizzazione

designa mutamenti relativi sia all'intensità che alla dimensione spaziale delle relazioni internazionali. Per il primo aspetto la nozione di globalizzazione include concetti come integrazione, interdipendenza, multilateralismo, apertura e interpenetrazione funzionale. Per il secondo aspetto la nozione di globalizzazione rinvia alla diffusione geografica delle tendenze sopra indicate, e incorpora concetti come compressione spaziale, universalizzazione e omogeneità.

Nel proporre questa definizione Clark concepisce la globalizzazione come un fenomeno in tensione costante con quello, parallelo, della 'frammentazione' (o 'localizzazione') che a suo parere le si oppone sia in termini di tendenza alla disgregazione, all' autarchia e all'isolamento, sia in termini di separatismo etnico-nazionalistico e anche di integrazione regionale. Entrambe le tendenze riguardano un ampio ventaglio di ambiti: le idee e le pratiche politiche, la geografia dell'interazione sociale, l'integrazione delle attività economiche, la delocalizzazione del lavoro, la diffusione di tecnologie capaci di superare i tradizionali vincoli dello spazio, la disseminazione dei simboli e dei significati culturali.
L'equilibrio fra le due tendenze è, secondo Clark, per sua natura instabile. Sarebbe perciò errato concepire la tendenza alla globalizzazione, oggi nettamente prevalente, come un fenomeno irreversibile, dettato dalla logica inesorabile dello sviluppo tecnologico e delle forze dei mercati, e quindi sottratto alle decisioni delle forze politiche. La globalizzazione non ha luogo soltanto fra gli Stati: è un fenomeno che investe direttamente gli Stati, ha effetti anche all'interno degli Stati e che gli Stati possono incoraggiare o contrastare. Per Clark, come per Paul Hirst9, per Andrew Hurrel e per Saskia Sasssen, gli Stati e i governi - in modo tutto particolare i governi delle grandi potenze - non sono testimoni passivi della globalizzazione: sono essi, anzi, che la promuovono e la plasmano, ricorrendo, quando è necessario, anche all'uso della forza. Contro la tesi, sostenuta da Ulrich Beck, dell'irreversibile passaggio alla 'seconda modernità' - in ambito civile, economico, tecnico comunicativo, ecologico -la globalizzazione viene dunque pensata da questi autori come un processo storico discontinuo, conflittuale e reversibile, alla pari di ogni ;t1tro processo storico. Al suo interno spinte globalistiche e nuove forme di 10calismO interagiscono anche sul piano culturale, come ha segnalato Roland Robertt, che ha proposto il fortunato termine di glocalization - originariamente usato in Giappone nel linguaggio di marketing - per designare l'interazione complessa fra universalismo e particolarismo soprattutto dal punto di vista della percezione riflessiva che i soggetti hanno dell'intero processo.
Una definizione concisa e selettiva è quella proposta dal sociologo italiano Luciano Gallino: per globalizzazione si del processo di formazione di un' economia mondiale deve intendere «l'accelerazione e l'intensificazione che si sta configurando come un sistema unico, funzionante in tempo reale»14. In questo senso 'globalizzazione' è sinonimo di 'universalismo del mercato' e rimanda, «in ognuno dei campi in cui si può suddividere l'organizzazione sociale, alla diffusione della cultura, dei comportamenti e delle disposizioni del bisogno che appaiono coerenti con la massima espansione del mercato lungo tutte le sue dimensioni».
Questo processo, precisa Gallino, si è sviluppato a partire dagli anni Ottanta del Novecento in tre 'macroregioni' del mondo l'America settentrionale, l'Europa occidentale e il Giappone -, con in più alcune ristrette regioni della Cina e dell'India, e alcune aree dell' America Latina. Pur non negando le sue implicazioni politiche e culturali, Gallino sostiene che «la globalizzazione è un fenomeno primariamente economico».
Questa proposta definitoria -la globalizzazione come 'universalismo del mercato' - accentua a mio parere in modo eccessivo l'aspetto economico dell'integrazione. La formulazione di Gallino ha tuttavia il merito di sottolineare che i processi di globalizzazione non sono, per così dire, dei fenomeni naturali. Non sono, come tende invece a pensare Zygmunt Bauman, effetti di iniziative involontarie, l'esito casuale e disordinato di 'forze anonime' che operano in una «nebbiosa e melmosa terra di nessuno». Per Gallino la globalizzazione, a parte i suoi ovvi presupposti tecnologici, è il risultato di un disegno che soggetti collettivi hanno progettato e realizzano consapevolmente. È il prodotto di politiche decise dalle maggiori potenze del pianeta e dalle istituzioni internazionali da loro influenzate. Queste politiche sono ispirate a criteri come la liberalizzazione dei movimenti di capitale, la deregolamentazione del mercato del lavoro, la riduzione in numerosi settori - sanità, previdenza, istruzione ecc. - dell'intervento pubblico degli Stati nazionali. Retta da questi criteri, la globalizzazione ha un carattere 'implosivo': pur dando vita a una rete mondiale di connessioni sociali essa produce effetti di concentrazione spaziale e di selezione restrittiva in termini funzionali e comunicativi. Ciò concorre a spiegare, sostiene Gallino, il suo carattere settoriale sotto il profilo geo-politico e geo-economico: l'intero continente africano è rimasto sinora sostanzialmente estraneo ai processi di integrazione globale.

Una posizione radicale - radicalmente critica - fra i teorici della globalizzazione è quella del sociologo francese Pierre Bourdieu, che nega la stessa opportunità di una definizione, salvo la seguente connotazione politica: «la globalizzazione è la forma più completa dell'imperialismo, quella che consiste nel tentativo di una determinata società di universalizzare la propria particolarità istituendola tacitamente a modello universale».
In realtà per Bourdieu 'globalizzazione' è uno 'pseudoconcetto’, poiché è nello stesso tempo una nozione descrittiva e prescrittiva. Per un verso essa intende riferirsi all’unificazione dell' economia mondiale come a un dato oggettivo, per un altro verso svolge un ruolo performativo, designando una politica economica che mira a unificare l'economia mondiale attraverso un'ampia serie di misure giuridiche e politiche. Queste misure hanno come obiettivo l'abbattimento degli ostacoli che l’unificazione economica del pianeta incontra e che sono legati per lo più all' esistenza degli Stati nazionali. Il termine 'globalizzazione' svolge dunque una funzione 'naturalizzante': intende accreditare l'idea che la globalizzazione e sia un effetto necessario delle leggi della tecnica o dell’economia e non l'esito delle scelte politiche delle grandi potenze industriali. (Da questo punto di vista la posizione di Bourdieu si avvicina a quella di Gallino.) L’intero discorso sulla globalizzazione viene dunque interpretato come una costruzione ideologica, un apparato retorico che si presta a legittimare il progetto neoliberista globale. E uno dei principali obiettivi dell'ideologia della globalizzazione è la demolizione del modello social democratico europeo. La tesi, a parere di Bourdieu mai dimostrata, del fallimento del Welfare State persegue i n realtà la revoca delle conquiste sociali realizzate in Europa nel corso del Novecento. Su quest'ultimo tema, sviluppato da Lo1c Wacquant e da altri autori nella scia di Bourdieu, ritorneremo più avanti, in tema di transizione dallo 'Stato sociale' allo 'Stato penale': una transizione che si profila come una delle conseguenze più rilevanti dei processi di globalizzazione sulle politiche sociali e penali delle democrazie occidentali.

2 - Apologeti e critici

Nel corso dell'ultimo decennio il termine 'globalizzazione' non solo ha registrato un successo eccezionale nella letteratura sociologica, politica e giornalistica, ma ha assunto anche la funzione di una categoria esplicativa generalissima, una sorta di nuovo paradigma del mondo contemporaneo. C'è chi ha sostenuto, probabilmente non a torto, che il concetto di 'globalizzazione' rappresenta un'idea-chiave che caratterizza in assoluto la fine Novecento e dà senso agli inizi del terzo millennio. È un concetto ordinatore che è prevalso rispetto a ogni altro, sconfiggendo in particolare le ideologie postmoderne della 'fine della storia'l. Ciò ha tuttavia comportato il rischio dell'inflazione linguistica e di una crescente polisemia concettuale, con !'inevitabile conseguenza di una serie di controversie politiche e dottrinali.
In particolare in questi ultimi anni, attorno alla nozione di 'globalizzazione' si è sviluppato nel mondo occidentale quello che è stato chiamato the great globalization debate e che ha coinvolto un gran numero di economisti, politologi, sociologi, massmediologi ed ecologisti. Nella discussione coesistono vari piani di discussione e nessuna teoria della globalizzazione ha acquisito una autorevolezza indiscussa. Per rendersi conto dell'ampiezza e complessità di questo dibattito è sufficiennte consultare l'imponente reader recentemente curato da John Beynon e David Dunkerlel. Anche le Nazioni Unite, come è noto, hanno ritenuto opportuno mettere a fuoco il tema della globalizzazione, dedicandogli lo Human Development Report del 1999, a cura dell'United Nations Development Programme (UNDP)4.
Si può dire, concisamente, che nel dibattito in corso si fronteggiano due posizioni opposte. Da una parte c'è il gruppo, largamente maggioritario, degli apologeti della globalizzazione, intesa come uno sviluppo coerente della rivoluzione industriale europea e della" connessa 'modernizzazione'. Secondo questi autori, negli ultimi tre secoli industrialismo e modernizzazione hanno dato ottima prova di sé in Occidente, promuovendo, oltre a un elevato livello di benessere economico, fenomeni come la secolarizzazione, la diffusione del liberalismo e dell' economia di mercato, la razionalizzazione burocratica delle attività amministrative, la 'rivoluzione tecnologico-informatica', la formalizzazione giuridica, la proclamazione dei diritti dell'uomo. Alla base di questi processi - e del loro crescente successo ben oltre i confini dell'Occidente - è stata l'indiscussa supeeriorità economica, tecnologica e militare della civiltà occidentale rispetto alle altre civiltà del pianeta. La stessa sconfitta dell'Impero ottomano, la liberazione dell'Europa mediterranea dalla secolare minaccia islamica e la conquista da parte delle potenze iberiche del 'nuovo mondo' sono state, agli inizi della modernità europea, i prodromi di una superiorità irreversibile dell'Occidente, fondata sul primato scientifico-tecnologico e sulle sue applicazioni industriali e militari.
In questa chiave, la più recente dilatazione globale della rivoluzione industriale e dei processi di modernizzazione è un fenomeno inarrestabile e benefico, poiché è destinato a diffondere nel mondo intero le conquiste civili dell'Occidente. Esso contribuisce inoltre a incrementare gli scambi economici, politici e culturali fra tutti gli uomini, con effetti di aumento del benessere generale. E lo sviluppo economico è la condizione necessaria, se non in assoluto la condizione sufficiente, dello 'sviluppo umano' in termini di speranza media di vita, di livelli di educazione primaria, di uno standard accettabile di qualità della vita, di godimento dei diritti fondamentali, in particolare delle libertà politiche. Una delle più rilevanti conseguenze di questo processo è il superamento dell"anarchia internazionale', grazie a una progressiva erosione della sovranità degli Stati nazionali, o almeno a una sua forte attenuazione. Ne consegue il trasferimento di una larga porzione di potere decisionale, non solo in materia economica e finanziaria, alle forze del mercato globale e ai maggiori protagonisti dell' economia mondiale, a cominciare dalle più potenti corporations economiche e finanziarie.
Su quest'ultimo punto non tutti i fautori della globalizzazione sono d'accordo. Mentre alcuni analisti Kenichi Ohmae, per esempio - auspicano e danno per scontata la 'fine degli Stati nazionali' e di ogni controlllo politico sulle forze del mercato globale, altri - fra questi George Soros -, pur condividendo pienamente l'ottimismo globalista, sottolineano l'esigenza che i mercati non siano lasciati alla pura logica capitalistica della concorrenza e del profitto. Secondo Soros la globalizzazione si è sviluppata sinora in modo asimmetrico: le istituzioni economiche e politiche internazionali - le istituzioni di Bretton Woods, anzitutto - non hanno tenuto il passo con lo sviluppo dei mercati finanziari e della globalizzazione dell'economia. Si tratterebbe perciò di sottoporre i mercati - in particolare quelli finanziari - a controlli politico-economici che riducano le attività speculative e svolgano una funzione perequativa nella distribuzione della ricchezza, oggi condizionata dalle strategie unilaterali degli Stati Uniti.
Dalla parte opposta si schiera la minoranza dei critici radicali, una minoranza irrobustita dopo le crisi economiche che nel 1997 -98 hanno investito il Sud-est asiatico, l'America Latina e la Russia. Questi critici non negano tout court gli aspetti positivi che la globalizzazione presenta o potrebbe presentare, ma ne enfatizzano soprattutto gli aspetti negativi. Essi denunciano, in particolare, la crescente polarizzazione della distribuzione della ricchezza, la persistente turbolenza dei mercati finanziari dominati da operazioni speculative imponenti e senza controllo, l'irrazionale utilizzazione delle risorse, a cominciare da quella idrica, l"occidentalizzazione' degli stili di vita e dei modelli di consumo che distrugge il pluralismo delle culture e degli universi simbolici. Nel frattempo - si sostiene - aumentano a livello globale, in drammatica sincronia, le spese militari, le vittime civili dei conflitti armati e le morti per denutrizione. Oltre a ciò, il sistema economico internazionale aggiunge ogni anno circa otto miliardi di dollari al debito dei paesi poveri verso le istituzioni economiche internazionali, controllate dalle massime potenze del pianeta, mentre milioni di persone, in Africa, in Asia meridionale, in America Latina, sono costrette dalla povertà ad abbandonare i propri paesi e a migrare verso le aree più ricche del mondo. Nonostante l'attivismo dei fautori dei diritti dell'uomo e la retorica umanitaria con la quale le grandi potenze occidentali hanno in più occasioni giustificato il loro illegale ricorso all'uso della forza, nel mondo globalizzato un numero crescente di persone vengono imprigionate, torturate, assassinate, rapite o ridotte in schiavitù.

A tutto questo si aggiunge un tema cruciale: la globalizzazione, con l'accelerazione dello sviluppo scientifico-tecnico-industriale che promuove e diffonde nel mondo, sta portando a un dissesto ecologico di dimensioni planetarie9. Come è emerso dai summit di Stoccolma (1972), di Rio de Janeiro (1992) e di Johannessburg (2002), oltre che dal protocollo di Kyoto del 1997, responsabili del dissesto sono soprattutto le potenze industriali, in primis gli Stati Uniti e l'Europa. Ma la responsabilità si allarga a macchia d'olio via via che il modello di produzione e di consumo occidentale si estende ai paesi un tempo classificati come 'Terzo Mondo'. La riconversione necessaria per salvare il pianeta richiederebbe l'abbandono dell' ottimismo liberalmistico che esalta la liberalizzazione dei mercati globali come la hidden hand che garantisce lo sviluppo, l'equa distribuzione delle risorse e l'armonia politica universale. Sarebbe invece necessaria una riconversione globale degli 'stili di vita' che dovrebbe coinvolgere le forme della produzione e del commercio mondiale e incidere anche sulle comunicazioni di massa, a cominciare dalla comunicazione pubblicitaria.
A posizioni radicali come queste, si ispira, come è noto, la contestazione militante dei movimenti no global (o new global), che attraverso grandi manifestazioni di massa - da Seattle a Porto Alegre, Genova, Johannessburg, Firenze, Cancun - ha messo sotto accusa la politica economica neoliberistica delle grandi potenze industriali e delle istituzioni economiche internazionali da esse controllate, come il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione mondiale del commmercio. Per il movimento no global, o almeno per il suo nucleo più ortodosso e intransigente, la globalizzazione è essenzialmente un fattore di turbolenza e di sradicamento di massa: è un'inarrestabile deriva verso l'aumento della povertà di milioni di persone, l'appiattiimento delle diversità culturali, la colonizzazione della dimensione locale, la devastazione dell' ambiente, lo svii1uppo planetario di tecnologie di controllo e spionaggio elettronico e, non ultimo, il ricorso all'uso della forza da parte dei paesi occidentali che a questo fine producono armi di distruzione di massa sempre più sofisticate e micidiali. I processi di globalizzazione tendono a gerarchizzare ulteriormente i rapporti internazionali emarginando le istituzioni politiche internazionali -le N azioni Unite, anzitutto - e ponendo al vertice della gerarchia del potere mondiale un direttorio di potenze industriali, egemonizzate dagli Stati Uniti d'America.
Accanto a questi due schieramenti prevalenti si collocano due posizioni intermedie. La prima, espressa emblematicamente dai lavori di Paul Hirst, può essere definita 'scettica' dal punto di vista cognitivo. Hirst non nega che la globalizzazione segni un fundamental shzft nell' economia internazionale, con rilevanti conseguenze anche di natura politica e sociale. Egli tende tuttavia a guardare con scetticismo alle strong versions della globalizzazione, e a ridimensionare sia la novità che la rilevanza dei suoi effetti economici. In generale i sostenitori di questa posizione segnalano che tra la fine dell'Ottocento e il primo decennio del Novecento - un periodo che molti storici hanno descritto come la belle époque della globalizzazione13 -le attività produttive e finanziarie erano già diffuse internazionalmente, in forme e con effetti non molto diversi rispetto a quella che attualmente viene enfaticamente chiamata 'economia globale'. E aggiungono che oggi oltre i tre quarti delle transazioni internazionali - non solo quelle di carattere economico e finanziario - si svolgono esclusivamente nell' ambito delle tre grandi aree industriali dell' America settentrionale, dell'Europa e del Giappone.
C'è infine un ultimo gruppo di autori, autorevole anche se numericamente esiguo, per il quale la globalizzazione è un processo nuovo e di grande rilievo, i cui effetti sono sia di segno positivo che di segno negativo. Questi autori denunciano tuttavia il fatto che gli aspetti negativi sono normalmente sottaciuti o sottovalutati dalle élites politiche ed economiche che reggono le sorti del mondo. Questi effetti negativi potrebbero essere contenuti a vantaggio degli effetti positivi se i processi di globalizzazione non venissero abbandonati agli automatismi della tecnologia e dei mercati, in particolare di quelli finanziari.
Di particolare rilievo, in questo senso, è la posizione 'neokeynesiana' del premio Nobel per l'economia Joseph E. Stiglitz. Per Stiglitz oggi la globalizzazione penalizza milioni di persone povere e poverissime, produce un aumento della disoccupazione su scala mondiale, non opera a favore degli equilibri ecologici del pianeta e non garantisce la stabilità dell' economia internazionale, costantemente minacciata da crisi locali o, come è accaduto nel 1998, dalla prospettiva di un crollo generale. Abbandonare la globalizzazione sarebbe tuttavia non auspicabile, e sarebbe comunque un obiettivo ben difficilmente realizzabile. La globalizzazione ha portato anche grandi vantaggi: ha offerto inedite opportunità commerciali, ha consentito un più facile accesso ai mercati e alla tecnologia, ha migliorato in generale le condizioni di salute degli uomini e ha diffuso l'informazione. Da respingere non è la globalizzazione in se stessa, ma i metodi con cui viene gestita.
Secondo Stiglitz l'attuale gestione dovrebbe essere radicalmente cambiata: essa è in larga parte condizionata dal Washington consensus, e cioè dallo stretto controllo esercitato dal Dipartimento del Tesoro statunitense sulle istituzioni economiche internazionali e in modo particolare sul Fondo monetario internazionale: gli Stati Uniti ne sono l'azionista di maggioranza, il solo con diritto di veto15. Un riformismo globale è possibile, sostiene fiducioso Stiglitz, e può portare a una 'buona globalizzazione' , gestita con metodi democratici. A questo fine - preso atto, in generale, dei pericoli della liberalizzazione senza freni dei mercati dei capitali - occorrerebbe riportare le istituzioni economiche internazionali alla loro missione originaria (pensata da Keynes), sottraendole all' egemonia degli Stati Uniti e sottopoonendole al controllo della comunità internazionale, dopo averne resi trasparenti i processi decisionali16.
Sostanzialmente convergente, anche se diversamente motivata, è la posizione del sociologo tedesco Ulrich Beck, per il quale, a certe condizioni, la globalizzazione potrebbe essere foriera di una nuova fase di progresso economico e sociale. I processi di integrazione regionale e mondiale, nonostante i gravi difetti e i rischi di cui oggi sono carichi, non comportano un distacco dalla tradizione illuministica della modernità europea, come vorrebbero invece le contestazioni radicali dei movimenti no global e le tendenze irrazionalistiche del pensiero 'postmoderno'. Al contrario - sostiene Beck - si intravede nel mondo globalizzato il profilo di una 'seconda modernità'. La prima modernità può essere intesa come una società statale e nazionale, caratterizzata da strutture collettive, pieno impiego, rapida industrializzazione, uno sfruttamento della natura non 'visibile'. Questo modello si è affermato nella società europea, attraverso varie rivoluzioni politiche e industriali, a partire dal Settecento. Oggi, agli inizi del nuovo millennio, ci troviamo secondo Beck di fronte a una 'seconda modernità' che può essere chiamata 'modernizzazione della modernizzazione' o anche 'modernità riflessiva'. Si tratta di un processo nel quale sono poste in questione e divengono oggetto di 'riflessione' le fondamentali assunzioni, le insufficienze e le antinomie della prima modernità. E a tutto ciò sono collegati problemi cruciali della politica moderna: la globalizzazione, l'individualizzazione, la disoccupazione, la rivoluzione dei generi, i rischi della crisi ecologica e della turbolenza dei mercati finanziari. In altre parole, si sta affermando un nuovo tipo di capitalismo e un nuovo stile di vita: come nel secolo XIX la modernizzazione industriale ha dissolto e superato il sistema corporativo della società rurale, così la seconda modernità è destinata a superare le attuali forme della politica 'nazional-statale' e dell'economia tardocapitalistica.
Questa rassegna di opinioni mostra che i punti di vista in tema di globalizzazione sono molto differenziati e rinviano a impostazioni teoriche e ad aspettative politiche difficilmente conciliabili. Ma al di là delle ragioni o dei torti di ciascuna posizione, emerge una 'rappresentazione minima' dei processi di globalizzazione che può essere accolta come sostanzialmente non controversa.
Per un verso sembra innegabile che negli ultimi decenni si sia sviluppato un reticolo di connessioni sociali e di interdipendenze funzionali che legano fra loro i destini degli individui e dei popoli, nessuno escluso. Come hanno ricordato Tony Spybey e Roland Robertson, per le persone coinvolte nei processi di globalizzazione anche i significati più profondi dell' esistenza, le esperienze più intime e i comportamenti quotidiani sono segnati dal cambiamento dell' orizzonte di riferimento cognitivo e simbolico: the world as a wholel8. Nelle aree continentali effettivamente investite dai processi di integrazione globale o regionale, la globalizzazione è il risultato di una serie di compressioni e di integrazioni che hanno ridotto, per così dire, gli 'interstizi vuoti' nel tessuto delle relazioni umane. Come ha sottolineato Joseph Stiglitz, ciò che ha favorito il processo di contrazione-integrazione globale è l'imponente riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e delle comunicazioni e l'abbattimento delle barriere artificiali della circolazione internazionale dei beni, dei servizi, dei capitali, delle conoscenze e, sia pure con forti ostacoli, delle persone e della manodopera.
È vero, come è stato osservato, che questo processo connette fra loro quasi soltanto i paesi industriali ed è guidato dalle istituzioni economiche internazionali da essi controllate. Esso ha tuttavia rilevanti effetti anche - e forse soprattutto - nelle aree del mondo di fatto escluse dall'integrazione, come è il caso dei paesi più arretrati sul piano tecnologico e industriale, in particolare in Africa e in larghi settori dell' Asia e dell' America Latina. E non si tratta normalmente di effetti positivi. Nel continente africano, per esempio, l'impotenza di fronte al rapido diffondersi di gravi epidemie, come l'AIDS, si deve soprattutto alle decisioni dell'Uruguay Round, che nel 1994 ha rafforzato i diritti di proprietà intellettuale, con la conseguenza che le grandi case farmaceutiche occidentali hanno potuto imporre anche ai paesi poverissimi dell' Africa subsahariana i costi proibitivi dei farmaci da loro brevettati. Analogamente, l'affossamento del protocollo di Kyoto, a causa delle pressioni esercitate dalle corporations del petrolio sull' amministrazione degli Stati Uniti, ha conseguenze sui mutamenti climatici che producono devastazioni ambientali come la desertificazione del Sud del mondo e le alluvioni al Nord. Dunque, sembra difficile dare credito all'idea che la globalizzazione, per dir così, 'non esista', che sia una proiezione puramente ideologica delle forze economiche e politiche che governano il mondo e tendono a rendere globale - imperiale? - il loro dominio.
Per un altro verso, tuttavia, sembra ragionevole non dare credito all'invadente retorica -largamente divulgata dai mezzi di comunicazione di massa occidentali  che tende a presentare la globalizzazione come la strada maestra che conduce' all'unificazione del genere umano grazie al superamento degli Stati nazionali e all'avvento di una cittadinanza universale e di un governo mondiale. Espressioni come global village o global civil society non sono soltanto lemmi di una corale apologia occidentale della globalizzazione: sono talmente entrate nel lessico internazionale da essere state adottate dai documenti ufficiali delle Nazioni Unite21. Si tratta tuttavia di formulazioni non solo generiche e ambigue, ma anche cariche di un ottimismo di maniera che vorrebbe accreditare come ormai imminente, grazie ai progressi della globalizzazione, l'effettiva integrazione della società mondiale nel segno della democrazia, della tutela dei diritti, della giustizia, della pace e della fratellanza universale.
La retorica della globalizzazione tende a occultare inoltre il fatto che la crescente omologazione di una serie rilevante di fattori sociali - gli stili di vita, le forme linguistiche e culturali, le ideologie politiche, i modelli della produzione e del consumo - non genera necessariamente ordine e integrazione comunitaria. Al contrario, la pressione omologatrice può generare, come ha sostenuto Ian Clark, resistenza, disordine e violenza. In taluni casi sembra stimolare fenomeni di rigetto, di secessione e di emarginazione da parte di soggetti - Stati, popolazioni, gruppi etnico-religiosi - che difendono la propria identità e rivendicano l'autonomia del proprio spazio 'locale' contro la contaminazione' e l' omologazione 'globale'22. Ciò è comprovato, se non altro, dalla endemica turbolenza di aree come il Medio Oriente, i Balcani, il Caucaso e l'Asia centrale, oltre che dal diffondersi del global terrorism e dal ricorso crescente delle grandi potenze all'uso della forza militare, spesso in aperta violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale.
Al di là delle, pur legittime, esternazioni di ottimismo o di pessimismo storico, ciò che sembra utile per diradare l'alone mitologico che oggi avvolge la globalizzazione - come ha suggerito un recente dossier di «Esprit»23 - è uno sforzo di analisi che distingua con cura i vari ambiti investiti dal fenomeno e ne metta a fuoco le problematiche specifiche, spesso molto differenziate da settore a settore. È quanto tenterò di fare nei prossimi capitoli.

Solo su questa base analitica sarà eventualmente legittimo esprimere alla fine, con molta prudenza, alcune valutazioni complessive e chiedersi se sia legittimo spingersi a parlare, come fa Zygmunt Bauman, di una 'nuova antropologia' dell'uomo globalizzato che cancella ogni traccia della modernità europea. E sarà anche legittimo domandarsi se ha senso concludere, come Bauman conclude, con l'ennesima metafisica universalistica e il consueto corteo di nozioni quali 'bene pubblico', 'società buona', 'equità' e 'giustizia', assunte come base per l'ennesimo progetto di una repubblica planetaria che cancelli i confini degli Stati sovrani.

3
L’ economia globalizzata

Il tema centrale del globalization debate è senza dubbio quello economico-finanziario. La disputa riguarda anzitutto il carattere realmente 'globale' - e quindi originale - delle attuali relazioni economiche e finanziarie. Ma riguarda soprattutto gli effetti che la globalizzazione delle imprese, dei fattori produttivi e dei mercati finanziari esercita sia in termini di produzione di ricchezza e di benessere in senso assoluto, sia in relazione al problema della re distribuzione dei redditi.
Secondo la tesi 'globalista', nelle sue espressioni canoniche, i processi di globalizzazione oggi in corso sono uno sviluppo fortemente innovativo dell' economia mondiale: sono un global shzftl. Non ci troviamo in presenza di una semplice intensificazione e amplificazione delle relazioni economiche internazionali. L'economia contemporanea si caratterizza nettamente come una 'economia globale': in essa i principali fattori di produzione presentano un tasso di interdipendenza, di integrazione e di apertura che non ha precedenti nella storia dell'umanità. L'apertura globale dei mercati, inclusi quelli finanziari, e la loro espansione senza limiti territoriali, ha l'effetto di aumentare la concorrenza e la produttività, di stimolare la circolazione dei risparmi su scala mondiale, di ridurre la disoccupazione e quindi di incrementare in misura considerevole la ricchezza complessiva prodotta. Grazie alla diffusione delle nuove tecnologie nei settori della ricerca biologica, dell'informazione e della comunicazione, e grazie alla differenziazione e specializzazione dei mercati, al libero movimento dei capitali e all'espansione del commercio mondiale, la globalizzazione porta con sé opportunità e vantaggi di grande rilievo. Fra questi possono essere annoverati, come sostiene per esempio Amartya Sen, una più efficiente divisione internazionale del lavoro, l'abbattimento dei costi di produzione, l'incremento generale della produttività e, quindi, la riduzione della povertà e il miglioramento della qualità del lavoro e delle condizioni di vita personali e sociali.
È un dato oggettivo, sul quale non è consentito dubitare, che il consumo globale di beni e di servizi si è notevolmente accresciuto negli ultimi cinquant'anni, come del resto provano documenti ufficiali delle Nazioni Unite. Nel 2000 il prodotto interno lordo del pianeta è stato di 42.000 miliardi di dollari, sette volte più che nel 1950. Secondo gli indici classici della crescita economica, non solo una gran parte dei paesi dell'OCSE - i più industrializzati del mondo - ha tratto vantaggio dalla globalizzazione, ma importanti poli di sviluppo si sono affermati anche in paesi come la Cina, l'India e l'America meridionale, e ciò ha comportato un rapido aumento del reddito individuale in una parte considerevole della popolazione mondiale. Le condizioni di vita di milioni di persone sono migliorate: la loro vita è più lunga e più sana, il tasso di mortalità infantile si è dimezzato, il numero delle persone denutrite è diminuito, l'alfabetizzazione degli adulti è passata dal 60 all'80 per cento.
Questi risultati positivi premiano anche i processi di integrazione economica regionale: in Europa il mercato comune e l'unificazione monetaria hanno creato un vasto spazio economico favorevole alle imprese transnazionali, ai flussi di investimenti stranieri, alla ricerca scientifica e tecnologica e agli spostamenti delle persone. Paesi come Irlanda, Finlandia, Grecia, Spagna e Portogallo, un tempo considerati periferia dell'Europa, hanno tratto considerevoli benefici sociali dall' abbattimento delle frontiere economiche nazionali. Ciò che dà spinta all' espansione globale della produzione e del commercio sono fattori come l'accresciuta possibilità di sfruttare i 'vantaggi comparati' di ciascuna economia locale, la rapida espansione degli investimenti produttivi all' estero, la strutturazione 'reticolare', anziché piramidale e gerarchica, delle imprese che operano su scala mondiale. Oltre a tutto ciò, si avanza la previsione che un' economia di mercato globalizzata sarà sempre più in grado di mettere la ricchezza prodotta a disposizione di tutti gli uomini, riducendo gradualmente il gap oggi esistente fra i paesi industriali avanzati e i paesi 'in via di sviluppo'. Anche la tutela dell' ambiente - si sostiene potrà essere ottenuta attraverso la mediazione dei mercati globali, perché nel lungo periodo il meccanismo della concorrenza finirà per far prevalere le modalità produttive rispettose degli equilibri ecologici e non aggressive verso l'ambiente naturale, si affermeranno cioè le produzioni che richiedono una ridotta manipolazione di materia e un minore consumo di energia.
Naturalmente tutto questo richiede la libera circolazione planetaria dei fattori della produzione e dello sviluppo: le materie prime e i manufatti, le risorse energetiche, i capitali, la forza-lavoro, le conoscenze tecnicoscientifiche. La condizione generale è che sia mantenuto fermo il quadro globale di un'economia concorrenziale, definitivamente liberata dai residui del mercantilismo protezionista e dalle pratiche, più o meno dichiarate e giustificate sul piano teorico, del nazionalismo economico. Altrettanto necessaria è la privatizzazione completa dei mezzi di produzione, contro ciò che rimane dell'interventismo economico un tempo praticato dagli Stati socialisti e contro le forme di assistenzialismo pubblico ancora presenti nell'Europa del Welfare State. Lo sviluppo globale dell' economia richiede dunque, come ha sostenuto con forza Kenichi Ohmae, una regolazione politica. minima dei processi produttivi e degli scambi commerciali: esige una deregulation che elimini ogni impaccio allo slancio creativo delle forze del mercato globale, incluse le frontiere degli Stati nazionali e, alla fine, la loro stessa sovranità: gli Stati nazionali non sono ormai che «uniti di business artificiose».
Se la globalità è la prima condizione dello sviluppo del mercato finanziario, e se la 'manifattura globale' può insediarsi al Nord, al Sud o all'Est del mondo secondo le tecniche della 'catena globale dei beni' illustrate da Gary Gareffi, allora - si sostiene - gli Stati nazionali hanno esaurito ogni funzione e occorre muovere contro di loro una vera e propria guerra economica. Anche le istituzioni internazionali devono, se non proprio farsi da parte, operare al servizio di un' economia di mercato senza confini e senza vincoli (ciò che del resto soprattutto il Fondo monetario internazionale è già impegnato a fare, almeno a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso, ormai dimentico della sua originaria ispirazione keynesiana, orientata a una regolazione politica dell' economia capitalistica). La tradizionale cartografia politica - si sostiene - è superata dalla geo-economia globale che dà vita a nuove aree di fiorente sviluppo economico che si differenziano all'interno degli Stati o si insediano a cavallo dei loro confini.
Dopo il fallimento dell' economia pianificata nei paesi del 'socialismo reale' non si profilano all'orizzonte alternative teoriche e pratiche a un' economia di mercato libera e globalizzata. Le tesi marxiste ortodosse, basate sulla concezione classista della storia e sulla critica 'materialista' dell' economia capitalistica e dei suoi sviluppi imperialistici, godono ormai di un credito molto limiitato12. Ma sottoposte a una forte pressione critica sono anche le versioni neocolonialiste - genericamente neomarxiste - come la 'teoria della dipendenza' elaborata, fra gli altri, da André Gunder Frank, o la teoria del 'sistema mondiale' di Immanuel Wallerstein, o, da ultimo, la lettura 'imperiale' (non imperialistica) del nuovo ordine della globalizzazione proposta da Michael Bardt e Antonio Negri.
Ciò che di queste teorie si contesta in particolare è la tesi dell' esistenza di un nesso causale fra la ricchezza dei paesi industrializzati e la povertà dei paesi industrialmente arretrati, come se i primi si fossero arricchiti a spese dei secondi e non grazie a una loro autonoma superiorità produttiva. Contro quella che essi considerano una generica ideologia terzomondista, numerosi autori proclamano la 'fine del Terzo Mondo': il divario fra paesi ricchi e paesi poveri non dipende da alcuno sfruttamento internazionale o dall'iniquità strutturale dei terms 0/ trade entro i mercati globali. Dipende dal diverso grado della produttività dei sistemi economici naazionali, e quindi dai livelli di cultura, qualificazione tecnica, competenza amministrativa e spirito di iniziativa che caratterizzano i diversi paesi. L'ordine scalare delle potenze economiche si deve essenzialmente alla tempestiva adozione dell' economia di mercato da parte dei paesi che oggi si trovano in condizioni di vantaggio e dal loro risoluto affacciarsi ai mercati globali. I paesi meno sviluppati che per loro iniziativa hanno costruito delle efficienti economie interne, capaci di reggere la sfida dell' economia globale - il riferimento è ovviamente alle cosiddette 'tigri asiatiche' o NIC (Newly Industriallised Countries) - sono i soli che hanno avuto successo nel raggiungere rapidamente un notevole tasso di sviluppo economico.
Altri autori, pur condividendo in tutto o in parte le analisi economiche sopra riportate, le mettono a confronto con gli effetti di segno contrario che i processi di globalizzazione esercitano in vari settori dell' economia mondiale. Paul Hirst, come abbiamo già accennato, si spinge sino a mettere in dubbio che l'internazionalizzazione in atto dell' economia significhi una sua reale globalizzazione in termini di interdipendenza, integrazione e apertura. Rispetto alla belle époque del periodo 1890-1914, oggi l'entità e l'espansione geografica degli scambi commerciali, finanziari e di forza-lavoro sono di ordine notevolmente inferiore16. Anche l'entità dei flussi migratori della prima metà del Novecento supera l'attuale dimensione del fenomeno e dunque non è corretto ritenere, come fa Saskia Sassen, che «l'immigrazione è il processo fondativo della nuova politica economica transnazionale»17. Persino fra gli Stati dell'OCSE, le cui economie raggiungono un elevato grado di interconnnessione, la tendenza in atto mostra un livello ridotto di integrazione economico-finanziaria. L'andamento delle relazioni economiche segnala non tanto un progresso verso un'economia globalizzata, quanto un'internazionalizzazione dell' attività economica, e cioè un'intensifiicazione dei rapporti di scambio fra economie che tuttavia restano fra loro sostanzialmente separate. Le attività economiche, anziché dar vita a un unico circuito globale, tendono a organizzarsi attorno a tre blocchi, ciascuno dei quali articolato in un centro e una periferia: l'America settentrionale, l'Europa occidentale, l'Asia orientale e del Pacifico. A questa tripartizione si accompagna una progressiva interdipendenza dei fattori produttivi e finanziari all'interno (e non verso l'esterno) di ciascuna di queste tre aree18. Anche le corporations multinazionali, che oggi controllano da sole il 20 per cento della produzione mondiale e il 70 per cento del commercio, rimangono sostanzialmente legate ai rispettivi mercati nazionali o regionali all'interno della 'triade', nonostante la loro fama di 'capitali senza patria'.
Per quanto riguarda gli effetti della globalizzazione, molti autori segnalano, in generale, che la crescente differenziazione dei ritmi dello sviluppo economico, e del connesso 'sviluppo umano', nelle diverse aree continentali del pianeta è in molti casi favorita proprio dai processi di integrazione globale dell' economia. L'ottimistica dichiarazione della 'fine del Terzo Mondo' non può nascondere che la differenziazione del progresso economico anche all'interno dell'area dei paesi 'in via di sviluppo' finisce per moltiplicare le differenze anziché introdurre una prospettiva di progressiva integrazione economico-sociale del pianeta. A pagare il prezzo maggiore di un' economia mondiale ulteriormente differenziata e frammentata sono i più poveri dei paesi poveri - coloro che vivono con meno di un dollaro al giorno (e cioè una larga fascia della popolazione mondiale.
Il quadro della distribuzione della ricchezza su scala globale è allarmante sia per i suoi dati attuali sia, e soprattutto, per le tendenze in atto. Ricostruite in termini generali, e tenendo conto soltanto di dati elaborati da istituzioni ufficiali, le dinamiche dello sviluppo diseguale negli ultimi trent' anni e le attuali disparità economiche si presentano a livello mondiale nei termini seguenti. Agli inizi degli anni Sessanta il 20 per cento più ricco della popolazione mondiale disponeva di redditi trenta volte superiori a quelli del 20 per cento più povero. Oggi, dopo circa quarant' anni, il20 per cento più ricco gode di redditi di circa 66 volte superiori a quelli della fascia più povera della popolazione mondiale. Questa proporzione è però calcolata sulla base del confronto fra Stati. Se si tiene conto anche delle sperequazioni distributive interne a ciascun paese - in Brasile, per esempio, il 20 per cento più ricco della popolazione si attribuisce circa il 70 per cento del reddito nazionale mentre al 20 per cento più povero va meno del 2 per cento -, la disparità globale aumenta ulteriormente: il 20 per cento più ricco della effettiva popolazione mondiale è destinatario di una quota di ricchezza almeno 150 volte superiore a quella del 20 per cento più povero.

In quarant'anni la distanza fra i paesi più poveri e i paesi più ricchi, calcolata in termini di PIL - ma risultati analoghi si ottengono misurando le quote di partecipazione al commercio mondiale, 1'entità del risparmio e degli investimenti interni -, si è dunque più che raddopppiata20. Come ha sottolineato John Galbraith nella prefazione allo Human Development Report delle Nazioni Unite del 1998, oggi il 20 per cento della popolazione mondiale più ricca si accaparra 1'86 per cento dei consumi mondiali, mentre il 20 per cento più povero consuma l' 1,3 per cento di tutti i beni e servizi prodotti. Le 200 persone più ricche del mondo dispongono di risorse superiori a quelle dei due miliardi di persone più povere. Ma 1'aspetto più preoccupante, nonostante le cautele raccomandate da Amartya Sen, è che la disuguaglianza di reddito fra i due estremi della piramide della stratificazione sociale è tuttora in forte accelerazione21. Si prevede che, se non cambieranno drasticamente i tassi attuali dello sviluppo globale e le attuali proporzioni distributive, nel 2020 il divario fra il quarto più ricco della popolazione mondiale e il quarto più povero sarà del 300 per cento superiore al divario attuale.
I dati forniti dalle N azioni Unite attraverso gli annuali Human Development Reports, curati dall'UNDP, mostrano che oltre un miliardo di persone, e cioè circa un quarto della popolazione mondiale, vive in condizioni di 'povertà assoluta' nei paesi economicamente arretrati: circa una metà in Asia meridionale, un terzo concentrato nell'Africa subsahariana (dove nel periodo 1981-91 il reddito individuale era già diminuito del 25 per cento) e una quota consistente in America Latina23. La povertà assoluta è diffusa nelle aree agricole, ma si concentra in forme particolarmente degradanti nelle grandi periferie metropolitane. Le donne e i bambini sono più colpiti dei maschi adulti. Alle donne va solo il lO per cento del reddito globale mentre il loro contributo in termini di ore lavorate si aggira, se si tiene conto del lavoro domestico, attorno al70 per cento. Almeno quattro milioni di donne e bambine sono vendute ogni anno per fini di prostituzione, schiavitù domestica o nozze forzate. L'Organizzazione mondiale della sanità ha stimato che alla fine del 2000 almeno 34 milioni di persone, in larga parte in Africa' erano affette da HIV/AIDS. Secondo la medesima stima, più di dieci milioni di bambini muoiono ogni anno per malattie derivanti dalla malnutrizione loro o delle loro madri e altri dieci milioni di bambini sotto i cinque anni vivono in condizioni prossime alla morte per fame. Si calcola inoltre che 700 milioni di adulti siano gravemente malnutriti e che un miliardo e 700.000 persone siano prive di accesso a fonti d'acqua potabile. Tutto ciò non dipende da una' scarsità globale di risorse alimentari, il cui incremento, nonostante le diffuse previsioni malthusiane talora utilizzate strumentalmente, è stato in questi decenni cospicuo e notevolmente superiore rispetto al tasso di crescita demografica.
Tutto ciò accade anzitutto perché le grandi potenze industriali e le aggregazioni regionali che fanno loro capo - l'Unione Europea e il NAFTA (North American Free Trade Agreement), per esempio - nonostante la loro professione di fede nei principi dell' economia di mercato, praticano complesse strategie nelle quali si congiungono la competizione mercantilistica fra gli Stati, il regionalismo economico e il protezionismo settoriale, in particolare nel settore agricolo. Come ha sostenuto Robert Gilpin, le politiche economiche di apertura globale dei mercati nazionali convivono con le pratiche caratteristiche del nazionalismo economico. L'apertura dei mercati è massima nei settori dove la concorrenza globale va a vantaggio dei più forti - tipico è il caso del mercato finanziario e delle manifatture high tech -, mentre altrove regna il new protectionism che discrimina i paesi più deboli, fra l'altro afflitti da un indebitamento estero crescente. La discriminazione assume la forma tradizionale delle tariffe doganali, in particolare sui beni provenienti dai paesi esportatori di materie prime che siano già parzialmente elaborate. Ma assume, in misura assai più ampia, la forma delle barriere 'non-tariffarie' che consentono di aggirare i principi della non discriminazione e della multilateralità che erano alla base del regime internazionale del commercio istituito dal GATT (General Agreement on Tariffs and Trade), poi sostituito dalla World Trade Organization (WT0).
Dei ventiquattro paesi dell'OCSE, almeno venti sono oggi più protezionisti di quanto lo fossero uri decennio fa e circa il 30 per cento delle loro importazioni provenienti dai paesi non industrializzati è affetto da vincoli non-tariffari. Agli inizi degli anni Novanta del secolo scorso solo il 7 per cento del commercio mondiale rispettava i principi liberali del GATT: settori come quello agricolo, dei prodotti tropicali, dei tessili, dei servizi, della proprietà intellettuale e degli investimenti si sottraevano alle regole del 'mercato globale' provocando una perdita annuale di non meno di mille miliardi a carico dei paesi economicamente più deboli. Complessivamente le restrizioni commerciali e le dissimmetrie contrattuali sono costate in questi anni ai paesi non industrializzati attorno al 20 per cento del loro PIL e più di sei volte di quanto essi investono nello 'sviluppo umano' a favore delle loro popolazionF7. E lo 'svilupppo umano', come ha sostenuto Amartya Sen, è a sua volta, circolarmente, una delle principali condizioni dello sviluppo economic028.
È con una sostanziale subordinazione a queste tendenze generali dell' economia mondiale che le massime istituzioni economiche internazionali - in modo particolare la Banca Mondiale e il Fondo monetario internazionale - hanno operato in questi decenni. Ciò che si può dire, in particolare sulla base delle analisi di Joseph Stiglitz, è che la loro influenza sulle dinamiche di sviluppo dell' economia internazionale è stata o irrilevante o favorevole alle maggiori potenze industriali, in particolare agli Stati Uniti, che sono proprietari di quote maggioritarie del capitale della Banca Mondiale e del Fondo monetario internazionale. Queste istituzioni si sono talmente allontanate dalle funzioni loro formalmente attribuite nel 1944 a Bretton Woods, al punto che nell'ultimo ventennio hanno sottratto imponenti quantità di risorse finanziarie ai paesi poveri - incautamente indebitatisi prima del crollo dei prezzi internazionali dei loro cash-crops nel corso degli anni Ottanta --'- e le hanno versate nelle casse dei paesi ricchi.
Ovviamente, il livello internazionale dei prezzi delle materie prime non dipende da eventi naturali o da un'imparziale hidden hand: dipende in larghissima misura dalle politiche economiche (e anche dalle politiche militari) dei paesi industriali e dalle scelte di mercato delle corporations più potenti. Non è esagerato dunque parlare di un vero e proprio 'strozzinaggio internazionale'. Come è noto, il saggio di interesse reale che i paesi poveri hanno pagato in questi anni per i loro debiti esteri equivale al saggio di interesse nominale rapportato al cambio in dollari dei prezzi delle loro esportazioni. A causa del crollo di questi prezzi i paesi industrialmente arretrati hanno pagato in media saggi di interesse reale del 17 per cento per i prestiti ricevuti dai paesi ricchi attraverso le istituzioni monetarie internazionali, mentre quest'ultimi hanno normalmente pagato saggi di interesse del 4 per cento.
Nonostante le sue severe critiche alle istituzioni economiche internazionali, Joseph Stiglitz non nega che la liberalizzazione del commercio e una maggiore integrazione fra le economie nazionali possano avere effetti positivi, soprattutto a favore dei paesi più poveri. E tuttavia egli sostiene che la globalizzazione ha sinora avuto «effetti devastanti sui paesi in via di sviluppo e soprattutto sui poveri che vi abitano». Negli ultimi dieci anni il numero delle persone che vivono in povertà - egli scrive - è aumentato di 100 milioni, mentre il reddito mondiale complessivo è cresciuto in media del 2,5 per cento annuo. Una delle ragioni sta nel fatto che le istituzioni economiche internazionali, in nome di una «concezione fondamentalista» dell' economia di mercato, hanno paradossalmente favorito e talora esasperato gli effetti discriminatori e destabilizzanti dei mercati, anziché correggerli e compensarli. Nel corso degli anni Novanta del Novecento i paesi poveri del Sud del mondo hanno versato ai paesi ricchi del Nord in media circa 21 miliardi di dollari all' anno31. Oltre a ciò, il Fondo monetario internazionale, al di fuori di ogni investitura democratica e senza alcuna trasparenza decisionale, ha svolto una funzione di controllo e di pressione sulle economie interne di decine di paesi gravemente indebitati, attraverso i cosiddetti 'programmi di aggiustamento strutturale'. Esercitando una sorta di governo parallelo sulle economie di questi paesi, il Fondo li costringe a politiche economiche di in discriminata apertura al mercato mondiale - apertura che per le loro economie deboli è sicuramente svantaggiosa - e li induce, nello stesso tempo, a una drastica riduzione degli investimenti sullo 'sviluppo umano' delle loro popolazioni, oltre che a velleitari progetti di contenimento demografico. Una delle conseguenze più gravi di queste politiche è l'aumento della disoccupazione all'interno di questi paesi e il conseguente stimolo all' emigrazione di massa.

Anche Ulrich Beck si schiera contro il 'globalismo economico', espressione con la quale egli designa l'ideologia ultraliberistica -la 'metafisica del mercato globale' - che minimizza i rischi che la globalizzazione economico-finanziaria comporta. I rischi più gravi, sostiene Beck, vengono dai settori più forti dell' economia globalizzata: vengono dalla capacità che le grandi imprese industriali e finanziarie hanno di sottrarsi ai tradizionali vincoli di solidarietà con le popolazioni locali, eludendo sistematicamente l'imposizione fiscale32. La struttura delle grandi corporations è tale che esse possono scegliere a piacere e mutare velocemente le sedi geografiche o funzionali dei propri fattori di produzione, sottraendosi così al diritto del lavoro e alla disciplina tributaria degli Stati nazionali.
In una situazione in cui i capitali si muovono con facilità da un ambito giurisdizionale a un altro, se si cerca di imporre a un'impresa multinazionale una tassazione più rigorosa, scatta il ricatto dell' exit: il. capitale minaccia di spostarsi, o lo fa senz'altro. Così, scrive Stiglitz, «per ironia della sorte, proprio nel periodo in cui l'ineguaglianza ha continuato a crescere - ed è cresciuuta enormemente negli ultimi venticinque anni - la capacità di re distribuire reddito attraverso la tassazione dei capitali è stata altrettanto enormemente ridotta».
Nello stesso tempo lo sviluppo delle tecnologie elettroniche - automazione, informatica, telematica - aumenta la produttività delle imprese multinazionali e rende superflua una forza-lavoro che non sia altamente qualificata. Si afferma così un capitalismo globale 'post-fordista' e 'post-taylorista' che è in grado di ridurre notevolmente i costi del lavoro. In presenza di una accresciuta concorrenza e instabilità economica, il capitalismo globale tende a liberarsi della quasi totalità dei tradizionali lavoratori dipendenti a favore di prestazioni lavorative 'flessibili' - a tempo 'determinato, a tempo parziale o di carattere interinale - che consentono alle imprese notevoli risparmi. Ciò consente infatti alle imprese di utilizzare la minor quantità possibile di forza lavoro per unità di prodotto, acquistando esclusivamente in ogni dato momento - il che vuol dire in molti casi ogni giorno -la forza-lavoro necessaria per soddisfare la domanda a breve termine.
È del tutto ovvio che le classi imprenditoriali tendano a scaricare sui lavoratori dipendenti i rischi e gli oneri derivanti dalle dimensioni globali dell' economia. Dal punto di vista imprenditoriale il mercato del lavoro è, tout court, un mercato come tutti gli altri. Il problema delle' conseguenze umane' della precarietà del lavoro e del reddito individuale - in termini di debole professionalità, incapacità di progettare la propria vita, disgregazione sociale - è una 'esternalità' (outsourcing) che sarà semmai il sistema politico a dover impostare e risolvere36. Ma, ecco un punto delicatissimo, la crescente 'flessibilità' del lavoro sta portando, anche nei paesi europei di Welfare State, a un indebolimento dell'intero apparato delle tutele sociali garantite sinora ai lavoratori e alle loro famiglie: pensione, liquidazione, malattie, gravidanza, e così via. Le tecniche, sempre più sofisticate, di flessibilizzazione del lavoro tendono infatti a costringere il lavoratore dipendente in una dimensione di puro diritto privato. Il carattere sempre più precario e 'atipico' del rapporto di lavoro dissocia infatti la posizione del lavoratore dipendente da qualsiasi dimensione collettiva, sino alla completa individualizzazione della sua figura sociale e giuridica. In prospettiva decade l'efficacia della tutela sindacale del lavoro e, al limite, la stessa possibilità di una normazione pubblica dei rapporti di lavoro: «il terminale della flessibilità - è stato scritto - è la pura contrattazione individuale».
È questa la tenaglia che anche nei paesi industriali più avanzati sta stritolando le nuove generazioni, colpite dalla precarietà del lavoro, dalla inoccupazione e dalla disoccupazione. E la precarizzazione del lavoro non colpisce soltanto le fasce sociali più deboli: destabilizza le società post-fordiste nel loro complesso. Sebbene la diffusione della ricchezza abbia prodotto nelle società occidentali una classe media molto ampia, la globalizzazione minaccia il benessere anche di questa categoria.
La figura sociale del cittadino-lavoratore relativamente benestante tende a scomparire. Essa viene sostituita dalla figura dell"imprenditore di se stesso’ che deve misurarsi da solo con l'insicurezza del suo futuro. In questo modo la globalizzazione modifica in profondità il tessuto sociale delle società occidentali e tende ad amplificare il fenomeno dell’emarginazione sociale.

Una conseguenza generale di questi fenomeni è che, mentre crescono i profitti delle imprese multinazionali, stanno riducendosi nei paesi industriali le entrate fiscali legate alle attività produttive e si esauriscono quindi le risorse finanziarie tradizionalmente destinate ai servizi sociali e alle pensioni. Non è soltanto il lavoro che viene a mancare: vengono a mancare le risorse pubbliche tout court e questo porta inevitabilmente a una generale ineffettività dei diritti sociali. Tutto ciò spiega, per esempio, perché in Europa occidentale - una delle aree più ricche e industrializzate del mondo - oggi ci siano venti milioni di disoccupati, cinquanta milioni di poveri e cinque milioni di senza tetto. E questo accade nonostante che negli ultimi vent'anni nei paesi dell'Unione Europea il reddito complessivo sia aumentato in una proporzione che si aggira fra il 50 e il 70 per cento.
Altri autori insistono sui temi classici come le imperfezioni dei mercati e le distorsioni dei meccanismi competitivi. La competitività, sostiene per esempio Gallino, è una nozione ingannevole se non si prendono in considerazione i dislivelli del costo del lavoro entro le diverse aree del mercato, e se non si tiene conto che questi dislivelli dipendono dai sistemi di protezione sociale dei lavoratori, dalla durata delle loro prestazioni giornaliere, dal divieto o meno del lavoro minorile e, non ultimo, dalla legislazione a difesa dell'ambiente. La tutela del lavoro e il rispetto dell'ambiente, per esempio, raggiungono standard molto elevati in Germania, mentre sono praticamente inesistenti in Indonesia, dove il costo del lavoro è molto basso, la protezione sociale dei lavoratori è praticamente inesistente e lo sciopero è vietato per legge. Secondo uno studio dell'Istituto per l'economia tedesco, nel 1994 il costo del lavoro nelle industrie manifatturiere della Germania occidentale ammontava a 44 marchi all' ora, mentre era di 36 marchi in Giappone, di 3,5 marchi in Polonia e di un solo marco in Indonesia. E ancora oggi centinaia di milioni di lavoratori in India, nelle Filippine, in Cina e in molti paesi africani e latino-americani guadagnano meno di un dollaro all' ora. Si capisce dunque perché gli investimenti diretti all' estero delle industrie occidentali sono rapidamente cresciuti negli ultimi decenni. E si intende perché la differenziazione dei livelli salariali all'interno delle diverse aree economiche del mondo resta elevatissima e per quali ragioni la retribuzione del lavoro dipendente tende a decrescere anche nelle aree più sviluppate, a cominciare dagli Stati Uniti;
Sotto accusa sono inoltre le distorsioni speculative dei movimenti internazionali dei capitali, che sono sottratti a qualsiasi forma di controllo dopo la fine del regime dei cambi fissi, decisa dall' amministrazione statunitense agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso. La deregulation finanziaria per un verso ha impresso un' eccezionale accelerazione alla circolazione del denaro, per un altro ha consentito a migliaia di operatori, in larghissima parte appartenenti alle aree più ricche del pianeta, di realizzare cospicui profitti servendosi del mercato elettronico dei capitali, che non ha alcuna relazione diretta con lo scambio di prodotti e di servizi reali. Ciò che viene scambiato negli 'investimenti di portafoglio’ è valuta  contro valuta, oppure valuta contro titoli, obbligazioni, azioni o jutures. Nel 1998 il movimento giornaliero dei capitali si aggirava su scala globale attorno ai 2.000 miliardi di dollari, mentre soltanto una ridottissima porzione di questa somma - tra un cinquantesimo e un centesimo, secondo varie stime - si riferiva a pagamenti di prodotti e servizi. Tutto ciò, oltre a essere una permanente minaccia alla stabilità dei mercati finanziari e, più in generale, alla stabilità economica di interi paesi, rappresenta un imponente fenoomeno di rendita finanziaria di natura parassitaria40. E gli Stati non sono in grado - o mancano della volontà politica - di imporre tasse sulle transazioni valutarie internazionali, come James Tobin aveva suggerito agli inizi degli anni Settanta del secolo scorso e come numerosi movimenti, in particolare l'organizzazione ATTAC, oggi propongono nella forma della 'Tobin Tax'.
Sembra chiaro, dunque, che l'equazione fra globalizzazione, sviluppo economico e 'sviluppo umano' non può essere data per scontata. Certo, oggi nessuno contesta che dopo il collasso del 'socialismo reale' e del suo modello di economia pianificata, il mercato si è universalmente affermato come il meccanismo più efficiente di produzione della ricchezza. E nessuno può negare che l'efficienza dell' economia di mercato è tanto maggiore quanto più ampie sono le dimensioni dei mercati, più libere le transazioni economiche e più rapida la circolazione delle informazioni, anche grazie all'uso degli strumenti elettronici. E d'altra parte, almeno sul piano teorico, l'aumento della ricchezza prodotta potrebbe contribuire in modo decisivo alla riduzione della povertà e al miglioramento generale della qualità della vita di centinaia di milioni di persone. E tuttavia, rebus sic stantibus, pesanti ostacoli impediscono che l' 'economia globale’ produca i risultati positivi che i suoi sostenitori danno per scontati e i suoi avversari negano o ritengono impossibili.
Di fatto, come abbiamo visto, la globalizzazione economica oggi porta con sé, oltre a un aumento assoluto della povertà in talune aree continentali, fenomeni generali come la crescente divaricazione fra una ristretta minoranza di paesi ricchi e potenti e una grande maggioranza di paesi poveri e deboli, l'aumento della disoccupazione in tutti i paesi, inclusi quelli industrializzati, e una crescita della produttività costantemente minacciata dalle turbolenze dei mercati finanziari. Sembra dunque trovare conferma a livello globale l'incapacità dell'economia di mercato di autoregolarsi, compensando attraverso strumenti normativi la sua intrinseca tendenza a distribuire la ricchezza prodotta in modo diseguale e a generare quindi instabilità economica e conflitto sociale. Questi limiti funzionali, già ampiamente manifestatisi entro l'esperienza dei paesi industrializzati, sembrano notevolmente amplificati dalla dimensione globale dei mercati, dove la differenza dei punti di partenza è di proporzioni conclamate. Per ridurli, e cioè per tentare almeno di contenere la tendenza in atto a un aumento costante delle disuguaglianze fra gli Stati e all’interno degli Stati, occorrerebbe - sostiene Gallino - riequilibrare i rapporti fra l'economia finanziaria e l’economia reale, assicurare un'autentica concorrenza fra le imprese, migliorare i contenuti qualitativi dello sviluppo economico, promuovere lo sviluppo locale. Ma tutto questo richiederebbe una global governance fondata sulla , sulla discussione pubblica e sulla partecipazione democratica di tutti i soggetti interessati.

4 Rivoluzione informatica e 'cultura globale'

La 'rivoluzione informatica', come abbiamo accennato, ha ampiamente investito la sfera dei rapporti produttivi e finanziari, accelerando il processo di globalizzazione economica. A partire dai primi anni del secondo dopoguerra, la comunicazione televisiva e, qualche decennio dopo, l'informatica digitale si sono affermate negli Stati Uniti e poi si sono rapidamente diffuse a livello mondiale. Per un verso, il mezzo televisivo ha impresso un enorme impulso alla diffusione nazionale e transnazionale della pubblicità commerciale e quindi alla disposizione all' acquisto e al consumo. Per un altro verso, la rete digitale, nella quale si integrano sempre più strettamente computer, telefono e televisione, ha avuto l'effetto di potenziare i flussi di informazione tra le unità produttive delle imprese transnazionali e ha poi promosso il fiorente mercato elettronico (e-commerce). E ha soprattutto operato come uno strumento di comunicazione finanziaria, dando vita al cosiddetto 'capitalismo digitale', insediato nei più grandi mercati finanziari del mondo, da Tokyo a Francoforte, a Londra, a NewYork.
Ma la 'rivoluzione informatica' , favorita dalle tecnologie satellitari, ha esercitato un'influenza altrettanto profonda - e altrettanto orientata verso !'integrazione globale - sui mezzi di comunicazione di massa, non solo nei settori della emittenza televisiva e della comunicazione digitale in senso stretto, ma anche nell'universo multimediale dei film, dei cartoon, dei videogiochi, delle videocassette, dei CD, in generale, dell'industria musicale, dell'intrattenimento e dello sport In particolare nell'ultimo decennio il processo di integrazione comunicativa è stato talmente intenso e rapido da legittimare l'idea di un 'globalismo cibernetico' capace di 'mettere in rete il mondo', e cioè di avvolgerlo in una fitta trama di connessioni informative e comunicative, non escluse le reti di monito raggio e spionaggio ciberneticosatellitare a fini sia industriali che militari e di repressione della criminalità interna e internazionale. Ne sono un esempio Echelon e l'accordo tra Regno Unito e Stati Uniti che integra le agenzie di spionaggio elettronico dei cinque principali paesi anglofoni. La tappa successiva, ormai prossima, sarà l'industrializzazione e la militarizzazione informatica dello spazio extraterrestre.

Sia il mezzo televisivo che quello digitale hanno impresso una forte accelerazione ai processi di integrazione culturale che nell' area occidentale erano già in atto a partire dai primi decenni del Novecento, grazie alla difussione della stampa quotidiana e delle trasmissioni radiofoniche. Molti autori usano ormai correntemente l' espressione 'cultura globale' e ne raccomandano il concetto. Ma, naturalmente, anche per quanto riguarda il bilancio degli effetti positivi e di quelli negativi della globalizzazione informatica - televisiva e telematica - ci sono opinioni molto differenziate fra gli esperti massmediologici e fra i sociologi della globalizzazione. Si può dire, schematizzando, che per quanto riguarda il mezzo televisivo l’opinione prevalente è che la sua diffusione planetaria promuova un notevole incremento della competenza linguistica, dell'informazione e della cultura generale. E questo andrebbe a vantaggio soprattutto dei popoli geograficamente periferici e delle minoranze culturali in varie forme emarginate. In secondo luogo si ritiene che la diffusione capillare della ricezione televisiva in tutto il globo, lungi dall' ingenerare fenomeni di passività consumistica e di dipendenza culturale, dia vita a una coscienza unitaria dei problemi dell'umanità, promuova una nuova attenzione verso le sofferenze del mondo e alimenti sentimenti di solidarietà umanitaria.
L'arcipelago globale dell' emittenza televisiva - si sostiene - promuove l'interazione fra le diverse civiltà e culture del pianeta, favorendo l'instaurarsi di un dialogo interculturale e di una pacifica integrazione degli atteggiamenti intellettuali, dei valori etici e delle propensioni politiche. Sta prendendo vita un' autentica koinè culturale planetaria e si riducono i fenomeni di 'pseudo-speciazione' e di conflitto armato fra i gruppi culturalmente differenziati4. La 'cultura globale' - una cultura cosmopolita, ricca e complessa - prevarrebbe sui localismi e tribalismi tradizionali e sarebbe perciò la premessa per il formarsi di una global civil society. E questa sarebbe a sua volta la premessa per una unificazione anche politica del pianeta nella direzione della tolleranza, del pluralismo, della democrazia e della pace5. Sarebbe insomma soprattutto il mezzo televisivo l'arteefice della trasformazione che ha fatto del mondo anarchico degli Stati sovrani il 'villaggio globale' profetizzato da Marshall McLuhan, nel quale è ormai stabilmente presente un "opinione pubblica mondiale'. Secondo Tirgen Habermas, la diffusione globale dei mass-media elettronici ha sviluppato rapporti di intimità civile fra tutti gli uomini, realizzando una sfera pubblica planetaria e aprendo la strada alla 'società mondiale' (Welttgesellschaft) e alla cittadinanza universale.
Per quanto riguarda in particolare la rete globale delle connessioni telematiche, la comunication research occidentale ne ha enfatizzato le potenzialità di interazione comunicativa e di integrazione politico-sociale, oltre che culturale. Internet -la 'rete delle reti' - apre a tutti i possessori di un computer le frontiere della cultura e della ricerca scientifica, dando vita ad 'aree di dibattito' connesse fra di loro e a loro volta inserite in reti amplissime di informazione, di documentazione e di libera e spontanea comunicazione. Ciascun cittadino, intervenendo in queste 'aree', è in grado di apprendere e interagire, di creare ulteriori strumenti di comunicazione e persino di socializzarsi e di organizzare interventi collettivi. Oltre a ciò, grazie alla disponibilità di sofisticate tecniche di comunicazione 'interattiva' (teleemn/erencing, opinion-polling systems, automated feedback programs ecc.) si apre, come già sostenevano nella prima metà del Novecento autori come Charles Horr1 Cooley, Robert E. Park, George Gallup, Harold Lasswell, la possibilità di forme inedite di partecipazione politica che preludono alla costituzione di una vera e propria agorà elettronica. Sarebbe infatti possibile la soluzione delle procedure elettorali con reti di consultazione permanente, articolate attraverso referendum e sondaggi d'opinione: la cosiddetta instant referendum democracy.
Anche secondo Ulrich Beck la globalizzazione comunicativa, pur fra molte tensioni, instaura rapporti di crossfertilizatin, fra le diverse culture del pianeta, nel quadro di un 'dialogo interculturale' il cui esito prevedibile è qualcosa di molto simile a una 'cultura globale'. A suo parere la globalizzazione non spinge verso forme di radicale relativismo cognitivo, come pretendono i teorici del 'postmodernismo', né verso la cosiddetta Mc Donaldization of society, secondo lo stereotipo divulgato da George Ritze. Per un verso, Beck propone di distinguere il 'contestualismo universale' o 'relativismo', che è un atteggiamento postmoderno, dall"universalismo contestuale', che supera l'alternativa rigida fra l'affermazione di un (unico) universalismo e la negazione di ogni possibile universalismo. In questa prospettiva secondo Beck possono convivere una pluralità di universalismi diversi. Per un altro verso, Beck critica il fatalismo di chi giura sull'inevitabile appiattimento culturale del pianeta. La tesi della McDonaldization è a suo parere infondata perché la globalizzazione culturale non è un rullo compressore che produce tout court l"occidentalizzazione del mondo'. Al contrario, nell'era della globalizzazione sta emergendo in controtendenza - ma non in opposizione ai processi di integrazione cullturale - un nuovo slancio delle culture locali, come prova l'ampio dibattito sulla globalizzazione culturale che impegna in particolare antropologi e teorici della cultura anglosassoni, come, fra i molti altri, Arjun Appadurai, Roland Robertson, Mike Featherstone, Scott Lash, John Urry, Martin Albrow, John Eade. L'influenza culturale non è unilateralmente diretta dall'Occidente verso le altre culture: anche le culture africane e asiatiche, seppure in forme meno incisive, condizionano gli stili di vita delle popolazioni occidentali. È dunque semplicistico parlare di 'colonialismo elettronico' o, peggio, di un 'imperialismo culturale' con al centro la global television dominata dalle emittenti statunitensi8.
Altri autori sono più cauti. Si chiedono se i mezzi di comunicazione di massa siano davvero in grado di produrre un' autentica integrazione globale delle civiltà delle culture. I dubbi riguardano anzitutto la capacità del mezzo televisivo come tale di favorire una comunicazione trasparente, simmetrica e interattiva fra soggetti emittenti e soggetti riceventi9. E riguardano la sua idoneità a promuovere la formazione di una 'sfera pubblica' che sia sottratta all'influenza delle corporations transnazionali, in maggioranza insediate negli Stati Uniti e tutte appartenenti all'OCSE, che monopolizzano l'emittenza televisiva: fra queste AOL-Time-Warner, Disney, Bertelsmann, Viacom, Tele-Communications Incorporated, News Corporation, Sony, Fox. La comunicazione pubblicitaria diffonde in tutto il mondo messaggi simbolici fortemente suggestivi che esaltano il consumo, lo spettacolo, la competizione, il successo, la seduzione femminile e stimolano, in generale, le pulsioni acquisitive. Questi valori, nettamente caratterizzati in senso individualistico, contraddicono l'idea stessa di una 'sfera pubblica' globale. Per Robert Fortner, ad esempio, la comunicazione televisiva o cibernetica non solo non produce l'intimità civile e la fiducia politica che è alla base dei rapporti organici di un ‘villaggio’  ma è all' origine dell' atomizzazione sociale delle metropoli contemporanee, dove le persone vivono l’una accanto all' altra senza conoscersi e senza alcuna sensibilità empatica: è lo spazio di debole o debolissima solidarietà della 'società tecnotronica'.
In secondo luogo, si sostiene che gli imponenti flussi comunicativi, che partendo dai paesi più industrializzati nel mondo intero, hanno effetti di drastica riduzione della complessità linguistica e culturale, di appiattimento degli universi simbolici e di omologazione degli stili di vita. E si prevede che l'egemonia dei sistemi di emittenza occidentali, sempre più raffinati e sofisticati sul piano tecnico, si rafforzerà ulteriormente, anziché attenuarsi, con il procedere della globalizzazione. Ne verranno accelerati, di conseguenza, anche i processi di occidentalizzazione non solo culturale ma anche linguistica del pianeta. Accanto al dominio incontrastato della lingua inglese si profila l'estinzione di una grande quantità di idiomi parlati da comunità politicamente ed economicamente deboli: secondo le stime più recenti quasi la metà delle lingue oggi parlate nel mondo sono destinate a scomparire nel corso dei prossimi cento anni.
Alcuni sociologi della globalizzazione, fra questi Mike Featherstone e Roland Robertson, sostengono che la compressione del mondo produce frames di riferimento culturale che è improprio chiamare' cultura globale'. Mancano a questa 'cultura' i connotati di quello che nell'Europa moderna si è classicamente designato con questo termine, e cioè una visione del mondo intessuta di miti fondativi, leggende, simboli, eroi, storie vissute e collettivamente ricordate - che dà identità e coscienza di sé a un popolo. Quella che viene chiamata 'cultura globale' è un prodotto artificiale della comunicazione di massa: è un coacervo sincretistico, incoerente, privo di risonanze emotive e di memoria storica. Appadurai ha sottolineato che è ormai diffusa a livello globale una propensione a vivere jictionallives sulla base dei racconti immaginari e fantascientifici prodotti dall'industria mediatica. Questo fenomeno non conferma la tesi dell'unificazione culturale del pianeta: prova piuttosto il carattere dinamico e conflittuale dell'interazione culturale a livello globale. In questa linea Jean Baudrillard si è spinto sino a sostenere che l'universo della comunicazione informatica ha assunto le forme di una 'iper-realtà' globale che si affianca e in parte si sovrappone alla, 'realtà': una cybersphere e telesphere autoreferenziale, intessuta di simulazioni, artifici e finzioni, che gli spettatori 'consumano', distinguendola sempre meno dalla 'realtà'.
Ciò che si sta affermando su scala planetaria non è dunque un processo di integrazione culturale: si sviluppano, piuttosto, come ha mostrato Ulf Hannerz, fenomeni complessi e turbolenti di segmentazione, ibridazione e sdoppiamento culturale 16. Fra tutti il fenomeno più diffuso e vistoso è quello della 'creolizzazione', che colpisce una grande quantità di popolazioni indigene, culturalmente deboli o a lungo sottoposte all' egemonia di una potenza coloniale. La cultura autoctona viene erosa, corrotta e sopraffatta, non solo sul terreno linguistico, dall' adozione forzata di un modello 'straniero', quello tecnico-scientifico-industriale esportato dai paesi occidentali. L'adozione non produce integrazione comunitaria, ma contaminazione, dipendenza dispersione culturale. Già Hedley Bull aveva sostenuto con lungimiranza negli anni Settanta del secolo scorso che la parola 'interdipendenza transnazionale’ era un'espressione molto ambigua che veniva usata per razionalizzare rapporti di dipendenza culturale:

certi rapporti di interdipendenza transnazionale hanno sicuramente assunto un'importanza globale, ma il loro effetto non è quello di promuovere l'integrazione della società mondiale come un tutto, quanto piuttosto di assicurare l'integrazione  di una cultura dominante. È noto che l'effetto dell' attività delle corporazioni multinazionali, delle grandi fondazioni e delle grandi fondazioni scientifiche e professionali, le cui case madri hanno sede nei paesi capitalistici più avanzati, e in particolare negli Stati Uniti, è di promuovere una sorta di integrazione che unisce fra di loro le società di questi paesi avanzati e le elites dei paesi poveri. Ma hanno anche l'effetto di accrescere la distanza sociale e culturale che separa le società.
sviluppate da quelle sottosviluppate e all'interno di quest'ultime fra le élites modernizzate e gli altri cittadini .
Un altro fenomeno di rilievo è 1'emergere di 'terze culture' deterritorializzate, favorite dalla accelerazione degli scambi, dal turismo internazionale e dal consumismo. In Occidente il fenomeno caratterizza soprattutto élites cosmopolite e multiculturali per ragioni professionali: sono composte da personale politico transnazionale, diplomatici, burocrati di alto rango, industriali, giornalisti, accademici di successo, star dello spettacolo e dello sport. Da registrare è anche la presenza, in contiguità con il movimento no global, di fasce giovanili della popolazione occidentale, la cui cultura presenta caratteristiche transnazionali e aspirazioni universalistiche. Ma si tratta, almeno per ora, di fenomeni sociologicamente ristretti e privi di universalità simbolica. Oltre a ciò, contrariamente a quanto sostengono i teorici della modernizzazione e della convergenza, la globalizzazione sembra stimolare diffuse rivendicazioni identitarie in nome di codici culturali radicati nelle nazioni e nelle etnie18.
Serge Latouche, nel suo saggio sulla portata e i limiti della unzjormisation planétaire, ha sostenuto tesi più radicali. Ha sostenuto che la globalizzazione indotta dall' egemonia culturale e comunicativa dell'Occidente non produce alcuna integrazione della società mondiale. Produce al contrario deculturazione e sradicamento dei popoli e dei gruppi sociali che non sono in grado di resisterle. Paesi come Singapore, Taiwan, Hong Kong, Corea del Sud -le quattro 'tigri' asiatiche dello sviluppo industriale accelerato - sono da questo punto di vista casi esemplari, nonostante il loro clamoroso successo economico-finanziario e il tentativo singaporese di contrapporre i valori asiatici ai modelli occidentali. Ovunque nel mondo, sostiene Latouche, sull' onda della penetrazione del mercato in ogni angolo della terra, l'Occidente opera come una 'megamacchina tecnicoscientifica' che pur essendo il prodotto di una specifica civiltà storica non può più essere riferita a un'unica area geopolitica. È un dispositivo impersonale che a tutte le latitudini, e non solo nel cosiddetto 'Terzo Mondo', strappa gli uomini dalla loro terra e dai loro legami sociali e li scaraventa nel deserto dell'urbanizzazione metropolitana.

A ristrette élites che vivono nell' ombra del mercato mondiale corrispondono masse crescenti di diseredati, di uomini e di donne, ormai privi di un contesto sociale e di un'identità culturale, che migrano alla ricerca di asili, accalcandosi ai confini dei paesi più ricchi e forzandone la vigilanza armata. La macchina occidentale che avanza inesorabilmente schiaccia e disperde le loro radici culturali ma non li integra, se non del tutto marginalmente, nel processo di industrializzazione, tecnicizzazione e burocratizzazione che essa promuove. Questa macchina aumenta la differenziazione funzionale in termini di crescente divisione internazionale del lavoro e di accrescimento della specializzazione tecnico-scientifico, ma lo fa senza costruire, al posto dei particolarismi socio-culturali che dissolve, un autentico universalismo culturale, un nucleo di valori condivisi e un immaginario collettivo.
Per questi suoi effetti di 'deculturazione', di deterritorializzazione’ e di 'sradicamento planetario' Latouche, a differenza di Beck, ritiene che si debba parlare di un vero e proprio fallimento del progetto della modernizzazione occidentale, di uno scacco del suo universalismo prometeico. Fallito quel progetto, il mondo si presenta come la planète des naufragés. Non esistono più Primi, Secondi o Terzi Mondi, ma soltanto 'Quarti Mondi' che includono le masse emarginate dei paesi ricchi, le minoranze indigene e i paesi poverF3. Le loro residue speranze stanno nella capacità di sottrarsi all' abbraccio mortale della globalizzazione occidentale, nella loro resistenza alle forze che operano per l'unificazione culturale e politica del pianeta, magari sotto la falsa etichetta della 'società civile globale' e della 'democrazia transnazionale'.
La retorica della' cultura globale' e della nascente' cittadinanza cosmopolitica' -la retorica della' seconda modernità' à la Beck - sottovaluta dunque uno degli aspetti più caratteristici del processo di occidentalizzazione del mondo come omogeneizzazione culturale senza integrazione: 1'antagonismo fra le cittadinanze pregiate dell'Occidente e le aspettative di masse sterminate di soggetti appartenenti ad aree regionali o subcontinentali senza sviluppo e con un elevato tasso demografico. Questo antagonismo assume la forma della migrazione di massa di soggetti spesso dotati di un buon livello di cultura e di abilità pratica, ma economicamente e politicamente molto deboli. Si tratta di soggetti di fatto senza cittadinanza e senza diritti, che esercitano, grazie alla loro infiltrazione capillare negli interstizi delle cittadinanze occidentali, un'irresistibile pressione per l'eguaglianza. Lungi dall1'esprimere la maturazione di un senso di appartenenza cosmopolitica al 'villaggio globale', la replica da parte delle cittadinanze minacciate da questa pressione 'universalistica' - in termini sia di rigetto o di espulsione violenta degli immigrati, sia di negazione pratica della loro qualità di soggetti civili - sta scrivendo, e sembra destinata a scrivere nei prossimi decenni, le pagine più luttuose della storia civile e politica dei paesi occidentali.
È la stessa nozione di cittadinanza che viene sfidata dalla richiesta di un numero crescente di soggetti non appartenenti alle maggioranze autoctone occidentali di diventare cittadini pleno jure dei paesi dove vivono e lavorano. Si tratta di una sfida radicale perché la stessa dialettica di 'cittadino' e 'straniero' viene alterata dall'imponenza dei fenomeni migratori e dalla loro oggettiva incontrollabilità e irreversibilità. Ed è una sfida dirompente perché tende a far esplodere sia gli elementi della costituzione 'prepolitica' della cittadinanza, sia i processi culturali di formazione delle identità collettive. Alle maggioranze culturali autoctone viene rivolta la richiesta di un riconoscimento 'multietnico' non solo dei diritti individuali dei cittadini immigrati, ma delle si esse identità collettive - dei' diritti collettivi' - di miil10ranze caratterizzate da una notevole distanza culturale rispetto alle cittadinanze ospitanti.
Anche secondo un acuto osservatore politico come Pier Paolo Portinaro i fenomeni di globalizzazione e di interdipendenza indotti dall' egemonia della cultura e dell’economia occidentale non possono mettere fine alle tensioni interne e internazionali prodotte dalle dissimetrie di potere, dalle asincronie dello sviluppo e dalla eterogeneità degli interessi e dei valori. Di fronte all’esplosione di particolarismi etnico-nazionali che pongono richieste non negoziabili perché ancorate al codice delle appartenenze collettive e delle identità culturali, il cosmopolitismo mostra i suoi limiti e le sue forzature normative. Il mercato globale opera non come un vettore di riduzione dei conflitti e di neutralizzazione procedurale della politica, ma come il fomite di ulteriori conflitti e di aggregazioni amico-nemico: anche da questo punto di vista il progetto di modernizzazione vede frustrata la sua pretesa progressista e universalista.
Infine, per quanto riguarda in modo specifico gli effetti di interazione e integrazione politica che sarebbero prodotti a livello globale dalle rete telematica, ci sono autori che sottolineano la crescente specializzazione delle funzioni politiche entro le società industrializzate e informatizzate e la scarsità delle risorse di tempo, di attenzione e di competenza socialmente disponibili per la partecipazione politica. Se per democrazia si intende, in una accezione prudente e minimale, un regime nel quale la maggioranza dei cittadini è in grado di conoscere e di controllare i meccanismi della decisione politica e di esercitare direttamente o indirettamente una qualche influenza sui processi decisionali, allora ci sono molti dubbi che le tecnologie telematiche possano contribuire a una diffusione transnazionale dei valori e delle istituzioni democratiche. La possibilità di prendere decisioni politiche pertinenti dipende assai meno dalla disponibilità di tecniche di comunicazione rapida che non dalla capacità degli attori sociali di controllare e selezionare criticamente le proprie fonti cognitive, in un contesto di generale trasparenza sia dei meccanismi di emissione che dei processi decisionali. Un decisionmaking democratico richiede, più che elevate competenze e abilità informatiche da parte dei cittadini, un' efficace tutela del pluralismo delle emittenze, della libertà degli informatori e della autonomia cognitiva degli informati. Jacques Derrida ha sostenuto che senza una lotta contro la concentrazione e 1'accumulazione comunicativa la democrazia è destinata a divenire una pura finzione procedurale all'interno degli stessi ambiti nazionali, prima ancora che essa possa essere 'esportata' grazie alla proiezione planetaria delle tecnologie elettroniche28.
Al di là di tutto questo, i critici dell' ottimismo telematico segnalano le notevoli disparità nella distribuzione dell'utenza e degli strumenti di hardware e di software. Le nuove tecnologie della comunicazione, si sostiene, hanno notevolmente accentuato le disuguaglianze su scala mondiale. Non a caso, per la spartizione dell'immenso potere legato al controllo economico e politico della 'rete' - oggi in larga parte monopolizzato dagli Stati Uniti - è in corso a livello mondiale una guerra senza frontiere fra le imprese multinazionali dell'ICT (Information and Communications Technology).
Il global digital divide, il nuovo 'muro di Berlino' immateriale che taglia in due il mondo 'globalizzato', si profila sia in termini geografici che in termini di stratificazione sociale. Nei trenta (ricchi) paesi dell'OCSE, per esempio, nei quali risiede meno di un quinto della popolazione mondiale, risulta presente il 95 per cento delle utenze stabili di Internet, mentre l'Europa sorpassa di 41 volte l'Africa, che pure ha una popolazione più numerosa di quasi cento milioni. Complessivamente meno del 6 per cento della popolazione mondiale è connesso alla rete: quattro miliardi di persone oggi ne sono escluse. Mentre Stati Uniti e Canada contano assieme il '57 per cento dei 'navigatori', Africa e Medio oriente raggiungono assieme 1'1 per cento. Questo ‘fossato digitale’ non tende a ridursi ma, in armonia con il trend generale dei processi di globalizzazione, si allarga ancora di  più. La linea di separazione si insinua all’interno delle famiglie, dei gruppi etnici e linguistici, delle classi di età delle  fasce di reddito, dei livelli di educazione, del rapporto fra zone rurali e zone urbane. Nei paesi occidentali l’utente medio di Internet è bianco, sui 35-40 anni, provvisto di diploma o di laurea, titolare di un reddito annuo superiore ai 35.000 dollari (o euro). Sta emergendo dunque una polarizzazione soggetti info-rich e soggetti info-poor sia a livello nazionale che internazionale e questa disparità promette di essere l' humus di nuove, rigogliose forme di disuguaglianza e di nuovi conflitti. C'è chi, non del tutto impropriamente, ha usato l'espressione digital apartheid.

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Una Cosmopolis imperiale?

Secondo un'opinione che gode di largo credito nel mondo occidentale, il sistema degli Stati sovrani è ormai avviato a un rapido tramonto. Questo sistema si era affermato in Europa con la pace di Vestfalia, che nel 1648 aveva concluso la guerra dei Trent'anni. E si era affermato come il primo ordinamento internazionale veramente 'moderno': si fondava cioè sul pluralismo degli Stati nazionali, territoriali e sovrani che erano sorti sulle rovine dell'universalismo politico dell'Impero e del Papato, La 'sovranità' dello Stato si esprimeva sia all'interno, come esclusiva potestà di comando da parte degli organi statali nei confronti dei cittadini, sia verso l'esterno, come assoluta indipendenza internazionale di tali organi. Lo Stato si qualificava come superiorem non reconoscens, non attribuendo più alcuna autorità politica o giuridica a soggetti esterni al proprio ambito territoriale e normativo.
Questo modello, stabilizzatosi in Europa nel corso del Settecento e dell'Ottocento, è divenuto universale nei primi decenni del Novecento grazie all'espansione della comunità internazionale2. Ed è rimasto sostanzialmente immutato fino alla seconda guerra mondiale, subendo una parziale revisione soltanto con la Carta delle
Nazioni Unite. Pur proclamando solennemente l' «eguale sovranità degli Stati» la Carta ha dato vita a un organo come il Consiglio di sicurezza, che dispone di poteri sovranazionali molto ampi ed è egemonizzato - di diritto e non solo di fatto - dalle cinque potenze vincitrici del conflitto mondiale.
Sotto il profilo giuridico il modello di Vestfalia si caratterizza per il fatto che i soggetti del diritto internazionale sono esclusivamente gli Stati, mentre gli individui svolgono un ruolo passivo e del tutto secondario, Nessuna soggettività giuridica internazionale è riconosciuta a entità collettive diverse dagli Stati, come le nazioni, le etnie, le organizzazioni economiche, le associazioni volontarie. Non esistono a livello internazionale né un legislatore né un governo che abbiano il potere di emanare norme e di applicarle con validità erga omnes. Fonte esclusiva del diritto internazionale è l’autorità sovrana degli Stati in quanto essi sottoscrivono trattati bilaterali o multilaterali o in quanto riconoscono l’esigenza di norme consuetudinarie.

Al posto del modello di Vestfalia si sta affermando una modalità inedita di governance globale in virtù della quale sia i rapporti interstatali, sia i rapporti fra gli Stati e i loro cittadini sono sottoposti al controllo e al potere di intervento di nuovi soggetti5. Si tratta di soggetti sovranazionali o transnazionali, dotati di poteri politici, economici e militari per lo più informali o debolmente formalizzati. Questo si verifica sia a livello regionale - si pensi in particolare al processo di integrazione europea -, sia a livello globale, grazie al ruolo svolto da istituzioni come, fra le altre, le Nazioni Unite (e le numerose agenzie ad esse collegate), il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, il G8, l'OCSE, l'Alleanza atlantica.
Se il sistema di Vestfalia è in crisi, si aggiunge, lo si deve anche al fatto che gli Stati nazionali non sono in grado di affrontare i 'problemi globali' posti dai processi di integrazione: la garanzia della pace attraverso la prevenzione dei conflitti locali, la perequazione dello sviluppo economico, il controllo delle turbolenze finanziarie, l'utilizzazione razionale delle risorse, l'equilibrio ecologico, il contenimento della spinta demografica della specie, la repressione della criminalità internazionale, la protezione dei diritti fondamentali degli individui e in particolare delle donne (con l'istituzione di corti penali internazionali).
Di fronte a questi problemi cruciali, la costituzione di un 'governo globale' è per molti autori la sola alternativa non solo alla guerra e al disordine internazionale, ma tout court alla distruzione del pianeta e all'estinzione della specie umana. Ciò che rende il pianeta ingovernabile, e fa dell'uso della forza uno strumento sempre più diffuso, è la mancanza di un' autorità superiore che sia in grado di imporre le proprie decisioni con la forza. Per questo - ha sostenuto per esempio Norberto Bobbio, ispirandosi a Kant e a Kelsen -la sola via per eliminare le guerre e realizzare una pace stabile e universale è l'istituzione di un 'superstato mondiale', unico e universale, al di sopra di tutti gli Stati esistenti6. Il ragionamento che sta alla base di questa teoria è, più o meno consapevolmente, la domestic analogy: nello stesso modo in cui gli uomini per superare lo stato di natura hanno dovuto rinunciare all'uso individuale dell1:1 forza e trasferirne il monopolio allo Stato, così gli Stati devono compiere un analogo passaggio. Dalla situazione attuale di anarchico pluralismo potestativo è necessario passare alla concentrazione del potere in un ordine supremo che abbia nei confronti degli Stati la stessa supremazia che lo Stato ha nei confronti degli individui.

Richard Falk collega strettamente il suo globalismo centralista con il processo di espansione di un global constitutionalism e di una «democrazia transnazionale» radicata nell'efficacia del diritto internazionale, nella garanzia della pace e nella tutela dei diritti dell'uomo. La base sociale della nuova struttura costituzionale e democratica è indicata da Falk, con un approccio più lockiano che hobbesiano, nella nascente global civil society, costituita dal complesso delle iniziative transnazionali spontanee, anzitutto quelle ispirate al globalismo ecoologista e alla protezione internazionale dei diritti dell'uom.
Per parte sua David Held ritiene auspicabile e possibile una 'democratizzazione globale' dei rapporti internazionali. Dopo la fine della guerra fredda e la caduta del sistema bipolare, egli sostiene, ci troviamo di fronte a una 'nuova fluidità' delle relazioni internazionali. Questa fluidità offre significative opportunità per la costruzione di un ordine internazionale fondato su principi costituzionali e democratici. Held è ottimista circa la possibilità di innestare il suo progetto di democrazia globale sul tronco delle attuali istituzioni internazionali. Il sistema delle Nazioni Unite contiene in sé - scrive Held - la possibilità di sviluppi giuridici e politici che vadano nella direzione di una gestione comunitaria dei rapporti internazionali. In questa prospettiva è necessaria una compulsory jurisdiction delle Nazioni Unite che reprima le violazioni dei diritti dell'uomo: occorre cioè istituire una corte internazionale che abbia alle sue dipendenze una consistente forza militare9•
Per Beck il processo che avvolge il globo in un'unica rete di transazioni comunicative produce 'transnazionalizzazione', e questo significa che viene infranta la cornice degli Stati nazionali, cosicché gli Stati non possono più essere concepiti in una prospettiva internazionale. Viviamo ormai in una società mondiale ove qualsiasi rappresentazione di 'spazi chiusi' non può che essere fittizia. E lo Stato stesso è ormai pensabile soltanto come uno 'Stato transnazionale', la cui società civile è invasa da una moltitudine di agenzie e istituzioni transnazionali come le grandi imprese economiche, i mercati finanziari, le tecnologie dell'informazione e della comunicazione, l'industria culturale e così via. Sta emergendo uno spazio intermedio che non può più essere ricondotto alle vecchie categorie statal-nazionali. La 'transnazionalizzazione' conferisce una nuova importanza anche al localismo territoriale: la dimensione locale e la dimensione globale prevalgono su quella nazionale. La nazione cessa di essere l'istanza mediatrice tra lo spazio locale e il resto del mondo.
La globalizzazione - sostiene Beck - non determina la fine della politica': è, al contrario, l'alveo di sviluppo collocano l'iniziativa politica «al di fuori del quadro istituzionale dello Stato-nazione». È la prospettiva dei possibili soggetti di una politica transnazionale: movimenti e partiti cosmopolitici capaci di operare insieme; di rappresentanza transnazionale dei 'cittadini '. È a partire dalle grandi metropoli che possono emergere una comprensione polifunzionale della politica e una corrispondente concezione postnazionale dello Stato, della giustizia, della scienza e delle relazioni pubbliche.
Bauman ritiene necessario un nuovo universalismo politico che garantisca la comunicazione fra tutti gli uomini ma, nello stesso tempo non esiga l'omogeneità culturale. L'universalità, in quanto supera i confini delle singole comunità culturali, è la conditio sine qua non di una repubblica che oltrepassi i confini degli Stati sovrani (o apparentemente sovrani). La creazione di una repubblica cosmopolitica di questo tipo è l'unica possibile alternativa alle «forze cieche, primitive, erratiche, incontrollate, divise e polarizzanti della globalizzazione».
Jurgen Habermas insiste, come fanno del resto anche Falk e Held, sulla necessità di rafforzare le istituzioni internazionali. La proposta kantiana di uno 'Stato di diritto globale', egli sostiene, deve essere accolta e radicalizzata, Il progetto di una 'Lega' che unisca fra loro degli Stati sovrani va tradotto nel progetto 'cosmopolitico' di uno 'Stato di popoli' (o 'Stato cosmopolitico') che limiti e alla fine assorba completamente la sovranità degli Stati nazionali. Ed è in questa direzione che vanno riformate, anzitutto, le Nazioni Unite. Non ci sono dubbi, per Habermas, che «le istituzioni delle Nazioni Unite e i principi di diritto internazionale della Carta dell'ONU incarnano, come avrebbe detto Hegel, un pezzo di 'ragione esistente': un piccolo pezzo di quelle idee che Kant già duecento anni fa aveva chiaramente formulato»12. Esse sono tuttavia inadeguate rispetto alla situazione internazionale prodotta dal crollo dell'impero sovietico e dalla fine della guerra fredda. Ormai superato l'assetto bipolare dell' equilibrio mondiale è necessario che le Nazioni Unite esercitino pienamente quel potere esecutivo che la Carta aveva loro conferito, ma che il contrasto fra le grandi potenze aveva vanificato.
Per Habermas è importante che le potenze industriali decidano concordemente di dotare le N azioni Unite di una considerevole forza militare, impegnandosi nello stesso tempo a intrattenere fra di loro rapporti pacifici. Un ordine mondiale pacifico (Weltfriedensorddnung) sarà infatti possibile quando le grandi potenze avranno cessato di essere reciprocamente aggressive, essendosi alloro interno affermate culture politiche 'repubblicane', e cioè liberali e pacifiste. Questa aspettativa è confortata, ritiene Habermas, dall' evoluzione di lungo periodo delle ideologie prevalenti entro le democrazie del benessere: le spinte nazionalistiche sono ormai esaurite e non è più probabile che in un prossimo futuro esplodano guerre di tipo classico14. Le guerre condotte dagli Stati democratici oggi sono 'diverse': l'oopinione pubblica interna esige che il ricorso all'uso della forza non sia ispirato al particolarismo della ragion di Stato, ma favorisca la diffusione internazionale di forme di Stato e di governo non autoritarie. I governi dei paesi democratici possono essere spinti dalla pressione esercitata dall'opinione pubblica interna ad adottare politiche 'altruistiche' (selbstlosen) nei confronti dei paesi retti da regimi dispotici o totalitari.
Un altro tema che ricorre frequentemente nei testi habermasiani è quello della 'cittadinanza cosmopolitica', anch' esso di evidente ascendenza kantiana. La tesi di Habermas è che una concezione democratica dello Stato di diritto può - e deve - preparare la strada a quella cittadinanza universale che oggi si profila concretamente nelle comunicazioni politiche su scala planetaria. L'organizzazione cosmopolitica del pianeta non è più una chimera: cittadinanza nazionale e cittadinanza cosmopolitica tendono ormai a saldarsi in un continuum sociale e politico che è lecito chiamare 'società mondiale' (Weltgesellschaft). In questa direzione va anche la diffusione delle aggregazioni regionali, come è tipicamente il caso dell'Unione Europea.
In questo senso si può ritenere - sostiene Habermas perchè sia già avviato il superamento dell' anarchico 'stato di natura' che per secoli ha caratterizzato i rapporti fra gli Stati nazionali. Gli Stati possono ancora farsi guerra reciprocamente, ma la loro domestic jurisdiction è ormai prossima all' estinzione. La globalizzazione economica e finanziaria mette in discussione i presupposti stessi del diritto internazionale classico, e cioè la sovranità degli Stati nazionali e la netta separazione fra politica interna e politica estera. Gli Stati sono ormai indotti a usare forme di soft power, rinunciando all’imposizione diretta dei propri scopi attraverso la minaccia dell’uso  della forza (hard power). Il quadro classico della politica di potenza è profondamente modificato anche grazie alla crescente distribuzione del potere internazionale, un tempo concentrato nelle mani di un numero ristretto di potenze mondiali22• È insomma in pieno svolgimento un processo di transizione dal diritto internazionale vestfaliano a un nuovo' diritto cosmopolitico', cui corrisponde la dimensione sociale e comunicativa della cittadinanza universale.
Secondo altri autori, come già aveva sostenuto Iledley Bull alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, i 'globalisti' come Habermas e Falk (e come Held, I kck e Bauman) sottovalutano il ruolo positivo che gli stati hanno svolto e continuano a svolgere nell' arena internazionale. Lo Stato moderno è all'origine di alcune importanti conquiste 'internazionalistiche', fra le quali la subordinazione dell'uso della forza a procedure giuridiche diplomatiche predefinite.
Per questi paesi l'erosione della sovranità statale significherebbe una loro maggiore esposizione all' aggressività dei valori occidentali di cui il cosmopolitismo è intriso, come prova l'ideologia paternalistica della 'protezione internazionale dei diritti delll'uomo' e della humanitarian intervention.
In una linea teorica opposta rispetto alle analisi e alle deontologie dei Western globalists, altri autori sostengono che l'enfasi cosmopolitica trascura il fatto che lo Stato nazionale, nel bene e nel male, sta conservando e sembra destinato a conservare a lungo molte delle sue funzioni tradizionali. Sono funzioni che le strutture di aggregazione regionale o globale non sono in grado di assorbire nonostante l'indebolimento della sovranità di molti - non di tutti - gli Stati nazionali. Non c'è dubbio che il sistema vestfaliano basato sulla 'eguale sovranità' degli Stati nazionali si stia trasformando in un sistema politico di sovranità per un verso indebolite e frammentate, e per un altro rafforzate, concentrate e sovrapposte a livelli multipli. Ma è altrettanto certo che gli Stati nazionali restano, se non più i soli, certo di gran lunga i principali attori delle relazioni internazionalF5. Se è innegabile che alcune funzioni tipiche dell' era fordista-keynesiana - per esempio le politiche industriali e del lavoro, le politiche fiscali e le politiche monetarie sembrano sfuggirgli di mano, è anche vero che lo Stato nazionale riesce ad adattare alcune delle sue vecchie funzioni al nuovo contesto globale. E per un altro verso esso tende ad assumere funzioni del tutto nuove, come il trattamento dei lavoratori stranieri e la definizione dello statuto dei loro diritti nel contesto delle cittadinanze autoctone.
Solo uno Stato nazionale, per esempio, sembra in grado di garantire un rapporto equilibrato - tendenzialmente democratico - fra la dimensione geopolitica e il senso di appartenenza (e la lealtà) dei cittadini e già per questo svolge una funzione difficilmente surrogabile, anche nei confronti degli eccessi secessionistici delle rivendicazioni etniche. Su questo tema un' aspra controversia ha investito la teoria politica contemporanea, con particolare riferimento ai processi di integrazione europea. C'è chi si chiede se siano possibili forme di democrazia (non puramente procedurale) l'ambito dello Stato nazionale e l" omogeneità del male' che esso presuppone; o se, al contrario, l'ambito della cittadinanza statale vada considerato come istituzionalmente compatibile con le forme della rappresentanza, dello Stato di diritto e della tutela dei diritti soggettivi.
E occorre aggiungere che il rule of law nei rapporti internazionali - se non la stessa esistenza ed efficacia del diritto internazionale - può essere garantito soltanto da 'Stati di diritto' inclini ad accettare che il loro potere venga ritualizzato e limitato dal diritto, incluso il diritto internazionale.
Per quanto riguarda infine la capacità dello Stato nazionale di adattare una parte delle sue funzioni tradizionali al nuovo contesto globale, alcuni autori hanno sottoposto ad analisi le nuove forme di controllo sociale praticate nei paesi occidentali, considerandole come una delle più vistose conseguenze dei processi di integrazione globale sulle politiche interne degli Stati.
Ai processi di globalizzazione corrisponde nella maggioranza dei paesi occidentali (e in alcuni paesi latinoamericani, come Brasile, Giamaica e Messico, che ne hanno seguito l'esempio) una profonda trasformazione delle politiche penali e repressive: una trasformazione cui è stata data l'etichetta, come abbiamo accennato, del passaggio dallo Stato sociale allo 'Stato penale'. Gli Stati occidentali accordano un'importanza crescente alle politiche per la 'sicurezza dei cittadini', intendendo per sicurezza la difesa delle persone e dei loro beni dalla minaccia della criminalità. Questo, come ha precisato Paolo Ceri, comporta forme di sorveglianza sociale particolarmente intense, favorite dalle tecnologie elettroniche:

le intercettazioni telefoniche, la videosorveglianza, la carta di identità elettronica, il riconoscimento digitale dell'iride e del volto, la censura nella Rete, 1'autocensura sollecitata sui providers, le backdoors nei programmi di crittografia, le impronte digitali, i controlli ripetuti di identità, l'accesso ai dati personali.
Il controllo sociale diviene così una delle funzioni centrali assegnate dai processi di globalizzazione alle autorità politiche nazionali ed esso viene praticato essenzialmente come repressione poliziesca nei confronti degli appartenenti a categorie sociali considerate statisticamente devianti. L'amministrazione penitenziaria tende a occupare gli spazi lasciati liberi dalla smobilitazione istituzionale di ampi settori della vita politica, sociale ed economica del Welfare State. Si tratta di un drastico passaggio da una concezione 'positiva' della sicurezza - come riconoscimento delle aspettative e dell'identità delle persone e come partecipazione sociale - a Ima concezione 'negativa' della sicurezza, intesa come semplice incolumità individuale rispetto a possibili atti (li aggressione e come repressione della devianza30.

Un caso esemplare è rappresentato dalle politiche penali e penitenziarie praticate negli Stati Uniti nell'ultimo trentennio e, con un leggero ritardo, dalla Gran Bretagna e poi, gradualmente, dagli altri principali paesi europei, Italia compresa33. Gli Stati Uniti occupano il primo posto sia nella lotta contro la criminalità, sia nell'incarcerazione di un numero crescente di detenuti (solo la Federazione Russa si avvicina alle quote statunitensi. Dal 1980 a oggi negli Stati Uniti la popolazione penitenziaria si è più che triplicata, raggiungendo, nel luglio 2003, la cifra di 2.166.000 detenuti. Il tasso di detenzione è il più alto del mondo: 702 cittadini incarcerati ogni 100.000, sette volte più che in Italia35. Questi dati appaiono ancora più rilevanti se si considera che negli Stati Uniti i detenuti rappresentano solo un terzo della popolazione soggetta a controllo penale. Ci sono infatti oltre quattro milioni di cittadini sottoposti alle misure alternative della probation e della parole, e questo porta complessivamente a oltre sei milioni i cittadini statunitensi sottoposti a una qualche forma di misura penale.
L'ideologia penale della 'tolleranza zero' e il 'boom penitenziario' hanno fatto di New York, della Califorrnia e in generale degli Stati Uniti il modello indiscusso in Occidente della nuova politica di controllo del territorio e di repressione della criminalità nell' era della globalizzazione: non a caso si è parlato a questo proposito di 'globalizzazione penitenziaria'. A tutto questo, dopo 1'11 settembre e la guerra in Afghanistan, si aggiungono le gravissime violazioni dei diritti più elementari dei detenuti stranieri nella base militare di Guantanamo (che la magistratura statunitense si ostina a considerare estranea alla sua giurisdizione).
Forse è il caso di ricordare, a conclusione di questo capitolo, che quando nella prima metà dell'Ottocento venne istituita la Santa Alleanza per volontà delle (illiberali e reazionarie) potenze europee, Hegel annotò con malizia nelle sue Grundlinien der Philosophie des Rechts che così si era realizzato qualcosa di molto simile al progetto di una federazione di Stati, garante di una pace duratura, che Kant aveva proposto nel 1795 in fum ewigen Frieden37. Oggi, altrettanto maliziosamente, si potrebbe osservare che qualcosa di simile all'ideaaIv cosmopolitico kantiano di uno 'Stato di diritto globale’, accarezzato dai Western globalz'sts e da Habermas raccomandato all"altruismo' delle grandi potenze occidentali, sembra di fatto realizzato, all'insegna della globalizzazione penitenziaria, dalla 'Cosmopolis imperial," degli Stati Uniti d'America.

6
Lo spazio giuridico globale

1. Ai processi di globalizzazione si accompagna una graduale trasformazione non solo delle strutture della politica ma anche degli apparati normativi, anzitutto del diritto internazionale. Si afferma quello che è stato chiamato lo 'spazio giuridico globale' e si diffonde, in stretta connessione, l'ideologia del 'globalismo giuridico'l. Accanto agli Stati e alle tradizionali istituzioni sovranazionali, come le Nazioni Unite, il Fondo monetario internazionale, la Banca Mondiale, l'Organizzazione mondiale del commercio, si profilano nuovi soggetti dell' ordinamento giuridico internazionale: le unioni regionali - in primis l'Europa -, le alleanze politicotari come la NATO, le corti penali internazionali, le corporations multinazionali, le organizzazioni per la regolazione finanziaria internazionale, le organizzazioni non governative in generale. E accanto ai trattati, alle convenzioni e alle consuetudini emergono nuove fonti del diritto internazionale, come gli atti normativi delle autorità regionali, la giurisprudenza delle corti penali ad hoc, i verdetti delle corti arbitrali e, con particolare rilievo, le elaborazioni normative delle transnationallat firms, e cioè dei grandi studi associati di avvocati ed esperti legali che operano soprattutto nei settori del diritto commerciale, del diritto fiscale e di quello finanziario. In un sistema internazionale fortemente condizionato dalle convenienze delle grandi agenzie economiche e finanziarie, il potere decisionale, dinamico e innovativo, delle forze dei mercati tende a prevalere sulla decrescente efficacia regolativa delle legislazioni statali e delle istituzioni internazionali.
Le law firms (in massima parte insediate in Occidente, ma profondamente radicate nei paesi 'in via di sviluppo') plasmano le nuove forme della lex mercatoria. Esse sono impegnate in una permanente rielaborazione del diritto contrattuale e nell'introduzione di schemi contrattuali' atipici' - il jranchisin g ne è un esempio caratteristico - al fine di favorire la circolazione e 1',1 i scambi dei prodotti e dei loro marchi.

È ormai del tutto sfocata, sostiene Maria Rosaria Ferrarese, l'immagine weberiana del diritto moderno come un ordinamento coercitivo, garantito dal monopolio della forza esercitato dallo Stato in un determinato territorio, e che deve la sua legittimità alla' calcolabilità' razionale e alla prevedibilità dei suoi atti. Sono cambiati i protagonisti del processo giuridico e le modalità di produzione e di applicazione delle regole giuridiche. Il diritto non assolve più la funzione di rafforzamento delle aspettative degli attori giuridici: funziona come uno strumento composito e pragmatico di gestione dei rischi connessi a transazioni dominate dall'incertezza. Si sta affermando - sotto l'influenza del 'pragmatismo procedurale' di matrice statunitense - un 'sistema giuridico dellle possibilità', fondato sullo schema privatistico del conntratt05. Lo strumentario giuridico necessario per questo tipo di transazioni viene prodotto da nuovi soggetti pubblici o semi-pubblici, come le società internazionali di revisione contabile e di certificazione, o gli apparati burocratici del Fondo monetario internazionale, della Banca Mondiale e della Commissione Europea, Oppure, la 'tecnologia giuridica' adatta ai singoli casi viene 'acquistata' presso le law firms e i collegi arbitrali, per così dire à la carte. Per questo si è sostenuto che il nuovo ordine giuridico rappresenta, per molti aspetti, un ritorno al modello antico e medievale della giurisprudenza pretorile e dello jus commune.
Anche Pier Paolo Portinaro sottolinea con forza la deriva privatistica che sembra aver investito ampi settori del diritto internazionale. A suo parere il sorgere di nuovi organi di giurisdizione internazionale non sta portando nella direzione di una sorta di governance giurisdizionale planetaria. Il processo di globalizzazion" sembra andare piuttosto verso l'affermazione di espertocrazie mercenarie, partigiane e avvocatesche, che sfruttano strategicamente le opportunità e le risorse di una nuova litigation society. Più che la figura del giudice (e del giudice costituzionale), con la sua bilancia equilibratrice di differenti valori e princìpi etico-giuridici, a tenere il campo e ad espandere quantitativamente e qualitativamente il proprio potere è oggi quella del 'mercante di diritto.
Ai giuristi specialisti dello strumento giurisdizionale, sostiene Portinaro, si vanno affiancando nelle pratiche della 'società civile mondiale' gli specialisti del lobbying politico presso i grandi centri federali o nazionali del potere esecutivo e, accanto ad essi, gli specialisti del contenzioso d'affari, i litigators. Sono queste due categorie di lawyers che stanno acquistando il peso maggiore.

 Ed è proprio questo nuovo dualismo che secondo Portinaro minaccia la sussistenza dello Stato di diritto nei sistemi politici dell' età della globalizzazione. Sentenze clamorose, capaci di mettere in difficoltà gruppi corporati multinazionali, sono del tutto eccezionali. Il rischio è pertanto che si passi dall' esperienza europea delle democrazie nazionali sotto la supervisione di giudici costituzionali a una 'società civile globale' nella quale le corporazioni legali fanno prevalere gli interessi dei più potenti e le strategie più spregiudicate. E in questo modo vengono meno anche gli strumenti per contrastare le nuove forme di criminalità organizzata su scala trannsnazionale1o.
Guido Rossi esprime, con la ben nota competenza e autorevolezza, un punto di vista altrettanto radicale. Secondo Rossi il diritto dei contratti è oggi sottoposto, in particolare nell' ambito delle transazioni finanziarie internazionali, a sollecitazioni funzionali che ne alterano il carattere sinallagmatico, facendone un rapporto altamente precario. L'intero settore finanziario è caratterizzato da fenomeni nuovi ed eterogenei come la circolazione globale degli strumenti finanziari, l'uso generalizzato della tecnologia digitale, la possibilità del tradding on-line, e come la facilità con cui le corti statunitensi esercitano extraterritorialmente i propri poteri giurisdizionali. Si tratta sostanzialmente di una situazione di anarchia normativa e regolativa12. Il capitalismo finanziario globale, sostiene Rossi, è la patria del 'conflitto di interessi', e cioè di una elevata dissimmetria di potere fra le parti contrattuali:

alla sua radice c'è un forte squilibrio a favore di uno degli attori. Tale squilibrio è dovuto all'eccesso di appagamento della situazione giuridica di chi agisce in conflitto rispetto a quella di chi il conflitto lo subisce, La conseguenza è la sopraffazione, che si manifesta in qualsiasi rapporto contrattuale, ogni volta che uno dei due contraenti tratta da una eccessiva posizione di forza, oppure quando possiede molte più informazioni sull'oggetto della trattativa, ed è in grado di nasconderle.
Come anche Joseph Stiglitz ha sottolineato, l'asimmetria dell'informazione fra gli attori del contratto - fra il prestatore e il mutuatario, fra la compagnia di assicurazione e l'assicurato, fra il manager industriale e il lavoratore dipendente, fra il consiglio di amministrazione e il singolo azionista ecc. - ne fa un rapporto ad altissimo rischio. Esso consente anomalie come il riciic1aggio del denaro sporco e alimenta vere e proprie patologie societarie del tipo di quelle che si sono recentemente manifestate nel capitalismo statunitense, a cominciare dai casi Enron, Tyco e Global Crossing.
I rimedi tentati con l" etica degli affari' o con i codici di autoregolamentazione delle società per azioni, sostiene Rossi, non sono che inoperante ed equivoca utopia, Ma è illusoria anche la prospettiva del 'globaI istinto giuridico', che per contrastare l'illegalità diffusa negli ambienti finanziari suggerisce il ricorso ad autorità sovranazionali. L'idea è di dar vita a una rete di autorità e di agenzie insediate nei vari ambiti nazionali autonome rispetto alle autorità statali (agenzie che in più sono già esistenti), capaci di imporre una difficoltà globale ai mercati finanziari. Si creerebbe così, il modello organizzativo delle IFRO (/ Financia/ Regulatory Organizations) un modello giuridico policentrico che di fatto abolirebbe i confini fra il diritto internazionale e i diritti nazionali. Ma questo progetto sicuramente suggestivo, osserva Rossi, si scontra con il fatto che sono sempre i tribunali dei singoli paesi - e dei paesi più forti - a giudicare la validità, secondo il loro ordinamento interno, delle regole formulate dalle agenzie internazionali indipendenti. Questo impedisce che si affermi una lex mercatoria come sistema giuridico autonomo dagli ordinamenti dei singoli Stati e come forma di normazione globale.
Anche per questo aspetto, commenta scetticamente Guido Rossi, lo scenario giuridico internazionale, con il diritto pubblico che si ritrae e il diritto privato che avanza, ricorda da vicino l'Europa medievale, con l'aggravante che oggi non si scorge traccia né di uno jus commune, né di uno jus gentium in grado di regolare giuridicamente l'economia mondiale.
Se le analisi di Guido Rossi sono attendibili, sembra corretto concludere che, nonostante la diffusa retorica circa lo 'spazio giuridico globale', si deve registrare l'assenza di un diritto internazionale che nei confronti dei rapporti economici svolga una funzione imperativa e regolativa analoga a quella che è stata assolta, all'interno degli Stati nazionali, dal diritto costituzionale e in generale dal diritto pubblico. Per di più, nei settori del diritto commerciale, fiscale e finanziario, l'ordinamento internazionale in formazione non solo tende a modellarsi secondo la logica privatistica del contratto, ma non si propone neppure, in ossequio al pragmatismo imprenditoriale che lo ispira, di fare del contratto una struttura giuridica realmente vincolante. Il contratto non è pertanto capace di regolare con equità i rapporti fra i contraenti, tutelando in particolare i soggetti più deboli.
2. In parallelo a questi fenomeni si assiste a un processo evolutivo altrettanto rilevante: la funzione giudiziaria e il potere dei giudici tendono a espandersi sia a livello nazionale sia su scala internazionale, limitando il potere legiferativo dei parlamenti ed erodendo ulteriormente la sovranità giurisdizionale degli Stati. L'indice empirico più evidente del fenomeno è il moltiplicarsi delle corti internazionali. Oggi sono operanti a livello internazionale - senza contare le corti regionali come la Corte europea di giustizia - la Corte internazionale di giustizia, la Corte europea dei diritti dell'uomo, la cui competenza oggi si estende anche alla Federazione Russa, il Tribunale penale internazionale dell' Aja per la ex Jugoslavia, il Tribunale penale internazionale di Arusha per il Ruanda, l'Organo per la risoluzione dei conflitti dell'Organizzazione mondiale del commercio, j I Tribunale internazionale per il diritto del mare, la Corte penale internazionale (International Criminal Court). Quest’ultima corte, il cui statuto è stato approvato a Roma nell'estate del 1998 e che si è da poco insediata all’Aja dopo la ratifica del suo statuto da parte di oltre settemila paesi, gode di un'ampia competenza per la remissione su scala globale di gravi illeciti internazionali: il genocidio, i crimini di guerra, in futuro, anche i crimini contro la pace (aggressione). A differenza di tutti i precedenti tribunali penali internazionali, dal Tribunale di Norimberga a quelli di Tokyo, dell'Ajae di Arusha, questa Corte non è un'assise temporanea e speciale, ma è una competenza permanente e universale, sia di natura complementare. Oltre a ciò, questa corte non è nata né di vinti ne dei vincitori di una guerra mondiale, né per fili. Anzi, essa è sorta nono- stante l'opposizione degli Stati Uniti. Per queste ragioni, dopo l'esperienza controversa dei tribunali penali ad hoc, accusati di scarsa imparzialità e autonomia politica, oggi sulla nuova Corte si concentrano grandi aspettative.
In presenza di questi sviluppi, ci sono autori che parlano sia di 'giudizializzazione del diritto' a livello globale - usando espressioni come judicial globalization e global expansion o/judicial power19 -, sia di 'internazionalismo giudiziario', con riferimento all' espansione della giustizia penale internazionale (international criminal justice). Non c'è dubbio che la giustizia penale è oggi chiamata a svolgere funzioni e a garantire valori e interessi la cui promozione un tempo veniva affidata ad altri soggetti sociali o ad altre istituzioni. Alessandro Pizzorno, in un saggio recente, ha lucidamente analizzato questo fenomeno da un punto di vista sociologico e ne ha segnalato la profonda novità sia all'interno degli ordinamenti nazionali sia sul piano internazionale20. Su quest'ultimo piano è certo che, ,dall'epopea napoleonica alla fine della seconda guerra mondiale, le istituzioni internazionali non hanno mai praticato la repressione penale dei comportamenti individuali (del resto gli individui non erano neppure considerati soggetti dell'ordinamento internazionale). Le corti di giustizia non sono mai state titolari di una giurisdizione obbligatoria, neppure nei confronti degli Stati, e hanno sempre svolto funzioni marginali. Al fine di garantire l'ordine mondiale le grandi potenze hanno sempre usato la forza politico-militare e la diplomazia, non gli strumenti giudiziari. Questo può essere detto sia per la Santa Alleanza, sia per la Società delle Nazioni, sia, infine, per le Nazioni Unite. Oggi, in sinergia con i processi di globalizzazione, si è affermata con forza l'idea, emersa sul piano teorico agli inizi del secolo scors021, che la criminalizzazione degli individui responsabili di gravi illeciti internazionali offra un contributo decisivo per il mantenimento della pace e per la tutela internazionale dei diritti dell'uomo.
Per la maggioranza degli osservatori e degli studiosi si tratta di uno sviluppo altamente positivo: l'ordinamento internazionale si sta adattando con prontezza a uno scenario nel quale è in via di superamento il principio groziano dell' esclusione degli individui dalla soggettività di diritto internazionale e si assiste al moltiplicarsi di soggetti non statali. E si tratta di una pertinente replica normativa al diffondersi, dopo la fine della guerra fredda, di fenomeni di conflittualità etnica, di nazionalismo virulento e di fondamentalismo religioso che portano a estese e gravi violazioni dei diritti dell'uomo. Più nessuno - si dichiara - deve poter pensare che gli sia consentito scatenare conflitti o promuovere campagne nazionalistiche che finiscano in genocidio senza essere perseguito da una polizia internazionale e incorrere nelle sanzioni di una corte di giustizia. In questo senso lo strumento penale internazionale - si sostiene - può esercitare un' efficace funzione di prevenzione proprio nei confronti delle 'nuove guerre'.
Antonio Cassese, che è stato il primo presidente del Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia e oggi dirige il <<.J ournal of International Criminal Jussrice»22, sostiene che le corti penali internazionali possono garantire, in modo assai più efficace rispetto alle corti nazionali, la tutela dei diritti dell'uomo e la repressione dei crimini di guerra. Questo, perché i tribunali innterni sono assai poco inclini a perseguire crimini che non presentino rilevanti connessioni territoriali o nazionali con lo Stato cui i tribunali appartengono. Inoltre, le corti internazionali sono tecnicamente assai più competenti di quelle interne nell' accertare e interpretare il diritto internazionale, nel giudicare i crimini da un punto di vista imparziale e non pregiudicato politicamente, nel compiere le complesse indagini necessarie a livello internazionale e nel garantire standard giudiziari uniformi. Inoltre, i processi internazionali, godendo di una visibilità massmediale molto superiore ai processi interni, esprimono con maggiore efficacia la volontà della comunità internazionale di punire i soggetti colpevoli di gravi crimini internazionali e attribuiscono più chiaramente alle pene inflitte una funzione di stigmatizzazione dei condannati e non di semplice 'retribuzione'.
Altri autori avanzano critiche e riserve a proposito sia dell' opportunità, sia dell' efficacia della giurisdizione penale internazionale. Alcuni dubbi erano già stati espressi nel dopoguerra da Hannah Arendt, da Bernard Roling e in particolare da Hedley Bull e Hans Kelsen24. Con riferimento ai processi di Norimberga e di Tokyo, Bull aveva sostenuto che la giurisdizione penale delle corti internazionali aveva amministrato una giustizia selettiva ed 'esemplare', e ciò in palese violazione del principio di eguaglianza giuridica dei soggetti. Kelsen, pur favorevole all'istituzione dei tribunali penali internazionali, aveva denunciato la clamorosa violazione dell'imperativo nulla culpa sine iudicio, reso inoperante, oltre che dalla composizione delle corti e dalle procedure adottate, dalla spettacolare attribuzione di colpevolezza che anticipava il giudizio penale.
Queste valutazioni critiche sono state riprese a proposito dei Tribunali ad hoc per la ex Jugoslavia e per il Ruanda25. Si è sostenuto che anche in questi casi la repressione penale è stata esercitata, secondo criteri non chiaramente definiti, soltanto nei confronti di un numero molto limitato di soggetti, genericamente individuati come i più responsabili sul piano politico o come i più direttamente coinvolti in attività delittuose. La lesione di alcuni principi fondamentali del diritto moderno -l'irretroattività della legge penale, l'uguaglianza delle persone di fronte alla legge e la certezza del diritto - è stata di proporzioni vistose. E notevoli dubbi sono stati sollevati anche sulla qualità di una giustizia sovranazionale che viene esercitata, come è inevitabile che sia, molto al di fuori e al di sopra dei contesti sociali, culturali ed economici entro i quali hanno operato i soggetti sottoposti alle sue sanzioni.
E non è mancata anche una penetrante critica filosofico-giuridica di ordine generale. Si è sostenuto che l'assenza di una riflessione, in termini di filosofia della pena e di sociologia delle istituzioni penitenziarie, sulle funzioni e sugli effetti delle sanzioni penali irrogate dalle corti internazionali rischia di minare la legittimità e \' attendibilità delle loro sentenze. Ralph Henham ha denunciato con vigore, sulla base di un'accurata analisi delle motivazioni delle sentenze delle attuali corti internazionali, l'oscurità concettuale e la confusione (obfuscation and confusion) delle finalità attribuite dai giudici alle sanzioni che essi comminan027. Una visione semplificata del rapporto fra esercizio del potere giuiziario e ordine mondiale, ha sostenuto Henham, applica tout court ai rapporti internazionali un modello di giustizia punitiva - sostanzialmente ispirato all' arcaico paradigma della funzione retributiva della pena - che nella sua esperienza interna agli Stati continua a sollevare gravi interrogativ.
Altri autori si sono chiesti se sia proprio sicuro che togliere la vita o comunque infliggere gravi sofferenze - sia pure nel contesto altamente simbolico di rituali giudizi ari internazionali - a un ristrettissimo numero di individui svolga un' efficace funzione dissuasiva nei confronti della guerra e dei conflitti civili. E si è osservato che i processi penali internazionali del secondo dopoguerra hanno mostrato un' efficacia deterrente praticamente nulla. Nella seconda metà del secolo le deportazioni, le atrocità, i crimini di guerra, i crimini contro l'umanità e i genocidi non sono diminuiti: anzi, se si deve dar credito ai rapporti di Amnesty International, le violazioni dei diritti fondamentali sono in costante aumento. Numerose guerre di aggressione, impunemente condotte anche da Stati che avevano dato vita ai processi di Norimberga e di Tokyo, hanno provocato centinaia di migliaia di vittime. E nessun effetto deterrente sembra aver esercitato l'attività repressiva svolta dal Tribunale dell' Aja nei confronti delle atrocità commesse in Bosnia negli anni 1991- 95, se è vero che atrocità non meno gravi si sono poi verificate, per opera di tutti i belligeranti' inclusa la NATO, nella guerra per il Kosovo del 1999. In realtà, nulla sembra garantire che un'attività giudiziaria che applichi sanzioni, anche le più severe, contro singoli individui responsabili di illeciti internazionali incida sulle dimensioni macrostrutturali della guerra, possa cioè agire sulle ragioni profonde dell' aggressività umana, del conflitto e della violenza armata.

3. Il dibattito sulle funzioni della giurisdizione penale internazionale rinvia a una serie di questioni più generali. Esse riguardano anzitutto il fondamento teorico e l' accettabilità etico- politica del cosiddetto' globalismo giuridico'. E riguardano in secondo luogo la legittimità politica e giuridica di una tutela internazionale dei diritti dell'uomo che assuma forme coercitive - giurisdizionali e militari - in nome dell'universalità della dottrina dei diritti dell'uomo. Ovviamente anche qui le opinioni si dividono in modo netto. Gli autori che guardano con favore all' espansione della giurisdizione penale internazionale normalmente auspicano anche l'avvento di un 'diritto cosmopolitico' al posto dell' attuale diritto internazionale e sono inclini a sottoscrivere la tesi della universalità dei diritti dell'uomo. Ed è vero l'inverso: i critici della giustizia penale internazionale normalmente si oppongono anche all'idea del 'diritto cosmopolitico' e a ogni universalismo normativo.
L'idea del 'globalismo giuridico' è stata proposta nella seconda metà del secolo scorso da autori come Richard Falk, Norberto Bobbio e in particolare Jirgen Habermas, che hanno fatto riferimento, ancora una volta, all'idea kantiana del Weltburgerrecht o 'diritto cosmopolitico'29. La premessa filosofica del 'globalismo giuridico' è l'unità morale del genere umano. Quest'idea giusnaturalistica e illuministica era stata articolata da Hans Kelsen in alcune tesi teorico-giuridiche innovative e radicali: il primato del diritto internazionale, il carattere 'parziale' degli ordinamenti giuridici nazionali e la necessità di bandire l'idea stessa di sovranità. Sul piano normativo l'universalismo kantiano era stato tradotto da Kelsen nell'istanza della globalizzazione del diritto nella forma di un ordinamento giuridico universale che riconoscesse a tutti gli uomini una piena soggettività di diritto internazionale e assorbisse in sé ogni altro ordinamento. Secondo i giusglobalisti il diritto dovrebbe dunque assumere la forma di una legislazione universale - una sorta di lex mundialis valida erga omnes - sulla base di una graduale omologazione dellle differenze politiche e culturali, oltre che delle consuetudini e delle tradizioni normative nazionali.
L'unificazione planetaria dello 'spazio giuridico' dovrebbe riguardare in primo luogo la produzione del diritto, il cui compito dovrebbe essere affidato a un organismo centrale, identificabile in linea di principio in un parlamento mondiale. In secondo luogo, il processo di globalizzazione dovrebbe interessare l'interpretazione e l'applicazione del diritto, anzitutto di quello penale. Questa duplice funzione dovrebbe essere svolta da una giurisdizione universale e obbligatoria, competente a giudicare i comportamenti dei singoli individui e non soltanto le responsabilità degli Stati. In questo contesto normativo, la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo del 1948 viene elevata, per così dire, al ruolo di 'norma fondamentale': è assunta come un nucleo di principi giuridici in grado di fornire una legittimazione costituente alla Cosmopolis normativa di cui si auspica l'avvento.
Jirgen Habermas ha sostenuto in particolare che la tutela dei diritti dell'uomo non può essere lasciata nelle mani degli Stati nazionali, ma deve essere affidata sempre più a organismi sovranazionali. La premessa generale di questa tesi è ovviamente l'universalità della dottrina dei diritti dell'uomo. Per Habermas questa dottrina contiene in sé un nucleo di intuizioni morali verso il quale convergono le grandi religioni universalistiche del pianeta: un nucleo che gode quindi di una universalità trascendentale, ben oltre le vicende storiche e culturali dell'Occidente31. Ma c'è un secondo ordine di argomenti, di carattere pragmatico, che Habermas propone: l'universalità della dottrina dei diritti dell'uomo sta nel fatto che i suoi standard normativi sono dettati dalla necessità che oggi tutti i paesi hanno di rispondere alle sfide della modernità e della crescente complessità sociale che essa comporta. La condizione moderna è ormai un fatto globale con il quale sono costrette a misurarsi tutte le culture e le religioni universali, non solo la civiltà occidentale. Entro le moderne società complesse - si trovino in Asia, in Africa o in Europa - non esistono equivalenti funzionali che possano sostituirsi al diritto nella sua capacità di 'astratta' integrazione sociale di soggetti fra loro 'estranei'. In questo senso il diritto moderno occidentale, con le sue norme nello stesso tempo coercitive e garanti della libertà individuale, è un apparato normativo tecnicamente universale e non 1'espressione di un'etica particolaristica.
La principale conseguenza pratica di queste premesse filosofiche è per Habermas l'esigenza che nell' ambito delle Nazioni Unite vengano creati nuovi organi esecutivi e giudizi ari che abbiano il potere di accertare le violazioni dei diritti umani. E occorre che vengano organizzate forze di polizia giudiziaria a disposizione dei triibunali internazionali già operanti per la repressione dei crimini di guerra e dei crimini contro l'umanità33. Ma se si vuole che i diritti fondamentali godano della cogenza erga omnes propria del diritto positivo, sostiene Haberrmas, non ci si può arrestare alla costituzione di tribunali internazionali: è necessario che le Nazioni Unite intervengano anche militarmente nella repressione delle violazioni dei diritti umani, usando forze armate poste sotto il proprio comando diretto. Queste forze non solo dovranno prescindere dal principio della non ingerenza degli affari interni degli Stati, ma dovranno limitarne militarmente la sovranità tutte le volte in cui verranno accertate gravi responsabilità delle loro autorità politiche. E dunque andrebbe accolta con favore la prassi dell' interventismo umanitario' armato, inaugurata nell' aprile del 1991 dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna con i loro interventi a favore della minoranza curda nell'Iraq settentrionale e poi continuata in Somalia e nelle guerre balcaniche degli anni Novanta del secolo scorso.
I critici del 'globalismo giuridico' - in particolare i teorici del new legal pluralism come Boaventura de Souusa Santos e John Griffiths - replicano rivendicando anzitutto la molteplicità delle tradizioni normative e degli ordinamenti giuridici oggi in vigore a livello planetario e sottolineando il loro prevalente carattere 'transnazionale'. Nel farlo essi si richiamano a ricerche classiche di antropologia del diritto, come quelle di Leopold Poospisil e di Sally Falk Moore36. Santos, per esempio, ha parlato di interlegality, indicando con questo termine l'esistenza di 'reti di legalità' parallele - sovrapposte, complementari o antagoniste- che obbligano a costanti transizioni e trasgressioni e che non sono riconducibili ad alcun unitario paradigma normativo presistente alle controversie. Le norme sono in costante elaborazione e le controversie sono risolte da chi ha il potere di decidere quale debba essere la norma da applicare al caso concreto in un contesto conflittuale che può essere chiamato «the politics of definition of law».
In questo quadro è di grande rilievo l'interazione fra i modelli normativi forti (occidentali) e le tradizioni normative autoctone. Questo fenomeno è stato studiato in alcune aree continentali che hanno lungamente conosciuto la presenza coloniale, in particolare nel mondo latino-americano e in un certo numero di paesi dell'Asia centrale e meridionale. In Argentina, in Brasile, in Messico, in Perù il diritto statale di derivazione occidentale confligge sia con le rivendicazioni normative dei movimenti politici più radicali, sia con le tradizioni giuridiche delle minoranze aborigene: basti pensare al movimento dei Sem Terra in Brasile, a quello zapatista in Messico, alla rivolta degli indios andini in Perù. In Asia centrale, in particolare in paesi come il Pakistan e l'India, il diritto statale ereditato dall' esperienza coloniale viene sfidato dalla pressione verso il recupero dellle tradizioni normative pre-coloniali.
In secondo luogo, gli avversari del 'globalismo giuridico' denunciano la debolezza di una dottrina che nonostante le sue aspirazioni cosmopolitiche rimane ancorata alla cultura della vecchia Europa, e cioè al giuusnaturalismo classico-cristiano. L'idea del diritto interrnazionale che essa propone è indissociabile da una visione teologico-metafisica - riflessa nella nozione di civitas maxima - che pone a fondamento della comunità giuridica internazionale la duplice credenza nella natura morale dell'uomo e nell'unità morale del genere umano. Questa filosofia del diritto è dominata dall'idea, kantiana e neokantiana, che il progresso dell'umanità sia possibile solo a condizione che alcuni principi etici vengano condivisi da tutti gli uomini e siano fatti valere da poteri sovranazionali che trascendano il 'politeismo' delle convinzioni etiche e degli ordinamenti normativi oggi esistenti. Non a caso, si sostiene, la dottrina individualistico-liberale dei diritti dell'uomo - anch' essa, come Kelsen ha riconosciuto, di impronta giusnaturalistica - viene oggi presentata alle culture non occidentali come il paradigma della costituzione politica del mondo. E persino il fenomeno della guerra viene imputato alla situazione di 'anarchia' che secondo questa filosofia monistica caratterizza da almeno tre secoli le relazioni fra gli Stati.
I critici del 'globalismo giuridico' esprimono notevoli perplessità anche a proposito delle forme coercitive della tutela internazionale dei diritti soggettivi. A loro parere è dubbio che questa funzione possa essere attribuita senza rischi a organismi giudiziari la cui imparzialità resta comunque condizionata dall' esigenza di affidare le funzioni di polizia giudiziaria alle forze armate delle grandi potenze. E c'è chi sostiene, più in generale, che sia poco opportuno affidare la protezione dei diritti soggettivi alla competenza esclusiva - o anche soltanto prevalente - di organismi giudiziari diversi da quelli nazionali, persino nell'ipotesi in cui siano le autorità politiche di uno Stato nazionale a violare i diritti dei cittadini. Sembra infatti poco realistico pensare che la tutela delle libertà fondamentali possa essere garantita coattivamente in ambito internazionale a favore dei cittadini di uno Stato, se questa tutela non è anzitutto garantita dalle istituzioni democratiche interne.

Quanto alla pretesa universalità della dottrina dei diritti dell'uomo, gli oppositori occidentali del 'globalismo giuridico' non negano il grande significato che tale dottrina ha avuto nella storia politica e giuridica occidentale: per loro è fuori discussione che essa rappresenti uno dei lasciti più rilevanti della tradizione europea del liberalismo e della democrazia. Il problema è un altro: riguarda il rapporto fra la filosofia individualistica che è sottesa a questa dottrina, da una parte, e, dall'altra, l'ampia gamma di civiltà e di culture i cui valori sono molto lontani da quelli europei, come, in particolare, i paesi del Sud-est e del Nord-est asiatico, di prevalente cultura confuciana, l'Africa subsahariana e il mondo islamico.
Sotto questo profilo si giudica illuminante la polemica che ha animato la seconda Conferenza delle Nazioni Unite sui diritti dell'uomo, svoltasi a Vienna nel 1993. Due opposte concezioni si sono fronteggiate: da una parte, c'era la dottrina occidentale dell'universalità e indivisibilità dei diritti dell'uomo; dall' altra, c'erano le tesi di molti paesi dell' America Latina e dell' Asia, che rivendicavano la priorità, in tema di diritti dell'uomo, . dello sviluppo economico-sociale, della lotta contro la povertà e della liberazione dei paesi del Terzo Mondo dal peso dell'indebitamento estero. Essi accusavano i paesi occidentali di voler usare l'ideologia dell'interventismo umanitario per imporre all'umanità intera la loro supremazia economica, il loro sistema politico e la loro concezione del mondo.
Altrettanto emblematica viene considerata la recente polemica, che ha avuto come epicentro Singapore, la Malesia e la Cina e che ha dato luogo alla Dichiarazione di Bangkok, del 1993 , sulla opponibilità degli Asian values alla tendenza dell'Occidente a imporre alle culture orientali i suoi valori etico-politici assieme alla scienza, alla tecnologia, all'industria e alla burocrazia occidentali39. E anche la dottrina dei diritti dell'uomo viene accusata di fondarsi su una filosofia individualistica e liberale in contrasto con l'ethos comunitario delle tradizioni asiatiche, oltre che delle antiche culture africane e americane.
Per gli 'antiglobalisti' l'universalità dei diritti dell'uomo potrebbe essere sostenuta solo sulla base di una 'fondazione' filosofica che argomentasse in modo stringente l'inerenza dei diritti dell'uomo alla natura (o alla razionalità) umana come tale, indipendentemente dal particolare contesto culturale che ne ha caratterizzato la nascita in Europa. Ad Habermas - come ai molti altri fautori dell'universalismo dei diritti dell'uomo - si oppone che il rule of law e la dottrina dei diritti soggettivi hanno un' origine segnata dal particolarismo filosofico e giuridico. E si oppone anche, come ha sostenuto Bobbbio in età dei diritti, l'impossibilità di fondare filosoficamente un complesso di proposizioni normative che è solcato da profonde antinomie deontiche, a cominciare da quella che oppone i diritti di libertà e la proprietà privata all'eguaglianza sociale. Ed è inoltre dubbio, si rileva, che la tutela dei diritti dell'uomo possa essere pensata come un'implicazione tecnica del formalismo giuridico reso necessario dai processi di 'modernizzazione'. Nonostante le tesi di Ulrich Beck circa la 'seconda modernità' globale43, è la stessa nozione di modernità ad avere profonde radici nella tradizione filosoficolitica ed etica occidentale: essa è impensabile senza un riferimento alla tradizione liberale, al suo individualismo, al razionalismo etico della sua antropologia, alla sua idea di progresso, e, non ultimo, al suo agnosticismo religioso.
L'universalità dei diritti dell'uomo, si conclude, è un postulato razionalistico che manca di conferme sul piano teorico e viene giustamente guardato con sospetto dalle culture non occidentali. Con grande preveggenza Hedley Bull ha sostenuto, circa vent' anni fa, che l'ideologia occidentale dell'intervento umanitario per la tutela dei diritti dell'uomo era in continuità con la tradizione missionaria e colonizzatrice dell'Occidente: una tradizione che risaliva agli inizi dell'Ottocento, all' epoca degli interventi militari dei nordamericani a Cuba e degli europei nell'Impero ottoman.

Le trasformazioni della guerra

È opinione diffusa che le guerre dell'ultimo quindicennio, dalla guerra del Golfo alle 'guerre umanitarie' nei Balcani, alla guerra in Afghanistan e a quella in Iraq, siano scelte, non solo da un punto di vista tecnico-militare, guerre 'nuove'. L'espressione 'nuova guerra' è stata inizialmente usata da Mary Kaldor per denotare in particolare i conflitti che nell'ultimo decennio del Novecento sono esplosi nell' area balcanica. Questi conflitti sono stati gee11crati, sostiene Kaldor, dalla contrapposizione fra una cultura cosmopolitica, fondata sui valori dell'inclusione, dell’universalismo e del multiculturalismo -la cultura globalista occidentale - e una politica, quella delle minoranze Balcaniche, basata sul particolarismo etnico-nazionale.
Anche per Ulrich Beck le guerre dell'ultimo Novecento sono 'nuove': lo sono nel senso che anticipano il modello delle guerre dell'era globale. Esse non sono interpretabili nei termini classici della dottrina di Clausewitz, perché non sono scontri fra Stati nemici e non soo110 combattute in nome di interessi nazionali di natura territoriale. Si è trattato piuttosto, secondo Beck, di guerre 'postnazionali', caratterizzate da un' inedita miscela di politica globale, di ideologia umanitaria e di logica imperialistica. Le nuove guerre 'globali' hanno fatto cadere a una a una le distinzioni classiche fra pace e guerra, fra politica interna e politica estera, fra attacco e difesa, fra diritto e arbitrio, fra civiltà e barbarie. L' analisi neo realista che rifiuta la motivazione umanitaria delle guerre occidentali e individua nelle strategie egemoniche degli Stati Uniti il solo motore dei recenti conflitti, sostiene Beck, dà prova di miopia politica perché non sa capire il nuovo gioco di potere della globalizzazione [ ... ] e non sa vedere quanto la politica dei diritti umani sia diventata la religione civile, il vero e proprio credo degli Stati Uniti [ ... ] e che sta nascendo una politica postnazionale di umanesimo militare, di intervento di potenze transnazionali che si muovono per far rispettare i diritti umani oltre i limiti dei confini nazionali .
Altri autori, pur molto lontani dall'idea beckiana che l"umanesimo militare' occidentale introduca alla 'seconda modernità' della globalizzazione, hanno sottolineato anch' essi la forte motivazione etica delle nuove guerre. Norberto Bobbio e Régis Debray, per esempio, hanno posto in evidenza la dimensione fortemente ideologica che ha caratterizzato in particolare la guerra che nel 1999la NATO ha condotto contro la Repubblica federale jugoslava. Questa guerra ha lanciato l'idea che la forza militare possa essere usata, anche in violazione della Carta delle Nazioni Unite e del diritto internazionale generale, per la promozione di valori universali contro un avversario presentato come 'nemico del genere umano'. La 'guerra umanitaria' ha riproposto il modello teologico della 'guerra giusta' in una versione wilsoniana: l'idealismo morale più la superiorità tecnica, più i missili tomahaw.
Alain de Benoist ha sostenuto che le nuove guerre preannunciano la fine delle nazioni. Sono guerre del trionfo della globalizzazione, di quella globalizzazione che, come aveva intravisto Carl Schmitt, si realizza grazie a una duplice polarità: l'economia (il grande mercato mondiale) e la morale (i diritti dell'uomo), i due manici della tenaglia che si stringe attorno alla politica degli Stati e alla sovranità dei popoli.
Altri autori hanno sottolineato la schiacciante superiorità tecnologico-militare di una parte belligerante rispetto all' altra. Ciò che meglio definisce la natura di queste guerre, si è sostenuto, è la conclamata disparità del potenziale bellico degli attori in conflitto: da una parte ci sono imponenti alleanze militari che dispongono di armi sofisticatissime e micidiali - e sono guidate dalle potenze occidentali in nome di valori universali -, dall' altra paesi politicamente isolati, con una economia debole e militarmente così poco consistenti da non essere in grado di opp1)0 l're che una debole resistenza difensiva. La disparità fra le forze in campo è stata del resto puntualmente confermata dalla sproporzione fra il numero delle vittime delle due parti in conflitto. Dalla parte degli sconfitti ci sono state migliaia di vittime, soprattutto civili - nella guerra (lei Golfo del 1991 le vittime irachene e curde sono state centinaia di migliaia -, mentre fra i vincitori non si sono registrate che perdite irrisorie. Più che di guerre si è trattato di vere e proprie' esecuzioni militari', secondo uno stile bellico che è stato chiamato 'modello Hiroshima': un modello che oggi sembra aver assunto un importante valore simbolico, almeno negli Stati Uniti, se è vero che Enola Gay, il Boeing B-29 che il6 agosto 1945 cancellò letteralmente Hiroshima e uccise 230.000 giapponesi, è stato di recente restaurato e trionfalmente collocato nel museo della US Air Force di Washington.

E come obiettivo finale si disegna un sistema pattizio di sicurezza collettiva che, pur non rinunciando all'uso della forza a garanzia dell'ordine internazionale, metta al bando la guerra, intesa come ricorso 'privato' all'uso delle armi da parte di un singolo Stato.
Questo processo conosce due fasi nettamente distinte. In una prima fase, che si prolunga sino alla conclusione della prima guerra mondiale, agli Stati viene riconosciuta la titolarità di un proprio sovrano jus ad bellum. A questo fine ciascuno Stato europeo si considera e viene considerato persona moralis e quindi justus hoostis, portatore di un diritto originario di ricorrere all'uso della forza, prescindendo dalle sue' cause'. Si afferma dunque il paradosso che il primo, relativamente efficace tentativo di limitare la guerra con strumenti propriamente giuridici - non più etici o religiosi - passa attraverso l'attribuzione agli Stati nazionali del diritto di usare la forza militare.
Nella transizione al regime statale e pluralistico del diritto internazionale moderno l'antica dottrina del bellum justum non scompare del tutto. Scompare il registro delle' giuste cause' della guerra, assieme all' arcaico dispositivo relativo alle intenzioni morali dei belligeranti. Cade l'idea moralistica e semplicistica che sia sempre possibile, in presenza di un conflitto armato fra due contendenti, stabilire con argomenti etici universalmente validi chi sia nel giusto e chi nel torto. Alla perentorietà dei giudizi morali si sostituisce la flessibilità delle mediazioni diplomatiche. E viene meno del tutto la motivazione 'sacra' o 'santa' della guerra, anche se non scompare affatto la tradizionale 'discriminazione spaziale' fra popoli 'civili' e popoli 'barbari' o 'selvaggi' . Verso questi ultimi le guerre - in particolare le guerre coloniali a cavallo fra Ottocento e Novecento verranno condotte senza limiti e con ogni mezzo militare, inclusi i 'proiettili dum-dum' e le armi chimiche, che sarà l'Italia a usare per prima in Africa orientale, anche contro le popolazioni civili.
Ciò che non solo rimane in vita ma viene largamente sviluppato, sia pure in una versione laicizzata e statalizzata, è il registro dello jus in bello. Come Carl Schmitt ha sottolineato, il sistema pluralistico dello jus publicum mropaeum è il primo ordinamento giuridico internaziollale che tenti di 'mettere in forma' la guerra, senza intendere di negarla e di bandirta giuridicamente. La viene ritualizzata da una serie di procedure didattiche, come la dichiarazione di guerra e la pattuita della pace. Viene formalmente riconosciuto,grazie all'abbandono dell'idea della possibile giustizia  della guerra, il diritto alla neutralità di Stati Inzi, e quindi alla loro inviolabilità. E, soprattutto, inizia una lunga sequenza di trattati bilaterali e multilaterali che porterà alla fine al Protocollo di Ginevra del I ()24, al Patto Kellogg-Briand del 1928 e alle quattro convenzioni della Conferenza diplomatica di Ginevra dell’ agosto 1949. L'obiettivo è la protezione delle vittii1nc di guerra: i feriti, i malati, i naufraghi, i prigionieri, la popolazione civile in generale. E si mettono al bando - ad esempio attraverso la Convenzione sulle armi 'disumane' e il recente Trattato contro le mine antiuomole armi inutilmente distruttive e pericolose.
Il problema del numero crescente delle vittime civili della guerra moderna - e quello della sproporzione fra i suoi obiettivi militari e l'ampiezza delle stragi e delle I istruzioni - si fa sempre più rilevante. Le conseguenze umane e sociali della guerra si prolungano ben oltre il conflitto armato, in termini di mutilazioni permanenti, disgregazione della vita familiare, miseria, corruzione, violenza, odio, inquinamento ambientale. Il 'modello antico' della guerra terrestre fra eserciti che si affrontano sul campo di battaglia è del tutto superato. La guerra fra Stati si estende al mare, agli oceani e al cielo, e fa uso di strumenti di distruzione di massa sempre più sofisticati e devastanti. Sempre meno applicate e applicabili sono le vecchie norme dello jus in bello che impongono la discriminazione fra civili e combattenti e la proporzione fra i vantaggi attesi dalla guerra e le devastazioni da essa prodotte.
In una seconda fase, che si accompagna ai due conflitti mondiali e coincide con la creazione delle grandi istituzioni internazionali del secolo scorso - in primis la Società delle N azioni e le N azioni Unite -, la guerra moderna viene concepita tout court come un illecito interrnazionale. La tragedia della prima guerra mondiali, con i suoi milioni di morti e le sue immani distruzioni, provoca un drastico mutamento dello scenario giuridico mondiale. La guerra viene concepita, in particolare da giuristi statunitensi ed europei, come una radicale negazione del diritto, una negazione che il diritto internaazionale deve a sua volta radicalmente negare. Alla fine, sotto l'influenza del wilsonismo politico e giuridico, la guerra moderna verrà qualificata come un crimine penale, di cui saranno ritenuti responsabili non solo gli Stati ma anche i singoli individui, implicitamente assunti a soggetti (passivi) del diritto internazionale. Scaturirà da questa idea la (controversa) esperienza delle corti penali internazionali, dal Tribunale di Norimberga a quelli di Tokyo, dell'Aja e di Arusha16. L'incriminazione, alla fine della prima guerra mondiale, del Kaiser Guglielmo II di Hohenzollern, perché responsabile di «oltraggio supremo alla morale internazionale e alla serietà dei trattati», è la prima, clamorosa espressione di questo nuovo orientamento.
Infine, dopo la conclusione della seconda guerra ll1ondiale, appena spenti i bagliori delle esplosioni atooll1iche di Hiroshima e Nagasaki, entra in vigore la Carta delle Nazioni Unite che definisce la guerra come un 'flagello' (scourge) che la comunità internazionale deve immaginarsi a cancellare per sempre dalla storia umana. L'uso della forza sarà consentito solo al Consiglio di sicurezza e soltanto a garanzia della pace e per la repressione delle sue violazioni da parte di eventuali aggressori. Nel dicembre 1946, per volontà dell'Assemblea generale delle Nazioni Unite, i principi applicati dal Tribunale di Norimberga contro i criminali nazisti sono assunti a principi generali di diritto internazionale. Vengono così s( llcnnemente confermate le norme, presenti nella carta, che qualificano come aggressione, indipendentemente da ogni possibile justa causa, l'uso (e la minaccia dell'uso) della forza militare da parte di uno Stato. Responsabile del crimine di aggressione è qualsiasi Stato che usi per primo la forza o minacci di usarla. È dunque prevista una sola eccezione, quella dell' art. 51 della carta delle Nazioni Unite: è l'ipotesi che uno Stato sia cosidetto a resistere a un attacco militare sferrato da un altro Stato contro il suo territorio. In caso di Stato aggredito può usare provvisoriamente la forza, in attesa dell'intervento del Consiglio di sicurezza.

In secondo luogo, la nuova guerra può essere detta 'globale' in senso sistemico, e cioè in quanto guerra egemonica. Questa nozione è stata elaborata da teorici delle relazioni internazionali - in particolare da William IZ. Thompson2o - che si sono ispirati alla General System theory. In questo senso' guerre globali' sono le guerre combattute per decidere chi assumerà la funzione di leadership entro il sistema mondiale delle relazioni internazionali, chi imporrà le regole sistemiche, chi avrà il potere di modellare politicamente i processi di allocazione delle risorse di ricchezza e di potere, e chi potrà fa prevalere la propria visione del mondo e il proprio senso dell' ordine.
Per identificare il carattere egemonico della nuova guerra è utile scorrere alcuni dei documenti più recenti ( le Il' amministrazione statunitense, in particolare il QuaddJ'('llrtial Defense Review Report, diffuso dal Dipartimento della Difesa il30 settembre 2001. Il documento è stato reso pubblico qualche settimana dopo l'attentato alle Torri Gemelle, ma, salvo alcune minime interpool; azioni adattive, è il frutto di una lunga elaborazione presidente. Nel documento si sostiene che gli Stati Uniti, in quanto global power, sono il solo paese in grado di 'proiettare potenza' su scala mondiale. Essi hanno interessi, responsabilità e compiti globali e devono perciò l'stendere la propria influenza rafforzando l'America's .!..Lo halleadership role. E ciò sia per aumentare la propria sicurezza interna, sia per tutelare e promuovere i propri 'i n teressi vitali' sul piano internazionale.
In secondo luogo, gli Stati Uniti devono mettere a punto una strategia globale che sfrutti i 'vantaggi asimmetrici' (asymmetric advantages) di cui essi godono in termini nucleari, di intelligence e di controllo informatico del pianeta.

Si pensa che la stabilità globale possa essere garantita senza toccare i meccanismi di distribuzione mondiale della ricchezza che pure scavano un solco sempre più profondo fra i paesi ricchi e i paesi poveri.

In particolare dopo 1'11 settembre la 'guerra globale' non viene rivolta contro uno Stato o una alleanza militare fra Stati, e neppure contro un nemico precisamente individuato. A più riprese gli Stati Uniti individuano una serie di nemici, in parte identificati con le organizzazioni (non statali) del global terrorism, in parte denunciati come appartenenti a una lista di 'Stati canaglia' (rogue States) - Somalia, Sudan, Libia, Siria, Iran, Corea del Nord ecc. - da considerare possibili destinatari di un intervento militare. Si tratta di Stati ai quali la massima potenza mondiale, in qualche modo sostituendosi alle istituzioni internazionali, nega di fatto la sovranità o riconosce al più una sovranità limitata. È naturale che questo tipo di guerra non si esaurisca in un singolo evento bellico - con un inizio e una fine nel tempo -, ma si sviluppi in un continuum di interventi militari destinati a durare indefinitamente nel tempo e in parte a sovrapporsi fra loro (come è il caso delle guerre parallele contro l'Afghanistan e contro l'Iraq, e delle simultanee minacce rivolte dagli Stati Uniti a paesi come l'Iran, la Siria e la Corea del Nord).

Queste aree sono i Balcani e in modo tutto particolare l'Asia: dal Medio Oriente all' Asia centrale, dal Golfo del Bengala al Mar del Giappone e alla Corea, lungo quello che il documento chiama East Asian Littoral, includendovi anche l'Asia del Sud -est. Solo controllando militarmente queste aree - in particolare i paesi dell' area caucasica, caspica e transcaspica, come Georgia, Azerbaijan, Turkmenistan, Uzbekistan e Tagikistan, oltre ovviamente all' Afghanistan e al Pakistan Pgli Stati Uniti possono garantirsi il controllo delle risorse energetiche di cui questi paesi abbondano. Se necessario, si dovrà cambiare il regime di uno Stato avversario e occuparne provvisoriamente il territorio finché gli obiettivi strategici statunitensi non siano stati realizzati.
Per quanto riguarda in particolare il Medio Oriente, l'obiettivo principale della strategia statunitense è quello di 'democratizzare' con la forza l'intera area, dall'Egitto alla penisola arabica, alla Giordania, alla Siria, all'Iraq e all'Iran. Quest'area, oltre a essere uno dei più ricchi depositi di risorse energetiche del mondo, è una regione altamente instabile e il crogiolo del global terrorism. Al suo centro sta non solo il conflitto fra lo Stato di Israele e il popolo palestinese ma anche - sfida globale insostenibile - il fenomeno del terrorismo suicida, emblema del rifiuto dei valori occidentali, a cominciare dallo stesso diritto alla vita22. Il recente progetto della Road Map, messo a punto dal governo Sharon e dall'amministrazione Bush, sembra voler risolvere la questione palestinese in linea con la strategia della 'demonatizzazione' militare del Medio Oriente e cioè proseguendo nell'opera di erosione dell'identità e dell'autonomia del popolo palestinese.
In terzo luogo la nuova guerra può essere detta globale in un senso propriamente normativo, come sovrana e illimitata perché sottratta sia al divieto dell'uso 'privato' della forza (jus ad bellum) da parte degli Stati, stabilito dalla Carta delle Nazioni Unite, sia alle norme del diritto bellico (jus in bello), sviluppate dall'ordinamento internazionale moderno. È una guerra decisa da un' autorità che si ritiene, per usare il lessico di Schmitt, fonte sovrana di un nuovo Nomos della terr/'1/ i n una situazione -la minaccia del global terrorism  di 'eccezione globale' permanente. L'intera vicenda che ha visto gli Stati Uniti (e la Gran Bretagna) lungamente preparare e poi sferrare l'attacco contro l'Iraq è all’insegna di questo inedito decisionismo e globalismo normativo. Si è trattato infatti di una condotta bellica non solo illegale, ma eversiva dell' ordinamento internazionale. È una guerra che si propone di dar vita a un Il uovo ordine mondiale - e a un nuovo diritto internazionale - che assuma di fatto l'amministrazione degli SI ati Uniti come suprema istituzione e fonte normativa internazionale, al posto delle N azioni Unite e di ogni altra analoga organizzazione.
Ancora una volta è un documento della Casa Bianca - il National Security Strategy of the United States of America, dell’7 settembre 2002 - a gettare luce su questa inedita prospettiva bellica. Le linee fondamentali del documento riaffermano il diritto dell' amministrazione degli Stati Uniti di qualificare alcuni Stati sovrani come Stati da mettere ai margini della comunità internazionale e da fare oggetto di pressioni politiche, di minacce militari e di controlli coercitivi che mirino alloro disarmo preventivo. Le stesse Nazioni Unite vengono trattate non come un organismo sovranazionale e un'assise universale, ma come un' istituzione subordinata all' amministrazione statunitense: nel documento si lascia chiaramente intendere che l'attacco all'Iraq verrà deciso anche senza una risoluzione del Consiglio di sicurezza.
Ma il fulcro normativamente eversivo del documento è la rivendicazione del diritto degli Stati Uniti di ricorrere alla' guerra preventiva' contro ogni possibile nemico, in totale indipendenza da ogni altra autorità del pianeta. È appena il caso di sottolineare come il divieto dell'uso unilaterale e preventivo della forza militare è il pilastro che sorregge l'intera struttura della Carta delle Nazioni Unite. La nozione di aggressione - e cioè della più grave violazione dell' ordine internazionale - coincide esattamente con l'uso preventivo e unilaterale della forza da parte di uno Stato. Questa nozione di aggressione è d'altra parte ciò che più nettamente distingue il diritto internazionale vigente dall' etica militare antica e medievale. La 'guerra santa' israelitica, la 'guerra giusta' cattolica e la jihad islamica legittimavano l'uso preventivo della forza contro i nemici del popolo di Dio.
Infine, la nuova guerra può essere considerata 'globale' in un senso ideologico. Lo è anzitutto per il costante richiamo a valori universali da parte delle potenze (occidentali) che la promuovono: esse giustificano la guerra in nome non di interessi di parte o di obiettivi particolari, ma di un punto di vista superiore e imparziale e di valori che si ritengono condivisi o condivisibili dall'umanità intera. Il weberiano 'politeismo' delle morali e delle fedi religiose è sistematicamente negato dai teorici

L’uso della forza viene giustificato in nome di un fondamentalismo umanitario che enfatizza il desiderio dei paesi occidentali di tutelare i diritti dell’uomo in ogni angolo della terra, intervenendo anche con la forza delle armi. All'universalismo normativo dei diritti dell'uomo deve corrispondere l'universalismo della loro protezione militare, come ha recentemente riconosciuto Michael Ignatieff. E questo comporta - il punto è decisivo - l'abbandono del vecchio principio vestraliano della non interferenza negli affari interni degli altri Stati e la proclamazione di un principio opposto: il dovere degli Stati Uniti e delle potenze occidentali di intervenire con la forza tutte le volte in cui lo ritengano necessario per porre fine alla violazione di diritti fondamentali all'interno di uno Stato, se necessario abbattendone il regime politico. È il monoteismo neoriale della' guerra umanitaria', sostenuto dal classico assunto 'cosmopolitico' del necessario declino del pluralismo delle sovranità nazionali e dell' emergere di un mondo globalizzato sotto la responsabilità e la guida di una sola potenza.
Si tratta a mio parere di giustificazioni della guerra regressive rispetto all'intero impianto del diritto internazionale moderno, poiché ripropongono 'giuste cause' dell'uso della forza a livello internazionale secondo la dottrina del bellum justum. Ed è significativo che questa dottrina sia stata ripresa negli ultimi decenni del Novecento quasi esclusivamente da autori statunitensi, in primis da Michael Walzer, nel libro, di grande successo, Just and Unjust Wars26. Walzer si è recentemente istinto per aver scritto e diffuso assieme a sessanta eminenti intellettuali statunitensi un documento in cui si proclama 'guerra giusta' la guerra contro l"asse del male' dichiarata dall' amministrazione Bush contro il terrorismo. Ed è altrettanto significativo che nel suo libro Walzer abbia sostenuto che in casi di supreme emergency, quando ci si trovi di fronte a un pericolo «inusuale e orrendo» per il quale si provi una profonda ripugnanza morale perché rappresenta l' «incarnazione del male nel mondo» e «una minaccia radicale ai valori umani», nessun limite di carattere etico e giuridico può essere rispettato da parte di chi ne sia minacciato. Qualunque azione armata che contribuisca all' annientamento del nemico è moralmente e giuridicamente lecita, anche se si tratti di un' azione terroristica.

Conclusione

La  rassegna di problemi, di opinioni e di dispute teoriche che ho qui presentato non richiede, a rigore, alcuna conclusione. L'obiettivo principale delle mie pagine era soprattutto implicito. Potrò ritenere di averlo realizzato secondo lo sforzo di analisi e di differenziazione tematica avrà contribuito a ridurre l'indeterminatezza intellettuale che caratterizza per lo più le discussioni di globalizzazione, E mi sentirò gratificato se sarò in grado di offrire al lettore qualche appiglio per un più chiaro orientamento teorico e politico.
Aggiungo qui soltanto alcune considerazioni personali a proposito del dilemma 'mito e realtà della globalizzazione', per usare la formula di «Esprit», che è stato il centro del great debate di questi anni. La mia posizione si colloca in un punto intermedio- ma non equidistante - fra quella degli apologeti e quella dei critici radicali della globalizzazione. Per un verso ritengo doveroso respingere con fermezza la retorica occidentale che fa della globalizzazione la strada maestra che conduce all'unificazione del genere umano, all'avvento della cittadinanza universale e alla pace idilliaca del global village. E non riesco a condividere neppure l'idea tardo-illuministica della globalizzazione come viatico verso la 'seconda modernità' , divulgata con successo da Ullrich Beck. Diffido a maggior ragione, assieme a Paul Hirst, delle strong versions che tendono a fare dei processi di integrazione globale il paradigma conoscitivo ed esplicativo del nostro tempo, da applicare all'intero settore delle scienze sociali.
Per questo, pur apprezzando alcuni aspetti della riflessione di Zygmunt Bauman, tendo a considerarla come una sorta di superfetazione metafisica della ricerca sociologica. Bauman sembra pensare alla globalizzazione come alla causa di tutte le ansie, le frustrazioni e i dolori di cui soffrono gli uomini e le donne che oggi vivono su questo pianeta. E imputa alla globalizzazione la radicale Unsicherheit propria della condizione umana, trascurando le diverse percezioni che gli uomini hanno di questo fenomeno nei vari angoli culturali ed economici della terra. E trascurando il fatto che si tratta pur sempre di un fenomeno sociale che non altera, se non marginalmente, i parametri essenziali della nostra esistenza, della nostra irrimediabile vulnerabilità. Non a caso, secondo me, la riflessione di Bauman approda alle medesime conclusioni metafisiche della tradizione kantiana, dalla quale mutua l'idea della repubblica planetaria come garanzia finale della pace, della giustizia e della 'vita buona'.
Nello stesso tempo, però, tendo a diffidare delle posizioni più radicalmente scettiche - penso a Pierre Bourdieu e ad alcuni autori neomarxisti che gli fanno eco - che interpretano la globalizzazione come pura retorica capitalistica, come una costruzione ideologica che non ha altra funzione che quella di legittimare il progetto neoliberista globale. Essa andrebbe quindi smascherata sul piano teorico e contrastata su quello politico. Non nego la retorica e non sottovaluto la manipolazione  ideologica. Sostengo però che retorica e ideologia si sviluppano a partire da alcuni fenomeni di cui sarebbe grave miopia ignorare la novità e la rilevanza. In questo senso la proposta definitoria di Jonny Giddens - nonostante i suoi limiti - coglie secondo me un dato con cui occorre fare i conti: quello che chiamiamo globalizzazione è per molti versi il risultato di una serie di compressioni dello spazio e del tempo che sono state consentite dall'imponente riduzione dei tempi e dei costi dei trasporti e delle comunicazioni, e dall' abbattimento di alcune barriere (non certo di tutte) della circolazione internazionale dei beni, dei servizi, dei capitali e delle conoscenze.
Da questo punto di vista, pur accettando in linea di principio la saggia relativizzazione storicistica proposta Clark, la globalizzazione mi appare storicamente irreversibile, almeno quanto lo è l'inclinazione millenaria dell' homo sapiens a costruire utensili e a dotarsi di tecnologie sempre più sofisticate e potenti. E i processi di globalizzazione sono, nel senso che ho precisato, irreversibili, è dunque insensato - oltre che improduttivo - qualsiasi tentativo di negarli come pura tecnologia e di fermarli. È certamente vero, come sottolineano Paul Hirst e Luciano Gallino, che i processi di integrazione connettono fra loro quasi soltanto le tre aree industriali dell'America settentrionale, dell’Europa e del Giappone. Ma questi processi hanno rilevanti effetti anche nelle aree del mondo escluse dall’integrazione, in particolare in Africa e in larghi settori dell' Asia e dell' America Latina. Si potrebbe dire che sono tre gli effetti positivi, in termini di aumento della produzione globale di ricchezza e di distribuzione di vantaggi economici, politici e culturali, sono altamente selettivi - privilegiano i paesi più ricchi e potenti -, gli svantaggi colpiscono tutti gli uomini della terra e causano i danni maggiori proprio nelle aree più povere e più arretrate del pianeta.
Sostenere che i processi di globalizzazione sono, nel loro nucleo tecnologico-informatico, irreversibili, non significa affatto considerarli come dei fenomeni naturali o come l'esito casuale e disordinato di 'forze anonime' che operano in una «nebbiosa e melmosa terra di nessuno», come ha scritto Bauman. Luciano Gallino ha secondo me perfettamente ragione nel sostenere che gli esiti politici, economici e comunicativi della globalizzazione corrispondono a un progetto disegnato e realizzato consapevolmente dalle maggiori potenze del pianeta e dalle istituzioni internazionali da loro controllate. È dunque necessario distinguere, come propone Joseph Stiglitz, fra i processi di globalizzazione come tali e la loro gestione politica da parte delle grandi potenze economiche e politiche del pianeta. E questa gestione non può essere in alcun modo considerata 'irreversibile'.
Non è irreversibile la totale, in controllata liberalizzazione dei movimenti del capitale finanziario, non lo è la deregolamentazione dei mercati del lavoro, né lo è, in Occidente, lo smantellamento dello Stato sociale e la sua trasformazione in uno 'Stato penale'. Non è irreversibile l'egemonia planetaria di cui godono i grandi mezzi di comunicazione di massa occidentali, né lo sono i processi di occidentalizzazione del mondo che vengono imboniti come 'cultura globale'. Non sono irreversibili l'erosione della sovranità degli Stati piccoli e medi e la concentrazione del potere e della ricchezza ai vertici della gerarchia mondiale dominata dalle maggiori potenze industriali. Non è irreversibile la deriva della privatizzazione del diritto internazionale e della sottrazione dei mercati allo strumento regolato equilibratore del diritto. Non è irreversibile la mutazione della guerra moderna in guerra globale e la devastazione del diritto e delle istituzioni internazionali.
Ma perché il ferreo determinismo della globalizzazione così come oggi la conosciamo possa essere spezzato è appena il caso di dirlo - sarà necessario liberare il pianeta dai vincoli di quello che Stiglitz ha chiamato il Washington consensus. Il Washington consensus è oggi il sigillo imperiale della negazione della bellezza e della complessità del mondo.

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