venerdì 13 gennaio 2012

ERMANNO REA LIBRO LA FABBRICA DELL'OBBEDIENZA

LA FABBRICA DELL’OBBEDIENZA
Ermanno Rea

IL LATO OSCURO E COMPLICE DEGLI ITALIANI

Il Risorgimento, frutto di un moderatismo senza idee Gramsci liberista? - La teoria della palla al piede - La Cassa per il Mezzogiorno secondo Amendola - I guasti del Regionalismo - L'Istituto napoletano di studi filosofici - Un paese troppo lungo?

Durante la crisi per il mancato smaltimento della spazzatura al Sud e in pieno scandalo per i rifiuti tossici provenienti dalle più remote fabbriche del Settentrione interrati in Campania dalla criminalità organizzata, non si contarono le telefonate «amichevoli» che ricevetti, tutte dolenti e cariche di stupore: ma che cosa sta succedendo a Napoli? Pensate: non in Italia. A Napoli. Come se Napoli fosse stata un altrove, un luogo remoto ed estraneo. Protestai con molti di loro, ma non tutti compresero il senso del mio risentimento.
Ormai chi parla più di «questione meridionale»?
Soprattutto: chi ne parla più con pertinenza e sagacia? Chi ricorda più come lo sviluppo industriale del Nord poté aver luogo a condizione di ridurre il Mezzogiorno a mercato coloniale, a fattore inerte e succubo dell’economia nazionale, come afferma ormai la quasi totalità degli storici?
Non credo di divagare. Reputo il nodo risorgimentale vincolante in riferimento al carattere degli italiani. Lungi dal costituire un punto di rottura con il passato, un momento di riscatto e di cambiamento, esso ne riconfermò tutti i legami e le dipendenze. Innanzitutto sotto il profilo degli interessi socio-economici consolidai i, garantiti dal ruolo egemone della monarchia sabauda (; in genere dalla cosiddetta «eroica minoranza» di stampo fortemente moderato, tessitrice del processo aggregativo.
In breve, per il modo in cui si realizzò, oggi 1'unificazione non può essere considerata altrimenti che come iattura, condanna permanente a vantaggio del Nord di un Sud che pure, al momento della fusione, aveva un suo respiro, una sua dignità economica e produttiva. La verità è che il Risorgimento non riesce a esprimere alcuna idea nuova di Stato, si propone come progetto privo di immaginazione, fine a se stesso, tanto ridondante nella forma quanto vuoto nella sostanza, incapace, come ebbe a osservare Mario Missiroli, di risolvere i problemi con la Chiesa ( «un popolo che non aveva sentito la libertà religiosa non poteva sentire la libertà politica»). Per quel che riguarda la Chiesa, si può dire anzi che con il Risorgimento la dipendenza (di fatto, al di là delle apparenze e di contenziosi occasionali) si accentua, e non è certo per la ferma opposizione di un grande movimento popolare e rivoluzionario che alla fine del conflitto franco-austriaco non si realizza il progetto messo in piedi nel luglio del 1859 dai due imperatori, di Francia e d'Austria, di dar vita in Italia a una Confederazione .sotto la presidenza del Pontefice.
L'Italia che si unisce lo fa dunque precostituendo il proprio fallimento di cui tutti oggi patiamo l'insopportabile peso. Tradizionalismo e arretratezza tappano le ali a tutti: al Sud, dove prospera il latifondo e dove arcaici rapporti di proprietà e di produzione condannano le popolazioni agricole a una povertà senza scampo (a fronte dell'illimitata ricchezza dei grandi proprietari terrieri assenteisti); al Nord, dove una miope borghesia produttiva non sa guardare oltre. il proprio ombelico, senza riuscire a capire che l'unificazione l'ha investita di un grande ruolo: farsi promotrice dello sviluppo generale di tutta la nazione.  
Ma gli uomini non sono all'altezza'del compito; anzi non riescono neppure a configurarlo, a pensarlo, a sognarlo. Tutto quello che sanno fare è sfruttare al meglio la situazione per il proprio immediato vantaggio: Ecco al proposito una bella pagina di Gramsci:

Là egemonia del Nord sarebbe stata «normale» e storicamente benefica, se !'industrialismo avesse avuto la capacità di ampliare con un certo ritmo i suoi quadri per incorporare sempre nuove zone economiche assimilate. Sarebbe allora stata questa egemonia l'espressione di una lotta tra il vecchio e il nuovo, tra il progressivo e l'arretrato, tra il più produttivo e il meno produttivo; si sarebbe avuta una rivoluzione economica di carattere nazionale (e di ampiezza nazionale) anche se il suo motore fosse stato temporaneamente e funzionalmente regionale. Tutte le forze economiche sarebbero state stimolate e al contrasto sarebbe successa una superiore unità. Ma invece non fu così l’egemonia si presentò come permanente, il contrasto si presentò come una condizione storica necessaria per. un tempo indeterminato e quindi apparentemente «perpetua» per l'esistenza di una industria settentrionale.

La citazione è curiosa. Innanzitutto per il punto di vista che la ispira, squisitamente liberistico. Per Gramsci la borghesia produttiva del Nord va messa sotto accusa per la sua incapacità di guadagnare al capitalismo moderno nuove aree, si potrebbe dire per scarsa fiducia in se stessa e nel proprio verbo. Sembrerebbe l'opinione di un protestante.
Ma, detto questo, come negare che il passo è di rara lucidità e fa comprendere quanto l'unificazione italiana, così priva di progetti e ambizioni, appaia sin da principio destinata a produrre nient'altro che mostri? Che infatti non tardano ad arrivare, attraverso il congelamento dèll' economia meridionale, colpita negli anni ottanta dell'Ottocento da una grave crisi agricola internazionale che la mette completamente alla mercé del Nord.
A partire da questo momento, come spiega lo storico Francesco Barbagallo in un voluminoso studio intitolato Stato, Parlamento e lotte politico-sociali nel Mezzogiorno, la spaccatura del paese si fa definitiva e irrimediabile e il divario tra Nord e Sud «non cesserà più di accrescersi: allo sviluppo industriale del Nord si accompagnerà il sottosviluppo economico e sociale del Sud in un rapporto di stretta dipendenza destinato a perpetuarsi».
A perpetuarsi non soltanto nei fatti, ma nelle coscienze, nelle opinioni, nei sentimenti. Niente di nuovo sotto il sole. Il rancore è vecchio: attraversa, ora in emersione ora sotto traccia, tutta la nostra vicenda unitaria. Ecco un'altra densa pagina di Gramsci che sembra scritta ieri benché si riferisca ai tempi di Crispi:

La «miseria» del Mezzogiorno era «inspiegabile» storicamente per le masse popolari del Nord; esse non capivano che l'unità non era avvenuta su una base di uguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno nel rapporto territoriale di città-campagna, cioè che il Nord concretamente era una «piovra» che si arricchiva alle spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con !'impoverimento dell' economia e dell'agricoltura meridionale. Il popolano dell'Alta Italia pensava invece che, se il Mezzogiorno non progrediva dopo essere stato liberato dalle pastoie che allo sviluppo moderno opponeva il regime borbonico! ciò significava che le cause della miseria non erano esterne, da ricercarsi nelle condizioni economico-politiche obiettive, ma interne, innate nella popolazione meridionale, tanto più che era radicata la persuasione della grande ricchezza naturale del terreno: non rimaneva che una spiegazione, l'incapacità organica degli uomini, la loro barbarie, la loro inferiorità biologica. Queste opinioni, già diffuse (il lazzaronismo napoletano era una leggenda di vecchia data) furono consolidate e addirittura teorizzate dai sociologi del positivismo (Nicoforo, Sergi, Ferri, Orano ecc.), assumendo la forza di «verità scientifica» in un tempo di superstizione della scienza. Si ebbe così una polemica Nord-Sud sulle razze e sulla superiorità e inferiorità del Nord e del Sud. [ ... ] Intanto, rimase nel Nord la credenza che il Mezzogiorno fosse una {<palla di piombo» per l'Italia, la persuasione che più grandi progressi la civiltà industriale moderna dell' Alta Italia avrebbe fatto senza questa «palla di piombo»;

Ci sono pregiudizi che hanno la durezza della pietra: il tempo non ne scalfisce neppure le virgole. Mugugni e sentenze si ripetono monotonamente dall'Ottocento ai giorni nostri. Invano il Sud cerca di far valere le proprie ragioni e analisi: la letteratura meridionalistica vanta tra le più lucide intelligenze del XIX secolo e anche di molta parte del secolo successivo. Sta di fatto che il battibecco non finisce mai; e se non è un veleno quotidiano, poco ci manca.
Ma acrimonia e pregiudizio fanno di più: concorrono a ottenebrare l'azione politica che, lungi dal ricorrere a terapie d'urto, è indotta a iniziative che servono soltanto a far lievitare la corruzione e la criminalità organizzata al Sud e il chiacchiericcio contro i «terroni» al Nord. Penso per esempio all'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, nel 1950, e al vibrante discorso di Giorgio Amendola alla Camera dei deputati con il quale motivò il dissenso dèlla sua parte politica, fermamente contraria  all'irrorazione a pioggia di denaro pubblico nel Mezzogiorno senza alcun preciso progetto d'integrazione economica e sociale del paese.
Fanno impressione le sue parole premonitrici a rileggerle oggi, a tanta distanza di tempo. Fa impressione la sua riaffermazione del «carattere nazionale del problema meridionale, da risolvere non con leggi speciali, non con soli lavori pubblici, ma con un determinato indirizzo generale della politica nazionale». Al che soggiungeva: «Con il pretesto di dare mille miliardi, che non darete, [ ... ] voi cercate di creare un organismo che sarà un pericoloso strumento di corruzione e di asservimento delle popolazioni meridionali ... ».
Più profeta di così Amendola non avrebbe potuto essere. La semina di denaro a cascata nei decenni successivi produsse infatti soprattutto ruberie, sprechi, camorre, opere pubbliche inutili, collusioni politico mafiose. Fino al degrado dei nostri giorni a base di fabbriche dismesse, disoccupazione dilagante, corruzione alle stelle. Del resto, il rifiuto di un severo progetto economico unitario accompagnato da una coerente politica nazionale quali conseguenze avrebbe potuto avere se non queste?  
Oggi la disunione italiana è andata così avanti da rendere. estremamente problematica, per non dire impensabile, la prospettiva di una integrazione economica e sociale della nazione in un arco di anni non esageratamente ampio. Il tempo ha logorato tutti i rimedi così come sono stati immaginati in origine e qua e là praticati: essi ormai appaiono del tutto inadeguati in presenza di una mondializzazione che ha reso l'industria un fattore estremamente precario e ballerino, sottratto a ogni logica di pianificazione, in grado di obbedire unicamente agli impulsi dettati dal gioco al ribasso nel mercato del lavoro mondiale.  
Un cul de sac. Che produce nevrosi e insicurezza in tutti, nonché prospettive separatistiche da consumarsi in nome di mitiche differenze razziali e religiose, come quella che opporrebbe un'alacrità «celtica», al disopra del fiume Eridano (il Po), a un parassitismo greco-latino da Roma («ladrona») in giù.
A farla breve, non sappiamo come venir fuori da quel vero e proprio nido di vipere che è diventata la disunità d'Italia, fattasi ormai malattia collettiva, ferita irrimediabile, solco che ci separa colorandosi di volta in volta in maniera diversa, facendosi ora differenza geografica, ora differenza politica, ora differenza religiosa, ora differenza linguistica, sempre comunque tutte riconducibili, in un modo o nell'altro, alla madre di tutte le differenze, a quel nodo irrisolto di paese «troppo lungo» per non presentare pericolosi deficit di coesione.
E se provassimo, non dico a separarci in maniera traumatica e irreversibile, ma a farlo con intelligenza istituzionale e politica, insomma a renderei autonomi gli uni dagli altri senza odio e senza rivalità, conservando anzi un legame «nazionale» non formale, ma nello stesso tempo non opprimente né paralizzante? L'ipotesi arriva imprevedibilmente da sinistra: cauta, quasi felpata. Leggiamola: ne vale la pena, anche per la qualità di chi la propone, Giorgio Ruffolo, tra i più noti rappresentanti del riformismo socialista italiano.

L’era berlusconiana è una parentesi effimera? Ci sono buone ragioni per pensare che la sua spinta propulsiva sia esaurita (così la pensa, per esempio, Aldo Schiavone). Ce ne sono altrettante per valutare i rischi che essa presenta: quelli di una deriva autoritaria, di una polverizzazione sociale e, soprattutto, quello di una decomposizione territoriale del paese.
Per «decomposizione territoriale» intendo, per l'Italia, una condizione nella quale il Nord somigli a un «Belgio grasso» (secondo la definizione di Omodeo), e il Sud a una colonia mafiosa.
Una condizione a dir poco spiacevole, a centocinquant'anni dall'unificazione. Questo pericolo non è avvertito da una sinistra che ha cessato di rappresentare un'alternativa di governo credibile, per non dire un progetto di società diversa. E che si limita al. «controcanto». Anche la sinistra, non solo la destra, ha da tempo abbandonato la «questione meridionale».
E invece, è proprio su questo terreno che essa potrebbe riacquistare !'iniziativa politica perduta: come forza capace di arrestare il processo di decomposizione, e di realizzare finalmente il compito storico «mancato» dell'unità, dopo quello conseguito dell'unificazione.
Riprendere in mano la questione meridionale non significa, ovviamente, riproporla nei. termini «gramsciani». È passato quasi un secolo, e la depressione politica del Mezzogiorno non s'identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borg1l.esia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa, e nello scambio tra il voto elettorale che essa garantisce al governo centrale, e le risorse finanziarie che riceve tramite quello, e che gestisce attraverso i governi locali. .
Questa borghesia «politica» è legata alla mafia militare, quella dei Provenzano e dei Riina, in un rapporto dialettico che comporta tensioni e conflitti, ma che resta indissolubile: il che spiega l'eterna risorgenza delle mafie dopo i colpi, anche durissimi, che esse subiscono dall'apparato giudiziario e militare dello Stato.
D'altra parte, la mafia militare s'intreccia sempre più con le grandi reti della criminalità internazionale, acquistando sempre maggiore autonomia, e radicandosi profondamente non solo in Sicilia, ma in altre grandi regioni e città del Mezzogiorno, dove si trasforma in quartiere generale del crimine internazionale.
Questo è il doppio nodo che bisogna spezzare: tra la classe politica meridionale e la mafia; tra la mafia e le reti internazionali del crimine.
Queste due battaglie non hanno alcuna probabilità di essere vinte, nell'attuale stato di frammentazione politica e amministrativa del Mezzogiorno, lasciato nelle mani di governi regionali contaminati, e spesso sopraffatti, dai legami clientelari e dalle pressioni mafiose.
Bisogna mettere in campo un nuovo soggetto: un vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno. L’idea non è nuova. Essa riprende in circostanze nuove il grande progetto della rivoluzione meridionale di Guido Dorso, e della costituzione meridionale federalista di Gaetano Salvemini: un governo autonomo del Mezzogiorno, saldamente ancorato a una costituzione nazionale autenticamente federalista [ ... ].
Questo disegno non ha niente a che fare con la boutade di un «partito del Sud", e cioè di una formazione leghi sta del Sud che si contrapponga a quella leghista del Nord: un vecchio progetto, ricalcato su precedenti, e ben note, insorgenze di carattere separatista, secessionista e mafioso ... 70
Ho avuto modo di esprimere pubblicamente il mio personale favore a un dibattito su questi temi, a partire proprio dalla «provocazione» di Ruffolo, molto meno campata in aria e giustificata di quanto qualcuno la pretende (per esempio Eugenio Scalfari). Il che non significa, a mio giudizio, che Ruffolo abbia indicato la ricetta «sicura» per uscire dal buco nero nel quale ci sia-. mo cacciati, ma soltanto che la sua proposta merita di essere approfondita, soprattutto in mancanza di una strada alternativa capace di prospettare un cammino diverso da quello finora seguito.
Provo a semplificare al massimo la questione: il Mezzogiorno è con l'acqua alla gola. Impossibile continuare a gestire il carattere binario dell'Italia narcotizzandone la drammaticità tra doviziose elemosine, condoni, legittimazioni a delinquere e altre forme perverse tese a rendere la coabitazione possibile ancorché non tollerabile.
Si è fatto così, sinora. Adesso però gli errori del passato non possono essere rinnovati. In parole povere, occorre un'alzata d'ingegno, un gesto audace, un" evento traumatico capace non soltanto di incidere il bubbone ma anche di svegliare le coscienze intorpidite. Ruffolo avanza un'ipotesi: non vogliamo neppure parlarne? Prima di gettarla nel cestino bisognerebbe quanto meno proporne una sostitutiva. Limitarsi a proclamare ai quattro venti che l'Unità d'Italia è un bene che non si tocca non basta più. Soprattutto quando questa intangibilità si traduca (come è accaduto sinora) in inerzia, in rassegnata accettazione dello statu qua.
Per chi non lo avesse ancora capito, ritengo che  mai qualunque novità sia preferibile al prolungamento della pestifera agonia in corso. Sono centocinquant'anni che il Mezzogiorno invoca a squarciagola un'Italia unita, cementata da uno Stato forte e coeso, capace di superare gli infiniti particolarismi della sua tormentata storia. Chi altri, sia detto senza alcuna retorica, può vantare altrettanta fermezza e coerenza nel perseguire !'ideale unitario quanto la cultura meridionale negli anni che precedettero e seguirono l'avventura dei Mille? La mente corre con impeto e passione al nome del grande Francesco De Sanctis, .nominato alla carica di Direttore della Pubblica Istruzione ancora prima dell'unificazione formale dell'Italia, ma che egli volle assumere in concreto soltanto quando fu deciso in modo irrevocabile, per plebiscito, l'unione dell'antico Regno di Napoli all'Italia di Vittorio Emanuele.

Napoli si trasformò all'improvviso in un grande, fervido cantiere di idee unitarie, di elaborazioni etico-politiche sulla natura dello Stato in procinto di nascere, di entusiasmi intellettuali di ogni genere. De Sanctis, appena padrone della situazione. a Napoli, non indugiò a: rivoltare come un guanto l'università, espellendo ne buona parte del vecchiume borbonico e spalancando le porte alle intelligenze più aperte e innovatrici.
«Col decreto del 27 ottobre egli collocava a riposo ventidue aquile di professori; altri cinque ne metteva a ritiro con !'intero o la metà del «soldo» per loro condizioni speciali» assumendo alloro posto - come racconta il critico Luigi Russo in un bel libro del 1924 dedicato appunto al De Sanctis e all'università napoletana dopo l'unificazione72 - uomini come Ruggero Bonghi (Storia della filosofia), Antonio Ranieri, l'amico di Leopardi (Sto- . ria), Pasquale Villani (Filosofia della storia) e tantissimi altri a cominciare dal più illustre di tutti, Bertrando Spaventa, che non a caso e il nome-guida di questo testo, il suo ispiratore.
È storia arcinota, anche se deliberatamente dimenticata: l'Università di Napoli fu il centro propulsore che animò il dibattito unitario per buona parte della seconda metà dell'Ottocento, fino a essere accusata di «statolatria» per il suo predominante hegelismo, interpretato soprattutto dalle figure di Bertrando Spaventa e Augusto Vera, le due anime di una scuola di pensiero che, al di là delle pur significative differenze, anteponeva come assolutamente prioritario il confronto sulla forma di Stato di cui 1'Italia avrebbe dovuto dotarsi al fine di preservare la· propria integrità dai peritoli della disgregazione.
Non credo che sia fuori luogo ritordare in queste pagine, e con i venti che tirano, l'importanza di questo primato, di quello che è stato a lungo (e forse è tuttora) il preva1e.vtesentire non soltanto «patriottico» ma addirittura statocentrico della migliore. cultura meridionale. «Voi siete adoratore dello stato? Sì, io sono adoratore dello stato», affermò in un discorso del 1886 Silvio Spaventa, il fratello-specchio di Bertrando. «Quando viviamo in un'epoca in cui tutto si distrugge, poco o niente si edifica, la fede nella patria e la fede nella solidarietà umana, la fede in qualche cosa che non sia solamente il nostro miserabile egoismo, questa fede io la credo necessaria e salutare per il mio paese.» .
Che magnifica storia, quella dell'Università di Napoli dal 1860 in poi, di Francesco De Sanctis, padre della critica letteraria italiana, dei fratelli Spaventa, della tensione ideale che da quella cittadella si sprigionò dilagando in tutta Italia e che il racconto di Luigi Russo ci restituisce in tutto il suo incanto intellettuale e la sua originalità politica. Bertrando era adorato dai giovani. Russo racconta:  

E lo Spaventa, severo nei suoi giudizi, stringente nella sua logica, sarcastico e mordace nella polemica, scontroso nelle amicizie, creava attorno a sé un'atmosfera di solitudine e di freddo, ma che poi era la ragione stessa della sua grandezza. I giovani però, i quali, come riconosceva egli stesso in una lettera al fratello, «hanno un certo istinto per la verità, per la libera ricerca», avvertirono a poco a poco quale nuovo mondo si schiudesse per i loro intelletti dagli insegnamenti del difficile maestro e si stringevano attorno a lui, e ributtavano con impeto le sortite degli avversari e affrettavano la pubblicazione a stampa delle sue lezioni.
Sulle «sortite degli avversari» ci sarebbe parecchio da dire. L’accusa più frequentata era quella dei giobertiana, secondo i quali egli faceva opera antinazionale perché tradiva «l'italica filosofia alemanna». Per il Vera invece, interprete di un hegelismo completamente diverso da quello spaventiano, antstoricistico e teologico, il torto di Spaventa stava proprio nel suo nazionalismo, insito nella pretesa di riallacciare «il pensiero del nostro 'Rinascimento al generale pensiero europeo».
Della lezione spaventiana non resta più niente, oltre ai rimpianti e alle rievocazioni? Non esattamente. Anche se sono tante le materie intorno a noi, 1'Istituto italiano di studi filosofici diretto da Gerardo Marotta sta là, in palazzo Serra di Cassano, a testimoniare l'attaccamento della migliore cultura napoletana, anzi della migliore cultura italiana: agli ideali unitari e al sogno di quello Stato forte e coeso mai nato.

Ricordo frammenti di conversazioni con Gerardo Marotta, cui mi legano rapporti di amicizia che risalgono alla nostra giovinezza; frammenti annotati su fogli ingialliti ma tuttora di sconcertante attualità. Eravamo all'incirca alla fine degli anni sessanta: l'istituzione delle Regioni era alle porte ed egli mi rammentava gli ammonimenti di alcuni grandi uomini politici (da Nitti a Togliatti), già nell'immediato dopoguerra, sui pericoli dell'ordinamento regionale per la stessa sopravvivenza dello Stato italiano. Cito testualmente le parole di Marotta: «Nitti non si limitò soltanto a raccomandare alle forze politiche di non abbandonare la Repubblica nelle mani degli interessi locali che avrebbero finito per dissolvere lo Stato. Mise in luce l'impossibilità delle finanze italiane di sostenere le spese delle Regioni dimostrando, cifre alla mano, che esse avrebbero portato l'Italia al dissesto».
Quando, tra il '69 e il '70, scoccò l'ora delle Regioni furono in pochi, a sinistra, a proclamare il proprio dissenso. Da allora, Marotta non cessa di mostrare il suo pollice verso, non cessa di ricordare le responsabilità di una borghesia che non ha mai inteso far proprio, fino in fondo, l'ideale unitario, coltivando nascostamente il mito delle' autonomie in nome soprattutto dei propri interessi economici.
Ricordo il suo sorriso un po' mesto un po' ironico quando, rispondendo a una mia domanda, dichiarò la sua preferenza per la figura di Robespierre. «Oggi», disse, «il nome dell'Incorruttibile non può neppure essere pronunciato senza sollevare scandalo e fastidio. Danton, il "demagogo affamato di godimenti", come ebbe a definirlo lo storico Albert Mathiez, è nuovamente di moda. Ma che cosa significa, per noi dell'Istituto di studi filosofici, richiamarci a Robespierre? È semplice. Vuole dire battersi per costruire un'Europa politica, veramente unita. Così come, su scala più ridotta, richiamarsi ai giacobini napoletani del 1799 vuole dire battersi per costruire in Italia uno Stato moderno, dominato da un'idea superiore di giustizia e di legalità repubblicana, senza tutti quei particolarismi, quei provincialismi, quegli abusi di potere e-quellè tracootanzecorporative che stanno trasformando il nostro paese in una sorta di alveare impazzito.»
Ho detto, alcune pagine indietro, di non essere affatto contrario a un vasto dibattito in Italia sulla proposta «federalista» di Giorgio Ruffolo. Vuole dire che sono in contraddizione con me stesso? Non credo. Ho semplicemente voluto mèttere in chiaro lo spirito con il quale ho letto, e misuratamente fatta mia, l'ipotesi avanzata; la consapevolezza, a centocinquant'anni dall'integrazione nazionale e a quaranta dall'istituzione delle Regioni, di quanta poca strada abbia fatto ,l'ideale unitario a fronte dei successi mietuti dalle forze che non solanto non si sono mai riconosciute nel processo risorgimentale ma che lo hanno costantemente boicottato. Come ha scrillo un collaboratore della «Gazzetta del Mezzogiorno», Tommaso Francavilla, mentre nelle celebrazioni in corso sono perfino sovra-rappresentate le posizioni di coloro che hanno combattuto l'Unità d'Italia e tuttora la contestano, nei fatti se non nelle parole, «non vi è traccia di chi invece alle istituzioni delle Regioni si oppose con forti argomenti». .
«Eppure», commenta Francavilla non a torto, «tutte le previsioni di quella sfortunata battaglia si sono puntualmente verificate nella concreta realtà delle nuove istituzioni. La moltiplicazione e la contestuale deresponsabilizzazione dei centri di spesa ha fatto saltare i conti dello Stato, contribuendo decisivamente alla edificazione del terzo debito del mondo.»
Torno a Ruffolo. Naturalmente a modo mio, seguendo un mio personale filologico. Poiché non è pensabile che si restauri il passato; poiché la pubblica amministrazione è diventata un'ldra dalle mille teste (e bocche fameliche); poiché la corruzione ha messo radici dappertutto, non sarà' meglio che ciascuno provi a fare i conti in casa propria cercando in un orizzonte di portata meno estesa di quel- . o lo nazionale le ragioni di una coesione e di una statualità al presente irraggiungibile su scala diversa?
È una semplice domanda. Tanto più legittima in un testo non propriamente politico ma piuttosto teso a misurare la temperatura psicologica di un paese che in parte voleva avere un'anima sola ma non ci è ancora riuscito.

Ripeto: è una semplice domanda. Cauta. Esitante. Timorosa. Ma anche particolarmente insistente e perciò ossessiva: di quelle che ti portano improvvisamente a sognare, a fingere una realtà che non esiste. Infatti una noto te ho finito per sognare il mio «dubbio». O «follia», se preferite. Farei bene a non parlarne, ma non sono dotato di tanta forza d'animo. Non mi resta perciò che inchinarmi umilmente alla mia insensatezza: tanto, che cosa può venirmene al di là di qualche autorevole rimprovero?
Racconterò dunque estesamente il mio sogno. Nel prossimo capitolo, lungo melvillianamente non più di «sei pollici» perché, come scrisse quello straordinario scrittore, «le cose più meravigliose sono sempre quelle inesprimili…»


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L'Italia spaccata in due - Trenta milioni di auto vendute all'anno – Il pianeta piange - Il futuro non si chiama Pomigliano - La critica di Revelli e il secolo breve - Il rimpatrio dei «congedati»

Può esistere un'economia della virtù? Con più precisione, può esistere un' economia fondata su un sistema produttivo rigorosamente «disintossicato», alternativo a quello proposto dalla società industriale classica e dalla competizione capitalistica? Ha una qualche legittimità l'ipotesi di un mercato sottratto al feticismo delle merci, all'imperativo dei consumi e dello spreco 'illimitati? Si tratta di domande tutt'altro che oziose o infantili. Anzi, stando a certe letture, sembra che vada crescendo sempre più il numero di coloro che, con competenza e rigore di ragionamento, ritengono non soltanto possibile ma ormai doveroso disegnare nuovi scenari sociali e politici, immaginare consorzi più o meno numerosi di esseri umani in grado di concedersi un soddisfacente livello di 'sopravvivenza collettiva, pur avendo bandito dal loro seno il lavoro nocivo e allentare (la catena di montaggio, anzi la fabbrica tradizionale in genere) nonché tutte le forme di rapina del territorio, dagli inquinamenti alla cementificazione intensiva fino all'esasperato traffico individuale delle persone.
Conosco bene l'obiezione corrente: ma questa è utopia bella e buona! Infatti è un'utopia, almeno a voler considerare la provocazione nel suo punto d'arrivo, di società virtuosa compiuta, di cartolina di un Eden felice. Ma si tratta di utopia anche a volerla considerare come semplice punto di partenza, programma, parola d’ordine, opera aperta, idea-guida?
Comincia qui il mio sogno.
Pare che gli italiani siano particolarmente inclini a sognare; non vi dica per i meridionali. A Napoli non si fa altra che sognare, e non soltanto per ricavarne numeri da giocare al Latta, quanta per raccontare i propri sogni, il mattina dopo, a parenti e amici. Secondo Elias Canetti «nessun sogno è mai stata così insensata come la sua spiegazione».76 La sanno. bene proprio i napoletani, specialisti nell'interpretazione dei sogni, vale a dire nell'arte dell'insensatezza.
La ammetta; sana un po' imbarazzata. Non è facile dire che ha sognato. l'Italia' spaccata in due: il Nord con le sue industrie, il sua benessere, il sua prodotta interna lorda più a mena opulenta; il Sud can la sua povertà, le sue mafie, i suoi fallimenti,
Ma sognare significa anche essere audaci. Generalmente .mi capita di sognare in positiva ciò che invece ha pensata, da sveglia, in forma inversa . Si direbbe che io riservi il mio ottimismo al mondo onirico e il mia pessimismo. a quella della veglia. Basta: può una condizione di assoluta svantaggio. trasformarsi in una di forza, in un'occasione favore vale?La mia idea sta tutta in questa domanda. Dal momento che il Sud, dal punta di vista capitalistico.; è una tabula rasa, questa debolezza (armai irreversibile) non può essere convertita in vantaggio., pasto. che la prospettiva non sia più quella di rincorrere i miti di un industrialismo da combattimento?
In parale più semplici, l’idea che avanza è quella di un totale mutamento di orizzonte economico,impossibile da affermare in una situazione di unità nazionale in cui non può non prevalere l’ideologia del Nord capitalistico.

Leggo da tempo. ciò che vanno scrivendo. vari autori di orientamento ambientalista e ne percepisca sempre più il fascina assieme alla fondatezza delle argomentazioni. Non è vera, dice per esempio. Guida Viale,77 che non ci sano alternative al corrente ma della di sviluppo:

L'alternativa è la conversione ambientale del sistema produttiva - e dei nastri consumi':'" a partire dagli stabilimenti in crisi e dalle fabbriche di prodotti obsoleti a nocivi, tra i quali l'automobile occupa il secondo pasta, dopo gli armamenti. I settari in cui progettare, creare opportunità e investire non mancano dalle fanti di energia rinnovabili all'efficienza energetica, dalla mobilità sostenibile all'agricoltura a chimica zero, dal riassetto del territorio all'edilizia ecologica. Tutti ettari che hanno un futuro certo, perché il petrolio costerà sempre più cara [ ... ] mentre " le fanti rinnovabili costeranno sempre mena e1'inevitabile ' perdita di potenza di questa transizione dovrà essere compensata dall'efficienza nell'usa dell'energia ... 78 ' '

Viale è malta convincente. Ti parta per mano dentro alle contraddizioni del nostra tempo; scava nella megalomania di certi progetti produttivi, come per esempio quello dell'amministratore delegata della Fiat Sergio. Marchionne che, mentre tutti gli indicatori danno per condannata nel prossimo futura il trasporto privata, prevede che nel gira di quattro anni Fiat e Chrysler producono e vendano sei milioni di auto. all'anno., senza cantare i piani di rilancia di tutte le altre ditte europee concorrenti. Se tutti questi piani (non è sola la Fiat a valer crescere come un ranocchia per non scomparire) «andassero. in parta»; spiega Viale, «nel gira di un quinquennio si dovrebbero produrre e vendere in Europa 3,0 milioni di auto. all'anno.: il doppia delle vendi.., te pre-crisi».

Leggenda queste parale mi sana venuti in mente i processi necrotici del lago inquinata da scarichi e liquami nefasti, che muore moltiplicando parassisticamente la propria vita biologica, muore di quello paradossale malattia che si chiama eutrafizzazione, tra pesci che ingrassano. spaventosamente a causa dell' eccesso di plancton, alghe che dilagano.; batteri che simulano un delirio. di onnipotenza che in realtà è soltanto una carnevalesca agonia.' A questa ci sta partendo il demane consumistica, l'elefantiasi produttiva? Gli ambientalisti dicano. che il pianeta piange. Ma -allora perché non sperimentare su una limit9.ta fetta di territorio - il Sud d'Italia, appunta - una soluzione alternativa, un modello. di sopravvivenza in grado di rappresentare un termine di confronta utile anche agli altri? Non si cantano i  tentativi che potrebbero essere sperimentati. L' economia della virtù, carne  è capitata di definirla ad apertura di questa capitala-sagno, ha un orizzonte tanta vasta quanta imprevedibile, che va dalla ricerca scientifica più sofisticata all'aasi turistica ecologica, dall'industria"cinematografica di qualità all'editoria e alla moda, dall'artigianato. all'agricoltura biologico, dalla microettraanica alla cantieristica media-piccala e farse anche, perché no?, quella di elevata tonnellaggia, pasta che una volta costruire navi era un'arte prevalentemente napoletana (nella trazione a vapore il Regna delle due Sicilie anticipò quasi tutti gli altri paesi europei, Inghilterra esclusa).
Si osserverà che, essendo Napoli e in genere l'intera Mezzogiorno, «un paradiso. abitata da diavoli», difficilmente potrebbero essere addomesticati cittadini così perversi. L'obiezione è fondata, me ne renda perfettamente canta. Tanta che non sa replicare altrimenti che ricordando rimmensa tenacia degli uomini che sanno. quella che vagliano.. Farse il nocciola del problema è tutta qui, in un «Principe collettiva» illuminata che farse c'è (almeno. in potenza), farse non c'è;.farse emergerà dal nulla irradiando intorno a sé il sua prepotente magistero., farse non farà udire mai la sua voce.
Un fatta è cuto: il futuro del Mezzogiorno non si chiama né Pamigliapa né Taranto né Termini Imerese. Avendo scritta un libra intitolata La dismissione dedicata allo. smantellamento della storica acciaieria di Bagnalf, mi è capitata di toccare, can mano., per così dire, il definitiva tramanta della «speranza» industrialista nel Sud. Recitata in cara da tutti, mi pare che il de profundis nan meriti neppure di essere ripresa per ulteriori rivisitazioni. Tutta quella che c'era da dire è stata detta. Tranne forse una casa, e cioè che, dopo. La morte di quella «speranza», nessuno ,ha pensata di doverla rimpiazzare con una speranza diversa, nuova, creativa. Per cui nel Mezzogiorno tutti continuano a sentirsi cittadini in attesa di una. fabbrica, operai in potenza, candidati a un’immaginaria catena di montaggio, sapendo che non arriverà mai a, se arriverà, rappresenterà soltanto un episodio marginale e contingente.
Ricordo che nel 2002 Marca Revelli, un socialago di rara intelligenza e lucidità, attualmente professare ordinaria pressa l'Università del Piemonte Orientale nanché autore di malti saggi impartanti, ne dedicò una,alla smantellamento. dell'Ilva di Bagnali da me narrata nella Dismissione. Lo definì un romanzo «triste», in quanta «attraversata dalla prima all'ultima pagina da un costante, indissolubile senso di morte».
Revelli sottopose quella narrazione a una vera e propria dissezione, mettendone in risalto le nervature più nascoste onde rintracciare l' origine stessa di quel pessimismo che gli sembrava attraversare l'intero libro carne un fiume sotterraneo. '
Non lo nega: quell'analisi mi scasse profondamente.
Revelli mi fece scoprire qualcosa di cui aveva parlata senza accorgermene del tutto, che aveva descritta senza penetrarne sino in fondo il senso la perversa «normalità produttiva della stabilimento», cioè del lavoro industriale. Questa verità sotterranea emergeva dal carattere ' chiusa e algida del protagonista del libra, dalle sue difficoltà di rapportarsi umanamente agli altri, di uscire dal  propria guscio.. Farse, diceva Revelli, è «nella statuto stessa del "produrre" il sottile veleno. che ha divorata l'anima "relazionale" di Buonocore». E concludeva con una vibrante requisitoria contro l'intera deriva industriale del secolo scarso. «Siamo. stati tutti tragicamente vittime di un'illusione ottica che ci ha portati a considerare quel lungo scorcio di Novecento nel quale la storia si è come condensata dentro i luoghi ferrosi dell'opera e del lavoro, carne il tempo. in cui potevamo "ritrovarci" [ ... ] quando invece ci siamo ,"perduti". Stavamo smarrendo il controllo su di noie il legame con gli altri ... »
La critica di Revelli al «mito» della produzione industriale del quale continuiamo,a restare vittime porta molto lontano, ha conseguenze logiche imprevedibili the mi guardo bene, per mancanza di competenza, dall'affrontare (investono la storia stessa del cosiddetto secolo breve). Ho voluto richiamare questa critica soltanto per mostrare la doppia tragedia di un popolo  quello dell'Italia del Sud - che ha vissuto questa medesima esperienza, ma da candidato perennemente bocciato. Si badi: non da cittadino dedito a un diverso corso storico, a un esperimento sociale alternativo. No, da disoccupato permanente effettivo. "
Il Sud continuerà a elemosinare fabbriche che non verranno (o verranno per disumanizzare ancora di più, come dice Revelli), dedicandosi nel frattempo accanitamente alle molteplici arti dell'arrangiarsi? Possibile che nessuno,abbia il coraggio di issare una nuova bandiera, di farsi portatore di una proposta diverso? Di un progetto magari troppo audace, ma proprio per questo in grado di far sollevare un po' di teste verso il cielo?
Mi tornano alla mente le parole' di un vecchio, caro amico che purtroppo non c'è più. Un giorno si trovò a competere per la conquista della direzione di un grande quotidiano del Mezzogiorno. Al telefono mi disse: «Tu capisci, se il colpo riesce io poi faccio la chiamata dei congedati».
Per la verità si espresse in dialetto napoletano: faccio 'a chiamata d'e congedate. Voleva dire che avrebbe riportato al Sud tutti i giornalisti emigrati tra,Roma e Milano. , "
Visto che sto parlando di un «sogno», perché non immaginare anche questo quasi biblico rimpatrio dei migliori «cervelli» del Sud che riempiono banche,giornali, ospedali, tribunali, case editrici, albi professionali, università dalla Lombardia al Veneto, dal Piemonte alla Liguria, all'Emilia?
Mi chiedo" se sia stata mai condotta una ricerca per quantificare, poniamo negli ultimi sessant'anni, il contributo offerto dal Sud al resto d'Italia in termini di «intelligenza». E questo per tacere delle braccia, del lavoro più umile di quell'emigrazione di cui nessuno si ricorda più, benché nel passato gli siano stati dedicati fiumi di parole e anche chilometri di pellicola cinematografica come pegare che anche tanta smemoratezza faccia parte dal lato oscuro del nostro instabile carattere?

Mi ferrilo qui, anche se non basterebbe tutto il libro a raccontare il mio sogno per intero. Tanto più che non passa notte senza che si accresca di nuovi scenari: piazze e strade scintillanti e ordinate, balconi fioriti come non se ne trovano neppure tra il Sudtirolo e l'Austria, volti allegri e distesi di gente che crede fermamente in qualcosa, in se stessa, in quello che fa, nella propria felice ,parsimonia, nello straordinario patrimonio naturale e culturale di cui il cielo ha voluto farle dono e che essa ha finalmente imparato a rispettare e a valorizzare.
Ma questa economia virtuosa rappresenta veramente qualcosa di praticabile e credibile 'oppure è soltanto la poetica ipotesi di alcune anime belle? È una strada con un suo tracciato, oppure l'inutile ciambella di salvataggio per chi comunque è destinato ad affogare? Com'è naturale, non ho in tasca una risposta. Salvo questa: poiché penso che da tempo la gente del Sud sia preda di una paralizzante disperazione, e perciò soltanto un trauma spaventoso, un immenso dolore, un evento inaudito risvegliarla dalla passiva auto contemplazione del proprio disastro, c'è da chiedersi se non sia arrivato il momento di giocarsi la carta della solitudine, insomma dell'autonomia amministrativa dal resto d'Italia.
Una sfida a se stessi all'insegna dell'ottimismo: ecco la stoffa del mio sogno. D"i quell'ottimismo, beninteso, riassumibile nell'immagine di un popolò dedito a esercizi di vita sobria come antidoto contro la povertà, ma anche contro la malinconia, la depressione, quel senso di vuoto che sopravviene quando ti accorgi dell'irreparabilità del tuo vivere precario, ma anche quando hai la pancia troppo piena e nessun altro scopo nella vita che quello di riempirla sempre più. '
Non so se già esiste al mondo una repubblica della sobrietà. Non credo. Ecco allora un bel primato da conquistare: tagliare per primi un traguardo d'altronde inevitabile per tutti, dal momento che è dimostrata da tempo l'impossibi1ità che il mondo continui a crescere a dismisura senza andare incontro, prima o poi, alla sua dissoluzione. Qualche scettico obietterà che difficilmente potranno essere le province più lontane dalla virtù le prime a conquistarla. Il dubbio è fondato. Anche se nessuno- possiede tanta volontà di salvezza quanto chi è più prossimo ad affogare. . ...
Sta di fatto che oggi nel mondo, e in Italia non meno che altrove, non si contano le intelligenze che sono al lavoro sul tema della sobrietà e di un' economia alternativa rispetto a quella, così nefasta e indefinibile, che tutti conosciamo. A Roma, per esempio, 1'economista Pietro Antonio Valentino si occupa da tempo dei cosiddetti «distretti culturali» che descrive come fonti potenziali di grande produttività, capaci di determinare la nascita di «una vera e propria filiera di attività» quali, tanto per citarne alcune, «il settore della ricerca, quello della progettazione, quello delle costruzioni - che riguarda anche l'attività di restauro -, quello dell'informatico, quello dell' artigianato - per un merchandising di qualità nei nostri musei, per esempio - quello dell' editoria e via dicendo ... ».
Possibile che non vi sia nel Sud - a Bari, a Napoli, a Palermo o in qualunque altro centro - un'istituzione pubblica capace di mobilitare tutte queste intelligenze, competenze e anche entusiasmi, affinché elaborino di concerto le tappe di un Mezzogiorno che si rinnova' sin nelle fondamenta e' si proponga a esempio di virtù al mondo intero? .
Datevi una speranza, un progetto, u110 scopo evi chiamerò uomini: lo ha affermato di sicuro una persona molto importante, anche se non ricordo più chi. Ma «darsi un progetto» appare tanto più necessario e urgente in quanto la «disunità» italiana si mostra in crescendo una ferita sul punto di volgere in cancrena. Di segni se - ne potrebbero citare tanti. Non ultimo il rifiorire, .. da Gaeta in giù, di una sorta di nostalgia borbonica tesa a . un'insensata valutazione del passato. Sarà bene anzi chiarire in maniera ferma che queste pagine sono tassativamente indenni dal malaise. Niente mi è più estraneo di quel fastidioso adagio secondo il quale «si stava meglio quando si stava peggio». Il Mezzogiorno, anzi, le classi dirigenti meridionali non hanno responsabilità inferiori a quelle delle loro equivalenti dèl Nord per come il Sud è stato ridotto. Serve a poco affermare che i «piemontesi» massacrarono senza pietà, dopo averli degradati a« briganti», i lealisti borbonici che preferirono andare in montagna piuttosto che arrendersi al Savoia. Come serve a poco affermare che il Mezzogiorno, non del tutto sprovvisto di risorse, attività, industrie, infrastrutture, subì da parte dello Stato unitario un'opera di vera e propria spoliazione, per non dire saccheggio. Serve a poco se non si chiarisce contestualniente che tante nefandezze non avrebbero potuto aver luogo senza la complicità e la connivenza degli agrari meridionali - gli .spietati baroni-sopracciò delle campagne siculo-apulo-calabresi (e non soltanto) comprati dai «piemontesi» attraverso la riconferma dei loro privilegi feudali. E senza l'attivo consenso di talune personalità dello stesso mondo culturale e politico meridionale che, avendo subìto persecuzioni e angherie da parte dei borbonici, non sepper poi sottrarsi ai propri risentimenti. , . .
Incomprensibile e crudele appare per esempio la repressione poliziesca ordinata di,Silvio Spaventa (il fratello del filosofo) nei confronti degli ufficiali'napoletani di Francesco II tornati in seno alle rispettive famiglie dopo la disfatta militare. Furono arrestati in ,massa e spediti al Nord. Si aggiunga che Spaventa agì in contrasto con lo stesso ministro della Guerra, il piemontese Manfredo Fanti, che inviò anche una lettera di protesta a Cavour nella quale, tra l'altro, si legge: «Sono ministro della Guerra e nessuno ha il diritto di disporre dei militari arrestati, farli trasportare a Genova, e cose simili, senza che io ne sia preventivamente avvertito e fatto conscio dei motivi [ ... ] quando si tratta di generali riconosciuti soprattutto, e di militari capitolati, sono sotto la dipendenza ed hanno diritto alla protezione del Ministero della Guerra, siano essi napoletani, russi od altro».
Ma fu Spaventa ad averla vinta. Come racconta in un suo pregevole saggio storico Gigi Di Fiore,81 di lì a poco. l'incarico di Fanti passò nelle mani di Alessandro Della Rovere, fautore, come Spaventa, delle maniere forti. Si ebbero così nuovi arresti di ex ufficiali borbonici che andato no a'ingrossare le fila dei prigionieri di guerra (svariate migliaia di persone) ammassati in varie località del Nord e in particolare nella fortezze piemontese di Fenestrelle; quasi incastrata tra le montagne, a notevole altezza. Qui, spesso, i morti neppure venivano onorati di una regolare sepoltura, ma, come racconta Di Fiote, «gettati nella calce viva in una grande vasca, ancora visibile, dietro la chiesa all'ingresso principale del forte». .
Una conferma di questi orrori la diede - voce del tutto isolata - «La Civiltà cattolica»:
Per vincere la resistenza dei prigionieri di guerra, già trasportati in Piemonte e Lombardia, si ebbe ricorso ad uno spediente crudele e disumano, che fa fremere. Quei meschinelli, appena coperti da cenci di tela, rifiniti di fame perché tenuti a mezza razione con cattivo pane e acqua e una sozza broda, furono fatti scortare nelle gelide casematte di Fenestrelle e di altri luoghi posti nei più aspri siiti delle Alpi. Uomini nati e cresciuti in clima sicaldo e dolce, come quello delle Due Sicilie, eccoli gittati, peggio che non si fa coi negri schiavi, a spasimar di fame e di. stento . tra le ghiacciaie! E ciò perché fedeli alloro giuramento militare ed al legittimo Re!
Che cosa dire, a fronte di tutto questo, se non che tra il 1860 e il 1870 la Penisola visse una delle più grandi tragedie della sua storia? La realizzazione del «sogno unitario  non avrebbe potuto aver luogo in forma più funesta. Nel decennio, l'esercitò sabaudo arrivò a impiegare nel Mezzogiorno circa centoventimila uomini. «Non si . poteva ammettere», spiega ancora Di Fiore, (;che il "popolo liberato" combatteva l'esercito nazionale. Non si poteva ammettere che nel Mezzogiorno era in corso urta guerra civile dalle connotazioni eterogenee. L'Europa [.';.] non avrebbe compreso. E allora si cercò ufficialmente di ridimensionare la questione riducendola il un improvviso fenomeno di esclusivo carattere criminale, da reprimere con azioni di polizia ... ».
Come si vede, quasi inestricabile è l'intreccio degli errori commessi da tutte le parti.. .
Raggiungere la consapevolezza della dimensione duplice, bilaterale, delle responsabilità per tutto quello che in Italia è successo (e anche per tutto quello che è mancato, non è successo) sarebbe già un bel risultato. Utile tra l'altro a comprendere quanto vano, improduttivo, anzi pericoloso sia il gioco delle contrapposizioni e quanto urga invece spostare il dibattito dall'ambito di ciò chelci divide all'ambito di ciò che può eventualmente, anche se nel tempo lungo, riunirei. In parole povere, credo che l'Unità d'Italia vada ricostruita attraverso un processo di reinvenzione delle due macro-regioni individuate da Ruffolo, in modo che il Sud possa darsi una sua autonoma strada di rinascita seguendo un modello non vincolato di necessità a quello del Nord.
Del resto uno dei grandi nomi del pensiero politico italiano, Guido Dorso, non ebbe a dire nella sua Rivoluzione meridionale che il Mezzogiorno non aveva bisogno di carità ma di giustizia? «Se non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l'esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile ... »

E ancora: «La soluzione del problema meridionale [ ... ] non potrà avvenire se non sul terreno dell'autonòòl12ismo. Ogni altro tentativo o ci condurrà nel vecchio siistema della carità statale o minaccia di sbalzarci nel separatismo ... }.
Di nubi separatiste purtroppo all' orizzonte ce ne sono sin troppe. HQ appena finito di leggere un testo amaro e documentato di Pino Aprile, Terroni in cui però si degrada ben presto a libello quella che avrebbe potuto essere un'opera egregia e illuminante soltanto se l'autore non avesse cercato di suscitare qualche mal di pancia di troppo nei suoi lettori contro l'orco nordista, famelico e malvagio soltanto in quanto tale, e non anche in quanto alleato di un altro orco, altrettanto famelico e malvagio,' ma del Sud (senza tener conto q,elle miopie, ripicche e leggerezze di quei patrioti reduci da lunghi esili o addirittura dal carcere).
Tra gli effetti più pericolosi dell'azione politica antimeridionale esercitata dal partito della Lega Nord va pur-, troppo segnalata la crescente diffusione di un odio uguale e contrario del Sud verso il Nord, fomentato ora più ingenuamente (è il caso di Pino Aprile), ora in maniera subdola da persone senza scrupoli animate da oscuri disegni e voraci ambizioni.


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