venerdì 13 gennaio 2012

libro baldi regioni e federalismo

REGIONI E FEDERALISMO
Brunetta Baldi

Introduzione
Nel corso degli ultimi decenni la maggior parte dei paesi europei ha conosciuto profonde riforme e trasformazioni che hanno portato alla nascita e al consolidamento delle Regioni, enti di livello meso, intermedi fra il governo locale e quello centrale, attori decisionali sempre più rilevanti, chiamati ad assolvere importanti funzioni amministrative, dotati spesso, anche se non sempre, di potere legislativo. I processi di regionalizzazione hanno rappresentato un fenomeno innovativo, una nuova forma di decentramento, che ha significativamente modificato l’architettura istituzionale dei paesi di tradizione unitaria al punto che l’organizzazione dello Stato in Regioni è ormai la regola, e non è più l’eccezione, in Europa. Italia, Spagna, Belgio, Francia, Paesi scandinavi (Finlandia, Svezia, Danimarca), ma anche Irlanda, Regno Unito, Grecia e Portogallo, pur nella diversità delle forme, hanno sperimentato processi di regionalizzazione, ed esperienze simili sono in corso d’opera nei paesi dell’Europa centro-orientale (Peco), con particolare riferimento ad Ungheria e Polonia. Non vanno poi dimenticati i paesi europei di forma e tradizione federale (Germania, Austria) dove i governi regionali (Lander), parte integrante dell’assetto costituzionale dello Stato, pure hanno conosciuto rafforzamento.
Il regionalismo non è solo un fenomeno istituzionale, ma anche un fenomeno politico e culturale. Molti processi di regionalizzazione si sono avviati e consolidati in risposta a movimenti politici, spesso organizzati in partiti, più o meno radicati a seconda dei casi, che hanno rivendicato l’autonomia dei territori in difesa di specifiche identità culturali, in senso più generale, sulla base del principio democratico che vuole avvicinare la decisione pubblica al cittadino, al fine di consentire maggiore partecipazione e garantire politiche più consone alle istanze e alle particolarità del territorio. Il richiamo ai valori democratici, il rispetto del pluralismo culturale, l’esigenza di differenziare interventi e politiche sul territorio accompagnano sempre, seppure in combinazione variabile, l’affermazione del regionalismo sul piano istituzionale.
Il regionalismo, poi, presenta una dimensione europea, legata al processo d’integrazione comunitaria, in quanto funzionale al consolidamento delle politiche e delle istituzioni dell’Unione Europea (Ue). Molte direttive e politiche comunitarie hanno favorito lo sviluppo delle istituzioni di governo regionale, incentivando il trasferimento di competenze dai governi centrali ai governi periferici di livello meso. A partire dall’Atto Unico Europeo (1986), le regioni sono state sempre più attivamente coinvolte nella strategia comunitaria, basti pensare all’avvio della politica di coesione, all’introduzione del principio di sussidiarietà e all’istituzione del Comitato delle Regioni. Oggi le Regioni figurano fra gli attori più significativi dell’arena comunitaria, nell’ambito della quale hanno sviluppato forme innovative di mobilitazione, dall’associazionismo alla cooperazione fino all’azione di lobbyng. Secondo vari osservatori, regionalizzazione e integrazione europea sono due facce dello stesso fenomeno: la crisi dello Stato come unico livello di potere politico. Si tratta di una questione complessa ma indubbiamente l’integrazione europea ha operato, e tuttora opera, come uno dei fattori dei processi di regionalizzazione. L’adeguamento alle politiche comunitarie ha infatti stimolato un ripensamento del rapporto centro-periferia all’interno degli Stati a favore dei governi regionali. Il processo di integrazione europea ha dato impulso non solo a forme di regionalizzazione primaria, portando alla nascita di governi regionali laddove non esistevano, ma anche ai regionalismi già affermati, consentendone un potenziamento.
Infine, le recenti evoluzioni sperimentate dalle democrazie europee hanno accorciato le distanze fra il regionalismo e il federalismo. Una crescente domanda di autonomia e una diffusa mobilitazione delle periferie, intrecciate alle opportunità e alle pressioni provenienti dall’arena comunitaria, hanno portato ad ampliare i poteri e l’autonomia delle Regioni, le quali sono diventate attori importanti dei processi di formulazione ed implementazione delle politiche pubbliche, analogamente a quanto avviene nei paesi federali. A partire dall’esperienza del Belgio, la trasformazione da unitario a federale è divenuta una vera e propria tendenza in Europa rendendo sempre più difficile la distinzione fra il regionalismo e il federalismo, basti pensare alla federalizzazione spagnola, a quella britannica e, non ultima, a quella italiana. In Italia, le Regioni sono state oggetto di riforme incisive che hanno aperto la strada al federalismo. Sebbene si tratti di un processo in corso, sul cui esito ancora si discute, soprattutto in seguito al fallimento del referendum costituzionale sulla devolution (2006), è innegabile che oggi il regionalismo italiano, nella forma e nel suo operare concreto, presenti somiglianze con i sistemi federali.
Nel quadro complesso di dinamiche e tendenze brevemente delineato, questo volume, pensato per gli studenti ma indirizzato anche ad un pubblico più allargato, si propone almeno tre scopi. Innanzitutto, chiarire alcuni concetti fondamentali, posti al centro del dibattito sulle riforme istituzionali, che risultano spesso confusi fra loro: regionalismo, federalismo, decentramento e devoluzione. Secondariamente, fare il punto sulle riforme del regionalismo italiano, tanto quelle recentemente operate quanto quelle ancora in discussione, cogliendo gli elementi che avvalorano e quelli che contrastano la tesi di una trasformazione federale. Infine, ricondurre tali riforme al contesto comunitario, soffermandosi sui diversi regionalismi oggi presenti in Europa e sul rapporto fra le Regioni e l’Unione Europea.
Il volume è organizzato nel modo seguente. Il primo capitolo analizza le principali forme di regionalismo, i fattori che guidano i processi di regionalizzazione e le dinamiche in atto nei paesi che aderiscono all’Ue. Il secondo capitolo è dedicato ad un analisi del federalismo al fine di cogliere gli elementi di sovrapposizione e quelli di distinzione con il regionalismo, arrivando a costruire un quadro concettuale utile all’interpretazione delle tendenze in corso nei principali paesi europei. Il terzo e quarto capitolo si soffermano sul regionalismo italiano, di cui analizzano le più importanti riforme all’insegna del federalismo. L’interno è quello di comprendere i cambiamenti intervenuti ma anche i nodi critici che rallentano il processo di federalizzazione avviato alle riforme. Il quinto capitolo, infine, ricostruisce il rapporto fra le Regioni e l’Ue con particolare riferimento alla politica di coesione, alle forme di cooperazione e ai canali di partecipazione regionale alla decisione europea. Esso completa l’analisi del caso italiano con una breve trattazione dell’esperienza europea delle nostre Regioni.

Capiolo 1.
Il regionalismo e le sue forme

L’emergere del regionalismo, ovvero lo sviluppo di riforme che hanno cambiato l’organizzazione degli Stati unitari orientandola verso una nuova forma di decentramento, rappresenta una delle trasformazioni più incisive sperimentate dalle democrazie contemporanee nel corso degli ultimi cinquant’anni. Si tratta di una tendenza comune alla maggior parte dei paesi europei che risponde a nuove esigenze imposte dalle politiche pubbliche, sia nazionali che europee, e, parallelamente, al bisogno di affermare nuovi valori e orientamenti politici.

Il processo di integrazione europea rafforza le motivazioni di policy sottese  ai processi di regionalizzazione in quanto l’elaborazione e l’attuazione delle politiche comunitarie solleva sempre più frequentemente la necessità  di coinvolgere governi di livello meso. In particolare, a partire dall’Atto Unico europeo (1986), la gestione dei fondi strutturali e l’avvio della politica di coesione spingono a modificare le modalità di intervento in materia di sviluppo, recuperando e valorizzando il ruolo delle Regioni. La politica di coesione, volta a superare gli squilibri socio-economici fra i territori dell’Unione al fine di facilitare il processo di integrazione europea, riconosce infatti nella dimensione regionale l’ambito ottimale per la programmazione degli interventi, la gestione ed il monitoraggio dei progetti, l’aggregazione degli interessi e il dialogo con le istituzioni e gli attori economici presenti sul territorio.

Ma in Spagna, come in Belgio, e nel Regno Unito, la natura del regionalismo e l’avvio delle politiche di devoluzione, oltre l’affermazione di valori democratici, mira a rispondere ad istanze e pressioni legate alla presenza di identità territoriali specifiche, di matrice storico-culturale. Il riferimento va alle Regioni di Catalogna, Paese Basco e Galizia, ma anche a Scozia, Galles e Irlanda del Nord, e pure alle Comunità belghe Vallone e Fiamminga.

La costruzione dello Stato sul piano istituzionale e territoriale (state-bulding) procede cioè parallelamente alla costruzione della nazione sul piano identitario e culturale (nation-bulding) al fine di assicurare la formazione di un’entità politica coesa e unitaria. In alcuni paesi, il processo di nation-bulding ha però incontrato difficoltà e non è riuscito a smussare identità e tradizioni preesistenti che si sono mantenute nel corso dei secoli, dando vita a regioni fortemente connotate in senso culturale. In tali casi si struttura un conflitto centro-periferia con regioni che rivendicano un’identità propria, mai completamente integrata in quella dello Stato. Tale conflitto alimenta tensioni e può diventare la base di una mobilitazione territoriale che, attraverso lo sviluppo di movimenti regionalisti, rivendica il diritto all’autonomia delle periferie.

In questa fase, si rafforza  la dimensione economica delle identità territoriali, la quale però non riguarda più solo le regioni arretrata ma anche, e soprattutto, quelle avanzate. La pressione delle aree ricche entra a pieno titolo fra i fattori della regionalizzazione: sono le regioni più ricche a mobilitarsi maggiormente, rivendicando il diritto di partecipare alle scelte dei governi superiori o di gestire in autonomia le proprie risorse al fine di evitare politiche troppo penalizzanti per il loro sviluppo a sostegno delle aree più arretrate.

Tuttavia, affinché le identità  territoriali operino come effettivi fattori di regionalizzazione, occorre che vengano mobilitate da movimenti o partiti che si organizzano intorno alla frattura che marca la distanza fra le periferie ed il centro nazionale.
I partiti regionalisti, l’espressione più organizzata del regionalismo come ideologia, sono formazioni politiche la cui principale caratteristica  è quella di  rappresentare gruppi territorialmente concentrati, che affermano di costituire una categoria sociale a sé, in quanto dotati di una identità specifica e unica basata su una comunanza di lingua, cultura, storia e territorio.

A seconda del grado di radicalità del loro programma, i partiti regionalisti sono stati classificati in quattro categorie principali. 1) i partiti protezionisti, orientati alla difesa delle identità culturali delle comunità rappresentate, per le quali si chiede autonomia linguistica e, talvolta, il rispetto del bilinguismo all’interno dello Stato (es. Svenka Folkpartiet); 2) i partiti autonomistici, che chiedono condizioni speciali di autonomia  politica per la propria regione, rispettandone le peculiarità storiche ed economiche (es. CiU, Sudtirolen Volkspartei, Partito sardo d’azione); 3) i partiti federalisti, che pur perseguendo l’autonomia del proprio territorio intendono inserirla in un più ampio progetto di riforma dello Stato in senso federale (es. Lega Nord, alcuni partiti belgi); 4) i partiti separatisti che lottano per la piena indipendenza della loro regione, senza subordinazione alcuna alle istituzioni statali, indicando come fine ultimo la secessione (es. Esquerra repubblicana di Catalogna, alcuni partiti baschi).

Ma anche fra le Comunità Autonome di livello superiore ci sono differenze: i Paesi Baschi possiedono una totale autonomia fiscale; la Catalogna vanta alcune competenze speciali in materia di sicurezza e trasporti; entrambe queste Regioni, insieme con la Galizia, hanno potere esclusivo in materia linguistica. Pure l’Italia possiede un regionalismo asimmetrico: si tratta delle cinque Regioni a statuto speciale (Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige, Friuli-Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna), le prime ad essere istituite in risposta alla presenza di minoranze linguistiche e, contestualmente, a condizioni arretrate di sviluppo economico.

La presenza di numerosi partiti regionalisti, organizzati nella maggior parte delle Comunità autonome, rafforza la natura negoziale del regionalismo, operando affinché ciascuna Regione possa ambire a livelli sempre maggiori di autonomia. La particolarità dell’esperienza  spagnola è che, ad eccezione delle comunità storiche, i partiti regionalisti non preesistono al processo di regionalizzazione ma si sviluppano contestualmente ad esso. Essi hanno concorso a potenziare il decentramento, spingendolo oltre le previsioni originarie, attraverso la mobilitazione delle periferie e lo sviluppo di nuove identità territoriali.

Manca un ultimo tipo, non ancora esaminato, di governo regionale in Europa: quello delle Regioni federate, con riferimento ai casi di Austria, Belgio e Germania. Si tratta sempre di governi di livello meso i quali però, oltre a godere di piena autonomia politica, possiedono ampie garanzie costituzionali che trasformano il loro rapporto con lo Stato centrale: non più decentramento bensì federalismo. Al rapporto fra il regionalismo ed il federalismo è dedicato il prossimo capitolo.

Capitolo secondo
Regionalismo e federalismo

Il federalismo, come il decentramento, è un principio istituzionale per l’organizzazione territoriale del potere, finalizzato alla ripartizione delle risorse di governo sul territorio, ma poggia su meccanismi diversi e appartiene ad un’altra tradizione di Stato. Mentre il decentramento, come fenomeno storico, si sviluppa all’interno del modello unitario di Stato, il federalismo nasce con la Costituzione americana la quale dà vita ad una diversa forma di Stato che si contrappone a quella tradizionale europea. Sebbene storicamente contrapposti, il decentramento e il federalismo trovano nel regionalismo aree di sovrapposizione che ne sfumano i tratti distintivi. Con le politiche di devoluzione si afferma infatti lo Stato regionale, che si allontana dal modello unitario, avvicinandosi a quello federale.

Il neo-regionalismo, l’etichetta coniata per definire il fenomeno, presenta dinamiche e assetti innovativi di natura federale, che rendono sempre più difficile la distinzione con il federalismo. Parallelamente, dall’esperienza tedesca fino a quella belga, anche il federalismo ha conosciuto evoluzioni e trasformazioni rispetto al prototipo americano, al punto che oggi si presenta come un principio flessibile e dinamico di organizzazione territoriale del potere, non riconducibile ad un unico modello istituzionale.

2.1 Il federalismo: modelli e garanzie
Il federalismo, nella sua forma istituzionale moderna, nasce con la Costituzione americana del 1787. Come noto, nel 1776, le tredici colonie britanniche del continente americane si dichiarano indipendenti dalla madrepatria e danno vita ad una Confederazione. Nel 1787, in seguito ai lavori della Costituente di Filadelfia, si approva la Costituzione che trasforma l’assetto confederale in Stato federale.

La distinzione fra patto confederale e patto federale risiede allora nella cessione di potere sovrano, inteso come potere originario, da esercitarsi in rapporto diretto con la cittadinanza . La federazione, o Stato federale, diversamente dalla confederazione, può dunque agire in piena autonomia, a prescindere dalla volontà di volta in volta accordata dalle entità costituenti, attraverso proprie leggi che hanno immediata  applicazione ed il finanziamento delle proprie attività mediante il prelievo fiscale.

A partire da tali premesse, come possiamo definire il federalismo? Daniel Elazar, uno dei massimi studiosi del federalismo come quel principio che unisce polities, intese come entità politiche dotate di poteri propri e istituzioni  autonome, nell’ambito una polity più ampia, secondo modalità che consentono di garantire l’esistenza e l’integrità di entrambi i livelli, ovvero modalità che impongono a ciascun livello il rispetto dell’autonomia dell’altro, impedendo situazioni di dominanza.
A questo riguardo, le federazioni contemporanee mostrano due diversi modelli di ripartizione delle competenze: duale e cooperativo.
Il modello duale, detto anche della separazione, vigente nelle federazioni americana, canadese, australiana e belga, incarna pienamente questa garanzia in quanto si basa sulla natura esclusiva delle competenze ripartite.

Anche in risposta a simili evoluzioni sperimentate dalle federazioni duali, in Europa si afferma un diverso modello federale, definito cooperativo, abbracciato dai più recenti federalismi tedesco e austriaco.

La rappresentanza territoriale può assumere forme diverse, con riferimento ad almeno tre dimensioni: 1) le modalità di designazione dei rappresentanti; 2) la ripartizione dei seggi fra le entità federate; 3) i poteri attribuiti alla camera territoriale rispetto a quella rappresentativa del demos.
La designazione dei rappresentanti può avvenire in due modi: a) per elezione, diretta o indiretta, da parte della cittadinanza, come nel caso dei senatori americani eletti dai cittadini degli Stati; b) nomina da parte dei governi federati, come nel caso tedesco dove i rappresentanti sono espressi dagli esecutivi dei Lander.

Deve infatti procedere alla costruzione di garanzie volte a trasformare un ordine statale precostituito e consolidato, rendendo necessaria la ricerca di un ampio consenso politico. Tutto ciò difficilmente può compiersi nell’arco di una legislatura, necessitando di lunghi tempi per poter essere assimilato. Per quanto riguarda poi le motivazioni che spronano il processo di federalizzazione, esse non sono più quelle di “unirsi”, bensì quelle di “restare uniti” nell’ambito di uno stato che da unitario si trasforma in federale. In altri termini, diversamente dai processi di federalizzazione associativa, le motivazioni non sono quelle di preservazione di una condizione di autogoverno (self-rule) nel quadro di un nuovo governo condiviso (shared-rule), ma di acquisizione di tale status nell’ambito di un assetto profondamente trasformato, in cui il potere centrale viene ridimensionato e il rapporto storico fra il centro e la periferia ridefinito. Sarà allora la diversità dei territori che compongono l’assetto unitario, la loro esigenza di tutela e di espressione oppure la necessità di assicurare politiche differenziate, a guidare il processo, giustificando la trasformazione del sistema da unitario a federale. Non a caso l’esperienza storica mostra come la federalizzazione devolutiva sia più frequente laddove esistono profonde fratture fra il centro e la periferia di ordine religioso, linguistico, etnico, che dividono lo Stato e alimentano spinte centrifughe.

Il federalismo per gradi rappresenta una nuova prospettiva che consente di interpretare alcune fra le più recenti trasformazioni sperimentate dagli Stati unitari, con particolare riferimento a quelli di regionalismo avanzato come l’Italia oppure la Spagna. Essa offre un quadro analitico all’interno del quale ricondurre gli elementi di natura federale oggi presenti nell’evoluzione del regionalismo, per i quali è invalsa la definizione di “non-regionalismo” o “federo-regionalismo”.

Vanno poi segnalate alcune forme innovative di rappresentanza territoriale che stanno conoscendo sempre maggiore sviluppo nei sistemi di regionalismo avanzato. La crescente interpretazione fra le competenze statali e regionali, con la difficoltà a tenere separate le responsabilità dell’uno e dell’altro livello, ha sollevato la necessità di predisporre, sull’esempio dei sistemi federali, strutture di raccordo intergovernativo, allo scopo di facilitare lo scambio di informazioni fra i due livelli, nonché il coordinamento dell’azione di governo nella realizzazione di politiche pubbliche. Tali strutture, denominate conferenze intergovernative, si sviluppano nel comparto amministrativo dell’azione pubblica e vedono rappresentati sia dei ministeri centrali, che degli esecutivi regionali.

Esistono infine alcuni canali politici di accesso e partecipazione regionale alla decisione nazionale, rappresentati in primis dai partiti regionalisti, i quali hanno conosciuto una crescente affermazione in molti paesi europei. Qualora questi partiti arrivino ad avere propri rappresentanti nel parlamento nazionale, essi consentono di portare gli interessi regionali nel processo legislativo centrale.

Simili evoluzioni hanno accresciuto le somiglianze fra i sistemi regionali e quelli federali. Oggi le Regioni possiedono competenze legislative esclusive, hanno sviluppato canali di accesso al processo decisionale nazionale, veicolando e difendono i propri interessi presso le istituzioni centrali, godono di forme di autonomia finanziaria, sono tutelate da arbitri costituzionali e spesso rappresentate da partiti radicati sul loro territorio.

I federalismi europei
I federalismi europei possono essere distinti in federalismi consolidati (Austria e Germania), nuovi federalismi emergenti (Spagna, Italia e, per certi versi, Regno Unito). Solo nei primi due casi parliamo di federazioni compiute, mentre nell’ultimo abbiamo sistemi regionali avanzati che stanno sperimentando processi di federalizzazione.

Oggi la Spagna si presenta come uno Stato articolato in diciassette Comunità autonome che per molti versi opera già come un sistema federale. Le Comunità godono di piena autonomia politica, amministrano settori importanti dell’intervento pubblico, pari a oltre 1/3 della spesa pubblica complessiva, possiedono ampio potere legislativo, in taluni settori anche esclusivo, e si finanziano in buona misura con entrate proprie.

Capitolo 3
Regionalismo e federalismo in Italia

Il regionalismo italiano è stato caratterizzato fin dalle origini da non poche debolezze che hanno rischiato di tradirne la natura politica, relegando le Regioni ad un ruolo meramente amministrativo.

Prevalsero invece le ragioni del centralismo e dell’uniformità  amministrativa. Il modello piemontese, di origine napoleonica, venne esteso a tutto il territorio, strutturando il rapporto centro-periferia sulla base del principio gerarchico, grazia ad una rete capillare di controlli operati dai preferiti. Venne avviata una stagione di politiche orientate all’omogeneizzate dei territori al fine di superare le preesistenti diversità e costruire le basi per una identità nazionale condivisa.

La costituzione del 1948, indubbiamente innovativa, sancisce la nascita di uno Stato regionale quale variante dello Stato unitario, prima esperienza compiuta in Europa. Si tratta di una soluzione di compromesso che, rifiutando l’opzione federalista, istituisce Regioni autonome dotate di potere legislativo, sebbene limitato ad un elenco predefinito di materie concorrenti e assoggettato al controllo centrale.

Ma la vera debolezza originaria del regionalismo italiano trova espressione nella previsione, accanto alle quindici regioni originarie, di cinque Regioni a statuto speciale (art.116), riconosciute tali per la presenza di minoranze linguistiche, identità storiche e/o condizioni arretrate di sviluppo. Sono le Regioni dove si erano già prodotte mobilitazioni a sostegno dell’autonomia, ovvero Valle d’Aosta, Trentino Alto Adige (articolata nelle province autonome di Trento e Bolzano), Friuli Venezia Giulia, Sicilia e Sardegna.

La Regioni ordinarie conoscono un’attuazione tardiva e parziale. Vengono istituite solo nei primi anni ’70 e con poteri insufficienti a consentire l’operatività : pochissime  sono le competenze devolute, senza le risorse amministrative e finanziarie necessarie al loro esercizio e in assenza di una contestuale riforma degli apparati amministrativi centrali per le competenze trasferite.

La distanza fra le Regioni speciali e quelle ordinarie si riduce per quanto riguarda le competenze, ma permane in merito agli aspetti fiscali, alle modalità di esercizio del potere legislativo e al rapporto con gli enti locali.

Nei primi anni ’90, l’80% circa delle entrate finanziarie delle Regioni ordinarie è ancora rappresentato da trasferimenti statali vincolati, privando i governi regionali non solo di risorse proprie ma anche della discrezionalità di spesa; per Regioni a statuto speciale, invece, il 60% circa è costituito da compartecipazioni ai tributi erariali e, sebbene in misura contenuta, da forme di tassazione autonoma, consentendo una maggiore libertà nel finanziamento e nello sviluppo di politiche proprie.

Le debolezze originarie, i ritardi attuativi, la ridotta autonomia legislativa e fiscale, l’uniformità amministrativa, sono tutti fattori che alimentano la crisi del regionalismo italiano, il quale, nella sua evoluzione complessiva, non giunge mai a proporsi come un’alternativa convincente al centralismo statale. Tale crisi, sempre più manifesta a partire dalla metà degli anni ’80, si esprime anche nel rapporto con gli enti locali. Le Regioni speciali vantano, fin dall’approvazione dei loro statuti, competenze di ordinamento locale che la legge costituzionale 2 del 1993 trasforma in potestà legislativa esclusiva, dove le entità federate sono libere di organizzare l’amministrazione nei loro territori, disciplinando le competenze e le risorse dei governi locali.

Le riforme
Nel corso degli anni ’90, l’affermazione della Lega Nord, un partito regionalista che propone la trasformazione federale dell’ordinamento italiano facendosi portatore di istanze ed interessi del Nord-est del paese, richiama l’attenzione dell’opinione pubblica sulla crisi del regionalismo italiano ed avvia un dibattito politico che coinvolge un numero crescente di partiti, istituzioni e settori della società civile.

Il decentramento previsto dalla riforma Bassanini conosce attuazione attraverso una serie di decreti legislativi, in buona misura negoziati nelle sedi delle conferenze intergovernative, che trasferiscono a Regioni ed enti locali ampie competenze amministrative nei settori di: agricoltura, foreste, caccia e pesca (d.lgs 143/1997); trasporto pubblico locale (d.lgs 422/1997); mercato del lavoro (d.lgs 469/1997); sviluppo economico territoriale, attività produttive, ambiente, infrastrutture, servizi alla persona e alla comunità (d.lgs 112/1998); commercio (d.lgs 114/98).

Complessivamente, vengono trasferite 22.872 unità di personale (5.732 nell’area delle attività produttive; 9.861 nell’area del territorio, ambiente e infrastrutture e 7.279 nell’area dei servizi alla persona e alla collettività); 15.593,4 miliardi di risorse finanziarie una tantum (6.796,4 nell’area delle attività produttive e 8.797 circa in quella del territorio, ambiente e infrastrutture); 16.719,2 miliardi di risorse finanziarie annue (2.121,4 nell’area delle attività produttive; 7.482,4 nell’area del territorio, ambiente e infrastrutture e 7.108,4 nell’area servizi alla persona e alla collettività).

La vera riforma all’insegna del federalismo fiscale avviene però con il d.lgs 56/2000, sulla base della legge delega 133/99, il quale prevede l’abolizione della quasi totalità dei trasferimenti statali vincolati, sostituendoli con la compartecipazione ai più importanti tributi erariali, quali l’Iva, l’accisa sulla benzina e l’Irpef. Grazie alle riforme si passa da un sistema di finanziamento regionale di natura derivata, basato prevalentemente su trasferimenti statali vincolati, ad uno che, analogamente alle modalità di finanziamento delle Regioni a statuto speciale, poggia sulla compartecipazione regionale ai grandi tributi statali.
Le riforme costituzionali
Per quanto riguarda il processo di revisione costituzionale, la l.c. 1/1999 introduce importanti novità. Innanzitutto, l’elezione diretta dei Presidenti delle Regioni, i c.d. governatori, al fine di rafforzare la leadership e rendere più stabili le istituzioni di governo regionale. Mentre prima, secondo il modello parlamentare che vede l’organo di Giunta legato a quello consiliare, gli esecutivi regionali risultavano instabili date le numerose crisi che si sviluppavano fra i primi partiti di maggioranza, oggi, grazie alla riforma, di ispirazione presidenziale , i vertici dell’esecutivo sono legittimati direttamente dalla cittadinanza e risultano più autonomi rispetto ai consigli regionali.

Il processo prosegue l’approvazione della l.c 3/2001, nota come riforma del Titolo V, parte seconda, della Costituzione. La legge viene approvata l’8 marzo 2001, ma, non avendo ottenuto la maggioranza qualificata richiesta, la sua validità  viene subordinata al referendum confermativo che si tiene il 7 ottobre 2001 con esito favorevole. Si tratta di una riforma molto importante, che avvia un nuovo processo di devoluzione ed introduce maggiori garanzie per l’autonomia regionale, facendo compiere passi significativi lungo la strada del federalismo.
Innanzitutto, essa prevede l’inversione del criterio di riparto nella funzione legislativa, con l’elencazione delle competenze riservate allo Stato e l’attribuzione dei poteri residuali alle Regioni.

Il principio di rappresentanza territoriale, introdotto dalla riforma trova affermazione anche in relazione all’Ue. Il nuovo art. 117 (comma 5) prevede infatti il diritto delle Regioni a partecipare alla c.d. “fase ascendente” del diritto comunitario ovvero alle decisioni volte alla formazione degli atti normativi europei, nelle materie di loro competenza, sebbene nel rispetto di procedure da stabilirsi con legge statale.

Nodi critici di un processo di federalizzazione
La stagione di riforme avviata nella seconda metà degli anni ’90, tanto sul piano ordinario quanto su quello costituzionale, porta ad un rafforzamento del regionalismo italiano, da tempo in crisi, e ad un suo rilancio in chiave federale. Le Regioni recuperano un ruolo di indirizzo politico nel governo del territorio con particolare riferimento ai poteri di regolazione nei confronti dei governi locali, assumono nuove competenze, superano il principio di parallelismo che limitava la loro azione nel processo di attuazione delle politiche  nazionali, acquistano la generalità della funzione legislativa, con materie esclusive, ottengono autonomia statuaria, sviluppano canali di accesso alla decisione nazionale, riducono la dipendenza finanziaria dallo Stato e, infine, grazie anche all’azione di partiti regionalisti come la Lega Nord ma soprattutto alle nuove opportunità offerte dalle riforme, sviluppano forme di mobilitazione bottom up, assumendo nuovi protagonismi nell’arena politica  nazionale.
Riprendendo i concetti illustrati nel secondo capitolo, è allora possibile osservare come le riforme, soprattutto quella del Titolo V della Costituzione, pure non portando alla nascita di una federazione, abbiamo avviato un processo di federalizzazione. In particolare, nei suoi più recenti sviluppi, il regionalismo italiano è divenuto federo-regionalismo, prefigurando una graduale, sebbene non certa, evoluzione federale. A questo riguardo esistono però alcuni nodi critici che dovranno essere sciolti se è la via del federalismo quella che il riformatore intende percorrere fino in fondo.
Innanzitutto, il nuovo art.114, che apre il Titolo V ed indica la forma di Stato prescelta, non abbraccia un modello federale. Si tratta di un articolo piuttosto originale nel panorama delle costituzioni europee, che ha sollevato non poche perplessità, il quale lascia prefigurare uno Stato delle Autonomie dove tutti gli enti territoriali in cui si riparte ed è costituita la Repubblica – Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e lo stesso Stato – vengono posti su un piano di parità istituzionale. Diversamente dalle costituzioni federali, dove, come visto, il potere e le garanzie sono ripartite fra due ordini di governo, la riforma del Titolo V della costituzione riconosce garanzie anche alle autonomie locali, equiparandole alle Regioni. Si delinea dunque una architettura multi-polare, dove enti di livello diverso acquistano un medesimo status istituzionale, ben lontana dall’assetto bi-polare classico del federalismo, dove invece il rapporto federale lega i soli governi di rango regionale al governo nazionale, mentre gli enti locali risultano essere articolazioni amministrative di competenza regionale. L’equiparazione fra governi locali e regionali non è solo enunciata nell’art. 114, ma ricorre in altri punti del nuovo Titolo V, per esempio in materia di autonomia finanziaria (art.119) e nella rappresentanza in seno alla Commissione bicamerale per le questioni regionali. E’ vero che i governi locali non possiedono potere legislativo e, in tal senso, non si propongono come polities “federalizzabili” alla pari delle Regioni. Tuttavia, il nuovo Titolo V offre loro ampie garanzie: oltre quelle già citate, un potere regolamentare (art.117, comma 6) e la generalità delle funzioni amministrative in base al principio di sussidiarietà (art.118). D’altro canto la stagione delle riforme ordinarie degli anni ’90 rafforza  non solo il regionalismo ma, parallelamente, anche gli enti locali. In tal senso, il nuovo Titolo V conferma assetti e tendenze già presenti nell’ordinamento. Dalla legge 142/90 fino al Testo Unico degli Enti Locali (d.lgs 267/2000), non poche leggi procedono al conferimento di sempre maggiori poteri ai governi locali, i quali si presentano oggi come autonomie territoriali a tutti gli effetti, partecipando, alla pari delle Regioni, ai processi di negoziazione con lo Stato centrale nella sede della Conferenza Unificata. Mentre secondo il modello federale le Regioni dovrebbero essere l’unico interlocutore dello Stato, con competenza esclusiva sugli enti locali, nell’attuale assetto italiano esse risultano esserlo insieme con i governi locali, senza inserirsi pienamente nel canale di relazione diretta fra questi e lo Stato, date le competenze di ordinamento locale che lo Stato mantiene e non conferisce alle Regioni, (art.117, comma 2). Per la Repubblica delle Autonomie delineata dal nuovo art.114 risulta quindi difficile prefigurare un’evoluzione pienamente federale, salvo ipotizzare modelli originali di federalismo che prospettino una federalizzazione a tre punte.
Una trasformazione compiutamente federale necessita poi dell’istituzione di una camera territoriale, al fine di consentire alle entità federate una stabile rappresentanza nel processo legislativo statale.

Una riforma del Senato in senso territoriale rafforzerebbe questo riconoscimento, dando stabile rappresentanza alle Regioni nel decision-making centrale. Essa dovrebbe tuttavia risolvere il problema di quali autonomie rappresentare: solo le Regioni, seguendo i modelli federali consolidati, o anche le autonomie locali, secondo il modello di Stato delineato dal nuovo art.114?

L’Italia e il federalismo
Senza una riforma del Senato che assicuri una rappresentanza delle Regioni nel processo decisionale nazionale risulta difficile prospettare il completamento della federalizzazione italiana. Si tratta infatti dell’attributo che, come visto, più di altri consente ancora di distinguere fra sistemi federo-regionali e federazioni compiute. In tal senso, rimane uno dei nodi più critici delle riforme italiane sul quale le forze politiche saranno chiamate e a confrontarsi, sempre che la trasformazione compiutamente federale dell’ordinamento sia la strada che si intende effettivamente perseguire.

In secondo luogo, il problema dei costi delle politiche di devoluzione. Ipotizzare un ampio decentramento a costo zero appare infatti utopistico. Inevitabilmente esso comporta il proliferare di apparati e strutture e l’aumento complessivo del pubblico impiego.

Infine, in Italia non si sono consolidate le forze o le motivazioni a sostegno del progetto federale. D’altro canto, mancano quelle fratture religiose, etniche e linguistiche che generalmente operano come motore principale della federalizzazione devolutiva. La principale frattura italiana, quella economica fra il Nord e il Sud, non necessariamente giustifica una compiuta trasformazione federale, potendo trovare soluzione anche in un rafforzamento dell’assetto regionale vigente. Il  confronto con la Spagna può risultare, ancora una volta significativo. Esiste infatti una differenza non trascurabile fra il caso spagnolo e quello italiano. In Spagna, nel corso dei venticinque anni di vita dello Stato delle Autonomie, si sono sviluppate e radicate forti identità regionali, anche nei territori privi di radici o tradizioni storiche. E quasi ovunque sono nati partiti regionalisti che hanno concorso a difendere, consolidare e mobilitare queste identità, operando come fattori importanti di federalizzazione. Un fenomeno simile non si è prodotto in Italia, dove le isituzioni regionali restano in buona misura assoggettate alla politica nazionale.

Ne consegue che salvo la Lega Nord, non risultano esistere attori politici territoriali in grado di tenere vivo il motore delle riforme e l’entusiasmo federalista. Le Regioni stesse non sembrano avvertire la necessità di contemplare la trasformazione federale, arrivando a manifestare un profondo dissenso nei riguardi del progetto di riforma sottoposto a referendum costituzionale.







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