venerdì 13 gennaio 2012

GUIDO DORSO LA RIVOLUZIONE MERIDIONALE LIBRO

LA RIVOLUZIONE MERIDIONALE  DI guido dorso

Prefazione alla seconda edizione
Le amichevoli pressioni di alcuni amici e lo sviluppo della crisi nazionale mi inducono a ristampare questo libro, che affronta il nostro problema istituzionale dal punto di vista più profondo che sia stato mai tentato, poiché mostra attraverso quali vie il fondamentale compromesso, che è alla base della vita politica italiana, si sia affermato e minacci di riprodursi permanentemente.
Avrei voluto, però, per lo meno rimaneggiare il testo tenendo conto degli avvenimenti successivi, e depurandolo di tutto ciò che si riferisse a situazioni di partito ormai tramontate. Ma mi si è fatto osservare che, in tal caso avrei dovuto scrivere un'opera nuova, e che la brevità del tempo non lo consentiva. D'altra parte, questo è un libro per gli iniziati, e non per il pubblico grosso, gli iniziati non incontrano difficoltà a depurare il pensiero dagli elementi contingenti, per spremerne le idee centrali che non tramontano.
Ciò vale a dire che il lettore dev'essere un po' il collaboratore dello scrittore e non mi nascondo che tale fatica addizionale è abbastanza noiosa, ma i miei amici sostengono che oggi vi sono molte persone disposte a fatiche anche maggiori pur di soddisfare il loro intimo desiderio di penetrare le riposte ragioni del difettoso funzionamento del nostro congegno statale.
Perciò mi sono indotto alla ristampa e sono costretto a chiedere anticipate scuse a coloro che getteranno il loro sguardo su queste pagine.
Ho cercato, però, di colmare parecchie lacune, ristampando alcuni degli articoli apparsi nello stesso periodo di tempo in giornali e riviste politiche. In molti di essi è fatta applicazione delle idee centrali a situazioni particolari, e la forza ed il vigore delle prime ne risulta confermato.
Inoltre premetto alla ristampa questo scritto, che è insieme prefazione ed epilogo, e spero che sia sufficiente non solo a mostrare la continuità del pensiero, ma a trasportarlo più vicino alla odierna realtà. Forse il lettore farebbe meglio a rileggerlo dopo scorsa l'ultima pagina.
In definitiva non mi dissimulo che pretendo troppo da lui, ma amo credere che mi sarà grato se lo induco a sottoporsi ad una fatica gravosa, poiché, dopo averla "fatta, potrà avere idee più chiare sul punto centrale del problema italiano, anche se esse saranno in aperto dissenso con le mie.

Il libro fu edito da Piero Gobetti verso la fine del 1925, in piena crisi del fascismo, e mi si scatenarono addosso mille diavoli, poiché esso parve eretico a tutti. Soltanto Oliviero Zuccarini, Antonio Gramsci, Tommaso Fiore, don Sturzo ed i giornali sardi lo difesero apertamente.
Lo stesso Gobetti, che, con alcune trascurabili riserve, era sulla linea, doveva tener conto che alcuni scrittori della «Rivoluzione Liberale», in diversa sede, lo avevano criticato. Tutti gli altri, e specialmente i cosiddetti liberali italiani, non risparmiarono gli attacchi. Anzi uno di essi, in un giornale che, dopo essersi assunta la responsabilità dell'organizzazione della marcia su Roma, tentava rifarsi una verginità attraverso pose liberaloidi, mi suggerì di andare a rileggere Croce e Fortunato, ignorando, naturalmente, che il mio Maestro, Giustino Fortunato, pur dissentendo dal prematuro ottimismo delle conclusioni mi aveva già ripagato con parole di lode ed incoraggiamento.
lo ero giubilante e le critiche mi parevano applausi, perché mi sembrava di aver pestato la coda a molti cani, ed i guaiti dimostravano che avevo colto nel segno.
Qualche amico sorse in mio sostegno, e si preannunciò la polemica. Finalmente si sarebbe discusso a gran voce il punto più vitale del problema meridionale, nascosto fin' allora sotto i grandi n8mi della libertà e della democrazia, e qualche anima ingenua avrebbe potuto essere acquisita alla causa.

Ma, proprio in quel momento, Benito Mussolini s'indusse a stringere i freni della reazione. Giornali e riviste furono soppressi, librerie distrutte, e La rivoluzione meridionale, messa all'indice, scomparve perfino dagli scaffali delle grandi biblioteche.
La questione istituzionale meridionale è, soprattutto, un problema di volontà e di forza, e perciò l'illusione di illuminarla con la parola non poteva che durare lo spazio di un mattino. Ed io non me ne dolsi gran che, poiché mi parve che lo spirito eversore del fascismo avrebbe dovuto lavorare per le mie idee assai più che la propaganda scritta.
E, se non m'inganno, cosi è stato. Infatti la questione istituzionale generale è insorta violenta non appena la compressione fascista è cessata, e la segue dappresso la questione meridionale vera e propria.
Ora siamo nuovamente daccapo e questo libro rivede la luce, tentando un altro esperimento.
Sarà esso fruttuoso, oppure le forze del compromesso, che, per quanto indebolite, vigilano costantemente, annulleranno tutti gli insegnamenti che da esso si possono trarre?
Questo è l'interrogativo dell'ora, ed io non sono un profeta per potervi rispondere. lo sono soltanto un critico e non posso far altro che rianalizzare gli elementi caotici della situazione, per quanto possa sembrare troppo presto per farlo.
Ma i miei amici, quando mi sono valso di quest'ultimo argomento per resistere alle loro pressioni, mi hanno risposto che, avendo il fascismo lasciato il paese in tale stato di ignoranza politica da far paura, bisognava compiere ogni sforzo per evitare la perdizione delle anime, e che la critica preventiva ha indubbiamente grande importanza educativa.
Rassegnato ormai alla loro affettuosa violenza, mi accingo a rispondere all'interrogativo dell'ora.
Non bisogna confondere il problema istituzionale generale italiano con il problema meridionale, per quanto il secondo sia un particolare aspetto del primo.
Il problema istituzionale generale è ormai acquisito nei suoi dati storico-politici ed è condizionato dal passato.
Il compromesso tra monarchia sabauda e rivoluzione - bisogna riconoscerlo - fu l'unico espediente politico che, in quel dato momento, poteva assicurare l'unità e la indipendenza del paese. Per quanto questo rilievo non sia esatto al cento per cento, perché la monarchia non fu in grado di unificare tutte le genti di lingua italiana, e, per tanto tempo, dovette ripiegare sulla umiliante prassi della Triplice Alleanza, tuttavia è facile comprendere perché le generose aspirazioni di moltissimi patrioti finirono per rassegnarsi ad una realizzazione imperfetta. Se la soluzione del problema italiano avesse dovuto realizzarsi soltanto attraverso la rivoluzione, cioè per forza di popolo e senza apporti dinastici e stranieri, certamente avrebbe dovuto essere differita nel tempo e non è dato sapere attraverso quali vicende.
È questo un futuribile con tante varianti da renderne oziosa la disamina, e, d'altra parte, il politico non può ragionare in base ai futuribili, ma deve tenere il più stretto conto della realtà. Ma, anche ammesso - ciò che a me sembra equo - che nel 1860 era assai difficile risolvere integralmente la questione italiana, non per questo, in sede politica, la soluzione storica poteva considerarsi come definitiva. Anzi, quanto più essa, poi, apparve frutto soltanto del compromesso, tanto più gli impulsi libertari, esplosi con tanto vigore nel corso formativo del Risorgimento; dovevano staccarsene per assurgere a motivi di critica istituzionale.
E nessuno può seriamente meravigliarsene, poiché gli ideali insoddisfatti hanno tanta forza di espansione da risorgere dopo le realizzazioni storiche e rivolgersi contro di esse durante tutto il tempo in cui permane l'originario impulso.
Soltanto se l'evoluzione lenta degli istituti politici conduca per naturale forza di espansione al soddisfacimento di tutte le esigenze nazionali, è possibile il consolidamento delle soluzioni istituzionali. Ma quando questa evoluzione non avviene è invece fatale che i motivi ideali insoddisfatti vengano riproposti permanentemente in sede critica.

Ora i motivi ideali del Risorgimento furono due, ed è probabile - anzi a me sembra certo - che non occuparono lo stesso piano nella coscienza degli attori di quel grande dramma nazionale, tanto vero che, all'ultim'ora, l'ideale della libertà dovette 'cedere alquanto terreno a quello dell'indipendenza. È vero che nemmeno l'indipendenza e l'unità furono allora interamente assicurate, ma, in un certo senso, gli attori del Risorgimento, mentre ritennero che l'unificazione delle genti italiche in un solo Stato costituiva un fatto storico di massima importanza, e che il residuo problema dell'irredentismo avrebbe potuto essere risolto alla prima occasione utile, non dettero eguale peso al problema della libertà e trascurarono gli argomenti di coloro - molto pochi, in verità - che affermavano che l'espansione territoriale della monarchia sabauda non era il processo politico più adatto per assicurare all'Italia un vero regime liberale.
Costituito il nuovo Regno, ed a mano a mano che si allontanò il tempo del compromesso, le esigenze ideali divennero sempre più forti e tutti gli scrittori politici di qualsiasi scuola e di qualsiasi tendenza non poterono fare a meno di partire da questo vizio di struttura originaria per spiegare gli avvenimenti successivi.
Naturalmente, in un primo periodo di tempo, bisognò abituarsi alla vita nazionale, che indubbiamente superava gli angusti confini dei passati regimi, assorbire lentamente i residui politici che qualsiasi governo lascia nel paese al momento di cadere, vincere i particolarismi che derivavano da secoli di vita separata, sicché il compromesso istituzionale rimase celato anche agli stessi uomini politici che lo avevano accettato come supremo dovere nazionale. E tale processo fu più lungo e faticoso di quanto fosse stato lecito supporre, appunto perché l'unificazione, a causa dell'assenza delle masse, non fu dovuta ad un fatto rivoluzionario, ma dovette necessariamente svolgersi attraverso una serie di compromessi istituzionali con le singole classi dirigenti, maturate negli ex Stati, a seguito dei quali il nuovo Stato unitario assunse l'aspetto di una specie di mosaico regionale. Naturalmente il dominio della classe dirigente che ne risultò non era stabile, sia perché, malgrado l'ampiezza della formula politica adottata, apparve, a lungo andare, risultante di ristretti interessi, sia perché non poteva non essere condizionato dal permanere dello stesso compromesso istituzionale.
Poi il ritmo divenne più rapido, perché il diffondersi dell'istruzione e l'industrializzazione, per lo meno di una parte del paese, consentirono a nuovi ceti di affermarsi, e quindi, lentamente, si vennero organizzando nuclei politici, decisi a giocare la loro carta. Particolarmente interessante fu l'affermazione del socialismo nell'Italia settentrionale, sotto la bandiera del quale le folle lavoratrici accorsero numerose.
All'apparire del nuovo mito il regime, non vivificato dal vero apporto popolare, ma sollecitato dagli interessi reali degli scarsi gruppi che lo sostenevano, non trovò di meglio che inquadrare il problema in soluzioni di polizia e reagire con i processi e la galera, svelando cosi la sua sostanziale illiberalità. Ma i sistemi polizieschi sono la forma peggiore di governo e fu ventura per le oligarchie al potere trovare in Giovanni Giolitti l'uomo della Provvidenza, che, allontanate le correnti reazionarie, intuì che era pericoloso alterare i dati storici della politica italiana, e, perciò, avviò il paese, attraverso una serie di transazioni con la rivoluzione dilagante, verso un nuovo sistema di compromesso, assai più vasto di quello che aveva presidiato all'origine la nascita dello Stato.
Infatti, servendosi abilmente del socialismo di Stato, e di un costante indirizzo di demagogia politica e finanziaria, riuscì a denaturare l'originario virus socialista, e ad interessare vaste sezioni del nuovo partito al suo esperimento di governo.
Nel raggiungimento di tali risultati egli fu aiutato non solo dalle generali correnti europee, che cominciarono a segnare la linea di slittamento del marxismo puro verso

la socialdemocrazia, ma altresì da necessità pratiche puramente italiane, che spinsero il socialismo verso il riformismo, e trasferirono, come egli stesso argutamente disse, Carlo Marx in soffitta.
Lentamente gl'interessi si aggiunsero agli interessi, si rannodarono nel sottosuolo, crearono solidarietà che con la nazione non avevano niente a che fare, ed il governo giolittiano, dopo aver adoperato il socialismo di Stato per tagliare le unghie ai socialisti, immediatamente provvide ad adottare le contromisure, e, con il protezionismo doganale, tappò la bocca agli industriali, i quali, in tal modo, assicurarono alla loro espansione i mercati nazionali. Perciò, accanto al proletariato protetto, fiori l'industria protetta, e, con questo felice connubio, il regime poté illudersi di avere superata la crisi e costrette le ragioni ideali a restar patrimonio dei soli idealisti.
Naturalmente l'esperimento giolittiano venne sottoposto a severa critica, che svelò il compromesso su cui era poggiato ed accusò di parassitismo gl'interessi protetti; ma tale critica non ebbe alcun mordente, poiché gl'interessi offesi erano assenti ed il compromesso era nascosto sotto la maschera di un governo pseudoliberale, che non aveva palesemente alterato i dati fondamentali del regime.
Perciò, i nostri scarsi movimenti libertari e lo stesso sindacalismo rivoluzionario, che si sviluppò, non solo come critica interna del socialismo, ma anche come generale esigenza di affrancamento italiano, rimasero senza eco nell'animo delle masse, i socialisti ufficiali, pur non partecipando ad alcun governo, perseverarono in una facile opposizione di comodo, ed il Parlamento continuò a funzionare, anche contro gl'interessi dei ceti che vi erano rappresentati in maggioranza, secondo la tradizione istituzionale del paese.
Questo sistema di governo era condizionato, però, da tre categorie di fattori negativi, pressoché tutti di eguale importanza e tali che, venendo meno uno di essi, l'equilibrio avrebbe potuto rompersi.
Anzitutto, fin d'allora, era in germe, e si sviluppò sempre più in seguito, la compressione che alcuni ceti professionistici e piccolo-borghesi (la cosiddetta piccola borghesia umanistica di Salvatore venivano a subire per l'affermarsi ed il prevalere dei nuovi ceti sindacali che, perseguitati agli inizi, assurgevano a sempre maggiore importanza nella vita nazionale. Alla quale compressione alcuni critici del fascismo fanno risalire le prime oscure origini di questo movimento.
Il secondo elemento di equilibrio instabile aveva il suo centro nella situazione generale europea. I! periodo di lunga pace, iniziato al termine della guerra franco-prussiana sembrava quasi prossimo alla fine, e non pochi guardavano con sospetto alla clamorosa affermazione della potenza militare tedesca temendo potesse frustrare alcuni progetti di espansione italiana. Difatti Giolitti, non da altro sollecitato, com'ebbe poi a confessare, dovette dare, con la guerra libica, il primo colpo di piccone all'edificio da lui casi pazientemente costruito.
Il terzo elemento negativo consisteva nell'alea che altri interessi ed altri ceti, fino allora sacrificati e misconosciuti, avessero a svegliarsi dal loro sonno secolare, nel qual caso il compromesso esistente sarebbe stato certamente denunziato. Ed anche su questo terreno è sintomatico che Giolitti dovette dare proprio lui un altro colpo di piccone al suo edificio con l'introduzione del suffragio universale.
Ma il sistema giolittiano avrebbe potuto reggersi ancora a lungo se i fattori della seconda categoria non fossero venuti improvvisamente meno con lo scoppio della guerra mondiale 19 I 5 - 18.
Al primo colpo di cannone il regime venne improvvisamente a trovarsi ad un bivio fatale - del resto già previsto e scontato in sede di critica istituzionale -, perché le esigenze di politica interna sconsigliavano di avventurarsi nella guerra, mentre l'imperativo categorico della definitiva unificazione nazionale, rimandata alla prima occasione utile, rafforzava le scarse correnti politiche che postulavano contemporaneamente la ripresa del Risorgimento e la fine del giolittismo.
Ciò spiega perché Giolitti ed i socialisti ufficiali, sebbene con differenti gradazioni, perseguirono una politica neutralista, mentre gli scarsi gruppi costituzionali avversi al giolittismo e le correnti rivoluzionarie si affermarono in una politica di interventismo, che, nella sua estrema punta, si qualificò come interventismo rivoluzionario.
Messo, perciò, tra l'incudine di lasciar passare l'eredità del Risorgimento nelle mani dei neorivoluzionari, ed il martello di dare un colpo al compromesso istituzionale, felicemente perfezionato da Giolitti, il regime non potette far altro che scegliere il secondo corno del dilemma, e, seguendo il suo metodo tradizionale, si lanciò sul terreno della rivoluzione nazionale.
Questa prima mossa iniziò subito la crisi, spingendo il Partito socialista ufficiale sull'Aventino del neutralismo, ove si accampò per tre anni con propositi minacciosi, mentre il parlamento giolittiano fu costretto a svolgere politica sostanzialmente antigiolittiana.
Terminata felicemente l'ultima guerra nazionale, il vecchio compromesso istituzionale già non esisteva più e tutto lo sforzo delle oligarchie al potere fu dedicato a cercare affannosamente tra le macerie della rivoluzione, nuovamente in marcia nel paese, i materiali per la costruzione di un nuovo compromesso.
Certo l'adesione, anche temporanea, alle ragioni ideali del Risorgimento aveva realizzato le previsioni, recando non poco danno al regime. Ma, se esso era stato obbligato dalla dialettica della storia a completare l'unità della Nazione, continuò tenacemente a resistere alla spinta rivoluzionaria che nuovamente si affermava nel paese.
Lentamente, però, la situazione divenne drammatica perché la stessa rivoluzione, frantumandosi in mille rivoli, cominciò ad autoneutralizzarsi, cosicché il regime potette concepire la speranza di salvarsi, tentando di prospettare come motivi di conservazione istituzionale l'avvenuta integrazione del territorio nazionale e l'aumentato prestigio dell'Italia nel mondo, senza riconoscere contemporaneamente tutti i diritti del popolo e senza distruggere il potere ed il prepotere delle piccole minoranze trasformiste e cleptocratiche, che fin allora avevano governato il paese.
E questo calcolo non fu del tutto illusorio, poiché, ben presto, apparve chiaro che le ragioni integrali della rivoluzione non avrebbero potuto affermarsi, sia per l'insufficienza storica del socialismo insurrezionista, sia per la prolungata assenza dalla lotta politica del Mezzogiorno d'Italia, ancora abbacinato dalle lusinghe del trasformismo politico.
La rivoluzione, infatti, se all'esterno appare come rinnovamento di formule politiche, è prima ancora ed essenzialmente sostituzione di classi dirigenti, ed in Italia mancavano i presupposti per l'atto rivoluzionario, poiché il socialismo postbellico fu soprattutto astrattismo, e la classe politica che lo dirigeva era tutt'altro che nuova.
In tale condizione di cose, si creò il caos politico, ed il Partito socialista ufficiale, trovatosi dalla parte della conservazione per una serie di fatali errori d'impostazione tattica, invece di ripiegare sulla prassi riformista, che avrebbe almeno potuto assicurare il successo dei vari tentativi Nitti, si gonfiò impetuosamente di rivoluzionarismo verbale e perciò non poté né fare la rivoluzione né contribuire alla conservazione.
Rimasto inerte in un periodo storico nel quale tutti gli esperimenti avrebbero potuto essere tentati, lasciò passare tutte le occasioni utili, e fin1 per provocare lo slittamento dell'intera situazione politica italiana verso le correnti rivoluzionarie di estrema destra, che avevano in programma la soppressione totale della libertà.
Cominciarono così a tramontare insieme la rivoluzione integrale, la socialdemocrazia ed il compromesso giolittiano, e le masse, sbandate e deluse, per un fenomeno meccanico di gravità, precipitarono verso il fascismo, che, sorto qualche anno prima, aveva vissuto vita oscura ed ingloriosa.
Guidato da un uomo che, transfuga dal socialismo, anzi dall'anarchismo, era ammirato da quell'eterna genia di piccoli borghesi tarati che formano le sabbie mobili dell'opinione pubblica italiana, il fascismo, appunto perché privo di vero contenuto rivoluzionario, apparve subito al regime come l'ancora di salvezza a cui aggrapparsi, ed ecco il nuovo movimento arricchirsi di militari e di violenti di ogni specie, permearsi di cavalli di Troia di tutte le provenienze, gonfiarsi di idealisti e di arrivisti, di repubblicani e monarchici, di rivoluzionari e conservatori, di professionisti e sindacalisti, di ex anarchici e reazionari.
Mussolini galleggiava su questo enorme fiume fangoso, facendo boccacce alla borghesia e sbandierando ai quattro venti la sua famosa tendenzionalità repubblicana, mentre l'alta borghesia ed il militarismo, assai scarsamente preoccupati delle boccacce mussoliniane, fornivano moschetti e bombe a mano, camions e rifornimenti, spingendo continuamente il movimento nel circolo chiuso delle squadre d'azione.
La rivoluzione integrale era, dunque, tramontata, ma la sua caricatura vociava ormai per le strade, tra gli incendi dei circoli rionali, e le «spedizioni punitive », esasperate dallo spettrale risorgere degli spiriti del Medioevo, che, secondo la bolsa retorica di quei tempi, s'incarnavano nel profilo colleonesco del duce e nell'anarchia comunale dei suoi adepti.
Dati questi precedenti e questa struttura del fascismo, nessuno si meravigliò se esso duramente si sfogò contro i poveri diavoli attaccati alle loro idee, ed, invece, non ebbe difficoltà a compromettere col regime.
Del resto, la stessa stanchezza derivante da tante convulsioni, e l'astrattezza delle idee rivoluzionarie, in un primo tempo oscurarono gli obiettivi reali della lotta, e poi spinsero molti animi lungo i mortiferi sentieri dell'oblio.
La rivoluzione fascista poté così sboccare in quell'avvenimento sui generis che prese il nome di marcia su Roma, e per il quale la terminologia politica non ha ancora trovato un'adeguata definizione.
Lo storico di domani potrà precisare attraverso quali tappe il nuovo compromesso giunse in porto, quali azioni e quali reazioni resero possibile la deviazione della corrente rivoluzionaria, e per quali tare della costituzione politica e sociale del popolo italiano avvenne che la marcia su Roma fu la celebrazione innaturale e grottesca del compromesso tra una banda di avventurieri ed il regime, avente per oggetto il predominio su masse ignare e deviate.
È probabile che tutte le ipotesi affacciate e tutte le tesi sostenute da autorevoli scrittori politici siano solo in parte esatte, data la prossimità delle loro analisi agli avvenimenti, ma a me sembra che, dopo l'ottobre 1922, l'Italia, accasciata ed esausta da sette anni di guerra e di convulsione politica, s'illuse che la mano ferma di un politico avesse potuto trarre da un nuovo compromesso istituzionale quel poco di bene e quel poco di pace che anche i peggiori strumenti politici possono dare. Forse moltissimi che dettero un sospiro di sollievo all'annunzio del colpo di Stato, pensarono che una nuova dittatura legale, sul tipo di quella giolittiana, anche se avesse sistemato gl'interessi dei vincitori, non avrebbe impedito ai vinti di rifarsi nell'opera di controllo, e di sperare nell'avvenire.
Ed è probabile che se Mussolini fosse stato un uomo politico, questo tipo di dittatura avrebbe potuto illudere ancora molti Italiani.  
Ma Mussolini era soltanto un partitante, e, quantunque in un primo tempo si esercitò in una politica trasformistica, non seppe mai disintegrarsi dai dati storici del suo partito. Egli, infatti, accennò tutte le politiche trasformistiche possibili, ma nessuna ne svolse, e depresse il Parlamento che avrebbe potuto funzionare secondo le sue direttive, senza reprimere lo squadrismo deprecato ed odiato da tutti. La sua fu una politica di paura e di ricatto, quando il paese, ormai stanco, non chiedeva altro che addormentarsi nel quotidiano svolgersi di una prassi modesta e quietista.
La superiorità di Giolitti sul suo antagonista appare, quindi, evidente. Il primo, infatti, senza raggiungere le vette del vero uomo di Stato, aveva il fiuto delle situazioni politiche, ed il calcolo delle possibilità non gli difettava. Mussolini, che pretendeva di superare Giolitti nell'altezza e nella magniloquenza delle concezioni, ed invece giudicava la politica con il semplicismo del giornalista che svolazza sulle idee credendo di approfondirle, era inferiore al deputato di Dronero proprio nel creare le situazioni politiche, ed era dominato da esse, quanto più credeva di dominarle.
Ciò spiega perché dopo aver compromesso col regime, non seppe stabilizzare tale compromesso, e, pur credendo di creare un novus ordo si circondò sempre di figure mediocri e di avventurieri, su cui non poteva che fare scarso assegnamento.
Esagitato da un'irrequietezza mai sopita, non seppe né soddisfare le esigenze ideali, rimaste patrimonio di esigue élites, né servire i reali interessi di coloro che, in un supremo atto d'inconsapevolezza, gli affidarono il potere.
Le sostanziali deficienze dell'uomo e della sua politica esplosero clamorosamente circa due anni dopo il trionfale avvento, ed il delitto Matteotti provocò una sollevazione morale cosi violenta nel paese che ancor oggi se ne risente l'eco.
I partiti battuti, trasformatisi in opposizioni, ed i vecchi gruppi trasformistici, umiliati nel modesto ruolo di fiancheggiatori, intuirono, al lampo di quell'avvenimento, che il nuovo compromesso istituzionale era in pericolo, soprattutto perché il pessimo temperamento di Mussolini e le sue tare politiche impedivano la continuazione di quella politica formale di adesione alla costituzione albertina, che, dal 1860 in poi, aveva costituito l'apparato ideologico attraverso il quale il regime poteva sostenere di essere il continuatore delle grandi tradizioni del Risorgimento. E, mentre le opposizioni si gettavano sul macabro avvenimento per smascherare il demagogo lordo di sangue, i fiancheggiatori - ritenendosi legittimi custodi del mai spento e sempre rinascente spirito di compromesso - indicarono al regime, con la loro aperta opposizione, la via da seguire.
In certo senso fu una vendetta della storia che, da un'ora all'altra, scopri gli altarini ed indicò proprio a coloro che, col colpo di Stato avevano creato la situazione di eccezione, il dovere di ripararvi col colpo di Stato.
Tutto il giuoco politico si condensò quindi sulla capacità e soprattutto sulla volontà di conservazione del regime, che divenne il centro della politica italiana. Quanto più i partiti di opposizione erano stati danneggiati dalla politica illiberale posteriore alla fatidica marcia, quanto più i fiancheggiatori avevano dovuto ricorrere a ridicoli funambolismi per non essere definitivamente sommersi, quanto più le forze attive del paese erano state depresse dalla reazione armata, aizzata e finanziata dal regime, tanto più questo doveva venirsi a trovare in prima linea nel momento della crisi ed essere costretto a risolvere il tragico dilemma: o fare macchina indietro, anche a rischio di ripercorrere le strade dell'agitazione politica e della rivoluzione, o legarsi definitivamente al carro dell'uomo di Predappio, sacrificando ai propri istinti reazionari la famosa bilancia dei partiti.
Ed il regime, consigliato dal machiavellismo più sterile e più stupido, scelse la seconda via, ed, in nome di un costituzionalismo formale, che era stato tante volte violato, e che già non esisteva più, rispose alla rinascente agitazione del paese con l'accordare i pieni poteri all'uomo che si palesava come il principale ostacolo a quel compromesso istituzionale così faticosamente ricostruito.
Quem deus vult perdere, dementat ed il destino spinse i responsabili lungo le vie della perdizione. Da quel giorno Mussolini ebbe ben ragione di fascistizzare lo Stato e ne venne fuori la strana terminologia di regime fascista.
Egli aveva, dunque, trionfato anche di quell'oscura camarilla con la quale aveva dovuto compromettere all'atto della marcia su Roma, e ciò malgrado avesse dimostrata tanta incapacità a servirla.
Da quel momento i complici si strinsero la mano ed il nuovo colpo di Stato, assai più profondo del primo, li avvinse nella stessa condanna: o procedere insieme, o perire insieme.
Gli ideali del Risorgimento furono gettati in cantina e quelli tra i trionfatori che sapevano maneggiare la penna parlarono di «anti-Risorgimento» e di «anti-Europa».
Ma un esiguo manipolo di uomini, liberi ormai da tutte le colpe del passato, spogliatisi dei pregiudizi di partito e di scuola, purificati dalla sofferenza morale, che è anche peggiore di quella fisica, raccolse l'eredità del Risorgimento e l'alimentò pura nella sua inestinguibile fede.
All'infuori di esso niente si salvò e su tutte le istituzioni si rovesciò la furia eversiva dei nuovi venuti.
Però, pochi studiosi dei fenomeni politici, nutriti del più sano machiavellismo, non si tennero per paghi e pazientemente attesero gli ulteriori sviluppi del dramma. Non era possibile che il regime si fosse rassegnato a lasciarsi frantumare nelle mani gli strumenti che gli avevano assicurato per tanto tempo il successo, e perciò aspetttarono il colpo di barra che avesse ristabilito l'equilibrio.
Fatica sprecata! Il regime si ritenne pago soltanto di sopravvivere come un qualsiasi usciere di prefettura, costretto a prendere la tessera.
Tutto fu fascistizzato, perfino la successione al trono, ed il barocco di una costruzione personalistica distese i suoi ciarpami su tutti i frontoni dello Stato. Niente Parlamento, ma una Camera eletta dal duce, niente Senato nominato dal re, ma una Camera Alta di vecchie carcasse nominate da Mussolini. Niente enti locali autonomi, ma amministrazioni affidate personalmente a questo o a quel fascista locale. Niente controllo sulle spese, niente giustizia, niente più libertà di vita e di lavoro.
Ed a mano a mano che il mostruoso sistema dilagò, il regime percorse la strada della perdizione, accovacciato ai piedi del fragoroso dittatore, inebriandosi delle molteplici corone che si aggiungevano alla sua araldica.
Poi fu la guerra, un evento che è sempre stato rivoluzionario e che i padroni dello Stato avrebbero dovuto temere. Ebbene anche questa volta ebbero fiducia e s'imbarcarono per l'ignoto!
Nemmeno quando l'invasione militare apparve inevitabile si notò qualche segno di resipiscenza e fu necessario che il fascismo si fosse data la morte con le proprie mani per spingere il regime a tentare il suo salvataggio.
Allora riesumò il vecchio decaduto compromesso istituzionale e, aggrappato al declinante prestigio di Badoglio, non vide altro che la sua salvezza.
Quanto più era stato ignaro per venti anni dei suoi doveri e dei pericoli che lo minacciavano, tanto più, dopo il 25 luglio 1943, temette di espiare le sue colpe. E, con una guerra perduta e l'invasione in atto, non ebbe nemmeno la scaltrezza di parare il colpo con la tradizionale abdicazione e la conseguente creazione di uno di quei famosi ministeri di concentrazione nazionale, che concentrano soltanto la conservazione intelligente. Non c'è quindi da meravigliarsi se la posizione dell'Italia è precipitata, nel secondo semestre del 1943, in un baratro incommensurabile.
Invece di disintegrarsi immediatamente dalla guerra hitleriana e fronteggiare poi i propositi aggressivi dei tedeschi, che allora erano impreparati e sorpresi, non seppe fare altro che usare il peggiore machiavellismo al solo ed unico scopo di sopravvivere alla rovina della Patria.
Le conseguenze sono note ed in corso di svolgimento.
Accanto alla guerra esterna - che non si è evitata - si è prodotta la guerra civile, e quando questo libro vedrà la luce, chissà quanto sangue fraterno sarà stato sparso!
Ormai la rivoluzione, tante volte deviata e compromessa, riprende la sua marcia fatale e le ragioni ideali del Risorgimento risorgono dalle ceneri. La mancanza della libertà è stata esiziale al vecchio regno ed il nuovo Stato non può essere fondato che sulla libertà e sul consenso popolare.
In un gigantesco olocausto bruciano le scorie delle nostre insufficienze e delle nostre debolezze. Perfino il terrore della guerra civile, che aveva attanagliato tanti cuori e li aveva fatti recedere dai passi estremi, è svanito. Poiché ora alla guerra civile ci siamo, ed i partigiani del Nord sono costretti ad impugnare le armi contro i loro fratelli deviati e perversi. E questi ultimi impugnano pure le armi contro i partigiani e contro l'esercito regolare, e, in mezzo a questa catastrofe senza precedenti, eserciti stranieri si battono sul nostro suolo spargendo altro innocente sangue italiano.

Mai un paese fu più duramente castigato per colpe che ha indubbiamente commesso, ma anche per colpe che sembrano essere addirittura ancestrali.
Ma su questa catastrofe senza precedenti si eleva lentamente la luce di una nuova esigenza spirituale, che prima vagellante ora si rafforza al lume di tragici avvenimenti. Avrà essa la forza di distruggere in un incendio ideale tutte le tare costituzionali del popolo italiano, oppure il tradizionale spirito di compromesso riprenderà il sopravvento e le sparute minoranze, ora tremebonde, troveranno nuovo materiale umano per puntellare il loro dominio già quasi totalmente scomparso?
Questo è il tragico interrogativo dell'ora, al quale è chiamato a rispondere soltanto il popolo italiano, che può trovare nel recente passato tutti gli elementi di giudizio per decidere la sua sorte.
Se, dopo tanto tempo ed attraverso tante traversie, il popolo italiano ha acquistato almeno un'elementare coscienza politica, ed ha appreso il conto che deve fare della solita retorica regia, del patto plebiscitario e di altre simili menzogne, è probabile che la crisi sarà stata benefica, e residuerà, per lo meno, il terrore di combinazioni politiche che non promanino volta per volta, dal consenso popolare, e sono, la contrario, permanentemente poste dalla «grazia di Dio» o dalla tradizione; se, invece, le dure lezioni patite non hanno insegnato agli italiani che i popoli soltanto sono i padroni del loro destino, e, perciò, non debbono recalcitrare dinanzi alla necessaria esigenza dell'autogoverno, allora la «grazia di Dio» e la tradizione ripeteranno il miracolo del compromesso istituzionale. E, dopo tanta storia, vissuta in tanto breve tempo, bisogna confessare che il successo di uno strumento politico cosi mediocre sarebbe veramente miracoloso.
Esso ripeterebbe il detestabile evento del trionfo dei pochi contro tutti, e tale trionfo sarebbe ancora una volta dovuto all'assenza dei molti.
Le élites di opposizione non possono fare altro che impostare i temi dell'azione politica; sono, invece, le maggioranze che determinano il successo, e dovrebbe ormai esser chiaro che anche l'assenza ed il disinteresse è una forma di scelta, perché giova soltanto a coloro che intendono conservare contro quelli che, invece, giudicano indispensabile innovare.
Tuttavia, il nuovo compromesso istituzionale, cosi come oggi viene concepito da coloro che hanno interesse di realizzarlo, si presenta di difficile attuazione, non solo perché sembra esaurito il ciclo storico dei compromessi, ma anche perché rivela alcuni difetti d'impostazione, che denunziano un fatto di grande importanza politica: la deficienza di idee chiare nei suoi sostenitori.
È probabile - anzi certo - che anche gli avversari non abbiano idee troppo chiare, ma, all'inizio di una crisi istituzionale, la mancanza di chiarezza delle idee, a parità di condizioni, nuoce piu ai conservatori che ai rivoluzionari.
Non è quindi prematuro sottoporre a critica la situazione politica, e tale esegesi può essere condotta con criteri di approssimazione scientifica.
Quando Vittorio Emanuele II Badoglio, dopo una fuga ingloriosa giunsero, laceri e scorati, a Brindisi, per ritessere la piccola tela dell'intrigo, se fosse esistita nel Mezzogiorno una piccola, animosa élite rivoluzionaria, che avesse proclamato la repubblica, il compromesso istituzionale, malgrado i vantaggi che i cosiddetti liberatori avevano accordato alla monarchia con l'armistizio, sarebbe stato stroncato per sempre, perché, in quel momento, le popolazioni, unanimi, non agognavano che la punizione più esemplare degli artefici della loro rovina.
Questa élite non uscì dai misteri della storia, e, mentre le armate alleate dilagavano per il paese, cominciò la ricerca affannosa della nuova formula per ricostruire i dati storici della conservazione minacciata.

Ad uno ad uno, pochi politicanti di bassa lega, si precipitarono a Brindisi in cerca di portafogli, e, manovrati da ex avventurieri fascisti e dal ministro della Real Casa, costituirono il governetto di Brindisi, il più oscuro dei governi che la storia abbia mai registrato.
Perciò l'impostazione della lotta politica rimase a favore della rivoluzione, quantunque questa non si fosse ancora messa in marcia.
Ma la realtà italiana, l'insopprimibile realtà che affiora in tutti i momenti del nostro processo storico, non poteva non produrre più seri tentativi di transazione.
Un sovrano decaduto nella coscienza morale del suo popolo, un primo ministro, responsabile in pieno della catastrofe assai più responsabile dello stesso Mussolini, perché autore del vero disastro italiano durante la manovra di sganciamento dalla Germania - sono certamente un ostacolo al compromesso, assai più della stessa rivoluzione, assente dalle piazze per l'insufficienza delle masse rivoluzionarie e per il periodo di smarrimento che necessariamente sussegue alla sconfitta.
Ed ecco la conservazione intelligente levarsi nel paese a precisare le necessità dell'ora ed a protestare contro gli errori che la minuscola cricca monarchica commetteva in preda allo sfacelo ed allo smarrimento.
La formula della «reggenza» apparve, quindi, nel cielo politico italiano come la stella che doveva indicare al pilota la rotta da seguire per riprodurre, mutatis mutanndis, la vecchia sagoma dello Stato storico.
Sbandierata da monarchici, che per ragioni tattiche, si spingevano fino ad ipotizzare la repubblica, la reggenza venne propugnata come il toccasana di tutti i mali italiani, e fu dichiarata accettabile anche da quei repubblicani, che speravano asfissiare nella culla il nuovo pollone legittimista.
Ma, per una fatale felicità, che costituisce il tocco del destino, la formuletta istituzionale, che doveva ridare il potere a chi aveva fatto tutto il possibile per perderlo, era osteggiata proprio da coloro che erano destinati a beneficiarsene, e le forze della conservazione esaurirono alcune delle loro possibilità in una sterile lotta, che non mancò di toccare anche le vette del pathos politico.
Questa lotta tra coloro che sognavano ad occhi aperti ritorni fascisti e gli onesti monarchici che, pur di salvare l'istituto miravano a ridurre tutta la questione istituzionale italiana ad una sostituzione di persona, doveva necessariamente condurre a una impasse, proprio perché la insufficienza rivoluzionaria del paese non potenziava sufficientemente le élites e le formule che miravano alla radicale distruzione del fenomeno.
E da questa insufficienza sono scaturiti avvenimenti di vasta portata, che ancora condizionano la lotta politica e che, perciò, vanno criticamente esaminati per raggiungere quella chiarezza di vedute che è necessaria se non si vuole andare incontro ad altre sconfitte.
Contro lo stupido tentativo di salvare il regime attraverso un neofascismo di carattere regio, la conservazione intelligente non poteva non avere buon gioco, anche se dovette agitare lo spettro del processo al sovrano ancora in carica: processo che non sarebbe potuto essere che repubblicano, come i precedenti insegnano.
Ma intorno alla monarchia si erano stretti pochi ufficiali in cerca di promozione ed alcuni scagnozzi licenziati dal precedente padrone, e costoro non sognavano che squadre d'azione e spedizioni punitive, ignorando: a) che, dal punto di vista funzionale, il compromesso politico è un accordo tra due avversari, o almeno tra due pseudoavversari, che trovano un punto medio di reciproca adesione a danno degli altri veri avversari e del popolo (esempio: nel 1922 Mussolini compromise con la monarchia, rinunziando alla tendenzialità repubblicana e la monarchia gli lasciò il potere di vessare e distruggere l'Italia); b) che un compromesso, per riuscire, dev'essere sempre in funzione europea (esempio: il fascismo nel 1922 fu una deviazione italiana della generale lotta anticomunista in Europa); ma nella presente realtà quello stesso Churchill che, nel marzo 1932, in una riunione alla Queen's Hall parlava del «genio romano impersonato da Mussolini, il più grande legislatore vivente», sarebbe costretto ad ordinare ai suoi rappresentanti in Italia di lasciare piena libertà al popolo italiano di schiacciare il criminale tentativo di far rivivere il fascismo; c) che un compromesso, per riuscire, dev'essere per lo meno apparentemente nuovo, cioè deve promettere ad un popolo qualche cosa che non ha, salvo poi a togliergliela in pratica (il neofascismo, invece, era una formula vecchia e non avrebbe potuto far altro che ereditare tutto l'odio che il fascismo mussoliniano, col suo clamoroso fallimento, aveva suscitato nel popolo italiano); d) che un compromesso, per riuscire, dev'essere tentato sulla base di una reale situazione politica, interamente sviluppata e non concepita a priori entro uno schema politico bello e fatto, anelastico e privo di fantasia.
La conservazione intelligente, perciò, aveva tutto il diritto d'insorgere contro una manovra destinata all'insuccesso e che prescindeva dalla reale situazione del paese.
Ma il regime non intendeva ragioni e, appoggiandosi sull'investitura ricevuta dagli Alleati con l'armistizio e sulla vecchia retorica del patto statutario e dei plebisciti, rispondeva a tutte le sollecitazioni con ripetuti dinieghi, che mostravano soltanto che esso non aveva sufficientemente meditato sugli errori commessi ed ignorava la reale portata della situazione in cui si trovava.
Tutto ciò accentuava la crisi, non solo perché molti monarchici erano costretti a combattere la monarchia, ma anche perché tanti altri monarchici, assistendo a questo inspiegabile dissenso, avevano l'impressione che l'istituto corresse mortale pericolo.
Sostanzialmente nessuna rottura del tradizionale spirito di compromesso si era verificata, e tutto si riduceva ad un dibattito di dettaglio. Ma lo stesso fatto che contro il tentativo di concentrazione monarchico-fascista, poggiata sulla fragile base di una neoformazione di vecchi fiancheggiatori e di fascisti trasformisti, patrocinata dalla monarchia, la conservazione intelligente era costritta a propugnare la necessità di una più vasta concentrazione di forze conservatrici intorno ad una formula pseudoliberale, che avesse avuto la possibilità d'illudere le speranze innovatrici del popolo, provocava uno stato d'incertezza, che certamente non deponeva a favore del successo di una manovra così contrastata.
La situazione, perciò, rimase statica per mesi con i monarchici all'opposizione della monarchia e con il compromesso che restava nei desideri dei neocontendenti, senza riuscire a catalizzarsi.
La spinta alla soluzione venne all'improvviso dal settore che sembrava meno indicato a produrla e la situazione che in seguito si è sviluppata, è divenuta così complicata da renderne difficile l'analisi.
Tuttavia tale analisi dev'essere tentata se si vuoI trarre qualche utile insegnamento dagli avvenimenti.
Quando, nei primi giorni dell'aprile, Palmiro Togliatti, rientrato dalla Russia, annunciò il proposito dei comunisti di partecipare anche ad un governo Badoglio, era già in corso una manovra monarchica per indurre il sovrano ad accettare la formula della reggenza.
Questa manovra, però, non era stata ancora finalizzata, perché la dinastia repelleva all'idea di escludere dalla successione al trono il principe ereditario.
È probabile che cominciasse ad apparir chiaro l'errore base di non avere, immediatamente dopo l'armistizio, annunciata l'abdicazione del re, e di essersi intestarditi nella soluzione demoliberale, priva di qualsiasi contenuto politico. Ma è egualmente naturale che, non essendosi ancora prodotte le conseguenze di questo errore politico, la dinastia sperasse ancora di poter correggere l'impostazione della lotta e salvare il prestigio del principe ereditario.
Se la situazione fosse rimasta surplace ancora per poco, e se i partiti rivoluzionari avessero manovrato, come fin'allora avevano fatto, per tenere i liberali monarchici inchiodati alla formula della reggenza, è probabile che la situazione si sarebbe sbloccata da se stessa con la prima clamorosa sconfitta del regime.

In sostanza, l'impasse in cui tutta la politica italiana allora si trovava, era conseguenza dell'arresto delle operazioni belliche sul fronte di Cassino per il sopravvenuto inverno, e tutti avevano l'impressione, non interamente infondata, che la liberazione di Roma avrebbe fatalmente condotto alla soluzione della crisi.
L’iniziativa Togliatti, invece, precipitò di colpo la situazione, e tutti partiti furono costretti a rivedere improvvisamente le loro posizioni, per non rimaner tagliati dalle manovre degli altri.
La costituzionale insufficienza del paese giuocava ancora il suo grande ruolo, e sulla scena politica italiana riapparve il machiavellismo, o, meglio ancora, lo pseudomachiavellismo, che, come si sa, è uno scadente Ersatz della vera azione politica.
La catalizzazione avvenne, dunque, con un certo stento, ma il minimo comune denominatore dell'intera operazione emerse più dall'astuzia che dalla forza delle dottrine.
Indubbiamente il comunismo iniziò una manovra che, pur senza raggiungere interamente gli estremi della monarchia comunista  appunto perché aveva soltanto valore tattico, - esponeva a pericoli gli altri partiti antifascisti.
Ma la cosa più sorprendente fu che questi, mentre accusarono i comunisti di machiavellismo, si precipitarono per la stessa china. È vero che la corsa verso il potere fu nascosta dietro due grandi miti: la costituente e la necessità dell'intensificazione della guerra antitedesca; ma è vero altresì che le resistenze furono minime. Perfino il Partito d'Azione, che avrebbe avuto tutto l'interesse di restare in disparte, finì per aderire, per quanto in maniera assai discutibile.
Era, dunque, la seconda sconfitta della rivoluzione italiana che si profilava, e, ad un certo punto, -agli osservatori spassionati, non rimase che sperare nell'intransigenza monarchica.
Improvvisamente venne fuori il conte Sforza con la formula della luogotenenza - istituto che non ha niente a che fare con il caso in corso di svolgimento e, con questo surrogato dell'abdicazione, ogni cosa fu appianata.
Badoglio rimase e tutto l'antifascismo disponibile in territorio liberato si precipitò ai posti di comando. Solo una frazione del Partiti d’Azione  - che poi era la maggioranza – rimase a deplorare l’occasione perduta dal suo partito, di sottolineare una politica a grande respiro, affidata al galantomismo del tempo e del popolo italiano.
Ma questo avvenimento – che oggi appare in pura perdita, come, del resto, appare a molti quando si produsse - era condizionato dal tempo, e, meno di due mesi dopo, l'occupazione di Roma portò al tramonto il terzo gabinetto Badoglio.
Nella città eterna la crisi si riprodusse, ma su una scala più ampia, e Badoglio fu estromesso dal potere. Essa fu condizionata, però, dai risultati precedenti, e la monarchia si assicurò, in tal modo, attraverso la luogotenenza, il respiro per tentare di riaversi.
Infatti due mesi dopo il liberalismo crociano operò il connubio con i demo-liberali - che sembravano gli unici definitivamente sconfitti - riconducendo nella formazione di governo le pecorelle smarrite, e lo stesso Togliatti fu costretto a prenderne atto ed a riconoscere che la composizione dei Comitati di Liberazione era rimasta alterata e che i nemici, i veri nemici del paese, erano riusciti a rimettere le mani sul governo attraverso la mediazione non-filosofica dell'idealismo.
Il panorama politico italiano, perciò, nel momento in cui scrivo, si presenta caotico, perché appaiono affardellati insieme, nella stessa diligenza, i futuri nemici di doomall.
Evidentemente questa situazione politica è stata determinata sia dall'assenza di spirito rivoluzionario delle masse, che dagli errori dei quadri politici.
Ma, se i nemici di domani sono oggi insieme a seguito di una serie di manovre tattiche, che indubbiamente non hanno prodotto tutti gli effetti che da esse speravano i loro autori, non per questo si può dire che un nuovo compromesso istituzionale sia stato realizzato.

Anzi se si potesse arrischiare una diagnosi, si potrebbe ragionevolmente dedurre che è rimasta provata la enorme difficoltà della sua realizzazione, perché, nemmeno quando era il solo Mezzogiorno a determinare la composizione ministeriale, il regime ha potuto sopravvivere, se non affidandosi alla prassi del gabinetto di coalizione.
La situazione politica è, perciò, tuttora fluida, e tale sua fluidità fa rinascere la speranza.
Ormai la lotta si sta spostando sulla direttiva di marcia degli eserciti liberatori e saranno le masse del Nord a dire la parola decisiva.
Ma, a mano a mano che l'epicentro della lotta si sposterà, apparirà chiaro che il compromesso non è più possibile. Non perché manchi chi sia disposto ad accettarlo l: propugnarlo, non perché non vi siano partiti, pullulanti di arrivisti e trasformisti, che non agognano altro che mettere le mani nelle casse dello Stato, per quanto grame possano essere, non perché tutti gl'interessi parassitari e cleptocratici siano rassegnati alla sconfitta. Che, anzi, queste oscure minoranze sono all'agguato, in attesa del momento propizio, e la putredine nazionale non fa altro che mondare nel calderone della politica.
Ma saranno i fatti che dovranno produrre le conseguenze necessarie, e, di fronte ai fatti, ogni abilità di manovra è destinata a soccombere.
La crisi è assai profonda e tocca ormai le radici anche della nostra costituzione economica, che, per effetto della politica mondiale postbellica, non potrà più sopravvivere.
Sono, quindi, destinati a tramontare gli stessi presupposti economici che avevano condizionato sia il compromesso giolittiano, sia quello mussoliniano, e che potrebbero essere utilizzati per il consolidamento del regime.
Ormai il giochetto del collegamento sotterraneo tra gli interessi padronali e gl'interessi operai protetti non sarà più possibile, perché la politica economica mondiale del dopoguerra impedirà questi connubi criminosi.
E poi l'inflazione, l'inesorabile inflazione, finirà di bruciare tutte le speranze quietiste del popolo italiano e lo sospingerà, volente o nolente, sulle vie della ricostruzione ab imis.
Rinnovarsi o perire, questo è l'imperativo che ci sovrasta, e la nostra salvezza segue strade diametralmente opposte a quelle finora battute. Le masse saranno costrette a capire da qual parte si trovino i loro reali interessi se vorranno trovare la loro ragione di vivere, poiché le esperienze politiche hanno questo di caratteristico che ordinariamente sono privilegio di pochi, ma divengono patrimonio di tutti quando il benessere, gli averi, la vita stessa sono in pericolo.
Rinnovarsi o perire è l'imperativo che ci sovrasta in ogni campo, dalla politica estera a quella interna, dalla politica economica a quella sociale, e, se il regime, incallito ed inebetito dal suo atavico spirito d'intrigo, non vuole rinnovarsi, peggio per lui. Esso perirà.
Terminata così la trattazione del problema istituzionale generale, possiamo passare all'esame della situazione attuale di quello meridionale.
Qui il compito dello scrittore politico diventa veramente arduo, perché, non soltanto sarebbe necessario divinare se nel Mezzogiorno è maturata un'élite cosi intransigente da escludere per sempre ogni contaminazione col passato, ma sarebbe altre SI necessario divinare l'atteggiamento futuro dei partiti antifascisti, per precisare a priori se convenga all'élite meridionale disperdere la sua azione nel seno dei partiti unitari, oppure concentrare il suo sforzo nella creazione del Partito meridionale d'Azione.

Il passato, certo, non è incoraggiante, ed il lettore di Rivoluzione meridionale vorrà leggere e meditare la serrata critica ai partiti storici, ritenendola, in parte, come un'anticipata esposizione dei motivi di dissenso, che avranno occasione di manifestarsi anche nel futuro.
Tuttavia, se occorre procedere assai cauti e non sopravvalutare quel poco di bene che si è prodotto attraverso tanti dolori, non bisogna assolutamente disperare, perché un fenomeno di elevazione e di consapevolezza s'è iniziato, da qualche tempo, anche nel Mezzogiorno, e non è detto che non possa un giorno fruttificare a beneficio di un paese che ha tanti numeri al rispetto universale, e che sconta cosi amaramente il difetto originario di formazione della sua classe dirigente.
lo credo di essere stato il primo scrittore politico che abbia segnalato la scopertura del regime anche nel Mezzogiorno d'Italia, e spero di non essermi ingannato quando ho tratto da questo fenomeno conseguenze meno pessimiste per l'avvenire.
Ora, la situazione politica del Mezzogiorno è assai delicata, ed è probabile che gli errori delle direzioni dei partiti unitari la faranno ancora aggravare. Ma è certo che il vecchio trasformismo meridionale è in crisi, una crisi che bisogna conoscere ed approfondire in tutti i suoi l,spetti, se si vuole agire con esatta cognizione di causa per rimuovere tutti gli ostacoli che ancora si frappongono allo sbloccamento delle situazioni locali. Perché è necessario comprendere che il Mezzogiorno, sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista politico, non presenta un panorama unitario, ma consiste in un coacervo di situazioni locali, tenute insieme dal comune denominatore trasformista, e che, perciò, vanno sbloccate una per una con intelligente pazienza.
Sotto tal punto di vista io non posso non lodare il Partito d'Azione che ha dimostrato un'esatta comprensione del fenomeno, quando non si è fatto ingannare da un falso spirito unitario ed ha conservato la segreteria centromeridionale come organo tecnico della lotta meridionalista.
Ciò che conta, dunque, è la crisi del trasformismo, perfettamente naturale, del resto, perché continua la scopertura e la crisi del regime, ed anche se una falange di trasformisti, dopo aver dato vita al neofascismo del governetto di Brindisi, è stata costretta ad un'oscura manovra per ritornare a galla nelle file del Partito liberale, in posizione di subordinazione, non si può non riconoscere che la lotta politica nel Mezzogiorno, per quanto penosamente, si orienta per strade finora inai battute, iniziando un processo di educazione delle masse che non si può ancora prevedere a qual punto si arresterà.
Certo è sintomatico che, in regioni un tempo miniera delle cosiddette «personalità», miniera, cioè, di trasformisti decorativi, la leva dei morti non abbia avuto i vantaggi sperati, ed i partiti della reazione e della conservazione stentino a riannodare le fila.
Invece le opposizioni istituzionali hanno più sicuro seguito ed organizzano quel poco di meglio che offre il paese. Tutti gli antifascisti di vera marca sono con esse, e l'azione si svolge su di un terreno potentemente minato non solo dai dolori del passato ma dalla stessa dinamicità della situazione, che presenta sempre nuove sorprese.
In mezzo vi è una massa enorme, irrequieta e disorientata, che non aspetta che l'esito definitivo dell'urto per decidersi. Perché la peculiarità dell'attuale situazione è caratterizzata da una serie di fattori che non si sono prima mai prodotti e non potranno più riprodursi nei secoli, che rendono l'analisi veramente palpitante, ed intrecciano strettamente la crisi istituzionale generale con quella meridionale in rapporti di mutua interdipendenza.
Infatti, durante le fasi di sviluppo del processo rivoluzionario italiano, il Mezzogiorno politico, tutto assorbito nel trasformismo, cioè nello studio di aderire ai successivi detentori del potere per finalità circoscritte al dominio locale, non solo non ha partecipato alle singole fasi della lotta politica, che aveva inizio e si concludeva nell'Italia del Nord, ma si è sempre accorto con notevole ritardo dei risultati definitivi.
È stata l'assenza del Mezzogiorno dalla vera lotta politica che ha reso possibile prima l'insuccesso del socialismo e poi il successo del fascismo, tra il 1919 ed il 1922, ed il processo di adesione della classe politica del Sud al fascismo ha, dopo il 1922, stentato a consolidarsi perché Mussolini nella sua proteiforme ignoranza di tutti i problemi italiani, non seppe far altro che duplicare la rappreesentanza trasformi sta del Mezzogiorno per un tempo più lungo di quello che era necessario.

Ciò provocò, come spiego nel libro, la scopertura del regime anche nell'Italia meridionale, e non c'è da meravigliarsi se ora, accanto a minoranze assolutamente intransigenti, vi sia una folla di trasformisti che aspetta.
È questa una conseguenza del fatto impreveduto ed imprevedibile che, stavolta, la lotta politica si è accesa prima nel Mezzogiorno che altrove, e non è a dubitar si che, quando le masse settentrionali interverranno con il loro formidabile peso, la paralisi del trasformismo meridionale non potrà che accentuarsi, secondo la logica interna del sistema.
Infatti il connettivo politico del Mezzogiorno è oggi composto di trasformisti fascisti, che, estromessi dal potere dagli avvenimenti non possono far altro che estraniarsi temporaneamente dal giuoco per poi tentare di tornare a galla a tempo debito; di trasformisti pre-fascisti, che, estranei dal potere per circa un ventennio, temono di errare nuovamente, cosi come errarono nel 1922; e di trasformisti post-fascisti, cioè di ex antifascisti senza fede e senza idee, che non desiderano altro che collocarsi in qualche punto strategico per esigenze personali.
Ed al disotto, frantumata dalla mancanza delle comunicazioni, resa diffidente dal clamoroso fallimento delle classi dirigenti, stanca di aspettare e di soffrire, la massa muta e silenziosa.
Nessuno può dire ancora se questa massa assente e paralizzata sia disposta a restare oggetto del solito processo personalista, oppure precipiterà con fragore verso quei partiti e quei gruppi che la invitano ad uscire dal torpore per far valere i suoi innegabili diritti. Ma nessuno - tanto meno i trasformisti - può essere sicuro a priori che sia disposta a battersi per riprodurre l'ancien régime.
Al massimo si può prevedere che continuerà a restare indifferente ed apatica fino a quando la lotta sarà decisa nell'Italia del Nord.
Ma questa situazione - che ha indubbiamente impedito il crollo del regime nei mesi scorsi - non potrà non avere future ripercussioni, perché è la prima volta nella storia politica dell'Italia unificata che il Mezzogiorno d'Italia esprime minoranze rivoluzionarie e che il fondamentale trasformismo del paese è costretto a restare inerte, senza poter partecipare alla difesa del regime, ormai compromesso e discreditato.
E, qualunque possa essere in futuro lo svolgimento della crisi, questo fatto è destinato ad avere capitale importanza, poiché è da ritenersi assiomatico che nessun compromesso sarà possibile se il Mezzogiorno sarà in subbuglio.
Questo, dunque, il panorama della lotta, e quanto più sarà approfondita la crisi del sistema, tanto più sarà possibile distruggere anche sullo scacchiere meridionale le basi dello Stato storico. Perciò io non mi stanco di pro-spettare ai politici di buona volontà le difficoltà in cui si trovano i loro avversari.
Soltanto se gli uomini, che oggi dirigono i grandi partiti rivoluzionari, avranno una visione precisa, direi quasi scientifica del fenomeno, sarà possibile lo sbloccamento di una particolare situazione politica che è una delle più inuicate di Europa.
E poi occorre una grande passione, quella passione che può nascere soltanto quando ci si trova in presenza di una grande ingiustizia. È vero che i difetti di una classe dirigente non possono essere prospettati in termini etici, perché essi sono prima ancora difetti delle masse, che li tollerano, ma se coloro che lotteranno per aprire gli occhi al popolo non avranno l'animo infiammato da una grande passione, la loro azione è destinata a rimanere sterile.
L'essenziale è che vi sia un minimum su cui far leva, e questo minimum è dato dallo stesso sviluppo del processo storico nazionale e da una serie di fattori concorrenti che non rendono cosi disperata la situazione di chi si accinga a lottare.
Non che il personalismo meridionale sia oggi moribondo ed un'ondata di eversione alimenti le fiamme di quell'incendio ideale che abbiamo sempre sognato.
Tutt'altro! Come già ho detto esso cova sotto le ceneri e le deficienze ataviche sono in agguato per riattizzarlo. Ma il meccanismo è notevolmente arrugginito e non funziona più come prima: soprattutto i fattori che una volta costituivano un vantaggio, sembrano oggi essersi trasformati in svantaggi.

Infatti a chi approfondisca l'argomento deve apparire evidente che è più facile far funzionare un onesto sistema politico che un'adulterazione trasformistica, poiché, questa ha bisogno di un'organizzazione statica e non ha l'elasticità sufficiente per seguire in velocità l'andamento dei periodi rivoluzionari.
In buona sostanza, un efficiente sistema personali sta ha il costante bisogno di illudere gli elettori che la compagine elettorale non subisce alcuna violenza e che perciò i rappresentanti sono veramente gli eletti del paese. Donde la necessità che tutta l'evoluzione politica proceda a velocità minima, in maniera da permettere ai dirigenti di seguirla agevolmente, quasi fosse una naturale evoluzione di pensiero. In tal modo, mentre gli elettori non arrivano mai ad accorgersi di essere oggetto di un continuo e mai attestato processo di compromesso, gli eletti non perdono il contatto con i vari governi che si succedono al centro. L'ideale del trasformismo meridionale è stato, perciò, e continua ad essere, la dittatura parlamentare giolittiana, sia perché la sua stabilità era quasi assoluta, sia perché non richiedeva quei sacrifici di prestigio personale che l'inconseguente regime fascista impose poi ai suoi adepti.
Ma il personalismo meridionale si è logorato attraverso venti anni di fascismo, e non è stato privo di conseguenze il fatto che Benito Mussolini si sia divertito a mandare nelle province meridionali segretari federali ripescati in tutti gli angoli d'Italia. A furia di battere, la sua principale molla si è spezzata, ed il popolo, mentre si è abituato li vedere i suoi leaders più famosi andare mendichi per le strade in cerca di quella protezione che prima erano usi accordare, ha avuto più di un'occasione per deridere e disprezzare i nuovi capi fascisti dei quali la nullità e la sicumera politica gli ha ispirato soltanto lo schifo.
Ora si vorrebbe tornare daccapo e rivarare una docile classe dirigente meridionale, che si contenti soltanto del dominio sui comuni e sugli enti locali e lasci agli immutati padroni dello Stato il compito di tracciare le nuove direttive politiche che mantengano immutato il loro effettivo dominio.
Ma i trasformisti classici, quelli, cioè, che non facevano trapelare la sostanza del giuoco, sono semidistrutti, ed anche quei pochi che sono sopravvissuti alla catastrofe non sanno più da qual punto ricominciare.
Soprattutto hanno paura di sbagliare, e questa paura attanaglia le loro menti ed i loro cuori. Sostanzialmente essi non nutrono più fiducia nell'oligarchia che li abbandonò nel 1922 nelle mani inesperte di Benito Mussolini, e temono di arrivare troppo tardi. .. o troppo presto!
Ve ne sono alcuni che portano ancora nell'animo la ferita cicatrizzata di quel tragico 1925, quando la loro fede nel regime fu amaramente delusa dall'ultimo colpo di Stato, che frantumò nelle mani di tutti le speranze dell'avvenire.
E poi non hanno discepoli ed il segreto dei loro successi è destinato a discendere con loro nella tomba. Per quanto ce ne siano parecchi ancora in vita - ed è, dal punto di vista nazionale, una vera disgrazia! -la gioventù non comprende più il delicato meccanismo di cui si servivano e nega ogni valore al virtuosismo di cui per tanto tempo si compiacquero. La stessa gioventù trasformista è oggi più semplicista e si avvale di schemi mentali più elementari. Le basta iscriversi ad un partito che sembra possa vincere e non pensa più alla raffinatezza di tenersi fuori da tutti i gruppi politici per tentare di trovarsi sempre al traguardo insieme al vincitore.
Il capolavoro meridionale, il vecchio deputato giolittiano, salandrino, sonniniano e mussoliniano, sempre pronto a giustificare in nome dei supremi ideali nazionali, tutte le politiche, è oggi all'estremo delle forze, e bisognerebbe imbalsamarne qualcuno per conservarlo nel Museo Tussaud a glorificazione del fenomeno.
È vero che la politica interna dell' AMG non ha fatto altro che incoraggiare la ripresa trasformista, ma a chi esamini attentamente la ragione intima delle cose, non potrà non apparire che sostanzialmente essa ne ha agevolato l'esaurimento, perché il rapido susseguirsi dei comandanti militari locali ha finito per accentuare l'insicurezza dell'avvenire.

In sostanza, l'attuale politica antifascista e le incertezze del domani ostacolano quel passaggio in blocco che costituiva la caratteristica principale del sistema, e non è dato vedere in quale momento del futuro diagramma evolutivo della politica nazionale potrà verificarsi la condizione necessaria perché la saldatura personalistica possa avvenire. È, invece, probabile che, divisi nei singoli apprezzamenti temporali, i trasformisti esauriscano le loro residue possibilità o in errati interventi oppure in parimenti errate astensioni.
Ma, se la crisi del sistema è innegabile, esiste un'élite meridionalista con idee chiare e perfetta consapevolezza? Oppure la nuova élite, anche senza riprodurre esattamente gli schemi del passato, lascerà passare questo prezioso momento storico e si farà battere irrimediabilmente?
Le difficoltà saranno sovrumane, la lotta contro il trasformismo non dovrà aver quartiere, e coloro che vi si dedicheranno, dovranno avere gli occhi aperti per scrutare sul nascere le inevitabili deviazioni dei partiti storici verso la creazione di nuove fonti di squilibrio a danno del Mezzogiorno.
Ma il giuoco politico non appare più così avverso come per il passato, e se gli uomini non saranno assolutamente inferiori alloro compito, offrirà sempre maggiori carte a coloro che si voteranno al nuovo destino.
Fattori italiani e fattori europei renderanno possibile rimuovere gli ostacoli che finora hanno impedito l'industrializzazione dell'agricoltura meridionale, e la dilagante sfiducia nell'azione dello Stato rafforzerà lo spirito d'iniziativa individuale ed arresterà il costante drenaggio dei capitali di cui l'Italia meridionale ed insulare ha sofferto durante la sua ottantennale esperienza unitaria.
Ormai la lotta contro lo Stato burocratico-accentratore si impone ed è probabile che le nostre masse siano disposte ad intenderne la portata. Quando la mostruosa inflazione in atto avrà terminato di espropriare quella miserabile classe dirigente meridionale, la cui unica fatica consisteva nel tagliare le cedole del Consolidato, si potrà sperare che i nuovi risparmiatori intenderanno a pieno la lezione, e vorranno impiegare il danaro in operazioni di trasformazione agricola, escludendo il prestito allo Stato, che quasi sempre si traduce in un'operazione in perdita.
Lungi dall'essere un danno, il fallimento dello Stato finirà per essere un vantaggio, poiché si eliminerà dal posssesso della ricchezza una classe che viveva di vita parassitaria, e non sentiva le sue responsabilità sociali.
Occorre però un'élite anche poco numerosa, ma che abbia idee chiare e sia spietata nella sua funzione critica. È finito il tempo dell'apostolato individuale, ed i Fortunato, i Salvemini, i De Viti De Marco possono tenersi paghi del primo lavoro di ara tura, compiuto tra la indifferenza universale, in epoche così tristi che il cuore ci si riempie di sgomento.
Se il Mezzogiorno, in un supremo sforzo creativo, organizzerà questa minuscola élite senza paura e senza pietà, la lotta potrà essere lunga, ma l'esito non sarà dubbio, poiché tutta la storia italiana non è altro che il capolavoro di piccoli nuclei che hanno sempre pensato ed agito per le folle assenti.
Ma se la gioventù meridionale - questa mirabile gioventù così assetata di giustizia e di verità - spronata dalla miseria, che è divenuta pungente, ed avvilita da tante sventure, non sentirà il pungolo della resurrezione e riprenderà, triste e scorata, la dolorosa via dei piccoli impieghi e della dedizione allo Stato violento ed accentratore, allora anche i pochi semi che sono nati per caso sull'arido terreno del Mezzogiorno saranno sommersi, e nuovi sistemi di compressione e di sfruttamento risorgeranno dalle ceneri ove ora sembrano sepolti.
Certo è difficile prevedere il futuro, e la penna si arresta esitante sul confine della speranza, ma, in questa nuova primavera della patria troppi cuori sono aperti e disposti ad accogliere le supreme verità e non è follia abbandonare l'animo ad una visione meno pessimista dell'avvenire. A questo punto una folla di problemi si affaccia alla mente del politico e sono tutti di capitale importanza. Come sbloccare la situazione del Mezzogiorno, se essa tende a riprodursi automaticamente per il gioco di fattori naturali, che, se hanno perduto di vigoria, continuano tuttavia a sussistere? Ed, una volta ottenuto qualche successo, lungo il doloroso calvario che ancora ci attende, come continuare l'opera intrapresa? Attraverso quali miti e quali formule riuscire ad avviare la soluzione?

Naturalmente, a tutte queste domande non è possibile rispondere a priori, e specialmente in una prefazione, che già comincia ad eccedere i limiti ordinariamente assegnati a simili composizioni. Un compito storico di questa mole non può essere svolto che dal lavoro per lo meno di una generazione, ed un povero scrittore non può che tracciare grandi linee e niente altro.
Ma gli argomenti accennati sono troppo seducenti per non meritare qualche rapido cenno, ed il lettore di buona lede è invitato a collaborare.
Anzitutto è necessaria l'intransigenza più assoluta, e coloro i quali sostengono che il personalismo può essere combattuto a poco per volta, e che, frattanto, si possono il cogliere i trasformisti nei nuovi partiti per educarli alle nuove idee, hanno la stessa intelligenza del cafone che riscaldò la vipera nel seno, e, perciò, non fanno altro che preparare nuove sciagure al nostro paese.
Qui non si tratta delle solite differenze programmatiche che dividono formazioni affini, ma di concezioni diametralmente opposte di tutta la vita politica, di opposte mentalità, che non possono umanamente conciliarsi; e, perciò, il primo requisito che deve caratterizzare i partiti antitrasformisti è lo spirito domenicano non solo nei rapporti interni, ma anche nei rapporti interpartito.
Il trasformismo, in sostanza, è una malattia dell'intera classe dirigente meridionale, è un vizio del sistema politico italiano, e, per combatterlo, occorre sradicare le cause del male.
E come, per distruggere la malaria, non basta ingoiare numerose pasticche di chinino o chiudere tutte le aperture della abitazione con fitte reti, ma occorre bonificare l'intero paesaggio, così, per combattere il trasformismo, non basta proclamarsi antitrasformista, ma occorre agire potentemente per distruggere l'intero sistema e procedere alla generale bonifica del paese.
Bisogna, quindi, rivolgersi direttamente alle masse e far leva su di esse, poiché tutto il lavoro di sbloccamento della situazione consiste nel dare coscienza agli umili, e trasformarli da oggetto inconsapevole del vecchio baratto trasformista in soggetto della nuova politica autonomista.
Questo lavoro di sbloccamento, però, non è facile. Esso dev'essere compiuto prevalentemente dal basso, ed il compito dei nuovi partiti è quello di completare i risultati del Risorgimento, facendo aderire le masse meridionali allo Stato. Solo attraverso un lavoro cosi nobile e cosi fecondo sarà possibile operare la saldatura tra il primo ed il secondo Risorgimento, tra la rivoluzione nazionale e quella democratica, e pervenire ad una sistemazione oolitica generale che costituisca la premessa indispensabile per avviare il nostro paese a godere di tutti i vantaggi dell'autogoverno.
Se ciò avverrà ed il passato sarà sepolto non solo nella retorica ufficiale, ma nella coscienza storico-politica del popolo, il periodo tra il I860 ed il I943 potrà alfine apparire quale veramente è: una parentesi nel seno del Risorgimento, il quale, iniziato si con la battaglia per l'unificazione e l'indipendenza nazionale, è destinato a concludersi con la piena espansione politica del nostro paese.
Allora soltanto pseudoliberalismo, pseudodemocrazia e fascismo, collegati tra loro da un filo sotterraneo ed originati dalle stesse cause, appariranno come tappe dolorose ed inevitabili di un lungo processo storico, che, iniziatosi nel I831, con la prima predicazione mazziniana, si concluderà, dopo piti di un secolo, con la piena maturità del popolo italiano e con la sua capacità di servirsi di quel delicato ma prezioso strumento che è il partito politico, organo indispensabile per assicurare al paese il perfetto ricambio della classe politica e la circolazione delle élites.
L'ultimo ostacolo che ormai sbarra il passo in questo lungo e doloroso cammino è il trasformismo meridionale, e lo sbloccamento della situazione politica del Mezzogiorno appare come un dovere nazionale. Ma non nel senso tradizionale che si attribuisce a questa locuzione; nel senso, cioè, problemistico e caritativo, adottato da tutti i governi, succedutisi finora al potere.
No, il Mezzogiorno non ha bisogno di carità, ma di giustizia: non chiede aiuto, ma libertà. Se il Mezzogiorno non distruggerà le cause della sua inferiorità da se stesso, con la sua libera iniziativa e seguendo l'esempio dei suoi figli migliori, tutto sarà inutile, perché paternalismo e traasformismo sono facce dello stesso fenomeno, e dopo il rinnovellato trionfo del primo il secondo rifarebbe capolino.
Definire dovere nazionale la resurrezione del Mezzogiorno non significa, dunque, che il nuovo Stato dovrà riparare materialmente i danni che lo Stato storico ha recati al Mezzogiorno. Significa, invece, che la politica trasformista dev'essere abbandonata anche dall'alto e che il nuovo Stato deve smobilitare il suo apparato di prefetti, di questori e di aguzzini, che da ottant'anni non fa altro che oltraggiare e distruggere sul nascere le libere iniziative del popolo meridionale. Significa capovolgere interamente la tradizionale politica interna dello Stato italiano nei confronti del Mezzogiorno, modificare le vecchie strutture e creare le nuove strutture economico-politiche e politico-istituzionali entro le quali il Mezzogiorno potrà liberamente articolare le sue forze e tentare di accrescerle.
Qual è, dunque, il compito dei partiti antitrasformisti, che hanno contribuito a formare il gabinetto di coalizione che ora governa l'Italia? La risposta è assai semplice e deriva dalla natura delle cose: esigere che lo sbloccamento dell'intera situazione politica meridionale abbia luogo anche dall'alto.
Se l'intero processo trasformistico consiste in un continuo lavorio di adesione al governo delle rappresentanze del Mezzogiorno, sicché queste appaiono governative a vita, e possono cosi giovarsi di tutto l'apparato statale per contrastare vittoriosamente gli sforzi che le opposizioni fanno per liberare il paese dalla schiavitù in cui è tenuto, è chiaro che basta tagliare questo rapporto istituzionale alla base ed alla sommità, perché, in poco volgere di tempo, il personalismo sia superato e la vita politica meridionale possa avviarsi lungo le rotaie della modernità.
Ora, non sembra che gli attuali partiti italiani, compresi quelli che concordano con le idee svolte in questo scritto, posseggano in pieno i termini del problema. Ciò spiega perché, mentre l'attuale governo è un gabinetto di coalizione, non svolge politica interna antitrasformista e continua ad attardarsi lungo le vie del passato.
lo mi rendo conto che si deve evitare di rompere la concordia nazionale, ma guai se il rilievo sopra svolto fosse conseguenza di deliberazione cosciente! Preferisco, invece, ritenere che, nella fretta della costituzione del governo, non sia emerso questo fondamentale profilo della situazione. Perché, in caso opposto, dovrei concludere che i partiti antitrasformisti si espongono al disastro per una sadica voluttà di suicidio, e che essi, perciò, non sono all'altezza del compito storico loro assegnato.
Quando, per effetto della loro piena collaborazione, e più per questa che per altro, apprezzabili risultati saranno raggiunti nel campo della politica estera, e quando i nostri valorosi «partigiani», che appartengono interamente ai partiti rivoluzionari, saranno stati smobilitati e riassorbiti nel paese, la reazione monarchica, che è all'agguato, tenterà di prospettare la nuova situazione, che ne risulterà, come un merito della conservazione anzi della reazione nazionale.
Allora soltanto i partiti antitrasformisti si accorgeranno dell'errore di aver collaborato senza condizioni, di non avere imposto a tempo i necessari mutamenti di politica interna, e di non aver profittato dell'occasione favorevole per distruggere gli avversari.
La politica, nelle sue grandi linee, segue la logica delle occasioni sfruttate o perdute, e queste ultime costituiscono il passivo più terribile per i partiti ed i loro dirigenti.
È inutile illudersi di poter fare domani quello che si deve fare oggi. Domani sarà troppo tardi. E mentre scrivo tutta la questione meridionale sta attraversando una di quelle grandi occasioni storiche che non si ripeteranno mai più.
Che cosa aspettano, dunque, i partiti antitrasformisti per impostare in seno al governo la grande questione nazionale e pretendere quello sbloccamento dall'alto che completi ed accentui lo sbloccamento dal basso, già felicemente avviato? Oppure è fatale questa idiosincrasia dei partiti unitari ad intendere le esigenze politiche del Mezzogiorno?
Perciò i veri meridionalisti, che, in questa nuova alba della nostra libera vita politica, hanno aderito ai partiti unitari, debbono attentamente vigilare e non perdere il controllo della situazione. Soprattutto debbono tenersi pronti per «il secondo tempo» meridionalista, la cui ineluttabilità si presenterà quando gli attuali gruppi unitari, nell'immancabile sforzo di divenire partiti di governo, si accingeranno a tradire le speranze del Mezzogiorno.
Il nostro paese è contornato da troppi nemici ed esposto ad infiniti pericoli: dalla rinascita del trasformismo alle deviazioni dei partiti unitari, corre tutta una gamma di situazioni intermedie attraverso le quali un nuovo compromesso antimeridionale può facilmente sboccare.

Occorre, dunque, che i gruppi meridionalisti, esistenti nei partiti unitari, si tengano in contatto per non restare sorpresi dagli avvenimenti. Forse la spinta alla costituzione del Partito meridionale d'Azione verrà dall'esterno, ma gli animi vi debbono essere preparati.
Consapevolezza storica e consapevolezza politica sono gli imperativi dell'ora e, se ogni sforzo sarà fatto per diffondere tale consapevolezza nelle masse, è probabile che il miracolo avverrà.

Avellino, 17 settembre 1944

PARTE PRIMA
Gli aspetti storici della politica italiana

Il Risorgimento e la conquista regia

Il fallimento ideale del Risorgimento.

La storia del Risorgimento italiano è ancora da scrivere. Troppo ha gravato su questo genere di studi l'ossequio :d fatto compiuto e l'insufficienza di generazioni, immiserite dal fallimento di ogni sforzo ideologico per giustificare la realizzazione dell'unità nazionale.
Tuttavia alcuni scrittori, con quel caratteristico genio degli italiani di intuire di slancio alcune idee centrali, hanno tentato la sintesi senza aver compiuto l'analisi, hanno cercato di penetrare il meccanismo interno della formazione unitaria senza aver fatto il processo ad ogni momento di essa.
Taluno movendo dal fallimento delle ideologie federaliste repubblicane (Cattaneo, Ferrari) e da un romanticismo neoimperiale (Oriani) talaltro, invece, prendendo le mosse dal liberalismo classico (Missiroli, Gobetti) e dallo stesso processo di sviluppo del socialismo nazionale (Salvemini), talaltro, infine, risalendo alla mancanza di una riforma religiosa (Missiroli, Gangale), hanno tentato tutti di misurare le soluzioni storiche al lume di principi ideali per determinarne le incomparabili deficienze.
Ma anche tra essi vi è un residuo teorico comune che è conosciuto nel mondo della dottrina con la frase comprensiva di conquista regia.

La conquista regia.

La caratteristica essenziale del nostro Risorgimento è costituita dal dissolvimento di tutte le correnti ideali, che si disputarono la direttiva della rivoluzione, nel grigio incedere della conquista piemontese.
Lo Stato non si formò negli animi dei cittadini, per poi affiorare, a mano a mano che la maturazione si completava, ma si estese dal Piemonte alle altre regioni italiane, attraverso una serie di aggiramenti, di compromessi, di accorgimenti, che appiattirono la conquistata indipendenza, e scoprirono l'assenza del concetto di libertà come principio rivoluzionario.
Il risultato di questo processo fu, dunque, uno Stato piemontese territorialmente più vasto, ma, come ispirazione ideale, egualmente angusto. Anzi la continua necessità di transazione con i ceti dominanti degli ex Stati ne restrinse sempre più l'ispirazione ideale.
Ne derivò una conquista grigia, fredda, uniforme, che, a mano a mano che progrediva, lasciò insoluti tutti i dati ideali della rivoluzione: la libertà, le autonomie locali ed i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, campo classico ove si saggiano le limitazioni della libertà.
Il meccanismo della conquista fu quello di evitare, di eludere le soluzioni ideali, per stendere su di esse il velo della transazione politica.
Cosi la monarchia dimostrava di temere la spinta della rivoluzione, per impedire che questa, trasportando gli animi in atmosfere più fortemente ossigenate, rendesse inuutile il suo grigio intervento.

Di qui, anche dopo l'unificazione, la necessità delle continue transazioni con la rivoluzione, ogni qual volta questa tentava di rimettersi in marcia, transazioni finora riuscite per la profonda immaturità politica delle masse italiane e per la scarsa zona di risonanza dei tentativi rivoluzionari.

La politica di Cavour.

Cavour fu il grande ministro di questa politica, il realizzatore per eccellenza.
Egli fu l'avversario più deciso delle correnti rivoluzionarie espresse dal travagliato spirito nazionale. Fedele ministro del suo re, egli pose quei dati storici della conquista regia che gli anni successivi più ampiamente svilupparono.
Cosi s'iniziò quel processo di eviramento della rivoluzione mercè le transazioni personali con i capi, che costituì l'insegnamento più duraturo del grande ministro nella isola unitaria italiana. Servendosi delle peggiori caratteristiche della razza, quali la debolezza nella fede e l'amore eccessivo per il comando, Cavour tentò spegnere ogni intransigenza ideale, che avesse potuto maturare, per lo meno nelle élites, una più accesa passione per la libertà, isolò gli uomini che si rifiutavano tenacemente di aderire al suo sistema, affogò, nello stretto circolo di conservazione della monarchia piemontese, l'incendio romantico del Risorgimento.
Gli storici regi lo giustificano rispondendo che l'immaturità delle masse ed il compito demiurgico, cui egli si accinse, non comportavano altre soluzioni. Ma per noi è preterintenzionale ogni ricerca, che ecceda i freddi dati obiettivi, senza dei quali ogni comprensione degli ulteriori sviluppi è vietata.
Anzi, tanto più ci sembra rilevante l'esame dei dati obiettivi, quando si possa provare esatta l'affermazione degli storici regi, perché non è nostro compito, in questa sede, fare il processo al genio politico del conte di Cavour, ma rilevare quelle caratteristiche essenziali della sua azione che debbono servirci a comprendere - pure a cosi lunga distanza di tempo - gli avvenimenti odierni.
Perciò non ci sembra di dover dimenticare che Cavour insegnò alla monarchia il metodo attraverso cui distruggere i fermenti rivoluzionari, che, riprendendo la marcia, interrotta nel 1860, avessero preteso, anche dopo l'unificazione, alterare i dati storici della conquista piemontese.

La monarchia socialista.

Questo metodo costituisce ormai il sistema di governo dello Stato italiano ed ogni fenomeno politico può essere ricondotto ad esso od alle sue reazioni.
Di tanto in tanto alcuni ministri hanno preteso stac-carsene O la marea, montante nel paese, ha dato l'impressione di sommergerlo; ma non è passato gran tempo che, all'infuori delle passioni contingenti, esso è nuovamente emerso e si è avuta la prova che era stato, pur nel silenzio della storia, sicuramente operante.
Perché la verità è sempre la stessa: l'unica contrapposizione dialettica esistente è quella tra conquista regia e rivoluzione, tra soluzione storica e necessità ideale. E la rivoluzione, o che sia bandita in nome della classe, o che sia fatta in nome della Nazione, o che sia desiderata in nome della libertà, è sempre diretta a placare una delle necessità ideali rimaste insolute nel processo formativo dello Stato italiano, e perciò implicitamente rivolta contro la conquista regia.
Ma, attraverso queste antitesi, avviene un giuoco di interesse eccezionale, perché è fenomeno comunissimo nella nostra storia unitaria che forze di provenienza rivoluzionaria siano adoperate in funzione della più gretta conservazione, e forze, così dette conservatrici, lavorino in senso sovvertitore.
Tutto ciò dipende da una parte dall'immaturità generale del paese e dall'altra parte dal fatto che i politici italiani non si rendono esatto conto di tale antitesi ed agiscono come se fossero in grado di svolgere una politica autonoma.

Il più probante esempio di questa verità ci è fornito dalla storia del Partito socialista italiano, che lentamente, attraverso il giuoco dell'intervenzionismo statale, si lasciò aggiogare al carro del giolittismo. Così forze di origine schiettamente liberali, elaborate direttamente dal paese, furono saldate al sistema imperante attraverso il connettivo economico, senza che esse stesse si rendessero sufficientemente conto di questa verità. La critica salveminiana a questa peculiare posizione del socialismo italiano non ebbe vaste risonanze in seno al partito e valse, tutt'al più, ad alimentare lo spirito di nuove élites che al socialismo non appartennero mai.
Per lungo tempo Salvemini sembrò un estraneo a tutti i politici italiani, perché questi aderivano al sistema giolittiano, anche quando sembravano avversarlo.
Ed in effetto, quando le opposizioni non fondino la teoria e la prassi su impostazione radicalmente nuova, finiscono per aderire implicitamente alle maggioranze e si autodefiniscono come opposizioni di comodo.
Se tale precisamente non fu la posizione del PSI, tuttavia esso entrava cosi vivamente nel giuoco della dittatura giolittiana da giustificare la concezione missiroliana della monarchia socialista.
Eppure nessun movimento più di quello socialista avrebbe potuto infrangere il metodo tradizionale per tentare di costringere il regime al giuoco dei partiti moderni.
Ma tale movimento, senza soluzioni critiche della questione italiana (che invece Salvemini cominciava ad elaborare come materia antisocialista) dominato da spirito insurrezionista, per quanto costituito di accortezze riformiste, era esso stesso un esempio vivente della insufficienza italiana alla creazione del partito moderno.
La sua azione contro il regime, dunque, non poteva arrivare al cuore, ma doveva necessariamente limitarsi all'epidermide.

Il sistema delle dittature personali.

Queste considerazioni spiegano a sufficienza perché il nostro paese non poté altrimenti essere governato che attraverso le dittature personali. Dopo aver limitato il giuoco dei partiti, anzi dopo aver intuito che esso è potenzialmente diretto a rompere il circolo tradizionale della conquista regia, lo Stato italiano dovette, volta per volta, fondare la sua speranza di conservazione sull'abilità personale dei primi ministri e sulla capacità di adesione, più o meno estesa, che essi manifestavano al sistema tradizionale.
Cosi i governi italiani furono un quid medium tra il cancellierato germanico ed i gabinetti parlamentari, essendo la sovranità rappresentativa riconosciuta sol quando non eccedeva i dati storici della conquista regia, anzi meglio quando si prestava compiacentemente a nasconderli dietro la parvenza di un giuoco politico autonomo.
Da ciò, conseguentemente, nacque lo scarso ossequio per il Parlamento, anzi il tentativo di paralizzarne le funzioni ogni qual volta ostacolavano le transazioni del regime; il prepotere della stampa, avvelenatrice della pubblica opinione, sovvenzionata da scarsi gruppi finanziari per la difesa d'interessi particolari; la durezza della repressione dei moti popolari, sol che fossero animati da un anelito di libertà, e l'abuso della piazza quando si trattava, invece, di vincere resistenze legalmente manifestate. Ne risultava, quindi, un sistema politico, che non aveva un vero e proprio centro di stabilità, che assumeva diverse fisionomie, secondo le vicende della lotta, che doveva vivere continuamente di espedienti, sempre più necessari e sempre più numerosi a mano a mano che il paese progrediva verso forme più alte di maturazione civile. Un sistema che ha sempre richiamato ed ancora richiamerà l'attenzione degli studiosi per i suoi continui mutamenti.
E, infatti, se nell'ordinato svolgimento della lotta politica presso le nazioni che hanno raggiunta la piena maturità del regime liberale, può taluno trovare motivo di conforto spirituale, nessuno si meraviglierà se io affermo che dal punto di vista critico i regimi preliberali, come l'Italia, offrono tale varietà di combinazioni da riuscire di gran lunga più interessanti della fredda meccanicità dei primi.

Ma, quando il critico ha scoperto il filo conduttore e lo ha denudato agli occhi del lettore, non potrà non apparire a quale specie di espedienti il regime è costretto a ricorrere sotto la spinta del suo istinto di conservazione, quale grado di immaturità svelino invece i partiti di opposizione.

La nuova conquista regia attraverso le masse.

In verità è questa la constatazione ultima cui ogni esame della lotta politica in Italia deve condurre: constatazione che sola può, quando sia generalizzata, suggerire il rimedio opportuno.
La conquista regia fu possibile tra il '48 ed il '70 perché la rivoluzione italiana fu opera di minoranze contro od in assenza delle maggioranze.
L'assorbimento delle opposizioni, quindi, non doveva essere molto difficile, sia perché erano ristretti gli interessi in giuoco, sia perché le opposizioni stesse non erano eccessivamente incoraggiate sul terreno dell'intransigenza ideale dall'assenza delle masse.
Però, a mano a mano che queste vengono immesse nella vita pubblica dall'azione elevatrice del progresso economico e culturale, se crescono le possibilità del giuoco transattivo, nella prima fase dell'apporto, per l'immaturità dei nuovi venuti, che vengono utilizzati dal regime in una opera di contrapposizione ai ceti già maturati, a lungo andare non dovranno tardare ad apparire le benefiche conseguenze di questo fatto liberale.
È necessario, però, non perdere mai di vista i concetti che abbiamo tratteggiato per non commettere il facile errore di esaltare movimenti, che, in prosieguo di tempo, si è costretti a sconfessare! Molti italiani, in perfetta buona fede, hanno avuto continue crisi di coscienza, appunto per questa ragione.
Occorre convincersi che la conquista regia continua ancora imperturbabile, riproducendo i suoi schemi e le sue soluzioni, e che, quando taluni strati della popolazione italiana hanno dimostrato di essere pervenuti ad un certo grado di maturità e, perciò, si avviano a reagire ai sistemi di dittatura personale, vi sono sempre vaste riserve su cui fare leva per ripetere il giuoco tradizionale.
Se si vuole, quindi, uscire una volta per sempre da questo mortificante sistema politico occorre conoscerne a fondo la natura per determinare i punti di leva per l'azione politica.
Questo libro si propone di schematizzare l'applicazione del giuoco in quest'ultimo turbino so periodo della storia italiana, di mostrare, attraverso la natura delle opposizioni, come esso tenda a riprodursi, ed infine di chiarire quando e con quali mezzi la rivoluzione italiana, avviandosi a risoluzione, potrà uscire dal cerchio ristretto della conquista regia, per entrare nel più vasto respiro della rivolta ideale.
Forse la preparazione storica dell'autore ed il suo senso critico non sono adeguati ad un compito cosi vasto, ma egli si lusinga più di approntare materiale di osservazione per gli altri che conclusioni definitive per sé.

II CONSERVAZIONE E RIVOLUZIONE ANTEGUERRA

Il giolittismo nell’anteguerra
All'inizio della grande crisi europea, provocata dagli ultimatum austro-tedeschi, le condizioni politiche italiane si trovavano consolidate nel giolittismo, che dominava il paese, adottando volta per volta le soluzioni minime che gli elaborava il riformismo socialista.
Attraverso la politica dell'abile uomo di Stato piemontese la monarchia si era fortemente consolidata e sperava di riposare, per qualche lustro ancora, nella dolce quiete dell'equilibrio europeo all'estero e del socialismo di Stato all'interno, mentre i partiti di opposizione avevano abbandonato da lungo tempo ogni critica al regime.
Fu per ciò che allo scoppio della guerra tutti gli italiani ebbero l'impressione di essere lanciati improvvisamente nel vuoto.

Si apriva, infatti, una di quelle epoche in cui, dovendosi richiedere a tutte le classi sociali il massimo sforzo, vengono alla luce le deficienze dei regimi e si rimette in discussione lo stesso processo di costituzione dello Stato.
Il senso di disorientamento che colse il paese trovò, perciò, giusta espressione nella dichiarazione di neutralità, che, suggerita da ragioni di politica estera, riusciva di grande utilità anche allo sviluppo della politica interna.
Ma, se la dichiarazione di neutralità valse a procurare un po' di respiro alle classi dirigenti, non attenuò lo sviluppo di quei fenomeni politici, che dai gravissimi avvenimenti, iniziatisi in Europa, derivavano come logica conseguenza.
Particolarmente grave era per la monarchia la decisione dell'atteggiamento da assumere nei riguardi della guerra in atto, perché, se essa si decideva per la neutralità, doveva temere che le correnti rivoluzionarie ripetessero il giuoco del Risorgimento di prospettare la monarchia come poco sensibile alle grandi questioni nazionali e preoccupata soltanto delle fortune dinastiche, e se, invece, essa si decideva per l'intervento, assumeva una terribile responsabilità rispetto alla maggioranza del paese semiassente ed effettivamente rischiava la corona.
Ma queste stesse ragioni che facevano perplessa la monarchia, suggestionavano le scarse forze operanti del paese che naturalmente cercavano assumere il più logico e deciso degli atteggiamenti, sia nei riguardi del regime propriamente detto, sia nei riguardi del giolittismo, che alcuni uomini politici credevano distinto ed indipendente dal primo.
Ne derivò, quindi, una complessa varietà di atteggiamenti che tradusse in forma veramente plastica le speranze e le delusioni del paese, il suo bisogno di elevazione politica ed il timore di perdere la conquistata prosperità economica.

Le forze antigiolittiane e la scissione socialista.

Cominciando, quindi, tale disamina, diremo che le forze antigiolittiane nel periodo prebellico si condensavano principalmente in due nuclei che, sotto un punto di vista superficiale, sembravano opposti ma, nella loro intima sostanza, erano simili, tanto vero che, in un successivo sviluppo di tempo, non tardarono a trovare il terreno comune per l'azione: il gruppo del socialismo antiriformista o rivoluzionario, capitanato, più che da altri, da Mussolini, ed i gruppi di opposizione costituzionale e nazionalista, facenti capo da una parte ad Antonio Salandra e Sidney Sonnino e, dall'altra, ad Enrico Corradini.
Comune finalità politica era la distruzione della dittatura parlamentare giolittiana; comune metodo di lotta conseguentemente la tattica antiparlamentare, sebbene gli uni si mostrassero pronti a trasportare le folle attraverso azioni extralegali e gli altri mirassero a creare, fin d'allora, il mito del paese contrario al Parlamento per giustificare i metodi di illegalismo messi in opera dai primi: divergenti invece erano le finalità più remote assegnate all'azione, perché, mentre gli uni favoleggiavano di rivoluzione sociale, gli altri affermavano di voler agire sul terreno della conservazione.
Siccome, però, era impossibile raggiungere i rispettivi programmi massimi, ne risultava comune il compito storico immediato.
Quando scoppiò la guerra europea e si cominciò a discutere, di fronte alle gravi ripercussioni internazionali che essa provocava ed alla possibilità di soluzione del problema irredentista italiano, della necessità di un nostro intervento nel conflitto europeo, le divergenze di finalità e di metodo non potevano non riprodursi, sia perché ogni gruppo possedeva una dogmatica politica propria, sia perché la guerra, presentandosi come fattore mondiale, rimetteva in discussione tutto il processo formativo dello Stato unitario italiano.
Fu, perciò, che il Partito socialista, che fin allora aveva offerta una formale compattezza di indirizzo, rivelò la sua doppia anima e si scisse in due correnti, che non tardarono ad assumere atteggiamenti antitetici.

Contribuì indubbiamente a tale scissione, oltre che la diversa valutazione del fatto mondiale della guerra e dell'atteggiamento dogmatico che nei confronti di esso doveva tenere il proletariato, secondo i sacri canoni dell'antimilitarismo allora di moda, anche la diversa posizione che da vario tempo avevano assunto nei riguardi della politica giolittiana le due ali in cui allora il socialismo italiano si divideva, per cui mentre la frazione rivoluzionaria era portata dal suo stesso istinto a tentare, attraverso l'aie a della guerra, la carta sovvertitrice, i riformisti della Confederazione generale del lavoro e gli ortodossi del verbo antimilitarista vedevano nel fenomeno bellico un serio pericolo per i miglioramenti economici conquistati e per la posizione di pseudo intellettualismo assunta dalle oligarchie da loro rappresentate.
Cosicché mentre i primi, aderendo ad una logica puramente formale e per niente permeata dalla realtà di formazione e di vita del movimento operaio italiano, si proponevano di scalzare il regime attraverso ed oltre la dittatura giolittiana; i secondi, convinti della realtà di formazione e di vita di tale movimento, temendo che la distruzione della dittatura giolittiana potesse rendere possibili ritorni padronali a carattere specificatamente reazionario, si attaccavano disperatamente al dogma antimilitarista, fiduciosi di far opera di conservazione entro uno schema verbale di sovversivismo.

Antigiolittismo borghese.

Parimenti i partiti borghesi venivano frazionati dalla lotta tra il giolittismo e l'opposizione costituzionale non soltanto perché, nei confronti della guerra, diversa poteva essere la posizione da assumere, ma anche perché, pure per la borghesia, ogni eventuale soluzione si prospettava in funzione di politica interna.
Infatti, era naturale che la Destra cosiddetta liberale e l'associazione nazionalista, da poco sorta, si rifiutassero di seguire il giolittismo imperante nella sua soluzione conservatrice e fossero tentati, dopo aver innestata la loro azione sullo schema dell'irredentismo di sinistra anche allo scopo di incontrare il giuoco monarchico nel suo secondo tempo di sviluppo - di distruggere le posizioni giolittiane e concorrere ad accendere ipoteca nel giuoco sovvertitore.
La natura di questo lavoro e la brevità dello spazio ci permettono soltanto di accennare, ma a chi attentamente esamini la posizione ideologica dell'interventismo nazionalista nel 1915 non potrà sfuggire questo mutuo di idee, già avvenuto nel decennio precedente, tra la Sinistra irredentista ed antidinastica e la Destra conservatrice.
L'irredentismo, durante trent'anni, era stato un motivo sovversivo, un motivo critico contro la monarchia, il tentativo, cioè, di dimostrare l'impotenza monarchica a risolvere tutto il problema nazionale. Ebbene, nel 1915 noi troviamo il bagaglio ideologico dell'irredentismo di destra a servizio dei gruppi che, in politica interna, erano agli antipodi degli inventori della critica irendentistica, adoperato a frantumare e distruggere quello stesso sistema di governo che la realtà italiana aveva fatto conseguire a placare e realizzare le idee politiche dei nazionalisti di sinistra.

Interventismo rivoluzionario.

E perciò nell'imminenza della guerra, secondo uno schema grossolano, che tuttavia presenta notevoli limiti di approssimazione, le forze politiche italiane si dividevano in quattro grandi gruppi, che giuocavano abbinandosi a vicenda sui due terreni della rivoluzione o della conservazione sociale attraverso il mantenimento o la distruzione della dittatura giolittiana.
Tali gruppi erano: I) interventismo rivoluzionario; 2) interventismo nazionalista-conservatore o monarchico; 3) neutralismo giolittiano-conservatore; 4) neutralismo rivoluzionario o, per meglio dire, socialista.
L'interventismo rivoluzionario, risultante dal conglomerato di alcune frazioni di sinistra del Partito socialista, e dalla quasi totalità del Partito repubblicano, intuiva, per quanto grossolanamente e senza sufficiente chiarezza teorica, che la guerra avrebbe richiesto uno sforzo collettivo cosi imponente da obbligare la dittatura giolittiana a logorarsi rapidamente; avrebbe determinato, cioè, una necessità di apporto di nuove forze, che, non potendo trovare sistemazione nei vecchi schemi politici, avrebbero potuto permettere non soltanto il sovvertimento della dittatura parlamentare giolittiana, ma altre si il sovvertimento dello stesso regime.
Questo - secondo l'interventismo rivoluzionario - risultava dal continuo assorbimento che il potere regio aveva operato di quasi tutte le scarse forze affiorate, durante il periodo giolittiano, alla vita pubblica italiana, forze che attraverso la transigenza, avevano perduto ogni autonomia, se pure avevano acquistato potere. Sicché, identificandosi il regime col giolittismo, sarebbe stato assai facile distruggere il primo dopo che al secondo si fossero mozzate le ali.
Quanto fosse esatto questo calcolo e quanto fosse contemporaneamente illusorio risulterà più chiaramente in seguito dallo stesso svolgersi dei fatti, che, confermando talune premesse iniziali e smentendone altre, ha imposto alla storia un diverso cammino.
Certo è, però, che l'interventismo di sinistra, mentre ignorò quasi del tutto la tradizione italiana in virtù della quale le guerre del Risorgimento furono sempre bandite dall'opposizione rivoluzionaria ed eseguite e sfruttate dal potere regio, sicché mai la prima potette giovarsene contro il secondo, anzi fu sempre costretta dopo a transigere, non tenne calcolo che nel giuoco di sfruttamento degli effetti della guerra avrebbe avuto altresì concorrente sleale e terribile il socialismo neutralista, verso cui l’indiscutibile immaturità politica italiana avrebbe fatto precipitare le masse in uno sforzo conservatore.

Interventismo regio.

Puntava contro la dittatura giolittiana anche l'interventismo nazionalista-conservatore o monarchico, risultante dal conglomerato delle forze cosi dette liberali di destra e dai nazionalisti, che si riportavano alla tradizione piemontese dinastica, per cui l'iniziativa dell'unificazione italiana doveva essere riservata alla casa regnante per impedire che il fattore nazionalista potesse essere sfruttato dai partiti rivoluzionari.
Contemporaneamente, accentrando, per le proprie finalità, il concetto della rivoluzionarietà della guerra, l'interventismo conservatore credeva di poter rivolgere le nuove forze, la cui maturazione sarebbe stata accentuata dal fatto bellico, contro la fortuna parlamentare di Giolitti.
E ciò anche in dipendenza di quell'elaborazione dottrinale del concetto dello Stato nazionale che allora cominciava, e che, agitando, al di sopra di ogni altro, il concetto della Nazione, intesa organicamente come ente a sé, e non come conglomerato degli individui che la compongono, mirava a distruggere quel poco di potere effettivo che al Parlamento la dittatura giolittiana aveva creduto lasciare, perché il popolo non fosse distratto dalle vie legali dell'urna e della scheda.
Cosi i conservatori del regime non temevano di abbracciare un compito sovvertitore, mettend03i in concorrenza con i rivoluzionari più veri e maggiori, pur di sboccare a forme politiche di vera e propria reazione sociale.

Neutralismo giolittiano.

Il neutralismo giolittiano invece partiva da una concezione eminentemente storica, e, perciò, nel senso più assoluto, conservatrice, in quanto, mentre intuiva che il fatto rivoluzionario della guerra costituiva un diretto attenuato alla propria sovranità, nutriva scarsa fiducia nella possibilità di riuscita della iniziativa monarchica per le realizzazioni nazionali.
Abituato a cercare nel chiuso di poche idee la soluzione dei problemi interni, rifuggiva, per temperamento, dall'immischiarsi nelle facc-ende dell'Europa turbolenta e convinto che il popolo italiano avesse già dato il massimo di espressione politica con la socialdemocrazia ad uso giolittiano e che, perciò, bisognasse concedergli il tempo ed il respiro per altri progressi, cercava nascondere ed ovattare ogni altro bisogno, che eccedesse il dato immediato dello sviluppo materiale, entro un velo di indifferenza, che in parte era calcolo ed in parte era anche incomprensione.

Però, non potendo opporre un'assoluta immobilità di fronte allo scottante problema irredentistico ed all'impulso proveniente da tutto un secolo di elaborazione del concetto di nazione, era costretto a prospettare esso stesso una soluzione di politica internazionale, che si racchiuse nel cosiddetto «parecchio».
Naturalmente, siccome i tempi erano maturi per altri destini ed in tutta Europa si era aperta una vera e propria crisi di civiltà, la formula giolittiana si presentava come la più debole, anche perché non riusciva a contraddire, anzi in parte ammetteva, le ragioni ideologiche, cui le due formule avversarie si innestavano.
Fu, perciò, che dopo lunghe esitazioni la guerra fu dichiarata malgrado che i consigli giolittiani suonassero assai bene alla maggioranza delle orecchie italiane.

Neutralismo socialista.

Quanto, poi, al neutralismo cosiddetto rivoluzionario, che trovò il suo migliore araldo nel socialismo ufficiale, non può non risultare evidente il carattere conservatore che ne costituiva la base, comune del resto al giolittismo di cui il socialismo delle cooperative e dei sussidi costituiva un non dissimulato satellite.
Però, per quella doppia posizione ideologica caratteristica del PSI negli ultimi anni, in virtù della quale mentre esso si presentava come rivoluzionario rispetto alla formazione politica dello Stato italiano, in effetti e per massima parte molto aspettava dalla azione di esso nel campo economico, il PSI mentre era interessato al mantenimento della dittatura giolittiana, credeva di fare atto di saggia politica preordinando la speculazione sui dolori e sulle conseguenze della guerra, e preparando così il terreno per il sovversivismo generico ed assurdo.
Concludendo, quindi, mentre rispetto alla dittatura giolittiana si abbinavano !'interventismo rivoluzionario con quello nazionalista contro il neutralismo giolittiano e socialista, rispetto al regime !'interventismo rivoluzionario si abbinava al neutralismo socialista contro il binomio interventismo nazionalista e neutralismo giolittiano.
Da questo schieramento contraddittorio ed assurdo non poteva nascere che il caos del dopoguerra.
Infatti, ognuno potrà facilmente rilevare che tutte le quattro correnti esaminate erano assolutamente fuori della questione italiana, fuori dei concetti di libertà politica e di giustizia tributaria che ne costituiscono l'essenza, e perciò in lotta tra loro solo per rappresentare le oligarchie parassitarie o trasformiste della nazione.
Quelle tra esse che avevano già aderito ai dati storici della conquista piemontese erano assolutamente impossibilitate ad assumere un compito rivoluzionario; quelle, invece, che pretendevano di elevarsi contro la tradizione monarchica erano lontane dall'ossatura della questione italiana e perciò prive di contenuto sostanziale. Se non avevano ancora transatto, erano destinate a transigere.
La riprova di queste verità si trova nel fatto che nessuna corrente politica ebbe di mira la questione del Mezzogiorno e tenne conto delle possibilità rivoluzionarie che ne derivavano.
Le quattro correnti politiche su descritte erano come delle anfore vuote pronte a contenere qualsiasi liquido.

III LA RIVOLUZIONE IN ATTO

Primi sintomi bolscevici
Durante lo svolgimento della guerra, la compressione militare, l'esistenza della censura e la permanenza sotto le armi di tutte le nuove generazioni, non potevano che ritardare lo scoppio del fenomeno rivoluzionario previsto nel 1915.
Tuttavia vi furono fatti, come la propaganda disfattista, che, affiorati improvvisamente all'epoca della sconfittta di Caporetto, gettarono strani barbagli di luce sulla psicologia delle masse italiane, e provarono che mentre la debolezza dello Stato unitario sempre più progrediva, nel paese si determinavano vaste correnti di agitazione rivoluzionaria.
Si manifestarono cosi i primi sintomi non solo del vasto temporale che si sarebbe scatenato poi, ma anche dell'indirizzo che la psicologia delle masse subiva.
Infatti, cominciava ad apparire fatale che lo scoppio della rivoluzione russa e le aspirazioni messianiche, di cui in quell'ora di orgia spirituale, tutti i proletariati europei erano narcotizzati, dovessero ben presto produrre ulteriori conseguenze.
Specialmente in Italia, poi, l'influenza bolscevica si preannunziava enorme, sia per l'originaria debolezza dello Stato unitario, sia per l'immaturità di tutte le correnti e partiti politici esistenti nel paese, sia ancora per la stanchezza derivante dalla guerra, che doveva inevitabilmente disporre le masse ad esaurire in un atto di negazione totale ogni proposito ricostruttivo.

Ripresa interventista e sconfitta di Bissolati.

Tuttavia questo stato d'animo venne, per un certo periodo di tempo, neutralizzato dalla vittoria militare, che parve conferite alle correnti interventiste nuovo vigore e più larga vitalità.
Ma la sconfitta diplomatica di Versailles ed il perdurare della guerra, attraverso la politica dei trattati, distrussero gli effetti della vittoria militare ed indebolirono i gruppi interventisti, prospettando nuovamente, come elemento essenziale della psicologia collettiva italiana, il disfattismo postcaporettiano.
Veramente a questo risultato condusse anche la lotta tra l'interventismo imperialista e quello bissolatiano, conclusasi con la sconfitta di quest'ultimo. Ma queste ragioni di debolezza interna dell'interventismo sarebbero rapidamente scomparse se la sconfitta diplomatica non avesse conferito nuovo vigore al neutralismo socialista.
Questo, poi, traeva la sua prima consistenza dalla maturità economica, cui erano pervenuti i ceti operai durante il periodo giolittiano - maturità che li aveva affermati in vittoriosa concorrenza con taluni ceti della piccola borghesia impiegatizia ed umanistica - ed era alimentato oltre che dal generale indebolimento delle classi medie in tutta Europa, anche dalla speciale situazione psicologica italiana.

La diffusione del bolscevismo.

Fu cosi che il precipitoso diffondersi del bolscevismo, il suo contagio esteso con rapidità incredibile anche fra ceti economicamente agli antipodi di ogni movimento comunista, perché assolutamente fuori del processo di proletarizzazione, apparvero come il più grave sintomo dell'immaturità rivoluzionaria del paese.
Si riproduceva, quindi, sotto altro profilo, un fenomeno caratteristicamente italiano: lo sforzo puramente verbale di applicare alla realtà nostra, semifeudale e precapitalistica, schemi rivoluzionari astratti, prodotti da altri popoli per differenti realtà sociali ed interpretati dai nostri rivoluzionari in maniera assolutamente arbitraria ed anarchica, anche a causa della distanza e delle scarse notizie che di essi allora si avevano.
A mano a mano che la smobilitazione continuava e che le masse combattenti venivano iniettate nel paese, il processo patologico si accentuava per effetto di azioni e reazioni meccaniche cumulantisi tra di loro e si verificarono con esattezza le previsioni psicologiche su cui avevano fatto affidamento le frazioni neutraliste, quando tra il 1914 ed il 1915, avevano preso posizione.
Però, mentre i loro calcoli demagogici trovavano clamorosa conferma nel fermento delle folle, si accentuava il dissidio tra le aspirazioni confuse delle masse e la preparazione programmatica dei partiti ed appariva quindi naturale casi l'adesione dei dirigenti alla indifferenziata ideologia neutralista, come il loro tentativo di limitare le aspirazioni delle masse.

Ma ciò che contribuì notevolmente ad accrescere il successo iniziale del bolscevismo fu il colossale disorientamento delle classi dominanti.
Di fronte al dilagare dell'ideologia massimalista tra le masse, la borghesia italiana fu presa da una paura folle.
L'esempio della Russia, ove l'antica classe dirigente doveva subire tutti i rigori rivoluzionari, ed il mito giacobino che alitava in tutti i paesi europei, invece di aguzzare l'acume politico della borghesia italiana per suggerirle i rimedi con cui superare o illudere la crisi, parvero terrorizzarla in maniera cosi decisiva da comunicare all'intero paese l'aspettativa del grande evento imminente.
Era quello il periodo in cui in tutta Italia si parlava pubblicamente di punire gli interventisti, di istituire il regno della vendetta sociale, e conseguentemente non è da meravigliarsi che, in presenza di un fenomeno patologico cosi imponente, le classi dirigenti reagissero soltanto in sede di paura.
D'altra parte, le tendenze anarchiche della vecchia borghesia italiana accrebbero notevolmente il disorientamento, perché, invece di schierarsi a difesa dello Stato, ne aggravarono la crisi.
Infatti in quell'epoca lo Stato italiano ricevette il colpo più rude con l'impresa fiumana, che rischiò di compromettere in una serie di avventure diplomatiche la compattezza della Nazione. Lo Stato italiano restò sospeso in aria, aggredito dal garibaldinismo che si riproduceva sulla quarta sponda contro ogni tradizione di acquiescenza monarchica, e non sorretto dai nuovi ceti operai che se ne erano estraniati per correr dietro all'inafferrabile mito bolscevico.
Invano in quel torbido periodo di reciproca incomprensione il presidente del Consiglio onorevole Nitti invocò ed aspettò dalla collaborazione socialista la base politica per tentare una formazione più vasta di quella giolittiana.
Il socialismo italiano, perduto dietro i sogni evanescenti delle steppe russe, si accanì a portare colpi su colpi a quella formazione, di cui in sede ideale doveva costituire parte integrante e nella realtà si costituiva nemico.
Così l'onorevole Nitti potette accumulare tre differenti ministeri in attesa che la crisi riuscisse ad una soluzione logica, su cui egli avesse potuto poggiarsi, e logorò per lungo periodo di tempo la sua carriera politica in un tentativo di tanta immaturità.
Ma perché la situazione del paese risulti sufficientemente chiara occorre precisare lo sviluppo che vennero assumendo le altre correnti italiane di fronte al fatto neorivoluzionario.

L'interventismo rivoluzionario in gara col bolscevismo.

La corrente dell'interventismo rivoluzionario, costituitasi in fasci di combattimento ad opera di Mussolini, non trovò di meglio che seguire nella scia rivoluzionaria il massimalismo ufficiale.
Dopo aver formulato un programma rivoluzionario, che però si arrestava a pure modificazioni formali nella costituzione dello Stato, si esercitò lungamente in una aspra concorrenza demagogica contro i socialisti ufficiali, che venivano quotidianamente accusati di non volere e di non saper fare la rivoluzione.
Abbacinato dalla falsa idea che le direttive della rivoluzione in atto non potessero essere altro che socialiste, Mussolini sognò d'impadronirsi del movimento, al punto in cui i socialisti ufficiali si fossero dimostrati impari alla fortuna, e perciò per lungo tempo li tallonò con pazienza ed audacia, non mancando di rilevare in ogni occasione le loro perplessità.
Gli solleticava la speranza l'accumularsi dei loro errori nei riguardi degli ufficiali combattenti e la mancanza di un programma di ricostruzione che potesse dare agli animi, desiderosi di novità, un nuovo pascolo spirituale, come gli suggeriva l'istinto che il PSI avrebbe perduto l'occasione rivoluzionaria attraverso le linee del parlamentarismo, di cui i suoi ceti dirigenti costituivano parte sostanziale ed integrante.
Però questi calcoli puramente meccanici e la stessa complessità della situazione gli impedivano di vedere che sul terreno prescelto egli sarebbe stato certamente battuto non solo dal PSI, ma, in un momento successivo, anche da altri partiti, perché o il bolscevismo sboccava in un moto rivoluzionario, e le prime conseguenze di tale moto sarebbero state antimussoliniane, oppure si esauriva in conati sterili e la ripresa borghese non poteva mai avvenire sulla stessa base di lotta del socialismo, su cui Mussolini allora poggiava.
Ma in quel momento, forse, il trionfo bolscevico e la segreta speranza di un riassorbimento nelle file del socialismo ufficiale impedivano al mussolinismo di controllare tutte le sue ipotesi e tutte le sue tesi e di guardare più lontano dalla realtà immediata.
Tanto più che l'interventismo rivoluzionario, poggiando sul patriottismo, mostrava di porsi a cavaliere di ogni altra tendenza.

La tendenza sovvertitrice dell'interventismo conservatore.

L'interventismo conservatore, invece, non poteva far altro che irrigidirsi nelle sue posizioni antebelliche e tentare di resistervi, in attesa che gli errori degli altri e la riscossa dei ceti medi potessero permettergli di accentuare la propria funzione di conservazione.
Però, siccome i gruppi politici che abbiamo, per ragione di metodo, riuniti sotto il termine comprensivo di interventismo conservatore, avevano concepito il disegno di distruggere la dittatura giolittiana, dovettero durante questo periodo assolvere un compito sovvertitore, tentando di far scaturire la crisi istituzionale soltanto contro il parlamentarismo, su cui si assideva sovrano lo statista di Dronero.
In ciò essi ebbero fin d'allora alleato l'interventismo di sinistra, che, intuendo la funzione conservatrice del PSI, collegata al protezionismo ed al parlamentarismo, mirava ad adeguarsi alla mentalità rivoluzionaria delle masse attraverso il1iberalismo e l'antiparlamentarismo.
Non sfuggirà certamente - ed è stata già ampiamente rilevata - la contraddizione intrinseca tra la funzione di conservazione, che i gruppi interventisti monarchici assumevano di assolvere, ed il compito di sovvertimento del parlamentarismo giolittiano - unico baluardo del regime - di cui si dilettavano per ragioni di predominio interno come, del pari, non sfuggirà la fatalità di ta1uni atteggiamenti, dipendente, più che altro, dalla completa immaturità politica e storica dei partiti e delle masse italiane.
Ad ogni modo ci sembra sufficientemente chiaro che mentre i gruppi dell'interventismo monarchico proclamavano a chiacchiere di voler opporsi all'inflazione bolscevica, in effetto, distruggendo il residuo prestigio delle pubbliche istituzioni, riuscivano completamente allo scopo opposto.
Veramente essi ritenevano che il bolscevismo e la conseguente agitazione del paese fossero un prodotto del parlamentarismo e del malgoverno giolittiano, e non già un fatto neorivoluzionario, e, perciò, s'illudevano di fare opera di conservazione eliminando le cause del male, ma essi scambiavano per queste dei fatti puramente episodici e che, del resto, nel complesso giuoco degli avvenimenti facevano funzione di freno, piuttosto che di spinta.
Nella loro testarda incomprensione storico-politica, essi non avevano compreso che il giolittismo era il più perfetto organo di conservazione, che, data l'immaturità italiana, era stato possibile creare con i pochi interessi autonomi che erano riusciti a farsi valere attraverso la lotta politica.
Insistendo perciò nell'aggressione al giolittismo rischiavano di distruggere ogni benefico effetto del loro atteggiamento interventista nel giuoco della concorrenza postbellica.
Ma, in verità, è forse effetto di uno spostamento critico quello di attribuire ai gruppi ed agli uomini grande rigore dialettico durante la lotta, mentre, invece, molto è dovuto al caso e più che altro al giuoco degli interessi che hanno una logica tutt'affatto particolare.
Cosi questi gruppi dell'interventismo conservatore, presi nel ferreo dilemma da una parte di servire gli interessi parassitari dell'industria pesante, bisognosa di avventure ed agitazioni internazionali per i propri affari, e, perciò, portata ad opporsi ad ogni tentativo di stabilizzazione pacifista che il popolo italiano avesse fatto sentire attraverso il Parlamento, e dall'altra di tentare un esperimento di conservazione, che, interessando ceti più estesi, avesse avuto meno precarietà, erano costretti a scegliere il primo corno del dilemma ed a compiere opera di sovvertimento generale pur di tentare di mantenere la conservazione particolare.

Giolitti salva il regime.

Intanto la corrente del neutralismo conservatore, fra tanto rimescolio di avvenimenti, sperava ripigliar vigore.
Anzitutto le dava motivo di speranza l'ondata di reazione alla guerra che si manifestava in ogni angolo della penisola e l'intrinseca incapacità rivoluzionaria del PSI, che, non potendo superare la fase delle agitazioni e degli scatti a vuoto, non riusciva di molto a differenziarsi dalle altre correnti neutraliste costituzionali.
Ma soprattutto costituiva una ragione di potenziamento il disagio spirituale, in cui progressivamente veniva a cadere il popolo italiano, perché, mentre la rivoluzione in marcia era di carattere piccolo-borghese, la soluzione che si proponeva era nettamente proletaria; mentre si sentiva il bisogno di una rivoluzione politica, che adeguasse le istituzioni e la rappresentazione alla realtà economica del paese, gli estremisti bolscevici parlavano di rivoluzione sociale.
Ne nasceva quindi un grande squilibrio tra le aspirazioni collettive e le formule degli agitatori e, di fronte a questa caotica realtà, gli stessi gruppi veramente rivoluzionari erano costretti a ripiegare su posizioni di conservazione.
Era, insomma, cosi radicale l'immaturità rivoluzionaria del popolo italiano che, verso l'agosto del I920, si rese possibile la creazione di una nuova formazione politica intorno a Giolitti, quando l'equilibrio politico da lui creato nel periodo prebellico era completamente franante.
Infatti, quando Giovanni Giolitti risali al potere fu accolto come un trionfatore e tutte le frazioni italiane inchinarono le loro bandiere dinanzi a lui, come se egli fosse il capo di una rivoluzione vittoriosa.
Ed in quel momento invero il giolittismo trionfava dell'immaturità dei suoi avversari.
Assunto al potere, Giolitti rimise in funzione il vecchio metodo trasformistico e mentre cercò lusingare in un primo tempo gli istinti demagogici della rivoluzione proletaria con le imposte straordinarie, successivamente mise ogni opera per incanalare il fascismo entro gli schemi dellla conservazione monarchica.
Ma se con questa politica provocò il primo successo postbellico della monarchia, riproponendola come termine di transazione, se non di soluzione, della crisi italiana, non riuscì però a salvare il proprio sistema politico, ed a riprodurre gli schemi cui si era affidato vittoriosamente nell'anteguerra.
Si può dire anzi che, costretto dalla necessità ad avere l'appoggio del PPI, che, durante tutto il tempo del suo governo, ne costituì il gruppo principale, dovette adottare le soluzioni medie che il giovane partito veniva elaborando ed in tanto più riuscì in quanto più dovette allontanarsi dal sistema del governo personale per sentire le esigenze di un partito.
Quest'antitesi, appena accennata all'inizio, fu in seguito una delle ragioni dell'insuccesso della formazione e della fine dell'esperimento. Ad essa è forse dovuto che lo statista di Dronero non ebbe il tempo di attendere che lo scioglimento della crisi massimalista gli permettesse di assorbire in un nuovo esperimento di governo i socialisti unitari.
Ma più ancora nocque al giolittismo la necessità di dover sopravvalutare le correnti dell'interventismo di sinistra, che, costituitesi in fasci di combattimento, seguivano una tattica insurrezionista, cioè antigiolittiana per eccellenza.
Appena appena egli poté, con l'includerli nei blocchi nazionali durante le elezioni generali del I 92 I, inserirli e comprometterli nel giuoco monarchico, ma non gli riuscì altre si di fissarli in una formazione, o posteriormente - ciò che sarebbe stato più naturale - di distruggerli.
I tempi erano veramente grossi e mentre Giolitti aspettava l'avvento del socialismo unitario e si sforzava di resistere all'attacco del PPI, che mirava a trarre dalla proporzionale e dal governo di gabinetto le conseguenze di una vera e propria rivoluzione politica, era costretto ad allevarsi nel seno la vipera fascista, sperando di rubare al tempo qualche battuta, per poi schiacciarla.

Ma il tempo questa volta fu galantuomo e l'ondata fascista, maturata con la furia della procella, incanalandosi nel greto della tradizionale politica monarchica, rubò al vecchio di Dronero una nuova entrata in tempo.
Fedele servitore della monarchia Giolitti trionfò anche attraverso il fascismo, ma questo nuovo trionfo volle come prezzo il crollo della sua dittatura personale.

La collaborazione del Partito popolare.

Fu detto che l'esperimento giolittiano falli e non fu possibile ripeterlo per i malefici effetti della proporzionale e per l'intransigenza di don Sturzo, ma, in effetto, esso continuò fino alla marcia su Roma, attraverso luogotenenti ed affini, e non poté più resistere perché, caduto il protagonista, la rivoluzione montava nuovamente nel paese sommergendo ogni vestigio del passato.

In realtà, perché la situazione appaia limpida e denudata dalle sovrastrutture che le passioni di parte vi hanno incrostato, è necessario ricordare l'importanza che ebbe fin dal 1919 il sorgere del Partito popolare italiano, primo e grandioso tentativo di presa di posizione nel caos del dopoguerra.
Noi non possiamo soverchiamente estenderci su tutti i fenomeni di cui imprendiamo a discutere, perché lo spazio ci è avaro, ma ci sembra che chiunque voglia intendere la realtà italiana deve tener per fermo, senza bisogno di speciale dimostrazione, che il sorgere del PPI nel 1919 significò il riconoscimento esplicito da parte della Chiesa dell'iniziato moto di rinnovamento dei nostri istituti politici e della necessità, anche per essa, di servirsi del metodo liberale per sostenere la sua azione politica.
Questa verità, di cui le nostre classi dirigenti non si sono ancora convinte, svela tutto un programma di azione papale, che ringiovanisce di molti lustri la politica cattolica e mostra come la Chiesa dia prove di profonda vitalità, proprio in epoche in cui ai superficiali potrebbe sembrare l'opposto.
Non più, dunque, patti Gentiloni, e politica clericomoderata, non più adesione al regime a scopo transattivo, ma, intuendo il processo rivoluzionario in marcia nel paese, la Chiesa, attraverso il PPI tenta di impadronirsi del nostro problema istituzionale, prevenendo cosi implicitamente ogni rinnovellato tentativo di giurisdizionalismo tradizionale da parte dello Stato italiano.
Si propone, cosi, per la prima volta in Italia quella doppia faccia di tutti i partiti di centro, che ne costituisce l'aspetto più caratteristico e rende la loro azione a volta rivoluzionaria a volta conservatrice.
Cosi il PPI, cercando d'inalveare il torrente rivoluzionario entro lo schema di idee tradizionali, mira a fermare il processo di disintegrazione dello Stato burocraticocentratore entro le linee di un nuovo Stato parlamentare, salvando istituti piu distanti, quali il Parlamento, il principio maggioritario, il governo di gabinetto e la proprietà privata, mentre aggredendo alle radici lo Stato burocratico-accentratore, in ciò che esso aveva prodotto di più perfetto: la dittatura giolittiana, esercita un'azione potentemente rivoluzionaria, di cui ancora durano anzi s'intensificano i contraccolpi.
Ciò spiega perché il PPI, mentre collaborò con tutti i gabinetti, compreso quello fascista, si batté disperatamente per la proporzionale e per il gabinetto di coalizione.
In effetto l'azione del PPI durante questo periodo - cosi vivamente discussa e malfamata - non fu chiara e rettilinea; essa fu alquanto alterata dal demagogismo di cui era infetta la sinistra migliolina e dallo sforzo di equilibrare l'indirizzo del partito tra tante opposte e divergenti correnti, ma non bisogna dimenticare che il popolarismo era costretto ad agire in un momento rivoluzionario in mezzo a cozzanti interessi e quindi era estremamente difficile seguire una condotta che fosse apertamente consapevole di tutte le finalità da raggiungere.
Cosi non tutti compresero che era fatale che il PPI, pur essendo costretto dalle circostanze ad un primo atto di collaborazione, si opponesse poi ad una definitiva reincarnazione giolittiana, per la stessa dialettica della storia in movimento, che aveva portato alla nascita del giovane partito con programma conservatore e decentratore.

Era in sostanza una nuova formula di conservazione sociale che aveva proposta nel 1919 il PPI fondata non sul predominio parlamentare di un uomo, ma sul giuoco di un partito, che, tentando di organizzare gli interessi della maggioranza dei produttori italiani, si sforzava di raggiungere un equilibrio sociale meno innaturale di quello precedente e, perciò, più profondamente conservatore.
Paragonando tale formula a quelle di molte frazioni conservatrici o pseudoconservatrici della borghesia italiana si vedrà quanta differenza correva tra un partito di masse come quello popolare, proteso ad assorbire la maggior somma di interessi medi, appunto per poter assolvere il suo compito storico, e le frazioni suddette, tutte intente a nascondere dietro l'idolo della nazione gli interessi di una casta o di una fazione.
Di qui l'urto inevitabile tra le due tendenze di conservazione, che si trasformava in conato rivoluzionario.
Di fronte al PPI, affermante nella realtà quotidiana la prassi del partito e dell'organizzazione moderna, la dittatura giolittiana non sapeva contrapporre che la vecchia coalizione di interessi trasformistici rimasti a difendere, in pieno campo nemico, posizioni di difesa sorpassate, ed era assolutamente inadatta a trasformarsi secondo le idee e lo spirito dei tempi nuovi.
Era, quindi, fatale che scoppiasse assai viva la lotta e che il giolittismo ne uscisse sconfitto.
Questa lotta diffuse la leggenda del bolscevismo bianco ed il PPI parve per intero sovvertitore. Invece esso esercitò una profonda funzione di conservazione sociale, che culminò nel tentativo di collaborazione col fascismo.

La crisi socialista.

Ma il rivolgimento politico italiano ebbe il suo epicentro nel travaglio del Partito socialista che trasformò la crisi istituzionale in crisi di partito.
Sotto questo primo profilo il PSI apparve un organo di conservazione, rivelando quasi subito la sua posizione originaria. Esso offri agli urti bolscevizzanti una resistenza cosi accanita che alla lunga fini per averne ragione.
In verità il bolscevismo corrispose al sentimento indistinto della necessità di uno sforzo rivoluzionario per sistemare in un nuovo Stato tutte le forze che la guerra aveva fatto improvvisamente affiorare nella realtà politica italiana.
Queste forze, sollecitate ad agire soltanto in conseguenza di un fatto meccanico, non possedevano menomamente i termini del problema italiano, e quindi, riproducevano la nostra vecchia e caratteristica insufficienza di cercare la soluzione di un problema particolare in sistemi di idee di carattere europeo.
In generale, esse appartenevano alle regioni dell'Italia del Nord, ove il capitalismo ha già fatta la sua apparizione e ove, conseguentemente, talune élites operaie hanno da tempo preso possesso delle idee rivoluzionarie socialiste.
Commettendo, quindi, il facile errore di credere che le condizioni economiche, morali, sociali di tutte le altre regioni italiane fossero identiche a quelle del Piemonte o della Lombardia, ed ignorando - naturalmente da buoni cittadini del Nord - che tanta parte d'Italia è ancora in regime precapitalistico e feudale, i nuovi rivoluzionari erano portati a ritenere estensibile a tutta l'Italia la formula comunista, senza comprendere che su di un terreno cosi franoso essi venivano a totalmente compromettere il loro ruolo di rivoluzionari.
Ma forse ciò era inevitabile perché nessuna forza umana avrebbe potuto impedire la suggestione della rivoluzione russa che operava cosi potentemente anche presso altri popoli europei.
Presi dal mito russo, i socialisti italiani erano per una rivoluzione qualsiasi, quasi per bisogno fisico di moto, e non perché avessero elaborato un sistema da attuare nella realtà. Trascinati da false ideologie, facevano centro della loro eccitabilità rivoluzionaria il loro io, senza alcun contatto con la realtà del paese, con la situazione delle classi sociali, con la distribuzione della ricchezza; si chiudevano in un astrattismo rivoluzionario vuoto ed antimarxistico, allo stesso modo che la borghesia cosi detta progressista si era trincerata nell'astrattismo giuridico parlamentare.

Ma la caratteristica di tutto il movimento bolscevico fu che nessuno dei rivoluzionari si rese conto della situazione del PSI e della sua tendenza alla conservazione.
Questa incomprensione continuò anche quando il PSI cominciò a trasformare i conati rivoluzionari delle folle in lotte di tattica contingente, cioè quando condusse la lotta politica a stagnare nel mare morto delle tendenze.
Eppure questa incomprensione era fatale: la Sinistra bolscevica, anche dopo la critica quasi decennale dell1'« Unità» salveminiana non arrivò a comprendere che la Destra riformista aveva a lungo costituito uno dei piloni della formazione politica giolittiana e, quindi, lungi dal poter agevolare i conati rivoluzionari, era interessata a frenare gli impulsi. Questa incomprensione apparve perrfino nelle accuse che i comunisti lanciavano ai socialpatrioti, genericamente intonate alla realtà di molti paesi europei, ma prive di qualsiasi riferimento alla realtà politica iraniana.
Parimenti la concezione unitaria seratiana, secondo il costume dei politici italiani, si esauriva nel vano tentativo di mantenere insieme con formule puramente verbali i conglomerati che erano confluiti nel PSI, senza rendersi sufficiente conto dell'assurdità dialettica di un simile tenntativo di mediazione unitaria e senza contemporaneamente proporre un programma rivoluzionario unico che avesse potuto far scattare nel campo della realtà storica il colosso dai piedi di argilla.
I soli, che forse avevano coscienza della loro posizione dialettica, erano gli unitari. Asserragliati intorno alla Confederazione generale del lavoro, convinti di rappresentare aristocrazie operaie pervenute ad un notevole grado di floridezza economica, e perciò timorose di perderla, decisi ad insistere, fino al possibile, nella tattica parlamentare, che aveva loro fruttato risultati COS1 brillanti, essi resistevano in tutti i modi alla mentalità miracolista dell'ora e deprecavano apertamente il pericolo che, attraverso il prosieguo di agitazioni convulse, avessero a svegliarsi altri ceti naturalmente ed economicamente avversi a quelli da loro rappresentati, dormienti il loro sonno secolare. Questa antinomia insuperabile, dipendente non tanto dalla lotta che nel campo della teoria i comunisti hanno sempre combattuto contro i riformisti, quanto dalla specifica situazione italiana, culminò nell'episodio dell'occupazione delle fabbriche, quando i riformisti, col semplice ostruzionismo, presero i rivoluzionari bolscevici allaccio della loro paura demagogica.
Così tramontò in maniera decisiva il mito russo in Italia; e si cominciò a comprendere - per quanto in forma appena subcosciente - che la prima fase della nostra rivoluzione postbellica si chiudeva in perdita.
Essa si sarebbe chiusa egualmente in perdita anche nel caso che l'occupazione delle fabbriche fosse realmente sboccata in un atto rivoluzionario perché tale esperimento avrebbe dovuto quanto prima fare i conti con la reale situazione economica italiana, ove non sarebbe stato possibile _ COS1 come in Russia - trascinarsi dietro i contadini distribuendo loro le terre, per il semplice fatto che queste erano già in massima parte appropriate.
Da quel momento si può dire che la frazione riformista aveva già vinto. Tutti i fatti posteriori, le lotte di tendenza e le scissioni non sono che conseguenza di questa vittoria.
Non avendo le idee per trascinare in un atto di liberazione la maggioranza del popolo italiano, le minoranze bolsceviche dal campo rivoluzionario, ripiegarono sulla critica interna e si accanirono vanamente contro gli uomini del riformismo, senza comprendere che, se esse fossero state veramente mature, Turati avrebbe fatto la fine di Kerenskij, e nessuna diga avrebbe potuto trattenere l'urto delle onde.
Ed effettivamente in quelle ore difficili non vi furono dighe ed il vecchio Giolitti fece affidamento più sulla terapia dell'esperienza che sui fucili dei soldati.
Fondando, quindi, la sua politica sul dissenso socialista ed allevando nel suo seno le prime formazioni fasciste, il vecchio di Dronero cominciò ad incanalare il torrente turbinoso verso altri sbocchi.

Le baronie rosse.

Ma la realtà del paese era superiore a tutti i calcoli dei politicanti. Un esercito sterminato di gente era libero da ogni freno e deciso ad affermarsi nel campo della politica. Si produsse, cos1, quello che i primi scrittori fascisti definirono il fenomeno delle baronie rosse, e che costituì la prima forma di reazione del paese alla crisi dell'unitarismo socialista.
Infatti, quantunque l'unitarismo socialista fosse stato già distrutto all'epoca dell'occupazione delle fabbriche dalla vittoria riformista, l'unità formale del partito rimaneva ancora in piedi, ma, anziché essere elemento di coordinazione degli sforzi collettivi, era d'impaccio all'ulteriore sviluppo della crisi.
Tanto più che i fenomeni primigeni venivano accentuati da tale situazione di cose e, in attesa dell'atto di separazione, i dirigenti non trovavano di meglio che insistere nell'astrattismo rivoluzionario, anche per poter prendere posizione senza eccessivi sforzi di comprensione, nella divisione del bottino della tradizione socialista.
Era naturale che i dirigenti locali, non trovando più nell'accentuato astrattismo del centro la guida per l'azione pratica, si vedessero costretti ad aderire assai più strettamente alle varie realtà regionali.
Cosi accanto all'esperimento torinese dell'«Ordine Nuovo» si videro le dittature romagnole e emiliane.
Si trattava in verità di fenomeni economici sociali e politici assolutamente divergenti, che riuscivano a coesistere nello stesso partito soltanto perché mancava nel centro ed alla periferia la coscienza di tanta diversità.
È questo il primo nocciolo di sviluppo del fascismo. Essendo il fascismo una reazione borghese al bolscevismo, non poteva nascere e prodursi se non nei luoghi ove il bolscevismo maggiormente eccedeva come potere incontrollato di pochi individui, come dittatura non soltanto sulla borghesia ma altresi sul proletariato.
Solo cosi le due manifestazioni politiche possono intendersi come facce distinte del medesimo fenomeno, che è lo sforzo del popolo italiano di arrivare, attraverso tenntativi molteplici, a comprendere la necessità dialettica dello Stato, ed a fondarlo sulla maggior somma di interesssi e di volontà.

Bolscevismo, gabinetto di coalizione e debolezza dello Stato.

Ma tuttavia il bolscevismo, spogliato delle costruzioni astratte degli organi direttivi, che non riuscirono quasi mai ad incarnarsi in fatti storici, non è del tutto quel fenomeno aberrante che la critica ha voluto far credere.
Esso indubbiamente costituì la prima forma di selffgovernment d'Italia, il primo tentativo da parte di masse sconfinate di cittadini di permeare lo Stato italiano.
Se questo fenomeno, presentito da quasi tutte le correnti politiche italiane nel 1915, fosse stato compreso ed incanalato, l'Italia avrebbe risparmiato tante agitazioni sterili, e lo Stato ne sarebbe uscito enormemente rinforzato.
Ma lo Stato italiano è lo Stato dei pochi e lotta tuttora per rimanere tale. Esso è uno squisito e sensibile organo di mediazione politica, di cui si servono ristretti gruppi di persone per mantenere in piedi interessi particolaristici e parassitari. Si comprende benissimo che non poteva cedere senza combattere. L'atto rivoluzionario diveniva una necessità.
Ma le masse che urgevano nelle piazze e nei circoli proletari anelando di affermarsi nella prassi della democrazia diretta non irituivano, né potevano intuire che il PSI era l'organo del paternalismo riformista e della cooperazione parassitaria, che si prestava a deviare la marea dal suo obiettivo.
Fu perciò, che i ceti dirigenti durante tre anni riuscirono, attraverso puerili espedienti, a salvare lo Stato dai rivoluzionari.
Esso visse misero, cachettico, ignorato, e forse appunto perciò si salvò. Per lungo tempo abdicò perfino le funzioni di polizia - le prime a nascere, le ultime a morire credendo di potere cosi superare la crisi.

Ma, in effetto, esso si indeboliva sempre più, perdendo giorno per giorno, la sua ragione giuridica di essere. Ciò avvenne perché la borghesia dirigente ebbe paura d'impiegarlo come organo di ristabilimento dell'ordine esteriore, e lasciò agli interessati di organizzare la propria difesa con milizie private. Questa condotta riuscirebbe assolutamente incomprensibile, se non fosse sufficientemente chiaro che la rappresentanza legale dello Stato era ormai avulsa dalla realtà, e che nel frattempo era maturata nel paese una nuova borghesia, nemica sia del socialismo che del parlamentarismo, la quale sperava compiere per suo conto una vera e propria rivoluzione.
La stranezza di questa condizione di cose era poi aggravata dal fatto che allo Stato nessuna forza poteva più venire dal Parlamento per la semplice ragione che, attraverso questo, tentava di ordinarsi e prevalere una nuova democrazia.
Infatti, le rappresentanze parlamentari del PPI e la parte riformista del PSI dopo aver imposto la proporzionale, miravano apertamente a trarre tutte le altre conseguenze del principio proporzionalistico sia nel campo politico che in quello amministrativo, cercando così di adeguare la nostra prassi costituzionale a quella delle borghesie più evolute di Europa.
Attraverso questi sforzi parlamentari le rappresentanze politiche dei due più numerosi partiti italiani mentre si sforzavano di creare uno sbocco legale alla rivoluzione vociante nelle piazze, speravano di completare e consolidare i loro trionfi postbellici con una nuova forma di legalità.
Ma in questo sforzo la nuova democrazia falliva completamente per la resistenza accanita dei ceti dirigenti e la risultante dell'incrociarsi di tutte queste azioni e reazioni era sempre di carattere negativo: il perpetuarsi della dittatura giolittiana fino al terzo gabinetto Facta.
Cosi mentre i ceti dirigenti continuavano a rimanere aggrappati alla nuda forma, all'astrazione legale dello Stato, di cui non sapevano più servirsi, la rivoluzione proletaria non riusciva né a prevalere nelle piazze ed a spazzare gli ultimi residui di un legalitarismo impotente, né a prevalere nel Parlamento per imporre una volta per sempre il gabinetto di coalizione.
D'altra parte, le frazioni medio e piccolo-borghesi, che avevano sempre costituito la base del regime, si estraniavano sempre più dalla forma parlamentare, anzi divenivano nettamente antiparlamentariste, riproducendo così in germe le insufficienze bolsceviche.
Lo stesso atto di negazione totale, che aveva cosi vivamente attratto le frazioni rivoluzionarie del proletariato, conquideva la piccola e la media borghesia, ed il fascismo sorgeva come antibolscevismo dittatoriale.
Lo Stato di tutti, comica fictio juris, stava in mezzo senza sapere a chi doveva appoggiarsi: dopo aver invocato la legalità contro i bolscevichi non seppe imporla ai fascisti quando questi dimostrarono di aver ereditato in pieno lo spirito dei loro avversari.

IV LA RIVOLUZIONE IN MARCIA: IL FASCISMO

Le origini.

Frazionato e municipalizzato il movimento bolscevico, ogni eventuale reazione non poteva essere che frazionaria e municipale.
La prima segreta origine del fascismo è dunque rurale, anche perché l'Italia rurale è la realtà demografica più distante economicamente e spiritualmente dal movimento operaio. Era naturale che ivi l'opera antistorica ed impolitica dei baronetti rossi suscitasse la prima reazione.
Di fronte allo Stato inerte ed all'avversario incapace di realizzare il novus ordo, la borghesia fu spinta da ragioni meccaniche al combattimento. Non vi era altra via di scampo che la difesa privata. Solo successivamente teorizzò il metodo e comprese che esso poteva essere elevato a sistema, ma a ciò contribuì, più che altro, il successo.
Nel primo momento invece la reazione fu soltanto fisica, e dipese più che altro, dall'astrattismo rivoluzionario degli avversari.

Fu tale astrattismo che, provocando una forte compressione sui ceti medi, li alienò dal mito rivoluzionario e li spinse sempre più nelle braccia della reazione.
Infatti sollecitato da un falso concetto dell'internazionalismo e più ancora dai relitti del neutralismo, il bolscevismo italiano credette di poter impunemente negare la guerra ed i sentimenti di coloro che vi avevano partecipato, senza tener presente che questi erano in generale i proletari delle città o delle campagne, e che un'azione rivoluzionaria non poteva prescindere - cosi come era avvenuto in Russia - dalle forze armate del paese.
Premuta tra questa formazione cosi abnorme, quale fu il bolscevismo, e la resistenza dell'alta borghesia industriale, desiderosa di sottrarsi alle conseguenze economiche della guerra, la piccola borghesia aderiva ancora al contenuto politico ed economico dello Stato. La sua psicologia era ancora imperniata sul concetto della difesa dell'ordine sociale e della valutazione della vittoria militare, cui essa aveva potentemente contribuito fornendo i quadri degli ufficiali subalterni.
D'altra parte, il massimalismo socialista non aveva fatto niente per comprenderne gli interessi nel suo tentativo di ricostruzione. Mentre in Russia Lenin aveva aderito alla realtà economica del paese, non insistendo più sul concetto astratto della socializzazione della terra, in Italia si lasciava intendere che l'espropriazione anche delle piccole quote sarebbe stata un fatto compiuto.
Veramente scarse furono in questo periodo le affermazioni programmatiche ufficiali del Partito socialista, forse perché ogni aspetto del movimento era diretto a copiare pedestremente quello russo. Ma quest'assenza di pensiero ufficiale, autorizzando le più assurde e giacobine manifestazioni di gregari, rese sempre più possibile l'accentuarsi del distacco tra i rivoluzionari e le classi medie e rinforzò la tendenza di queste ultime a resistere all'azione dei primi.

La piccola borghesia si stacca dallo Stato.

Tuttavia il malcontento piccolo-borghese per le vicende italiane si esplicò in sordina, sia perché la insurrezione del fenomeno bolscevico era stata cosi violenta che nessuno voleva rischiare l'avvenire, sia perché si aspettava sempre l'azione correttrice dello Stato, di cui i piccoli borghesi reputavano di essere base e milizia.
Ma lo Stato italiano era ormai cosi svuotato di contenuto che, fino a quando i piccoli borghesi ne invocarono l'azione legale, ebbe paura di muoversi, perché supponeva il processo di bolscevizzazione più imponente di quello che, in effetti, era, e, quando i piccoli borghesi si decisero ad agire direttamente, non poté intervenire per non riuscire di vantaggio ai suoi nemici.
Fu durante questo periodo che si operò il distacco decisivo della piccola borghesia dallo Stato - che rimase un pura nomen juris - e nacque il fascismo con carattere rivoluzionario.
Numerose classi di cittadini, fin'allora rimaste immobili, vennero risolutamente spinte sul terreno rivoluzionario, e, deluse dall'azione statale, assorbirono rapidamente tutta la retorica antiparlamentare nazionalista, sognando ritorni dittatoriali.

Il fascismo contro lo Stato.

In verità, per queste origini e per queste cause si posero fin da questo momento i caratteri piu sostanziali del fascismo, e cioè la concezione che il Parlamento sia causa di rovina per i popoli, e l'illusione che l'istituto possa superarsi con forme di rappresentanza plebiscitaria.
Così mentre da una parte le forze conservatrici incapsulate nel PSI si avviavano lentamente a disintegrarsi dal bolscevismo per adempiere la loro missione, le poche forze di conservazione borghese si alienarono dallo Stato, elaborando dottrine antidemocratiche ed antiparlamentari. Ma questa fase fu di breve durata perché la neutralità dello Stato italiano nei conflitti di piazza divenne fatalmente appoggio palese, se non dello Stato come ente, per lo meno dei singoli organi statali, e l'esito fortunato delle prime azioni fasciste determinò il rapido apporto di numerose forze antibolsceviche alla causa della reazione.

Sotto la spinta degli avvenimenti e la pressione della nuova psicologia delle masse, il fascismo modificò le sue pretese dottrinarie e svuotò il così detto programma di tutte le imbottiture bolsceviche.
Queste imbottiture create nel I9I9 per fare la concorrenza al movimento rivoluzionario rosso erano divenute ingombranti, ed ormai occorreva liberarsene: ultimo atto di questa conversione programmatica fu la rinunzia alla tendenzialità repubblicana.
Dopo di ciò le due frazioni interventiste avvicinate dal compito antigiolittiano si misero facilmente d'accordo sulla base della distruzione dello Stato parlamentare, per creare quello che venne chiamato, con uno sconcio verbale, lo «Stato fascista».
Infatti durante questo periodo tutti parlavano con entusiasmo di questo feticcio. Mussolini credeva definirlo quando affermava che esso attacca mentre lo Stato liberale si difende, ma nessuno ha mai capito che cosa sia questo Stato fascista, inventato in una notte di ebbrezza da una redazione giornalistica ed agitato come un fantasma contro lo Stato prodotto dalla filosofia liberale.
Come sempre, i rivoluzionari invece di preoccuparsi di un'antitesi storica (Stato liberale contro Stato italiano) ebbero la stolta superbia di inventare un'antitesi ideale inesistente.

Primi tentativi antifascisti.

Naturalmente, a mano a mano che la formazione fascista si ingrossava ed il suo attacco, non piu al bolscevismo ma allo Stato italiano, si accentuava, le altre frazioni politiche tentavano schierarsi in funzione di conservazione.
È questo un momento assai delicato nel giuoco dialettico dello sviluppo fascista perché a varie riprese viene tentato il fronte unico antifascista intorno ad uomini cosiddetti liberali, come De Nicola ed Orlando - specialmente intorno al primo - fronte unico che non riesce, oltre che per l'insufficienza politica dei designati, anche perché rapidamente emerge l'equivoco che dovrebbe presidiarlo.
Infatti, esisteva una profonda antitesi tra i vari gruppi che avrebbero dovuto contribuire a formare il ministero di sinistra, perché mentre il giolittismo, dopo aver scatenato il fascismo per salvare il regime, voleva giovarsi delle Sinistre per salvare se stesso, queste ultime intendevano sfociare in una forma di Stato ove il dominio del Parlamento si affermasse incontrastato, anche contro talune prerogative costituzionali della Corona, e, perciò, implicitamente si rendevano incompatibili col piti intimo contenuto del giolittismo stesso.
Specialmente i popolari, sotto la guida di Sturzo, erano pervasi da questa idea fondamentale, che animava la loro politica. Essi, col comprendere nel loro programma le tesi sul decentramento, avevano accesa una vasta ipoteca sul Mezzogiorno e non erano disposti ad essere conservatori al centro quando facevano tanto affidamento sull'azione rivoluzionaria alla periferia.
Mirando a realizzare intero il loro programma non potevano permettere che le loro fortune elettorali servissero al giolittismo per salvarsi.
Ciò spiega perché la designazione più spontanea delle Sinistre era per F. S. Nitti, la cui decisa personalità, se riproduceva nel campo economico e sociale l'intrinseco contenuto del giolittismo, era però disposta a romperne il dominio nel campo politico-istituzionale.
Ma questa designazione, profondamente invisa alle formazioni filofasciste, e perciò di difficile attuazione pratica, riusciva altresì ostile alle vecchie classi dirigenti, che intuivano facilmente che il giovane presidente del Consiglio avrebbe potentemente contribuito a liquidarle, agevolando le nuove forze di conservazione elaborate dal socialismo unitario e dal popolarismo.
Quindi ogni possibilità di soluzione dell'insolubile problema ripiegava sul nome di Giovanni Giolitti: il quale, però, avendo visto fallito il tentativo antisocialista e antipopolare fatto con l'elezioni del 1921, era costretto a riprendere i suoi propositi trasformisti attraverso l'accordo con le Sinistre.
Si comprende agevolmente che a tale tentativo specialmente i popolari non si potessero prestare.

Bisogna riconoscere che nei riguardi del giolittismo il capo dei popolari, Luigi Sturzo, ha esercitato una azione rivoluzionaria di primissimo ordine. Forse egli era lusingato dall'idea di poter debellare il trasformismo ed i ceti che lo sostenevano senza interrompere la tradizione costituzionale, anzi allargandone l'imperio, ma, anche se in tale calcolo gli avvenimenti furono più forti di lui e lo disillusero, è certo che la coerenza logica di questa politica e la dirittura con cui fu condotta contribuirono potentemente alla distruzione del trasformismo giolittiano, obbligando i ceti dirigenti ad entrare nel giuoco rivoluzionario, in cui è fatale che siano irrimediabilmente battuti.

Casi falli l'ultimo tentativo conservatore del vecchio regime.

La materia era sorda ed invano il vecchio di Dronero si affaccendò nelle pratiche casi dette demiurgiche, sia quando tentò galvanizzare i moribondi suoi seguaci nei blocchi nazionali, sia quando il fascismo trionfante s'illuse di poter riordinare le forze della rivoluzione costituzionale battute nella piazza.
Ormai il giolittismo era sconfitto ed il dilemma che si imponeva era: o l'avventura fascista o la democrazia parlamentare.
Messi finalmente alle strette non potendo più far leva sugli uomini di paglia del liberalismo trasformista, i ceti dirigenti non esitarono a scegliere il primo corno del dilemma, sperando di trovare in Benito Mussolini il nuovo dominatore della vita pubblica italiana.

Il fascismo partito di maggioranza.

A questo punto cominciò il trasformismo del duce del fascismo e l'accostamento del regime al nuovo astro.
Anzitutto gli industriali, incoraggiati dalle prime operazioni punitive che avevano gettato il panico nelle masse bolsceviche ed avevano svelato l'insufficienza rivoluzionaria dei dirigenti socialisti, spinti dalla loto mentalità feudale, che considera i loro interessi degni di protezione anche a discapito degli interessi altrui, decisero di finanziare il movimento per sfruttarne almeno i primi effetti di compressione.
A niente valse che fin d'allora scrittori lungimiranti, come il Salvatorelli, lanciassero il loro grido di allarme contro questa stolta illusione dei capitalisti nostrani, a niente valse che il pericolo del sovversivismo tricolore venisse prospettato con colori vivaci: gli industriali non intendevano il problema se non da un punto di vista strettamente materiale, si potrebbe anzi dire in funzione di vendetta.
Basta tener presente la recente polemica Einaudi - Confederazione generale dell'industria per rilevare quanta incoscienza presidii tuttora i calcoli politici della maggior parte degl'industriali italiani.
Cosi il movimento fascista, sorto nel 1919 in concorrenza alla rivoluzione bolscevica, con programma rivoluzionario ed antiplutocratico, nel 1921-22 si lasciò incapsulare dagli interessi capitalistici. Il «Popolo d'Italia» divenne organo dei «produttori italiani» per poi, a mano a mano che il trasformismo mussoliniano progrediva, far scomparire anche questa etichetta e rimanere organo personale del suo fondatore.
Sovvenzionato dagli industriali, il movimento fascista si sviluppò rapidamente e trovò aiuti insperati dovunque.
La mancanza di qualsiasi idea dello Stato anche in coloro che rivestivano le cariche statali più alte, il tradizionale spirito di avventura di uomini politici investiti delle cure del governo, in concorrenza con l'abbassamento del costume politico che aveva reso possibile l'ascensione alle alte cariche degli ultimi venuti, rendevano possibile ogni specie di avventure, e non pochi furono i funzionari statali che negoziarono per proprio conto i telegrafi o le ferrovie ai trionfatori del momento, nella speranza di riuscire benemeriti al nuovo regime.

Né minor ausilio raccolse la sedizione fra i ceti militari, specialmente nel campo degli ufficiali silurati o congedati, che mal potevano rassegnarsi alla vita del riposo, mediocre ed incolore.
Costoro si gettarono nei pericoli della guerra civile con slancio, lieti di avere delle truppe da comandare, degli ordini da eseguire, delle trincee da espugnare, tanto più lieti quanto meno il pericolo bellico esisteva, specialmente in confronto ai rischi della guerra recentemente combattuta.
Ma l'apporto maggiore al movimento fascista fu dato più che dai combattenti dai postcombattenti, dalle cosiddette generazioni della guerra, cioè dai giovanissimi che alla guerra non avevano partecipato, ma che, essendo usciti di pubertà in quel periodo, avevano succhiato nell'ambiente saturo tutte le esaltazioni ed i veleni della guerra.
Questi giovani, non conoscendo per esperienza diretta i dolori e gli orrori dei combattimenti, avevano assorbito dalla psicosi bellica soltanto la parte romantica, l'amore indifferenziato per la patria, l'esaltazione imperialista oltre ogni limite di concretezza, la passione per le avventure e le decorazioni, di modo che credettero trovare nella riproduzione artificiale del fenomeno l'atmosfera da essi sognata nelle romanticherie della prima giovinezza.
Questa psicosi spiega perché la fase eroica del fascismo 'fu puramente squadrista e non politica, perché, anche dopo l'avvento al potere, il fascismo pretese essere ancora e sempre squadrismo, e di esso la frazione più giacobinamente vivace fu quella che mai si seppe distaccare dalla pratica della violenza.
Ma, appunto perciò, si potette compiere quella colossale convergenza di forze sul fascismo che nell’ottobre del 1922 rese possibile la marcia su Roma.
Se il fascismo fosse stato un movimento politico concreto con ideologie e propositi definiti, guidato da selezionati dirigenti e prodotto, non dall'immaturità di generazioni ultime, che allora solo prendevano contatto con organizzazioni cosi delicate come quelle collettive, ma dalla maturazione di vere e proprie nuove formazioni politiche, non sarebbe avvenuta quella colossale conversione di forze che ammirammo nel 1922, perché nessuno dei vecchi ceti avrebbe potuto sperare di impadronirsi del movimento per finalità proprie.
In tale ipotesi il fascismo non sarebbe andato a Roma, ma ci avrebbe dato un tipo di partito conservatore a carattere moderno, che avrebbe notevolmente contribuito alla normalizzazione della vita pubblica italiana.
Ma nessuno può pensare di modificare la storia, e perciò nuove sorprese dovevano essere riservate all'Italia.

Il fascismo e il proletariato.

Infatti il movimento fascista cominciò ben presto ad estendersi anche nel campo proletario. Specialmente nella bassa valle padana la conversione delle leghe rosse al fascismo si susseguì con un crescendo spaventoso. Costrette dall'offensiva bellica, sollecitate dalla disoccupazione incalzante, rese più sensibili alla politica da un ventennio di parassitismo statale, queste leghe dovettero risolvere ancora una volta il problema della zuppa quotidiana attraverso la politica e come avevano fatto allegramente il socialismo all'epoca dei governi democratici, si affrettarono a fare il fascismo all'epoca del governo antidemocratico.
Così l'immaturità di questi proletari, cui due anni prima il Partito socialista aveva preteso affidare le sorti della rivoluzione, permise ai sociologi dellittorio di pronosticare la fine della lotta attraverso la collaborazione delle classi, ed alla piccola borghesia di accettare questa terapia con la stessa credulità delle femminucce erudite dal ciarlatano.
Concludendo, il Partito fascista, alla vigilia della marcia su Roma, si presentava come un amalgama informe di forze discordanti e contraddittorie, tenute insieme dal prestigio personale di un uomo, che, nella immaturità generale del paese, era riuscito a carpire a quasi tutti i ceti una cambiale di fiducia.

Quest'amalgama pretendeva tener insieme, in nome del mito della Nazione, interessi proletari ed interessi padronali, produttori e parassiti, rivoluzionari e trasformisti, mediandoli successivamente e contraddittoriamente per mantenere in piedi una esigua ed inconcludente schiera di ex socialisti rivoluzionari, scettici e cinici, assolutamente incapaci di risolvere il problema italiano appunto per la loro origine barricadiera.

La marcia su Roma.

Ma il regime era ormai ridotto allo stremo e non era il caso di sottilizzare. Il giolittismo era battuto e non si poteva farlo risorgere. Non vi era alcuna ancora di salvezza. Occorreva impadronirsi della nuova formazione, pur avendo la vaga sensazione dei pericoli che si correvano.
D'altronde i fascisti erano intransigenti a chiacchiere e Mussolini comprendeva che un momento simile non si sarebbe più ripresentato. Se egli avesse dovuto ritardare per coinvolgere il regime nella caduta del giolittismo, avrebbe potuto vedersi sfuggire di mano la manovra. D'altra parte, chi poteva conoscere di quali forze disponesse ancora la Corona, chi poteva prevedere quali risultati avrebbe prodotto una presa di posizione contro la monarchia? Avrebbero ancora le classi dirigenti continuato a vedere nel fascismo il salvatore dell'Italia dal bolscevismo o piuttosto non avrebbero finito per accorgersi che esso ne era diventato l'erede?
La cosiddetta rivoluzione, dunque, doveva essere monarchica o non essere. Non vi era altra via, e Mussolini da buon tattico lo comprese a tempo.
Però, anche dopo l'insurrezione armata, la Corona ebbe taluni scrupoli costituzionali, tanto vero che la prima designazione non fu per Mussolini, ma per Salandra.
Ma, chiarite nella notte fatale le preoccupazioni dinastiche e dimostrato più chiaramente lo spirito legittimi sta del duce, questi venne incaricato della formazione del nuovo gabinetto, che seguendo la tradizione italiana fu nella forma esteriore di pura coalizione.
A questo punto tutti respirarono; la rivoluzione aveva raggiunto il suo sbocco legale: viva la rivoluzione!
Pochi si accorsero che con la marcia su Roma la rivoluzione era passata dal paese nello Stato, distruggendo le ultime finzioni legali rimaste in piedi nel crollo universale, e non sostituendovi nient'altro che il vuoto pneumatico e l'arbitrio di un partito. Tutti i calcoli machiavellici, tanto della Corona che di Mussolini, tanto dei conservatori che dei rivoluzionari, erano, quindi, destinati al fallimento.
Con il nuovo governo non si poteva raggiungere né la stabilizzazione né la sconfitta delle opposizioni, ma si poteva riuscire soltanto ad illudere per breve tempo le speranze di rinnovamento del paese.
È stato lungamente discusso se la marcia su Roma fu una rivoluzione in piena regola o una sommossa vittoriosa, oppure un colpo di Stato o varie di queste cose insieme, ma questa discussione, che denota ancora una volta di quanto spirito formalistico ed antistorico siano nutriti i nostri scrittori di cose politiche, se può essere utile nei confronti del signor Mussolini, che invoca i diritti della rivoluzione soltanto quando si tratta di giustificare gli istinti criminali del regime, e li dimentica quando si tratta di indulgere alle pretese dei plutocrati che finanziano il suo partito, è storicamente oziosa quando si pensi che la marcia su Roma - cosi com'è figurata nell'arte aulica del pittore Galimberti - fu un avvenimento storico sui generis di colore prettamente italiano, che, come tutti i nostri avvenimenti politici, era diretto a nascondere la crisi, piuttosto che a portata a maturazione.

I conati realizzatori del fascismo.

Ad ogni modo il fascismo ben presto fu a Roma e conquistò il governo, ma non riuscì contemporaneamente a conquistare lo Stato.

Venne coniata la nuova e brutta frase dascistizzazione dello Stato» per significare questa necessità dialettica. Ma come poteva il partito vittorioso creare un nuovo tipo di Stato se non aveva idee e se le riforme costituzionali proposte dal commendator Bianchi furono messe in ridicolo da tutto il paese?
Veramente il fascismo ebbe un primo momento di ebrezza, quando rispolverò negli archivi i vecchi progetti obliati di riforma dell'antico regime e tentò vararli in una furia panica di distruzione, tra i lazzi dei fiancheggiatori che sputavano volentieri in faccia alloro passato, gridando ai quattro venti che, mai e poi mai, si era visto un fenomeno così grande di riforme burocratiche, partorito con simile rapidità dalla mente dei ministri.
Ma tutto ciò, se valse ad illudere per qualche mese il pubblico grosso, non servì, in definitiva, a placare la crisi del paese, desideroso di ben altre novità.
Del resto il fascismo, per lo stesso modo di formazione, che noi abbiamo tentato, quanto più ci è stato possibile, di definire, non poteva soddisfare tutte le esigenze rivoluzionarie del paese, perché, pur essendo alla base un movimento rivoluzionario; era diretto da un'eliteche aveva già transatto con tutte le forze della conservazione sociale preesistente.
Queste forze gli impedivano qualsiasi attentato sia alla costituzione politica che alla costituzione economica del paese, precludendogli tutte le vie attraverso cui la rivoluzione poteva realmente farsi. Così tutta la novità politica del fascismo si riduceva ad una sostituzione violenta di uomini nelle cariche pubbliche fatta per via militare (cioè per una via estremamente dannosa al fascismo stesso, che vedeva prevalere nelle sue stesse file i più violenti e perciò i meno competenti, operando così una selezione a rovescio), che permetteva di nascondere le deficienze politiche del movimento sotto la compressione dello squadrismo.
D'altra parte, nemmeno nel campo amministrativo il fascismo poteva operare grandi cose. Esso avrebbe potuto, per le sue origini rurali e per la sua spregiudicatezza rivoluzionaria, tentare d'iniziare la lotta contro la burocrazia, cercando di disimpegnare, quanto più era possibile, la vita delle province dal prepotere del centro, ma dopo le transazioni compiute non poteva più azzardare una lotta simile, sia perché la sua ideologia fondamentale era il rinsaldamento dell'unitarismo dispotico e livellatore, rappresentato in Italia unicamente dal prepotere della burocrazia, sia perché, mettendosi contro questo potere onnipotente ed irresponsabile dello Stato, avrebbe rischiato di spezzare la continuità della pubblica amministrazione, deludendo così immediatamente le colossali speranze del paese, stanco degli scioperi degli impiegati statali.
Fu perciò che il fascismo dovette contentarsi di attuare soltanto quelle riforme che la burocrazia stessa in altri periodi di crisi aveva approntato per salvarsi, e che, passato il pericolo, erano state passate agli atti.
Molti furono i progetti, alcuni relativi a criteri di differente aggruppamento dei servizi statali, altri mutuati dal liberalismo e diretti a retrocedere all'iniziativa privata particolari servizi pubblici, altri ancora derivati dal socialismo di Stato e diretti a difesa di interessi parassitari. Ma  nessuno di essi riuscì ad essere realizzato quando offendeva gl'interessi dei ceti politici dominanti.
Così la politica fascista, integrata dalla finanza del ministro De Stefani diretta ad incoraggiare le classi abbienti anche se, anzi proprio, a danno delle classi umili, accreditò in molti la convinzione che il fascismo fosse una pura e semplice reazione padronale e che si potessero interamente trascurare tutti gli altri aspetti della sua formazione.

La crisi del fascismo.

Tale semplicismo nascondeva il vero aspetto del problema e cioè che, nello stesso momento in cui il fascismo era giunto a Roma, era cominciata la sua crisi.
Legato al bolscevismo da un simile destino, il fascismo doveva subire lo stesso sbandamento. Risultava infatti impossibile di realizzare politicamente le formule astratte, che ne costituivano il mito, senza correre il rischio di agire sulla sua stessa formazione, disgregandola.

Questa contraddizione intrinseca veniva, poi, accentuata dalla politica finanziaria adottata dal governo ad esclusivo beneficio dei ceti plutocratici.
Infatti, mentre il fascismo era stato, per un certo tempo, e più ancora era stato teorizzato come la lotta di classe della piccola borghesia, era evidente fin dal suo sorgere che esso avrebbe dovuto soccombere proprio nel campo delle delusioni 'di questa classe.
E, invero, gli sforzi politici postbellici di tutti i ceti erano rivolti a sottrarsi alle conseguenze economiche della guerra. Il,bolscevismo, sotto questo profilo, fu il tentativo del proletariato cittadino di capovolgere la situazione economica italiana a proprio vantaggio, risolvendo non solo il problema contingente delle spese di guerra, ma altresì quello più vasto della distribuzione delle ricchezze.
Il fascismo invece, mentre nel suo primo nascere rappresentò lo sforzo di liberazione della piccola borghesia, i cui interessi, dipendendo in molta parte dall'azione eco-nomica dello Stato, erano stati danneggiati - più per incomprensione che per calcolo - dalla lotta fra le altre classi, nel suo secondo momento incarnò la reazione del capitalismo, attraverso altre classi, sia ai pericoli economici del proletariato che della stessa piccola borghesia.
D'altra parte questa famosa ricostruzione delle finanze statali doveva pur farsi a carico di qualcuno, e perciò, data l'intonazione plutocratica del governo fascista, era fatale che dovessero soffrirne le classi umili, che erano le più numerose.
Ecco, dunque, che il fascismo, sollecitato a realizzare il mito della ricostruzione, che era un mito piccolo se, doveva comprimere proprio l'economia piccolo borghese.
Ma la grandiosità della crisi, che si spalancava ai piedi del fascismo, era complicata appunto dall'incrociarsi delle azioni e delle reazioni delle forze che del partito costituivano l'amalgama.
Infatti, mentre i gruppi cosiddetti costituzionali, che, dopo la marcia su Roma, si erano affrettati a gettarsi nei ranghi del nuovo partito, urgevano per ricondurre la sommossa piccolo-borghese a stagnare nel vecchio schema dello Stato unitario prebellico, le originarie forze rivoluzionarie della formazione fascista, timorose di essere rivolte in funzione di conservazione, e non sapendo, d'altra parte, come assolvere il loro compito, si rinserravano sempre più nello squadrismo, svelando l'intrinseca debolezza del cosiddetto Stato forte.
Mussolini era, quindi, costretto dalle necessità del suo compito ad equilibrare le due correnti, non già in un ordine definitivo di governo, perché nessuna sintesi era dialetticamente possibile, ma in uno sforzo di atteggiamenti personali diretti a ritardare per quanto era possibile lo scioglimento della situazione.
Questo atteggiamento era destinato a deludere e quelli che, attribuendogli il compito di aver effettuata una vera e propria rivoluzione, aspettavano dalla sua opera di legislatore il nuovo ordine politico-sociale, e quelli che, attribuendogli invece il ruolo di servitore del regime, aspettavano dalla sua opera di conservatore la sconfitta di tutte
le aspettative rivoluzionarie del paese, comprese quelle diffuse nel campo fascista.

La politica delle due porte aperte.

Ma questa politica, definita brillantemente da Mario Vinciguerra «delle due porte aperte», non poteva continuare indefinitamente, appunto perché era niente altro che un espediente appena giustificabile, se fosse stato diretto a prender tempo per poi organizzare una rete di interessi medi, intorno a cui precostituire la difesa del regime contro gli assalti delle delusioni rivoluzionarie.
Ma Mussolini ebbe paura di abbandonare a tempo la politica delle due porte aperte, o non comprese quando questo tempo fu venuto. Egli preferì continuare ad atteggiarsi a duce della rivoluzione, pur comprendendo che non poteva mettere in atto nessun apprezzabile mutamento nell'organizzazione dello Stato.
La sua abilità demagogica lo abbandonò sul confine delle sagre proprio là dove cominciava il vero imperativo categorico della politica.

Egli non seppe né distruggere la vecchia finzione liberale del governo superiore ai partiti, né attuare in pieno la concezione giacobina dello Stato-partito ed ondeggiò perplesso, seguendo gli istinti dei suoi squadristi attraverso discorsi di pura violenza verbale, non senza accarezzare, volta per volta, gli istinti trasformistici dei vecchi ceti dirigenti.
Questo nuovo trasformismo, subito avvertito dai pochi gruppi culturali italiani forniti di sensibilità politica, incominciò col famoso discorso d'inizio in Montecitorio, quando il capo del fascismo trincerò abilmente le sue rinunzie rivoluzionarie sotto il frasario da squadrista.
Nell'aula sorda e grigia, ove avrebbero potuto bivaccare i manipoli, non solo fu lasciato a sedere il Parlamento nazionale, istituzione politica che si pretendeva già defenestrata in sede di dottrina nazional-fascista, ma addirittura la XXVI legislatura, che tante accuse aveva sollevato nell'incandescente e mutevole pubblica opinione.
Se Emmanuele Kant decapitò Iddio e Massimiliano Roobespierre decapitò il re, Benito Mussolini, dopo aver letto nell'aula sorda e grigia di Montecitorio un articolo di fondo del «Popolo d'Italia», decapitò nessuno ... ma chiese i pieni poteri alla XXVI legislatura. La voluta tragedia si chiudeva nella farsa.

Il fascismo rivoluzionario 'Contro il trasformismo mussoliniano.

Tuttavia la rivoluzione fascista continuò sotterraneamente il suo cammino.
Il fenomeno che abbiamo osservato per il bolscevismo si ripeté per il fascismo.
Le aspettazioni messianiche dei giovani fascisti erano cosi forti che essi mal si rassegnavano all'inerzia del governo.
Infatti la prima mossa rivoluzionaria degli intransigenti fu di distruggere l'autorità e la funzione dei prefetti.
Il potere si frantumò secondo necessità politiche locali, si estraniò quanto più fu possibile dal centro per aderire alla realtà regionale.
Al capolega si sostituì il fiduciario fascista, alla lega il direttorio: dovunque pullularono i dittatori che abolirono le leggi, il costume, la buona creanza ed altre verità convenzionali e vi sostituirono l'arbitrio e la violenza.
Il governo avrebbe voluto impedire tutto questo feudalismo, ma era impotente sia perché era trasformistico, sia perché la teoria dello Stato-partito lo rendeva schiavo del PNF.
Cosi il primo ministero Mussolini, malgrado il forte ascendente e l'accorgimento del suo capo, che era giunto fino al punto di chiedere la collaborazione del PPI, malgrado la tranquillità apparente di tutto il popolo italiano, si svelava debolissimo: infatti, non poteva fare la conservazione perché di provenienza rivoluzionaria e non voleva fare la rivoluzione perché prigioniero delle forze della conservazione sociale.
In tale condizione di cose la crisi fascista non poteva non allargarsi. I primi sintomi di tale allargamento furono l'allontanamento dei fascisti dissidenti, di cui alcuni reagivano al giacobinismo, dimostrando di aver assegnato al movimento compiti di democrazia sociale, altri reagiivano al trasformismo, dimostrando di volersi attenere alle pregiudiziali rivoluzionarie. Si svelava cOSI all'occhio dell'osservatore imparziale la repellenza rivoluzionaria a laasciarsi imprigionare nel trasformismo mussoliniano, anche se la campagna condotta nel paese per reclutare nuovi adepti, fruttava al partito dominante una significativa collezione di arrivisti.

Il fascismo e gli altri partiti.

Ma nemmeno nel campo del governo le cose procedevano secondo le aspettative, perché gli uomini di fede non fascista, inclusi nel Gabinetto, chiedevano al duce che, con il riconoscimento esplicito della loro posizione ministeriale, fosse vietato ai fascisti delle province di danneggiare le loro basi elettorali:

In sostanza essi, intuendo di essere necessari al giuoco trasformista del duce, volevano istituire e perfezionare con lui un vero e proprio contratto do ut des.
Ma essi si sbagliavano rotondamente, come si sbagliò il duce stesso quando credete risolvere la situazione con la dichiarazione di amicizia al Partito demo-sociale, o con altri espedienti perché l'intransigenza dei fascisti di provincia era tale che i propositi conciliativi del centro venivano, volta a volta, frustrati dalle esigenze della periferia.
Specialmente nei riguardi del PPI questa antitesi apparve evidente, perché non era possibile far coesistere a lungo lo spirito ciecamente totalitario del fascismo con le ragioni ideali e storiche, che avevano trovato la loro concretazione nel giovane partito.
Forse l'esperimento che questo volle fare, collaborando anche col fascismo, fu in funzione di quello sforzo costante che esso condusse in tutto il periodo postbellico pur di adempiere, anche in mezzo al terremoto politico italiano, la sua funzione di centro, che poi, in tempi di rivoluzione, si traduce in nient'altro che in funzione di conservazione.
Ma, appunto perciò, la collaborazione non era possibile, perché il centrismo popolare avrebbe richiesto uno Stato costituito su interessi medi consolidati e non in ebollizione, una relativa calma nel paese, un governo padrone dei suoi destini e non preoccupato degli umori di una fazione.
In effetti, il governo centrale cercò di non scoprire ed esasperare questa antinomia per quanto fu possibile, ma la collaborazione con i popolari, dopo alcuni timidi tentativi nel campo municipale, doveva fallire appunto per l'intransigenza dei fascisti locali, che ripresero a dispetto del governo la loro funzione totalitaria.
Ben presto si comprese che, essendo fallita la collaborazione popolare nelle province, non poteva oltre continuare a Roma e che il patto di collaborazione, corrispondendo ad una reciproca illusione, era destinato ad essere denunziato.
D'altra parte, essendosi intensificata la situazione rivoluzionaria italiana, il PPI era logicamente portato a prendere in esame il preciso contenuto della politica governativa e le possibilità dell'avvenire per decidersi secondo prospettive più ampie.
Questo esame di coscienza non poteva non assodare che la politica padronale del fascismo, riproducendo, anzi peggiorando il vecchio Stato burocratico-accentratore, che veniva spogliato di tutti gli orpelli e le finzioni legali, atti a farlo ritenere un vero e proprio Stato di diritto, lo trasformava in organo della reazione contro cui la nuova ondata rivoluzionaria si addensava nel sotto suolo della storia.
Di fronte a questa situazione il PPI, rivedendo la sua posizione tattica, era costretto non soltanto a negare al governo fascista ogni aiuto, spingendolo sempre più nella fase reattiva, ma era sollecitato a prendere posto sul nuovo terreno di lotta.
E tale necessità appariva tanto più operante quanto più i cosiddetti partiti liberali o democratici, svelando la loro natura di organismi trasformistici, abdicavano dinanzi alla vittoria fascista, lasciando alle opposizioni libero il terreno della difesa della libertà dal loro mostruoso equivoco.
Fu, perciò, che don Sturzo, con una di quelle mosse che fanno di lui uno dei più agili uomini politici italiani, al Congresso di Torino preparò il terreno per la nuova manovra, senza tuttavia assumersi la responsabilità del distacco, che lasciò invece all'irosa suscettibilità del signor Mussolini.
COSI fu inferto il primo gravissimo colpo al trasformismo mussoliniano. Restavano SI nel ministero il duca di Cesarò ed il signor Carnazza, ma, mentre quest'ultimo fu costretto a tesserarsi, il primo, pur non rappresentando un vero e proprio partito organizzato, ma poche posizioni elettorali personali, non dovette tardare a seguire il Partito popolare se volle creare nell'insorgente antifascismo meridionale una ragione di vita pel suo partito.

Un espediente: la nuova legge elettorale.

Intanto il fascismo agrario si rinforzava sostituendo quasi del tutto nelle zone di origine il riformismo socialista, con gli stessi caratteri di turbolenza e di parassitismo. Invece nelle città guadagnavano terreno le opposizioni. Specialmente quella che Salvatorelli definiva la borghesia umanistica ci faceva assistere ad una di quelle improvvise conversioni che sono caratteristiche della storia politica italiana. Sotto la compressione fascista essa aderiva principalmente alla critica dell'opposizione costituzionale e dei socialisti unitari, privando così il fascismo di ogni contenuto romantico.
In tale condizione di cose al partito dominante non rimaneva altro che far leva sui ceti rurali intensificando il reclutamento della MVSN per dominare con la forza le città. Così si accentuava quel fenomeno di lotta tra la città e la campagna,' già prodottosi all'epoca del bolscevismo, e da cui, solo per immaturità delle masse, il fascismo traeva nuove forze per continuare la sua politica padronale.
Ma questa politica aveva tutti i caratteri dell'instabilità.
Non era possibile deludere contemporaneamente le ragioni della rivoluzione e della reazione, appoggiandosi esclusivamente alla milizia di partito: non era possibile continuare il trasformismo con le idee, quando la secessione del PPI svelava l'intrinseca debolezza del governo nel campo politico: soprattutto non era possibile continuare a governare contro le classi dirigenti vecchie conservando il Parlamento da esse eletto.
È vero che il fascismo stentava a produrre la nuova classe dirigente, ma appunto perciò, occorreva crearla per forza, meccanicamente.
E il paternalismo del signor Mussolini si accinse anche a questa fatica.
Era forse la fatica più ingrata, perché il buio in cui navigava il governo era così fitto che veniva di istinto d'aggrapparsi al manganello del generale De Bono e di lasciare in pace gli scogli istituzionali per paura di far peggio, ma vi sono delle ore nella storia in cui maturano le grandi decisioni, ed il signor Mussolini, buon tattico, lo comprese quando lanciò alle turbe attonite il grande annunzio elettorale.
D'altronde è tradizionale in Italia che il governo che faccia le elezioni raccolga un numero di adesioni molto maggiori di quelle che effettivamente ha, appunto perché fa le elezioni.
Veramente ciò avrebbe dovuto essere privo d'importanza per un governo rivoluzionario, ma il signor Mussolini era sempre incerto sul modo come organizzare il suo dominio e perciò mostrava di non sgradire gli appoggi dei ministeriali di professione.
In queste constatazioni è tutta la fotografia della situazione psicologica in cui si trovava il governo, quando propose al Parlamento la riforma elettorale, col confessato scopo di creare ad ogni costo una maggioranza parlamentare al governo.
COSI fu impostata una grande battaglia di chiacchiere, che doveva avere l'unico scopo di distrarre il paese dalle lusinghe rivoluzionarie circolanti nel fondo di ogni cuore.
Le opposizioni, pur conoscendo a priori che la riforma sarebbe egualmente passata, accolsero con gioia l'annunzio della battaglia, sicure di logorare fortemente il governo sul terreno dei criteri giuridici che debbono presiedere la rappresentanza e di prospettarlo come nemico della libertà:
Il fascismo, con quella inconseguenza che è in ogni suo atto, accettò la sfida, dichiarando che esso avrebbe sempre avuto la forza per fare a meno del consenso, e che solo per far piacere agli avversari intendeva avvalersi dei congegni legali.
A chi imprende serenamente ad analizzare questa posizione fascista non potrà sfuggire il senso di grottesco di cui è impregnata.
Invero l'opinione pubblica, che all'epoca della marcia su Roma era stata facilmente attratta dal miraggio del pareggio finanziario a breve scadenza, della ricostruzione imminente, della necessità di un'energica politica nazionale, non riusciva a comprendere perché il governo fascista, disponendo di cosi valido aiuto, dovesse ricorrere alla violenza, soprattutto perché, attraverso tutti gli atti del partito dominante, lungi dall'emergere anche un lontano ma sicuro proposito di ricostruzione, emergesse soltanto l'idea di tenere ad ogni costo il potere anche contro il volere della maggioranza del popolo italiano.
Il fascismo, che si era largamente giovato dello stesso errore commesso dal bolscevismo, vi ricadeva con una leggerezza, spiegabile solo quando si ammetta, senza bisogno di speciale dimostrazione, che esso del bolscevismo aveva ereditato alcune caratteristiche e necessità fondamentali.
Tuttavia la riforma elettorale fu approvata proprio per l'intervento dei vecchi ceti dirigenti che fecero presente la necessità del governo di doversi disimpegnare dall'estremismo fascista appoggiandosi ad una salda maggioranza parlamentare.
Per la terza volta, dunque, nel giro di due anni il fascismo mussoliniano era costretto a transigere con i vecchi ceti dirigenti e ad accettare da loro il passaporto per l’azione.
Pare che il vecchio Giolitti, nominato presidente della Commissione parlamentare per lo studio della legge elettorale, nell'insistere perché questo aborto giuridico fosse approvato, dicesse sorridendo: «Quanto peggio è, meglio è», frase che dovrebbe rimanere storica perché in essa si che è racchiuso lo spirito di Machiavelli!
Ma il duce del fascismo, occupato a studiare quest'autore nelle falsificazioni imponenti dei tiranni bestiali, non si accorgeva della sua presenza silenziosa ed operante!
In quella circostanza e come contraccolpo del Congresso di Torino avvenne la scissione del PPI, che perdette taluni gruppi parlamentari, giornalistici e bancari più interessati ad amicarsi il governo per finalità particolari, che a seguire il partito nel suo programma di democrazia cristiana su cui, sotto la spinta fascista, sempre più si arroccava.

Le elezioni rivoluzionarie.

Approvata la nuova legge elettorale parve che il governo non intendesse servirsene. Forse questo fu il vero pensiero del signor Mussolini in quel periodo di tempo, se si pensa che difficilmente egli avrebbe potuto trovare una Camera più docile di quella che si era lasciata oltraggiare senza un senso di ribellione.
Ma la crisi del fascismo, che si approfondiva sempre più, richiedeva nuovi espedienti antirivoluzionari cioè trasformistici, per placare la impazienza delle masse.
Se le opposizioni, per la stessa necessità di plasmarsi e selezionarsi, dovevano battagliare quotidianamente col fascismo, questo non era libero dallo stesso imperativo.
Esso aveva bisogno di offrire ai suoi adepti sempre nuovi obiettivi per galvanizzarne gli sforzi e le aspirazioni almeno in un'unità formale, capace di illuderli di perseguire finalità rivoluzionarie, anche quando tentava di farli scivolare nello scialbo legalitarismo prerivoluzionario. In sostanza che cosa poteva interessare al fascismo il quorum del 25 o del 35 per cento, quando riteneva di aver fatto la rivoluzione?
Che importanza poteva avere la ,conquista del Parlamento quando la sua ideologia primordiale era antidemocratica ed antiparlamentare? Non doveva tutto ciò deludere le aspettative del movimento?
Ma l'immaturità del partitone era tale che esso accolse l'annunzio della fiera elettorale tome se si trattasse dell'inizio di una vera azione rivoluzionaria. Per una strana deviazione politica, che fornisce, in sintesi con tutti gli altri sintomi, la prova dell'insufficienza storica del popolo italiano a forme di autonomia spirituale e conseguentemente politica, le masse fasciste non si accorsero che, lanciate nella fiera elettorale, venivano assunte in funzione di conservazione, e che, anche se con i manganelli e con la violenza fossero riuscite a non far votare gli avversari, questi trionfavano sempre, in quanto che li obbligavano ad aderire alloro sistema politico.
Fu forse perciò che, dopo approvata la legge elettorale, Mussolini fu lungamente perplesso nel bandire le elezioni?
O piuttosto ebbe paura delle bizze interne del partito e, più che altro, dei fiancheggiatori?
Ma il fatto stesso di avere apprestato il nuovo congegno elettorale aveva messo un fremito negli aspiranti alla medaglietta, che, in periodo rivoluzionario, invece di diminuire, erano notevolmente aumentati.
D'altra parte, non si poteva indefinitamente governare col vecchio Parlamento quando nuove forze e nuovi aggruppamenti si erano determinati nel paese.

Fu perciò che, sotto la pressione degli avvenimenti, il governo fascista si decise a bandire la fiera elettorale ed a lanciare le camicie nere alla conquista del Parlamento.
La storia di quest'impresa non ha che assai scarsa importanza sia per quanto riguarda la formazione delle liste sia per quanto riguarda la conquista dei seggi.
Le liste furono formate con criteri vecchio stile, anche perché il fascismo non aveva ancora prodotto la famosa élite di cui si vantava. In molte province si dovettero includere notevoli schiere di fiancheggia tori o di cosiddetti competenti, per impedire contraccolpi elettorali di carattere locale che minacciavano la consistenza della lista governativa.
Questa semplice constatazione è rivelatrice di una situazione politica, in cui il serio si mescola al grottesco, la rivoluzione si sposa alla farsa.
Il fascismo, fenomeno rivoluzionario ed antiparlamentare, si decide a parlamentarizzarsi per poter mantenere al governo la sua formazione d'élite, e tuttavia non può nemmeno parlamentarizzarsi da se stesso, ma deve chiedere aiuto alle schiere dei fiancheggiatori, cioè dei vecchi governanti spodestati.
Non si poteva certamente immaginare una posizione politica più contraddittoria di questa.
Ma la rivoluzione esisteva a dispetto di tutte le formazioni in lotta, e in ispecie a dispetto del fascismo ufficiale, che vedeva ogni giorno frustrati i suoi calcoli dalla realtà sociale del paese.
Riesce a spezzare la delicata funzione del meccanismo elettorale: le elezioni vennero fatte in tutta Italia con estrema violenza. I metodi meridionali di lotta vennero estesi all'Italia. La MVSN, presidio armato del partito dominante, venne impiegata per terrorizzare specialmente le zone rurali e impedire alle opposizioni di esercitare ogni propaganda elettorale.
Cosi il fascismo-rivoluzione, cioè il fascismo delle province, trionfò del trasformismo e gli spezzò nelle mani l'incantesimo .. La scheda non servi a niente: la parola spettò ancora una volta al randello.
Tuttavia queste elezioni generali valsero a chiarire uno stato di psicologia delle masse di notevole importanza: il processo di polarizzazione agli estremi del corpo elettorale. La sconfitta di Bonomi a Milano e il limitato seguito di Amendola nel Sud contrapposti al successo elettorale del Partito comunista, chiarirono il progressivo indebolimento delle tesi medie, la scarsa fiducia del corpo elettorale in quelle soluzioni costituzionali che miravano ad annullare il fatto rivoluzionario e a ricostituire sulle basi del 19 I 5 il dominio delle classi dirigenti.
Il paese cosi lasciò intendere di esigere la reale soluzione del problema italiano anche sul terreno della forza.
Ad ogni modo queste elezioni, mentre potenziarono le opposizioni, che, in una lotta cosi severa, selezionarono dirigenti e gregari, accentuarono notevolmente la crisi fascista, dimostrando a tutti gli ingredienti della formazione quale distanza separava l'élite dirigente dai propositi rivoluzionari della massa.
La politica delle due porte aperte veniva, dunque, battuta in breccia sia dalle opposizioni che dal fascismo stesso, e il tentativo di creare una nuova formazione parlamentare, su cui appoggiarsi, cadeva senza risultato. Cosi la situazione rivoluzionaria della periferia si ripercuoteva nuovamente al centro.

Il fascismo non sa servirsi del Parlamento
Ma il culmine della crisi veniva raggiunto poco dopo quando si trattò di far funzionare il Parlamento.
Per quanto l'immaturità del paese fosse enorme, per quanto il fascismo intransigente si fosse lasciato convogliare sul terreno parlamentare, non appariva possibile, quando il Parlamento riapri i suoi battenti, consentire alle opposizioni l'esercizio del controllo.
Vi era, dunque, una situazione estremamente tesa, da cui era difficile uscire, perché le opposizioni erano portate dalla stessa crisi fascista e dal rinnovato voto popolare ad esercitare con energia la critica ai metodi del governo, approfittando dell'imbarazzo in cui questo si trovava di dovere, da una parte, subire l'intransigenza dei rivoluzionari e dall'altra adottare come terreno di lotta quello parlamentare assai propizio agli avversari. Cosi il governo non sapeva essere né giacobino, come lo volevano i fascisti, né parlamentare, come cercavano di farlo essere gli oppositori, ma doveva mantenersi in una linea che cumulava tutti gli svantaggi dei due sistemi.
Ma una posizione cosi ibrida non poteva durare a lungo anche perché le opposizioni erano interessate ad avvalersi della tribuna e delle immunità parlamentari per discutere a fondo la situazione politica. Esse si sforzavano di trascinare il governo sul terreno della legalità per tentare di batterlo.
Questa tattica non poteva, d'altra parte, che rendere assolutamente debole la soluzione governativa, e rinforzare l'estremismo fascista, spingendolo verso le estreme conseguenze.
Queste giuste previsioni, infatti, si verificarono puntualmente all'apertura del Parlamento.
La prima settimana fu una solenne beneficiata per le opposizioni, specialmente per quelle che rinserravano tutta la loro critica nell'astrattismo legalitario.
L'estremismo fascista era furente: il governo era disorientato completamente.

Il delitto Matteotti.

In tali condizioni di cose si determinò l'ambiente in cui scoppiò il delitto Matteotti, che precipitò di colpo la situazione.
Sotto l'impressione del terribile delitto tutte le forze di opposizione si videro improvvisamente rinforzate da correnti impetuose di opinione pubblica, che reclamavano giustizia contro gli assassini e mostravano chiaramente di ritenere coinvolto, almeno nella responsabilità morale, il governo.
Di fronte a queste ondate di opinione pubblica assolutamente imprevedute dagli organi ministeri ali, che avevano preso per moneta contante sia il consenso che la calma apparente del paese, Mussolini si vide perduto.
Le sue prime dichiarazioni furono fredde, compassate. Egli sperava di poter ancora mantenere l'equilibrio tra le diverse correnti in lotta. Ma l'affare Matteotti era molto più grave di quello che il fascismo immaginava, perché era destinato a dare la prova della capacità di resistenza della debolissima sutura che teneva unite correnti cosi disparate, sutura che consisteva nella abilità trasformistica del duce.

Mussolini tenta il salvataggio.

Sotto la pressione continua ed incalzante degli avvenimenti il giuoco sfuggì completamente di mano al signor Mussolini, che, assalito dal panico, accumulò errori su errori.
Probabilmente se egli si fosse alzato in Parlamento per sostenere la tesi del delitto di Stato nessuno avrebbe osato reagire, ma questa tesi richiedeva altra statura ed il signor Mussolini si era già rivelato un demagogo senza alcuna passione rivoluzionaria.
Gli avvenimenti, non fronteggiati con rimedi straordinari, e secondo l'unica via logica che ancora rimaneva aperta, ben presto soverchiarono la mediocre prassi governativa dell'uomo.
Di fronte allo scoppio di morbosa sensibilità dell'opinione pubblica, il signor Mussolini non seppe far altro che iniziare egli stesso il processo al regime, nella segreta speranza di aver grazia presso gli avversari e di poter continuare la politica delle due porte aperte.
Sotto questa mediocre impressione egli ordinò l'arresto dei suoi collaboratori più fidati come mandanti in omicidio, svelando per primo al paese attonito la esistenza di una vera organizzazione nichilista annidata nel suo gabinetto.
Questo primo errore colossale partorì gli altri, perché rese possibile il ritorno controffensivo dei fiancheggiatori.
Questi avevano già permeato il movimento fascista sperando di poter rivolgere Mussolini in funzione di conservazione, ma di fronte alla sua politica anodina, stavano sempre in vedetta per evitare che il temperamento del duce giocasse loro qualche sorpresa.

Soprattutto sospettavano le origini rivoluzionarie dell'uomo e del movimento, e dall'esperienza di quel primo periodo di governo avevano già tratto la convinzione che occorresse liberarsi dal fascismo per evidenti ragioni di conservazione.
Non parve, perciò, che dovessero attendere un'altra occasione per svolgere la loro contromarcia difensiva.

La manovra fiancheggiatrice.

Invano Mussolini tentò galvanizzare la crisi rinunziando al portafogli dell'Interno e silurando De Bono nel posto di direttore generale della P.S.: i fiancheggiatori incalzarono, fatti sempre più esperti della debolezza avversaria.
In verità questa politica fiancheggiatrice aveva il vantaggio di costituire un centro di manovra, che, mentre avrebbe potuto costringere Mussolini, con la quotidiana minaccia di secessione, ad abbracciare definitivamente la politica normalizzatrice, si prospettava già come elemento di stabilizzazione nel caso di vittoria delle opposizioni.
Oltre di ciò questo centro sperava di poter seguire e sfruttare tutte le emozioni della piccola borghesia che tornava ad orientarsi verso le cosi dette soluzioni democratiche, e minacciava, perciò, di diventare preda delle opposizioni.
Era in sostanza questa una politica a doppia faccia che faceva sperare ai fiancheggia tori di essere in ogni caso presenti alla successione.
Essi ritenevano di aver costruito sempre la vera forza del fascismo e perciò si tenevano convinti di poterlo obbligare ad agire secondo i loro desideri o di poterlo uccidere sol che avessero voluto.
Di fronte a questa manovra Mussolini adottò la solita politica pendolare: annunziò la legalizzazione al Senato per non accentuare le preoccupazioni costituzionali dei patres conscripti, ed esaltò lo spirito bellicoso degli squadristi nelle adunate regionali; profittò dell'uccisione del deputato Casalini per dar risalto alla disciplina del suo partito e disconobbe ogni valore alla secessione parlamentare delle opposizioni, dichiarandosi pago di governare attraverso le comparse della maggioranza.
Ma questo giuoco non aveva piu probabilità di riuscita di fronte al contegno dei ceti dirigenti che cercavano disperatamente di potenziare il giuoco dei fiancheggiatori.
Cosi assistemmo ad una serie di fatti rivelatori della manovra di accerchiamento, che impedivano assolutamente al governo di ripetere con successo il suo moto pendolare: distacco dei mutilati e dei combattenti, distacco dei liberali di sinistra, distacco dei giolittiani.
Con un crescendo continuo Mussolini veniva ricacciato verso l'estremismo farinacciano, mobilitandogli contro una per una le stesse forze che nel 1922 lo avevano aiutato ad agguantare il potere.

V IL MEZZOGIORNO DELLO STATO UNITARIO

Le basi storiche della conquista regia nel Mezzogiorno.

La conquista regia trovò il suo campo classico di applicazione nel Mezzogiorno che, pur avendo dato all'Italia i primi annunzi di libertà si accorse all'indomani dell'impresa garibaldina, di essere stato conquistato.
Eppure, il Mezzogiorno elaborò la filosofia della Destra storica, dottrina classica del liberalismo italiano, e contribui potentemente con gli albertisti, cioè con i patrioti sostenitori dell'unificazione attraverso l'opera della Casa Sabauda, a formare e dirigere il nuovo Stato!
Ad un primo esame non si riesce, perciò, a comprendere perché il centralismo piemontese poté estendersi annche nel Sud, tutto livellando sotto l'uniformità di schemi elaborati nei freddi uffici della burocrazia.

Nell'incomprensione di questo fenomeno si rischia cosi di giustificare, senza critica, il piti cieco e brutale unitarsimo, come di non afferrare il potente contenuto libertario e le ragioni storiche che accreditano sempre più le dottrine autonomiste.
Centralismo meridionale.

Fattori naturali e fattori morali impedirono al Mezzogiorno d'Italia - dopo che la colonizzazione ellenica, sempre ristretta alle coste e impedita di diffondersi nell'interno dall'ostilità delle popolazioni barbare di pastori, fu sopraffatta dall'occupazione romana - di svolgere una sua originale civiltà.
Forse furono inizio della sua decadenza le terribili stragi ed i saccheggi della guerra contro Pirro e della seconda punica, che, secondo il Beloch, determinarono una sensibile diminuzione di popolazione, e la susseguente conquista dell'Africa, che costituendo questa colonia in granaio dell'Impero, tolse importanza alla cerealicoltura della Sicilia e del Mezzogiorno continentale: certo è che mentre la vita municipale del Nord seppe superare le invasioni barbariche, ed imporre ai conquistatori di adattarsi ad essa, obbligando specialmente i longobardi, che ebbero dominio piu lungo e più stabile, ad adottare un ordinamento militare frazionato, che rispondeva alle esigenze di tanti centri autonomi di vita, lo squallore dell'ambiente rurale del Sud ed il sopraggiunto isolamento commerciale facilitarono il costituirsi di un organismo accentrato ed ereditario quale fu il ducato di Benevento, con scarsa luce di cultura, seppur capace di resistere militarmente alla potenza carolingia, estesasi agevolmente fino alle rive del Garigliano.
Nel ducato di Benevento era un primo abbozzo del Regno, quale poi riuscirono a formarlo i normanni, quando liberarono la costa dai bizantini e la vicina Sicilia dai saraceni, eredi gli uni e gli altri delle tradizioni elleniche e puniche.
Da allora questa vasta parte d'Italia di scarsa fertilità, dove rare sono le piogge e i fiumi hanno carattere torrentizio, contraddistinta dal latifondo e dalle colture estensive, visse separata dal resto della penisola, e, dopo la conquista angioina, conferi ogni facoltà direttiva, ogni forma di attività spirituale a Napoli, la grande e gloriosa parassita in continuo aumento, perché tutte le intelligenze, le energie del Regno vi confluivano ad accrescere l'autorità ed il fasto di una corte che voleva emulare lo splendore di quella di Francia.
I normanni fondarono il Regno, limitarono i poteri, fissarono gli obblighi militari, riconobbero i titoli d'investitura dei baroni, con Ruggero agevolarono la vita municipale, garantendo alle università la facoltà di liberamente regolarsi secondo i propri usi, costumi e consuetudini, ed introdussero diverse arti e manifatture nel Regno, tra cui importantissima l'industria della seta, divenuta in seguito oggetto di un attivissimo commercio.
Federico di Svevia, seguendo la loro tradizione, dette allo Stato un più sicuro ordinamento e quasi precorse la formazione della grande monarchia assoluta e burocratica, che si delineò in Europa nel secolo XVI ed arrivò al suo apogeo nel secolo XVIII. Egli infatti, perché non seguissero il pericoloso esempio dei comuni del Nord, rintuzzò le velleità autonomiste delle città e contemporaneamente vietò tutte le degenerazioni dell'ordinamento feudale, proibì ai baroni ogni altra giurisdizione al di fuori di quella civile di primo grado, e tenne cosi alta l'autorità dei judiciari. da renderla paragonabile solo a quella dei grandi ufficiali provinciali del potere esecutivo nell'età moderna.
Ma la conquista angioina e l'insurrezione siciliana  allentando i freni alla feudalità, l'altra troncando ogni possibilità di espansione della monarchia verso il Sud e l'Oriente - dovevano deprimere e modificare questa relativamente dignitosa organizzazione statale a cui le altre parti d'Italia guardavano con deferente meraviglia.

L'azione antifeudale della monarchia assoluta e la formazione della borghesia terriera.

Il Mezzogiorno, offerto all'alta banca fiorentina come colonia di sfruttamento economico, taglieggiato dal feudalismo, immiserito dal distacco della Sicilia e dalle conseguenti guerre, cominciò a precipitare verso la rovina, e, nonostante la parentesi aragonese, in cui fu possibile un relativo rifiorimento delle università demaniali e feudali, non si riebbe più, finché il successivo periodo viceregale e la folle tracotanza dei baroni non lo spinse in una situazione di degenerazione anarchica, che accrebbe di mille doppi le sue miserie.
In verità molte accuse sono state lanciate alla dinastia borbonica specialmente da parte dei liberali negli ultimi anni del suo dominio, e nella sua politica liberticida venne identificata l'origine della maggior parte delle disgrazie meridionali di cui il governo «negatore di Dio» parve avesse assunto tutte le responsabilità. Ma è giustizia riconoscere che la politica borbonica fu quasi sempre superiore alla sua fama, e che molte colpe attribuitele furono piuttosto il risultato di una complessa eredità storica, di cui il primo e più grande merito spetta alla politica economica spagnola, arredatrice - per usare un vocabolo dell'epoca - oltre ogni limite non di giustizia ma di umanità. Certo è che nel periodo feudale la dinastia borbonica, con Carlo III e Ferdinando IV, tentò liberarsi dal peso morto del feudalismo sia ponendo riparo alle offese recate dalla giustizia baronale, con il largo uso delle più squisite prerogative regie - la grazia e l'indulto - sia rigettando la pretesa che i diritti feudali dovessero essere privilegiati e preferiti come quelli fiscali, sia organizzando la regia polizia.
E il suo tentativo antifeudale giunse fino ad emanare l'editto del 1792, rimasto SI senza utile effetto, ma memorabile per il suo significato, col quale, sciogliendo ogni promiscuità d'usi e conservando i diritti dei coloni perpetui, si davano a censo, con assoluta prelazione dei nullatenenti, i demani, sia feudali che universali.
In verità questo tentativo borbonico di riprendere la funzione dell'assolutismo illuminato, che un secolo prima avrebbe potuto ancora svolgere un vero e proprio tema di politica nazionale, era ormai svalutato da necessità storiche europee, che, preparando la rivoluzione francese, superavano del tutto la concezione dell'assolutismo. Fu perciò, che lo svolgimento più pieno della lotta antifeudale poté esplicarsi nel periodo francese, contemporaneamente al tentativo di diffondere anche nel Mezzogiorno le istituzioni rappresentative.
Da questo momento lotta sociale e lotta politica si fusero e i dati storici della monarchia assoluta vennero messi in discussione anche nel Mezzogiorno.
Infatti a chi imprenda a studiare la storia del Regno delle Due Sicilie dal prorompere del primo anelito di libertà nella Repubblica partenopea fino alla unificazione italiana, non potrà sfuggire un fenomeno sociale che è la chiave di volta di ogni avvenimento posteriore. Intendiamo accennare al sorgere e pervenire a maturità politica di una nuova classe sociale, che acquista sempre più autonomia e caratteristiche proprie: la borghesia rurale.
Questa classe si componeva non soltanto dei proprietari terrieri, ma anche di magistrati, avvocati, medici, impiegati, che data la struttura economico-sociale del Mezzogiorno non erano altro che una propaggine dell'organizzazione della proprietà fondiaria.
La sua origine si deve ricercare nell'azione antibaronale della monarchia, diretta a ricondurre ad unità la proprietà terriera, spezzando i vincoli particolari ad essa imposti sotto il nome generico di usi civici, e sostituendo la piccola alla grande proprietà.
Ma la spinta maggiore alla formazione di questa classe fu data dalla rivoluzione partenopea, che, con le leggi eversive della feudalità accelerò il trapasso economico della proprietà ai ceti borghesi che da pochi anni sorgevano dalla massa confusa del proletariato rurale.
Le ragioni giuridiche formali che giustificavano la lotta alla feudalità furono brillantemente riassunte dai giuspubblicisti, che si occuparono del tema, nel vantaggio della classe padronale di favorire la trasformazione del feudo in allodio, per acquistare più larga possibilità di sfruttamento della sua proprietà, e nel compenso che il popolo avrebbe tratto dalle quotizzazioni in cambio della sparizione storica dei diversi usi civici.

Ma queste ragioni se trovano giustificazione sociale nella generale tendenza del secolo ad una maggiore e più intima appropriazione delle fonti di produzione della ricchezza e, quindi, nel Mezzogiorno, della terra, furono nell'applicazione pratica assai lungi dal realizzare quei criteri di giustizia astratta da cui movevano i sostenitori delle riforme. Tanto vero che la questione demaniale riaffiora ad ogni movimento che sembra scuotere il dominio delle classi dirigenti; e non è gran tempo che lo stesso fascismo a mezzo di Arrigo Serpieri tornava ad elaborare le ragioni ideali di giustizia che inutilmente nel 1799 e nel 1861 erano state invocate.
In effetto, le leggi eversive della feudalità servirono molto più a potenziare la borghesia rurale in formazione che a sollevare le misere condizioni del popolo, perché le rivendiche contro gli usurpa tori - in massima parte borghesi, - non essendo state condotte a fondo, non eliminarono le cause di ingiustizia, e le quotizzazioni rimasero quasi del tutto senza esito perché numerosissime furono le quote non assegnate per mancanza di richieste e più ancora furono quelle retrocesse per mancanza di capitali occorrenti per la messa a coltura. Molte altre infine furono vendute con contratti simulati agli stessi usurpa tori, malgrado il divieto della legge.
Fu cosi che tutto il sistema giuridico di eversione della feudalità non riuscì ad altro scopo che ad elaborare storicamente la borghesia rurale. Essa si venne un po' da per tutto sostituendo alla vecchia classe feudale, di cui assorbì per conseguenza la funzione economica, contrapponendosi, con eguale tenacia, allo sforzo di rivendicazione delle classi più umili.
Lentamente la sua forza cominciò a divenire cosi notevole che i Borboni, tornati dopo la parentesi repubblicana, si cominciarono a preoccupare, intuendo, per quanto vagamente, di trovarsi in presenza di una classe politicamente rivoluzionaria. .
Essi cercarono porvi un riparo, dichiarando solennemente con Ferdinando I, che la feudalità - ostile, piu che ad altri, allo stesso sistema monarchico - non sarebbe stata ripristinata. Ma questo gesto politico non ebbe molta risonanza per un complesso di ragioni che si possono ricondurre sotto due ordini di idee: I) la necessità per la borghesia rurale di conquistare il potere politico, dopo aver conquistato il potere economico allo scopo di garantirsi sia da eventuali ritorni feudali che da ulteriori sviluppi proletari; 2) l'adesione della borghesia più intelligente alle idee illuministiche della rivoluzione francese, come sviluppo storico-politico del sistema economico di cui era un prodotto.

La politica borbonica e l'equivoco liberale.

Nacque cosi un formidabile equivoco che non poco contribuì a potenziare la rivoluzione italiana, perché, mentre la borghesia economicamente conservatrice, fu costretta ad esser politicamente rivoluzionaria, la monarchia, che aveva potentemente contribuito con la sua lotta antifeudale a crearne le fortune economiche, e, anche dopo il processo di maturazione, aderiva strettamente ai dati economici del dominio della nuova classe, non comprese che il concetto dell'assolutismo era divenuto ormai antistorico e che invece sarebbe stato assai facile costruire con gli stessi interessi borghesi un saldo sistema di conservazione monarchica.
E questo equivoco, mentre fu fatale alla dinastia borbonica, che perdette il trono nella lotta che ne segui, pose le prime basi della conquista piemontese, perché polarizzò, attraverso una lunga serie di vicende e di errori, che non è compito dell'opera specificare, le speranze dei liberali napoletani verso il Piemonte, come sola forza unificatrice d'Italia.
Né occorre meravigliarsi di questa polarizzazione, sia perché i cosiddetti liberali napoletani erano sostanzialmente dei conservatori, sia perché il loro ideale politico era monarchico.
Si pone cosi fin da quest'epoca la caratteristica principale del liberalismo meridionale consistente nello sforzo della borghesia di risolvere, nel generale problema dell'unificazione d'Italia, la necessità del suo dominio regionale.
In sostanza i liberali meridionali trovavano nel centralismo piemontese l'incarnazione giuridico-burocratica di quell'ideale politico, verso cui, invano, avevano cercato di spingere l'assolutismo borbonico.
in un paese che non aveva saputo nemmeno potenziare di tutte le sue ragioni lo Stato assoluto.

Cosicché, quando nel 1860 l'isolamento diplomatico, la ribellione della Sicilia e l'audace impresa garibaldina segnarono l'ultima ora del regno borbonico, l'unione del paese era già avvenuta sulla base della fusione dei due centralismi e sulla mutuazione fra l'astrattismo istituzionale piemontese e la realtà semifeudale del Mezzogiorno.

L'azione antifeudale durante la luogotenenza.

Unificato il regno queste direttive continuarono. Però lo studioso non può non rilevare lo sforzo del governo luogotenenziale per riprendere le classiche direttive antifeudali. Fiori cosi nuovamente la legislazione demaniale e le istruzioni ministeriali parlarono ancora una volta di ingiustizie commesse, di torti da riparare, di rivendiche da sperimentare. Tutto ciò derivò evidentemente da fenomeni d'incomprensione storica perché la burocrazia del nuovo regime, credendo di dover continuare la rivoluzione, non trovò di meglio che riattaccarsi alle armi illuministiche della vecchia Repubblica partenopea e muovere in guerra contro il feudalismo. La nuova borghesia naturalmente lasciò fare fino a quando la legislazione eversiva, attaccando gli ultimi residui della feudalità, le permise di completare la sua opera di irrobustimento economico. Oltre questo limite invece il conquistato potere servi a scongiurare ogni iattura economica.
Infatti i borghesi, impadronitisi della rappresentanza politica delle province e dei comuni, posero ogni specie di ostacolo all'azione antifeudale, impedirono cioè che le riforme legislative si risolvessero in effettivo beneficio delle classi più umili. .
Cosi gli usurpatori divenuti grandi elettori, stroncarono ogni azione rivoluzionaria diretta contro il loro dominio.
Veramente questo prepotere della borghesia rurale poté sorgere ed affermarsi, perché mancava quasi del tutto l'industria e l'immaturità politica e civile delle altre classi era smisurata.
Ma esso fu ottenuto ad un prezzo assai caro: l'abbandono di ogni pretesa di controllo sullo Stato e l'adesione incondizionata alla politica dei ceti dominanti del Nord.
Nella loro terribile immaturità politica, nel loro gretto particolarismo i borghesi meridionali non compresero che il loro dominio era quanto mai labile perché privo del controllo sullo Stato, non si accorsero che i loro interessi venivano manomessi, che la giustizia distributiva veniva conculcata e si lasciarono spingere sempre più nel chiuso orizzonte degl'interessi locali.
Lo Stato italiano, assolutamente privo di ogni velleità etica, di fronte al chiuso particolarismo di questa classe meridionale, ebbe un giuoco assai facile perché la sua linea di politica generale coincise con la stretta mentalità dei popoli conquistati.
Tutta l'azione unitaria nel Mezzogiorno dimostrò quanto fosse radicata la prassi del governo paterno e quanto poco pericolo avrebbe corso il Borbone se avesse tenuto fede alla costituzione.

Le critiche della Destra storica.

Veramente questa situazione di cose non rimase senza reazione specialmente per opera della destra liberale, ma si trattò di critiche teoriche che, se servirono a porre i fondamenti della questione meridionale, non poterono avere alcuna utilità pratica. Il pensiero della Destra storica, postulando la necessità di creazione dello Stato moderno come sostanza etica di un popolo pervenuto a coscienza di sé, faceva implicitamente, in sede filosofica, la critica al processo di formazione dello Stato unitario, per quanto non fosse più in grado di tradurre in dati storici le postulazioni ideali.
Questa critica, se da una parte investiva il problema centrale dello Stato italiano come conquista regia, dall'altra aggrediva già la questione meridionale come malattia, che restringeva la completa circolazione della Nazione.


Nessuno, quindi, si meraviglierà che la conquista regia divenisse il loro ideale, anche se furono costretti a lottare in nome di quello Stato che Beitrando Spaventa e Camillo De Meis avevano sognato anacronisticamente di fondare
Specialmente dopo la caduta parlamentare di questo partito, e dopo che tutte le formazioni borbonicamente conservatrici si furono gettate nella politica trasformistica inaugurata dalla Sinistra, il pensiero della Destra divenne profondamente rivoluzionario.
Le dottrine sull'autonomismo, sul decentramento, sulle garanzie costituzionali, la critica violenta ai sistemi delllo Stato di polizia, che continuamente emerge non appena si scrosta la vernice legalitaria, l'odio per la transazione e per il compromesso costituirono le armi della battaglia che la Destra liberale ingaggiò contro quello Stato unitario che essa stessa aveva potentemente contribuito a creare.
Ma se questa contraddizione intrinseca e l'immaturità generale del paese fecero apparire come antistorica questa seconda fase dell'attività politica della Destra, non si può disconoscere che ad essa si deve di aver seminato i primi germi della critica alla politica unitaria, ed aver iniziato il logorio del regime.
Si trattava, però, di una critica ad assai lunga scadenza e tutti i maggiori uomini politici della Destra morirono nella tristezza di un fallimento ideale senza confine.

La borghesia meridionale si assicura il dominio attraverso il trasformismo.

Ridotta cosi in un ambito puramente regionale, la vita politica del Mezzogiorno illanguidì. Perfino quei prodigi di pensiero individuale di cui ci aveva dato cosi perspicuo esempio la Destra, scomparvero.
Divenuta padrona del campo, la borghesia rurale adeguò ogni sforzo politico alla sua mentalità particolarista.
Dovunque fu istituito il partito del medico condotto contro quello del farmacista, e del segretario comunale contro quello del maestro fiduciario: una lotta di feudalismi per impadronirsi del municipio e di là favorire i fedeli ed opprimere gli avversari.
Tutta la lotta, dunque, si organizzò intorno alla cassa del Comune, e sugli addebiti amministrativi la prefettura riuscì ad innestare una serie di ricatti legali a favore dei partiti dominanti.

È perciò che d'allora i partiti meridionali sono stati, per lo meno tendenzialmente, ministeriali. Infatti, se essi sono al potere, debbono essere ministeriali per evitare le noie delle inchieste amministrative; se, invece, sono all'opposizione, aspirano al favore del governo per poter detronizzare gli avversari.
In tale condizione di cose l'organizzazione politica meridionale non poteva consistere che in una mediazione continua tra i vari governi succedentisi al centro e le inerti masse meridionali, assenti dalle istituzioni: mediazione esercitata dai deputati, che portammo ai governi in carica i voti e la tranquillità delle masse meridionali, e ne ricevevano favoritismi ed impunità per i loro protetti.
Cosi avvenne che il popolo, il quale credeva, deponendo una scheda, di compiere un atto rivoluzionario, fini per votare i suoi aguzzini, perché il deputato è, quasi sempre, soltanto l'eletto del sindaco, ed il governo in carica, per ottenere il voto del deputato, deve proteggere il sindaco.
Sorse, quindi, nel paese il trasformismo, perché esisteva, in ogni momento, nel Parlamento una massa di votanti, ansiosi del favore ministeriale, necessitati dallo stesso sistema elettoralistico, di cui erano la espressione, a chiedere sussidio per i pochi interessi privati che rappresentavano ed esisteva, in ogni momento, anche per governi, che nel paese erano in nettissima minoranza, la possibilità di creare durature combinazioni politiche, cementando, attraverso una sintesi non hegeliana, gli interessi di qualche gruppo del Nord con gli affari di tutti i ladruncoli dichiarati contabili del Sud.

Né si poteva uscire da questo sistema votando per le opposizioni, perché queste, prodotto dello stesso clima storico e sociale, non aspiravano ad altro che a soppiantare i deputati di maggioranza nella loro funzione trasformistica.

Due meridionalisti: Giustino Fortunato, Antonio De Viti De Marco.

doganale, instaurato a beneficio di poche industrie privilegiate, e a danno della produzione agricola - principale, se non unica, fonte di vita della Nazione e del Mezzogiorno - e con il suo apostolato trentennale cercò saldare le poche forze antiprotezioniste del Nord con le rappresentanze del Mezzogiorno per un'azione comune.
Ma entrambi fallirono al loro scopo, perché, isolati dal loro pessimismo e dall'immaturità generale del paese, concepirono il male sub specie aeternitatis, e sperarono salute soltanto dall'azione dello Stato, senza poter ancor intravvedere le forze autonome da gettare nel fervore della battaglia.
Contro la politica unitaria però continuò la critica delle élites liberali. Senonché, a mano a mano che il nuovo Stato funzionava e metteva, perciò, a nudo le sue deficienze ideali, questa critica· si allontanava dai cieli della astrazione teorica, ove in massima parte l'aveva spinta la Destra liberale, per concretarsi in atteggiamenti di maggiore aderenza alla realtà.
Fu cosi che in mezzo a tanta miseria sorsero i primi germi della vita.
Con quel processo caratteristico delle grandi questioni storiche, che sono casi di coscienza individuale, prim'anncara di divenire patrimonio di élites, l'elaborazione critica della questione meridionale si affermò per opera di due isolati: Giustino Fortunato ed Antonio De Viti De Marco.
Il primo dal cuore della Basilicata pietro sa intese tutta l'ironia del mito vergiliano della fecondità meridionale, e armato degli ultimi risultati degli studi geologici, geografici, storici ed agrologici, mosse guerra ai parti della fantasia poetica, prospettando l'inferiorità del Mezzogiorno come fatale.
Discendendo culturalmente da quella scuola liberale che aveva teorizzato la felicità nazionale, egli invocò indirizzi generali di governo atti a riparare le ingiustizie storiche dell'unità, e, sentendosi unico veggente in una terra di ciechi, rivesti le sue perorazioni di un tale profondo pessimismo, che ancor'oggi le sue pagine destano un accorata commozione.
Però il suo orizzonte politico non andò oltre la concezione storica dello Stato italiano, e, perciò, la profonda reazione spirituale verso le classi trasformiste del suo paese, gli vietò d'intendere le possibilità rivoluzionarie del decentramento amministrativo.
Il secondo, partendo dal liberalismo economico che è il primo scheletro di ogni sistema liberale, svelò al Mezzogiorno tutto il danno proveniente dal protezionismo

Gaetano Salvemini e l'«Unità».

Questa posizione statica venne, però, ben presto superata dalla critica salveminiana all'azione del partito socialista italiano.
Figlio di quella Puglia, ove intorno al latifondo ed alla coltura estensiva dei cereali cozzano le plebi sterminate contro ristrette classi di proprietari, Gaetano Salvemini fu portato dal suo stesso tentativo di istituire la lotta di classe nel Mezzogiorno ad elaborare la critica di quel partito socialista italiano, che nel Settentrione, elevando le plebi, stabiliva interi i termini liberali della lotta politica.
Analizzando tale azione, si presentava imprescindibile la necessità di spiegare il perché dell'insuccesso socialista nel Mezzogiorno e delle sue deformazioni in quelle poche zone ove il nuovo verbo era riuscito ad attecchire.
Evidentemente vi era qualche cosa che era estranea all'ambiente meridionale e che impediva l'unità del movimento socialista, qualche cosa che non era connaturale al marxismo, ma prodotto specifico del clima italiano. Quest'ostacolo fu subito identificato e la questione meridionale apparve al Salvemini come presupposto della questione sociale.
Da allora il grande scrittore pugliese prese a combattere tutte le oligarchie, sia padronali che operaie, costituite sul sacrificio degli interessi generali.

Dapprima la sua critica investi il partito stesso in cui militava, avvivandosi della segreta speranza di poterlo richiamare alle sue origini libertarie e disincagliare dalla politica della difesa di categorie per spingerlo nel vivo della questione italiana: poi si sollevò ancor più in alto ad indagare le responsabilità d'intere generazioni, quando la sua nuova fede lo costrinse a restituire la tessera.
Ma la critica salveminiana, pur superando, con una investigazione fedele e pertinace delle cause del male, la fase pessimistica del problema, non poté ancora evadere il chiuso orizzonte del problemismo.
La necessità dell'analisi rilevatrice ed il processo di maturazione politica ancora all'inizio non consentivano sintesi affrettate, e, pur avendo Salvemini già identificato nelle; classi della produzione terriera la miniera dell'antitrasformismo rivoluzionario, l'azione pratica gli apparve ancora sconsigliata dalle necessità quotidiane della battaglia ideale.

Il partito radicale.

Ma, mentre 1'«Unità» salveminiana assolveva questo importante compito ideologico, si perfezionava e produceva frutti, specialmente nel Mezzogiorno, un movimento più schiettamente politico, che è compito dell'opera ricordare: il movimento radicale.
Esso quantunque fosse nato prima dell'« Unità» salveminiana produsse i suoi maggiori frutti proprio quando questa rivista iniziò la sua critica.
I due movimenti rimasero, però, esterni l'uno all'altro: la forte e saporita linfa salveminiana non si comunicò all'opportunismo radicale, e mentre il tentativo unitario fu il più radicale sforzo antitrasformistico che la storia politica italiana registri, il radicalismo non tardò a convergere nella vasta corrente giolittiana.
Soltanto nell'immediato dopoguerra, quando il giolitttismo sembrava offuscato e si scatenava l'inflazione bolscevica, le due correnti si fusero nel Partito del Rinnovamento, ma io sono convinto che, anche se Gaetano Salvemini non fosse stato allontanato dalla politica militante da un banale accidente, l'unione rinnovatrice non avrebbe potuto assai a lungo mantenersi.
Questi rilievi chiariscono cosi quale fu la vera natura del Partito radicale e degli altri movimenti che ad esso si possono ricondurre.
Oggi dovrebbe essere chiaro che, se le masse meridionali credettero compiere uno sforzo di autonomia e di emancipazione dal grigio cerchio della politica unitaria, attraverso la generazione degli avvocati radicali, che affiorò alla vita pubblica nei primi anni del secolo nuovo, i dirigenti non potevano agire contro i dati storici del giolittismo nel Mezzogiorno senza incidere gli interessi della loro classe.
Prima ancora di entrare nella politica militante, essi erano giolittiani per temperamento, per idee, per interessi, e perciò non potevano nemmeno intuire con quali idee e con quali forze la politica giolittiana poteva essere frantumata.
Il movimento, quindi, tra il 1908 ed il 1913 fu rapidamente assorbito dal giolittismo, contro di cui restò a combattere la sua dura battaglia il solo Gaetano Salvemini.
Le masse rurali del Mezzogiorno dovettero accorgersi ancora una volta di avere agito completamente a vuoto.

VI. MEZZOGIORNO, GUERRA E FASCISMO

Il neutralismo meridionale.

L'avvicinarsi della guerra e le polemiche tra interventisti e neutralisti non modificarono i dati storici della politica meridionale, che, essendo quasi del tutto trasformistica, non poteva attivamente sentire i gravi problemi nazionali affioranti nelle discussioni di quei giorni.

E casi, più per passività che per calcolo, il Mezzogiorno fu quasi interamente neutralista. L'adesione politica al giolittismo, il particolarismo trasformista e la paura atavica di provocare rivolgimenti pericolosi, spinsero i ceti dirigenti meridionali nella più conservatrice delle correnti italiane: il neutralismo monarchico. Ciò non tolse che con la stessa disinvoltura, dopo dichiarata la guerra, i deputati meridionali si iscrivessero in quel famoso fascio parlamentare, che ebbe la strana funzione di correggere in sede di rappresentanza il fondamentale neutralismo del paese.
Ma, a parte che questa contraddizione, dichiarata puramente apparente, venne giustificata con le finalità patriottiche del momento, nessuno si potrà meravigliare del mutato atteggiamento, quando rifletterà sull'intrinseco contenuto del trasformismo, riposto nella necessità di adesione incondizionata al potere centrale per esclusive finalità di politica regionale.
Durante la guerra, quindi, il meccanismo trasformistico continuò tranquillamente a funzionare quasi senza scosse.

La smobilitazione.

Cessata, invece, la guerra, ed immessa nelle vene della nazione la grande novità demografica costituita dai combattenti, si cominciarono ben presto a notare dei sintomi di movimento.
A chi imprenda a studiare con animo scevro da preconcetti e da miracolismi l'influenza che questo grande fatto storico ha esercitato sulla questione meridionale, non potrà sfuggire, che mentre la guerra - pur avendo seminato qua e là germi eminentemente rivoluzionari `non è riuscita a dare la spinta al popolo meridionale per entrare finalmente nel quadro della vita politica nazionale, tuttavia ha lasciato confusamente intravvedere alle masse che la vecchia immobilità era non soltanto indecorosa, ma addirittura dannosa.
Difatti, se da una parte la guerra ha rappresentato un grande fatto unitario, e, perciò, sotto un ceto profilo, antimeridionale, ha però dall'altra parte contribuito, con l'obbligatorietà del servizio militare, ad elevare in più vaste categorie di cittadini il tenore generale della vita e quindi a provocare fermentazioni nuove che non potevano non avere riflessi anche nel campo della politica.
Ma, siccome tali fermentazioni corrispondevano soltanto ad un indistinto bisogno di novità, mentre non riuscivano a sboccare in nuove manifestazioni politiche, sentivano tutto il disagio delle vecchie forme, da cui erano impotenti a sollevarsi.
È perciò che tutti i movimenti, sviluppatisi nell'immediato dopoguerra, mentre, per il semplice fatto del loro verificarsi, hanno dato la sensazione di una oscura coscienza politica meridionale, tuttora in formazione, hanno riprodotto nel loro caratteristico atteggiarsi la vecchia forma trasformistica, che si dimostra, casi, espressione fedele di un ciclo storico e sociale, non peranco superato dagli sforzi delle nuove generazioni, affioranti alla vita pubblica.
Basta prendere in esame i primi movimenti sviluppatisi nel Mezzogiorno - azione del PPI e movimento dei combattenti - per convincersi della verità di queste proposizioni.

L'insuccesso del Partito popolare.

Nessun partito aveva sulla carta maggiori probabilità di successo del Partito popolare italiano, sia per la profonda cattolicità del popolo meridionale, sia per il programma che un meridionale di genio - Luigi Sturzo aveva saputo predisporre a contenere entro le sue pieghe riposte, non soltanto le necessità del presente, ma anche le più audaci previsioni dell'avvenire.
Ebbene, che cosa è avvenuto del Partito popolare nel Mezzogiorno? La risposta è semplice: il giovane partito è stato assottigliato, assorbito, disperso nel trasformismo.
Si votò per i candidati popolari non perché si vedesse in essi i rappresentanti di quelle idee e di quel programma, ma per simpatia personale e per ragioni di conntrapposizione, quando non anche per ragioni di favoritismo.

L'azione dei combattenti.

Egualmente si esaurizzazione dei combattenti.
Tornati dalle trincee, questi giovani portavano nell'animo un vago istinto di novità. Avevano peregrinato per quattro o cinque anni, avevano combattuto contro e a fianco di popoli tra i più civili di Europa, erano, insomma, stati sottoposti ad un'incubazione forzata: nessuna meraviglia, quindi, che ad una forma di romanticismo politico, vagamente maturata nei loro spiriti, sembrasse indispensabile la distruzione del vecchio ordine.

Una vittoria del trasformismo.

Mentre nelle province settentrionali tutto questo romanticismo politico mirava - per quanto in forme disordinate e tumultuose - a superare la vecchia organizzazione borghese, corrispondentemente al grado di sviluppo ivi assunto dalla lotta di classe, nel Mezzogiorno d'Italia, anche corrispondentemente al grado di sviluppo ivi assunto dalla lotta politica, mirava a distruggere e superare la concezione trasformistica.
Ma, siccome non si trattava di un movimento perfettamente maturato, non poteva non ricadere nello stesso inconveniente che imprendeva a combattere.
Propugnatori del movimento erano soprattutto i giovani ufficiali, in massima parte figli di quei borghesi rurali contro di cui doveva sferrarsi l'offensiva.
Educati dai loro padri ed imbevuti, durante tutto il periodo d'incubazione, d'idee feudali, essi, per quanto parlassero di «parti ti organizza ti», di «parti ti di massa», ecc., non concepivano che la vecchia, tradizionale lotta municipale contro l'odiato avversario.
I dissidi di famiglia, le risse per il predominio locale, in taluni casi durate anni, non potevano in definitiva non permeare anche la nuova lotta.
Seguaci del movimento non erano già gruppi di giovani, esponenti di una classe definita, solidalmente poggiati su interessi specificati, e, perciò, costituenti organismi in grado di controllare le deviazioni dei capi e correggerle, ma era una folla indistinta di giovani artigiani e contadini, sbattuti attraverso l'inferno della guerra, senza nessun corredo di esperienza critica, sicuri soltanto - come i loro padri - dei vantaggi derivanti, anzi crescenti dall'esercizio del mestiere e dalla coltivazione del campo, ma anche disposti, per quella serie di residui psicologici, derivanti dalle meraviglie accumulate si nel loro spirito durante la guerra, a subire gli effetti di una propaganda attaccante soltanto la superficie delle cose.
È cosi che la lotta, guidata spiritualmente dai padri, contro cui doveva rivolgersi, combattuta da truppe bendate, non poteva rappresentare altro che un nuovo e maggiore trionfo dell'odiato trasformismo.
Certo non poco aveva contribuito al fermento dei giovani spiriti la più vasta conoscenza del Nord dell'Italia, il maggior contatto con forme di vita più avanzata nel grado della civiltà; ma questa fermentazione, se giustificava la smania delle novità, non aveva approdato alla formazione di una superiore coscienza degli interessi in giuoco, anzi aveva maggiormente contribuito a nasconderli sotto il falso velame delle parole. Incapaci di risalire alla causa fondamentale dei loro insuccessi, riposta appunto nella mancanza di una dottrina politica aderente agli interessi, i giovani reduci attribuivano la colpa della loro mancata azione rivoluzionaria ora a questo, ora a quel capo, ora a questo ora a quell'indirizzo.
E così aderirono, volta a volta, secondo la cieca logica dell'irrazionale, al Partito del Rinnovamento e alla democrazia, al Partito liberale e a quello fascista, rifugiandosi poi di quando in quando, dopo vari insuccessi e delusioni, nella formula dell'apoliticismo, che, perciò, era un comodo velo per nascondere un più intenso anelito di politicità.
Desiderosi di superare con un atto poderoso di volontà lo stagno mortificante del trasformismo, essi si affannavano a svolgere un'azione autonoma, ma costretti dalla meccanica del movimento ad agire nel campo municipale, e privi, com'erano nella generalità dei casi, di uomini pratici di amministrazione, ricadevano volta a volta, nelle mani di capi locali, estranei al loro movimennto, che si affrettavano ad inserirli nel sistema da distruggere.
Altrove, invece, i vecchi amministratori sfuggivano la presa, ritirandosi nell'ombra, ed attendevano dalla giustizia riparatrice del tempo e dall'imperizia avversario un ritorno trionfale.
Così il movimento, privo di profonde ragioni ideologiche che gli dessero un'anima, abbandonato agli effimeri risultati di una fermentazione istintiva, battuto in breccia dalla realtà quotidiana, si esauriva, si disfaceva in conati vani.
Nel frattempo le vecchie classi trasformistiche correvano ai ripari, e, favorite mirabilmente dalla crisi economica che incombeva sul paese, sbandavano facilmente le esigue schiere dei rinnovatori.

Le restrizioni dell'emigrazione europea ed oceanica e la crisi degli studi, contribuivano fortemente a mettere alla mercè dei vecchi le nuove schiere dei riformatori.
Ma, mentre tutto ciò estraniava dalla politica i pochi giovani preparati ad affrontare il problema della vita, contribuiva notevolmente a minare il terreno per futuri incendi.
Qua e là, però, il movimento dei combattenti raggiungeva la sua via, assumeva forme che preludevano al possesso di un orizzonte politico: il sorgere del Partito sardo d'Azione poteva rappresentare un insegnamento notevole. Difatti, per un istante, il movimento dei combattenti molisani, arieggiò nel centro dell'Italia meridionale la magnifica organizzazione dei sardi di Lussu e di Bellieni.
Sembrava iniziarsi la rivolta contro il sistema che aveva signoreggiato l'Italia fin allora, la rivolta dei ceti rurali del Mezzogiorno contro le oligarchie parassitarie del Settentrione: sembrava che, dentro il ristretto circolo sanguigno della vecchia Italia fossero, finalmente, per proiettarsi le nuove correnti meridionali.
Ma si trattò soltanto di sprazzi ingannevoli, che finirono per aumentare le tenebre.
Intanto le agitazioni ed i disagi del Settentrione non potevano non avere riflessi anche nel Mezzogiorno, nel senso cioè di distrarre da un compito rivoluzionario i pochi gruppi che si avviavano ad avere consistenza e dinamismo proprio.

Il fascismo nel Mezzogiorno: Aurelio Padovani.

Falliti gli sforzi precedenti, riassorbiti nel trasformismo trionfante i pochi tentativi originali di novità - perdurando le condizioni obiettive di disagio, anzi aggravandosi per il progressivo precipitare della crisi dello Stato italiano -l'animo di molti giovani si rivolse verso il fascismo, con simpatia nuova.
La stessa elasticità del programma fascista, oscillante tra una rivoluzione verbale, una democrazia miracoli sta ed un reazionarismo effettivo, rendeva possibile a ciascuno di vedere in tale partito il toccasana per tutte le malattie.
Soprattutto piaceva a taluni giovani il volontarismo, di cui il fascismo si faceva propagatore, ed i metodi di azione militare, quasi che la lotta politica fosse urto di due eserciti e non guerra di civiltà.
Il movimento si diffuse un po' da per tutto, specialmente tra i giovani, ma per molto tempo rimase quasi nascosto e non riuscì in alcun modo a turbare il tranquillo sonno dei partiti dominanti.
Dopo la marcia su Roma il processo di diffusione fu infinitamente più rapido per le ragioni che in seguito spiegheremo; ma il fascismo meridionale non ebbe caratteristiche interessanti se non nella Campania, ove ben presto emerse la figura del capitano Aurelio Padovani.
Giovane, proveniente da origini modeste, Aurelio Padovani si innamorò della lotta alle. poche istituzioni campane che potessero correttamente qualificarsi socialiste: le organizzazioni portuarie, i metallurgici, i tessili, gli operai dei trasporti, e dimostrò in tale lotta il suo coraggio di valoroso combattente.

Ma, sia perché tali istituzioni non avevano mai avuto una grande potenza nella vita pubblica partenopea, sia perché la lotta antisocialista era scarsamente sentita, il movimento padovaniano durante il suo primo fiorire parve più che altro uno sforzo mimetico.
Non che i giovani, che vi parteciparono, si proponessero puramente e semplicemente l'imitazione delle gesta dei loro compagni del Nord, ma, in effetto, la trascuranza di ogni dettaglio della questione meridionale ed il proseguire di quello spirito vagamente romantico, che abbiamo già rilevato nella prima agitazione dei combattenti, dimostrarono la scarsa consistenza rivoluzionaria di quel movimento, svolgente si tra la noncuranza universale ..
In verità occorre precisare - per intendere appieno l'esattezza di tutte queste proposizioni - che la maggioranza dei cittadini del Sud fin quasi alla vigilia della marcia su Roma non mostrava neppure verbalmente di credere esaurito il compito storico dello Stato cosiddetto liberale e perciò si gloriava di sentirsi abbastanza distante sia dal bolscevismo che dal fascismo.
I ceti dirigenti, poi, piuttosto che impensierirsi di questa azione, che altrove mirava a soppiantarli, la guardavano con discreta simpatia, considerandola come una cura preventiva degli eccessi bolscevici, nel Sud mai soverchiamente sviluppati: i fascisti, invece, assorbiti a riprodurre tutto il fenomeno squadristico, non sapevano affrontare la questione del trasformismo, di cui solo teoricamente si dicevano nemici.
I primi si sentivano sempre abbastanza forti per poter dilazionare il pericolo: i secondi non credevano alla possibilità di un successo e quindi esaurivano la loro azione in pratiche a fondamento religioso.

Un errore fatale.

A chi ben consideri questo breve periodo della vita italiana non potrà sfuggire che il fascismo deve il suo successo nell'ottobre I922 proprio a queste sue deficienze rivoluzionarie nel Sud, che resero possibili le continue idiosincrasie parlamentari, esplicatesi nel fallimento continuato del grande ministero di sinistra.
La mancanza di allarme del pericolo nelle masse parlamentari meridionali impedì il sorgere di quel fronte unico contro il nuovo nemico che avanzava minaccioso sulla ribalta della storia; fronte unico che, invocato ardentemente da taluni gruppi socialisti, avrebbe impedito il momentaneo crollo del principio costituzionale della collaborazione dei partiti e del governo di gabinetto.
Ma, a chi meglio penetri il meccanismo del giuoco politico, non potrà sfuggire la remota fatalità di questo atteggiamento parlamentare meridionale, derivante dall'intima essenza del trasformismo.
Come potevano, infatti, i poveri deputati del Sud sentire lo svilupparsi del pericolo se gli organi centrali erano avulsi completamente dalla loro funzione, e non comunicavano più alcuna vibrazione alle schiere dei loro sostenitori?
Perché, se il trasformismo corrisponde appunto a questa funzione quasi secolare delle rappresentanze meridionali di rinunziare alla vera lotta politica per mediare il potere governativo alle oscure masse del Sud; se cioè le rappresentanze meridionali lasciano volentieri agli uomini del Settentrione tutta la politica, per accontentarsi della modesta parte di patrocinatori di privati interessi, come potevano intendere l'avvicinarsi del pericolo, quando l'organo centrale era ormai distrutto?
Ecco perché si arrivò al Congresso di Napoli senza che nessuno avesse pensato ad organizzare una trincea.
Questa mancanza di comprensione degli avvenimenti da parte dei deputati meridionali, però, se costituì, forse, la ragione precipua della vittoria fascista, rappresentò, invece, dopo la marcia su Roma, la ragione prima della sconfitta fascista come visione giacobina di governo.

Il Congresso di Napoli.

All'epoca della marcia su Roma, il Mezzogiorno non era peranco conquistato, e solo allora il fascismo si accorgeva dell'esistenza di una questione meridionale, che è poi la vera questione italiana.
Basta rileggere il discorso che l'onorevole Mussolini pronunziò in quella circostanza per vedere in quali condizioni ideologiche il Partito fascista si presentava al giudizio del popolo meridionale.
Ebbene, in tutto il discorso - travagliato dalle perplessità dell'ora - non vi è che un solo periodo che accenni alla questione meridionale. Eccolo: «Sono qui, con noi, i fratelli della sponda dalmatica tradita, ma che non intende arrendersi; sono qui i fascisti di Trieste, dell'Istria, della Venezia Tridentina, di tutta l'Italia settentrionale; sono qui anche i fascisti delle isole, della Sicilia e della Sardegna, tutti qui ad affermare solennemente, categoricamente, la nostra indistruttibile fede unitaria, che intende respingere ogni più larvato tentativo di autonomismo e separatismo ».
Eccitati dagli applausi, trascinati nei giorni successivi dagli avvenimenti incalzanti, i fascisti meridionali non intesero il preciso significato di queste parole, non compresero che il fascismo intendeva seguire nel Mezzogiorno una politica identica a quella dei passati governi, cioè era disposto, pur di raggiungere il potere, a sacrificare le aspirazioni antitrasformistiche dei migliori fascisti meridionali.
Se tanto essi avessero compreso, se avessero intuito che con le loro mani si cingevano un nuovo collare dischiavitti, ben più solido di quello che volevano abbandonare, forse la marcia su Roma non sarebbe avvenuta.
Perché quel Congresso, preparato dai dirigenti, non per prendere contatto con l'anima del Mezzogiorno, ma per avvicinarsi a Roma, si sarebbe trasformato in grandi assi si politiche ove sarebbe emerso il profondo dissidio sotterraneo tra il fascismo settentrionale ed il nostro, dando a quest'ultimo tale un contenuto rivoluzionario da convincere i capi del movimento ad una profonda revisione dei fini e dei mezzi.

Il fascismo si espande.

Ma gli avvenimenti precipitarono: avvenne la marcia su Roma. Improvvisamente Aurelio Padovani divenne il viceré di Napoli.
Passati i primi giorni di perplessità e di spavento, soprattutto passato il fugace entusiasmo meridionale per le manifestazioni coreografiche del partito trionfante, la realtà politica cominciò ad emergere dalle nebbie delle chiacchiere dei piccoli trionfatori.
I vecchi gruppi trasformistici, i nuovi gruppi emersi dai movimenti precedenti e sistematisi attraverso le vittorie elettorali, insomma tutti quelli che si erano già innestati nel vecchio tronco trasformistico, divennero di colpo antistato.
Le piccole minoranze armate, dilettandosi di manifestazioni prettamente mimetiche, poco preoccupandosi della reale situazione del paese, credettero di dichiarare immediatamente la guerra a tutto il mondo, e cosi iniziarono occupazioni di pubblici uffici, violenze private ed altre simili manifestazioni, che ebbero il pregio di frazionarsi, Comune per Comune, secondo le varie configurazioni locali.
Naturalmente queste azioni, dato il loro carattere di municipalità, erano assolutamente prive di un filo unico conduttore, e si rivolgevano ora contro i cosi detti nittiani, ora contro i giolittiani, ora contro i democratici sociali e liberali, riuscendo poi, per forza di incidenza, ora a favore dei nittiani ora a favore dei giolittiani, ora a favore dei democratici sociali e dei liberali.

Cosi il fenomeno di adesione alla realtà trasformistica incominciò subito.

Là dove il fascismo era rappresentato da elementi amici del partito al potere furono sollecitati provvedimenti contro le minoranze; là dove era rappresentato dalle opposizioni s'iniziò la lotta alle amministrazioni locali; là dove, invece, non era stato ancora accaparrato, fu una ressa terribile di gente di ogni risma per infiltrarsi.

Prendete, dunque, quei fenomeni descritti a proposito del primo movimento dei combattenti, ingranditeli a dismisura, esasperateli fino all'impossibile ed avrete il quadro della situazione campana durante quel periodo.
In verità, Aurelio Padovani tentò di fronteggiare questo vasto fenomeno politico, cercando soprattutto di infondere all'azione dei suoi adepti un senso di eticità attraverso la formula dell'intransigenza.
Ma questa formula, se ha un grande valore morale, non ha mai avuto un valore politico, specialmente per partiti di governo, e contrastava stranamente con la realtà del possesso del potere da parte delle supreme gerarchie fasciste, e, perciò, con la necessità di assorbire il maggior numero di forze possibili.
Essa non era una formula d'attacco, ma di difesa, e perciò non poteva non indebolire lo sforzo politico di chi era costretto ad usarla.
Tuttavia Aurelio Padovani brancolò superbamente nel caos, cercando sempre di costruire il nuovo mondo. Formò sezioni, ne sciolse, destituì fiduciari, rifece direttori, impastò, spastò, sempre cercando di raggiungere una perfezione politica, che era una categoria puramente formale.
Questo sforzo, assurdo dal punto di vista politico, ma bello dal punto di vista morale, fu deriso universalmente, tanto sembrò impossibile che un uomo solo potesse, col semplice irrigidirsi, riformare il costume politico di una regione.

Il nazionalismo campano.

Ma il trasformismo non si die' per vinto e, mentre i cavalli di Troia, spinti nel feroce esercito padovaniano, divenivano più numerosi, quelli che non avevano potuto entrare nella categoria dei privilegiati - timorosi di restare indietro nella divisione delle grazie governative - si dettero a sfruttare la camicia azzurra.
Cosi buona parte dell'antifascismo locale - cioè i nemici di quelli che erano riusciti a penetrare nel fascismo ufficiale - divennero nazionalisti, e noi vedemmo i seguaci dei due partiti, affratellati al centro dalla comunanza delle idee e dalla gioia del conquistato potere, nelle province bastonarsi di santa ragione.

Talora l'abilità trasformistica dei capi arrivò fino al punto di tentare d'impadronirsi dei due partiti.

Un autorevole e simpatico sindaco meridionale mi spiegava, all'inizio di questo svolgimento storico, che egli aveva preveduto tutte le eventualità e cosi mentre egli restava democratico, il nipote era riuscito ad ottenere l'incarico di costituire la sezione fascista ed il segretario comunale aveva già costituita la sezione nazionalista. Cosi - egli aggiungeva - i miei avversari debbono esser per forza ... antinazionali.

I deputati meridionali impugnano l'arma della coerenza.

Naturalmente, però, accanto a questi trasformismi da semplicioni, in lotta terribile tra loro, rimaneva in piedi il trasformismo più vero e maggiore, quello che si potrebbe dire delle competenze elettorali: i deputati.
Questi signori compresero subito che il miglior calcolo politico era quello di restare al proprio posto, impugnando l'arma della coerenza. Movendosi, lasciandosi prendere dal panico, mentre correvano il rischio di screditar si tra la gente che odia ferocemente i girella, avrebbero contribuito ad accreditare la deduzione politica, che questa fermentazione di avventurieri grandi e piccoli corrispondeva effettivamente ad una mutata situazione politica - come si scriveva negli ordini del giorno di quell'epoca - e che i fascisti della prima, della seconda e della sesta giornata rappresentavano effettivamente il nuovo popolo meridionale.

Ecco che i deputati meridionali concepirono l'ardito disegno di rimaner immobili mentre infuriava il mulinello. Era questo un abilissimo modo di conservazione, ed una . efficace politica verso il governo, assolutamente ignaro delle cose nostre.
Se il governo - essi ragionavano - crede sul serio, con quella incomprensione della nostra anima che è caratteristica negli uomini del Nord, che questi giovanetti inesperti rappresentino la terra bruciata, noi gli dimostreremo col solo fatto di restare immobili, che s'inganna a partito.
Gli dimostreremo cioè che senza di noi non può governare, perché noi siamo la quintessenza del tecnicismo elettorale, conosciamo a menadito i bisogni e le aspirazioni del nostro popolo, e, perciò, possiamo intelligentemente esercitare quella funzione di mediazione, cui lo stesso governo aspira.
Certo, il fascismo ufficiale nell'ebbrezza del primo trionfo e nella erronea convinzione di poter fondare un governo giacobino, non comprese che non era buona politica l'aspettare che Padovani riuscisse a conquistarsi la maggioranza nel Mezzogiorno, quando vi era una miniera di ministerialismo ad ogni costo pronta per essere sfruttata.
Ma, a mano a mano che ci allontanammo dalla marcia su Roma, e che si profilò sempre piu l'aderenza completa della politica del governo allo stato delle vere forze del paese, non poté non emergere nella sua giusta luce l'importanza storica, che ebbe in questo periodo la resistenza passiva dei deputati meridionali.

L'intransigenza padovaniana.

Intanto la lotta tra il fascismo ed il nazionalismo campano, balzando in prima linea, contribuiva sempre più a proiettare nell'ombra la resistenza passiva dei deputati desiderosi e grati della tregua loro concessa.
Questa lotta sorgeva come conseguenza della cosiddetta «intransigenza padovaniana» ed assumeva il suo aspetto più clamoroso in dipendenza del patto di pacificazione tra fascisti e nazionalisti.
Bisogna riconoscere, e lo abbiamo già accennato, cl Il' Il capitano Padovani, chiusosi nella formula della intransigenza aveva tentato, per quanto poteva essere nelle forze di un uomo solo, di arginare i fenomeni di arrivismo.
Inchieste feroci, da lui compiute contro fascisti della prima ora, scioglimenti di fasci, decretati con la rivoltella la in pugno, avevano avvertito la gente che il capo della Campania voleva evitare la cuccagna.
È vero si che, dopo aver sciolto il fascio ostile alla amministrazione comunale, aveva dovuto per necessità di cose ricrearlo tra i clienti dell'amministrazione, ma è anche vero che questa rigidità di concezione costituiva una potente  remora all'ingresso di parecchi tra gli avvenimenti più noti.
Fu, perciò, che il nazionalismo, partito buon ultimo nella corsa dell'organizzazione demagogica, si gonfiò improvvisamente come un torrente, e, per naturale meccanica di cose, si senti avvampare di spirito antifascista, cioè antipadovaniano. Non fu certamente un antifascismo teorico, derivante da una diversa concezione della lotta politica, ma fu l'odio del servitore cacciato verso l’altero padrone.
Cosi il patto di pacificazione, votato a Roma dai capi, non si poteva mettere in esecuzione, a causa proprio (I tutti i municipi, le congreghe di carità e le altre pubbliche istituzioni che i contendenti si disputavano.
Ma Aurelio Padovani credeva sul serio di possedere una grande idea. Egli si trovava in uno stato di esaltazione, che gli faceva apparire miracolosa la sua formula di  intransigenza. Egli vedeva nel nazionalismo campano l'anticristo, il principio del male contrapposto al principio del bene e considerava reprobi tutti quelli che si opponevano o soltanto dubitavano dei suoi sforzi.
Ed allora s'impegnò la lotta, in cui egli era destinato a sicura sconfitta.

I termini della lotta.

Stava contro di lui, prima di ogni cosa, quello stesso principio di rigida disciplina gerarchica di cui egli si era fatto banditore tra le genti; la necessità dell'esecuzione del patto di tacitazione anche nella Campania, ove, certamente, non si presentavano condizioni diverse da quelle delle altre regioni; l'opportunità da parte del duce di saggiare vittoriosamente la sua forza anche con i suoi discepoli, ed affermare in cospetto di tutti i suoi propositi di riordinamento.
Non gli giovava l'atteggiamento d'indipendenza e quasi di critica al ravvicinamento con la Chiesa, dipendente dalla antica sua appartenenza alla Massoneria.
Gli nuoceva l'aver risollevato ed aver insistito sulla sterile formula della tendenzialità repubblicana, abbandonata definitivamente dal duce ai piedi del trono, nell'atto di farsi riassorbire dal sistema di Casa Savoia.
Ma soprattutto aveva contro di sé tutte le vecchie forze monarchiche e costituzionali della regione, che, pur intuendo l'inefficacia rivoluzionaria di quella fermentazione, temevano che la prolungata insistenza su di un programma di intransigenza potesse consolidare le posizioni locali dei loro giovani contraddittori.
Queste forze, facenti capo al presidente della Camera, ad ex ministri e sottosegretari di Stato, installate saldamente su forti posizioni elettorali, sorrette in vari punti da una milizia volontaria più potente del fascismo stesso: la malavita, premevano terribilmente contro il povero Padovani, reo di non volersi piegare ai loro voleri.
Sembrava che la lotta fosse guidata dal deputato Greco, ma, in verità, quest'ultimo era soltanto un simbolo.
Il suo nome, assunto ad indicare il fascismo transigente contro quello intransigente, racchiudeva le speranze di quei gruppi, che intendevano riprendere attraverso il fascismo la funzione di mediazione fra il governo ed il paese.
In verità - e quest'osservazione s'impone senz'altro per evitare illazioni esagerate da questa posizione di fatto - il padovanesimo non aveva niente di rivoluzionario, perché riproduceva integralmente la accennata organizzazione medianica tra governo e paese. Nelle province, i fiduciari e i direttori non miravano ad altro che ad essere assunti dalle popolazioni come fonti di favoritismi, e l'azione intransigente verso i capi diveniva transigente verso i gregari, purché disposti a tradire.
Ma, appunto perciò, minacciando di riuscire questo svolgimento politico a nient'altro che ad una sostituzione di persone, destava allarme grandissimo, e da ogni parte si esplicavano sforzi colossali per non distruggere nella mente delle popolazioni il rapporto tra rappresentanti e rappresentati.
Bisogna pur riconoscere che il padovanesimo, esiguo all'epoca della marcia su Roma, era assolutamente privo di un'élite che potesse lottare nel campo del trasformismo con i vecchi uomini politici.
Conseguentemente in tutta la Campania perdurava una situazione di cose assolutamente insostenibile, perché mentre da una parte l''1zione padovaniana non aveva gran che scalfito le posizioni trasformistiche dei più forti deputati campani, dall'altra parte per la secchezza della sua intransigenza non faceva prevedere maggiori trionfi per l'avvenire sia nel campo di un rivoluzionarismo effettivo, sia nel campo dello stesso trasformismo.

La sconfitta di Padovani.

In tale condizione di cose il governo non poteva non essere contro l'intransigenza padovaniana.
Infatti, di fronte all'insufficienza rivoluzionaria del fascismo al centro, che non riusciva a superare il trasformismo costituzionale prima, e parlamentare dopo, ma ,si spingeva ormai verso i ritorni parlamentaristici attraverso il paese, il governo non poteva più sopportare sterili conati rivoluzionari alla periferia.
Se Mussolini avesse potuto, avrebbe egli stesso fatte quelle innovazioni istituzionali che gli sarebbero sembrate più opportune: ma, cessata la prima intenzione, il governo non poteva sopportare pacificamente che la rivoluzione, fallita al centro, si riproducesse alla periferia, sia perché tutto ciò costituiva sostanzialmente un tentativo rivoluzionario contro il novus orda che il governo aveva creduto di prescegliere, sia perché nessun governo in Italia può azzardarsi a fare sostanziali mutazioni quando ha il Mezzogiorno in subbuglio.
Il padovanesimo creava dunque una situazione politica di una stranezza inverosimile, perché, mentre veniva ad attaccare proprio uno dei puntelli del regime, nella persona del presidente della Camera, lasciava scoperta la posizione del governo, che si trovava nella incredibile condizione di non poter servirsi del partito padovaniano perché intransigente, e di non poter ancora aderire alle vecchie e potenti forze costituzionali perché combattute dal fascismo ufficiale.
Padovani, quindi, stava fermo come una diga contro il furore delle acque, che urgevano da ogni parte e si infrangevano schiumanti contro la durezza della pietra.
Ma, come qualsiasi diga deve finire per soccombere sotto il crescente urto dei marosi, cosi anche Padovani fu sconfitto, e sul cadavere del suo entusiasmo giovanile passò la marea. Il fascismo campano fu riassorbito nel partito ufficiale e le preoccupazioni transigenti del governo ebbero una tregua.
Padovani veramente cadde su una questione di disciplina. Egli fu espulso, quasi che la sua intransigenza fosse stata contro lo spirito del Partito!
È questo uno dei tanti capricci della storia, una delle prove che gli uomini non sempre si accorgono della direzione che essi scelgono nel cammino.
Il Partito non comprese che Padovani interpretava per suo conto - forse inconsciamente, ma plasticamente unica ragione di vita del fascismo contro il trasformismo di governo, tentava l'unica via contraria all'assimilazione delle nuove forze nel circolo vitale, rappresentava, insomma, la prima trincea su cui cominciava la battaglia del governo con il Partito per disintegrarsi da questo e passare a rappresentare altri interessi, ed invece di sorreggere questo giovane, di integrare il suo sforzo di quel contenuto ideale che forse alla rigidità dell'azione padovaniana difettava, non seppe far altro che espellerlo con un motivo regolamentare, come se si fosse trattato di un caporale dell'esercito punito con la sala di rigore!
Il Partito fascista non si accorse che consacrava l'inizio della sua decadenza e che dopo Padovani altri capi - rei di aver fallacemente creduto al contenuto rivoluzionario del fascismo - avrebbero dovuto essere sacrificati ai bisogni quotidiani dell'azione governativa.

L'intransigenza dei trasformisti e la «débacle» dei deputati uscenti.

Caduto Aurelio Padovani, il fascismo poté più rapidamente adeguarsi alla tradizione trasformistica del Mezzogiorno, e, espulsi od obbligati ad uscire i testardi seguaci' del viceduce sconfitto, si rivolse a raccogliere nel suo seno tutte le opposizioni ai deputati uscenti, quando non fu possibile assorbire costoro.
Cosi il processo di fascistizzazione del Mezzogiorno, arrestato in Campania per l'intransigenza padovaniana, poté notevolmente accentuarsi, e la lotta fu polarizzata contro i vecchi deputati, che, tuttavia, non avevano mancato di infiltrare cavalli di Troia nella formazione fascista o di atteggiarsi a fiancheggiatori in nome delle comuni idealità di ricostruzione nazionale.
Senonché mentre la logica della sconfitta padovaniana avrebbe suggerito che il fascismo di governo si fosse avvicinato quanto più. era possibile alla prassi cosi detta liberale, cercando di raccogliere intorno alla propria bandiera tutti gli ascari dei passati governi, riverniciati per l'occasione, la realtà rivelò più strane intransigenze.
Veramente per far ciò il fascismo avrebbe dovuto desistere dall'idea di un'organizzazione giacobina nel Sud per non costringere vecchi parlamentari, affermati nelle cariche pubbliche, a far getto della loro dignità personale con la richiesta di iscrizione ai fasci o quanto meno avrebbe dovuto affidar loro segretamente la costituzione delle sezioni, autorizzando i prefetti a seguire il criterio tradizioonale del maggior numero di voti. Invece niente di tutto questo fu fatto: l'intransigenza più feroce fu bandita ed i deputati fiancheggiatori, divennero nemici per forza.

All'intransigenza antitrasformistica del Padovani il fascismo ufficiale sostituì l'intransigenza settaria dei trasformisti, prestando la propria forza a chiunque volesse usarne ed abusarne per prepotere o vendetta personale.
Innestato quindi il principio d'intransigenza al purulento terreno del trasformismo, il primo risultato che ne derivò fu quello di prospettare i deputati trasformisti come vittime della violenza e rinsaldare i legami di simpatia del popolo verso di loro.
In effetto, il cieco settarismo del partito dominante e la sua terribile ignoranza di ogni aspetto della questione meridionale non gli fecero comprendere il grande segreto del giolittismo nelle nostre contrade, riposto nello sforzo di assorbire volta per volta tutti gli uomini politici che, per simpatia delle popolazioni o per valore personale, emergevano. Cosi Giolitti riusciva a dare l'impressione di non coartare la volontà degli elettori.
Questi, salvo casi eccezionali, venivano lasciati liberi di votare a loro talento specialmente quando tutti i candidati in lotta si professavano governativi, e nel deporre la scheda, credevano sempre di compiere un atto di sovranità.
Il governo, quindi, lungi dall'intervenire con atti diretti a violare il costume del paese, cercava di agevolarlo, combattendo invece i pochi tentativi diretti a superarlo.
Cosi, senza eccessive reazioni, Giolitti faceva funzionare le forze politiche del paese nel modo più naturale.
Il fascismo, invece, sconvolse tutto questo processo di formazione politica e pretese imporre gli uomini. Non tenne presente che nei risultati delle elezioni meridionali entravano anche in parte la natura e la psicologia delle popolazioni, e, per colmo d'inavvedutezza, pretese imporre proprio gli uomini che sul terreno trasformistico erano stati già battuti.
Si precisò, cosi, in tutto il Mezzogiorno, una lotta terribile tra i nuovi èd i vecchi, che, in qualche momento, richiamò l'attenzione dell'Italia intera, provocando i più strani giudizi da parte degli scrittori settentrionali. A questi sembrò assurdo che il Mezzogiorno, che tuttavia non aveva avuto bolscevismo, resistesse cosi accanitamente alla penetrazione fascista, e per spiegare il fenomeno per poco non elevarono la grama vita politica meridionale a specchio e maestra delle genti.
Ma, in verità, la lotta era tra la vecchia classe dirigente, rimasta legata, suo malgrado, alla dittatura legale passata, e la nuova classe dirigente, che veniva a prospettarsi come longa manus della dittatura legale in formazione, cioè tra il trasformismo vecchio e quello nuovo.
Fino a questo punto del processo di sviluppo della lotta, il governo aveva un magnifico giuoco, perché gli si presentavano come rivali nell'epoca di mediazione tra i suoi favori ed i voti delle popolazioni, due correnti politiche perfettamente identiche come origine, perché scaturite entrambe dal sottosuolo trasformistico. Esso, quindi, poteva scegliere liberamente, troncando la lotta tra le due fazioni nel punto in cui gliene sarebbe potuto derivare il massimo beneficio.
Invece i dirigenti del partito dominante non ebbero nessuna cognizione di questa situazione di cose, ed il fascismo completò anche nel Sud la sua funzione rivoluzionaria. Infatti, attraverso il giuoco di imposizione delle rappresentanze locali amiche del nuovo governo, giuoco che si svolgeva per via militare, scopri troppo apertamente agli occhi delle 'popolazioni attonite l'essenza vera dellla questione meridionale e trasmutò improvvisamente i facili entusiasmi della prima ora in aperte deplorazioni.

Le elezioni.

Ma il colpo di grazia fu dato dalle elezioni, in cui rifulse maggiormente l'inconseguenza della politica fascista. In verità quando la nuova fiera elettorale fu bandita, molti che si sforzavano di trovare il filo conduttore nella politica governativa, credettero che il fascismo volesse definire e fissare la sua posizione nel Sud, tentando di assorbire il maggior numero di forze possibili senza pregiudizi di provenienza, accentuando cosi per il Mezzogiorno la politica che nel resto d'Italia svolgeva in confronto di tutti i gruppi cosi detti fiancheggiatori.

Ma il modo come furono compilate le liste, il dissidio scoppiato con Orlando, De Nicola, Fera, Colosimo e De Nava dopo di averne sollecitata l'entrata nel listone, chiarirono sufficientemente che il fascismo procedeva a caso, senza idee organiche e che, anche nel Sud, come nel Nord, dopo aver tradito la rivoluzione, non sapeva fare nemmeno la più gretta delle conservazioni.
Quest'atteggiamento fu dovuto alla mancanza di forza per opporsi alle pressioni di tutti i piccoli avventurieri infiltratisi nel movimento. Esso mentre liquidò definitivamente tutti i deputati uscenti, che non poterono più sperare in un movimento di riscossa, perché compromessi dalla politica di fiancheggiamento, determinò invece l'inizio di un movimento di convergenza di numerose forze verso le opposizioni.
A completare questo stato d'animo contribuì poi potentemente il modo come furono condotte le elezioni stesse, attraverso la violenza più sfacciata ed il più completo abbandono di ogni garanzia per l'elettore.
Il regime non poteva più apertamente svelarsi nella sua inconsistente brutalità: i pochi meridionali intelligenti non potevano avere alleati più ciechi e più potenti. Le elezioni fasciste del 6 aprile, svelando anche agli animi più. retrivi la terribile consistenza della questione meridionale, cominciarono a polarizzare gli animi verso soluzioni più radicali.
Oggi, per merito del fascismo, esiste nel Mezzogiorno una situazione psicologica di sospensione, attraverso cui s'intuisce che il vecchio trasformismo non può più attecchire, e che il popolo aspetta, dalle classi dirigenti, nuove idee per la lotta.

Il distacco dei fiancheggiatori.

Il modo come furono fatte le elezioni ed il nuovo spirito pubblico determinarono il distacco dei fiancheggiatori.
Questo fenomeno che nel resto d'Italia cominciò ufficialmente dopo il delitto Matteotti, nel Mezzogiorno avvenne prima per evidenti ragioni di politica locale.
Infatti, appunto perché i capi del liberalismo meridionale erano stati travolti nella formazione anarchica delle liste, era indispensabile mantenere i quadri intatti, per impedire che potessero divenire preda delle opposizioni più accese.
Questa necessità si rendeva tanto più evidente quanto più i medi ceti professionali ed impiega tizi che nell'Italia meridionale sono tuttora politicamente i più attivi, manifestavano la tendenza a riversarsi nelle file dell'opposizione costituzionale e del socialismo unitario, minacciando così di sfuggire al giuoco del liberalismo fiancheggiatore.
Occorreva, perciò, seguire la conversione dei propri seguaci per ripigliarne il dominio: il passaggio alla opposizione, prima larvata, poi aperta, dei fiancheggiatori meridionali, rispondeva quindi ad una necessità di lotta, ed il «Mattino», che nel Mezzogiorno è il giornale più letto e più influente, non tardò a rinnegare il filofascismo della prima ora.

La scopertura del regime.

Ma il fascismo ufficiale, invece di definire il suo atteggiamento e dimostrare di comprendere la situazione, credette sul serio che l'altissima percentuale di voti, riportati nel Mezzogiorno, corrispondesse ad una salda situazione politica. Perciò, invece di correre ai ripari, non seppe fare di meglio che trattare da nemici i fiancheggia tori meridionali. Questo errore e la maggiore libertà consentita, per rappresaglia, ai piccoli dominatori locali, contribuirono per contrapposto ad agevolare la manovra di conversione avversaria.
Ne derivò una situazione di detente cosi aperta che il delitto Matteotti aggravò notevolmente con la sua forza probante.
D'allora, data la scopertura del regime nel Mezzogiorno e nelle popolazioni del Sud è un travaglio per trovare la soluzione politica alla crisi spirituale del paese. Tutti comprendono che il regime casi detto trasformistico non può reggere e che la speculazione dei vari governi unitari sulle forze del Sud deve una volta per sempre cessare. Tutti comprendono che occorre da oggi difendere gli interessi meridionali con spirito d'intransigenza e con esatta comprensione di causa.
Ma l'immaturità generale del paese e l'equivoco che si annida nel campo dell'antifascismo rischiano di deviare nuovamente questo utile sentimento delle popolazioni in formazioni che, riproducendo la tara unitaria, sono molto più pericolose della infantile ingenuità del fascismo.

PARTE SECONDA
I PARTITI STORICI E LA QUESTIONE MERIDIONALE

VII FALLIMENTO FASCISTA E NUOVA CONQUISTA REGIA

I dati della conquista piemontese in pericolo.

Da tutta questa storia di errori e di deviazioni balza fuori una prima constatazione: il regime è scoperto, ed il tentativo di riprodurre, attraverso il fascismo, i dati sto
orici della conquista piemontese è fallito. Tale scopertura del regime, iniziata si nel Nord, nell'immediato dopoguerra, con la fase bolscevica, è terminata nel Mezzogiorno con la fase fascista.
Infatti il bolscevismo, rompendo l'equilibrio tradizionale nel Nord suscitava la reazione fascista che poteva sorgere ed affermarsi per la stasi meridionale, e questa reazione, sorpassando i limiti originari di partenza, e costretta a svolgersi, per la sua stessa natura, in forma unitaria, mentre non sanava la scopertura del regime nel Nord, la estendeva anche al Sud, completando così la fase del processo distruttivo. I due movimenti, perciò, hanno avuto un'efficacia nella vita nazionale, che soltanto lo storico futuro potrà valutare. Dovrebbe cominciare ora la seconda fase, quella del processo costruttivo, molto più pericolosa della prima, perché ereditandone talune esigenze e talune immaturità può condurre ad altre forme di compromesso non meno pericolose di quelle abbattute.
È necessario, quindi, tentare di penetrare appieno nella storia antefatta, sia per afferrare il segreto dei due grandi movimenti di masse verincatisi, sia per rintracciare i germi del passato attraverso l'impostazione delle opposizioni che pretendono impadronirsi dell'avvenire.

Il bolscevismo primo tentativo di impadronirsi dello Stato.

Il massimalismo socialista fu un tentativo immaturo e sfortunato di permeare l'azione dello Stato da parte di grandi masse, ancora rozze ed inesperte dei pubblici affari, e perciò abbacinate da un mito straniero astratto ed irrealizzabile.
Queste masse intuivano vagamente l'angustia della dittatura giolittiana e perciò postulavano la creazione di uno Stato in cui avessero potuto giuocare con il loro peso, allora del tutto indifferenziato. Pertanto la crisi del Partito socialista sorse proprio dal conflitto tra queste masse e le oligarchie già pervenute a funzione di élite.
Mentre queste ultime lentamente avevano assunto una funzione piccolo-borghese appunto in conseguenza del giolittismo, le masse, specialmente rurali, restavano al di fuori di questo legame con la dittatura giolittiana, e perciò erano tentate di distruggere il dominio per una affermazione più ampia di libertà politica ed economica.
Risultante di questo urto interno fu che il partito non poté riaderire al giolittismo, né provocarne esso stesso la disfatta. In tale condizione di cose sorgeva naturale la tendenza a stabilizzare la crisi in una formula media che, distruggendo il giolittismo come concezione di regime paterno, non ne distruggesse contemporaneamente la funzione economica.
Questa linea di sviluppo, in verità, rispondeva ad una necessità costituzionale del socialismo italiano, che le grandi masse avrebbero dovuto forse un giorno combattere, ma che durante il suo inizio agevolavano con il loro stesso peso: la necessità di assicurare alle formazioni picccolo-borghesi, affiorate dal movimento operaio, per lo meno una parte di potere politico, sia per garantirle dai ritorni reazionari del regime, che per evitare gli ulteriori sviiluppi rivoluzionari della crisi.
In altri termini, si verificava anche per il proletariato operaio del Nord ciò che era avvenuto per la borghesia meridionale durante il regime borbonico: la necessità di assicurarsi il potere politico, dopo di aver acquistato quello economico.
Tale necessità era ancora più urgente in quelle zone della valle padana ove il socialismo agrario era fiorito in margine ai grandi lavori di bonifica perché l'intervento dello Stato come distributore di lavori era più che mai indispensabile dopo la guerra e fatalmente i rivoluzionari di quelle regioni erano portati a proclamare la necessità d'impadronirsi dello Stato per sottrarre all'odiata borghesia questa importante funzione di distribuzione di ricchezze. Eguale tendenza manifestarono gli operai delle industrie protette contro il rivoluzionarismo di tal uni gruppi teorizzanti la lotta di classe integrale.
L'unica formazione quindi che avrebbe potuto garantire tale necessità era la creazione di uno Stato socialdemocratico attraverso gli accordi con la democrazia radicale e col Partito popolare.
Ciò spiega il perché dei reiterati tentativi socialisti di limitazione costituzionale della Corona per la formazione dello Stato parlamentare.
Il massimalismo, perciò, rappresentò lo sforzo di una élite di nuova formazione per perfezionare il suo dominio economico mercé il potere politico, e le reazioni in vari sensi di sterminate masse di manovra escluse dai benefici di tale politica e tuttavia desiderose di non limitare la loro funzione a quella di peso morto nello sviluppo del plano.

Giolitti, il socialismo di Stato e il fascismo.

Di fronte a questo sviluppo il giolittismo, che stava per essere superato in una fase più moderna di interessenza economica e di mediazione politica, reagì e, svelando tutto il suo spirito reazionario, si volse verso le formazioni di destra, maturate in quella piccola borghesia umanistica, che aveva visto con terrore l'affermarsi della borghesia socialista.
Il giolittismo vedeva malvolentieri la fine del suo prepotere e non voleva assolutamente rinunziare alla funzione di mediazione politica assunta dal 1900 in poi. Si diceva lieto di continuare la politica di benevolenza verso le masse, a parole s'inghirlandava di tutte le gemme del liberalismo politico, ma, nella realtà, pretendeva ancora di farla da padrone, adottando le soluzioni che gli venivano prospettate dai partiti di masse non come risultanti del giuoco delle forze in lotta, ma come concessioni della borghesia illuminata e progressista.
Entro i limiti di questa peculiare concezione politica, il giolittismo in un primo tempo assecondò tutti i movimenti diretti a realizzare il cosiddetto ministero di sinistra, non comprendendo che su questo terreno era già stato preceduto dal nittismo, che si sforzava di armonizzare gli interessi dei partiti di masse con quelli della borghesia radicaleggiante, senza pretendere contemporaneamente di farli passare attraverso la pressione del regime paterno.
Quando in un secondo tempo questa realtà divenne chiara all'occhio dello statista di Dronero, egli brandi la frusta fascista. Ma ancora una volta, la vipera morse il ciarlatano.
In verità il fascismo, nel suo primo sorgere, aveva tentato di assumere una funzione libertaria contro il predominio piccolo-borghese del socialismo di Stato e del giolittismo, e si era colorito vagamente di rivoluzionarismo operaio e di autonomismo politico. Ma, sorto territorialmente in una zona industriale e demograficamente tra le schiere della piccola borghesia umanistica, ormai politicamente battuta, non era in condizione di afferrare la realtà italiana per farsi interprete di quelle necessità rivoluzionarie che le grandi masse non riuscivano ancora ad esprimere. Ciò spiega perché da una parte il giolittismo poté sperare di operare la sua conservazione attraverso lo spauracchio fascista, e dall'altra il signor Mussolini non senti fin da allora i pericoli della manovra cui aderiva.

Ed infatti la prima adesione giolittiana al fascismo cominciò a determinare lo spostamento delle masse rurali protette dal movimento operaio a quello fascista, ed a chi ben consideri il fondamento delle cose non potrà non apparire che la crociata contro il socialismo, colorita di accenni libertari, corrispose soltanto a questa necessità del regime di sottrarre al movimento operaio queste forze intimamente connesse all'azione statale.
Casi il fascismo cominciò a potenziarsi specialmente in quella bassa pianura padana ove l'azione economica dello Stato sulle masse era ed è sensibilissima e questa sua origine e le necessità che doveva assolvere, lo portarono ad accettare quella dottrina nazionalista della collaborazione di classe, attraverso le corporazioni sindacali, che costituisce il più audace tentativo di impadronirsi della funzione economica del socialismo di Stato.
Ma questo sviluppo fece si che il paternalismo giolittiano, avulso dal suo sistema originario, elaborato sotto veste di dottrina sindacale, reso autonomo, passasse nelle mani della borghesia antigiolittiana, che pose per conto suo la successione al vecchio di Dronero.
Ciò spiega perché il fascismo, pur transigendo nel momento stesso del suo sviluppo col regime, si pose subito come avversario del giolittismo di cui negò in teoria i dagli storici, mentre in pratica, in buona parte, li riprodusse.
In seguito poi la lotta con il socialismo operaio e la possibilità della riscossa socialdemocratica giolittiana, spinsero il fascismo sempre più nella fase reattiva che il regime, superando le previsioni del vecchio di Dronero, scelse per la sua salvezza.
Naturalmente questa corsa fascista alla reazione coincise sempre più col doppio processo di elaborazione, che il socialismo subì come risultante delle forze in movimento.
Infatti, da una parte, il movimento operaio rimasto fedele alle sue origini riscattò la sua funzione liberale e, dall'altra, le forze operaie con funzione conservatrice si staccarono da quelle rivoluzionarie.

Insufficienza dell' azione mussoliniana.

Ma, mentre nel movimento operaio avveniva questa grande semplificazione di forze e di obiettivi, il fascismo, accogliendo nel suo seno tutti i tossici della vita pubblica italiana, appropriandosi del compito storico del socialismo di Stato, lasciandosi permeare dalle necessità dell'industrialismo protetto e del regime, in una frenesia panica di dominio si scordò di essere né più né meno che la lotta di classe del giolittismo e in un delirio di superbia si proclamò avversario e liquidatore testamentario del liberalismo europeo.
Per un certo periodo la prosa tronfia del nuovo profeta segnò antitesi mondiali inesistenti e quindi sentimmo delirare di compito antidemocratico, antiliberale, antisocialista assegnato dalla storia al fascismo, quasi che non si trattasse delle convulsioni di un regime duro a morire. La verità, invece, è più modesta, perché se si vuol parlare di un'antitesi col liberalismo filosofico questa è connaturale non al fascismo ma addirittura al regime, e se si vuole, invece, parlare di un'antitesi al preteso liberalismo dello Stato italiano niente vi è di meno esistente e di meno vero.
Malgrado tutto ciò, però, il fascismo alla base fu un movimento liberale. Spinto ad effettuare la reazione attraverso le folle e non soltanto attraverso le forze di polizia, il regime fu costretto a riconoscere talune necessità elementari delle masse rurali, di cui dovette servirsi ed il rassismo bene spesso corrispose ad un bisogno di reazione al centralismo romano.
Anche se l'élite dirigente si pose rapidamente al servizio degli industriali e non ebbe timore di svolgere una politica stupidamente padronale, essa dovette concedere non poco al peso delle masse e contribuì alla loro educazione politica, avvicinandole sempre più ai concetti di autonomia ove debbono fatalmente sboccare.
Naturalmente, siccome il signor Mussolini era l'unico cervello pensante del movimento, le sue responsabilità sono infinite come infinita sarà la sua sconfitta. A chiunque analizzi il suo doppio giuoco politico, che voleva sembrare prodotto di somma abilità, non potrà sfuggire invece che esso era frutto d'incomprensione e di paura!. Nessun uomo, forse, pur avendo avuto così largo potere, si. è lasciato cosi vincere più che dagli avvenimenti dai piccoli uomini che lo circondavano.
Salito al potere in un momento di smarrimento generale e quando gli uomini decisi a non abdicare la loro personalità erano pochissimi, egli aveva aperte dinanzi a sé tutte le vie, da quella massima di fare la rivoluzione delle forze rurali a quella minima di sostituire Giolitti nel giuoco trasformistico. Unica via preclusa quella della violenza per la violenza, del feudalismo squadristico! Ed egli, invece, quella scelse.
Dopo aver strappato un mandato di fiducia a tutti i ceti, prima e dopo la marcia su Roma, godeva così largamente il favore della monarchia da poterla anche tradire. Invece preferì ondeggiare in un trasformismo inconcludente, che valse soltanto a nascondere per un certo tempo il reale dominio degli anarchici del direttorio. In verità egli ebbe cosi scarsa fede nei suoi propositi rivoluzionari che ebbe paura di iniziarne l'attuazione, oppure conosceva cosi poco il meccanismo dello Stato che non seppe da qual punto cominciare le promesse riforme. E così la sua azione sembrò sovversiva là dove era trasformista, e viceversa.
Opposizione dei revisionismi fascisti e del mussolinismo alle necessità ideali della rivoluzione italiana.
Queste deficienze del duce ed il logorio terribile che in conseguenza il regime ha subito non potevano non produrre ripercussioni nello stesso campo fascista. Ed, infatti, ad esse si deve il nascere del revisionismo, che, si noti bene, si divide in due ali perfettamente antitetiche: revisionismo trasformista e revisionismo rivoluzionario.
Il primo ritiene che il compito del fascismo sia quello di schiacciare il bolscevismo, impadronirsi dello Stato storico e provvedere alla formazione di un governo forte, capace di ristabilire il dominio della legge. In altri termini, sfronda tutte le pretese rivoluzionarie del movimento e combatte il governo perché si trastulla in propositi rivoluzionari che non possono non contrastare la effettiva prassi trasformistica. È insomma un revisionismo che, abbandonando il doppio giuoco mussoliniano, abbraccia consciamente il trasformismo e mira a trarne tutte le conseguenze utili al proprio dominio.
Il secondo, invece, vuol tener fede al conclamato contenuto rivoluzionario e, perciò, réagisce alla politica trasformistica.
Esso ritiene che il liberalismo sia completamente superato e rimasticando alcune formulette dell'attualismo gentiliano pretende che il signor Mussolini riformi tutta l'impalcatura dello Stato allo scopo di tradurre nella realtà le idee della nuova dottrina filosofica.
Entrambe queste correnti ripugnano per opposte ragioni alla prassi del signor Mussolini, dichiarando di avere scarsa fiducia nella politica della violenza l'assista e degli accorgimenti governativi, ma entrambe ignorano il problema italiano nella precisa consistenza e perciò sono coostrette o a ripiegare nel neogiolittismo o a riprodurre l'astrattismo rivoluzionario del bolscevismo.
Queste considerazioni spiegano brevemente entro quali linee si dissolverà non soltanto il governo mussoliniano, ma il movimento fascista stesso in tutte le sue tendenze e sfumature.
Intanto è assolutamente degno di nota che non soltanto il governo mussoliniano, ma le stesse correnti critiche del fascismo siano cosi distanti dalla questione italiana che sembrano addirittura straniere. Esse ignorano l'Italia agricola ed i suoi bisogni e perciò si arroccano sempre più intorno al protezionismo industriale ed al corporativismo di Stato, ignorano l'Italia meridionale e perciò insistono nella violenza tributaria e politica, ignorano l'anelito di libertà del popolo italiano e perciò sognano di togliergli perfino le astrazioni istituzionali della carta albertina.
La questione italiana è tutta contro di loro e le revisioni non ne afferrano o ne integrano nessun lato.
Forse Mussolini ebbe qualche barlume di veggenza quando proclamò di voler poggiarsi sull'Italia rurale, ma, a parte che questa affermazione è contraddetta da tutta la sua politica e con le frasi non si governa, egli era tratto anche questa volta in inganno dalla lotta padana, che non solo non è la questione italiana, ma ne è la negazione.

Se Mussolini sogna nel suo aperto tentativo di resistenza al regime di farsi capo di un fascismo che possa costituire il primo nocciolo di arroccamento della futura rivoluzione italiana, si disinganni: anzitutto, perché il movimento rurale non potrà non essere contro i dati storici del padanesimo e secondariamente perché, fino a quando non si produca la remota rivolta rurale, lo stesso padanesimo potrà sempre costituire la base per i successori del fascismo nel governo dello Stato.
Rimangono si ancora le forze sanamente rivoluzionarie, quelle che sia pure inconsciamente hanno sognato di fare il loro ingresso nella storia a mezzo del fascismo, ma queste non potranno tardare a convincersi del compromesso di cui sono state oggetto e perciò dovranno fatalmente gravitare verso altri partiti.
Gli errori antitrasformistici di Mussolini non potranno più salvarlo e perciò egli dovrà sempre piu esaurirsi nei ritorni trasformistici, finché non lo raggiungerà la vendetta fiancheggiatrice.

La manovra fiancheggiatrice per ristabilire i dati storici della conquista regia.

In effetto la manovra fiancheggiatrice costituisce oggi la spina dorsale della politica italiana, ed in ciò sta la condanna del fascismo e delle opposizioni, l'uno fallito a tal punto da permettere ai battuti della vigilia di tentare la riscossa, le altre cosi deboli e perplesse da temere addirittura la successione.
In queste brevi considerazioni si congloba dunque tutta la dolorosa realtà italiana, lotta di impotenze e di transazioni, dominio di ristretti circoli di politicanti atteggiantisi ad eterni salvatori della patria.
Così, mentre lo sfondo della psiche collettiva non riesce a superare l'angusto e vuoto quadro del combattentismo, il giolittismo si ripresenta, come nel 1920, arbitro e liquidatore di una situazione. I reduci, quelli che, assumendo di aver finalmente fatta l'Italia sui campi di battaglia, pretendevano di fare gli Italiani patrioti e cittadini, liberi nello Stato nazionale e padroni del loro destino, dopo aver costituito la base della politica dittatoriale di una fazione, che, solo a chiacchiere, diceva di voler rappresentare l'Italia del lavoro e della produzione, la grande Italia del sacrifizio silenzioso e degli oscuri eroismi, passano a far da sgabello a quell'uomo ed a quel sistema che ieri, nell'esaltazione della rissa, fu definito nemico del paese. Ed intorno a questo programma si mobilitano le forze piu eterogenee e meno politiche, pur di non affrontare ab imis il problema italiano, anche se l'impostazione di questo problema fatta con cognizione di causa e serietà di propositi debba costare altri dieci anni di fascismo.
Ed è perciò che la manovra fiancheggiatrice è destinata al successo. Tentando di ripristinare per intero i dati storici della conquista piemontese, scossi dall'azione del fascismo, il movimento dei fiancheggia tori si palesa fondato sulla tradizione italiana e perciò ha già al suo inizio l'appoggio del regime.
La sconfitta del fascismo e del mussolinismo e la immaturità delle opposizioni ad una battaglia sostanziale, che sorpassi la sterile schermaglia legalitaria, in cui Mussolini si è fatto imprigionare, concorrono ad assicurare il successo a questa manovra fiancheggiatrice:

Insufficienza ideale del cartello delle Sinistre.

Queste considerazioni caratterizzano in pieno la perfetta natura del così detto cartello delle Sinistre, cui i partiti componenti si sforzano di dare un contenuto. sicuro sulla base del minimo comune denominatore amendolino.
Aggregato temporaneo di partiti diversi esso non può svolgere altro che un compito negativo, oltre il quale si apre spaventoso il baratro del dissenso e del fallimento. Conseguentemente il cartello delle Sinistre non può aspirare alla vittoria, ma deve contentarsi soltanto di logorare il fascismo sul terreno della libertà astratti.

Poiché il partito dominante ha commesso l'imperdonabile errore di mettere in discussione taluni principi fondamentali del vivere civile ed ha preteso piegare un popolo intero al suo gioco con l'avvilente metodo dell'ingiuria e del bastone, il cartello delle Sinistre si è potuto costituire e può funzionare rivendicando l'astrazione della libertà, senza precisarne i limiti, le possibilità di applicazione ed i ceti privilegiati.
Compito questo certamente assai importante, quando un partito eleva a metodo di governo l'omicidio e la lesione personale e si rifiuta di riconoscere agli avversari il diritto all'integrità personale, ma transeunte e condannato a nascondere, piuttosto che a sviluppare, la lotta politica.
Quando un governo qualsiasi, foss'anche militare, sarà intervenuto a ristabilire non le libertà politiche - che è tutt'altra cosa - ma l'uguaglianza dei cittadini dinanzi alla legge penale ed avrà distrutto il medievale diritto di asilo della milizia e del partito, il compito del cartello dellle Sinistre sarà cessato e molti dei gruppi che oggi vi aderiscono dovranno nuovamente staccarsene per riprendere in pieno la loro funzione critica.
Se il signor Mussolini non si fosse lasciata chiudere dietro le spalle persino questa porta, riducendosi ad invocare dal suo partito il ristabilimento della legge penale come una concessione caritativa, e dagli avversari l'amnistia, perfino un terzo gabinetto da lui presieduto potrebbe togliere al cartello delle Sinistre quest'arma, intorno a cui è stato possibile l'arroccamento.
Dato, perciò, questo carattere peculiare del cartello delle Sinistre, la soluzione della questione italiana non può essere ricercata, se non al di fuori di esso, nei singoli partiti che lo compongono. È su questo terreno che una ripresa della lotta politica dovrà avvenire ed è su questo terreno che debbono essere saggiate le idee e le forze che si contendono la successione fascista.
Spostando, perciò, la nostra analisi al secondo tempo antifascista verremo ricercando attraverso le posizioni strategiche e tattiche dei vari partiti le vestigia del passato per potere quindi sulla stregua delle osservazioni raccolte postulare interamente tutte le necessità ideali della rivoluzione italiana.

I liberali e i democratici

La lotta tra Giolitti e Salandra continua attraverso il fìancheggiamento al fascismo.
In pochi paesi di Europa la denominazione politica «liberale» e «democratico» è stata assunta, volta a volta, da partiti e fazioni più disparate, ed in cui lo spirito illiberale ed antidemocratico fosse più diffuso.
Non credo, perciò, opportuno cosi di addentrarmi nell'esame delle differenze ideologiche, che pur esistono tra le correnti liberali e quelle democratiche, come di uscire dalla disamina della situazione politica italiana quale si presenta storicamente in questo momento in relazione a quel particolare campo di studio che ho chiamato la «ricostruzione» e che costituisce l'oggetto del mio discorso.
Isolando, per ora - per poterne parlare a parte -le poche minoranze culturali, che si riportano all'insegnamento tradizionale del liberalismo filosofico, si può affermare che le forze liberali sopravvissute alla marcia su Roma si possono classificare in tre gruppi: quelle fiancheggiatrici che fanno capo agli onorevoli Giolitti e Salandra, quelle cosiddette demosociali organizzate dall'onorevole Colonnna di Cesarò e quelle di opposizione costituzionale capitana te dagli onorevoli Amendola, Albertini e Bonomi.
Passando, quindi, a parlare dei fiancheggiatori, diremo che è soltanto per ragionare di metodo ed in conseguenza dell'atteggiamento formale assunto nei riguardi del fascismo che abbiamo messo insieme queste due correnti liberali cosi caratteristiche del nostro paese.
In verità, a chi si accinga ad esaminare il loro contenuto non potrà sfuggire, al disotto della grigia uniformità ideale, corrispondente perfettamente alla immaturità del popolo ed all'adesione completa ai dati storici della conquista regia, le profonde antinomie che hanno scavato, tra le due correnti, divisioni incolmabili.
Una prima differenza, intanto, anche nel lato formale dei rapporti di fiancheggiamento al fascismo, si concreta in questo che, mentre l'onorevole Giolitti si è sforzato di mantenere un atteggiamento autonomo per non essere costretto ad entrare nella lista nazionale, l'onorevole Salandra non ha avuto difficoltà di stringere più intimi rapporti col fascismo, anzi di accettare, col discorso di Milano, l'onorevole Mussolini come suo capo.

Questa differenza è dipesa dal tatto che i liberali salandrini, subordinati dalla funzione di sovvertimento da essi assunta in concorrenza con lo stesso fascismo, credevano di poter assorbire il fenomeno rivoluzionario adattandolo alle proprie finalità; mentre il giolittismo, conscio di avere nel giovane partito un nemico, voleva evitare sterili confusioni.
In sostanza i giolittiani non hanno mai perduto di vista che lo scoppio fascista avveniva principalmente contro il loro sistema, e, se non hanno potuto prendere aperta poosizione di combattimento contro il fenomeno, ciò è dipeso proprio dal fatto che l'insorgere del fascismo era stato sollecitato dal loro capo per tentare di riassorbirlo nei dati storici della monarchia italiana. Il loro piano politico può racchiudersi nel seguente dilemma: se la loro sconfitta era determinata a una necessità di ordine superiore, quale l'assorbimento dei fasci nella politica monarchica, questa stessa necessità doveva aiutarli in un momento successivo, a trionfare come metodo, ed attraverso il trionfo del metodo molte posizioni personali avrebbero potuto essere mantenute: se invece tale assorbimento non era possibile per l'intrinseca rivoluzionarità del fenomeno, automaticamente la loro successione verso la monarchia sarebbe dovuta risorgere per effetto della compromissione del fascismo di governo.
Il loro atteggiamento di fiancheggia tori autonomi rispondeva, dunque, ad una necessità prettamente razionale, ultimo tentativo di salvataggio del sistema, anche al di là delle fortune personali degli uomini che lo rappresentavano che credono di aver fatta una rivoluzione vittoriosa, né quelli che momentaneamente ne hanno dovuto subire lo scoppio. Attraverso lo sforzo di dover prendere posizione contro la riforma junkerista proposta dal fascismo è evidente che l'impostazione polemica del discorso amenndolino è rivolta a raggiungere un fine controrivoluzionario sia quando propone - si badi, in sede di pura ipotesi -, la separazione del potere costituente da quello legislativo, o postula la necessità di creazione dello Stato contro il parossismo del potere esecutivo; sia quando afferma l'indipendenza istituzionale della magistratura o mira ad integrare il principio della maggioranza parlamentare con la riforma del Senato e con il decentramento amministrativo.
Necessariamente questa controrivoluzione amendolina si contrappone sia alla rivoluzione che circola alla base della formazione avversaria e che, sul serio, vuole raggiungere posizioni politiche nuove, sia al fascismo di governo che, nell'incomprensione storica degli avvenimenti, mira a cristallizzare la propria fortuna politica anche nella costituzione degli Shogun giapponesi. Si contrappone alla rivoluzione-base perché mira a deluderla attraverso espedienti formali, cercando riprodurre,. entro mutata veste, il dominio dei vecchi ceti sullo Stato: si contrappone vittoriosamente al fascismo di governo perché vuole sostituire all'anarchia feudale dei nuovi padroni la coerenza di un pensiero fondato sulla tradizione.
Questa coerenza alla tradizione in verità costituisce una forza politica di prim'ordine che il fascismo a torto deride, specialmente quando non sa o non può contrapporle un pensiero organicamente nuovo.
Amendola non ha il temperamento mussoliniano e, perciò, non farà una nuova marcia su Roma stile messicano. Si affannerà, invece, a stendere sulle colonne del «,Mondo» quei suoi periodi quadrati e robusti che piacevano tanto alla piccola borghesia italiana nel periodo eroico dell'antifascismo, e che ora stancano per la monotonia; cosi continuerà la marcia silenziosa e paziente al potere che lungo i sentieri abbandonati dal mussolinismo egli conduce da due anni alla ricerca di una nuova conquista regia.
Amendola, però, in caso di vittoria, non incendierà le féries luminose della legislazione fascista dei primi mesi: non si precipiterà nelle cantine dei ministeri per rintracciarvi progetti scartati dall'esperienza trentennale giolittiana: non illuderà la rivoluzione, ma soprattutto non deluderà la conservazione. Egli ha le sue idee già fatte e noi le conosciamo. La sua polemica antifascista è stata per lo meno utile ad impedire - cosa che, del resto, il suo temperamento non gli avrebbe permesso - che egli possa presentarsi in veste di rivoluzionario,

La conservazione intelligente

Amendola è, dunque, la conservazione intelligente. Egli conosce l'attrattiva di certe formule verbali che hanno costituito lungamente il bagaglio della piccola borghesia italiana e le ripresenta al pubblico verniciate a nuovo, sicuro che non hanno perduto l'antico fascino, anche perché corrispondono a generalizzazioni di problemi insoluti.
Un esempio caratteristico di tale profilo mentale ci è offerto dal problema meridionale, di cui egli ci dà un'impostazione formale, senza soluzione sostanziale.
Egli dice: «Questa organizzazione dello Stato di cui abbiamo disegnato qualche linea e che deve essere oggetto di serio studio, risponde in modo particolare al genio ed al bisogno del Mezzogiorno: tradizionale campo di manovre per tutti gli eccessi e gli abusi del potere esecutivo. Collaborando a rendere necessaria la riorganizzazione, anzi la creazione dello Stato, il Mezzogiorno lavorerà a sottrarsi ad una condizione d'inferiorità che oggi più che mai, dopo oltre sessanta anni di vita unitaria, gli grava sulle spalle in modo umiliante.
In uno spirito nobilmente unitario ed italiano (qual è proprio della nostra tradizione) i meridionali debbono essere chiamati a considerare il tema che direttamente li riguarda» .
Ecco, dunque, uno degli esempi più caratteristici del come si delude il problema meridionale. L'impostazione è concettualmente esatta ma per un partito rivoluzionario, non per un partito che aspira ad esser chiamato da un momento all'altro al governo.
Difatti un'azione che mirasse a chiamare i meridionali a risolvere il problema che direttamente li riguarda dovrebbe essere diretta ad organizzare tutte le forze antitrasformistiche del Mezzogiorno, cioè tutte le forze che in presente sono oggetto del baratto trasformistico. Soltanto queste forze possono rompere il circolo vizioso entro cui si annoda la vita pubblica meridionale.
Ma per organizzarle e poterle, poi, scagliare nella battaglia, occorre un'opera lunga e paziente che l'opposizione costituzionale non può compiere, appunto perché deve conquistare subito il potere.
Una riprova di questa posizione si ha nel fatto che il maggiore seguito dell'opposizione amendolina è reclutato proprio tra quei ceti medi meridionali che fino alla marcia su Roma furono il cardine principale del giolittismo e nei primi giorni di entusiasmo pel fascismo furono i piu strenui sostenitori del manganello filosofico.

Amendola e la questione meridionale.

L'insurrezione dei ceti produttori del Mezzogiorno non potrà svilupparsi che su diverso terreno politico.
Del resto il pensiero amendolino ha un decisivo precedente in materia che soltanto la cattiva memoria degli Italiani può dimenticare: il discorso di Sala Consilina, pronunziato - si noti bene - il l° ottobre 1922.
Basterà citarne il brano più significativo per convincersi di tutto il retro scena psicologico, nascosto dietro le formule odierne.
«Nel 1919, quando l'alta e la media Italia piegavano sotto la ondata bolscevica, il Mezzogiorno non piegò né si scosse: baluardo dello Stato e della società italiana.
Esso non ha perciò verso il Partito fascista alcun debito di gratitudine, né saprebbe tollerare l'importazione di metodi ai quali mancherebbe, tra le sue popolazioni amanti dell'ordinato lavoro e fedeli allo Stato, qualsiasi giustificazione di difesa sociale e di ritorsione politica. È dunque necessario, se il fascismo vuol tentare questa prova, che esso venga col viatico di un programma positivo, e di idee felicemente costruttive. Quale programma? Quali idee?
Qualche primo indizio indurrebbe a credere che esso tenterà di riscattare un programma specifico attraverso la litania ben nota dei problemi più propriamente meridionali oggetto di cosi ponderosa e trita letteratura! Ebbene, se casi sarà, possiamo esser certi che nulla di nuovo potrà essere detto in questo campo. Or sono alcuni mesi, allorché ebbi l'onore di parlare agli amici della provincia convenuti a Salerno, riassumevo il programma della ricostruzione del Meridionale in questi termini: accompagnare ancora, con devozione e con spirito di sacrificio, lo sforzo della finanza nazionale verso il raggiungimento dell'equilibrio, e collocare un'ipoteca nazionale sui primi margini attivi che si verificheranno in avvenire onde attuare un grande piano generale di creazione nel Mezzogiorno degli impianti fondamentali necessari alla vita di un popolo civile, col metodo organico ed intensivo che fu impiegato per la ricostruzione delle terre liberate. Né penso che in questa materia vi sia oggi altro da aggiungere».
Ma la reazionarietà del pensiero amendolino, più che da questa posizione (che non può non far ricordare le recenti polemiche del «Mondo» contro i progetti caritativi dell'onorevole Mussolini per conquistare il Mezzogiorno) emerge chiara dal brano seguente che è tutto una fotografia della teoria e della prassi amendolina nel Sud.
«Si vuole ancora e sempre ripetere il tema della riscossa del popolo meridionale dal gioco delle camarille e delle clientele che ne avviliscono il costume politico. Cosi si disse quando si volle il suffragio universale: senonché le riforme si aggiungono alle riforme, e l'argomento resta sempre in piedi, a disposizione della retorica politica che abitualmente si accompagna alla questione meridionale .. Orbene: io ho rivendicato altra volta, nella sede parlamentare, e rivendico anche oggi il valore sociale, politico e morale, delle cosi dette posizioni personali, attraverso le quali si organizza la vita pubblica nel Mezzogiorno. Esse rappresentano, bene spesso, patrimoni preziosi di prestigio e centri naturali ed insopprimibili di un' organizzazione di rapporti politici, assai più salda ed assai più sana di quella che è rappresentata dalle tessere dei partiti cosiddetti di masse. Esse hanno, dietro di sé, tradizioni vecchie vigorose, ed hanno contribuito efficacemente in tutto il dopoguerra - E CONTRIBUIRANNO ANCHE DOMANI - a preservare una larga parte d'Italia da pericolosi sconvolgimenti politici.
Che cosa si pretenderebbe oggi di tentare contro questa naturale organizzazione della grande maggioranza delle popolazioni meridionali? Non vi sono che due vie da prendere: o ASSICURARSENE L'ADESIONE E IL DOMINIO MORALE, CON LA PERSUASIONE E LE BUONE OPERE CIIVILI, o coalizzare contro di essa tutte le minoranze dei malcontenti, degli squalificati, degli irregolari.
Non auguro questa seconda via, che conduce allo sfruttamento fazioso degli elementi torbidi e dei rancori locali, a nessun partito il quale si proponga di lavorare onestamente per l'avvenire d'Italia! Ma il Mezzogiorno non si domina con la considerazione dei problemi locali, o con lo sfruttamento delle sue divisioni di parte; la sua anima istintivamente ed entusiasticamente unitaria guarda ansiosa ai destini della sua grande Patria, e chi vuole raggiungerla ed avvicinarla a sé deve parlare d'Italia, deve additare le vie che condurranno l'Italia a superare le difficoltà della crisi post-bellica ed a ritrovare, nel pieno godimento della pace ben meritata, il segreto della sua rinnovata fortuna.
Ora l'anima del Mezzogiorno, che è, come dicevo, istintivamente ed entusiasticamente unitaria, si esprime attraverso un credo politico che consta di due articoli fondamentali: Monarchia e Democrazia».
Tutti i dati storici della conquista piemontese sono, dunque, vivi ed operanti nel pensiero di Amendola, che, come tutti gli uomini politici del Sud pervenuti a notorietà, è in funzione di stretta conservazione d'interessi nordici.

L'opposizione costituzionale futura riserva della conquista regia.

Ciò posto, e malgrado tutte le affermazioni in contrario, è evidente che l'opposizione costituzionale non è un partito liberale.
Veramente i teorici di quest'aggruppamento si richiamano continuamente ai prinçipi del costituzionalismo e del parlamentarismo, parlano di ripristinare le libertà soppresse dal fascismo, impugnano la libertà di critica contro la violenza privata. Ma appunto perciò il gruppo non esce dalla concezione tradizionale dello Stato italiano e non è liberale.
Mussolini crede di potere ancora reggersi con la forma di creazione spontanea del militarismo fascista, che non si può diversamente definire che una nuova specie di feudalismo antistatale; Amendola ritiene che ogni qualvolta siano stati abbandonati anche nella forma i dati storici della conquista regia, si son corsi seri pericoli rivoluzionari, cioè si sono compromesse le conquiste soprattutto economiche degli scarsi ceti dirigenti dello Stato italiano. Se non si vuole, perciò, continuare nell'opera di sovvertimento iniziata dal bolscevismo, e proseguita dal fascismo, bisogna tornare all'ossequio integrale dello Statuto albertino, modificato (se occorre) nella forma, per dare l'illusione di sopprimere gli istituti formali, attraverso cui è possibile lo sconfinato arbitrio del potere esecutivo.
Ma questi avvedimenti riformatori non sono diretti alla base, cioè alla distruzione del permanente compromesso che alimenta la politica italiana: essi sono soltanto diretti a nascondere le soluzioni di continuità che il fascismo vi ha lasciato. La politica di Amendola è perciò più reazionaria di quella di Mussolini, e mentre il compromesso tra quest'ultimo e la politica regia è sempre in pericolo per opera delle forze veramente rivoluzionarie imprigionate nel fascismo, il compromesso tra l'opposizione costituzionale e la politica regia è formalmente perfetto.
Amendola, per parte sua portandosi dietro l'antifascismo della piccola borghesia meridionale, garantisce immediatamente la saldatura del regime col Mezzogiorno.
L'illiberalità di questa formazione non potrebbe essere più evidente. Lo Stato moderno è ancora da venire.

Illiberalismo affidato alla difesa di gruppi culturali.

Il compito di battersi per lo Stato moderno è, per ora, affidato ad esigue minoranze culturali, senza precisi obiettivi politici. Trattasi in massima parte di studiosi che sono pervenuti a maturazione culturale attraverso gli studi di filosofia e che, perciò, hanno compiuto nel loro spirito non una, ma dieci rivoluzioni. Questi studiosi sono, in generale, degli isolati, cui la solitudine rafforza, invece d'indebolire, l'intransigenza.
Tuttavia è pregio dell'opera ricordare il movimento politico che si svolge intorno alla «Rivoluzione Liberale» di Piero Gobetti, che mira a creare una nuova classe dirigente presso di cui le idee liberali abbiano più vasto asilo.
In generale i collaboratori della «Rivoluzione Liberale» sono pervenuti a una precisa impostazione critica del liberalismo attraverso l'analisi del processo di formazione dello Stato unitario, di cui vengono successivamente scoprendo e svelando tutte le transazioni; ed il loro sforzo è rivolto a creare una dottrina rivoluzionaria dello Stato italiano che si contrapponga vittoriosamente alla formazione storica, senza riprodurne gli errori.
È per ora un compito puramente culturale, che, in parte, segue altri tentativi del genere, come 1'« Unità» e la « Voce» politica; in parte, li sovrasta, specialmente quando superando il problemismo, si sforza di pervenire alla nozione integrale dello Stato e della lotta politica.
Nel campo storico specialmente la rivista addita ed incoragia i movimenti veramente liberali, mentre svela a tempo i sottintesi reazionari di dottrine demagogiche.
Il direttore della rivista ha anzi scritto per la collezione di studi sociali diretti dal Mondolfo un saggio che porta il titolo di Rivoluzione liberale I, in cui il metodo è applicato ai vari partiti storici, con speciale simpatia ai movimenti proletari, diretti a prendere possesso spiritualmente del meccanismo di produzione ed a sboccare in formazioni di democrazia diretta.
Non tutti i postulati del brillante saggio sono concordemente condivisi dagli scrittori e dai simpatizzanti della rivista, specialmente da quelli, che, conoscendo a fondo la questione meridionale, vedono più complessa mente la realtà italiana e non sono portati a sopravvalutare il movimento operaio come storicamente si è prodotto in Italia. Ma indubbiamente il saggio costituisce uno dei più significativi documenti dell'epoca presente.
Il gruppo di «Rivoluzione Liberale» costituisce, quindi, l'unica frazione veramente liberale che esista in Italia.
Il suo compito deve restare ancora a lungo limitato ad un'opera di cultura e di controllo, se non vuole perdere la necessaria intransigenza.

L'opera di «Rivoluzione Liberale» e il comitato delle opposizioni.

Questa considerazione chiarisce l'errore in cui sono caduti numerosi aderenti alla rivista quando hanno preteso
Esso non reagisce a ciò che vi è di caratteristico nell'azione fascista, e cioè l'adesione di forze neorivoluzionarie alla conquista regia, ma reagisce proprio a quell'elemento della violenza che costituisce il maggior pericolo per la conquista regia.
In altri termini, Amendola suggerisce una formula che il temperamento sovversivo di Mussolini è portato a scartare, ma non si pone se non formalmente su di un terreno diverso da quello di Mussolini.
Se non fosse per quel famoso «temperamento» la collaborazione Mussolini-Amendola sarebbe già un fatto compiuto.
Il terreno comune è la conquista regia, il dissenso investe la pura forma dell'organizzazione politica.
Questa posizione rispetto al problema del Mezzogiorno, che è poi il problema italiano per eccellenza, chiarisce perché l'unitarismo socialista si sente estraneo al turbino so tentativo di affioramento dei rurali, che si va lentamente producendo nelle viscere della storia contemporanea. Anzi poiché questo affiora mento è potenzialmente il più radicale tentativo di attacco al sistema della monarchia socialista, cui tende con rinnovate energie l'unitarismo socialista, la posizione di questa corrente nazionale è destinata a passare sempre più dall'indifferenza sospettosa alla guerra dichiarata.
In altri termini il fascismo, con la sua azione obbligante, permise al socialismo unitario di svolgere il tema della collaborazione con le democrazie borghesi sul terreno dell'opposizione, piuttosto che sul terreno del governo, senza essere costretto ad abbandonare il suo carattere di futura riserva della monarchia socialista.

Saldatura con l'amendolismo ed assorbimento dei ceti medi.

Sotto questa spinta il socialismo unitario va sempre più diluendo la sua caratteristica formazione operaia per divenire un partito di ceti medi.
Esso divide con l'opposizione costituzionale il compito di organizzare l'antifascismo della piccola borghesia e così si pone in prima linea nel cartello delle Sinistre per la successione al potere.
Con l'opposizione costituzionale ed i popolari il socialismo unitario è già pronto a formare quel ministero di sinistra, per cui Filippo Turati nel 1922 sali invano le scale del Quirinale.
Il fascismo, perciò, dovrebb'essere una parentesi oltre la quale l'unitarismo è pronto a riannodare quelle fila che l'agitazione bolscevica prima ed il colpo di Stato fascista poi gli hanno spezzate nelle mani.
Nessun altro insegnamento questi due anni di passione avrebbero fornito al popolo italiano, per cui al disopra di ogni considerazione ideale e materiale si potrebbe facilmente tornare a quel sistema di protezionismo industriale e di socialismo di Stato, che trovò nel giolittismo il suo capolavoro.
Se il fascismo è stata l'esasperazione parossistica dell'unitarismo italiano e del prepotere incontrastato della conquista regia, il socialismo unitario non ha difficoltà ad aderire ad una formazione politica che sia soltanto un'attenuazione del fenomeno.
Ecco perché il suo accostamento all'opposizione costituzionale si fa sempre più intimo: scompaiono lentamente quelle poche differenze che potrebbero disturbare l'unità dell'azione e l'unitarismo socialista aderisce sempre più al gioco conservatore dell'onorevole Amendola e del «Corriere della Sera».
Lo spettro illiberale della monarchia socialista riappare all'orizzonte come un porto sicuro in cui riparare dopo tanta tempesta.

Il socialismo unitario e la questione meridionale.

La questione meridionale è ancora di là da venire e la saldatura col Mezzogiorno è lasciata quasi interamente alla opposizione costituzionale ed ai demosociali, le cui rispettive posizioni abbiamo già analizzato.
Vi sono SI alcuni gruppi tesserati, specialmente nella Campania, ma essi là dove non rientrano nel clima generale del protezionismo industriale e del socialismo di Stato, e perciò si riannodano ad indirizzi politici prettamente nordici, corrispondono, invece, al clima speciale del Mezzogiorno delle simpatie personali se non delle camarille locali.
Insomma pur quando si esce dal quadro dello Stato unitario non si superano i dati storici della questione meridionale.
Ma questo caso sarebbe COSl rivoluzionario rispetto al sistema che la dottrina non si rifiuterebbe di prenderlo in esame.
Per ora le rispettive posizioni politiche sono quelle da noi tratteggiate ed il Partito socialista unitario potrà avere un giuoco assai favorevole nel tentativo di creare un governo di sinistra, che assicuri finalmente i progressi economici delle democrazie operaie del Nord, ma non ha nessuna carta da giocare sul terreno maggiore della ricostruzione nazionale.
Esso è un partito che si è servito del metodo liberale per far aderire allo Stato alcune categorie, ma è un partito illiberale nello ,spirito appunto perché non eccede gl'interessi di tali categorie.
I socialisti massimalisti
Centrismo serratiano e massimalismo. Scarsa vitalità del fenomeno.
L'equivoco del centrismo serratiano, che noi abbiamo rilevato nella precedente trattazione, continua la sua sterile vita in questo partito, dopo l'espressa adesione del suo iniziatore al comunismo.
Continua più per ragioni di fredda meccanicità, per impulso di tradizione inerte, che per un vero apporto di forze ideali, e l'inutilità politica della sua esistenza appare più lampante allorché si rifletta che la funzione centrista poteva essere indispensabile durante l'inflazione bolscevica allo scopo di evitare il frazionamento del partito, ma non ha alcuna utilità oggi che il frazionamento è avvenuto e che le due correnti laterali vanno sempre più divergendo dalle posizioni primitive.
In queste circostanze di tempo e di fatti voler insistere nell'elevare a giustificazione dell'esistenza di un partito vivo una posizione tattica di un partito morto, significa dar prova di tale incomprensione del momento storico da giustificare gli apprezzamenti più radicali.
Queste considerazioni appaiono tanto più evidenti quando si analizza la struttura del partito sia alla stregua dei principi teorici generali, che delle peculiari esigenze della questione italiana.
Alla stregua dei principi teorici generali, mentre il massimalismo non eccede la concezione democratica degli unitari, vuole ad ogni costo mantenere in vita quel mito insurrezionale verbale, che fu peculiare caratteristica del vecchio Partito socialista e che tuttora trova plastica espressione nella prosa blanquista dell'«Avanti! ». Sotto questo profilo la teoria fondamentale del massimalismo si riduce all'illusione ottica di poter con pure proiezioni verbali di carattere insurrezionista eccedere l'intimo contenuto democratico che lo assimila agli unitari, ed impedire la precipitazione delle masse organizzate verso costoro.
È necessaria, perciò, un'ulteriore chiarificazione nella impostazione politica del partito, dopo la quale, noi crediamo, il massimalismo dovrebbe scindersi per liberare le sue forze verso l'attrazione unitaria o comunista.
Ma se, contro la nostra previsione, dopo tale revisione dovesse residuare una ragione specifica di esistenza del partito, nessuna miglior occasione per dimostrare l'inconsistenza delle critiche.
Alla stregua delle peculiari esigenze della questione italiana il massimalismo, rappresentando un relitto dell'inflazione bolscevica, è sempre assai distante da quelle direttive di chiarificazione, che s'impongono alla rivoluzione nazionale, sia perché, in definitiva, cerca identificare la sua azione politica con interessi operai, di cui non è chiaramente definito se aderiscano al sistema protezionista ed intervenzionista esistente, sia perché con il mito insurrezionista perpetua l'equivoco fondamentale della politica italiana di impedire il raggruppamento degli interessi conservatori in organi con fisionomia distinta.

Sotto questo profilo anzi si può affermare, senza tema di dire un paradosso, che il Partito socialista unitario rappresenta già un piccolo, ma sensibile progresso verso questa prima fase di chiarificazione, dialetticamente necessaria per ottenere una maggiore coscienza degli interessi e delle posizioni politiche in giuoco, e perciò, corrisponde ad una fase più liberale della rivoluzione italiana.
Riassumendo, quindi, noi riteniamo che il Partito massimalista abbia un giuoco assai limitato come fermento attivo della ricostruzione e le sue direttive politiche si muovono contro lo svolgimento dialettico della crisi nazionale.

XII. - I COMUNISTI

Le critiche al socialismo italiano e i consigli di fabbrica.

La storia del giovane Partito comunista è in buona parte la storia di un processo critico-politico, iniziato si parallelamente al nascere del fascismo, che non è destinato ad esaurirsi COS1 presto.
Abbiamo esaminato altrove il carattere peculiare dell'inflazione bolscevica nell'immediato dopoguerra ed abbiamo dimostrato come essa corrispondesse ad un particolare momento della vita italiana, in cui le masse non avendo ancora acquistato coscienza della posizione politica del partito venivano a proiettarsi in pieno regime d'immaturità.
Questo regime fu transitorio perché non era possibile che assai a lungo frazioni veramente rivoluzionarie rimanessero legate alla conservazione della monarchia socialista.
La falsa posizione del PSI doveva necessariamente portare alla creazione di dottrine rivoluzionarie, che, attraverso la critica del partito, giungessero a percepire la dialettica di tutto il problema italiano.
Senza voler seguire la storia dei congressi e le vicende della polemica socialista, che si scatenò furiosa all'indomani del fallimento bolscevico, e cercando di attenerci quanto più possibile allo schema delle idee in lotta, ci sembra che il primo tentativo di accostarsi alla realtà rivoluzionaria del paese fu quello espletato dal gruppo torinese dell'«Ordine Nuovo», per creare i consigli di fabbrica. Di fronte al tipo di organizzazione sindacale prevalso in Italia, diretto allo scopo di garantire all'operaio sempre maggiori aumenti di salario, lasciando intatta la forma di produzione capitalistica; di fronte, cioè, alla rinunzia implicita dell'operaio ad affacciare le maggiori pretese sociali sui mezzi di produzione in cambio del piatto di lenticchie degli aumenti di salario - necessariamente negati quando l'andamento del mercato mettesse in pericolo il profitto capitalistico - i comunisti intuirono che il fallimento delle dottrine rivoluzionarie in Italia era sempre avvenuto per effetto del legame di interessi che si stabiliva nella prassi riformi sta tra industriale ed operai.
Conseguentemente il comunismo era portato a studiare il modo con cui poter rompere questa solidarietà d'interessi che, pur attraverso la parvenza della lotta, si creava fra le due classi rivali.
Fu allora, che gli scrittori dell'«Ordine Nuovo», rielaborando per proprio conto la dottrina marxista, ebbero la intuizione che la preparazione rivoluzionaria dell'operaio dovesse farsi nella fabbrica, nel vivo stesso del processo di produzione, di cui occorreva, prima di ogni altra cosa, impadronirsi psicologicamente, se poi si voleva materialmente gestirlo.
Questa intuizione portava logicamente a preferire fra i sistemi di organizzazione operaia, gli organismi di interferenza e controllo nei processi più delicati della produzione, ai mezzi di lotta per gli aumenti di salari; portava ad elaborare teoricamente i consigli di fabbrica intesi appunto come palestre di addestramento operaio al possesso di tutti gli organismi dello sviluppo della produzione.
Gli operai avrebbero così imparato il funzionamento delle industrie nella parte più alta, nel giuoco stesso del capitalismo, nel meccanismo delicato dell'acquisto delle materie prime e della ricerca dei mercati di vendita, e, nel momento tragico della palingenesi sociale, avrebbero potuto rapidamente impadronirsi dei meccanismi di produzione e farli perfettamente funzionare.
Occorreva, dunque, formare la nuova classe dirigente in seno all'antica, e farla poi scoppiare dal bozzolo di formazione al momento opportuno.

lo non intendo, per i fini limitati di questo lavoro, prendere a discutere la coerenza logica di questa concezione, come, del pari, accennare soltanto alle critiche che la sociologia paretiana rivolge al nocciolo fondamentale della dottrina, negando che il proletariato, che è uno dei termini dell'antitesi attuale, possa riuscire a prevalere ed a determinare la nuova fase economico-sociale, ma credo coerente all'argomento che ci occupa rilevare che la dottrina dell'« Ordine Nuovo» rappresenta un grande progresso nel campo della revisione socialista verso la ulteriore precisazione del problema italiano.
Mercè questa dottrina, per la prima volta l'estremismo socialista abbandona il rivoluzionarismo verbale ed il blanquismo integrale, che era divenuto tradizionale tra i rivoluzionari italiani, e si afferma su problemi concreti di cui vuole superare logicamente le difficoltà.
Quindi non più voli fantastici e cadute irreparabili, ma un lungo periodo di elaborazione pratica delle idee e delle formazioni politiche per mantenersi rivoluzionariamente aderenti all'attuale realtà economica e sociale del paese.
Ma se la teoria dei consigli di fabbrica ed il marxismo integrale di Gramsci, che ne fu il teorizzatore, costituivano un audace tentativo di élite per la presa di possesso di nuove ideologie rivoluzionarie, atte a rovesciare la stasi del movimento operaio italiano, difficilmente potevano lottare sul terreno pratico con il riformismo sindacale della Confederazione generale del lavoro.
Tra una presa di possesso puramente spirituale ed i sicuri vantaggi degli aumenti di salario, la maggioranza degli operai italiani sceglieva questi ultimi, dimostrando così di aderire più alla prassi del determinismo economico che è la base del riformismo, che all'idealismo marxista, cui classicamente il Gramsci si richiamava.
La realtà italiana veniva pertanto nuovamente saggiata, ma non interamente afferrata; anche il comunismo si rendeva finalmente conto che la grande maggioranza delle organizzazioni operaie era legata al sistema protezionista e non ne poteva essere disimpegnata se non distruggendo il protezionismo stesso.

Ponendosi, quindi, questo problema il comunismo arrivava finalmente alla radice stessa della questione italiana, si convinceva della necessità urgente, anche se non confessata, di distruggere lo Stato burocratico-accentratore, che in Italia rappresenta, in maniera palmare, la criistallizzazione degli interessi parassitari comuni a tutti i ceti sociali.
Ma in Italia lo Stato burocratico-accentratore non si può distruggere se non facendo leva sugli interessi assenti, sulle classi ancora da maturare, sui ceti rurali.
È questa la grande riserva italiana, la falange che distruggerà il trasformismo, le dittature personali e il prepotere della burocrazia; è questa la grande riserva umana oppressa e perciò potenzialmente rivoluzionaria.
Cosi il comunismo, nato fenomeno urbano, ha compreso di dover divenire fenomeno rurale; nato dalla industria ha dovuto chiedere presidio all'agricoltura.

La rivoluzione rurale e la questione meridionale.

«Non è possibile pensare - si legge nelle istruzioni del l'cr - che gli operai del Nord d'Italia possano condurre vittoriosamente la lotta per il potere politico e mantenerle domani il possesso, se una stretta alleanza essi non attuino coi larghi strati della popolazione contadina del Centro e del Mezzogiorno d'Italia. Questa alleanza è una premessa alla messa in moto della classe lavoratrice d'Italia contro la borghesia».
La dichiarata impotenza delle élites operaie del Nord a risolvere da sole il problema italiano, porta finalmente il comunismo a studiare la questione meridionale, ed afferrare attraverso quali meccanismi la politica dello Stato italiano opprime le popolazioni lavoratrici del Sud.
Arrivato a questo punto al giovane partito non resta che compiere un ultimo passo: intuire cioè che, appunto perché tutto il problema rivoluzionario italiano consiste nella soluzione della questione meridionale, è nel Mezzogiorno che risiedono le vere forze rivoluzionarie d'Italia. Sembrerà un paradosso, ma è cosi: sono le forze che oggi costituiscono l'oggetto del baratto trasformistico, che divenendo finalmente soggetto dell'azione politica, sono destinate a rappresentare la leva potente della rivoluzione in marcia.
Gli sforzi rivoluzionari postbellici di talune frazioni del popolo italiano, falliti per l'assenza delle masse meridionali avranno coronamento solo quando l'epicentro della rivoluzione sarà portato nel Sud.
Il comunismo, infatti, non tarda a compiere quest'ulteriore passo.
«Il programma d'azione - è la parola d'ordine - del partito per la organizzazione dei contadini in Italia ha inizio nel Mezzogiorno. Tutte le sezioni e le cellule comuniste del Mezzogiorno sono mobilitate per il successo del compito preminente che il Partito si propone. Poiché la stragrande maggioranza dei comunisti del Mezzogiorno appartengono alle categorie dei contadini poveri, dei picccoli fittavoli, essi debbono formare i quadri della futura organizzazione meridionale dei contadini che dovrà poi creare la Federazione nazionale.

Il Congresso nazionale costitutivo della Federazione

I passi di questa marcia sono assai significativi. Dapprima sotto la spinta dell'esempio russo, che di giorno in giorno si chiarisce sempre più impregnato di ruralità poi sotto la pressione del fascismo le cui fortune nascono prima che altrove nelle campagne, ed ivi soccomberanno, infine, seguendo un movimento generale europeo che gl'inglesi chiamano green rising, movimento verde, e che già in taluni paesi si afferma vittoriosamente contro lo Stato burocratico-accentratore, il comunismo italiano si viene allontanando dalla rigida concezione marxista per avvicinarsi alleninismo più puro.
Esso non soltanto teorizza la rivoluzione italiana come una rivoluzione di contadini, ma con la prassi organizzativa cerca sempre più adeguarsi a questa necessità nazionale.
Molti errori del vecchio socialismo italiano, che temeva a parole la rivoluzione piccolo-borghese mentre la rappresentava nei fatti e si affannava in conseguenza a partire in guerra contro l'istituto della piccola proprietà, vengono corretti, con il chiaro proposito di abbandonare i pregiudizi formali - che nella realtà italiana si possono senz'altro definire reazionari - e di sboccare in forme di organizzazione collettiva veramente rivoluzionarie.
Questa marcia impetuosa verso la verità costituisce indubbiamente una nota di maturità politica cosi potente da porre il Partito comunista in prima linea tra i movimenti liberali italiani.
Se è vera la teoria missiroliana che in Italia oggi la funzione liberale è stata interamente ereditata dai partiti socialisti, questa teoria è tanto più vera per il comunismo che ha avuto il coraggio di una revisione programmatica veramente eccezionale.
Il merito di tale revisione va quasi del tutto attribuito al Gramsci, che ha saputo mantenere la sua azione politica egualmente distante cosi dalle astrazioni teologiche della Sinistra (Bordiga) - tanto estremiste da costituire la estrema sinistra di tutta la Terza Internazionale - che dalle simpatie socialiste della Destra (Gennari), ed ha saputo raccogliere la parte essenziale dell'insegnamento leninista, collegando il programma della rivoluzione italiana, al vasto movimento rurale che- in tutta Europa affiora sempre più dalle viscere della storia.
Cosi il giovane studioso sardo, dopo essere stato il primo a ricercare i veri motivi dialettici della crisi italiana attraverso la teoria dei consigli di fabbrica, è stato il primo a scoprire il nocciolo del problema italiano attraverso lo sviluppo dell'azione agraria.
Partito dal comunismo, non ha avuto difficoltà di pervenire rapidamente sul terreno più proprio ai movimenti autonomisti, incontrandosi così con la prepotente originalità dei suoi conterranei Lussu e Bellieni, teorizzatori del Partito sardo d'Azione.
Questa confluenza non è fortuita e costituisce d'altro canto la prova che la questione meridionale batte sempre più alle porte. Ruit hora!

Il comunismo italiano movimento liberale.

Tuttavia il movimento incontra su questo terreno tre pregiudiziali che sono destinate a rallentarne l'efficacia.
In linea teorica generale, esso trova limitazione nella concezione base del marxismo critico, permeato profondamente di sfiducia sulla capacità politica delle classi rurali, ed affermante che la loro mentalità non eccede i quadri piccolo-borghesi.
Questa limitazione è destinata ad operare sia dall'interno che dall'esterno e potrà essere scarsamente combattuta con l'affermazione - del resto giustissima - che la rivoluzione rurale - sia o non sia piccolo-borghese - è sempre una fase necessaria della più grande rivoluzione proletaria.
In sostanza non si riuscirà mai a distruggere all'interno delle formazioni comuniste la mentalità messianica, ed all'esterno la sfiducia verso un partito che, pur proclamando la rivoluzione integrale, si limita a sollecitare l'affioramento piccolo-borghese.
Sempre in linea generale, ma con particolare riferimento alla questione italiana, trova limitazione nella storica incompatibilità di taluni interessi operai con gli interessi rurali.
A tale proposito sarà sommamente interessante seguire l'azione del giovane partito nel campo della politica economica e specialmente nei riguardi degli operai impiegati nelle industrie protette. È questo il terreno di più aspra battaglia per i meridionalisti; e certamente i comunisti non penseranno di superare le difficoltà, che inevitabilmente si presenteranno, mutuando dal vecchio Partito socialista la comoda ma reazionaria formula dell'astensione da tali questioni, definite piccolo-borghesi.
La terza e più grave limitazione sarà segnata dalla prevenzione ostile dei meridionali contro il concetto stesso del comunismo.
È vero che il partito ha previsto questo pericolo quando ha concepito l'azione della sezione agraria come di carattere puramente sindacale e non politico, si da rendere possibile l'ingresso anche ai non tesserati comunisti; ma
Questa marcia impetuosa verso la verità costituisce indubbiamente una nota di maturità politica cosi potente da porre il Partito comunista in prima linea tra i movimenti liberali italiani.
Se è vera la teoria missiroliana che in Italia oggi la funzione liberale è stata interamente ereditata dai partiti socialisti, questa teoria è tanto più vera per il comunismo che ha avuto il coraggio di una revisione programmatica veramente eccezionale.
Il merito di tale revisione va quasi del tutto attribuito al Gramsci, che ha saputo mantenere la sua azione politica egualmente distante cosi dalle astrazioni teologiche della Sinistra (Bordiga) - tanto estremiste da costituire la estrema sinistra di tutta la Terza Internazionale - che dalle simpatie socialiste della Destra (Gennari), ed ha saputo raccogliere la parte essenziale dell'insegnamento leninista, collegando il programma della rivoluzione italiana, al vasto movimento rurale che- in tutta Europa affiora sempre più dalle viscere della storia.
Cosi il giovane studioso sardo, dopo essere stato il primo a ricercare i veri motivi dialettici della crisi italiana attraverso la teoria dei consigli di fabbrica, è stato il primo a scoprire il nocciolo del problema italiano attraverso lo sviluppo dell'azione agraria.
Partito dal comunismo, non ha avuto difficoltà di pervenire rapidamente sul terreno più proprio ai movimenti autonomisti, incontrandosi così con la prepotente originalità dei suoi conterranei Lussu e Bellieni, teorizzatori del Partito sardo d'Azione.
Questa confluenza non è fortuita e costituisce d'altro canto la prova che la questione meridionale batte sempre piu alle porte. Ruit hora!


XIII. I repubblicani

Il Partito repubblicano prima della guerra.

La conquista regia sommerse, durante il Risorgimento, tutte le correnti repubblicane, che avevano sognato di riisolvere la lotta per l'indipendenza dallo straniero insieme a quella per la libertà, ed iniziò la distruzione continua e pertinace dei fermenti ideali che pretesero riproporre agli italiani come termini di soluzione i dati spirituali dell'unitarismo mazziniano e quelli politici del federalismo di Cattaneo e Ferrari.
Ne derivò, quindi, che mentre la stessa mediocrità della politica regia rese necessario il permanere della protesta repubblicana, le transazioni per il potere e la solitarietà dell'insegnamento mazziniano adeguarono sempre più questa protesta al livello del regime, di cui in certi momenti il repubblicanesimo divenne addirittura un'opposizione di comodo.
Successivamente, il sorgere del Partito socialista ed i successi del giolittismo, che riuscì a contare il grosso delle forze repubblicane nel campo della reazione padronale, accentuarono ancor più questo scolorirsi delle vecchie ideologie rivoluzionarie, assicurando al Partito socialista, per lunghissimo tempo permeato soltanto di appetiti economici, una posizione preminente nel campo dell'opposizione.
Cosi il regime, dopo aver ridotto la lotta politica nel campo arido dell'economia, riuscì talvolta ad allearsi validamente con lo stesso Partito repubblicano nel tentativo di limitare il contenuto libertario del movimento socialista, e contenerlo negli stretti limiti di affermazioni oligarchiche.
Anzi, il successo del regime andò tant'oltre, che esso tentò perfino d'impadronirsi delle ideologie repubblicane quando pose Mazzini tra i fattori dello Stato e ne pubblicò ufficialmente le opere. Cosi il mito, staccato dallo spirito, divenne nuovo elemento di conquista politica ed ai repubblicani non rimase altro che la coreografia patriottica ed un'indifferenziata protesta, che non si sapeva piu a quali principi ed a quali fatti si riannodasse.
Attraverso questo processo il vecchio rivoluzionarismo mistico del Risorgimento disparve residuando nient'altro che un generico irredentismo, di cui il regime potette aver ragione durante la guerra.

I REPUBBLICANI

Correnti revisionistiche.

l'll, perché franata la base irredentista, i repubblicani furono trascinati sempre più nell'orbita della conquista regia; dal massimalismo, perché impedì loro di prendere proficuamente posizione nel periodo postbellico, anzi impedì di assumere addirittura la direzione del movimento ed avviarlo verso concrete forme di realizzazione, nell'unico momento in cui la monarchia socialista faceva bancarotta.
Conseguentemente il revisionismo dovette continuare ad operare come forza interna del partito, senza riuscire a piegarlo verso le necessità ideali della rivoluzione fino a che il fascismo, svelando di colpo tutte le deficienze del regime, non spinse il processo rivoluzionario nelle più intime connessure della Costituzione, mostrando anche ai ciechi l'assenza di ogni contenuto etico nella formazione dello Stato italiano.
Fu allora che apparve più chiaro che nel repubblicanesimo coesistevano due diverse formazioni politiche, con due diverse anime, frutto di due situazioni storiche distinte, anzi avverse, destinate a scontrarsi in un avvenire più o meno prossimo.
Anzi, sotto la pressione del fascismo, questa posizione dialettica cominciò a risolversi perché il fascismo, convogliando tutte le forze della reazione sociale e politica, depurò il Partito repubblicano delle numerose scode che in esso avevano depositato settant'anni d'inerzia, ed accentuò la messa in luce della sinistra revisionista.
Oggi le speranze del partito sono riposte tutte in questa frazione e nelle sue idee e l'esperienza aventiniana, rafforzata dalla pedagogia fascista, è destinata a convalidarne sempre più le tesi.
Contemporaneamente, però, a questo processo degenerativo della maggioranza del partito si sviluppava e si organizzava la critica delle giovani élites, che, anelanti di riassumere la funzione rivoluzionaria, mal sopportavano l'adesione della politica del partito agli schemi ideali della conquista regia.

Esse comprendevano finalmente che il loro movimento stagnava in una contrapposizione statica al regime, perché non aveva più né l'animo né la mente per rielaborare, secondo le necessità del nuovo orientamento politico, gli insegnamenti dei maestri.
Secondo queste correnti, che, con vocabolo di moda, potrebbero chiamarsi revisionistiche, occorreva operare una sintesi tra il messianismo mazziniano ed il federalismo cattaneiano e ferrariano, allo scopo di postulare nei confronti dello Stato storico tutte le esigenze ideali della libertà. Non limitarsi, quindi, ad agitare la bandiera dell'irredentismo, su cui la monarchia, in caso di guerra, avrebbe ancora una volta vinto, ma estendere la critica allo Stato italiano in toto, nelle sue supreme ragioni ideali, come nel suo medievalismo politico, nell'accentramento come nella quotidiana violazione della libertà.

Oliviero Zuccarini e la «Critica Politica».

Esaminiamo, quindi, brevemente le possibilità del neoorepubblicanesimo, che ha trovato in Oliviero Zuccarini e nel gruppo di «Critica Politica» una continua ed originale teorizzazione.
Tutti i difetti dello Stato storico derivano dall'accentramento e dal processo di burocratizzazione. Sotto la spinta degli interessi particolari e delle oligarchie - padronali od operaie poco conta - che si affacciano alla vita politica, lo Stato è costretto ad intervenire continuamente nel campo economico e sociale, per spostare interessi, concedere premi, in una parola assicurare, anche a danno della generalità, le fortune degli esigui gruppi che lo comandano. Di qui la necessità di estendere l'invadenza della pubblica amministrazione, aumentarne sempre più il potere dittatoriale, sottrarsi a tutti i controlli.
Questo sistema, che nel periodo prebellico probabilmente corrispondeva ad intrinseche necessità di sviluppo e di affermazioni di alcuni gruppi politici, dovrà fatalmente portare al fallimento dello Stato nel campo economico e sociale.
Infatti a mano a mano che una sempre maggiore somma di interessi opposti verranno compressi apparirà tutta l'angustia del sistema e verranno potenziate le forze destinate a distruggerlo. Questa tendenza sta per divenire comune a tutti i paesi di Europa: storicamente il bolscevismo russo ed il fascismo italiano nascono dalla rivolta dei rurali, anche se hanno deviato verso il rafforzamento della tendenza accentratrice. Tale deviazione, però, non esclude che la rivolta rurale esista, e sia destinata a riprendere il suo corso anche oltre, se non contro il bolscevismo ed il fascismo, non appena la spinta iniziale si sarà indebolita, e la storia avrà mostrato ai ceti interessati che i risultati raggiunti sono opposti alle intenzioni. Il contenuto di tale rivolta non potrà non essere diretto che a raggiungere questi due obiettivi: disintegrare la politica dagli interessi, ripristinando il profilo ideale dello Stato, e decentrare la pubblica amministrazione.
Su questo campo la battaglia sarà lunga, aspra e piena di difficoltà: occorrerà vincere pregiudizi, interessi,· incrostazioni programmatiche, e soprattutto l'errore d'impostazione politica dei partiti a base unitaria che si modellano sullo Stato, riproducendone la struttura.

Sviluppi ideali in corso.

Il Partito repubblicano deve perciò non soltanto cessare di essere un partito formale per divenire sempre più rivoluzionario, ma soprattutto assumere la forma di movimento, allo scopo di convogliare forze e tendenze affini.
Questo il contenuto critico e politico del repubblicanesimo zuccariniano, che dovrà non poco lottare per prevalere nel suo partito, ove ancora si affermano stati d'animo e tendenze antiquate, che ostacolano - se non altro, col semplice peso -la marcia delle idee nuove.
Sarà una lotta intensa e piena d'interesse ideale, che progredirà a mano a mano che la crisi statale si svelerà agli occhi di tutti, ma il cui esito non dovrebbe essere dubbio se il partito vorrà evitare altre crisi ed altri frazionamenti. Salvo il caso che le correnti revisioniste non siano portate a deviare e slargarsi verso movimenti affini, esterni al Partito repubblicano stesso.
In ogni caso, però, durante questo periodo di autocritica, la corrente zuccariniana avrà ancora molto lavoro da compiere, se vorrà affermarsi come centro di tutta la futura fase di rivoluzione politica del nostro paese.
Intanto, in attesa di altri eventi, essa da una parte si sforza di incoraggiare tutti i movimenti di rivolta contro lo Stato storico e, dall'altra, tenta in sede teorica di elaborare le soluzioni giuridico-istituzionali, che dovranno assicurare la semplificazione dello Stato e l'autonomia degli enti autarchici. La sua è, perciò, una posizione di pensiero assai originale, che non accenna ancora ad avvicinarsi alle masse per consacrarsi nella politica militante.
Tuttavia non sarà inopportuno rilevare che mentre l'appartenenza al Partito repubblicano contiene in geneere un equivoco, lo sforzo teorico di creare intero a priori il futuro Stato, costituisce una limitazione illuministica, destinata a rallentare la volontà di azione: l'equivoco è riposto in ciò che non è ancora dimostrata la compatibilità, circa le forme di organizzazione, tra partiti autonomisti e partito repubblicano unitario, modellato sullo Stato storico, e la limitazione illuministica consiste nell'impossibilità di dare forma giuridica a ciò che politicamente ancora non è.
Ma di ciò forse si potrà più completamente giudicare dopo la pubblicazione del libro che Oliviero Zuccarini ha consacrato all'importante argomento.
Per ora il pensiero della corrente raccolta intorno alla «Critica Politica» costituisce uno dei più caratteristici documenti di questo momento e non può non richiamare le simpatie di quanti anelano a più decisi miglioramenti nel costume e nell'organizzazione politica del nostro paese.


PARTE TERZA
LO STATO STORICO E LA RIVOLUZIONE MERIDIONALE

XIV. LA RIVOLUZIONE MERIDIONALE

Aspetti fisici della questione meridionale.

Gli scrittori di meteorologia e di idraulica hanno messo in rilievo alcuni caratteri fisici c1imatico-tellurici, quali la scarsa ed irregolare piovosità e la cattiva distribuzione idraulica, aggravata dal progressivo diboscamento, che . chiariscono l'originaria inferiorità naturale del Mezzogiorno, mentre gli scrittori di geologia e geografia fisica hanno completato il quadro, derivando dalla tardiva emersione della punta della penisola e dalla costituzione geologica la spiegazione della sua miseria mineraria e della scarsa prevalenza delle terre fertili. Ma le stesse scienze hanno riconosciuto, che l'inferiorità economica del Mezzogiorno non è irreparabile e suggeriscono i rimedi atti ad attenuarla.
Parimenti gli scrittori di agrologia, partendo dai dati pluviometrici, idraulici, geologici e geografici hanno messo in chiaro entro quali limiti l'inferiorità fisica del Mezzogiorno si ripercuota nel campo della produzione agraria, specialmente di quella cerealicola, e non hanno mancato di avvertire che l'intelligenza e l'attività umana molto potrebbero fare non soltanto per colmare queste deficienze originarie, ma per trasformarle, almeno in parte, in vantaggi, sviluppando ed organizzando la produzione delle primizie da fornire ai mercati settentrionali a prezzi ed a condizioni di quasi monopolio.
Veramente il Mezzogiorno non è stato sempre miserabile ed arretrato, ma ha invece avuto lunghe fasi di splendore. La sua inferiorità naturale quindi non è assoluta ma relativa. Gli storici, infatti, ci insegnano che ogni qualvolta il Mezzogiorno è divenuto centro di propulsione del commercio con l'Oriente, ha svolto una fiorente civiltà ed è, invece, decaduto quando è stato assorbito in altri sistemi economico-politici, che lo hanno rapidamente ridotto a funzione di colonia.

Ed è perciò che furono particolarmente esiziali per l'economia meridionale il governo angioino e quello vicereale, che sacrificarono interamente le finanze del paese alla violenza depredatrice dell'alta banca fiorentina prima ed all'arrendamento spagnuolo poi, riducendo il Mezzogiorno a un tale stato di prostrazione economica che ancor oggi perdura.
Così si spiega come e perché la nostra terra giunse fino alla vigilia dell'unificazione italiana povera e squallida, senza classi dirigenti, senza idee politiche concrete, ignorando completamente se stessa, e divenne, dopo la conquista piemontese, colonia di sfruttamento del capitale settentrionale in formazione, che non soltanto niente fece per aiutare il Mezzogiorno a risolvere la sua crisi secolare, ma fu invece interessato ad impedire ogni suo progresso economico e sociale dal bisogno imperioso di tenerlo sempre nella fase di mercato di consumo, per non essere costretto ad abbandonare, nella grande lotta delle nazioni, l'impalcatura protezionista che, almeno in parte, ne assicurava lo sviluppo. .
Rimasto quindi immobile, anzi sempre più schiacciato dalla compressione tributaria e politica del nuovo Stato, il Mezzogiorno non potette piu smaltire l'aumento di popolazione se non attraverso l'emigrazione, che progressivamente divenne il suo fenomeno demografico ed economico più importante.
Infatti, mentre da una parte il flusso migratorio rappresentò una notevole perdita di popolazione, che non andò esente da conseguenze dolorose, costituì dall'altra una delle più forti risorse finanziarie della nuova Italia, che notevolmente hanno contribuito al suo progresso economico specialmente dal 1890 in poi.

La compressione economica del Nord sul Sud e l'emigrazione.

Emerge, quindi, chiaro fin da questo momento che ad aggravare gli originari fenomeni di inferiorità economica e di patologia demografica che caratterizzano la costituzione sociale del Mezzogiorno, molto ha contribuito e contribuisce tuttora lo Stato, che, organo supremo del diritto, da fonte precipua ed unica di eticità, si trasforma in Italia in organo del privilegio, in fonte continua e perseverante dell'ingiustizia.
Con la sua politica finanziaria, lo Stato non soltanto non fa niente per rimuovere quelle ragioni di ordine naturale che costituiscono causa di inferiorità delle nostre terre, ma contribuisce ad aggravarle, addossando al Mezzogiorno, costituito in mercato di arrendamento della plutocrazia industriale del settentrione, tutte le conseguenze di un protezionismo ingiusto ed antinazionale; adottando un sistema tributario, assolutamente sperequato a danno della ricchezza immobiliare prevalente nel Sud, e consentendo, anzi incoraggiando il continuo drenaggio di capitali meridionali nelle banche del Nord e nel debito pubblico, per finalità che col risorgimento del Mezzogiorno non soltanto nulla hanno a che vedere, ma sono addirittura antitetiche.
Naturalmente queste benemerenze dello Stato nell'ordine economico e finanziario costituendo né più né meno che una violenza all'ordine naturale delle cose, debbono essere completate con un'azione di pari violenza nel campo giuridico ed istituzionale.
È noto, infatti, che uno dei tanti elementi della inferiorità del Mezzogiorno è costituito dall'immobilità della sua ossatura economico-feudale, derivante dai relitti legislativi del feudalismo che ancora perdurano, e dalla mancanza di una legislazione moderna, diretta da una parte, a trasformare, secondo i consigli dei competenti, i patti agrari e, dall'altra, a proteggere i produttori dalle antigiuridiche, seppure legali, vessazioni di una classe di proprietari terrieri, assenti dai campi, nemici di ogni progresso, sforniti di qualsiasi senso di umanità e solo occupati a sfruttare una vera e propria deviazione del loro diritto di proprietà.
Ora, lo Stato italiano, anche in questo campo, non soltanto non fa niente per debellare questa dannosa immobilità, tentando di adattare la legislazione ai bisogni delle classi produttive, per aiutarle nel loro sforzo di etnancipazione, ma interviene ad impedire che l'equilibrio artificiale possa essere rotto, ogni qual volta la pressione delle nuove energie comincia ad affermarsi.

Queste deviazioni statali, derivanti dall'adesione del massimo organo di azione collettiva ad interessi particolari ed al dominio di classi parassitarie, spiega l'affermarsi dell'accentramento statale e l'invadenza della pubblica amministrazione, che distruggono ogni germe di progresso degli enti autarchici - nel Mezzogiorno naturalmente deboli, perché non sorretti da nessuna linfa di spirito municipale - e pervertono ogni tentativo di privata iniziativa.
Cosi alla scarsa tradizione statale ed alle sopravvivenze feudali si aggiunge addirittura l'odio per lo Stato e per il concetto di autorità.
Il contadino meridionale, il sobrio e resistente lavoratore che ha trasportato l' humus nella zona della creta sotto le vette dell'Appennino, ed ivi vive in una capanna di paglia e di mota, con l'asino e col maiale, in francescana comunione, conosce lo Stato soltanto per le multe ed il carcere che gli commina attraverso regolamenti ritenuti infami e scritti soltanto per proteggere i signori dediti all'ozio ed allo sfruttamento dei lavoratori, ma non per le cure e gli aiuti che presti al suo sforzo tenace, ed il giorno delle elezioni se in un momento di estrema ribellione vuole votare contro il rappresentante di quel governo che lo spoglia e lo opprime viene afferrato, chiuso in un portone, perquisito, confessato e comunicato, e infine spedito sotto scorta competente a votare per il suo oppressore.
Siano finalmente rese grazie al fascismo che estendendo il6 aprile 1924 a tutt'Italia questo metodo plebiscitario, ha proposto in forma unitaria il problema della libertà di voto!

La politica finanziaria dello Stato italiano e la dittatura antimeridionale.

È vero che tutto ciò è possibile perché le plebi meridionali sono oltre che povere anche assai incolte, e non riescono a prendere possesso delle idee moderne di organizzazione collettiva, ma è anche vero che in questo campo l'azione statale si palesa, almeno per ora, deficiente.
Ed è naturale, perché uno Stato che nacque dalla conquista regia e si organizzò per tutelare e sviluppare interessi particolaristici non poteva intendere certi imperativi etici, che richiedono invece una più ampia giustificazione ideale, e la cui difesa non può in nessun caso essere affidata a gruppi egoistici interessati a crearsi una legalità dittatoriale.
Si svela, quindi, una situazione di fatto che chiarisce la situazione di diritto e se ne mostra contemporaneamente causa ed effetto, per quella nota legge dell'interdipendenza dei fenomeni collettivi, che trova sua principale applicazione nelle scienze sociali.
Cosi nel campo più strettamente politico, mentre il trasformismo, che indubbiamente deriva dall'immobilità giuridico-istituzionale, cui è legata quasi tutta la classe dirigente meridionale, è contemporaneamente causa di tale immobilità, nemmeno scossa dal fallimento di tutti i coonati meridionalisti, l'assenza di un ceto medio libertario è insieme origine ed effetto del permanere del trasformismo.
In tale condizione di cose è intuitivo che non si può aspettar salute dall'azione riformatrice dello Stato, per la evidente sua incapacità di tutelare gli interessi generali contro ed anche oltre gli interessi particolari che lo permeano, o dall'azione correttiva dei partiti, che riproducono nella loro organica costituzione tutte le deficienze della società italiana: bisogna invece affrontare, anche nel campo politico, scientificamente il problema per cercare di potenziare con intransigenza giacobina gli scarsi elementi di soluzione che pure esistono, per quanto allo stato soltanto tendenziale e latente.
Altrimenti la lezione di questi anni eccezionali e le priime scosse al regime rimarrebbero senza sanzione.

La questione meridionale è politica e rivoluzionaria.

Finalmente la questione meridionale svela intera la sua squisita natura politica, dinanzi a cui gli aspetti tecnici scompaiono per la loro evidente unilateralità, e si palesa risolubile, prima ancora che nel campo legislativo, nelle coscienze individuali, cioè in quell'azione più strettamente e più spiritualmente politica, destinata a preparare l'humus su cui lo Stato di diritto dovrà finalmente sorgere. Ed in ciò appunto sta la sua rivoluzionarietà.
Fino a quando i conati rinnovatori italiani si aggireranno o nel cielo imponderabile delle astrazioni filosofiche e dei conseguenti giuochi di proposizioni e di soluzioni verbali, o si incanaleranno nei solchi aridi delle marce regie, lo Stato burocratico-accentratore non temerà sconfitte perché risorgerà dalla polvere fin dopo l'estrema umiliazione.
La questione italiana è, dunque, la questione meridionale, e la rivoluzione italiana sarà la rivoluzione meridionale. Ma con quali forze, con quali forme si può tentare questo compito?
Le forze produttive del Mezzogiorno contro lo Stato. Se è vero quanto affermano gli studiosi di questo problema, che la sua soluzione è legata alla creazione di un sistema agrario-industriale, che con le culture specializzate si accaparri i mercati settentrionali per la vendita delle primizie, e con lo sviluppo industriale si metta in condizione di conquistare i mercati orientali, e che le condizioni climatiche ed idrologiche, mentre ci mettono in istato di inferiorità, non ci vietano però di trasformare le nostre colture, in conformità della costituzione geografica e climatica, purché non vengano sottratti ai nostri agricoltori i capitali occorrenti; e se è vero che una generale siste-mazione idraulica in tutto il Mezzogiorno, mentre migliorerebbe le condizioni generali dell'agricoltura, ci fornirebbe altre si la forza motrice per industrializzare le nostre terre; è altresì vero che lo sviluppo di questo piano, che naturalmente dovrebbe avvenire a tappe, non può essere opera che delle forze che attualmente sono danneggiate dallo Stato storico, e che, in conseguenza dell'immaturità generale del paese, non ancora gli si contrappongono.
Occorre quindi svegliare queste forze, impedire che precipitino nel trasformismo, inquadrarle pazientemente e, senza fretta di arrivare subito, sottrarle alle terribili insidie dell'isolamento e delle lusinghe.
Né vale dire che queste forze ancora non esistono perché attraverso l'emigrazione è andato maturando un medio ceto di piccoli capitalisti, spregiudicati, amanti del lavoro e del guadagno, che già guardano con profonda diffidenza le classi dello sfruttamento terriero; attraverso le grandi trasformazioni economiche della guerra è affiorata una classe di coltivatori, di commercianti, e di esportatori, che soffrono terribilmente per la massacrante pressione tributaria, il protezionismo doganale e l'assurdo sistema giuridico, in cui è imprigionata la produzione meridionale: e dopo di loro anche la classe dei contadini, dei mezzadri, dei fittavoli, dei braccianti comincia ad intuire la realtà economico-sociale in cui vive e soffre.
Bisogna, quindi, non lasciar perdere queste importanti maturazioni politico-sociali e convogliarne il disagio sul terreno della critica antistatale.
Solo cosi la rivoluzione italiana, in marcia da dieci anni, acquisterà quella concretezza storica che le darà un contenuto. Altrimenti resterà astrattismo sovversivo, convulsione, vociferatio, sfruttamento di disoccupati e di avventurieri, campo di manovra per le successive transazioni dei ceti dominanti, e non diverrà mai conquista ordinata e cosciente dello Stato da parte dei produttori, lotta politica nel senso liberale della parola.

XV. L'AUTONOMISMO

E questa lotta politica deve necessariamente cominciare nel Mezzogiorno, anche se, in prosieguo DI tempo, altre regioni italiane dovranno imitarla e si renderanno necessari sviluppi più ampi.
Solo dove gli uomini hanno molto sofferto e si sono continuamente domandati se vivevano in uno Stato o in una colonia, è possibile concepire concretamente una rivoluzione statale, ed arrivare a possedere quella decisione che la storia ci insegna essere anche frutto di grande esasperazione.
Solo nelle regioni più danneggiate dall'unitarismo storico la critica alla conquista piemontese è mordente, intrisa di sangue e di miseria, e la tradizione del Risorgimento non è ricatto di ceti resi opulenti dal sacrificio universale, ma aspirazione ideale ad un ordine superiore che faccia finalmente l'Italia madre ai suoi figli.

Resi finalmente edotti dell'inferiorità delle soluzioni storiche e dei danni che ci ha recato un patriottismo ufficiale, permeato dal più basso materialismo economico, noi dovremo riattaccarci alle grandi correnti libertarie del Risorgimento, decisi ad impedire tutti i giuochi del regime per riassorbirci nel fruttifero sistema della conquista regia.
Impostando l'azione contro lo Stato, noi imposteremo finalmente la lotta contro le classi trasformistiche del Sud, che non potranno non essere travolte nella rovina delle loro infinite colpe.
La rivoluzione italiana sarà meridionale o non sarà.

Partiti unitari ed autonomismo.

Precisato cosi l'intrinseco contenuto del movimento meridionalista e delle forze antitrasformistiche, cui dovrebbe essere affidato, rimane da esaminare la forma che il movimento dovrebbe assumere per rispondere pienamente alla sua funzione.
Naturalmente questo esame va compiuto in termini di relatività, essendo indubbiamente illiberale e destinato al fallimento ogni tentativo diretto ad incarcerare la storia, e perciò le osservazioni che in seguito saranno svolte, hanno valore più di proposte per la discussione che di soluzioni definitive.
Intanto un primo esame della situazione italiana postbellica ci dimostra che là dove nel Mezzogiorno continentale ed insulare si sono manifestate nuove espressioni di vita politica, queste non hanno trovato altro terreno su cui inquadrarsi che l'autonomismo.
Di fronte al grigio profilo dei partiti a carattere unitario, preoccupati di compiere prima della lotta le sintesi della vita, le scarse manifestazioni autonomiste postbelliche lampeggiano di tale luce, da illuminare di grande splendore gli orizzonti futuri.
Sembra quasi che i giovani ordinatori dell'autonomismo, lasciandosi guidare dall'istinto prima che dalla teoria, abbiano scelto il terreno più suggestivo per un'ampia affermazione di volontà, disconoscendo, almeno in parte, gli sforzi che i partiti unitari hanno pur compiuto per impadronirsi del- movimento meridionale.
Ed invero nessuno vorrà negare - e nei precedenti capitoli ci siamo sforzati di metterlo in rilievo con la maggiore obiettività - che numerosi partiti si vanno avvicinando, per lo meno in linea teorica, alla soluzione del problema a mano a mano che la crisi dello Stato richiama l'attenzione italiana verso orizzonti prima ignorati o scarsamente esplorati. Cosi mentre il PPI cerca giovarsi della sua felice impostazione programmatica su questo problema, ed una notevole frazione del Partito repubblicano si afferma sempre più sul terreno federalista, il Partito comunista spera di poter effettuare una possente organizzazione contadina assai simile a quella che, con la rivoluzione leninista, ha trionfato in Russia.
Ma questi tre movimenti, pur deponendo della maturità del problema, non esauriscono in pieno le aspirazioni rinnovatrici del Mezzogiorno, appunto perché forniscono le sintesi prima di aver fatto nascere le antitesi, limitando cosi l'anelito di autonomia spirituale, che comincia ad affiorare nelle nuove generazioni meridionali.
Essi attenuano il rigore dell'antitesi attraverso una impostazione unitaria, che indubbiamente contribuisce a neutralizzare la loro azione meridionali sta col peso di altri interessi strettamente nordici.
Né si dica che questo rilievo investa soltanto il lato formale della questione, sia perché le osservazioni che precedono si preoccupano di fatti sostanzialmente politici, sia perché, anche ammesso che ingenti forze meridionali riuscissero a permeare uno dei tre partiti storici (se li riuscissero a permeare tutti e tre vi sarebbe tale divisione di forze da produrre danno maggiore) è assolutamente falso che potrebbero senz'altro giovarsi della tradizione e della forza del partito conquistato, ma invece non farebbero altro che spostare la lotta dal libero giuoco delle forze politiche al terreno delle competizioni interne di partito, operando cosi una limitazione alla propria azione che un giorno potrebbe divenire dannosa.

Necessità dialettica dell' antitesi tra unitarismo ed autonomismo.

Posto cosi il problema, non dovrebbe tardare ad apparire che l'antitesi tra movimenti unitari e movimenti autonomisti costituisce, prima di ogni altra cosa, una necessità dialettica, che induce a diffidare di ogni nuova soluzione unitaria, fornita bella e pronta, o con la scusa della lotta sociale, o sotto l'illusorio pretesto di realizzare la libertà.
E, invero, quale aspetto più profondo e più vero della lotta sociale in Italia di quello meridionale, che è lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori, e quale anelito libertario maggiore di quello che si oppone ad un opprimente statalismo e ad un padronato medievale?
Ormai per noi non rimane più dubbio che soluzione unitaria significhi oggi, ed ancora per molto tempo, panneggiamento dialettico di interessi, che hanno paura della lotta aperta, e conseguentemente sono portati a sfuggire la libera creazione del nuovo equilibrio nazionale, come risultante delle forze in concorso, per postulare, invece, un equilibrio artificiale, in cui sia già prestabilito il privilegio cui aspirano.
In linea teorica, quindi, non si può non riconoscere la necessità della più completa contrapposizione tra le forze in giuoco, perché anche le soluzioni transattive che in processo di tempo dovessero eventualmente rendersi necessarie rappresentino giusta e cosciente contemperanza degli opposti interessi e non già sacrificio incondizionato di uno dei contendenti.
Nel campo pratico poi, la contrapposizione servirà a preparare all'intransigenza necessaria per sostenere la lotta sia le future classi dirigenti che le masse, la cui psicologia è prevalentemente orientata a prendere per moneta contante i movimenti e le formule con cui i ceti privilegiati cercano stornare le minacce che si addensano sul loro capo.
È questo il fattore spirituale che più ha fatto difetto per il passato, altrimenti non avrebbe dovuto essere possibile il confluire di tutti i movimenti meridionali nel trasformismo: è questo, quindi, il fattore che più si deve rafforzare per il futuro.
Varrà certo molto di più il riuscire ad organizzare un movimento senza eccessive pretese numeriche, ma completo nel suo spirito di contrapposizione, che una delle solite infornate confusionarie, che disperdono nell'alluvione i pochi germi di vita esistenti.
Soltanto così sarà possibile contrapporre alle soluzioni storiche una larga serie di soluzioni ideali, affidate all'elaborazione di uomini, che abbiano bandita l'idea del successo immediato, appunto perché nella severità del loro spirito hanno scartata l'adesione ai partiti dalle facili conquiste governative o anche soltanto dalle realizzazioni probabili, per dedicarsi, invece, ad una lotta di lunga mano e di difficile esecuzione.
Anche se una intera generazione dovesse esaurirsi nell'agitazione di questo problema secolare, in maniera da riuscire ad imporlo all'attenzione di tutti gli italiani, e potesse, nel suo declinare, assistere ad un trionfo soltanto ideale, perché effettuato dalla generazione seguente, avrebbe sempre bene meritato della patria, sacrificando le fortune personali al grande compito di immettere finalmente il Mezzogiorno nella politica italiana.

«Self-government» meridionale e particolarismo.


Nel momento presente, dopo l'opera distruttiva del fascismo che ha corroso le basi storiche del trasformismo e del personalismo, svelandone la miseria morale e l'insufficienza politica, e durante la fase di soluzione di continuità che gli sussegue, l'autonomismo si presenta padrone del campo e capace di riempire il vuoto delle coscienze.
Se il popolo meridionale è finalmente compreso della necessità di fabbricarsi da se stesso il proprio destino e di abbandonare la triste abitudine di attendere dalla Provvidenza divina o dal governo la carità, questo momento non dovrebbe passare invano e la lezione fascista dovrebbe giovare a qualche cosa.

l migliori figli del Mezzogiorno, che vivono ogni giorno in se stessi questa terribile tragedia politica che è la questione meridionale, aspettano con ansia i segni augurali per iniziare questa colossale impresa di civiltà, e temono nel più riposto angolo del cuore che i loro ragionamenti non siano frutto di fantasia.
Ma questa stessa disposizione psicologica delle élites, questa segreta passione di sogno sposata al più arido razionalismo io penso sia il primo segno di una maturazione, che, in ogni caso, richiederà sforzi molteplici e lungo decorso di tempo.
Rotto il sistema del trasformismo e del personalismo e costretto dal fascismo ad una lotta unitaria dal cui scheletro la violenza secolare è balzata fuori senza veli, il Mezzogiorno si è quasi ripiegato su se stesso per ripensare la sua sventura, e trarre insegnamento e propositi virili per il' domani. Questo stato d'animo è la prima fase di quel processo di autonomia che noi invochiamo dalla storia, con ardore di credenti nella sua missione.
Né si dica che tale stato d'animo sia particolarista e perciò da combattersi, perché anche se lo fosse, rappresenterebbe sempre un progresso rispetto al passato.
Forse uno dei sintomi maggiori dell'immaturità italiana è stato l'assenza di particolarismi politici pur dopo l'unificazione di sette stati: indice questo, che, all'infuori
Quest'affermazione ci porta sul terreno più proprio dell'autonomismo, e chiarisce la necessità da parte del popolo meridionale di conquistarsi il self-government, ed elaborarne le soluzioni pratiche in contraddizione aperta a tutte le esigenze del paternalismo.
Ora, il self-government, prima che nelle istituzioni e nelle leggi, deve nascere nello spirito dei cittadini, è funzione critica di distacco da ogni forma di autorità che non sia l'autorità della libertà, è contrapposizione a tutte le forme di violenza, è insomma armonia di libere coscienze che tutelano i loro interessi legittimamente conquistati.
E la stessa parola «autonomismo», significando questo distacco spirituale, si palesa forma sufficiente a comprendere tutte le necessità etiche del governo diretto.
Il problemismo salveminiano ed in generale la critica dei meridionalisti ci hanno fornito la base di molte soluzioni particolari, ma spetta all' autonomismo operare la del Piemonte, in nessun'altra regione d'Italia era maturata una classe politica nettamente definita, e che l'unità dell'azione statale restò lungamente affidata soltanto alla burocrazia.
Ma se sarà necessario attraversare una fase di vero e proprio particolarismo politico, io credo che i meridionali non dovrebbero assolutamente temere le speculazioni che intorno al vocabolo o alle sue deviazioni certamente tenteranno i falsi sacerdoti dell'unità italiana, perché niente è più santo del particolarismo quando si renda necessario per combattere ingorde oligarchie.
Ormai non esistono più cervelli reazionari che concepiscano l'autonomismo come tentativo di rompere l'unità dello Stato, ma non debbono nemmeno esistere più cervelli che concepiscano l'unità nazionale, sacra ed indistruttibile per tutte le genti italiane, come mezzo per continuare lo sgoverno attuale ed il progressivo impoverimento del Mezzogiorno.
La soluzione del problema meridionale quindi non potrà avvenire se non sul terreno dell'autonomismo. Ogni altro tentativo o ci conduce nel vecchio schema della carità statale o minaccia sbalzarci nel separatismo.

Autonomismo e separatismo.

Autonomismo, federalismo e regionalismo.

Ma l'autonomismo non è né particolarismo né separatismo. È invece una dottrina politica diretta a raggiungere una più intima e profonda unità. Sotto questo profilo è anzi l'unica corrente che continui idealisticamente la tradizione del Risorgimento e soltanto i ladri del Nord, ed i loro manutengoli politici e giornalistici, potrebbero in malinconici accessi atrabiliari negare questa volontà.

L'Italia è ormai fatta da settant'anni e nessuno pensa di disfarla, la sua unità si è rafforzata potentemente nella recente guerra, che ha visto combattere e morire, uno a fianco dell'altro, i figli di tutte le regioni, ed ha livellato le aspirazioni di tutti i cittadini nelle ore della trepidazione e della fede.
Ma appunto queste comuni benemerenze e questi sacrifici danno oggi diritto alle genti meridionali di esigere la distruzione del vecchio organismo economico-politico, attraverso cui le oligarchie del Nord sono riuscite a creare una vera e propria dittatura ai danni del Mezzogiorno, dissanguandolo economicamente e non educandolo politicamente.
Quest'azione è bene il prosieguo ed il completamento della guerra combattuta; e nessuno può dubitare della purezza della fede civile dei meridionali, quando la loro italianità ha dato cosi fulgidi esempi sui campi di battaglia.
L'autonomismo è, dunque, un sistema ed un metodo di lotta esclusivamente politico. Esso non deve confondersi col federalismo e col regionalismo, che sono concezioni che eccedono il campo politico sconfinando sul terreno costituzionale od istituzionale.
Non deve confondersi col federalismo perché vuole correggere le soluzioni storiche senza rimettere in onore l’idea di una federazione di Stati, fallita attraverso tutto il Risorgimento, e che, se si tentasse oggi, sarebbe un esperimento di cui non è possibile calcolare i vantaggi e più ancora gli svantaggi.
D'altra parte l'autonomismo vuole integrare lo Stato storico per obbligarlo a riparare le deficienze tradizionali, capovolgendo contro le minoranze la situazione creata dall'assenza delle maggioranze.
L'idea dello Stato federale, quindi, costituirebbe almeno per ora, un'inutile complicazione allo sviluppo di questo processo politico cosi semplice.
Non deve poi l'autonomismo confondersi con il regionalismo perché esso .crede che le cause del male siano più profonde del cattivo ordinamento istituzionale, e che il nascere dello Stato burocratico-accentratore costituisca storicamente il risultato della immaturità italiana alla lotta politica, piuttosto che la causa di tale immaturità, e che l'accentramento sia destinato a scomparire non appena l'azione dei partiti di masse controbilancerà l'importanza eccessiva assunta dalla pubblica amministrazione in Italia.
L'autonomismo, come si vede, non ha pregiudizi costituzionali ed istituzionali da imporre,. perché riconosce che tutte le pregiudiziali costituiscono un impaccio per l'azione piuttosto che un aiuto. Esso dovrà rappresentare il più profondo e serio tentativo di capovolgere in tutti i campi le basi storiche dello Stato, per completare la rivoluzione liberale del Risorgimento anche a vantaggio delle popolazioni meridionali, e perciò potrà anche pervenire sul terreno delle riforme federaliste o regionaliste, senza però che questi obiettivi debbano esser posti all'inizio dell'azione come mète da raggiungere ad ogni costo.
Tuttavia queste tre dottrine, così come sono germogliate dall'unico tronco della critica all'unitarismo storico, hanno un contenuto fondamentale unico che affratella i rispettivi seguaci, e che dovrà farli collaborare alla grande opera di rinnovamento nazionale.
Essi potranno avvicinarsi notevolmente alle nostre concezioni, proporre soluzioni tattiche ed anche strategiche di grande utilità e quindi non sarebbe prudente avvolgersi in pregiudiziali che non costituiscono il fondamento dell'autonomismo, e che potrebbero un giorno essere d'impaccio piuttosto che di aiuto per operare quella sintesi di forze politiche, su cui dovrà porre le sue incrollabili fondamenta il nuovo Stato italiano.
Frutto della vera volontà nazionale, vissuto e ripensato nella coscienza di ogni cittadino, anzi creato dallo sforzo e dalla lotta che le maggioranze avranno dovuto combattere contro le oligarchie, lo Stato italiano sarà veramente etico e la sua forma esteriore, il suo contenuto istituzionale saranno rispondenti al genio della stirpe ed alle supreme esigenze della libertà.

Il Partito sardo d'Azione.

Queste considerazioni ricevono più ampia conferma, quando si rifletta che la colorazione federali sta o regionalista di un futuro partito autonomista potrebbe complicare notevolmente i rapporti con altri partiti che offrissero la collaborazione nella lotta contro lo Stato storico.
Particolarmente delicati potrebbero divenire i rapporti con un partito di contadini settentrionali, che non sia un semplice aggregato di deputati cumulanti i loro seguiti personali, ma sia un organismo costrutto in modo da far sentire nell'azione dello Stato tutto il peso che anche le masse rurali del Nord dovranno avere nella vita collettiva.
In tal caso i benefici effetti che una collaborazione dei due partiti potrebbe produrre, non soltanto nel campo economico ma anche in quello politico ed istituzionale, potrebbero essere frustrati da pregiudizi puramente formali senza profondo contenuto sostanziale.
Cosi del pari avverrebbe nei riguardi degli altri partiti storici. Se questi sono attualmente da combattere, non è detto che la loro posizione teorica e sovrattutto la loro azione politica debba rimanere sempre com'è oggi.
Del resto un partito autonomista già esiste ed ha dato non dubbie prove di vitalità: il Partito sardo d'Azione. Da poco tempo gli si è aggiunto quello lucano, che, pur attraverso la compressione fascista e le difficoltà intrinseche ad ogni simile impresa, ha raggiunto qualche sensibile successo.
Trattasi di movimenti che svelano stati d'animo assai estesi, e, com'ho detto all'inizio di questo capitolo, svolgono la loro azione con metodi essenzialmente politici senza preoccupazioni di setta o di scuola.
Specialmente il Partito sardo ha dimostrato una vitalità irresistibile che il fascismo non è riuscito a fiaccare. Infatti, se vi è qualcosa di antitetico al fascismo è proprio il sardismo: l'uno, estremo tentativo di lotta dell'unitarismo storico, anche contro la propria legge morale e giuridica; l'altro, primo tentativo di lotta delle nuove generazioni isolane avide di benessere e di libertà. L'esperimento può dirsi confortante e fa sperare che non sia assai distante il momento in cui la questione meridionale diverrà l'epicentro della rivoluzione italiana, conferendole quella concretezza, di cui hanno finora difettato tutti i movimenti affiorati dal caos della nostra storia postbellica.
Tuttavia, se il Partito sardo d'Azione costituisce la formazione d'avanguardia della futura azione autonomista, e la sua intransigenza contro gli eventi più eccezionali ci consolida nella convinzione che cominciano a prodursi nelle popolazioni meridionali stati d'animo profondamente antitrasformisti, non bisogna nascondersi che questo luminoso esempio rimarrà assolutamente sterile se non riuscirà ad estendersi nella Sicilia e nel Mezzogiorno continentale, magari attraverso una federazione di partiti regionali, che riflettano nell'unità dell'azione meridionalista la diversità delle singole situazioni locali, senza mutilazioni arbitrarie o compressioni dannose.
Forse l'insularità e la maggiore sensibilità per il liberismo, dipendente dalla peculiare economia dell'isola, unite al mito combattentistico della Brigata Sassari, ed al forte ascendente che la suggestiva personalità di Emilio Lussu produce sulle folle, hanno contribuito a produrre in Sardegna, prima che altrove, quella autonomia spirituale che abbiamo visto essere la prima forma di maturazione di bisogni politici più complessi, sicché l'assenza delle rimanenti terre meridionali è dovuta semplicemente ad una questione di tempo; ma ormai dev'essere chiaro a tutti gli spiriti sana mente e fattivamente meridionalisti che tale stato di incertezza e di assenza finirebbe per stroncare il fiero spirito del sardismo se dovesse ulteriormente prolungarsi.
Ma appunto perciò occorre che i giovani, i quali hanno già dato qualche segno di non voler seguire le linee di sviluppo della tradizione dei padri, escano dallo stato di fatalismo, che incombe sulle anime meridionali, per dimostrare che le élites del Sud non sono costituite soltanto da speculatori geniali capaci di anticipare di secoli le grandi scoperte del pensiero umano, ma sono costituite anche da uomini di azione, capaci altre SI di compiere il miracolo di svegliare un popolo di morti.
Siamo grati ai pensatori di nostra gente che hanno saputo compiere grandi esperienze spirituali famose nella storia del pensiero umano: ma saremo assai più grati agli uomini di azione che spingeranno il nostro popolo a compiere esperienze collettive, se non maggiori, per lo meno uguali a quelle individuali.

Certo il cammino è lungo e pieno di ostacoli, ma sembra che sia già affiorata una generazione capace di spezzare gli ultimi ceppi del feudalismo.

Incomincia anche per il Mezzogiorno l'evo moderno.

Avellino, 15 dicembre 1924.

Questo è un libro più che altro di storia e di critica politica e perciò non può eccedere i limiti consentiti da tale sua natura. Non può conseguentemente disegnare in tutti i suoi particolari l'ossatura di un partito, che dovendo essere un organo di vita collettiva deve nascere piu dai prepotenti bisogni dell'azione che dalle solitarie astrazioni della teoria. .

Trasformismo prefascista e fascista

Le difficoltà elettorali del fascismo nel Mezzogiorno d'Italia hanno richiamato l'attenzione degli scrittori di cose politiche sul perché le nostre contrade resistono cosi accanitamente alla permeazione delle varie correnti ideologiche che, nate nella valle padana - cioè in una regione ove il capitalismo ha già fatto i primi passi - pretendono allargarsi nel rimanente d'Italia ancora in una fase precapitalistica.
Noi non vogliamo, occupandoci di questo che viene definito il problema politico di maggiore attualità, dar soverchio peso alle notizie ed alle intuizioni che non eccedono il dato immediatamente elettoralistico, ma crediamo utile prendere in esame, volta per volta, quelle spiegazioni, che pretendono assurgere ad importanza di tesi, e che, perciò, richiedono il più accurato vaglio critico prima di acquistar diritto di cittadinanza nel regno della teoria politica.
Ci occuperemo, quindi, in questo articolo, dell'interpretazione che il senatore Olindo Malagodi nella «Tribuna» del 7 corrente ha creduto di dare circa il nuovo aspetto della questione meridionale.
Secondo l'ex direttore della «Tribuna» i critici della questione meridionale mordono nella realtà quando attribuiscono la 1llancanza di penetrazione delle grandi correnti politiche contemporanee nella Vandea d'Italia - cosi come, con appellativo socialista, viene tuttora chiamato il Mezzogiorno - al predominio del personalismo «sentimentale o interessato, col conseguente provincialismo e campanilismo». E maggiormente mordono la realtà quando affermano che «questa polvere di eletti non impegnati in un programma d'idee e non inquadrati in una organizzazione di partito, andava, fatalmente, a cadere, a Montecitorio, sotto le mani sapienti dei diversi governi », per cui «ne provenivano dei capi autorevoli nel loro isolamento, e degli ascari per la semplice schermaglia parlamentare».
Ma questi rilievi e queste critiche che «fondamentalmente corrispondono alla realtà» sarebbero spinti, secondo il Malagodi, ad una conseguenza assurda, perché erroneamente si assèrirebbe da parte dei critici l'inferiorità del sistema politico personalistico rispetto al sistema di partito.
Invece lo scrittore propone - appoggiandosi cosi come confessa, ad una preferenza istintiva - una revisione di tale dommatica affermazione, considerando «la politica meridionale in blocco, pei suoi effetti generali sulla vita della Nazione», che, secondo l'autore «nel loro assieme» sono stati «salutari, e in certi momenti anche provvidenziali ».
Infatti, aggiunge subito lo scrittore, il Mezzogiorno d'IItalia ha rappresentato il baluardo del regime durante due elezioni postbelliche ed «ha imposto l'altolà alle farneticazioni ideologiche ed agli egoismi interessati della vita più fervida del settentrione. Per queste ragioni, il tranquillo, il bonario conservatorismo meridionale, costellato di personalità riccamente intellettuali, ha esercitato nei nostri settanta e più anni di storia nazionale, una funzione di primaria importanza [?] come moderatore di ideologie troppo facilmente accettate e contro gl'interessi particolari [?] che nella passione dei loro contrasti obliavano quell'interesse generale in cui pure erano fatalmente innclusi. E rendendo possibili dittature legali necessarie anzi inevitabili nelle nostre condizioni di sviluppo, ha riaffermato e consolidato traverso l'appoggio dato ai governi, il principio fondamentale della concezione e della pratica statale. E non c'è nessuna ragione che codesta sua opera non continui nell' avvenire».
Tralasciando, a partito preso, il fondamentale humus antifascista che alimenta la concezione malagodiana, e la sostanziale simpatia per l'ultima «dittatura legale» esistita in Italia (quella giolittiana), e restringendo il nostro esame alla corretta interpretazione del nuovo aspetto assunto dalla questione meridionale, non possiamo non rilevare l'arbitrarietà del quesito proposto dal Malagodi e, più ancora, l'arbitrarietà della soluzione adottata. .
Anzitutto non è possibile nemmeno in sede di romanzo (tanto meno, poi, in sede di scienza politica) discettare del se fosse stato meglio che il Mezzogiorno, uscendo dalla fase precapitalistica - della quale il trasformismo è la massima espressione di cerebralità collettiva - avesse partecipato, se non alla elaborazione, per lo meno alla collaborazione con le altre regi01~i italiane nel campo dei grandi miti politici e delle forme istituzionali inerenti, oppure fosse restato - come, solo in parte, è restato - immobile nel vecchio quadro delle dittature legali, perché non si può nemmeno a cagion di scherzo istituire paragoni tra una riconosciuta realtà d'immaturità politica ed un'ipotetica forma di maturità collettiva.
È poi evidente che, mentre il Malagodi, per ragioni di preferenza istintiva è portato a tentare l'elaborazione di un fatto, qual è la staticità meridionale, su cui la scienza politica, dopo le inchieste del Jacini e di Sonninochetti, dopo i libri del Fortunato, del Ciccotti, del Nitti e dell'Arias, aveva formulato un giudizio certo e definitivo, con tale teoria non riesce a spiegare il perché del fallimento fascista nel Mezzogiorno, specialmente quando si pone mente che il fascismo ufficiale, attraverso gli ascari meridionali, tenta oggi di sboccare in una di quelle dittature legali che richiamano la preferenza istintiva del Malagodi ed al sostenimento delle quali, secondo la teoria in esame, il Mezzogiorno è destinato a prestare opera anche per il futuro.
Non si spiega, perciò, perché il Mezzogiorno, contro la sua tradizione ed il suo genio, si ostini oggi ad impedire la formazione della nuova dittatura legale fascista.

IIL FASCISMO VISTO DAL SUD

La verità, invece, è più complessa e non può essere nota se non a coloro che nel Mezzogiorno vivono, ed, all'infuori delle semplicistiche generalizzazioni, conoscono la varia realtà meridionale e le sue sfumature.
Nessuno, invero, può negare che il processo trasformistiro sia diverso da quello descritto dal Malagodi, ma costui ha del tutto trascurato le complicazioni che, in tale processo, si sono verificate come conseguenza dell'azione fascista.
lo ho descritto ampiamente in due studi, pubblicati sulla «Rivoluzione Liberale», l'infantile tentativo di emancipazione esplicato nel Mezzogiorno dai combattenti prima, e dai fascisti padovaniani poi, e i modi e le forme, attraverso cui la realtà trasformistica, preesistente ed adeerente a quella tale dittatura legale di cui parla il Malagodi, è riuscita, volta a volta, a frustrare od impadronirsi del movimento, e, perciò, non credo utile ripetermi.
Dirò, soltanto, perché sia possibile una rapida e completa comprensione del fenomeno, che il fascismo da un anno a questa parte non ha fatto altro che tentare di duplicare la rappresentanza trasformistica nel Mezzogiorno.
Credendo di creare una nuova classe dirigente unitaria cioè - come sogliono dire gli scrittori del Nord - di settentrionali del Mezzogiorno, non è riuscito ad altro che a creare, una nuova classe trasformistica, la forza della quale è tuttora riposta nell'opera di mediazione tra il governo centrale e le masse inerti. Ne è derivato, quindi, un giuoco assai interessante, perché, mentre la vecchia classe dirigente rimaneva legata alla dittatura legale passata, la nuova classe dirigente si veniva a prospettare come longa manus della nuova dittatura legale in formazione.

Quindi non si tratta, come pretende il Malagodi, della lotta tra due principi, di cui uno, e cioè il fascismo, ideologicamente intemperante ed avverso alla possibilità di instaurazione di una dittatura legale, e l'altro, cioè il trasformismo, ideologica mente temperante ed aderente alla dittatura stessa, ma si tratta, invece, della lotta di due sistemi identici, e forse perciò, più fieramente avversi tra loro.

In conseguenza di ciò si determinava questa strana posizione ideologica: che due correnti politiche, perfettamente identiche e come origine e come funzione da assolvere, si presentavano al governo centrale ed alle masse rivali nell'opera di mediazione tra i favori governativi ed i voti della popolazione, ed offrivano contemporaneamente i loro servigi ai due estremi della catena politica.
Senonché il giuoco si presentava, fin dal primo momento, più favorevole ai vecchi che ai nuovi trasformisti, sia perché i primi uscivano da una libera selezione ed erano i più adatti all'ambiente, sia perché il governo centrale non poteva indefinitamente attendere la formazione per decreto ministeriale di una classe dirigente meridionale, specialmente quando le vere élites del Mezzogiorno si mantenevano ostinatamente estranee a tale specie di contesa politica.
Costretti, infatti, i vecchi trasformisti a brandire come arma di difesa la posizione della coerenza politica, ogni offesa loro recata sembrava diretta alla stessa sovranità popolare che, per effetto di pura illusione ottica, appariva aver sempre costituito l'unica base dei deputati uscenti.
D'altra parte, poi, il giuoco d'imposizione delle rappresentanze locali amiche del nuovo governo, svolgendosi non per via politica, ma per via militare, scopriva troppo apertamente l'essenza della questione meridionale, e tramutava improvvisamente i facili entusiasmi della prima ora per il nuovo governo, in aperta deplorazione.
Attraverso tale giuoco, quindi, non è riuscito difficile alle vecchie classi trasformistiche meridionali di rivendicare il loro diritto a legarsi alla nuova dittatura legale, cui dopo la dittatura militare, il fascismo ufficiale sta per pervenire.
Tenendo presenti questi rilievi ed ampliandoli con quelle osservazioni, che la realtà del momento suggerisce, non è difficile intuire la precarietà di ogni soluzione che i politici governativi sapranno dare alla questione.
Certo, come avviene sempre in casi consimili, si tenterà di fondere in sintesi eclettica gl'interessi più numerosi e le aspirazioni pili audaci, ma non si potrà più sanare l'errore-base, derivante, per nostra fortuna, dall'incomprensione fascista delle cose meridionali, in cui si è aggirato il governo centrale fin 'oggi: cioè di non aver rinsaldato subito la nuova dittatura con le rappresentanze meridionali ed aver scoperto il regime anche nel Mezzogiorno.
Questo errore politico che, forse, renderà impossibile il ritorno di una nuova dittatura legale di tipo giolittiano, non avrà reso completamente vano l'esperimento fascista nelle nostre regioni.
Ma da tutto ciò alla semplicistica teorizzazione dell'ascarismo giolittiano ci corre assai.

La proporzionale nel Mezzogiorno

Dal «Corriere dell'Irpinia» del 2I febbraio I924.
Quando F. S. Nitti, lasciandosi convincere dalla propaganda socialista e popolare, annunziò di voler presentare un progetto di legge per applicare in Italia il sistema della rappresentanza proporzionale, molti uomini del giolittismo predissero la rovina della nostra Nazione, e molti uomini dell'antigiolittismo vaticinarono invece la sua entrata trionfale nel comodo porto della modernità.
Gli uni guardavano soltanto il pericolo cui andavano incontro le loro fortune personali; gli altri, invece, scambiavano le loro aspirazioni di conquista per espressione di elevatezza politica; ma, in sostanza, il sistema del «trasformismo» non era menomamente minacciato dalle reciproche contese, ed aspettava ripetute conferme attraverso i pili svariati congegni elettorali.
Chiunque abbia lume di ragione e sappia ricostruire un periodo di vita, per lo meno con la fantasia, può ripensare i ragionamenti di quell'ora sol che inverta gli odierni commenti al ritorno del Collegio uninominale, dalla cui applicazione taluni aspettano conseguenze taumaturgiche, altri conseguenze rivoluzionarie.

Come gli uomini del 1919 dimenticavano la guerra e l'esaltazione bolscevica in atto, il signor Mussolini dimentica oggi la guerra, il bolscevismo ed il fascismo, credendo di poter spegnere la crisi politica del paese nella mare stagnante et croupissante del collegio uninominale.
Ed è perciò che, mentre altri scrittori difenderanno su questa rivista la proporzionale e nella sua opera di giustizia distributiva e nella sua alta funzione di manometro delle correnti politiche nazionali, o crederanno scorgere la sua superiorità nella funzione che le si attribuisce di eccitamento meccanico alla formazione dei grandi partiti, io credo assai più utile rifare a larghi tratti la storia del funzionamento dell'istituto nel Mezzogiorno, perché ne appaiano chiari, e privi di soprastrutture retoriche, i limiti, oltre i quali si ripresentano immutate ed immutabili le caratteristiche fondamentali della nostra vita politica.

I9I9: elezioni a circoscrizione provinciale.

gli assi, giuocarono al quoziente, contornando si di figure mediocri cui tolsero i voti mandamentali in cambio dell'onore di un posto nella lista.
Infine, ovunque scesero in campo i combattenti, o presentando candidati propri, scelti tra i più audaci nel giuoco dell'arrembaggio trasformistico, o accodandosi specialmente ai cosiddetti partiti democratici in inconscia funzione di puntellamento dell'ancien régime.
Senza soluzioni di continuità, perciò, la lotta trasformistica mirò a riprodursi entro la mutata forma e gli elettori votarono l'una o l'altra lista sol perché contenevano il nome dell'eletto del loro cuore.
Anzi la disposizione legislativa, in virtù della quale il voto aggiunto ad un candidato di altra lista gli valeva come voto di preferenza, autorizzò i più atroci connubi personalistici, che, risaputi, provocarono le più scandalose meraviglie.
Cosi queste deviazioni lungi dal provocare un infrenamento, foss'anche meccanico, del personalismo, ne svelarono, attraverso nuovi orizzonti, le profonde radici.
Né un correttivo a tali deviazioni fu portato dall'ingresso nella lotta politica meridionale dei partiti storici, che, pur di arraffare voti, non esitarono ad eleggere le terre del Sud come colonie elettorali, valendosi in buona parte di uomini che, non avendo seguito personale, speravano  partito da quella forza mitica che accompagna gli studiati programmi unitari.
La prima applicazione della proporzionale perciò, riprodusse integralmente tutti i difetti e tutta l'infantilità della organizzazione politica meridionale, riportando lo sviluppo elettorale intorno all'asse delle piccole miserie provinciali.
La legge Nitti, volendo temperare le forti preoccupazioni dei deputati meridionali, timorosi di affrontare battaglie politiche fuori della cerchia del collegio infeudato, stabili che le circoscrizioni non potessero avere meno di dieci deputati, e per il primo esperimento concesse, quasi in conto riparazioni, che le province con almeno cinque deputati potessero essere elevate a dignità di circoscrizione.
Ne derivò che in tutto l'ex Regno delle Due Sicilie su ventiquattro province ben venti tre usufruirono della benevola disposizione transitoria e divennero capoluogo di circoscrizione. Soltanto le due province di Benevento e Campobasso furono fuse in un solo collegio.
Il primo esperimento elettorale nel Mezzogiorno fu perciò caratterizzato dal fatto che le circoscrizioni erano tutte a base provinciale. Questa circostanza rappresentò, in mancanza di partiti organizzati e di chiarificate correnti di opinione pubblica, il primo criterio di arroccamento.
In qualche provincia furono i deputati uscenti, che nel timor panico dell'assalto di nuovi concorrenti, pensarono di coalizzarsi in lista unica, munita del tabellionato dell'ufficialità.
Altrove, invece, furono i deputati e gli uomini rivali nei Consigli provinciali che pensarono di riprodurre, attraverso le elezioni politiche, le caratteristiche contrapposizioni locali.

I92I: elezioni a circoscrizione regionale.

Nel 1921 i fenomeni di adattamento trasformistico al meccanismo elettorale si complicarono, per l'applicazione integrale della circoscrizione ultraprovinciale.
Il primo criterio di reazione alla legge fu di natura campanilistica, la prima preoccupazione degli elettori fu di riassicurare alla propria provincia il numero di seggi assegnati con il Collegio uninominale. Entro questo schema poi si precisarono le reazioni di carattere circondariale e mandamentale, ed infine quelle più strettamente personali.
I mezzi per garantire il raggiungimento di cosi caratteristici fini furono differenti secondo le diverse circostanze di tempo e di luogo.
Cosi qualche provincia, preoccupata, oltre ogni limite di ragione, di evitare la perdita di qualche seggio, non permise ai suoi candidati di entrare nelle combinazioni elettorali di altre province e preferì attoccarsi in una o più liste a carattere strettamente provinciale.
Qualche altra provincia, invece, credete conveniente provocare addirittura un'offensiva facendo entrare i suoi candidati un po' dovunque nelle liste regionali e speculando sulla compattezza dei voti preferenziali da assegnar loro e sulle lotte intestine dei candidati delle altre province ..
Viceversa i singoli interessati si fecero sostenitori dell'uno e dell'altro metodo secondo le loro convenienze personali, quando non credettero giovarsi del sistema, già sperimentato nell'elezione precedente, di giuocare al quoziente con la solita listarella, ripiena di ambizioni mandamentali.
In sostanza il giuoco personalistico venne dilatato ancora verso piu ampi orizzonti e gli elettori tennero costantemente fisso lo sguardo sul nome del candidato preferito.
Mutatis mutandis, il trasformismo si riprodusse.

I924: elezioni rivoluzionarie.

È perciò impossibile rifare tutta la storia dell'azione sovvertitrice del fascismo nel Mezzogiorno e del modo come furono ivi impostate e condotte le elezioni del 6 aprile 1924, trattandosi d'altra parte di avvenimenti assai noti e recenti. Tuttavia non sarà inutile riassumere per sommi capi tale azione elettorale fascista per comprendere gli avvenimenti posteriori.
In verità quando la nuova fiera elettorale fu bandita, molti che si sforzavano di trovare il filo conduttore della politica governativa, credettero che il fascismo volesse definire e fissare la sua posizione nel Sud, tentando di assorbire il maggior numero di forze possibili senza pregiudiziali di provenienza, accentuando cosi per il Mezzogiorno la politica che nel resto d'Italia svolgeva nei riguardi di tutti i gruppi cosi detti fiancheggiatori.
Ma questo proposito, che affiorò sempre nella politica elettorale mussoliniana, fu ben presto frustrato dall'incongruenza governativa e dall'azione addirittura anarchica che esercitò nella scelta dei candidati la famosa «pentarchia».
Cosi, mentre fu sollecitata l'entrata nel listone degli on Orlando, De Nicola, Fera, Colosimo e De Nava, si pretese isolarli dai loro amici, rompendo nel punto più delicato di sutura il sistema personalistico.
Ciò produsse conseguentemente dissensi fortissimi, che accentuarono le antipatie meridionali per il fascismo, e, dopo qualche giorno, portarono al dissenso più aperto con questi vecchi parlamentari, che o furono costretti a ritirarsi o restarono nel listone come ricordo di un naufragio senza nome.
Fu cosi che i pentarchi, rimasti finalmente liberi, poterono contentare le velleità di tutti gli avventurieri che si erano insinuati nel movimento e che, impadronitisi delle segreterie provinciali, da una parte ricattavano le popolazioni con l'aiuto delle autorità locali, e, dall'altra, ricattaavano il governo facendosi credere spontanea emanazione delle popolazioni.

In verità, il cieco settarismo del partito dominante e la necessità di svolgimento della sua azione in forma grossolanamente unitaria gli fecero ignorare il grande segreto del giolittismo nelle nostre contrade, riposto nello sforzo di assorbire volta per volta tutti gli uomini politici che, per simpatia delle popolazioni o per valore personale, emergevano. Cosi Giolitti riusciva a dare l'impressione di non coartare la volontà degli elettori, e tuttavia non aveva difficoltà a formarsi amici fedeli interessati al mantenimento del sistema.
Gli elettori, infatti, salvo casi eccezionali, venivano lasciati liberi di votare a loro talento, specialmente quando tutti i candidati in lotta si professavano governativi, e nel deporre la scheda, credevano sempre di compiere un atto di sovranità.
Il governo, quindi, lungi dall'intervenire con atti diretti a violare il costume regionale, cercava agevolarlo, limitandosi soltanto a combattere i pochi tentativi diretti a superarlo. Cosi, senza eccessive reazioni, faceva funzionare le forze politiche del paese nel modo più naturale.
Quando, invece, nelle liste del 1924 si videro inclusi una quantità enorme di uomini nuovi, sconosciuti all'universale, privi di simpatia, ignoranti in ogni campo dello scibile e solo audaci nello scimmiottare le pose dittatoriali del loro capo, e nel giorno delle elezioni i pochi nuclei di oppositori furono sommersi da turbe di violenti e di irresponsabili sotto lo sguardo indifferente delle cosiddette autorità, il segreto del trasformismo fu svelato agli occhi di vaste categorie di cittadini e cominciò uno strano processo politico, in virtù del quale, nello stesso momento in cui il governo acquistava un vero esercito di comparse, la maggior parte delle popolazioni meridionali, non solo si estraniava dal fascismo, ma cominciava a passare alle opposizioni, specialmente amendolina e socialista unitaria. Da allora questo processo di contrapposizione tra i rappresentanti ed i rappresentati, accentuandosi giorno per giorno, si è avvicinato verso una vera e propria scopertura del regime.
Cosi anche nel Mezzogiorno, soltanto per virtù di contrasto, il fascismo ha potenziato vere forme rivoluzionarie, obbligando più vaste schiere di cittadini a superare le forme di organizzazione personalistiche, per passare a postulare in tutta la sua estensione la vera lotta politica.

Collegio uninominale: tentativo di ritorno trasformistico.

Questo notevole svolgimento antifascista meridionale, non frenato né dalla visita mussoliniana alla Fiera campionaria, che si ridusse ad una passeggiata solitaria, né dalle promesse dei lavori pubblici (del resto non mantenute), espediente abusato ormai e divenuto di scarsa efficacia, minaccia di porre in serio pericolo il fascismo, dinanzi al riaffermarsi della lotta politica nel settentrione d'Italia, perché nessun governo si è trovato dal 1860 ad oggi a dover fronteggiare l'azione dei partiti storici avendo il Mezzogiorno e le isole in subbuglio.
È naturale, quindi, che Mussolini, avvedendosi oggi per la prima volta dell'errore commesso (felice errore!), abbia pensato di far macchina indietro per riprendere nelle sue mani il meccanismo infranto del personalismo meridionale attraverso un'elezione a collegio uninominale, che rappresenti un sistema meno sovversivo, e gli assicuri oltre che i voti dei deputati meridionali anche l'adesione delle popolazioni.
Sotto questo profilo, perciò, il ritorno al collegio uninominale costituisce un tentativo di reazione contro il sovvertimento prodotto, non dalla proporzionale - già adattata sufficientemente al clima storico-politico del paese - ma dall'applicazione della legge Acerbo.
E tale tentativo meriterebbe di essere combattuto aspramente, se i tempi e le circostanze fossero tali da farci prevedere l'applicazione della legge per opera di Mussolini con criteri rigidamente giolittiani.
Ma il temperamento dell'uomo, la composizione del partito, il prepotere del rassismo e la completa distruzione dell'autorità provinciale, ormai incapace di emanciparsi dai voleri delle fazioni locali, per riacquistare l'antica funzione giolittiana, ci fanno prevedere che la scopertura del regime nel Mezzogiorno non solo non sarà sanata, ma sarà addirittura accentuata.
La riprova di questa intuizione ci è fornita dall'atteggiamento dei fiancheggiatori che non mostrano nessun piacere per il ritorno al collegio uninominale, ma mirano soltanto ad eliminare le cause di sovvertimento, secondo loro, costituite soltanto dal prolungarsi dell'azione fascista al governo.

Ed è per questa ragione che, se l'odierna situazione politica dovesse perpetuarsi, di fronte ad un'altra elezione, anche peggiore di quella del 6 aprile 1924, potremmo assistere allo strano spettacolo di un'astensione dalla lotta elettorale a collegio uninominale proprio di quei politici che più vivamente ne hanno invocato il ripristino per ragioni personali.
Ecco, dunque, che la manovra mussoliniana, pur essendo potenzialmente reazionaria, rischia di divenire nuovamente rivoluzionaria per le immancabili interferenze del partito dominante, che non può assolutamente consentire che il governo riesca a disimpegnarsi dai dati storici del fascismo, per adottare una vera e propria politica di affrancamento.

CONCLUSIONI
Tuttavia, lasciando per il momento sulle ginocchia di Giove gli avvenimenti futuri, non possiamo chiudere queste brevi note senza un saluto cavalleresco alla diffamata proporzionale che, apparsa come una meteora sul nostro cielo politico, è stata ritenuta responsabile di tutti i vizi e di tutte le deficienze italiane.
L'immaturità politica del paese (non soltanto del Mezzogiorno, perché questo si estende per lo meno fino in Brianza) non ha permesso di difendere e conservare tale conquista elettorale, ma i tempi sono cosi grossi che questa perdita non ci spaventa.
Fino a quando il Mezzogiorno continuerà a rimanere assente dalla lotta politica e sarà impossibile adoperare le sue forze per rompere il complesso giuoco dei partiti storici, tutti i sistemi elettorali saranno buoni a mantenere la dittatura del Nord, ed un eventuale ritorno della proporzionale non sarà che una nuova irrisione aggiunta alle precedenti.
Il problema fondamentale della vita italiana è ben più profondo e l'ironia della storia si è già servita delle forze più disparate per iniziarne lo svolgimento.
Speriamo che tale svolgimento prosegua ancora a lungo verso le sue ultime conseguenze, potenziando, una per una, tutte le necessità dialettiche dell'unitarismo italiano.
Allora soltanto la proporzionale potrà costituire una conquista intangibile della rivoluzione italiana, giunta a maturazione mercè l'apporto di tutte le forze produttive del paese.

Da «La Rivoluzione Liberale» del 20 febbraio 1925.

III. MERISIONALISMO APPLICATO

In queste ultime settimane il Mezzogiorno d'Italia è divenuto improvvisamente di moda. È questa, però, una constatazione che non ci lusinga. Per mio conto scommetterei tutto il mio avere che tra un mese le conferenze del ministro Giuriati con la deputazione meridionale saranno finite e della questione meridionale non si parlerà più.
Tuttavia non credo inutile occuparmi di ciò che si è stampato in questa circostanza per mostrare ai lettori quanto siamo distanti da quella corretta innestazione politica del problema che io reputo indispensabile alla resurrezione del mio paese. Sarà un saggio di meridionalismo applicato che varrà a chiarire i concetti fondamentali della questione.

La polemica sul triangolo.

Cominciamo dalla polemica sul triangolo.
Quando si è cominciato a parlare sui giornali milanesi del progetto Gualino-Agnelli-Puricelli per la costruzione di una ferrovia elettrica Milano-Torino-Genova, Paolo Scarfoglio sul «Mattino» e l'onorevole Presutti sul «Mondo» sono partiti in guerra contro tale progetto in nome dell'Italia meridionale, negletta e disgraziata, tuttavia bisognosa dei più elementari mezzi di comunicazione.
Anzi Paolo Scarfoglio ha creduto descrivere quest'Italia negletta come costituita dai residui semidiruti di un vasto regno agrario e patriarcale, nel quale la giustizia fiscale non è giunta che cinquant'anni

dopo che era già fatta nel Nord, e la cui economia è oggi compressa e paralizzata dal peso di istituzioni troppo grandi, e di doveri che non sono in bilancia collo governo di cui fu la vittima. Questa Italia non sa essere ottimista. Quando le si chiede di partecipare col sacrificio della sua economia a delle opere di puro lusso, o addirittura ad una ironica competizione italiana colla tecnica di America o di Germania, essa risponde che si smetta da COSI vorace ed offensiva mistificazione, e che si facciano le sue strade ed i suoi porti con onesta semplicità, in luogo di montare ancora un carrozzone destinato ad accentrare nel Nord altri ferrovieri ed altre migliaia di milioni; che si dia una strada ai suoi contadini, in luogo di dare autostrade ai vostri automobilisti. Chiede insomma che questa farsa sanguinosa abbia un termine. L'Italia non deve sbalordire nessuno con treni di duecento chilometri all'ora, deve, invece, egregio signor Arnaldo, abolire i treni di venti chilometri all'ora che rappresentano ancora il solo dono dello Stato all'Italia meridionale.
Questa sfuriata scarfogliesca ha, naturalmente, provocato la risposta di Arnaldo, il cui spirito unitario ha trovato facile e pronta la sistemazione del dissidio recente in una serie di argomenti tradizionali, che, appunto per ciò, hanno perduto la loro forza probante. Arnaldo gode di ogni progresso italiano; egli concepisce organicamente l'Italia e non può esaurire la sua visione politica nel regionalismo. Tutte le città italiane sono eguali dinanzi al suo cuore, però non bisogna dimenticare che l'avvenire è in noi.
Perché, egregio signor Paolo, non vorrà credere che la salute di un popolo venga da savie disposizioni burocratiche anche se per caso la denominazione può chiamarle provvidenze. La provvidenza sta in noi stessi, nella nostra forza, nella creazione di opere nuove e nel miglioramento di quelle già esistenti, nel coordinamento delle energie e nell'armonia delle singole regioni.
Noi siamo di Romagna, una terra che la tenacia, la pazienza e l'intelligenza della razza ha trasformata in una magnifica regione produttiva. Ravenna, la città degli esarchi, ha ripreso un ritmo di vita che contrasta con l'antico abbandono, c'è stata la forza degli uomini che ha dominato gli elementi avversari. Che più Noi non saremmo alieni dal caldeggiare quel progetto di istituto finanziario che sul modello di quello per le terre liberate dovesse anticipare i fondi per i lavori pubblici del Mezzogiorno d'Italia. Ma, intendiamoci, progetti chiari e di interesse massimo.

Argomenti, dunque, mutuati dal «Corriere della Sera» con sorpresa del nostro Paolo: libera iniziativa contrapposta alle «provvidenze» governative, gli interessi generali sollevati contro la deviazione degli interessi particolari. Era, questa, una lezione che, forse, Scarfoglio si aspettava, ed a cui era preparato a rispondere.
È infatti - egli scrive - assolutamente ridicolo citare la tenacia, la pazienza, !'intelligenza, e via dicendo degli uomini del Nord, in confronto deprezzativo con gli uomini del Sud. È assolutamente falso di supporre, ad esempio, che una officina metallurgica o una raffineria possa prosperare a Reggio Calabria o a Campobasso, quando oltre 20 lire di trasporto aggravano il prezzo dei nostri prodotti; e quando da settant'anni, la mancanza del doppio binario sulla Napoli-Reggio rende discutibile il traffico da Napoli in giu. Sa il signor Arnaldo, ad esempio, che in questo momento si vende all'asta, per fallimento, una grande' cartiera, impiantata nella Sila da un industriale del Nord? e sa che la cartiera fallisce per il ritardo nella costruzione della ferrovia calabro-Iucana, sul cui servizio calcolavano gli industriali che l'hanno impiantata? Se, dunque, da noi cadono anche le iniziative dovute alla tenacia, alla pazienza, alla intelligenza degli uomini del Nord, è chiaro che le condizioni di vita e di traffico nel Mezzogiorno d'Italia, sfidano qualsiasi sforzo; ed è chiaro che occorre costituire il minimo di condizioni sufficienti, perché lo sforzo degli uomini e del capitale non sia eternamente beffato.
La nostra tesi è, dunque, semplice e precisa. Fino a che lo Stato non abbia compiuto il suo dovere, impiegando, direttamente o indirettamente; tutto il capitale nazionale disponibile, per creare questo minimo di condizioni, ogni altra spesa, diretta o indiretta, rappresenta una colpa, se non un crimine. E non è lecito; a uomini che assumono di dirigere giornali italiani - anzi dico: italiani? giornali nazionali - non è lecito di sorvolare sul bilancio morale delle provvidenze di Stato, in tutta la vasta Italia, né di servire, col peso della propria eloquenza, concentramenti di lusso e di spese suntuarie, che mettono in una luce anche più grave il depauperamento procurato nel resto d'Italia.
Contro questa sfuriata, promettente inizio di una critica più ampia, gli argomenti circa la libera iniziativa non potevano aver più presa ed ecco il buon Arnaldo che scopre la sua faccia paternalista:
Se io avessi trovato l'uomo avrei istituita la rubrica Lettere meridionali e giacché so da lei che il «Popolo d'Italia» è ispirato alla o dalla volontà governativa, forse le lettere e inchieste non sarebbero passate sotto silenzio. Ma io avrei voluto che il giornalista conoscesse la storia delle regioni meridionali, le loro tradizioni e le loro aspirazioni nel mondo turbato dei contemporanei; avrei voluto poi un collega che non facesse solo del colore ma bensì si intendesse di usi civici, dei tratturi di proprietà demaniale, di feudatari, di contratti agricoli. E, giacché il Mezzogiorno è complesso nella sua vitalità spirituale ed economica, era necessario che il giornalista conoscesse le virtù marinare dei rivieraschi, la tenace tranquillità dei montanari e dei pastori che vanno «tra prati di asfodelo e per le rupi»; bisognava conoscere e valorizzare il grande coraggio degli agricoltori industriali tipo Pavoncelli, la grandiosità del Tavoliere delle Puglie, le virtù e la necessità della irrigazione, i benefici dell'impianto idroelettrico della Sila e le comunicazioni con l'Oriente, la necessità dei doppi binari, di vagoni, di frigoriferi, la ricostruzione americana dei vigneti, ecc., e giacché sono un partigiano avrei desiderato che il mio uomo avesse valorizzato elementi dell'èra nuova, avesse esaminato non i bilanci dei comuni ma almeno quelli delle province, avesse fatto statistiche dei tributi, segnalate le deficienze ecc., tutto questo avrei desiderato se avessi trovato il giornalista. Nel caso mio non l'ho trovato ancora.
Spero che lei vorrà suggerirmi qualche cosa: troverà in me uno che lo ascolta con deferenza e se i problemi, come dice lei, da Roma in giù si urtano contro le deficienze ferroviarie e sperequazioni di tariffe la soluzione non mi sembra né impossibile, né lontana e neanche utile mi sembra discutere a lungo e sul serio, perché, egregio signor Scartoglio, con me ha sbagliato bersaglio. lo sono un ammiratore del Mezzogiorno e se la parola modesta sembrasse eccessiva sono uno studioso del Mezzogiorno.
Spirito di remissione, umiltà francescana, mescolata ad orgoglio ducesco; tentativo di una presa per il bavero con un po' di spirito fascista: chi si allontana dal gran fiume, perisce.
Ditelo a me, caro Scarfoglio, ed io lo dirò al duce e provvederemo insieme a darvi qualche osso. Se non è possibile trovare l'uomo per gli articoli (il fascismo li ha: Gino Arias, Arrigo Serpieri, Michele Viterbo, ecc.) ed il Mezzogiorno è stanco di scritti, gli daremo qualche chilometro di doppio binario.
La risposta era quindi di rigore e Scarfoglio non tarda a imbroccarla:

È dunque una parte del problema nazionale che stiamo trattando, e non una polemica casuale o marginale; è bene fissarlo subito. Siamo dinanzi ad una grande passione, o ad una grande ferita.

È questa un'apertura consolante, promessa di piu vasti orizzonti. Ma si restringe subito.

Lasciamo dunque una buona volta in soffitta le parvenze scientifiche degli «studi» sul Mezzogiorno; lasciamo le solite mille faccette, e studiamone, o per dir meglio, studiatene una sola: la faccetta ferroviaria. In luogo di parlare futuristicamente di comunicazioni con l'Oriente, approfondite il mistero per il quale non si può spedire un vagone di ferro da Napoli a Campobasso (no chilometri) perché l'espressione dimostra che arriva prima da Sesto, provincia di Milano; il mistero pel quale se dobbiamo spedire i nostri giornali a Taranto, preferiamo farli salire fino a Roma, dove trovano le coincidenze colla linea Adriatica. Avrete così il filo conduttore per comprendere perché da noi non si raffini la barbabietola, non si estraggano le resine e le essenze, non si sfibri il pioppo; perché insomma non si goda il terzo dei doni della Natura e del lavoro umano. Questo è il problema. Il resto è letteratura.

Tuttavia, anche così ristretta, la discussione è pericolosa, ed il buon Arnaldo, dopo aver detto che il presidente ed il ministro dei Lavori pubblici «ogni mattina» vogliono essere informati minutamente di quanto si è fatto e si fa in materia di opere pubbliche nel Mezzogiorno, e che, perciò, con tali disposizioni di spiriti governativi si ha il dovere di aiutare il governo piuttosto che di polemizzare, soggiunge:

Comprendo e condivido la sua opinione là dove afferma che discutendo il problema meridionale ci troviamo di fronte ad una grande passione; nego però di trovarmi di fronte ad una grande ferita. L'Italia unitaria non ha compiuto in passato totalmente il suo dovere, ma non si deve alla sola insufficienza di uomini; mentre l'Italia nuova sta assolvendo il suo compito. Non bisogna irridere a questo sforzo, e, ripeto, non bisogna ridurlo ad una sola questione di trasporti e di transiti.
La polemica è, dunque, finita, e Scarfogl1o non esita a chiamare la ritirata di Arnaldo una vera e propria fuga.

La tesi del «Saggiatore».

Quasi contemporaneamente la nuova rivista partenopea «Il Saggiatore» inizia le pubblicazioni e promette di recare il suo modesto ma fervido contributo alla rinascita dello spirito unitario, al rinnovamento del costume politico sul piano di un inflessibile rigore morale, alla riorganizzazione delle forze democratiche della nazione.
Tale opera - dice il manifesto - già coraggiosamente iniziata dalla libera stampa e da numerosi gruppi politici, può essere particolarmente feconda nel Mezzogiorno d'Italia, ove il tessuto più saldo dell'organismo sociale è costituito da una piccola borghesia rurale e cittadina, da un ceto medio di professionisti, coltivatori, artigiani, commercianti, impareggiabile per coscienza morale, per virtù di lavoro, di risparmio, di sacrifici, elemento sicuro di patriottismo, di ordine, di disciplina nella compagine nazionale.
Il Mezzogiorno che si è straniato - nella sua generalità da tutti i tentativi di sovvertimento seguiti alla guerra, non può mancare oggi al compimento di quella funzionale di equilibrio e di ordinato sviluppo, che è nella sua tradizione e nei suo destino.
Fissato così il punto di vista del «Saggiatore» l'animo di molti amici fu preso da non poca amarezza per questo strano tentativo di teorizzare l'immobilità meridionale.
Né il dubbio fu di breve durata perché il numero successivo della rivista recava, a firma di Gherardo Marone, il seguente corsivo:
Un autorevole amico mi scrive: «La rivista mi par dovrebbe riuscire a toccare corde più interessanti e soprattutto suscitare discussioni su argomenti che tocchino il Mezzogiorno; se no perché farla uscire a Napoli?» Questa osservazione mi consente di chiarire subito il pensiero -del «Saggiatore» circa la sostanza del problema meridionale.
Noi affermiamo senza esitazione che non esiste in realtà un problema meridionale, ma esiste un problema italiano da risolvere armonicamente.
Respingiamo sdegnosamente - e perciò non vogliamo suscitarle - quelle forme di «discussioni su argomenti che tocchino il Mezzogiorno» le quali in fondo, scarnificate di tutti gli orpelli e le montature tecniche, hanno solo il valore di piagnucolose pitoccherie che ci umiliano e ci offendono.
Il Mezzogiorno, con la sua compattezza e consistenza demografica e morale, col senso profondo dell'unità nazionale che rivela, ha già varie volte salvata !'Italia dalla disgregazione e dalla morte. Il suo problema perciò è problema italiano, la cui soluzione va a beneficio di tutto il paese e non solo di una data regione.
Non vogliamo elemosine che si risolvono sempre in stupide beffe, non chiediamo niente né a questo governo in rovina né agli altri che gli succederanno nel tempo, perché pensiamo che il problema del Mezzogiorno non sia solo di strade o di bonifiche o meglio ancora di balzelli, ma di armonia nazionale e di unità.

Questa presa di posizione della rivista partenopea era, però, troppo semplicistica per rimanere definitiva, ed ecco nel numero successivo Mario Grieco affrontare «l'atteggiamento sui generis dell'Italia meridionale nella crisi politica che dura in Italia da un biennio» con queste parole:
È cosa vera: ma è, in molta parte, fenomeno passivo. E questa rivista, che vuol essere sincera e costruttiva, non deve mancare di denunziarlo, ai meridionali e agli altri. Se dietro la nostra sorda resistenza vi fosse alcunché di volontario, di meditato, di previdente per il futuro, l'orgoglio sarebbe logico, e sarebbe forza. Ma noi dubitiamo assai che - come al solito, pei problemi meridionali -:- anche qui vi sia un equivoco. Ed è che il Mezzogiorno sia restato apatico e reattivo verso l'allettamento fascista, principalmente perché gli mancavano i requisiti politici e le attitudini sociali per sentire il fenomeno, e per apprezzarlo o repellerlo con cognizione di causa. .

La tesi dei popolari.

Quasi contemporaneamente il «Popolo» pubblicava un l’editoriale in cui la tesi popolare, già formulata al Connp,f'cSSO di Napoli del 1920, veniva riaffermata.
È stato ripetuto frequentemente, e fin dal Congresso di Napoli del 1920 i popolari lo hanno proclamato altamente, che al Mezzogiorno per la soluzione di tutti i suoi problemi basta che esso sia lasciato alla libera azione delle proprie energie senza deviazioni artificiose, senza inceppi e senza interferenze. Quando si parla della responsabilità del governo rispetto al Mezzogiorno e quando per esse ci si riferisce a quasi tutti i governi che si sono succeduti, si vuole affermare la colpa di essi di avere subordinato ad interessi particolaristici e personali, in intimo rapporto con gli scheemi parlamentaristici dei diversi gabinetti, il complesso degli interessi meridionali, facendo una politica deviatrice o per lo meno di incomprensione.
Cosi è nato il sistema personalistico, legato al collegio uninominale e nemico della proporzione, cosi si spiega la reazione .delle classi dirigenti italiane al decentramento amministrative
Pensate alla politica doganale, pensate alla politica elettorale e vedrete facilmente come la questione del Mezzogiorno sia ben diversa dal conto-spese per una ferrovia o per un porto, ma consista soprattutto ed anzitutto in una esigenza imperiosa di giustizia, il conseguimento della quale vediamo allontanarsi di più con un sistema che si dice avvicini l'eletto all'elettore, ma si tace che in sostanza esso allontana il rappresentante dalla sua regione e dagli interessi complessivi di essa.
Cosi il problema del Mezzogiorno non entra in una nuova fase, non fa dipendere la sua soluzione né da stanziamenti né da decreti, perché matura in una crisi spirituale, che sboccherà in una valutazione nuova di tutti i problemi e di tutte le forze, valutazione per la quale il passato e l'attuale presente non potranno certamente vantare di stare dalla parte attiva, da quella cioè verso la quale il Mezzogiorno tende con sforzi spirituali e con le sue energie economiche, anelando di vederle libere nel loro gioco, non sottordinate ad altri interessi che non siano quelli strettamente necessari a mantenere quella unità della nazione che deve essere garanzia per tutti e non privilegio per pochi.

Autonomismo e decentramento.
Siamo così pervenuti sul terreno più strettamente politico della questione. L'affermazione che il problema del Sud sia politico ed unitario non ci suggerisce però senz'altro come contrapporsi all'attuale azione dello Stato italiano. La stessa postulazione della Regione contiene un salto, un vuoto assai grave, perché presuppone cristallizzato il nuovo stato di cose senza per altro descriverci il modo come pervenirvi. Eppure risiede in questo salto la sostanza del problema. L'avvenire potrà COSI smentire il decentramento come realizzarlo. Non è assolutamente detto che un nuovo unitarismo non possa prodursi in conseguenza di un'azione meridionalista, e che la giustizia distributiva e la libertà possano essere realizzate attraverso l'ente Regione piuttosto che attraverso lo Stato. Anzi, in linea di logica pura, e perciò non in linea politica, sembrerebbe che i compartimenti stagni delle Regioni siano destinati a perpetuare le differenze esistenti privando ci a priori del diritto di prospettare come nazionale la nostra questione, e quindi di valerci dell'opera dello Stato. Se l'azione dello Stato e dei partiti storici è falsamente unitaria la tendenza politica vittoriosa sembrerebbe quella rivolta a creare l'unità sostanziale dopo tanto sgoverno di unità formale.
Quindi il decentramento, inteso come dottrina politiico-istituzionale, contiene un vizio di origine, che gli nega quella concretezza indispensabile ad ogni seria azione politica, ed appunto, perciò, permette ai partiti storici di postularlo come una via di uscita della crisi.

Prima che il Mezzogiorno lo chieda vi sono già degli unitari disposti a concederlo.

Questa osservazione ci convince che il decentramento per essere duraturo dovrà essere conquistato. Ma come, con quali forze, con quali miti? Ecco, dunque, che il vuooto si ripresenta e bisogna finalmente colmarlo.

Ora quello stesso anelito di libertà che spinge alcuni meridionali a postulare il decentramento amministrativo come forma istituzionale perfetta per la soluzione del problema, ci suggerisce che la libertà giuridica di essere tale è politica. Occorre quindi disimpegnarsi dal passato, negare lo Stato italiano come s'è venuto creando, negare i partiti che vi aderiscono e porre autonomamente la propria soluzione. L'autonomismo politico è, dunque, la chiave di volta del problema.
Sembrerebbe un paradosso, ma è la verità.

In  «La Rivoluzione Liberale» del 15 marzo 1925.

IV. Mali e rimedi

Il rumore giornalistico sollevato intorno al progetto governativo per le province meridionali si è ormai spento, e solo l'eco ripete di tanto in tanto i lieti pronostici e gli eroici propositi di questi giorni.
Come per incanto tutti sono divenuti meridionalisti per l'occasione e l'organo massimo del trasformismo meridionale «Il.Mattino» ha potuto scrivere, con la consueta disinvoltura, che il programma di resurrezione delle nostre terre è addirittura una invenzione della prima ora di casa Scarfoglio,
Or dunque che i pionieri hanno parlato, possiamo scrivere qualche rigo di serena disamina per ricondurre ai suoi veri termini la questione, e poter casi giudicare le buone intenzioni e le possibilità di qualsiasi governo non soltanto fascista ma altresi antifascista.
Tutti i meridionalisti che giudicano con cognizione di causa lo stato delle nostre terre e si affannano a convincere il prossimo della bontà della nostra causa, devono innanzi tutto protestare contro i rimedi che invece di iniziare la cura radicale e razionale del male, si sforzano di eliminare cause secondarie e transitorie, riproducendo cosi, sotto mutata veste anche quando i mediti siano in buona fede, le cause prime del male.

Occorre ostacolare quanto meno è possibile la formazione del capitale meridionale, piuttosto che, dopo averlo pompato e distrutto in tutti i modi, tentare di ricostruirlo attraverso la carità statale. Occorre, quindi, rivedere ah in tutta la politica tributaria dello Stato italiano, opporsi a tutte le forme d'intervento statale, palesi o larva te, che non operano altro che spostamento di ricchezza, e stabilire conseguentemente diversi criteri di tassazione, cercando di esentare, per quanto è possibile, le regioni povere dal peso delle spese collettive.

Solo cosi si può arrivare a dare agli organi malati il riposo necessario per vincere la fase di deperimento organico, prodotto dai mali del passato, e permettere loro di accumulare riserve per l'avvenire.

Diversamente non si farebbe che imitare quel medico che pretendesse cavar sangue ad un tisico e guarirlo con un uovo al giorno.
È tutta l'azione dello Stato, dunque, che occorre modificare, se si vuol agire seriamente per creare le condizioni elementari della nostra riscossa economica.
Fino a quando, perciò, l'onorevole De Stefani continuerà ad assicurare con la sua politica finanziaria il permanere delle condizioni di squilibrio anteriore, non soltanto non si potrà parlare di risoluzione del problema, ma non si potrà addirittura sognare l'inizio di quella corretta impostazione di studio che l'onorevole Mussolini pare abbia voluto tracciare con il suo ultimo progetto di legge.
La questione meridionale è, prima di ogni altra cosa, questione di libertà economica, mentre il fascismo traduce in sede politica tutte le esigenze del sistema statale di interventismo finanziario e di accentramento burocratico.
L'onorevole Mussolini non può, perciò, agire contro i dati storici e sociali della sua formazione politica senza disarticolarla e distruggerla.
La politica dei lavori pubblici, anche attraverso la persona del ministro Giuriati, nominato alto commissario per il Mezzogiorno, rientra nel quadro di tutte le possibilità fasciste, e perciò non eccede i dati storici del disordine amministrativo e della invadenza tradizionale dello Stato storico. Il meridionalismo, inteso come organizzazione di forze autoctone, dirette a distruggere questo vizio costituzionale della società italiana, è ancora di là da venire.
Quello del «Mattino» non è che il grido dei volatili all'annunzio della tempesta: un agitarsi scomposto e disorganico per immunizzare le proprie fortune dal ciclone storico che si addensa sul cielo meridionale.

Da «Corriere dell'Irpinia» del 13 giugno 1925.

v. Epilogo semiserio

Tutti noi siamo perfettamente d'accordo: la colpa è di Gian Giacomo. È lui il cattivo genio che ci ha portato a questo stato, è lui che ha corrotto le coscienze, deviata la gioventù, bol cevizzato il mondo. Contro di lui bisogna quindi reagire. Morte, perciò, all'atomismo democratico. Distruggiamo l'individuo, anzi sopprimiamo addirittura la parola dal dizionario.,Lo Stato è tutto, principio e fine della vita: padre degli individui, e, come Saturno, divoratore dei suoi figli. Affidiamoci allo Stato, non domandiamo come sia nato, che cosa voglia, che cosa faccia. Non abbiamo il diritto di fare queste domande indiscrete, anzi non abbiamo alcun diritto di natura. Tutti i diritti ci provengono dallo Stato come tante specie di affezioni costituzionali. Perciò in Italia siamo tutti etici. Specialmente noi del Mezzogiorno che abbiamo la suprema ventura di avere per compaesano il ministro Rocco, teorico di fama europea, scopritore di dottrine universali, antiliberale di marca. Abbasso illiberalismo ed i suoi epigoni, e viva il grande Rocco, gloria del Sud, che lo ha abbattuto. Ma quale liberalismo?
Illiberalismo di comodo ...
Un liberalismo di comodo, risponde Giovanni Gentile; una specie di pupazzo impagliato per tirarvi contro le pallottole di mota, uno spaventapasseri ideologico, di cui nemmeno i pettirossi hanno più paura. Povero Gian Giacomo, umiliato, superato e distrutto da tanto tempo.

«C'è un liberalismo - scriveva Gentile nel gennaio 1923[vedi La nuova politica liberale, p. 9] - che fa comodo ai suoi avversari [al ministro Rocco!] e che si sente innlutti invocare spesso da tutti, quantunque i più ripugnano nel aderirvi per proprio conto. Ed è il liberalismo materialista del secolo XVIII, nato in Inghilterra nel precedente, ma diventato nel Settecento il credo della Rivoluzione ... Ma c'è un altro liberalismo, nato nel secolo XIX, nella piena maturità dello stesso pensiero della rivoluzione, attraverso quella critica del materialismo che in tutti i paesi d'Europa in vario modo condusse alla riaffermazione dei valori spirituali»; e questo liberalismo è quello che ci proviene dal pensiero vichiano ed attraverso l'opera del Cuoco e dello Spaventa ha permeato il pensiero della Destra storica. Questo, secondo Gentile, è il liberalismo ideologicamente sano, la dottrina dello Stato etico, ed ha una storia affermata che non si può distruggere: questo, aggiungiamo noi, è il liberalismo idealista che gli uomini della Destra hanno tentato tradurre in categorie storiche.
Che cosa c'entra dunque Gian Giacomo ed il liberalismo materialistico? Potremmo anzi dire: chi lo conosce? Ma Gentile suggerisce: è un liberalismo di comodo, il fantoccio del bersaglio nel giuoco delle tre palle per un soldo, e Rocco non ha temuto di impadronirsi con un tratto di genio (questo si che è genio) del pensiero dell'idealismo liberale per mettergli la camicia nera.
Il fascismo ha finalmente una dottrina, nuova, fiammante di zecca, partorita come Minerva dal cervello di Giove, e, per giunta, una dottrina meridionale. I

Cosi il pensiero più tragicamente serio che sia nato in queste aride ed ultrafilofasciste terre, si è trasformato in un passaporto filosofico per giustificare la rivoluzionaria azione dei microbi della cancrena travestiti da commissari regi nei piccoli comuni di campagna.

... e le corna al Podestà.

Ed è perciò che con perfetta applicazione dialettica si è invocato il Podestà.








































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