venerdì 13 gennaio 2012

libro brunetta sud

SUD
Renato Brunetta

PREFAZIONE
Ma io credo pure, che gli uomini sian tanto meno feroci quanto meno sono poveri, che i progressi della in­dustria avranno per effetto un raddol­cimento di costumi, e un botanico mi ha detto che il biancospino, se traspor­tato da un terreno secco in uno grasso, dà per ogni sua spina, un fiore.
Giustino Fortunato (1911)

Ogni libro sull'arretratezza del nostro Sud do­vrebbe essere l'ultimo. Questo, invece, è il mio secondo, e ciò segnala un evidente fallimento della politica. Un fallimento, però, che è dovuto più alle cose non latte che a quelle fatte, più agli errori d'omissione che a quelli d'azione. Rileggendo il lavoro di quattordici anni fa (Brunetta 1995) mi sono reso conto che le idee messe a punto allora sono ancora valide, che l'impian­to riformista con il quale si pensava di affrontare il problema non ha perso nulla del suo valore. Certo, non si chiede all'oste se il vino è buono e un autore non è il miglior giudice delle cose che scrive, ma chi, come me, vive intensamente l'impegno civile e politico ha anche il dovere di non arrendersi. Se le idee sono buone, si ha il dovere di difenderle e rilanciarle.
Ci accingiamo a festeggiare i cento cinquanta anni dall'Unità d'Italia, che sono anche cento cinquanta anni di «questione meridionale». O ci rassegniamo a tenercela per sempre, considerando la una specie di caratteristica nazionale, quasi un dato del paesaggio, oppure la ricorrenza può esserci utile per dire: ora basta. Aggiungerei: uno dei modi più degni per ono­rare l'Unità, che è un bene da conoscere e preservare, è proprio quello di non considerarla il forziere dell'ar­retratezza meridionale, ma la condizione per superar­la, per farla entrare fra le cose di cui parla la storia, cancellandola da quelle che scontano i contemporanei.
La possibilità c'è, concreta, a portata di mano. Per coglierla occorre ragionare con una mentalità nuova, non commettendo i numerosi errori del passato. Se ripercorriamo sempre la stessa via, quella ci porta sempre nello stesso posto. E siccome la meta non ci piace, ci costa e umilia tanti nostri concittadini meri­dionali, è ora di cambiare strada.
Per prima cosa si deve collocare il nostro Sud non solo nel contesto nazionale, ma in quello europeo e globale. Dobbiamo aprire gli occhi e allargare la mente, in modo da cogliere tutte le opportunità che lo svilup­po economico offre. Sia per collocazione geografica che per vocazione culturale, il Sud ha la possibilità d'essere non più un costo, ma un'opportunità. Sia per il nostro Nord, che per l'Europa.
Dopo il crollo del Muro di Berlino si sono sposta­te le frontiere europee e aperti nuovi mercati. E’ stato un salto di civiltà, ma anche un buon affare. Si tratti, ora, di far cadere il «muro Mediterraneo», aprendo la riflessione sul nostro sviluppo a un quadro internazio­nale che si modifica e che offre preziose opportunità.
Per coglierle, però, abbiamo il dovere di superare intollerabili arretratezze interne. Nessun popolo, nes­suna regione del mondo, può sperare di crescere eco­nomicamente se conserva i mali tipici di un diritto non certo. Nel Sud ce ne sono tanti, per non dire tutti: dalla mancante sovranità territoriale dello Stato, in molte zone dove la legge è quella dei fuorilegge, a una fisca­lità pesante per gli onesti e incapace di sanzioni per chi la tradisce; da un mercato del lavoro che pretende di far valere regole lontane dalla realtà, ottenendo solo la fioritura del mercato nero, al credito erogato con il conta gocce agli onesti, che scontano la sola colpa di trovarsi in zone considerate rischiose, perché lo Stato non riesce a colpire i disonesti. Questi mali abbiamo il dovere di prenderli di petto, senza considerarli immo­dificabili, senza avere il timore di irritare potentati irregolari, o egoismi campanilistici.
Abbiamo anche il dovere della chiarezza, conqui­stata utilizzando un linguaggio non consolatori o e per ciò stesso connivente. Una larga fetta di famiglie meri­dionali (come in altre parti d'Italia, del resto) si è abi­tuata a vivere di trasferimenti pubblici, di soldi spesi dallo Stato e che non producono servizi utili. Questa ricchezza dilapidata crea sopravvivenza per l'imme­diato e povertà per il futuro. Abbiamo sistemato i nonni, abbiamo soddisfatto i padri, ora rischiamo di fregare i figli, mettendo tutto in conto ai nipoti. Si sommano, quindi, egoismi generazionali e timori politici, con il risultato di pagare caro un galleggiamento sempre più precario, mettendo nel conto un sicuro naufragio futuro. Può darsi che non sia popolare, dirlo in questo modo, può darsi che non sia gradito, a molte orecchie, questo linguaggio ruvido. Ma, mi domando: è forse popolare la rovina economica? È popolare la dipendenza dai criminali? È popolare il prendere in giro? Credo siano tutte delle false popolarità, alimen­tate da una mitologia che ha uno scopo preciso e immediatamente cogente: protrarre il più possibile l'attuale stato di cose, perché corrivo agli interessi dei gruppi che guardano alla spesa pubblica come a una mucca da mungere, a scopo di profitto personale, piuttosto che come a una leva con cui scardinare l'ar­retratezza e favorire lo sviluppo.
Questo libro vuol dimostrare che cambiare si può, e si deve. Che non c'è alcuna ragione per cui il passa­to non debba definitivamente passare. Che l'attesa del futuro non deve essere una non attività, ma, al contra­rio, l'impegno quotidiano a compiere scelte e realizza­re cambiamenti che quel futuro facciano vivere nel presente. Ci sono ricette concrete, indicazioni imme­diate, sfide da cogliere già domani. Già oggi.
Mi auguro di non scrivere un terzo libro, su questi temi. Auspico che si sappia superare una condizione che, oramai, si protrae da troppo tempo. Ciò non significa, nel modo più assoluto, che sia disposto a tacere nel caso, malaugurato, che anche le occasioni di oggi vadano perdute. Questo no, perché né il Sud né gli amici meridionali meritano che si coltivi, o anche solo accetti, la rassegnazione. È interesse loro, è inte­resse nostro, è interesse di tutti che la rivoluzione di oggi sia l'inizio di una nuova storia.
            Roma, ottobre 2009

RINGRAZIAMENTI
Chi decide di riprendere un lavoro già compiuto in passato e adeguarlo ai tempi ha bisogno di coraggio, di prudenza e anche di una piccola dose di umiltà. Bisogna riesaminare le proprie tesi, aggiornare la documentazione, proporre idee nuove. È, perfino possibile scoprire che tan­te situazioni non solo non sono cambiate, ma sono addi­rittura peggiorate. Con l'ulteriore dovere civile, a quel punto, di denunciare l'aggravamento del male e di indivi­duare le cure più appropriate. È quello che mi è accaduto quando ho deciso di misurarmi nuovamente con la gran­de questione del Sud, in un momento di così forte e rin­novato interesse, nel dibattito politico e culturale italiano, per una parte tanto importante e tanto trascurata della no­stra comunità nazionale.
Un lavoro di tale spessore, anche se si riesce a conte­nerlo in un volume di giuste proporzioni, è tanto più uti­le e completo se chi lo realizza si avvale dell'aiuto di altri per riflettere meglio, affacciarsi a finestre non ancora aper­te. Per questo aiuto ringrazio Anna Ceci, Antonio Cianci, Mariella Cozzolino, Mario Dal Co, Davide Giacalone, Luciano Hinna, Sergio Masini, Giovanni Tria e Leonello Tronti. Un grazie particolare va poi a Fortunato Lambiase per il supporto prestato, il suo contributo è stato prezioso. Caterina Guarna, Renzo T uratto e Marco Villani mi hanno fornito eccellenti spunti di riflessione. Anche a loro va la mia gratitudine.
La collaborazione e la pazienza di Stefania Profili so­no state determinanti, un sentito «grazie» anche a lei.
Desidero infine tributare un ringraziamento particola­re al prof. Gianni De Michelis. I suoi consigli sono stati, come sempre, illuminanti. Sono il frutto di una grande esperienza di vita e di passione civile.
Del prodotto finale - questo libro, scritto, meditato, ri­scritto negli spazi e nei tempi lasciati liberi dalla mia attività di governo - mi assumo ovviamente tutta la responsabilità.
Renato Brunetta

IL PERCHE’ DI UN FALLIMENTO

I.Una questione che viene da lontano
C'è fra il Nord e il Sud della peni­sola una grande sproporzione nel cam­po delle attività umane, nella intensità della vita collettiva, nella misura e nel genere della produzione, e, quindi, per gli intimi legami che corrono tra il be­nessere e l'anima di un popolo, anche una profonda diversità fra le consuetu­dini, le tradizioni, il mondo intellettua­le e morale.
Giustino Fortunato (1911)

Nord e Sud, convivenza difficile ma inevitabile
Il Sud ha un interesse vitale a restare agganciato all’europa, altrimenti è destinato a scivolare verso il caos e la povertà del continente sottostante. Non può farlo senza il Nord. Il  Nord ha un interesse non meno vitale ad accrescere il proprio peso nel Mediterraneo, bilanciando il vantaggio commerciale e cultura­le di altri paesi europei nei confronti dell'Est, o delle ex colonie africane. Non può farlo senza il Sud. Se guardiamo ai conflitti inforcando i soli occhiali delle convenienze immediate e locali, rischiamo veramente di dilaniare l'Italia, senza che nessuno ne tragga reale vantaggio. Chi ritiene che la meridionalità sia una spe­cie di marchio d'inferiore qualità, o d'autoctona parti­colarità, dimentica molte pagine di storia. E per que­sto un breve excursus storico su quello che è successo per tentare di capire perché è successo è estremamen­te utile. Però niente paura. Quella che segue non è l'ennesima ricostruzione storica della questione meri­dionale. Di questione meridionale si può parlare fa­cendo riferimento ai cambiamenti istituzionali, econo­mici e sociali conseguenti all'unificazione italiana, che fu poco più di un'operazione militare e istituzionale, con scarsa partecipazione popolare. Dopo l'unifica­zione il dibattito si indirizzò su due filoni contrappo­sti: il primo, a livello di opinione pubblica; il secondo, sul piano politico-intellettuale.
Per la prima metà delusa del paese - la metà me­ridionale - far parte del nuovo Stato italiano equiva­leva soltanto a maggiori tasse, rigidità amministrati­va, incapacità di capire e governare le diversità, leggi complicate e vessatorie. Al Mezzogiorno furono im­posti la legislazione e l'ordinamento amministrativo e fiscale piemontesi, con una sorta di unificazione normativa del tutto indifferente alle peculiarità strut­turali delle regioni del Sud (Saraceno 1961, cito in Ca­fiero 1992a).
Al momento dell'unificazione politica le necessità di bilancio spinsero il governo a preferire l'ordinamen­to fiscale più redditizio e, quindi, più gravoso: quello del Regno di Sardegna in aperto contrasto, special­mente, con quello del Regno di Napoli che, d'un tratto, si trovò a passare da un'imposizione fiscale leggera a una insopportabilmente pesante.
Inoltre l'unificazione doganale, realizzata sempre sulla base del modello del Piemonte liberale, finì per mettere in crisi la nascente industria meridionale (so­prattutto a Napoli) che aveva potuto contare, fino ad allora, su sistemi tariffari molto più protezionistici (si­no a quattro volte). In vero, la politica liberistica dei governi unitari colpì indiscriminatamente tutta l'indu­stria italiana (Bevilacqua 1993). Dogane leggere e tas­se pesanti dunque, tutto il contrario di quello che ser­viva alla fragile e povera economia meridionale.
Per l'altra metà degli italiani - la metà settentriona­le - aver unito il Sud al resto del paese significava ag­giungere ai problemi di un'industrializzazione e mo­dernizzazione comunque in ritardo rispetto al resto dell'Europa sviluppata, la povertà e l'arretratezza civile di un numero insopportabile di «concittadini» conside­rati poco meno che un peso morto, o addirittura come nemici del nuovo Stato unitario: si pensi alla dura repressione del brigantaggio, che causò più perdite uma­ne di tutte le guerre del Risorgimento messe insieme.

Le ricette dei meridionalisti e dei governi della «Terza Italia»
Un secondo filone di dibattito, invece, attiene alle riflessioni politico-culturali di una ristretta élite intellettuale, che tanto a Sud quanto a Nord si interroga con maggiore o minore concretezza sui problemi dello stare insieme, sulle responsabilità e sul che fare.
Sul fronte della riflessione politica, fin dai primi anni dell'unificazione, intellettuali come Pasquale Vil­lari, napoletano, o, un decennio più tardi, Leopoldo Franchetti, toscano, individuavano i mali del Mezzo­giorno nelle incomprensioni e nelle deficienze non so­lo del nuovo regime statale (Villari), ma nell'incapaci­tà della nazione di dare risposte efficaci.

Ma è con Giustino Fortunato che il Sud comincia a porsi come il problema di tutta la vita nazionale ita­liana. Nei suoi discorsi di deputato alla Camera, a partire dal 1880, comincia a delinearsi una precisa chiave di lettura che avrà, come vedremo, grande se­guito: quel1a del1'esistenza di due Italie: fisicamente diverse e quasi opposte, tanto nello sviluppo storico, quanto in quello economico.

Vi sono allora  due ltalie [ ... 1 non solo economica­mente disuguali, ma moralmente diverse: questo il vero ostacolo alla formazione di una sicura compaginc [ ... J. Oggi, fortunatamente, non è più chi derida i non molti che primi vollero, fu detto, regalare allo Stato italiano una qucstione meridionale: essa, anzi, s'impone ogni giorno di più alla considerazione di chiunque abbia a cuore le sorti dclla patria (Fortunato 1911).

La soluzione, nonostante tutto, doveva essere tro­vata nel mantenere il Sud unito al resto del paese. Due questioni pregiudiziali, che erano all' origine di tutti i guai, quella fiscale e quella doganale, espressioni della miopia e dell' egoismo protezionistico delle classi diri­genti tanto del Nord industriale quanto del Sud agri­colo, andavano però affrontate.
Solo dopo aver risolto tali questioni, lo Stato avreb­be potuto accingersi alla soluzione dei singoli problemi di arretratezza: le infrastrutture, la malaria, la viabilità, la scuola, l'esplosione demografica ecc. Giustino Fortuna­to rimase inascoltato: lo Stato proseguiva nella sua «po­litica» di legislazione amministrativa indistinta e di pub­blica sicurezza meramente repressi va, cosicché l'unica risposta sociale era nell' emigrazione sempre più intensa.
Mentre al Nord scoppiava la cosiddetta «questione sociale», sfociata nei moti milanesi de11898, al Sud con­tinuavano la stretta poliziesca e l'accentramento ammi­nistrativo e finanziario, anche in risposta alle sempre più Frequenti richieste di autonomismo regionale e comuna­le provenienti, soprattutto, dal socialismo siciliano.
Ma siccome le disgrazie non vengono mai sole, dal 1904 al 1908 il Sud fu colpito dai terremoti di Calabria, di Sicilia, cui il governo rispose con la politica delle cosidette «leggi speciali» (Basilicata, 1904; Calabria, 1906, Sicilia, 1907; Mezzogiorno, 1908-10), nascondendo così, sotto l'approccio della eccezionalità e della straordinarietà, la cattiva coscienza del proprio fallimento politico-amministrativo. Erano interventi mal finanziati e mal operanti, che si risolvevano in una somma di lavori pubblici e di provvedimenti amministrativi del tutto incapaci di risollevarc le sorti umane e civili delle popolazioni più povere.
Con l'unica eccezione, forse, della legge speciale per  Napoli del 1904, con la quale vengono promossi investimenti infrastrutturali (opere portuali e ferrovie) e introdotte esenzioni fiscali e doganali, nonché agevolazioni creditizie per favorire l'industrializzazione.
Era la Filosofia di Francesco Saverio Nitti secondo cui l'industrializzazione di un'economia arretrata, non si poteva far conto né sul libero gioco delle forze di mercato, né su una legislazione uniforme. Quella di Napoli fu un'eccezione, possibile perché, ancora una volta, con l'intervento speciale si erano saldati gli inte­ressi della ricca borghesia imprenditoriale del Nord con quelli dei proprietari terrieri del Sud, ampiamente rappresentati nel Parlamento nazionale.

Nasceva e si rafforzava in quella fase quel meccani­smo della rivendicazionc, prevalcntemente di opere pub­bliche, nei confronti dello Stato (accompagnata spesso da una recriminazione moralistica e indistinta sulla miseria e l'arretratezza del Sud) con cui i gruppi del ceto politico meridionale venivano costruendo i propri speciali stru­menti di mediazione fra bisogni collettivi del1e popola­zioni e il potere centrale, e al tempo stesso le proprie for­tune politiche ed elettorali (Bevilacqua 1993).

Con Gaetano Salvemini, e con la sua richiesta di suffragio universale, attuata poi da Giovanni Giolitti nel 1912, il dibattito si sposta sulla necessità di dare vo­ce politica alla grande massa di contadini poveri o nul­latenenti. I risultati delle elezioni che ne seguirono (1913) non furono tuttavia incoraggianti, tanto forte era il controllo sociale dell' oligarchia economico-poli­tica del Sud. La prima guerra mondiale si incaricherà di rinviare ogni ulteriore possibile evoluzione.
Nel dopoguerra la questione meridionale riappare in una nuova chiarezza ideologica e civile nei pro­grammi dei partiti, Il tema centrale è quello della par­tecipazione al potere, in regime di libertà, di giustizia tributaria e di certezza di lavoro delle classi popolari che ne erano state sempre effettivamente escluse, con accentuazioni più o meno anti-borghesi nel passare dal Partito popolare di Luigi Sturzo al Partito comu­nista italiano di Antonio Gramsci, con la variante autonomistica (ma sempre anti-borghese) di Guido Dor­so (DET 1970).

Dal fascismo alla Repubblica, tra risposte autoritarie e riforme incompiute
Lo stesso fascismo non poté ignorare l'esistenza di un problema meridionale, ma si rifiutò di considerarlo come problema politico. Il Sud avrebbe dovuto parte­cipare, come le altre parti del paese, della legislazione totalitaria del regime. La bonifica integrale (1923-28) doveva essere la strategia risolutiva. Ma i risultati furono sempre gli stessi: scarsi vantaggi per le classi diseredate, grandi profitti finali per i proprietari terrieri.
Cessata l'ondata migratoria con la crisi del '29, si pensò di porre rimedio al crescente sovrappopolamento del territorio nazionale in generale, e del Sud in particolare, con l'avventura imperiale, avviando, prima verso la Libia e poi verso l'Etiopia, flussi di lavoratori agricoli e artigiani. Con risultati ben scarsi: la popolazione delle campagne continuò ad aumentare, diminuirono i salari agricoli e l'autarchia finì per incentivare la granicoltura, a scapito delle colture specializzate, «Ma fu con la costituzione dell'Iri e con la politica autarchico-bellica della seconda metà degli anni trenta che il divario Nord-Sud riprese ad appropriarsi, come già era successo nei primi anni del secolo e particolarmente durante la prima guerra mondiale (Zamagni 1981).  «Avviene che quando, per un motivo qualsiasi, si accelera il processo di accumulazione e di crescita soprattutto nell'industria manifatturiera, i nuovi insediamenti tendono a localizzarsi principalmente nell'area dove maggiore è il livello già raggiunto nella produttività aggregata dei fattori» (Toniolo 1977). Una constatazione, quest'ultima, che troverà più volte riscontro nella storia recente dell'intervento straordinario.
La seconda guerra mondiale travolge tutto, ricon­segnando però un Mezzogiorno ancor più diseredato e impoverito rispetto a prima, senza neppure la spe­ranza di partecipare, come avviene al Nord, alla rico­struzione industriale, giacché il Sud di industrie non ne aveva mai avute, o le poche esistenti, anche quelle impiantate da coraggiosi imprenditori del Nord ai pri­mi del secolo, erano di dimensioni troppo ridotte per beneficiare degli aiuti, quando non erano addirittura osteggiate dal ceto politico locale.
I primi ottant'anni di questione meridionale hanno visto, dunque, l'inadeguatezza strategica delle classi di­rigenti, tanto del Nord quanto elel Sud, eli fronte al pro­cesso di unificazione. L'unificazione fu considerata, di fatto, alla stregua di un affare coloniale, con l'esplicita alleanza tra il capitale degli invasori e il patrimonio dei possidenti colonizzati.
Gli sforzi per la ricostruzione post-bellica si con­centrano soltanto sulla riattivazione delle strutture in­dustriali esistenti, localizzate prevalentemente al Nord. E il Suel resta a guardare: degli aiuti del piano ERP solo il 13,6% va al Sud, meno di quanto gli sarebbe spetta­to in base al peso dell'industria meridionale sul totale nazionale.
Solo all'inizio degli anni cinquanta, al movimento politico per l'occupazione delle terre il governo risponde con determinazione avviando la riforma agra­ria e l'intervento straordinario. La situazione non era, infatti, più a lungo tollerabile: nel 1951, il reddito pro­capite del Mezzogiorno era diminuito del 10'% rispet­to al 1938, mentre era aumentato del 22'% nel Centro e nel Nord; tale reddito pro capite era il 63%, di quello nazionale medio.
La riforma agraria, approvata in quello stesso 1950, interessava nove milioni di ettari di territorio, dei quali circa sette localizzati al Sud. La riforma riguardava non solo espropri e riassegnazioni delle terre, ma an­che interventi infrastrutturali ed economici. Se alla riforma  agraria sommiamo i benefici effetti della legge sulla formazione e lo sviluppo della proprietà conta­dina, approvata un anno prima, possiarno ben dire che il Sud agricolo viene investito, nel decennio cinquanta da una vera e propria rivoluzione.

La svolta possibile:l'epoca della Cassa per il Mezzogiorno
Su ispirazione di Donato Menichella, governatore della Banca d'Italia, e con il conforto della Banca Mondiale avrebbe garantito la necessaria copertura finanziaria anche dopo la fine del Piano Marshall, il presidente del Consiglio Alcide De Gaspcri decise il varo di un programma straordinario di opere pubbliche e di trasformazione agraria per il Mezzogiorno, da realizzarsi nel decennio. La realizzazione del programma fu affidanta a un nuovo ente: la Cassa per il Mczzogiorno (Cafiero 1992a).   Il nuovo ente poteva considerarsi una grande in­novazione e una rottura nell'assetto politico-ammini­strativo italiano: dotato di risorse poliennali, titolare di competenze intersettoriali, larga autonomia sulla pro­grammazione e sulla propria organizzazione interna, rappresentava il massimo sforzo istituzionale messo in atto dal governo centrale a novant'anni dall'unifica­zione. I risultati furono positivi, almeno fino alla fine degli anni sessanta, quando, come vedremo, con l'av­vento delle regioni a statuto ordinario (1970), concor­renti in molte materie con la Cassa, e la progressiva li­mitazione della sua autonomia, derivante dall'inva­denza del ceto politico centrale e periferico, si inizia­rono ad avere insufficienze e fallimenti sempre mag­giori, che avrebbero portato alla sua soppressione.
Malgrado i positivi effetti congiunti di riforma agra­ria e azione della Cassa nel migliorare le precondizioni strutturali e ambientali di un intenso sviluppo indu­striale, questo non si realizzò nella qualità e nella quan­tità sperate.
Paradossalmente (ma non troppo), invece che in­nescarsi un circuito virtuoso tra maggiore domanda di prodotti industriali che il Sud andava esprimendo e crescita di nuove industrie nella stessa area, l'effetto incrementale finì per scaricarsi sulla più efficiente in­dustria settentrionale, in coerenza con gli insegnamen­ti della teoria della nuova geografia economica di Krugman. Né d'altra parte fu ascoltato il forte richia­mo posto dallo Schema Vanoni (1953), «che cioè do­vesse essere responsabilità dei Governi della Repub­blica promuovere un modello di sviluppo dell'intera economia nazionale che fosse coerente con l'obiettivo del superamento del divario Nord-Mezzogiorno» (Cafiero 1992a).
Nonostante l'intensificazione del processo di svi­luppo che vedeva, in condizioni di sostanziale stabili­tà monetaria, il reddito aumentare di oltre il 5% e il prodotto industriale di circa il doppio, gli interventi per il Sud restarono sostanzialmente affidati al solo Intervento straordinario, senza l'auspicata intensificazione dell'azione pubblica nei cosiddetti settori propulsivi (agricoltura, imprese di pubblica utilità, opere pubbliche).
Gli investimenti intensivi nell'industria del Nord innescarono il miracolo economico italiano che si pensava potesse continuare attraverso una sua estensione al Sud. Nacque così, a partire dalla fine degli anni cinquanta, un nuovo indirizzo di legislazione volto a incentivare gli investimenti industriali nel Mezzogiorno: credito agevolato molto più vantaggioso che per il passato, contributi a fondo perduto, agevolazioni fiscali sugli utili reinvestiti ecc.
Alle partecipazioni statali, inoltre, fu imposto di riservare al Sud una quota rilevante e predeterminata di tutti i loro nuovi investimenti.
Nel 1968 viene introdotta inoltre, per favorire le iniziative a più alto contenuto occupazionale, la fiscalizzazione degli oneri sociali per gli occupati in impianti localizzati nel Mezzogiorno.
C’è da dire, però, che tale provvedimento aveva in gran parte natura compensativa della contemporanea abolizione, fortemente voluta dal sindacato, delle differenze provinciali di salario (le gabbie salariali) che avevano, fino ad allora, tenuto più basso e sensibilmente differenziato il costo del lavoro nel Sud, Gli anni ses­santa vedono svilupparsi, dunque, un'intensa discipli­na meridionalistica orientata all'industrializzazione, al­l'interno di un vasto e intelligente sforzo di program­mazione per l'intero paese, avviato con la Nota ag­giuntiva di La Malfa nel 1962.
Tra la fine degli anni cinquanta e l'intero decennio successivo si assiste a una vera e propria svolta nell'in­tervento pubblico per il Sud: a un primo periodo di politica delle infrastrutture segue un intervento volto a stimolare la localizzazione produttiva di grandi grup­pi industriali nei settori di base. E la ragione è presto detta: le produzioni di base non abbisognano di un preesistente am biente industriale; lavorano prevalen­temente a ciclo integrale; producono beni intermedi che vanno ad approvvigionare il sistema produttivo settentrionale.
Abbisognano, per contro, di forti impieghi di capi­tale e, coerentemente a ciò, il sistema degli incentivi si trasforma rapidamente nello strumento più conve­niente e sicuro per finanziare questo tipo di investi­menti (Del Monte - Giannola 1978).
Le «cattedrali nel deserto» non sono però in grado di diffondere lo sviluppo autopropulsivo, di far matu­rare cioè la realtà sociale del Mezzogiorno.
Esse sono il segno del fallimento dell'industria e dell'imprenditoria loeale, piuttosto che il catalizzatore di una nuova crescita. Mentre il Nord si avvia, cosÌ, verso la piena occupazione, si rinsalda ancora una vol­ta, a fine decennio, il patto perverso tra il capitalismo egoista delle zone ricche del paese e le classi dirigenti parassitarie del Sud. I partiti di governo, con la piena connivenza di quelli d'opposizione, preferiscono aumentare la spesa per il welfare state piuttosto che accrescere la dotazio­ne di capitale (fisico e umano) nel Mezzogiorno: ciò anche a causa dell'instabilità congiunturale crescente dell' eeonomia italiana, dei durissimi conflitti sociali della fine degli anni sessanta (1'autunno caldo), che portarono sÌ ad aumenti salariali e alle conquiste dello statuto dei lavoratori, ma anche ai conseguenti vincoli di quest'ultimo.

La vanità dell'uniformità: regole uguali per realtà di'verse
Di nuovo, dopo cent'anni, si pensava illuministicamente che nuove regole comuni, e magari molto avanzate come quelle nel mercato del lavoro, nella contrattazione e nei diritti dei lavoratori, avrebbero positivamente forzato l'economia del Sud che, nel frattempo doveva essere assistita. Si finì con l'ottenere, ancora una volta, esattamente l'effetto opposto. Le regole, inapplicabili, del Nord sul mercato del lavoro e sulle relazioni industriali produssero un sempre più profondo allontanamento del mondo del lavoro meridionale da quello del resto del paese, attraverso il dilagare strutturale di attività sommerse, irregolari, marginali e precarie. Uniche costose oasi, in mezzo a tanta diversità, l’industrie pubbliche assistite (le cattedrali nel deserto) " la pubblica amministrazione, clientelare, parassitaria e inefficiente, del tutto incapaci di diffondere lo sviluppo.
 Più le regole del Nord non erano applicabili, più cresceva il dualismo e la domanda sia di incentivi per compensare i divari di produttività, che di trasferi­menti (pensioni, indennità di disoccupazione ecc.) per ovviare socialmente al mancato sviluppo. Con il bel ri­sultato della creazione di un modello di intervento originale, tanto costoso quanto perverso, dotato di una feroce capacità autoriproduttiva e autopropulsiva. Il tutto, sempre, con il consenso generale.
Con il primo shock petrolifero (1973-74) si blocca, in ogni caso, l'espansione industriale italiana e viene meno, quindi, anche la residua possibilità di una sua estensione al Sud. Finisce così il primo serio tentativo di industrializzazione.
Gli anni sessanta sono, però, un periodo importan­te: il prodotto industriale cresce più velocemente nel Mezzogiorno rispetto al resto del paese, e anche la po­polazione meridionale, soprattutto per effetto dei gran­di flussi migra tori, cresce meno di quella del Centro e del Nord: ne risulta una riduzione netta del divario in termini di prodotto-pro capite tra le due grandi aree del paese.
Con gli anni settanta rallenta il tasso di sviluppo dell'economia nazionale, e i ridotti investimenti ven­gono destinati alla ristrutturazione e all'ammoderna­mento della capacità produttiva esistente, piuttosto che alla creazione di nuova capacità; a ciò si somma la crisi istituzionale e organizzativa dell'intervento stra­ordinario. Nel 1971 le regioni cominciano a subentra­re alla Cassa nella realizzazione degli interventi stra­ordinari di loro competenza, ed è l'inizio della fine. La crisi degli anni settanta colpisce, inoltre, i settori che erano stati alla base dell'industrializzazione del nei periodi precedenti: chimica di base e siderurgia. E nella nuova fase finiscono per contare, più che il costo degli investimenti fissi e della manodopera (voci que­ste su cui ricadevano principalmente gli incentivi al Mezzogiorno), la qualità economica ambientale (orga­zizzazione, finanza, marketing, informazioni, servizi), è soprattutto la qualità dell' azione e delle gestioni pubbliche nei vari settori, ambedue fortemente caren­ti nelle regioni meridionali.
Né al Sud poté verificarsi, per mancanza di infra­strutturazione civile, quel meraviglioso processo di decentramento produttivo e di sviluppo dei sistemi lo­cali di piccole dimensioni la cui accelerazione fu la ri­sposta dell'industria italiana del Centro-nord alla crisi Jella grande impresa degli anni settanta. Così finisce 'emigrazione (dal' 46 al '76 oltre 4 milioni di persone), si riducono i posti di lavoro nei grandi impianti indu­striali, si riduce la spesa per infrastrutture, scompare l'artigianato povero, non si espande la piccola impresa e cresce la disoccupazione. E aumenta l'intermedia­zione inefficiente, costosa e paralizzante delle nuove autorità di governo regionali.
La ripresa economica della metà degli anni ottanta coglie l'intervento straordinario nel pieno della sua crisi politica e istituzionale. La legge aveva fissato nel 1980 la scadenza della Cassa per il Mezzogiorno, ma solo sei anni dopo vede la luce la nuova legge organi­ca sull'intervento straordinario, con cui si stanziano ulteriori centoventimila miliardi di lire. E occorrono ancora vari anni per l'emanazione della normativa se­condaria. Un nuovo impulso di risorse verso il Sud si registra verso la fine degli anni ottanta, in concomi­tanza con la ristmtturazione operativa dell'intervento straordinario, senza però grandi cambiamenti nei ri­sultati effettivi. Negli anni successivi, tuttavia, la spesa per il Sud si riduce drasticamente, in un clima di accu­se reciproche tra centro (il governo) e periferia (le re­gioni), e con la Comunità europea a bocciare, senza pietà, l'azione di entrambi.

Normativa comunitaria e prospettiva  federalista allargano il fossato tra Nord e Sud
Il processo di creazione del mercato unico, infatti, vede aumentare, nel bilancio comunitario, il peso e il molo non solo dei fondi per l'aiuto alle aree meno prospere, ma anche il potere negoziale della Commis­sione europea nei confronti degli Stati membri e delle Regioni, in un rapporto di stretto partenariato, men­tre si rafforzano i criteri di addizionalità degli inter­venti comunitari (co-finanziamento) e del loro moni­toraggio e valutazione.
Infine la normativa comunitaria, in tema di aiuti re­gionali, nel contesto del mercato unico, assume una posizione prevalente su quella nazionale. Se, cioè, que­st'ultima configura metodi e livelli di aiuti non coeren­ti con l'impostazione definita a livello comunitario, il paese entra in conf1itto con le norme europee, e deve modificare la legislazione nazionale (Masera 1995). Di qui l'involuzione progressiva dell'intervento straordi­nario, accentuato dalla «crisi fiscale» italiana e dal­1'esaurirsi delle risorse interne, in un crescente clima di ineguatezza politico-amministrativa e di insofferenza da parte delle autorità europee rispetto ai nostri colpevoli ritardi nell'utilizzo dei fondi comunitari.
L'aumento della pressione tributaria e, inoltre, la crescente competizione avvertita dalle regioni forti del paese finiscono per indurre i ceti produttivi del Nord a considerare i costi della finanza pubblica (per alimentare i consumi del Sud) come non più sopportabili. Da qui la sirena del federalismo, inteso come separatismo. Non può far meraviglia, a questo punto, la positiva accoglienza ottenuta dalla richiesta di referendum abrogativo dell'insieme dell'intervento straordinario avanzato nel 1992, in vista della sua ennesima scadenza.
Con l'intervento straordinario si sarebbero abrogati. in primo luogo, la sua articolazione per programmi, le relative procedure di attuazione e gli organismi deputati alla sua gestione. In secondo luogo sarebbero state liberate le risorse finanziarie dai vincoli di stanziamento in relazione a tali programmi. Si sarebbero invece salvaguardati gli istituti agevolativi e, dunque, il mantenimento in vigore dei congegni di aiuto, che venivano tuttavia a ricadere nell'ambito delle regole del­"estione ordinaria.
Oggetto del referendum abrogativo non era, dunque, l'intervento pubblico nel Mezzogiorno, ma il suo carattere di straordinarietà, la specialità degli organismi di gestione, delle procedure e dei fondi ad esso destinati. Tuttavia la celebrazione del referendum avrebbe potuto contribuire a una radicalizzazione delle po­sizioni e assegnare il successo, conseguito con 1'abro­gazione, alle motivazioni più estreme, anziché a quelle fondate sull'ormai acquisita consapevolezza dell'insufficienza del modello dell'intervento straordinario e della necessità del suo superamento. Per queste ragio­ni il governo sviluppò una complessa iniziativa legisla­tiva tesa ad anticipare il referendum, e a renderne inu­tile lo svolgimento, senza con questo interrompere, rallentare o ridurre il flusso delle risorse assicurato al Sud dall'intervento straordinario. Videro cosÌ la luce la legge n. 488 del 1992 e i relativi decreti legislativi nel­l'anno seguente. Ci vollero però quattro anni a com­pletare il nuovo quadro di incentivi per le aree depres­se del paese. Il referendum venne meno, con buona pace di tutti. E iniziò l'altrettanto travagliata storia dell'intervento ordinario (Negro 1994).

Intervento ordinario e Nuova programmazione: cronaca di una delusione annunciata
In realtà, la stagione dell’intervento ordinario ebbe la sua prima attuazione operativa solo sei anni dopo, nel 1998, con l'avvio della «nuova programmazione». Per volere del ministro del Tesoro, del bilancio e della programmazione economica Carlo Azeglio Ciampi venne infatti istituito il dipartimento per le Politiche di sviluppo. Il manifesto teorico-politico dell'intervento ordinario è condensato nel volume del ministero del Tesoro La nuova programmazione e il Mezzogiorno e nel programma Cento idee per lo sviluppo illustrato a Catania da un consesso di funzionari pubblici centrali e territoriali, imprenditori ed esperti in materia. Ricor­diamo che, nel frattempo, l'esperienza della Cabina di regia introdotta dal governo Dini con la legge n. 341 è 11995 per governare il complesso processo di trasferimento delle competenze dagli enti dell'intervento straordinario alle amministrazioni «ordinarie» non si era certo rivelata un successo.
Quella che allora venne chiamata la Nuova prommazione aveva l'obiettivo di definire una politica regionale in grado di superare le criticità emerse con l’intervento straordinario. L'idea di fondo era riuscire a trasformare in atto le potenzialità del Mezzogiorno e rilaciare l'intera economia italiana che usciva malconcia dalla stretta fiscale necessaria per rispettare i rigidi paradigmi del Trattato di Maastricht. Il nuovo modello di intervento poggia su cinque pilastri (Barca 2006): 1. aumento dell'offerta di servizi collettivi integrati e ridu­zione graduale degli incentivi; 2. impostazione multilivello dell'azione attribuendo ruolo di indirizzo, centro di competenza e controllo allo Stato centrale, un ruolo similare, ma integrato con compiti di selezione dei progetti, alle Regioni, e lasciando al livello locale la proposta dei progetti; 3. avvio di una strategia di capacity building in grado di migliorare le competenze e le conoscenze delle amministrazioni pubbliche; 4. disseminazione della cultura della valutazione; 5. estensione del partenariato economico e sociale anche alla fase attuati­., tanto a livello centrale che locale.
Tale impostazione altro non era che il frutto dei principali mutamenti intercorsi nei primi anni novanta con riferimento al giudizio sull'intervento straordinario per il Mezzogiorno, al quadro politico interno, de disponibilità della finanza pubblica, alle politiche comunitarie di coesione e al dibattito teorico in materia di sviluppo. Da alcuni anni l'intervento straordinario era cadu­to in disgrazia, anche per effetto della deriva clientelare e assistenzialista. Del resto gli scossoni subiti dal quadro politico interno dei primi anni novanta non avevano certo contribuito a puntellarlo, anzi avevano determinato un vuoto di rappresentanza prima e po­licy poi che aveva finito per indebolirne ulteriormen­te la credibilità.
Alcuni anni dopo l'Italia era piombata in una pe­sante recessione e in una crisi della finanza pubblica, esacerbata nella seconda metà degli anni novanta dagli sforzi per aderire alla moneta unica. L'economia meri­dionale si era trovata priva di politiche di sostegno tan­to di natura straordinaria, quanto ordinaria proprio nel momento in cui più ne avrebbe avuto bisogno.
Parallelamente stava mutando anche il quadro teo­rico. Si andavano, infatti, affermando le teorie econo­miche basate sull'approccio place based della crescita (ovvero delle politiche territoriali) che affermavano la superiorità degli interventi pubblici calibrati in fun­zione delle caratteristiche locali, e queste in Italia con­fluivano nell' alveo della tradizione teorica dell' analisi dei distretti e dello sviluppo locale. Le posizioni che si andavano consolidando suggerivano di accostarsi alla questione meridionale non già come a un caso di arre­tratezza omogenea, ma come a un fenomeno fatto di tanti «Mezzogiorni» per il cui sviluppo occorreva at­tribuire un'importanza fondamentale agli aspetti im­materiali di natura politica, sociale e culturale. La tesi sposata dalla Nuova programmazione è, infatti, che solo in presenza di un livello adeguato, sano ed equi­librato di capitale sociale e di relazioni fiduciarie si può avere sviluppo; in tale ottica è strumentale al processo di catching up (ovvero di recupero del divario) la creazione di reti di relazione tra istituzioni pubbliche e privati. All'interno di tale paradigma assumeva un ruolo di rilievo la dimensione locale e periferica che veniva così a sostituirsi, almeno parzialmente, a quella accentratrice dell'intervento straordinario. Del resto, accentratrice delle dinamiche di alcune dimensioni econo­miche meridionali evidenziava la presenza di segnali che lasciavano intravedere una qualche possibilità di crescita endogena, quali ad esempio l'incremento della natalità delle imprese, il rafforzamento dei fenomemi associativi e delle PMI attive nei beni di consumo, l’emergere di alcune realtà produttive forti anche a livello internazionale.
Sempre nella stessa direzione si deve menzionare il fenomeno dei Patti territoriali, che ha concorso a mantenere viva l'attenzione sulla questione meridionale. I Patti territoriali hanno: contribuito a spostare l'asse  d’intervento a livello locale; agito nella direzione di progressivo rafforzamento delle competenze delle amministrazioni; favorito la creazione di beni relazioali e di un maggiore controllo sociale; mobilitato risorse umane e finanziarie dal basso e, in ultima analisi, hanno fatto emergere una cultura della responsabilità e del fare, anziché del chiedere. Nati su iniziativa del enel, si sono affermati negli anni come strumento utile a una maggiore responsabilizzazione e coinvolgimento della dimensione locale nella realizzazione di una strategia di sviluppo. Il Cnel presentò i Patti territoriali nel corso di un' Assemblea aperta sul Mezzogiorno con l'obiettivo di mobilitare le istituzioni comunali, la «società di mezzo» (rappresentanti delle im­prese e dei lavoratori), le istituzioni bancarie e il tessu­to produttivo al fine di promuovere un maggiore svi­luppo locale. Successivamente i Patti furono ricono­sciuti dal legislatore nazionale con la legge n. 341 del 1995 (art. 8) come uno degli strumenti per l'attuazione delle politiche di intervento nelle aree depresse e rego­lamentate con delibera Cipe dellO maggio 1995.
Infine, a livello comunitario la definizione delle po­litiche di coesione economica e sociale e l'avvio dei ci­cli di programmazione dei fondi strutturali avevano in­ferto il colpo di grazia al passato modello di interven­to. In quegli anni si sconvolgeva l'impostazione della politica di sostegno regionale comunitaria passando da una strategia di mero sostegno/contributo della Co­munità agli Stati membri alla definizione di politiche regionali a livello comunitario. Tale cambiamento di orientamento si realizza con l'attuazione del Quadro comunitario di sostegno 1994-1999 e, in particolare, con la progettazione del successivo QCS 2000-2006.
Il riconoscimento dell'importanza degli aspetti pro­grammatici e di qualità della spesa fa sì che la Nuova programmazione sposi i quattro principi delle politiche comunitarie di coesione: la concertazione degli obietti­vi, con l'individuazione di un numero limitato di reali priorità; la programmazione, attraverso la definizione di strategie pluriennali, integrate, oggetto di monitoraggio e valutazione; il partenariato, che riconosce la com­plementarietà dei fondi comunitari, nazionali, pubblici e privati, e stabilisce che la strategia sia frutto della con­certazione tra Commissione, Stato centrale e locale, so­cietà; e infine il principio di addizionalità, in base al quale i fondi comunitari non si sostituiscono a quelli nazionali, poiché gli Stati membri garantiscono che il loro impegno sia almeno pari a quello prevalente prima ,l’intervento comunitario.
Purtroppo molte aspettative, alla prova dei fatti, si sono rivelate una vana speranza, come dimostrano i dati che verranno commentati nel prossimo capitolo. Qui citiamo solamente tre: la quota di PiI nazionale prodotto dal Mezzogiorno è rimasta sostanzialmente invariata negli ultimi sessanta anni, era pari al 23,9% nel 1951 ed è il 23,8% nel 2008; del resto, dal 2002 al 2008 il Pil meridionale è cresciuto meno di quello del Centro-nord, con la peggiore sequenza negativa registrata nel dopoguerra (a nulla è valsa la performance positiva o periodo 1997-2004 dove il Pil del Mezzogiorno è cresciuto mediamente su base annua dello 0,4% in più rietto a quello del Centro-nord); il fallimento è evidente anche se rapportato al conseguimento dell' obieobiettivo della convergenza dell'Ue, visto che nel periodo 1995-2005, a fronte di un innalzamento del PiI pro capite medio delle regioni europee Obiettivo 1 da circa il 70% a oltre il 78% di quello medio dell'Ue-15, quello del mezzogiorno è passato dal 69,3% al 62%, malgrado i 35,4 miliardi di euro di risorse (a prezzi 1999) messe a disposizione nel QCS 1994-1999 cui si sono aggiunti 50,8 miliardi del QCS 2000-2006.

Un problema costantemente rimosso
Il nostro Meridione si sviluppa dunque meno del settentrione, ma questo accade in un'Italia che si sviluppa meno dei concorrenti europei. Le università con sede al Sud sono mediamente peggiori di quelle con sede al Nord, ma quelle italiane sono tragicamente in fondo alla classifica internazionale. C'è un nesso stret­to quindi fra l'azzopparsi della corsa italiana e lo sciancarsi della marcia meridionale, e chi crede che li­berarsi di un pezzo d'Italia sia utile a prendere veloci­tà illude se stesso, o non sa far di conto.
Facciamo un passo indietro, chiedendoci: che giu­dizio dare sull'intervento straordinario? Positivo an­che se insufficiente nel primo ventennio: bonifiche, in­frastrutture, industrializzazione hanno segnato pro­fonde e positive trasformazioni sociali ed economiche, non in grado però di produrre sviluppo autopropulsi­'lo. Negli anni settanta invece, con la crisi economica, si manifesta anche la progressiva crisi culturale, istitu­zionale e organizzativa dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno. E con il divario economico aumenta il divario nella società civile. Aumenta il ruolo della cri­minalità organizzata e la mafia conosce una vera e propira mutazione genetica.
Considerazioni non dissimili potrebbero esser fatte a proposito dell'intervento ordinario, anche se in questo caso si deve riconoscere che all'imposta­zione di fondo di per sé corretta e allineata con quanto avveniva a livello europeo e suggerito in teoria non è seguita un' attuazione efficiente ed efficace ri­spetto al traguardo degli obiettivi prefissati.
Ciò pare evidente nelle analisi di tutti i commen­tatori, dai più critici ai più indulgenti. Tra i primi sicuramente Nicola Rossi, che nel suo Mediterraneo del Nord scrive:

le politiche regionali degli ultimi anni non hanno genera­no «sviluppo e occupazione», come nelle originarie nobi­li intenzioni ma, molto più semplicemente, hanno dato luogo a un utilizzo altamente inefficiente delle risorse. Per essere franchi: a un imperdonabile spreco. Per chi ama gli slogan, l'esperienza della «nuova programmazione» po­trebbe essere riassunta in una frase: «prendi uno e paghi sei» (Rossi 2005, p. 46).

Nel secondo gruppo, naturalmente, ricordiamo Barca, che osserva:

Si ha conferma che, dalla metà degli anni novanta, il Mezzogiorno ha preso a svilupparsi più del Centro-nord, che tale sviluppo è stato virtuoso - trainato da più alta competitività e produttività - e non dovuto a «elargizioni pubbliche», ma che esso non ha assunto proporzioni tali da contro bilanciare il quadro generale nazionale di pro­ionde difficoltà economiche (Barca 2006, p. 26).

In realtà a fallire non è stato né l'intervento straor­dinario, né quello ordinario. A fallire è stata la classe dirigente italiana, che non è stata in grado di adattare le politiche e le misure previste per il Nord e per l'Eu­:ropa alla particolare realtà meridionale.
Ciò che emerge con chiarezza dal dopoguerra a oggi  (ma si potrebbe tranquillamente dire dall'Unità a oggi) è che, sebbene le sorti del Mezzogiorno siano indissolubilmente intrecciate con quelle del paese, non se ne tiene conto a sufficienza quando si prendono le grandi decisioni nazionali: dalla scelta europea all'abolizione delle gabbie salariali, dallo statuto dei lavoratori all'in­presso nello Sme, a Maastricht e ai possibili sviluppi della politica di coesione dell'Unione europea, alla lu­ce di quanto emerso dalle proposte di riforma della go­vernance delle politiche di coesione del Rapporto Barca commissionato dal commissario europeo Danuta Hiibner. In particolare, senza commentare in dettaglio i dieci pilastri della nuova governance del Rapporto Barca, dall'analisi del documento emerge con chiarez­za che in futuro le politiche comunitarie dovranno: di­stinguere nettamente gli obiettivi di «efficienza» o di crescita da quelli di «inclusione sociale» o di riduzio­ne delle disuguaglianze e concentrare le politiche ter­ritoriali (55-65% delle risorse) su pochi grandi temi (3-4), per evitare l'effetto dispersione, rafforzando il coordinamento strategico multilivello e il rispetto del principio di addizionalità.
In altri termini, le scelte strategiche di modernizza­zione del paese finiscono, immancabilmente, per tra­sformarsi in forzature per 1'economia del Sud. In pre­senza di bassa produttività e di scarsa competitività, ciò non fa altro che aggravare ulteriormente il divario con il resto del paese e ancor più con le altre regioni euro­pee in condizioni di arretratezza relativa. Del resto è difficile attendersi dal Mezzogiorno un concreto recu­pero di produttività e di competitività a fronte di un processo di accumulazione di capitale fisico e umano che si rivela del tutto inadeguato, livelli di ricerca e sviluppo e di infrastmtture insoddisfacenti e di una socie­tà civile che continua a essere debole e fragile.
Nonostante gli oltre centoquaranta anni di que­stione meridionale, il problema del Mezzogiorno non è diventato mai, a causa di una colpevole rimozione collettiva, il problema vero dell'Italia, attorno al quale costruire pazientemente, con le opportune modula­zioni, le necessarie azioni di politica economica e so­ciale, senza velleità e fughe in avanti. .\1 Sud è cresciuto a dismisura il bubbone della spe­sa pubblica improduttiva. Non si tratta, però, di un dilemma esclusivamente meridionale, perché, in definitiva, il Sud ha bisogno delle stesse cose che urgono in tutta la penisola, isole comprese: più mercato in economia più Stato nel far rispettare le regole, più merito, più competizione, più premi ai meritevoli. La rivolu­, necessaria è la medesima, e sarà difficile farla gli uni contro gli altri, lasciando pascolare i profittatori, equamente distribuiti sul territorio nazionale.
Ecco perché bisogna riconoscere con forza e onestà intellettuale che il Sud ha, essenzialmente e prio­priamente, bisogno di una nuova classe dirigente che sarà diversa se parlerà una lingua diversa. Chiederà legge e ordine, con un impegno dello Stato a far rispettare se stesso. Proporrà ai meridionali di non coltivare il diritto a chiedere, ma di pretendere il diritto a fare. Non invocherà nuovi finanziamenti, ma vorrà che la ricchezza del Sud sia volano per lo sviluppo del Sud, e tradurrà questo concetto descrivendo una politica fiscale che incentivi lo sviluppo e l'arrivo di capitali dal resto del mondo, invertendo la scandalosa pratica del Sud criminale che inquina il resto del mondo col suo denaro sporco. Non cascherà nella trappola per beoti, immaginando inconciliabili turismo e industria, ma punterà sull'industria del turismo, incentivando il turismo dell'industria. La terra arretrata dovrà diventare un «trampolino poli­glotta», con una collocazione geografica da valoriz­zare, non da commiserare.

II. Nord contro sud
Un Sud in declino?
Concetti di Mezzogiorno e Centro-nord sono due mere invenzioni statistiche, con forti disomogeneità al interno. Eppure continuano a essere immancabilmente messi a confronto. Nonostante la semplificazione e l'appiattimento delle medie, queste due Italie, dopo centocinquant anni dall'unificazione, sono ancora molto distanti. Nelle regioni del Sud vivono quasi ven­ti milioni di persone su un totale di sessanta milioni un peso di circa il 35%. Tra il 2001 e il 2008 il Sud ha visto ridurre la popolazione residente (-0,1 %), a fronte di un parallelo incremento, oltre un milione e settecentomila unità, al Centro-nord (+4,9%). Al Sud ancora si nasce di più (13,8 nati per mille abitanti, contro 8,3 nel Centro-nord) - anche se i comporta­menti riproduttivi tendono a convergere - e si muore un po' di meno: più precisamente il tasso di nel Mezzogiorno è stato pari, nel 2008, a 8,9 per mille abitanti, contro il 10,1 per mille del Centro-nord (Svimez 2009, p. 165). D'altra parte si continua a emigrare verso le aree settentrionali del paese: nel 2008, ad esempio, il Mezzogiorno ha perso oltre 56000 residenti a favore delle regioni del Centro-nord. In ag­giunta, il Mezzogiorno è molto meno attraente per i lavoratori stranieri. Il risultato è un forte rallentamen­to della crescita demografica, al contrario di quanto avviene al Nord. In particolare, meritano una riflessione i cambiamenti in atto nei comportamenti riproduttivi delle due Italie. Mentre nelle regioni centro­settentrionali si è assistito a una crescita della fecondi­tà, nelle regioni meridionali la propensione a fare figli è stabile, anzi viene meno il suo storico ruolo trainan­te con un numero di figli per donna ormai più basso del Nord (1,34 contro 1,42).
Questi andamenti negativi si riflettono sul divario in termini di Pil pro capite. All'inizio degli anni ottan­ta il prodotto interno lordo a prezzi costanti, vale a di­re l'indicatore che esprime in sintesi la produzione complessiva di beni e servizi, rapportato alla popola­zione residente, risultava, per il Centro-nord, più ele­vato del 16% rispetto alla media nazionale, mentre al Sud era di circa il 30% inferiore alla media nazionale. A metà degli anni novanta le differenze risultano an­cor più accentuate: il Pii del Centro-nord è cresciuto in quindici anni di circa il 30%, collocandosi ben oltre il 20% al di sopra della media nazionale. Nel Mezzo­giorno, nello stesso periodo, la crescita è stata attorno al 20%, collocando cosÌ l'area al di sotto della media nazionale di circa il 35%.
È pur vero che dalla metà degli anni novanta e fino al 2006 il differenziale in termini di Pil pro capite tra le due aree del paese si è costantemente ridotto, ma ciò è accaduto soprattutto in ragione della minore crescita demografica vissuta dal Sud. A partire dal 2001 questo trend si è arrestato, gli andamenti demografici non hanno compensato, infatti, la dinamica particolarmente rallentata  dell'economia del Mezzogiorno. Nel 2008 l’economia meridionale ha rivelato la sua fragilità con una contrazione del prodotto interno lordo più marcata (-1,3%)  rispetto alle altre aree geografiche (-1,1 % :-.'-ovest, -0,9% nel Nord-est, -0,8 nel Centro: (Istat 2009) e ciò ha determinato un nuovo allontanamento dalla media nazionale. Le cause sono attribuibili al maggior calo dei consumi, in particolare quelli delle famiglie, sulle quali ha pesato la diminuzione del reddito disponibile. Viceversa, la contrazione degli investimenti fissi lordi è stata meno intensa al Sud .Il resto del paese a fronte, comunque, di un processo di investimento storicamente meno intenso nel Mezzzogiorno. Dagli inizi degli anni duemila gli investimenti fissi lordi mostrano una dinamica in linea con quella del Centro-nord (+1,1 %, contro +1,3%). Tuttavia  i livelli di tali investimenti non si sono rivelati sufficienti a operare un sostanziale recupero dei divari esistenti e a fornire un significativo contributo al potenziamento delle infrastrutture e degli impianti industriali.

Il terziario del Sud, questo sconosciuto
Tutto questo nonostante nel tempo la struttura produttiva delle due ripartizioni sembri essersi in qualche modo ravvicinata in termini di pesi relativi dei vari settori. In entrambe le aree, infatti, si è assistito a un notevole processo di terziarizzazione, a una riduzione del settore agricolo di entità simili, sia in termi­ni assoluti che percentuali, e a un ridimensionamento del settore industriale, più accentuato al Centro-nord che non nel Mezzogiorno.
La tendenza alla terziarizzazione dell'economia meridionale si è consolidata anche negli anni duemi­la -la quota di valore aggiunto dei servizi sul totale è cresciuta di circa due punti percentuali dal 2000 e nel 2008 ha raggiunto il 75%, contro una media nazio­nale del 70%.
N el terziario del Sud però pesano molto gli altri servizi, che includono la pubblica amministrazione e i servizi alle famiglie (38,1 % contro il 25,5% del Cen­tro-nord). Questa incidenza, assieme al forte peso rela­tivo dell'agricoltura (4,2% contro il 2,1 % del Centro­nord), si accompagna a una'presenza del settore indu­striale limitata: 14,2% l'industria in senso stretto con­tro il 23,8% nel Centro-nord (Svimez 2009).
Il processo di terziarizzazione del Mezzogiorno è avvenuto con un lento aumento della produttività che, comunque, dal 1980 a oggi è rimasta ben al di sotto della media nazionale. Dal 1980 fino ai primi anni no­vanta il sistema economico meridionale, nel comples­so, ha visto crescere la sua produttività di circa il 20%, mentre quello centro-settentrionale di oltre il 25%. Nel periodo successivo la dinamica della produttività nel Mezzogiorno non solo è stata positiva, ma è pure stata più intensa rispetto al resto del paese. Il recupero realizzato si nei confronti del Centro-nord è stato tut­tavia marginale: fatto cento il Centro-nord, la produt­tività del Mezzogiorno è passata dall'80,2% del 1995 all'82,9% del 2008.
L’occupazione rimane concentrata nei settori tradizionali, mentre il peso delle imprese che operano nei settori ad alto contenuto tecnologico è nettamente inferiore al Centro-nord: la quota di addetti nelle unità locali del settore manifatturiero appartenenti a tali comparti è di poco superiore al 20%, contro il 28% che si registra nel Centro-nord; differenze che però si attenuano nel settore dei servizi, dove un più alto contenuto di innovazione (telecomunicazioni, informatica) è presente in misura pressoché uguale (intorno al 16% del comparto) sia nelle unità locali del centro-nord che del Mezzogiorno (Ministero dello sviluppo economico 2009).
Peraltro è nel Mezzogiorno più che nel resto del paese che il tessuto di imprese soffre di evidenti segnali di polverizzazione a testimonianza di livelli di produttività particolarmente modesti: il 90% delle imprese manifatturiere presenti in quest'area ha infatti meno di 10 addetti, contro una percentuale nazionale dell’81% (Confindustria - Ipi 2009).

Uno sviluppo debole e condizionato
In sintesi, sembra che dalla metà degli anni novanta il Mezzogiorno abbia preso sì a svilupparsi più del Centro-Nord ma che tale maggiore crescita relativa non sia stata in grado di contro bilanciare un ritardo storico che ancora drammaticamente continua a permanere.
Appare evidente, infatti, una dipendenza degli investimenti nel Mezzogiorno dall'eccesso di produzione sui consumi che si forma nelle aree più ricche del paese. In altri termini, il Centro-nord esporta nelle aree meridionali una quota consistente dei beni di in­vestimento ivi utilizzati. La copertura dell' eccesso di spesa, per consumi e per investimenti, deriva in gran parte dalla spesa pubblica, che tende a essere propor­zionale (spesso anche più che proporzionale) al nume­ro degli abitanti piuttosto che al reddito prodotto.
La quota di importazioni nette rispetto alle risorse disponibili, che nel200S nel Mezzogiorno è stata pari al 17,S%, è in aumento dal 2002, e ciò indica uno squi­librio strutturale e di lungo periodo degli scambi con il resto del paese. N elle aree meridionali, infatti, il fab­bisogno di beni e servizi viene soddisfatto con produ­zioni realizzate altrove, a causa probabilmente sia del­la forte concorrenza internazionale e interna, sia della scarsa competitività relativa.
Circa l'apertura del Mezzogiorno sui mercati este­ri, i dati disponibili indicano - nel periodo 2001-2006 ­una propensione all' export dell' area inferiore a quella nazionale e sensibilmente inferiore a quella del Centro­nord. Il rapporto tra esportazioni e PiI, che misura la propensione media all'export, al Sud è pari al 9,5%, nelle aree settentrionali supera il 24% (Confindustria­Ipi 2009). Nel 2008 inoltre soltanto il 12% delle espor­tazioni di merci italiane è stato prodotto nelle regioni del Mezzogiorno. Il moderato livello di apertura del Sud verso i mercati esteri è confermato dalle crescenti difficoltà ad attrarre investitori stranieri: i flussi di in­vestimenti diretti esteri rapportati al Pil sono stati pari allo 0,1 % nel 2004 (contro lo 0,9% del Centro-nord) e con segno negativo nel 2006, -0,1 % contro 1'1,6% nel Centro-nord (Confindustria 2009).
L’attrattività  del Mezzogiorno risulta in declino negli ultimi anni anche misurando il numero di imprese partrcipate da operatori esteri: nel 2006 solo il 4,5 del totale delle imprese partecipate in Italia si trova al Sud.
Dal 2001  il numero di imprese partecipate al Sud si è peraltro ridotto (-0,1 in media contro un aumento di crica un punto percentuale rilevato nelle aree del Centro-Nord sensibile il calo dei relativi addetti, superiore al 5% l’anno, contro un rallentamento molto più contenuto del  Centro-nord (Confindustria - Ipi 2009).

Redditi e famiglie: come vivono i cittadini del Sud?
Il dualismo territoriale esiste anche sul costo del lavoro per unità di prodotto (Clup), su cui incide l’andamento negativo negli ultimi anni sia della produttività che del costo del lavoro. Tra il 2000 e il 2008 le distanze si sono ridotte, pur evidenziando andamenti leggermente differenziati a livello settoriale. Al Nord come al Sud in questo periodo aumenta il costo del lavoro per addetto, ma con intensità diversa: 3,2% nel Mezzogiorno, 2,9% nel resto del paese (Svimez 2009).
Sulle retribuzioni medie le differenze tra ripartizioni - se si depurano le informazioni disponibili dagli effetti di composizione, settoriali, dimensionali e per qualifica dell' occupazione a livello territoriale - si riducono fortemente, segno questo che i differenziali retributivi vanno ricercati non già nel lavoro regolare, ma fortemente omologato dalla contrattazione nazionale, ma nel sommerso. Di questo comunque parleremo più avanti. In ogni caso il Mezzogiorno sembra carat­tèrizzarsi, rispetto al Centro-nord, per un grado mag­giore di disuguaglianza retributiva intersettoriale e an­che interdimensionale.
Vi è inoltre da dire che la redistribuzione operata attraverso il bilancio pubblico è di entità inferiore ri­spetto a quanto farebbe supporre la distanza sociale ed economica fra le circoscrizioni e l'opinione comune.
L'Italia centro-settentrionale e quella meridionale divergono soprattutto per la composizione dei redditi familiari. In media, al Sud il reddito primario è per 3/5 reddito da lavoro dipendente, i restanti due quinti es­sendo ripartiti in egual misura fra reddito da capitale e redditi da lavoro autonomo.
Al Centro-nord, invece, i redditi da lavoro dipen­dente coprono poco più del 50% del reddito primario, mentre i redditi da capitale raggiungono circa il 25%.
Comunque, in tema di pensioni di invalidità, il Sud, con il suo 45% del totale nazionale (1 900000 pensioni su un totale di 4200000), sembra giustificare maggiori sospetti di quanti se ne possano nutrire per il Centro­nord (anche se la lettura delle «classifiche» regionali fa registrare più di qualche sorpresa anche nelle regioni cosiddette ricche).
I motivi di tale diversa incidenza (45% di pensioni contro un 36% di popolazione residente), pur parzial­mente spiegabili dal punto di vista storico-economico (migrazioni, grande peso dell'agricoltura ecc.), ricon­ducono, in ogni caso, all'antico compromesso assi­stenzialistico già evidenziato nelle pagine precedenti: costa meno, è più facile, dà più consenso nel breve periodo erogare welfare assistenziale piuttosto che fare investimenti e sviluppo.
La struttura dei redditi nel Mezzogiorno è più fragile: nonostante al Sud risieda il 32,6% dei nuclei familiari del paese, oltre il 54% dei nuclei familiari con un unico percettore risiede nel Mezzogiorno. E tanta fragilità corrisponde un maggior rischio di povertà: negli anni novanta il 10% delle famiglie del Sud è da centrale,  e infine, del 2% circa dell'Italia nord-orientale (Cnel 1994).
A ogni modo, fatta cento l'Italia, per i redditi unitari da lavoro dipendente il Sud si colloca sotto quota novanta, con il Nord-ovest quasi a cento dieci, il Centro oltre il cento cinque, e il Nord-est in media nazionale. Altrettanto interessante è l'assorbimento delle prestazioni sociali: il Sud ha una quota inferiore al 30% del totale, meno cioè del suo peso demografico, e comunque meno del 32% del Nord-ovest che ha quasi sei milioni di abitanti in meno e solo il 26,3 % della popolazione. Per quanto riguarda la distribuzione del carico fiscale occorre premettere che non esistono fonti ufficiali che forniscano dati per l'attribuzione sicura della tassazione alle varie ripartizioni del paese. Pertanto si sono formate nel tempo due linee interpretative: la prima porta all' affermazione che il
Mezzogiorno contribuisce fiscalmente più del Nord in rapporto alla sua «povertà relativa»; la seconda mette in  l'esistenza di un «circuito pubblico» che finisce per redistribuire risorse dal Nord al Mezzogiorno. (Esposito 1993; Svimez 1993).

Meno acqua, più rifiuti, meno servizi, più code
L'altra area di divario del Mezzogiorno dal resto del paese è quella delle infrastrutture. Tutte le regio­ni meridionali, salvo sporadiche eccezioni, presenta­no livelli degli indicatori regolarmente inferiori alla media nazionale, gap che negli anni il Sud non è riu­scito a recuperare.
Al Sud nel 1995 oltre il 26% delle famiglie denunciava irregolarità nella distribuzione dell' acqua contro 1'8,7% del Centro-nord. Rispetto al 1995, però, qual­cosa è cambiato: quindici anni dopo, infatti, il numero di famiglie che denuncia irregolarità, pur restando su livelli molto alti (21,8%), si è ridotto nel Mezzogior­no (-18,4%), nel Settentrione - al contrario - è au­mentato (+5,7%), (Confindustria - Ipi 2009). Sull' effi­cienza nella distribuzione, nel 2005 agli utenti del Mezzogiorno veniva erogato soltanto il 62,6% del­l'acqua immessa nella rete, contro il 73,4% del Cen­tro-nord. Rispetto al 1999, peraltro, la situazione non è migliorata, al Nord come al Sud.
Nel 2006 la raccolta differenziata, che nelle aree settentrionali del paese interessa il 33,2% di rifiuti so­lidi urbani, nel Mezzogiorno riguarda solo il 10,2% dei rifiuti, anche se negli anni si è verificato un certo miglioramento che ha riguardato entrambe le aree, e che è stato più accentuato nel Meridione. Sappiamo tutti però quali dimensioni il problema rifiuti ha as­sunto e può assumere in specifiche realtà. In casi come questi, politiche dirette ed efficaci di «aggressione» del fenomeno possono fare la differenza, come si è visto nel caso di Napoli, brillantemente risolto da questo governo ma una strategia complessiva richiederebbe certo una maggiore collaborazione con lo Stato da parte di regioni ed enti locali.
Anche per la dotazione di infrastrutture di trasporto ferroviario il Mezzogiorno è svantaggiato rispetto al Centro-nord fatto cento il livello medio italiano, il Mezzogiorno è a 69,1, il Centro-nord a 121,3. Le conseguenze in termini di mobilità di merci e persone, e dunque di crescita, sono evidenti. Più favorevole, invece la dotazione di infrastrutture stradali: 101,6 del Mezzogiorno contro 98,9 delle aree settentrionali (Confindustria - Ipi 2009).
In termini di consumo di energia fornita da fonti rinnovabili, il Mezzogiorno è ancora distante dal resto del paese (anche se va tenuto conto del ruolo che in questa area gioca l' energia idroelettrica). Nel 2006 solo il 9% dell' energia consumata al Sud è prodotta da fonti rinnovabili, contro il 16,7% del Centro-nord. Tuttavia, a partire dal 2000 le fonti rinnovabili acquistano un peso maggiore nel Mezzogiorno (4,4%), mentre si ri­: -::ensionano al Centro-nord (-3,6%), (ibid.).
In termini di indice di istruzione, la distanza tra Mezzogiorno e Centro-nord mostra un divario consistente. Al Sud le competenze scolastiche rilevate in indagini internazionali sono più basse di circa il 20% (Svimez 2009). Un giovane su quattro, con un'età compresa tra i 18 e i 24 anni, possiede al massimo la licenza media, non frequenta corsi scolastici o svolge attività formativa, contro un 17% nel Centro-nord. Inoltre, l’abbandono scolastico, in rallentamento negli ultimi anni, è sicuramente più diffuso al Sud, dove nel 2007 è stato pari al 24,9% contro il 16,7 del Centro-nord (Mi­nistero dello Sviluppo economico 2009). Come non parlare di due Italie anche per le strutture sociali? La percentuale di bambini accolti in asilo nido è pari nel 2005 al 15% al Centro-nord (con punte del 16,7% nel Nord-est) e al 4,2% nel Mezzogiorno (Ministero dello Sviluppo economico 2009). La quota di ricoveri in ospedali di altre aree del paese risulta al Sud pari a sei volte quella del Centro-nord. Il numero di file d'attesa superiori a venti minuti nel Meridione è quasi i150% in più che nel resto del paese. Nel campo della giustizia ci­vile, al Sud i processi di cognizione ordinaria durano in media il 44% in più del Centro-nord (Svimez 2009).
Ancora grave la situazione per l'informazione, la cultura e il tempo libero (diffusione di quotidiani e settimanali, numero di abbonati Rai, numero di bi­glietti venduti per spettacoli teatrali e cinematografici, spesa per spettacoli sportivi, numero di impianti spor­tivi a disposizione dei cittadini e quota di popolazione che si è recata in vacanza). La spesa per abitante per rappresentazioni teatrali e musicali, spettacoli cinema­tografici e manifestazioni sportive nelle aree del Cen­tro-nord nel 2006 è stata più del doppio di quella so­stenuta nel Mezzogiorno (31,2 euro nel Centro-nord contro 13,4 euro nel Mezzogiorno).

Due mali terribili: la criminalità e la devianza sociale
Oltre alla carenza infrastrutturale, il Sud è affetto da diffusissimi fenomeni di criminalità organizzata e da dilaganti fenomeni di devianza sociale.
Nel  Mezzogiorno si registrano più reati connessi alla criminalità organizzata rispetto al Centro-nord; in particolare si tratta di reati quali associazione per delinquere di tipo mafioso ed estorsioni. Nel 2006 gli omicidi e i tentati omicidi - compresi quelli di tipo mafioso Mezzogiorno hanno un'incidenza di 5,2 casi ogni 100000 abitanti, pari a oltre cinque volte il valore del Centro-nord (0,9 per 100000). Inoltre, le estorsioni sono molto più diffuse al Sud che non al Nord 14,8 per 100 000 abitanti contro 6,1 per 100000 (Confindustria - Ipi 2009).
Circa i servizi alle imprese, l'indice di buon governo costruito dal Formez, orientato a valutare la capacità dei governi locali di attivare riforme e interventi in campo amministrativo, delle infrastrutture, dei servizi reali, delle politiche del lavoro rivolte all'attrazione di nuovi investimenti, indica un Mezzogiorno in netto ritardo rispetto al Centro-nord. Inoltre, un imprenditore del Sud continentale impiega 19 giorni per aprire un’impresa, contro i 9 giorni del Nord-est, e sopporta condizioni assai peggiori rispetto a quanto accade nel resto del paese (Bianco - Bripi 2009).
Non stupisce che le nuove iniziative imprenditoria­le stentino a localizzarsi al Sud, dovendo poi sottostare a un’onere improprio da criminalità e da malessere sociale di molto superiore (monetariamente e psicologicamente) a qualsiasi tipo di incentivo. La criminalità, inoltre, se non adeguatamente contrastata, induce cumulativamente fenomeni di devianza economica e sociale  generalizzati (il non rispetto delle regole) che coinvolgono ampi strati di popolazione, la quale finisce così in una spirale perversa di sottosviluppo. In altre parole, per tutte queste ragioni, e nonostante il con­sumismo, al Sud si vive male, con una qualità della vi­ta (sintesi delle componenti sopra analizzate) più bassa del livello medio del Centro-nord.
Il deficit di offerta di servizi dalla pubblica ammi­nistrazione nel Mezzogiorno riduce le possibilità di sviluppo di quest'area del paese. In presenza di una Pa debole mancano, di fatto, nel Mezzogiorno, quei ser­vizi che permettono gli scambi e che garantiscono la presenza di istituzioni essenziali per l'economia (giu­stizia, sicurezza, pubblica amministrazione), fornisco­no capitale umano e infrastrutture, assicurano un con­testo economico e sociale favorevole alla crescita (mo­bilità locale, sanità, rifiuti, acqua ecc.), aumentando così le possibilità di ridurre il gap nel ritardo di svi­luppo rispetto alle regioni più ricche.

Grandi ritardi e piccoli passi
Se le diversità esistono e in questi anni il divario cambiamenti non si è ridotto come ci si poteva aspettare, tuttavia dal dopoguerra a oggi molto è anche cambiato: se nel 1951 il gap del PiI per abitante rispetto al resto del pae­se era pari a 47 punti percentuali, nel 2008 diventa pa­ri a 41. Nel periodo 1951-2008 il Sud è cresciuto circa agli stessi ritmi del Centro-nord (a prezzi costanti il 3,1% annuo contro il 3,4% nel resto d'Italia), rima­nendo così ancorato all' area più dinamica del paese, con un netto miglioramento delle condizioni econo­miche e sociali. La quantità e la qualità della rete stra­dale è enormemente migliorata. La disponibilità giornaliera di acqua per abitante è aumentata e il numero di abitanti per stanza è diminuito. Sono scomparse le abitazioni prive di servizi igienici e di elettricità, in quasi ogni provincia del Sud esiste una sede universitaria e il numero di giovani che frequenta l'università e sensibilmente aumentato. Dal 2000 al 2006 sono più che raddoppiati i laureati in discipline scientifiche tecnologiche (Confindustria - Ipi 2009). Rispetto agli inizi degli anni novanta, il Mezzogiorno ha recuperato il distacco dal Centro-nord per quanto riguarda la scuola secondaria superiore, nella quale i tassi di scolarità e di diploma sono ormai equivalenti nelle diverse zone del paese.
Traguardi importanti, ma non sufficienti a spezzare la patologica dipendenza economica dell'area: dipendenza che - come abbiamo visto - deriva dal fatto che i consumi sono tendenzialmente convergenti con il Nord, ma supportati da attività economiche in gran parte protette dalla concorrenza nazionale e internazionale e condizionate da appalti e forniture assegnati, più o meno legalmente, con criteri diversi da quelli del confronto concorrenziale. Area, dicevamo, la cui domanda è soddisfatta da un ingente ammontare di importazioni nette, finanziate in gran parte attraverso l’eccedenza della spesa pubblica sui prelievi, e con un patologico eccesso di risparmio non impiegato in loco, a causa dell'inefficienza del sistema bancario e, al solito, della  mancanza di buona imprenditorialità.
Certo il Sud consuma di più di quanto produce, ma questo era vero anche per il passato. Ma perché ora la cosa sembra insopportabile a tanta parte dell'opi­nione pubblica? Forse perché per molti anni i ritorni che il Nord ha tratto dalla spesa pubblica a favore del Mezzogiorno sono stati superiori ai maggiori oneri fi­scali sostenuti per finanziarla. Da qualche tempo, pe­rò, è maturata l'opinione che il gioco non valga più la candela: troppi sprechi concreti a fronte di vantaggi sempre più evanescenti.

III. Cosa  manca al mezzogiorno
Le ragioni del sottosviluppo
Minor prodotto pro capite (intorno al 60% di quello del Centro-nord), una struttura produttiva fragile (nel Sud  è localizzato solo il 15% della capacità produttiva manifatturiera del paese), con prevalenza di settori non concorrenziali e immaturi, carenza endemica di infrastrutture, un elevato tasso di criminalità, bassa qualità della vita, bassa capacità di buon governo, consumi tendenzialmente più vicini al resto del paese (al 70%) ma con una dinamica che negli ultimi anni si
è ridotta, anche a causa della diminuzione dei trasferimenti, con un aumento della dipendenza economica inversamente proporzionale alla minor ricchezza prodotta: questi, come abbiamo visto, i caratteri fondamentali del sottosviluppo e dell'arretratezza del Sud.
Ma dal quadro manca ancora dell'altro: manca la ricostruzione analitica dei modelli di riproduzione perversa del capitale umano nel suo ciclo di vita (individuale e sociale), mancano le ragioni della persistenza del sottosviluppo, dell'arretratezza e della dipendenza. Fenomeni che spiegano la scarsa attrattività per gli invetimenti, italiani ed esteri.
Per troppo tempo si è concentrata genericamente l'attenzione sulla disoccupazione meridionale, sui suoi livelli e sulle sue dinamiche, senza mettere in relazione questo pur grave fenomeno con la qualità dell' occupa­zione e con il tipo di regole del vivere associato preva­lenti. Forse, solo mettendo insieme capitale umano e regolatori sociali, sarà possibile individuare i codici ge­netici che riproducono e perpetuano il sottosviluppo al Sud, nonostante gli sforzi di investimento compiuti dal dopoguerra a oggi (Brunetta - Tronti 1994).
Il fatto che il mercato del lavoro nel Sud non fun­zioni, o funzioni male, con disoccupazione più che doppia rispetto al resto del paese, con una gran quan­tità di lavoro sommerso e irregolare, non è solo il pro­dotto dello scarso sviluppo economico, ma è anche e soprattutto la reazione della società meridionale a un insieme di regole (salariali, contrattuali) e di vincoli non coerenti con quanto ritenuto naturalmente accet­tabile dagli agenti che operano nell' area (datori di la­voro, lavoratori, istituzioni).

Il mercato del lavoro, più degli altri mercati, deve es­sere considerato una vera e propria istituzione sociale [ ... ]. Ne segue che il funzionamento del mercato del la­voro potrebbe sostanzialmente diversificarsi da un luogo all'altro [ ... ]. Società diverse potrebbero imporre norme differenti a datori di lavoro, lavoratori occupati, lavorato­ri disoccupati e ad altri (Solow 1994).

Possono esistere, dunque, diverse configurazioni di equilibrio, con tassi di occupazione e disoccupazio­ne differenti, in quanto tali indicatori sono più il por­tato di processi di formazione storici, che caratteristi­che contingenti della domanda e dell' offerta.
Quindi, analisi e politiche in tema di mercato del lavoro e capitale umano, per avere un senso, dovranno prescindere da semplicistiche valutazioni comaprative: esse, infatti, finiscono col diventare solo alibi dell’assistenzialismo, piuttosto che reali e utili indicatori di strategie di d'intervento.

Molti alti capifamiglia, poche donne, pochissimi giovani
La prima dimensione che riveste rilievo fondamentale per la comprensione delle caratteristiche dei processi di produzione e riproduzione del capitale umano nel Mezzogiorno è quella della partecipazione al mercato del lavoro.
Le regioni meridionali, infatti, presentano modelli di partecipazione, per la parte emersa, caratteristici, tuttora contraddistinti da bassi tassi di attività (la quantità di forze di lavoro rispetto alla popolazione), soprattutto per la componente femminile: nel Mezzogiorno su 100 persone in età lavorativa solo 52 sono occupate o cercano attivamente un lavoro contro le 70 del Nord (valori che scendono rispettivamente a 37 e 61 se si guarda alle sole donne). Tra queste hanno un lavoro 46 persone nel Mezzogiorno e 67 nel Nord (rispettivamente 31 e 58 se ci si considerano le occupate: dati Istat IV trimestre 2008).
Il Mezzogiorno non ha partecipato al movimento di convergenza  che ha interessato i mercati del lavoro della periferia europea verso quelli più forti, con la conseguenza di un sensibile aggravamento dello stato di relativo ritardo dell'area e la stigmatizzazione ir Mezzogiorno d'Europa.
Si è ancora molto lontani dagli obiettivi europei che vorrebbero la maggior parte delle donne con ur lavoro, e il divario dal resto dell'Europa, in primo luo­go in relazione ai tassi di attività femminili, si è ulte­riormente ampliato.
Le forme di partecipazione meridionali dimostra­no infatti la persistenza di strutture culturali e sociaL mediterranee, ancora lontane dagli stili della moderni­tà, che accomunano, ormai da molti decenni, i paes: europei continentali al Nord America e al Giappone.
Uno dei motivi più spesso richiamati dalla lettera­tura per spiegare i bassi tassi di attività (di lavoro rego­lare) nelle regioni in ritardo di sviluppo è quello dellc. mancanza di formazione, sia nella più generale acce­zione di istruzione in senso lato, sia in quella più spe­cifica della preparazione professionale.
Mentre il segmento primario del mercato del lavo­ro (costituito dai maschi tra i trenta e i cinquanta anni mostra ovunque tassi di attività e di occupazione mol­to simili, in ragione del ruolo produttivo comunemen­te attribuito ai capifamiglia, il segmento secondaric (formato dalle donne e dai maschi giovani e anziani presenta modelli di partecipazione molto diversi, a se­conda delle caratteristiche culturali, oltre che socioeco­nomiche, delle aree considerate.
Così, la comprensione dei motivi della diversità nei tassi di partecipazione e di attività complessivi tra le aree si affida soprattutto alle differenze che carat­terizzano il settore secondario, e in particolare alle differenze per quanto attiene ai livelli di istruzione e di preparazione professionale all' esterno del nucleo familiare.
Ai fini dello studio dei modelli di partecipazione nelle regioni italiane, il ruolo della carenza di formazione, o almeno di quella connessa con i titoli di studio, può essere valutato quantitativamente attraverso i dati raccolti dall'indagine Istat sulle forze di lavoro, che riguardano soprattutto le non forze di lavoro, ovvero coloro che dichiaratamente e volontariamente non partecipano al mercato del lavoro.
In tali indagini coloro che non lavorano e non so­":cerca di un lavoro si trovano distinti per titolo di studio e per motivo della mancata ricerca.
Un primo aspetto interessante è evidenziato dalla netta caratterizzazione delle distribuzioni regionali delle diverse motivazioni della non partecipazione. Nelle regioni meridionali (e anche nel Lazio), anzitutto, il rapporto tra le motivazioni ritardata età e mancanza di interesse per il lavoro è inferiore all'unità, mentre nelle regioni settentrionali è molto più alto. Questa circostanza potrebbe far ritenere che molte più persone si trovino, nel Mezzogiorno, in condizioni tali da non entrare nel mercato del lavoro a motivo di un elevato livello di benessere, in termini oggettivi, oppure di percezione soggettiva (minori esigenze, anche in ragione della prevalenza al Sud di nuclei familiari forti ed estesi, con distribuzione funzionale dei ruoli).
Gli stessi dati ci dicono anche che i fenomeni di scoraggiamento sono rilevanti: una percentuale alta di meridionali dichiara di non affacciarsi sul mercato perché ritiene poco probabile se non impossibile trovare un’occupazione.
Analisi ancor più raffinate sugli stessi dati portar a concludere che se si guarda ai modelli di partecipe­zione, ci si trova in presenza non già di due o tre Ite­lie, bensì di un continuum che vede, agli estremi, le re­gioni più povere e le regioni più ricche oppure, al tempo stesso, le regioni con più basso e più alto livello c partecipazione e di formazione, unite tra loro da UL vasta zona in cui si collocano le regioni con valori è ricchezza, o di partecipazione-formazione, intermedi.
E così troviamo a un estremo l'Abruzzo con un tasso di attività del 64 % e un tasso di occupazione superiore al 59% - dunque non distante dai valori del Lazio, comunque con quasi 12 punti in meno se confron­tato all'Emilia Romagna - e all'altro la Campania dove solo 49 persone su 100 sono attive e 42 occupate.
D'altra parte, se è vero che è stato colmato il di­stacco in termini di scolarità secondaria e che anche l'educazione terziaria è in linea con il resto del paese ­è in questo caso l'Italia tutta che si situa molto al di sotto della media europea -la qualità del capitale uma­no che il sistema scolastico meridionale produce è sen­sibilmente più bassa. Per di più i più bravi tendono an­cora a emigrare.

Emigrazione dei giovani, più immigrazione clandestina, più lavoro irregolare, uguale bassa qualità del lavoro
Rispetto ai comportamenti di offerta del passato ­con giovani inoccupati e disoccupati che restavano in attesa di un lavoro senza alcuna propensione alla mobilità, al riparo di meccanismi assistenzialistici e trasferimenti di reddito intrafamiliari -, la riduzione degli aiuti pubblici a favore delle regioni del Sud e la concomitante ripresa della crescita nelle aree del Centro-nord , hanno spinto molti meridionali, soprattutto giovani, a spostarsi verso queste regioni (Basile - Causi 2006).
A partire dalla seconda metà degli anni novanta c'è stata, infatti, una ripresa degli spostamenti di persone dal Mezzogiorno verso le regioni del Centro-nord, movimenti che si erano invece sempre più ridotti dai primi anni settanta. Dalla fine degli anni ottanta si sono spostate più di un milione di persone e sono soprattutto i giovani - tra i 25 e i 34 anni - con elevata scolarizzazione a muoversi, attratti dalle maggiori opportunità offerte da mercati del lavoro più dinamici come quelli dell'Emilia Romagna e della Lombardia.
Il flusso si è stabilizzato attorno alle 120000 persone all’anno, dopo aver raggiunto un massimo di 150000 nel 2000; la mobilità riguarda soprattutto il lavoro dipendente e si orienta verso il settore delle costruzioni e l’amministrazione pubblica.
Il Mezzogiorno accoglie anche manodopera straniera, ma in misura molto più contenuta delle altre aree del paese - circa il 12% degli stranieri residenti si trova nel Mezzogiorno, a fronte di circa il 36% del Nord-ovest, oltre il 26% del Nord-est e i125% circa del Cen­tro - e i suoi immigrati hanno un'istruzione più bassa, un più basso tasso di occupazione e redditi da lavoro inferiori. Più che in altre aree del paese, gli immigrati vivono e lavorano in clandestinità, formano una sacca di forza lavoro non comunicante con gli altri segmenti del mercato, svolgono un ruolo di complementarità verso il basso, consentendo il mantenimento e la riproduzione di attività produttive arcaiche socialmente, e inefficienti economicamente, come l'agricoltura, la pesca e così via.
In questo mercato irregolare e povero non si po, il problema dello spiazzamento e/o della competiziene tra diversi segmenti di offerta, cosicché ne risultano gravemente compromesse le possibilità di crescita, in ragione della bassa produttività delle risorse umane imprigionate in una spirale negativa di bassi salari, bassa produttività, non rispetto delle regole, illegalità diffusa, emarginazione sociale crescente.
E un'altra gravissima anomalia caratterizza il mercato del lavoro del Mezzogiorno: il lavoro irregolare ovvero il lavoro prestato in condizioni salariali, norma­tive, contributive inferiori a quelle contrattuali e/o le­gali. I dati Istat più aggiornati indicano che, nonostante gli effetti indotti dalle iniziative di regolarizzazione normativa degli immigrati realizzate negli ultimi anni, l'incidenza del lavoro irregolare in termini di unità e lavoro nel 2006 raggiunge nel Mezzogiorno oltre 21 % (10% nel Centro-nord). La diffusione dell'irregolarità tocca i livelli più elevati in agricoltura e nel setto­re delle costruzioni; la differenza tra Sud e Centrc­nord non è poi così accentuata in agricoltura (i valori sono rispettivamente 25 e 19%), mentre è molto evi­dente nel settore delle costruzioni (22% nel Sud contre i16% del Centro-nord) e nell'industria in senso strette (intorno al 14% nel Sud e 2% nel Centro-nord).
Queste cifre chiariscono come, per il Sud, il pro­blema del lavoro non sia solo una questione di quan­tità (il lavoro che manca), ma soprattutto un fatto di qualità: che tipo di lavoro e a che prezzo viene offerto e domandato. Così, simmetricamente, il problema della disoccupazione non risiede tanto nella sua pur rilevante quantità, quanto nei suoi modelli di generazione interpolare, nella sua volontarietà e/o involanterietà, nella sua dipendenza da variabili non solo economiche, ma anche sociali e culturali. Emerge anche l’altro dato significativo: l'immigrazione è quasi totalmente un fenomeno del Centro-nord, ancorché una buona parte degli immigrati entri in Italia dalle “porte” del Mezzogiorno; di contro, il lavoro irregolare è per buona parte elemento distintivo del Sud Italia. Come ha recentemente osservato Luca Ricolfi su “Panorama” (10 ottobre 2(09), il contrasto del lavoro irregolare in Italia ha riflessi molto diversi nelle diverse del paese.
Alcuni studi hanno messo in luce che gli aspetti nei quali si registrano i più significativi elementi di diversità tra i mercati del lavoro regionali in Europa (e che quindi dovrebbero costituire le aree di destinazione prioritaria degli interventi correttivi) sono in sostanza tre, e principalmente: a) la partecipazione femminile al mercato del lavoro; b) gli squilibri nei tassi di occupazione e negli alti livelli di disoccupazione; c) il grado di sviluppo economico regionale, definito in rapporto alla specializzazione produttiva e al reddito pro capite (Tronti - Volpe 1990). Parte della divergenza è poi spiegata da variabili istituzionali, quali la centralizzazione della contrattazione salariale, il decentramento della spesa pubblica attuato a livello nazionale e il livello di burocrazia presente nei diversi paesi (Caroleo – Coppola 2005).  
Si è già citato il ritardo evidenziato per il Mezze­giorno dall'indicatore costruito dal Formez per misurare le capacità di buon governo, ritardo confermato dai dati che emergono da indagini ad hoc sulla regohlazione per l'attività d'impresa. Se l'Italia, in base alle classifiche stilate dalla Banca Mondiale sulle caratteristiche dell'ambiente normativo in cui operano le im­prese, si trova ben al di sotto dei suoi diretti partner europei, sulle imprese del Mezzogiorno grava un ec­cesso di regolazione anche maggiore. Nel Sud sono più lunghi e non di poco (quasi un anno in più) i tempi di attesa per la soluzione delle controversie giudi­ziali, e lo stesso vale per i tempi per la concessione delle licenze edilizie, così come sono più alti i costi affrontati per chiudere un'impresa o risolvere controversie giudiziali.
Analisi recenti evidenziano che il fattore burocrazia spiega molto del minor potenziale di attrazione per gli ­investimenti esteri delle regioni meridionali. Fattori ­come il numero di procedure necessarie per rendere valido un contratto contestato e il numero di procedure per iniziare un'attività influiscono, insieme alle differenze nel capitale umano, nel livello del reddito procapite, nel costo del lavoro, sulla capacità di compete: del Mezzogiorno (Barba Navaretti, Basile, Benfratello Castellani 2009).

IV. I beni relazionali e sistemi a rete
Il nemico in casa
Nel corso del tempo, si è creato nel Sud una sorta di equilibrio sociale, complessivamente stabile, ma perverso. Tanti sforzi, tante analisi, tanto meridionali­smo portato a un colossale fallimento collettivo. Come è potuto succedere? La risposta amara potrebbe essere: perché l'attuale «compromesso meridionale” ha a lungo goduto del consenso generale, tanto a Sud quanto a Nord. Oggi, però, l'intera impalcatura di sprechi, menzogne, illegalità si è fatta più instabile; il modello non risulta più «efficiente» come nel passato. È un punto di partenza, nonostante tutto. Se ci rimbocchiamo  le maniche, tutti insieme, possiamo ancora recuperare un enorme patrimonio di idee, prodotti, risorse, fino a questo momento imbrigliato, vilipeso, misconosciuto. Oltre alla buona volontà, però servono buone idee nuove.
La soluzione classica utilizzata per combattere il sottosviluppo si basa su investimenti e trasferimenti pubblici ritenuti un fattore necessario e spesso sufficiente per generare investimenti privati, per aumentare la produttività e, in ultima analisi, rafforzare e sviluppare la società civile, che a sua volta è vista come un insieme di norme, valori e relazioni, di singoli capi­tali umani di network, ovvero di quelli che potremmo chiamare «beni relazionali» (Brunetta - Tronti, a cura di, 1995). Questi beni possono anche essere preesi­stenti sotto forma di capitale sociale, eredità di passa­ti processi di accumulazione. Gli investimenti pubbli­ci, in questo caso, non creano dal nulla i beni relazio­nali, ma si limitano a rivitalizzarli, grazie alla nuova circolazione di capitali. Creati o anche solo potenzia­ti, i beni relazionali dovrebbero imprimere alla socie­tà un nuovo e crescente impulso allo sviluppo. Quin­di, secondo la ricetta teorica tradizionale, più si spen­de per beni pubblici, più società ci,-ile si formerà, con i relativi beni relazionali.
E allora cosa non ha funzionato, quando si è tenta­to di applicare questo tipo di intelTento pubblico al nostro Mezzogiorno?
Dal secondo dopoguerra a oggi nell'area è stata prodotta o immessa una quantità enorme di beni pub­blici, eppure non è emerso un substrato di beni rela­zionali capace di attivare un processo di crescita «endogeno», basato cioè sulle risorse del territorio. Purtroppo non si è capito (o non si è '-voluto capire) che non ci trovavamo di fronte a un paese a economia arretrata in cui, generalmente, si tratta di costruire una cultura dello sviluppo in alternativa a un sistema di reti già preesistente ma molto debole. Nel Mezzo­giorno, come abbiamo visto, esisteva già un sistema di relazionalità forte, perversa e antagonista al potere centrale. Questo sistema si è dimostrato talmente ro­busto e strutturato che non solo è stato affatto scalfito dall'intervento pubblico, ma anzi se ne c avvantaggiato, come una metastasi che si sviluppa sfruttando le sostanze ricostituenti che vengono som­ministrate a un organismo malato.
Ne deriva una prima e semplice constatazione: solo un tessuto economico sufficientemente dotato di beni relazionali è in grado di innescare, al proprio interno, le spinte necessarie per lo sviluppo; mentre nei contesti sociali caratterizzati da forti network opposti o antagonisti, che potremmo definire per analogia «mali relazionali», queste capacità autoproduttive risultano molto deboli e insensibili anche a ingenti somministrazioni di investimenti pubblici. In questi casi diventa, quindi, fondamentale la "produzione diretta» di beni relazionali, proprio per sfuggire al ­parassitismo del circuito perverso antagonista. In modo tale da superare la soglia critica, necessaria e sufficiente  per far crescere virtuosamente un sistema relazionale solido, socialmente condiviso e tendenzialmente maggioritario.
A questo punto i beni relazionali diventano i veri protagonisti. A patto che li definiamo in maniera più ampia, come un insieme di culture, rapponi, interconessioni e sinergie che consentono alle persone coivolte di essere molto più produttive rispetto ad altri individui, dotati di uguale capitale umano e fisico operanti isolatamente o in un diverso (e meno ricco) contesto relazionale. In sostanza, i beni relazionali consentono a ciascun individuo di valorizzare al massimo il proprio capitale umano, a parità di altre condizioni ambientali (Brunetta - Tronti, a cura di. 1995).

Una grande ricchezza, in grado di crescere da sola
Dunque, abbiamo due tipi distinti di beni: il bene pubblico, materiale e tangibile, e l'altro, il bene rela­zionale, immateriale e intangibile. Ad esempio, l'assi­stenza agli anziani costituisce un bene pubblico (tan­gibile); la solidarietà tra generazioni (e la sua cultura) può essere considerata come un bene relazionale (in­tangibile). Così, nel mondo del lavoro, una corretta prassi delle relazioni sindacali (dialogo, concertazione, capacità di risolvere insieme i problemi, partecipazio­ne, qualità ecc.) rappresenta un bene relazionale, men­tre un giusto salario per una buona prestazione lavo­rativa rappresenta un bene pubblico. L'organizzazione della giustizia, con i suoi operatori, le sue regole, le sue infrastrutture è un bene pubblico; la consapevolezza e la fiducia che rispettare le regole migliora e qualifica la convivenza civile è un bene relazionale.
Un bene relazionale, in quanto non tangibile e non finalizzato allo scambio esplicito di un servizio sul mer­cato,' non ha un valore intrinseco. Tuttavia i beni (e i mali) relazionali possono influenzare l'economia in maniera determinante. I beni relazionali di cui abbiamo parlato potrebbero essere considerati come il quarto gruppo di fattori. Ora cerchiamo di dimostrarne l'effi­cacia utilizzando la teoria dei beni pubblici, di quei beni, cioè, come l'aria pulita, la sicurezza di un quartie­re, o simili, che possono essere goduti da tutti, indipen­dentemente da chi contribuisce alla loro produzione.
I beni relazionali presentano alcune interessanti peculiarità: l'utilità dei fruitori aumenta anziché diminuire con 1'estensione del numero dei soggetti coinvolti e dell' area di coinvolgimento; la produzione del bene tradizionale non può avvenire per opera di un singolo agente, ma richiede uno sforzo di cooperazione tra più agenti; il bene relazionale è un fattore che si autoali­menta: una volta che ha cominciato a mostrarsi utile, esso diventa un obiettivo per molte persone, che quindi cercano continuamente di incrementarlo. Questa caratteristica dei beni relazionali permette di creare facilmente circoli virtuosi capaci di autoalimentarsi (Scandizzo 1995).

I mali relazionali, il grande nemico
È possibile, a questo punto, fare alcune puntua­nazioni. Il bene relazionale non è altro' che un tema di relazioni con chiari effetti economici, e la sua presenza contribuisce a spiegare il livello della produttività, di un'azienda come di un sistema o sottosistema sociale. Ancora, il bene relazionale deve essere prodotto a livello decentrato. Sarà efficace se, e solo se, esiste la consapevolezza della sua esistenza da parte dei potenziali utenti, e questi ultimi sono incapaci di saperlo sfruttare. L'efficienza e l'efficacia del bene dipendono, infatti, dai soggetti che ne sono coinvolti. Un'entità esterna (per esempio un'autorità di governo centrale o periferico) non può produrre e imporre beni relazionali, anche se può creare le condizione (incentivi, premi, punizioni) affinché questi si sviluppino, rafforzando ciò che possiamo definire «la cultura dei beni relazionali», cioè rendendo gli operatori di un'area consapevoli dell'esistenza, del ruo: della potenzialità di tali beni e dando agli stessi operatori gli strumenti per riconoscerli e utilizzarli.
Ai beni relazionali si oppongono i mali relazionali o beni relazionali negativi o antagonisti, che si sviluppano come fenomeni di devianza e di parassitismo. A ­differenza dei beni relazionali, i mali relazionali o accrescono progressivamente l'utilità media di tutte, collettività, ma soltanto quella del gruppo che li produce, a danno e a scapito degli esterni. In altri terrmini­ mentre i beni relazionali sono caratterizzati da esternalità positive, che inducono un'auto alimentazione dei processi di sviluppo economico e sociale, i mali relazionali producono diseconomie esterne che ostacolano lo sviluppo e accrescono le disuguaglianze sociali, vanificando i risultati delle politiche di sviluppo tradizionali. In particolare, essi bloccano o inibiscono o riducono fortemente le esternalità dei beni pubblici.
Tuttavia, anche da questi mali è possibile guarire. Il carattere antagonistico dei network negativi fa si che ciascuno di essi abbia un confine ben delimitato (per quanto occulto) che lo tiene distinto dagli altri: non ­solo da quelli positivi, ma spesso e soprattutto anche da quelli negativi, rispetto ai quali essi si trovano in una situazione di continua e distruttiva conflittualità, (è il caso delle cosche mafiose o dei gruppi cammoristici in lotta fra loro per il controllo del territori). La devianza di queste relazioni dall'ambiente circostante è, pertanto, contrassegnata conflittualmente, in forme parassitarie e di dipendenza. Tali reti antagonistiche si possono sviluppare solo fino al punto in cui non mettono in discussione l'esistenza stessa dell' ambiente esterno.
Sotto questo profilo, mentre i beni relazionali sono caratterizzati, come abbiamo visto, da una dinamica autopropulsiva, i cosiddetti mali relazionali hanno motivo di esistere e di svilupparsi solo in opposizione all’ambiente circostante, e la loro crescita dipende unicamente dallo sviluppo dell'ambiente in cui vengono prodotti.
Così, mentre lo sviluppo dei beni relazionali segue il principio dell'inclusività, ovvero della creazione continua di nuove interconnessioni tra diversi agenti e diverse reti (sociali, economiche, istituzionali) che si rafforzano l'un l'altra in misura tendenzialmente illimitata, lo sviluppo dei mali relazionali è soggetto a saturazione, e incontra il proprio vincolo nello sviluppo dell'ambiente primario.
E ancora, sotto il profilo della struttura organizzativa o di quella informativa, mentre i beni relazionali caratterizzano per un'ampia interconnessione dei legami, tale da consentire intense relazioni bidirezionali, sia orizzontali che verticali, le reti antagoniste caratterizzate da un alto grado di gerarchizzazione e di compartimentazione, così come da una prevalente unidirezionalità dei flussi informativi ( dall’alto verso il basso, per il comando, o dal basso verso l’alto, per l'informazione), e da una condizione di forte asimmetria informativa, così da rendere tendenzialmente impossibile, sia dall' esterno che all’interno della rete, la conoscenza degli obiettivi strategici, come pure la stessa riconoscibilità generalizzata degli aderenti.

Piccolo vademecum per la costruzione dei beni relazionali
In conclusione, è possibile affermare, in sede è prima approssimazione, che i beni relazionali, con~c prodotto della cosiddetta società civile, possono essere considerati come uno dei fattori che spiegano la cresc:, ta del prodotto e il conseguente sviluppo, sia in ambiti produttivistici, sia in contesti sociali, avendo come caratteristiche la condivisibilità, la non escludibilità, le esternalità positive, la mutualità e l'endogeneità. Per sapere come funzionano, come li possiamo creare come li possiamo utilizzare dobbiamo dunque riferirci alla «teoria delle reti». Caratteristica fondamentale di un network o di un sistema a rete sono le cosidette esternalità derivanti dal consumo, o meglio dall'allacciamento al sistema da parte di ulteriori Utenti/ consumatori. La diffusione e il potere del sistema infatti, dipendono dal numero di persone (nodi, istituzioni, altro ancora) che, tramite il reticolo, sono interconnesse e usano la rete.
L'idea portante è che all'aumentare degli utenti un network, aumenta il numero delle interconnessioni possibili per coloro che utilizzano la rete, e quindi l’utilità totale. Ma i network fanno emergere anche uno dei temi principali della logica dell'azione collettiva: gruppi caratterizzati da «piccoli numeri"  hanno una maggiore possibilità di realizzare la cooperazione.  
La densità è una delle più importanti misure per indicare la compattezza di un network. La densità si può definire come il numero delle linee effettivamente esistenti all'interno di una rete, diviso il numero totale delle linee possibili. Quando il numero delle linee ­coincide con il numero totale delle possibili,  si dice che il network ha densità massima o unitaria. In questo caso è un network completo.
Dalle reti tout court alle reti sociali il passo è breve. Come si è detto in precedenza, i beni relazionali possono essere considerati come network di singoli capitali umani. Sotto questo profilo essi finiscono col produrre esternalità positive connesse all'espansione del reticolo di legami, la cui diffusione e potere dipendono dal numero delle persone, con relativo capitale umano, che del  reticolo fanno parte. Si può pertanto ipotizzare una capacità di crescita cumulativa di questo sistema d’interconnessioni, una volta superato il problema del coordinamento e dell'informazione, che richiama alla mente il processo di espansione delle reti di neuroni, cioè delle cellule che formano il cervello: «come nelle reti neuronali, l'utilizzazione intensiva di legami di un certo tipo tende a sfociare nella creazione di altri legami I l­egami stessi possiedono la proprietà di crescita ramificata, nel senso che, oltre a moltiplicarsi, essi tendono anche a diversificarsi, dividendosi in diramazioni complementari (Scandizzo 1995).
Il sistema economico e sociale può essere pertanto considerato come un reticolo di relazioni che s’instaurano su più livelli differenti, a partire da quello familiare, molto denso, fino a macro-unità quali l'impresa e lo Stato e dotati di densità inferiori. L'esistenza di tale sistema reticolari di relazioni assume un'importanza strategica soprattutto ai fini della comprensione dei processi che portano allo sviluppo economico. In particolare, la teoria dei beni relazionali si potrebbe riconnettere alle teorie politologiche della cooperazione e associazione tra i soggetti economici, e alle loro capacità di allacciare reti di interessi leggitimi e di solidarietà.

Dall'egoismo alla cooperazione, in un piccolo paese del Sud
Un interessante studio di Banfield (1976) riguava proprio l'arretratezza di un piccolo paese del Sud Italia. Grazie a questo studio, possiamo agevolmente ­sostenere che la variabile fondamentale nella creazione ­di una moderna economia capitalistica non sta tanto nell'espansione delle possibilità economiche, nella creazione di uno spirito capitalistico strettamente centrato sull'economia. Senza la percezione dei vantaggi dell' associazione e della cooperazione questi elementi non hanno valore, perché gli uomini non possono trarre profitto dalle loro opportunità, né razionalizzare le loro attività economiche. Le cause dell' arretratezza del paese studiato da Banfield vanno ricercate nell'incapacità degli abitanti di agire insieme per il bene comune o, addirittura, per qualsivoglia fine che trascenda, però, l'interesse materiale immediato dei singoli o della loro famiglia. In una prospettiva ­generale, è possibile dire che l'uomo ha un bagaglio lealtà nei confronti di persone e cose, che va dalla più piccola micro-unità (l'essere umano) alla massima macro-unità (il mondo, la specie umana). Nella maggior parte dei casi, è ragionevole supporre che le lealtà siano ­più forti nei confronti delle unità cui l'individuo stesso appartiene. Ebbene, in quest'ottica, l'arretratezza può dipendere dalla circostanza che l'oggetto della lealtà e =della cooperazione è inadeguato al livello al quale oggi possono emergere nuove istituzioni.
In altre parole, la lealtà intesa come cooperazione fiducia, come creazione di una rete di solidarietà, densa di rapporti sociali, porta allo sviluppo solamente se e evolve al passo con i bisogni socio-economici e istituzionali, a loro volta creati o favoriti dal progresso delle nuove tecnologie. In caso contrario, in caso cioè di sviluppo più lento delle regole della cooperazione rispetto ai cambiamenti sociali richiesti, si formano e si  consolidano l'arretratezza e il sottosviluppo. Sotto questo profilo, i beni relazionali possono visti come le reti di comportamenti che consentono all’agente economico individuale di allargare il proprio orizonte oltre l'originaria dimensione sociale, territoriale e temporale. La definizione di beni relazionali, qui proposta permette pertanto di stabilire numerose analogie tra questi e le istituzioni. In altri termini si può affermare che i risultati di una politica saranno sensibilmente legati all'assetto sociale, che costituisce il frutto di strategie cooperative susseguitesi nel tempo, e dei beni relazionali che esse hanno generato. Questo vuol dire che se facciamo scelte politiche giuste e aiutiamo il Sud a crescere da solo, e i nostri concittadini del Sud a cooperare tra loro, il Mezzogiorno svilupperà una quantità davvero “industriale» di beni relazionali. Si tratta di valutazioni a cui giunge anche la teoria dei giochi partendo dall’analisi dell’equilibrio non cooperativ del “dilemma del prigioniero” e giungendo alla soluzione di Fundenberg e Maskin del Folk Theorem. Nei giochi ripetuti la cooperazione non è che uno dei possibili  equilibri, così come lo è anche la ripetizione dell'equi­librio non-cooperativo. Sulla base del Folk Theorem vengono fornite alcune prescrizioni su come sviluppa­re una strategia e un equilibrio cooperativo. Per quan­to riguarda i giocatori, le condizioni importanti sono 1'assenza di invidia e il fatto di non essere i primi a dover ricambiare l'atteggiamento degli altri. In altre parole, la stima reciproca, la comunanza di vedute e la consapevolezza di un intento comune possono genera­re un clima più favorevole.

Cosa fare per il Sud: una sfida per lo sviluppo
Un buon amministratore, politico o economico che sia, intenzionato a incentivare la cooperazione, dovreb­be allora: 1) aumentare il valore del risultato futuro; 2) agire per modificare i guadagni dei singoli giocatori; 3) incentivare la solidarietà; 4) migliorare la strumentazio­ne di sanzioni e premi; 5) migliorare la struttura pro­duttiva, agendo sulla certezza (delle parti in gioco, dei diritti di proprietà, e così via) e sulla trasparenza (delle istituzioni, dei programmi, dei comportamenti degli operatori pubblici).
Finalmente ci siamo arrivati. Ecco alcune buone ricette per il Sud: offrire ai suoi cittadini delle prospet­tive di benessere e tranquillità sociale; garantire, il più presto possibile, consistenti utili economici se si rispet­tano le regole e si «sta al gioco»; mostrare che non è la concorrenza spietata e senza legge, ma la cooperazione per un migliore uso delle risorse umane, economiche e strumentali a creare ricchezza, stabilità e progresso; rinforzare la presenza della giustizia e degli apparati di  pubblica sicurezza, perseguendo seriamente tutti reati e tutte le illegalità, dai più banali ai più gravi, e consentendo agli onesti di svolgere le proprie attività con giusto profitto; incrementare le infrastrutture necessarie alla circolazione delle merci, delle persone e delle idee. e nel contempo rinforzare e potenziare la pubblica amministrazione, rendendola trasparente ed efficace (grazie anche alle nuove tecnologie), e motivando adeguatamente i suoi operatori.
Concretamente gli sforzi devono essere convogliati nel sostegno delle reti di relazione positive. Un esem­pio concreto di iniziativa di questo tipo è ,”100 Na­poli», avviata nel 2006 e formalizzata il 16 luglio 2007 ­con la firma di un protocollo di intesa tra il minis:r,: per le riforme e le Innovazioni nella pubblica amministrazione e il cardinale della diocesi di Napoli che da corpo a uno degli obiettivi nevralgici, di cui in questo libro si parla: la valorizzazione dei beni relazionali positivi. L'iniziativa mette la rete delle parrocchie in  sinergia con la volontà di far crescere l’alfabetizzazione informatica dei giovani e agevolare il loro desiderio d'interagire con il resto del mondo. Chiese e parrocchie sono, naturalmente, luoghi di culto. In quanto tali riguardano i fedeli e sono lo strumento ecclesiastico per l'evangelizzazione. Sono anche, però, luoghi: socialità, talora gli unici in tessuti urbani difficili e lacerati. In questa seconda funzione svolgono un ser­vizio alla collettività, di cui le gerarchie sono ben con­sapevoli (come dimostra il libro Chiesa nel Sud e difese  del Sud, in cui si raccolgono gli atti di un convegno tenutosi a Napoli nel febbraio del 2009).
Non si può paragonare, meccanicamente, questa esperienza a quella che la pubblica amministrazione ha sviluppato con Reti Amiche, perché in quel caso non è sottaciuto, anzi è valorizzato, anche l'interesse com­merciale, ma, come in quel caso, si tratta di un buor esempio di come mondi diversi possano collaboraré. avendo il medesimo scopo di far crescere la vivibilità dei quartieri e offrire occasioni di crescita per i giovani.
Queste sono buone ragioni per superare antichi, e talora anacronistici, steccati. Che, del resto, nulla hanno a che vedere con i problemi che qui si affrontano.
L'egoismo individuale (caratteristica dell' homo aee­nomicus) deve essere sostituito da una visione più razionale, che vede nella socializzazione un atteggiamento cooperativo più efficiente. Se i beni relazionali sono la base dei processi di cooperazione, appare del tutto evidente  la necessità di agire sull' orizzonte della razionalità, portandolo a estendersi in diverse possibili dimensioni: da quella temporale (il futuro) a quella spaziale (un territorio urbano, una regione, una realtà sovranazionale), a quella sociale (una comunità), a quella economica (i rapporti di lavoro, le relazioni sindacali, la formazione dei prezzi).
I beni relazionali sono necessari allo sviluppo, ma  non necessariamente vengono prodotti in seguito alla  messa in atto di politiche pubbliche di sviluppo. Soprattutto, come abbiamo visto, nelle aree in cui esistono forti network antagonisti, l'innesco del tradizionale circuito virtuoso - più beni pubblici più sviluppo economico e sociale - non si verifica e, quindi, si forma dipendenza e, alla lunga, insostenibilità, politica ed economica, della stessa politica di sviluppo. D'altra parte, sappiamo per lunga esperienza che la repressione non basta per sconfiggere le reti antagoniste. Ora ne conosciamo i punti di forza, ma anche i punti di debolezza. La loro debolezza principale consiste in questo: quando la maggioranza si rende conto che può fare a meno di loro, che la loro presenza è solo un danno per tutti, e che il loro rifiuto non comporta più rischi rilevanti, piuttosto concreti vantaggi, i «mali relazionali» cominciano a decadere e infine precipitano al suolo come frutti marci. Aiutiamo il Sud a sviluppare i suoi beni relazionali, e gli avremo fatto il più bello dei doni.

IL VALORE DEL SUD

V.Poche regole ma buone
Il Sud: una questione nazionale e nuovo contesto internazionale
Si sostiene spesso che la questione meridionale una questione. Ma 1'affermazione apodittica richiede un’argomentazione adeguata per tradursi in strategia politica. Porre lo sviluppo del Sud come questione nazionale, cioè come problema di interesse di tutta la nazione, al di là della semplice spinta solidaristica, infatti, avere un'idea di quale sia la strategia richiede lo sviluppo della nazione, capire se questa strate­gia dello sviluppo del Mezzogiorno per essere perseguita, infine, se questa stessa strategia è nell’interesse di tutto il paese. In definitiva, capire i motivi economici, prima ancora che politici e sociali, per respingere ad esempio, l'ipotesi secessionistica come potenzialmente vantaggiosa per il Nord. Come vedremo in questo capitolo, la stessa spinta federalista può essere giocata nelle due direzioni.
Lo svilppo economico del Sud e la chiusura del dualismo italiano richiedono alcune condizioni che sono realizzate fino a oggi e la cui mancanza è alla base del fallimento evidente delle politiche sperimentate nel passato, fino alle più recenti. Anche se alcuni ideatori e sostenitori di queste ultime si sforzarno ancora di negare l'evidenza esaltandone risultati minimi e secondari.
La condizione principale consiste nell' affermarsi nelle due parti del paese, Sud e Centro-nord, di blocchi sociali, potenzialmente egemoni, realmente interessati al superamento di questo dualismo, cioè a mutare i comportamenti che hanno vanificato ogni tentativo di pieno sviluppo del Mezzogiorno. Ma questi blocchi sociali possono formarsi solo se si creano condizioni oggettive per un interesse convergente delle loro possibili componenti. Ad esempio, le politiche che promuovevano trasferimenti al Mezzogior­no per alimentare una domanda rivolta alle produzione del Nord -la cosiddetta politica della «pentola bucata», secondo la quale quanto si trasferiva al Sud tornava al Nord - non avevano dietro di sé una convenienza di interessi per lo sviluppo. Al contrario vi era una convergenza di interessi nefasta tra la classe politica meridionale, le cui fortune consistevano nella capacità di ottenere risorse esterne, e l'industria del Nord interessata a rafforzare il mercato interno di sbocco della propria produzione, ma non certo a favorire una concorrenza interna, proprio mentre cercava di ­porsi nei ricchi mercati europei e americani.
Vi sono oggi le condizioni per il convergere degli interessi verso un effettivo sviluppo del Mezzogiorno. Si tratta di una domanda non banale nel momento in cui la crisi economica più grave del dopoguerra sta certificando, e accelerando, il mutamento della geopolitica economica del mondo che è alla radice degli squilibri oggi esplosi. Il mutamento di questa geografia, che vede l'affermarsi delle potenze economiche ememergenti - in primo luogo quelle asiatiche guidate dalla Cina - come trainanti dell'economia globale accanto agli Stati Uniti, sposta il baricentro della crescita economica dal Nord del mondo collocandolo nell'asse tra Occidente e Oriente. Al tempo stesso già si apre il confron­to competitivo per 1'egemonia sull' economia mondiale che si giocherà, nel prossimo futuro, con ogni probabi­lità in funzione del ruolo che ciascuno degli attori svolgerà per lo sviluppo dell'Africa. Questo fa si che le direttrici dell’espansione verso nuovi mercati potenziali per l’Europa si spostino verso l'area mediterranea, ed è in quest’area che essa dovrà cercare lo spazio per mantenere un posizione non marginale negli equilibri economici e politici mondiali.
In questa prospettiva, il problema della parte più avanzata e competitiva dell'Italia non è più, paradossalmente, quello di «andare a Nord», anche a costo di abbandonare il Mezzogiorno, ma al contrario quello svolgere un ruolo nello sviluppo dell'area mediterranea,anche come ponte verso l'Africa, e, ancorandosi ad essa, dimostrare di sapersi misurare con le economie tendenzialmente egemoni dell'Oriente e dell’Occidente. L'interesse europeo è oggi, quindi, quello di andare a Sud ed è interesse del Nord d'Italia avere un Mezzogiorno avanzato e competitivo se vuole esso stesso rivendicare un ruolo primario nell'economia mediterranea in cooperazione/competizione con gli altri paesi europei.
Le condizioni per il convergere degli interessi del Nord con quelli del Mezzogiorno sono, quindi, ben evidenti. Ma la trasformazione di interessi potenzial­mente convergenti in un' azione cooperativa richiede un patto operativo per lo sviluppo del Mezzogiorno in grado di coinvolgere gli attori economici, sociali e istituzionali. Questo patto implica, in primo luogo, il cambiamento delle regole da cui dipendono concreta­mente gli incentivi che determinano interessi e com­portamenti conseguenti. È di tale patto che si occupe­rà questo capitolo.
Il patto per lo sviluppo del Mezzogiorno: a chi conviene?
Il patto per lo sviluppo del Mezzogiorno è un pat­to tra il Sud e il resto del paese che si deve basare su UE interesse reciproco. In termini operativi si tratta di un patto tra lo Stato' centrale e il Mezzogiorno che si ar­ticola in precisi interventi di affermazione dello State giuridico. In fondo è questo patto a essere in gioco nella riforma federalista, non quello tra Nord e Sud. Anche se, in apparenza, la spinta federalista, che nasce come questione settentrionale, sembra la risposta alle tentazioni autonomiste delle regioni del Nord rispet­to allo Stato centrale, in realtà in discussione sono i rapporti del Mezzogiorno con lo Stato centrale, la vo­lontà del Meridione, cioè della sua classe dirigente, di accettare lo sviluppo economico e sociale, sacrificando i vantaggi di breve periodo di un assistenzialismo or­mai residuale e privo di margini di manovra per porsi come nuova economia emergente affacciata sul Medi­terraneo. Ma qual è la natura concreta di questo patto e quali ne sono i cardini? In altri termini, il federali­smo fiscale che nasce sotto la spinta del Nord, in che misura conviene al Sud, e come deve essere congegna­to perché sia funzionale al suo sviluppo? E qual è il ruolo dello Stato centrale?
Rispondere a queste domande significa entrare nella sostanza del patto che serve al Mezzogiorno. Ed è utile partire proprio dall'ultima, cioè da cosa deve mettere sul piatto lo Stato centrale nell'assolvere le funzioni che gli sono proprie. Non può, infatti, essere discussa seriamente una riforma federalista, che si incentri sul grado di responsabilità dei governi locali nel finanziamento della propria spesa, se lo Stato centrale, per primo non si assume le proprie responsabilità. Naturalmente, la risposta richiede di avere prima un’idea del ruolo dello Stato, inteso nella sua articolazione di Stato centrale e governi locali, nell' economia e nello sviluppo.
In principio, lo Stato dovrebbe occuparsi di quello che non può essere affidato al mercato, e ritirarsi dal resto. Anche i sostenitori ultraliberisti dello Stato minimo, per seguire la terminologia di Nozick, non negano che lo Stato debba svolgere alcuni compiti fondamentali senza i quali viene meno la ragione stessa della sua esistenza. I primi compiti dello Stato sono quelli di garantire, oltre la difesa del territorio nazionale, la sicurezza, 1'osservanza delle leggi, l’amministrazione della giustizia basata sul monopolio della forza,  la certezza del diritto e il rispetto dei diritti, la tutela dei diritti di proprietà e il rispetto dei contratti. Insomma si chiede allo Stato di stabilire la rule of law in tutta la sua giurisdizione. A questi compiti va aggiunta la necessità di provvedere alle infrastrutture di base, laddove è più probabile il «fallimento del mercato», e quella di assicurare le medesime opportunità tutti a cittadini, anche se non il conseguimento degli stessi traguardi.
Ebbene, nel Mezzogiorno lo Stato è intervenuto: tutti i campi dell'economia sostituendo il mercato. Ma lo statalismo, inteso sia come intentento pubblico dilagante che come dipendenza delle economie locali dallo Stato centrale, è coinciso con il fallimento delloStato nei suoi compiti fondamentali. Il problema, nel Mezzogiorno, ma forse anche in altre aree del paese. che, pur in presenza di un ancora limitato grado di libertà economica, vi è troppo poco Stato nelle sue funzioni essenziali, che vengono assolte in modo inadeguato, a volte in ragione della scarsità di risorse, più spesso per poca efficienza. Per decenni ha dominato uno statalismo - con aumento della spesa pubblica - ­senza Stato. Abbiamo avuto il costo, sovente distorsivo, senza il beneficio. Questa è una delle prime cause , del sottosviluppo. Causa, non conseguenza.
Allora è bene vedere se le risorse dedicate ad assolvere i compiti essenziali dello Stato centrale nel Mezzogiorno siano o non siano sufficienti. Se non lo sono si adotti una loro migliore ripartizione, a favore del Sud, anche se la competenza e l'uso di tali risorse non possono non rimanere principalmente dello Stato centrale. Più in generale, l'efficienza nell'uso della spesa pubblica deve essere una priorità, ed essa si incarna nell'efficienza delle amministrazioni pubbliche. Si tratta di un problema nazionale, ma richiede una particolare attenzione e un'azione incisiva nel Mezzogiorno. L’amministrazione pubblica è parte importante del contesto sociale ed ecònomico e della cultura della legalità e del merito. Laddove 1a pubblica amministrazione, cioè lo stato, non funziona, dilaga la corruzione e l'illegalità, e i mercati fatti di concorrenza e innovazione, non possono funzionare. Con una doppia conseguenza: quella di indebbolire il meccanismo di produzione della ricchezza nella parte della sua giurisdizione in cui la legge non è applicata in modo pieno, rendendola in tal modo indipendente dall'aiuto pubblico, e di consentire la confisca da parte di clan, gruppi di potere e organizzazioni malavitose, formalmente fuori-legge, di una porzione della ricchezza prodotta nell'altra parte della sua giurisdizione e trasferita a fini ridistributivi laddove la legalità è più debole.
La spesa dello Stato per ordine e sicurezza è aumentata a partire dal 2000. Si tratta di un primo segno positivo, ma sarà interessante analizzare la dinamica futura per giudicare se si tratta di una vera svolta, di uno spostamento dell' attenzione dello Stato verso lo svolgimento dei compiti di sua stretta competenza. In ogni caso non si osserva alcuna tendenza generale a un aumento maggiore di questa spesa nel Mezzogiorno rispetto alle altre aree del paese, fatto questo che, se realizzato, indicherebbe la volontà di affrontarne il gap di legalità. Su tale questione si dovrà giocare molto di quanto il Mezzogiorno dovrebbe chiedere allo Stato per chiudere il divario strutturale di legalità che pesa sulla crescita. Naturalmente, anche per la spesa diretta al contrasto della criminalità vale l'osservazio­ne che il suo ammontare è certamente un dato signifi­cativo,  ma l'efficacia della stessa lo è altrettanto.
Nel gioco virtuoso che il federalismo fiscale do­vrebbe avviare, lo Stato centrale ha, quindi, un ruolo da svolgere. Allo Stato il Mezzogiorno deve chiede­re non aiuti ma di assolvere ai suoi compiti. A questo riguardo il primo obiettivo per il quale dovrebbero battersi le regioni meridionali e i loro politici non è l'equalizzazione delle risorse economiche ma 1'equa­lizzazione delle condizioni legali. Questa richieste. dovrebbe essere alla base del patto rappresentato da: federalismo. Questo è un patto tra lo Stato centrale che devolve alcune sue funzioni, mantenendone al­tre, e le entità decentralizzate che le assumono.
Nel caso del federalismo fiscale, le entità decen­tralizzate ottengono autonomia di entrata e di spese. È importante che di questo patto facciano parte non solo le misure di equalizzazione per fronteggiare le disparità regionali di reddito.
Lo Stato centrale, che mantiene le funzioni relative all' applicazione della legge e all' amministrazione della giustizia, deve assicurare prima di tutto l' equalizz:,­zione delle condizioni legali. Le regioni meridionali potrebbero addirittura essere meno esigenti sul fondo perequativo e le altre misure di equalizzazione economica se ottenessero in cambio un impegno rigore' sull' equalizzazione legale. Un impegno rigoroso significa un piano dettagliato delle misure - e del relativo finanziamento - necessarie a porre sotto controllo le attività criminali nelle regioni meridionali. L'equalizzazioni delle condizioni legali è, quindi, il principio fondamentale di un federalismo pro-crescita. Ma ci sono altri principi che occorre esaminare.

Un federalismo pro-crescita
Un federalismo pro-crescita è un federalismo competitivo. La logica del federalismo competitivo è molto semplice perché consiste nell'estendere la disciplina di mercato alla politica. In una costituzione federalista, l’entità centrale (federale) esercita delle funzioni minime di governo (in primo luogo l'applicazione della leg­ge) mentre tutte le altre sono attribuite alle entità decentralizzate (a vari livelli). L'organizzazione di gover­o federale serve al duplice scopo di limitare la dimensione e l'ambito del governo centrale e contenere il potenziale di sfruttamento dei cittadini da parte delle entità di governo locale. I politici e le coalizioni locali sono vincolati a comportamenti responsabili nelle loro politiche di spesa, tassazione e regolazione dalla possibilità garantita dal governo federale, che hanno i cittadini di trasferirsi in un'altra regione dove si è trattati meglio e dove si guadagna di più. Ovviamente, queste caratteristiche divengono effettive a patto che il governo locale sia soggetto a un vincolo di bilancio. I politici locali devono mostrarsi responsabili e avere la possibilità di impostare un sistema di incentivi finalizzato alla crescita, ovvero una regione deve poter attirare investimenti, stimolare 1'offerta di lavoro e la produttività, garantendo condizioni fiscali vantaggiose.

Autonomia fiscale e incentivi alla crescita
Un disegno di federalismo fiscale che attui l'idea di federalismo pro-crescita dovrebbe rispondere allo scopo di creare la possibilità, e al tempo stesso gli ­centivi, per una politica dei governi territoriali orientata alla crescita. Politica che non si esaurisce con l’offerta efficiente di servizi ai cittadini (cura e prevenzione della salute, istruzione, assistenza, trasporto) anche se ne rappresenta una componente importante.
I governi locali dovrebbero poter scegliere innanzitutto il «livello ottimale di pressione fiscale» per il proprio territorio. Nella misura in cui il prelievo destinato a finanziare investimenti pubblici sia in infrastrutture sia in capitale umano, cioè in istruzione e salute, si tratta di una scelta che incide sul tasso di accumulazione, inteso in senso ampio, nel territorio interessato. La scelta, quindi, è tra più consumi futuri. Infine, la pressione fiscale e la composizione del prelievo incidono sugli obiettivi di attrazione dei fattori produttivi nel territorio. Attrazionedi capitali, ma anche attrazione di capitale ma anche attrazione di capitale umano.
N aturalmente la competizione tra i governi non sarà solo una competizione fiscale, intesa come minore o maggiore prelievo, ma anche una competizione sui servizi offerti con l'uso del prelievo fiscale, servizi che concorrono a rendere attraente il territorio.
In altri termini, l'efficienza della spesa è un fattore ­costitutivo della competizione fiscale. La competizione fiscale è, quindi, complessa, e mette in moto a sua volta una competizione assai articolata tra varie forme di buon governo.
Per questi motivi, pur nel rispetto del patto di stabilità interno, lo sviluppo locale può seguire molte strade, e i governi locali devono poter scegliere e quindi darne conto personalmente agli elettori. È in questo quadro che si pone la decisione di adottare una cosiddetta fiscalità di vantaggio e la possibilità di attuarla. Vi sono, tuttavia, due modi per concepire la fiscalità di vantaggio.
Il primo, quello tradizionale, considera la fiscalità di vantaggio come un aiuto esterno. Un bonus fiscale per chi opera in alcune aree svantaggiate, il cui costo, tuttavia non è sopportato dai governi, e quindi dai cittadini, dello stesso territorio, sotto forma di una riduzione corrispondente della spesa pubblica locale, ma dal governo centrale o da un sistema di compensazione orizontale con le altre regioni. Si tratta di una for­ma di trasferimento. Il secondo tipo di fiscalità di vantaggio è quello che attua uno Stato sovrano come quello irlandese. Meno tasse oggi, per attrarre investimenti e per stimolare la crescita, ma a spese del proprio bilancio. Fiscalità di vantaggio, in questa accezione, è vera competizione fiscale.
Il primo tipo di fiscalità di vantaggio si è scontrato fino a oggi con le regole europee. Il secondo tipo è attuabile nell’ambito di un sistema federalista, se concepito come esercizio dell'autonomia impositiva dei governi regionali e locali. Questa autonomia deve, quindi essere disegnata in modo tale da assicurare la praticabilità e l’efficacia di una fiscalità di vantaggio nel Mezzogiorno.
Ma quali sono gli incentivi affinché autonomia e responsabilita giochino a favore dell' obiettivo della crescita? Il primo è quello di legare la dinamica delle ri sorse a disposizione di governi regionali e locali a imposte e tributi la cui base imponibile è (dinamicamente) legata alla crescita, quindi in primo luogo il Pil pre­dotto nel territorio (Irpef, Ires) e poi i consumi. In tal modo i governi sono costretti a guardare alla crescita economica come il mezzo per aumentare il finanziamento della spesa pubblica. Minori sprechi, minori spese e minori tasse oggi possono rendere in termirmini di maggior gettito futuro, grazie alla crescita del reddito.
Nel disegno di un sistema di federalismo fiscale, il modo in cui 1'autonomia impositiva di regioni e comuni si possa esercitare sulla base imponibile dell'Irpei diviene cruciale, per i motivi ora esposti, al di là delle ipotesi di mera compartecipazione al gettito Irpef.
Non è consigliabile, a nostro giudizio, istituire un sistema di federalismo fiscale che soddisfi il fabbisogno di spesa regionale principalmente con l'attribuzione alle entità decentrate di tasse su specifici consumi (benzina, tabacchi, alcolici, giochi ecc.) o solo sul patrimonio immobiliare.
L'argomentazione a favore di quest'ultima ipesi è che le imposte dirette sono quelle che più risentono del divario di capacità contributiva nelle varie aree del paese e, quindi, rendono più pesante 1'intervervento di equalizzazione necessario a correggerne l'impatto distributivo. Il gettito legato a consumi specifici è al contrario, in genere piuttosto perequato tra le varie ragioni. Tuttavia, per ciò che riguarda il suo livello esso è influenzato da specifiche strutture di consumo e quindi, la sua dinamica dipende dalle variazioni della struttura stessa dei consumi. Nulla fa immaginare che la dinamica dei consumi particolari sottoposti a tassazione specifica presenti in futuro un' elasticità rispetto al reddito vicina all'unità e che, quindi, il gettito ottenibile  dalla loro tassazione sia proporzionato alla ca­pacità  contributiva. Si deve aggiungere che si tratta di consumi che possono dipendere anche dalle politiche poste in atto sia dalle regioni sia dallo Stato centrale allo scopo di limitare questi stessi consumi. Un aumento progressivo dell'imposizione potrebbe certamente coniugare la necessità di aumentare il gettito e di scoraggiare i consumi. Tuttavia, il primo fine, che presuppone un’elasticità di prezzo inferiore all'unità, rischia di entrare in conflitto con il secondo fine che può essere conseguito con politiche di limitazione dei consumi non fondate su meccanismi di mercato.
Il modo in cui regioni ed enti locali possono partecipare utonomamente all'imposizione diretta è molto discusso. Lo strumento adottato sono le addizionali e le compartecipazioni. Ma le tecniche impiegate non sono indifferenti, sia dal punto di vista dell’equalizzazione economica, sia da quello del sistema di incentivazione che esse generano.
In genere, la compartecipazione al gettito Irpef si basa sull’attribuzione alle regioni, o agli enti locali, di una quota del gettito complessivo della loro regione.
Come è questo tipo di compartecipazione ha almeno due difetti principali. Il primo è quello di legare il gettito attribuito alle regioni e/o agli enti locali alle decisioni di politica fiscale dello Stato centrale. Se lo stato centrale decide una riduzione delle aliquote Irpef, automaticamente si riducono le entrate regionali. Al contrario, se lo Stato centrale decide di aumentare il gettito aumentando le aliquote, una parte dell’incremento del gettito andrebbe alle regioni. Naturalmente questi effetti indesiderati potrebbero sempre essere sterilizzati con una correzione delle aliquote di compartecipazione. Tuttavia, il sistema diverrebe farraginoso e soggetto al rischio di una contraddizione continua. Il secondo difetto, in genere presentato come risolutivo, è quello, già ricordato, relativo al fatto il gettito Irpef è notevolmente sperequato tra le varie regioni per i forti divari sia nel numero dei contribuenti in rapporto alla popolazione, sia nel livello degli imponibili per ciascun contribuente. Una compartecipazione al gettito di un'imposta sperequata determinerebbe ampi divari di gettito pro capite tra le regioni,  che dovrebbero essere colmati da elevati trasferimenti di perequazione o da differenziazioni delle aliquote di compartecipazione.
È importante, crediamo, concentrare l’attenzione sulla semplicità e la trasparenza dei sistemi adottati sulla loro sostenibilità. Una diversa modalità compartecipazione è quella basata sull'attribuzione regioni e/o agli enti locali del gettito proveniente da uno scaglione predeterminato di imponibile. In particolare la logica di questo sistema di compartecipazione quella di attribuire a ciascuna regione una parte o la totalità, del gettito generato dallo scaglione di reddito imponibile di ciascun contribuente inferiore a una soglia di reddito predeterminato. Ciò produce due conseguenze attraenti. La prima è che il gettito attribuito alle regioni sarebbe indipendente dal grado di pressione fiscale e di progressività dell'imposizione a livello centrale, cioè dalle politiche fiscali centrali da esigenze di gettito dell’amministrazione centrale e dalle sue politiche ridistributive.
La seconda è che ci si potrebbe aspettare che le entrate per le regioni siano meno sperequate. I differenziali di reddito pro capite attribuito a ciascuna regione sarebbero determinati solo dal differenziale nel numero di contribuenti in rapporto alla popolazione, qualora i contribenti effettivi di tutte le regioni dichiaressero reddito almeno pari alla soglia di reddito sul quale viene calcolata la compartecipazione. L’aliquota d’imposta sullo scaglione di reddito interessato dovrebbe essere fissata dallo Stato in misura tale da generare un reddito sostitutivo degli attuali trasferimenti per il finanziamento della spesa regionale e degli enti locali. Ma questa aliquota potrebbe essere variata dalle regioni in base al principio di autonomia impositiva, senza che ciò, tuttavia, dia luogo a ulteriori trasferimenti dii tipo perequativo, poiché questi vengono calcolati in base alle aliquote omogenee e al gettito potenziale ad esse connesso. Il sistema, in tal modo, determinerebbe una perequazione dell'imponibile procapite su cui calcolare un Irpef regionale, mentre lascerebbe l'incentivo ai governi locali ad aumentare, con appropriate politiche, il numero dei contribuenti che non appartengono alla no-tax area.
In altri termini, la lotta al sommerso, da una parte, l’attrazione di contribuenti, cioè l'attrazione di attività economiche e l'aumento del tasso di attività, dall’altra diverrebbero la strada per l'aumento del gettito e quindi della spesa per servizi ai cittadini, Ogni governo locale dovrebbe calcolarsi la propria specifica “curva di Laffer», ossia la relazione tra l'aumento del gettito e il rischio di disincentivare l'attività economica in conseguente riduzione dello stesso gettito fiscale. Ciò non toglie che non si debba consentire di lasciare un'autonomia impositiva basata anche su addizionali, per cogliere la dinamica del reddito pro capite, e una possibile tassa generale sulle vendite, cioè un'imposizione indiretta da sostituire, a scelta, all'im­posizione diretta.
Una motivazione ulteriore ci spinge a considerare preferibile che l'autonomia impositiva delle regioni e degli enti locali non venga affidata solo, o principal­mente, ad accise o a tasse su consumi e attività specifi­che, cioè su fonti alternative agli imponibili erariali. La virtù principale del federalismo fiscale è di far sì che i cittadini abbiano molto chiaro a chi pagano le tasse su chi fa uso del reddito prelevato. La trasparenza è la chiave della responsabilità. Siamo sicuri che tutti i cittadini sappiano a quale livello di governo vanno le tasse sui combustibili? Tutti, al contrario, sentono senza «illusioni» fiscali il peso del prelievo sul reddito e questo è il livello del governo responsabile del prelievo.
Come queste considerazioni tengono conto dalla legge delega già approvata? Essa prevede per regioni ed enti locali un ricorso a compartecipazioni a tributi erariali, come l'Irpef, ad addizionali sulla stessa base imponibile e a possibili altri tributi sugli stessi imponibili erariali purché decisi con leggi dello Stato. Oltre a riconoscere autonomia impositiva con il ricorso a tributi propri su «altri presupposti». È anche prevista la possibilità di variazione delle aliquote. Le interpretazioni possono essere più o meno restrittive e ciò dipenderà dai decreti delegati. Ma certamente la delega lascia ampio margine per impostare un federalismo fiscale pro-crescita e politiche di fiscalità di vantaggio «del secondo tipo», cioè decise e sostenute dai governi regionali e locali.
Altro strumento di possibile fiscalità di vantaggio è quello adombrato dall' art. 14 della legge delega sugli interventi speciali da finanziare con un fondo apposi­to. Noi crediamo, tuttavia, che questo fondo vada uti­lizzato in particolare per le grandi opere infrastruttu­rali e soprattutto per integrare la spesa statale per le Illnzioni di tutela della legalità. In altri termini, questi interventi dovrebbero essere concentrati nel Mezzogiorno al perseguimento di quella che possiamo chiamare la «equalizzazione legale» e la «equalizzazione infrastrutturale».

La pubblica amministrazione e il patto per lo sviluppo del Mezzogiorno
Se come abbiamo fin qui sostenuto, lo Stato centrale ha un ruolo da svolgere, anche in ambito federativo, per la chiusura del dualismo, questo ruolo non può consistere, come si è già detto, solo nel trasferire fondi. Al contrario, la partita si giocherà in modo cruciale sul piano della capacità operativa della pubblica amministrazione, sia quella centrale sia quella decentrata. Spesso si usa dire che serve la volontà politica. Ma non basta avere la volontà di condurre una guerra, si deve anche avere un esercito in grado di combatterla. Lavolontà politica consiste nell' organizzare, un esercito potente ed efficiente. Fuori di metafora, nel Mezzogiorno l'obiettivo di avere una pubblica amministrazione trasparente ed efficiente è fondamentale. Tale evidenza è ampiamente confermata dal­le statistiche di utilizzo dei servizi che hanno l'obiet­tivo di aiutare il cittadino, come ad esempio Linea Amica. Il contact center che risponde, da fine gennaio 2009, al numero verde 803.001, fornisce risposta al cittadino sui temi inerenti la Pa e, nei casi più com­plessi, svolge l'analisi del quesito, contatta l'ammini­strazione competente e richiama il cittadino. Nella penultima settimana di settembre il 52,1 delle ri­chieste è giunto dal Sud, il 20'1 dal Centro, il 15,1 % dal Nord-ovest, il 7,8% dal Nord-est e il 5% dalle Isole. In particolare, quelle più numerose sono giunte dall'Abruzzo (36,4%, anche per effetto dell'aumento delle richieste connesse con la ricostruzione post-si­sma), dal Lazio (15,5%), dalla Lombardia (9,2%), dal­la Campania (8,2%), dalla Puglia (4,5%).
La trasparenza ed efficienza della Pa può essere quindi intesa del balzo in avanti nella produttività media richiesta al Mezzogiorno.
Nel paragrafo che segue si parlerà in modo specifico della relazione tra criminalità e produttività e della caratterizzazione che assume la corruzione in aree ad alto tasso di controllo criminale della società dell'economia. Combattere questi fenomeni è compito di branche specializzate della pubblica amministrazione, come è compito di altri settori di impiego pubblico rafforzare il capitale umano attraverso l'azione nel campo dell'istruzione e della sanità. Ma è l'aumento dell'efficienza e trasparenza di tutta l'amministrazione pubblica nel modo di fornire i suoi servizi alla società che sarà determinante per la crescita economica. Questo per almeno tre motivi. Il primo motivo deriva dal peso del settore pub­blico nell’economia meridionale, maggiore rispetto alle aree del Centro-nord. L’aumento della sua pro­duttività avrebbe quindi un effetto diretto sulla pro­duttività media.
Il secondo motivo, ancora più importante, è che l'efficienza e la trasparenza della pubblica amministrazione sono centrali per il funzionamento dell'eco­nomia privata e per il corretto svolgersi del ruolo allocativo dei mercati. Non contano solo le norme. Spesso è la loro attuazione attraverso la macchina amministrativa che determina il modo in cui effettivamente l'attività economica verrà frenata e distorta o, al contrario, facilitata e incentivata. La buona amministrazione è considerata ormai uno dei fattori fondamentale di attrazione degli investimenti, sia perché riduce i costi diretti d'investimento e di gestione delle attività economiche, sia perché determina il contesto sociale e ambientale favorevole all'attrazione del capitale umano necessario alla localizzazione degli investimenti.
Il terzo motivo dipende dall’azione diretta della pubblica amministrazione nei mercati come acquiren­ti di beni e servizi privati e come fornitrice di servizi in concorrenza con i privati. La sua spesa non rappresenta solo un generico sostegno alla domanda interna, o solo un problema di costo nel bilancio pubblico. Essa può avere un ruolo centrale nel rafforzare la concorrenza nei mercati in cui la sua domanda ha un peso significativo. La contendibilità dei mercati in cui opera la pubblica amministrazione come acquirente importante è necessaria non solo nel determinare risparmi nella stessa spesa pubblica ma anche per far funzionare gli incentivi all'innovazione e all'aumento della produttività che sono propri dei mercati compe­titivi. Anche quando la pubblica amministrazione of­fre servizi in sostanziale concorrenza con il settore privato, essa dovrebbe agire in funzione di rottura di cartelli e non per elevare il controllo monopolistico dei mercati stessi. Infine, è la domanda pubblica che può determinare nei mercati la massa critica per le in­novazioni tecnologiche.
Ed è proprio l'elemento della concorrenzialità che ha ispirato l'iniziativa Reti Amiche: grazie alla colla­borazione tra Stato e privati è possibile portare i servi­zi della Pa più vicino ai cittadini, moltiplicando e di­stribuendo in maniera più uniforme sul territorio i punti di accesso. Nasce così una competizione virtuo­sa tra pubblico e privato impostata su semplici principi: ciascuna Rete Amica è in competizione con le altre, nessun servizio è ceduto in esclusiva e il mercato porta allo Stato il proprio dinamismo. Il tutto senza oneri per lo Stato e a tutto vantaggio dei cittadini, con un generale miglioramento della qualità del servizio, una riduzione dei costi di sportello delle pubbliche amministrazione e del divide dei cittadini che hanno minor dimestichezza con internet (digital-) o che hanno minore mobilità ( -fisico). È immediato comprendere come l'impatto di questa iniziativa per le realtà meridionali sia di grandissima portata e i benefici marginali che ne possono conseguire sono enormi soprattutto in termini relativi.
Questi problemi non riguardano solo il Mezzogiorno, ma nel Mezzogiorno essi sono esaltati. Soprattutto nulla impedisce che proprio il Mezzogiorno, che ha necessità di un salto strutturale, si candidi a laboratorio d’avanguardia per l’intero paese.
I buoni propositi hanno bisogno di gambe, cervelli e incentivi per un loro buon uso. In altri termini, questi obiettivi hanno bisogno di capitale umano di livello elevato e di buone regole. L’introduzione dei principi di valutazione, controllo e premialità nel pubblico impiego è la chiave di volta per far valere nel settoree pubblico i meccanismi virtuosi della competizione. Forse una riflessione sulla potenzialità di questi principi può suggerire la strada per un’azione d’impatto nel Mezzogiorno. Più che di una fiscalità di vantaggio il Mezzogiorno avrebbe bisogno di una premialità di vantaggio. In che cosa questa potrebbe consistere?
Di recente è ripreso il vecchio dibattito sulle “gabbie salariali” come mezzo per aumentare l’occupazione nel Mezzogiorno. In realtà è la contrattazione decentrata che dovrà affrontare il problema della differenziazione salariale territoriale, oltre che settoriale, nel settore privato. Al Sud i salari sono in media più bassi, in parte perché è inferiore in media più bassi, in parte perché il minor costo della vita fa si che il divario tra i salari reali sia minore del divario tra i salari normali, e questo si riflette nella contrattazione decentrata. La situazione è diversa nel settore pubblico, dove un dipendente dell’amministrazione centrale, a parità di livello, percepisce  lo stesso stipendio in tutto il territorio nazionale. Questo fa si che nelle aree dove il costo della vita è minore la sua remunerazione in termini reali sia superiore. Se la questione fosse posta in questi termini, dovrebbe essere già in atto un meccanismo di attrazione del pubblico im­piego nel Mezzogiorno. Difficilmente questo tipo di attrazione si può, tuttavia, considerare virtuoso, a meno che si dimostri che nel Sud i dipendenti pub­blici, nei vari settori, abbiano una produttività più elevata che nel Centro-nord. La scommessa dovreb­be essere proprio questa: come mobilitare le migliori risorse della pubblica amministrazione per lo svilup­po del Mezzogiorno assicurando che il premio ex post, cioè documentato dai risultati, per i migliori sia maggiorato nel Mezzogiorno rispetto al Centro­nord. La strada da seguire dovrebbe essere quella di esaltare il peso del salario variabile rispetto a quello di base, in modo da amplificare lo spazio per la pre­mialità. Le condizioni del Mezzogiorno, o di ampie aree di esso, in cui un minore costo della vita, che rende potenzialmente iniqua l'omogeneità salariale territoriale, si unisce a una oggettiva maggiore diffi­coltà ambientale di conseguire incrementi di produt­tività, pur in presenza di ampi margini di inefficenza, dovrebbero spingere a sperimentare meccanismi di mobilitazione del capitale umano nazionale ispirati ai principi esposti. In sostanza, sarebbe necessari, i accettare una differenziazione salariale nominale rispetto al resto del paese, verso il basso per chi rimane nell'inefficienza, e verso l'alto per chi consegue risultati. Naturalmente, non si pretende che i più capaci diano prova di eroismo, ed è per questo che la condizione di legalità che si richiede al Mezzogiorno deve essere supportata dall'azione di contrasto alla criminalità, cioè dal ripristino del monopolio della forza da parte dello Stato.

La condizione della legalità e il patto sociale: crimine e produttività
Si è parlato nei paragrafi precedenti dell' obiettivo della «equalizzazione della legalità» come nodo cen­trale di un possibile patto tra Mezzogiorno e Stato centrale, tra Mezzogiorno e Settentrione. È bene, a questo punto, andare a indagare meglio se questa componente del patto abbia radici negli interessi degli attori in gioco.
Ogni giorno, intrappolati nel traffico caotico di una grande città, sogniamo una rete efficiente e capillare di moderne metropolitane. Ma quanto siamo disposti a pagare per ottenerle? Sbagliano i politici, le amministrazioni cittadine, che non sono in grado di valutare la disponibilità a pagare dei cittadini e, quindi, non investono a sufficienza nei trasporti urbani anche a costo di un maggior prelievo fiscale? O in realtà alla reazione emotiva non corrisponde nei cittadini una consapevole analisi costi-benefici che condurrebbe il politico a guadagnare voti proponendo una tassa di scopo destinata a finanziare le desiderate metropolitane o allocando in modo diverso le risorse esistenti? Il ragionamento può essere esteso al senso di allarme sociale per la criminalità che mette in discussione la sicurezza di persone, famiglie e imprese, e quindi alla domanda di azione preventiva e repressiva rivolta alle autorità competenti.
Quando si affronta la questione meridionale, il problema si pone in modo più complesso ed esteso, ma in modo molto diverso sul piano metodologico. Quanto sono disposti a pagare le famiglie e il sistema imprenditoriale meridionali per stabilire le con­dizioni istituzionali e di legalità per far sì che il Mez­zogiorno assuma un ruolo centrale nell'economia me­diterranea? E, soprattutto, quanto sono disposti a pa­gare le famiglie e il sistema imprenditoriale del Cen­tro-nord per conseguire questo fine?
Il tasso di criminalità, e più in generale di illegalità, è il prodotto di molteplici variabili di natura sociale, economica, giuridica, antropologica, culturale. Ma in estrema sintesi ciò che ha da dire 1'economista è che le azioni di contrasto alla criminalità hanno un costo, qualunque sia la politica ritenuta efficace, e che tale costo dovrebbe essere affrontato fino a quando un eu­ro in più speso a questo fine determina una riduzione del tasso di criminalità valutabile in termini monetari come superiore all' euro speso. In altri termini, la spe­sa per il contrasto della criminalità dovrebbe aumentare fino a quando essa determina una riduzione del costo complessivo della criminalità che pesa sulla società. Il problema è che il costo complessivo della criminalità non è facilmente valutabile in termini quantitativi e pone dei problemi di identificazione delle sue varie componenti e di analisi delle sue caratteristiche.  
Il problema è non trascurabile e la gran parte degli studi di natura quantitativa sui costi della crimialità della corruzione non dà conto dell'impatto complessivo di questi fenomeni sull' economia.
In generale, i dati ufficiali sui costi della criminalità riflettono forti imprecisioni perché basati sui crimini denunciati e, quindi, risentono in primo luogo dell’alto numero di crimini non denunciati, oltre a non tener conto dei crimini non portati a termine. Essi inoltre, non sempre prendono in considerazione sia i costi relativi alla prevenzione dei crimini sia quelli re­lativi ai cosiddetti costi opportunità, cioè al costo rap­presentato dagli usi alternativi possibili delle risorse impegnate dall'attività criminale, sia nel compierla sia nel contrastarla.
È anche necessario distinguere i costi privati dai costi pubblici creati dall' attività criminale e dalla corruzione, includendovi sia i costi della prevenzione sia quelli relativi al danno subito dalle vittime della criminalità. L'importanza di questa distinzione sorge in parte dal fatto che la spesa pubblica, ad esempio la spesa destinata alla prevenzione, è spesso sostituta della spesa privata. Ciò significa che un aumento della spesa pubblica per la prevenzione e la repressione dell’attività criminale può, anche se non ci fossero effetti netti sul tasso di criminalità, ridurre la spesa privata (ad esempio per sorveglianza privata e dispositivi vari di sicurezza e difesa). E poiché la spesa per la protezione da parte delle forze di polizia è una spesa per un «bene pubblico», cioè un bene che ha le caratteristiche della non esclusività e della non rivalità, è possibile che il costo complessivo della prevenzione si riduca, al di là della distribuzione di tale costo. Se, ad esempio, un aumento di 1000 euro della spesa pubblica permette una riduzione di 1500 euro della spesa privata, la spesa pubblica  dovrebbe essere aumentata e in tal modo ridotto il costo complessivo del crimine per la società. Anche la distribuzione tra i cittadini dei risparmi di spesa privata, da una parte, e delle maggiori tasse necessarie a finanziare la spesa pubblica, dall'altra, pone alle scelte politiche problemi di tipo distributivo.
Un altro problema che si pone nell'analisi dei costi della criminalità è quello relativo alla distinzione tra co­sto per la collettività e danno privato. In genere, si in­cludono nelle stime del costo della criminalità il valore della rcfurtiva, delle truffe, delle estorsioni (dei «pizzi» imposti a imprese e commercianti), delle «tangenti» ri­chieste a fini di corruzione. Tuttavia, nella letteratura sull'analisi economica del crimine questi proventi cri­minali sono identificati come «trasferimenti» e non co­me una perdita netta per la società. Si tratta cioè di va­lori che passano, seppur illegalmente, da alcuni cittadi­ni ad altri. Il risultato in termini di benessere collettivo può non essere a somma zero, se l'utilità attribuita alle risorse oggetto di trasferimento a seguito dell'azione criminale da parte di chi subisce il danno è inferiore o superiore all'utilità attribuita alle stesse somme da co­loro che se ne appropriano illegalmente. Paradossal mente, e provocatoriamente, seguendo questo tipo di analisi il benessere economico della società potrebbe non peggiorare a seguito di questi «trasferimenti» criminali o illegali, sempre qualora ci limitassimo a considerare solo questo tipo di costi (ipotesi Robin Hood ). Non si tratta di disquisizioni accademiche, ma di ,d frontare senza ipocrisie problemi dalle ampie conseguenze sul piano della determinazione delle politiche.
Il commerciante colpito sarebbe probabilnm Il l' di sposto a pagare tasse addizionali da destinare al potenziamento delle forze di contrasto della criminalità pari a una quota rilevante del suo reddito, e si tratterebbe di una somma enorme se l'aumento del prelievo fosse esteso a tutti cittadini. Ma non tutti pagano il pizzo e forse, nonostante l'indignazione morale, i cittadini non colpiti direttamente considerano implicitamente il piz­zo come un «trasferimento», seppur ingiusto, che non impoverisce la collettività nel suo complesso. Come non la impoveriscono i trasferimenti di risorse che ar­rivano sul territorio, anche se una parte consistente va ad alimentare l'illegalità e le cosche criminali. In fondo, l'inadeguatezza delle risorse destinate nel tempo dai governi al contrasto della criminalità sembra tradire il recepimento implicito di questo punto di vista. Ma quali sono le categorie di costi diretti e indiretti che devono essere presi in considerazione per valutare il peso aggravato del crimine sulla società? Una prima perdita per la società è rappresentata dalle risorse impegnate nelle produzioni indotte dal crimine (produzio­ne di impianti e attrezzature per la protezione personale e delle proprietà, nella produzione di carceri e altre strutture necessarie alla detenzione e correzione dei criminali, all'attività di prevenzione ecc.) che potrebbe­ro essere, usate per produrre beni che aumenterebber, il benessere della società in assenza di criminalità.
Vi sono poi i costi opportunità rappresentati dalla perdita di produzione potenziale da parte di coloro che sono impegnati in attività criminali o sottoposti a detenzione a seguito di attività criminali. Un costo opportunità addizionale viene dalla perdita di giorni lavorativi da parte delle vittime del crimine e per il tempo impiegato da tutti coloro che sono impegnati in attività di prevenzione e repressione. Infine, sono alti i costi impliciti, seppur di difficile misurazione, rappresentati dal I" "elle vite perse e dei danni fisici, e i costi psichiatrici rappresentati dalla paura per la propria incolumità fisica per gli attentati alla proprietà e dall'ansia dovuta a un generale senso di insicurezza. Si tratta di costi che ri­ducono fortemente il benessere degli individui.
Seguendo questa strada, tuttavia, si rimane nell'am­bito di quella che possiamo considerare un'analisi sta­tica o contabile del costo della criminalità. Ciò che in­teressa è capirne, sul piano qualitativo e quantitativo, l'impatto dinamico sulla crescita economica, anche perché in tal modo si individua un costo che tocca la totalità dei cittadini e, quindi, si pongono le basi per il consenso a un'azione di contrasto più efficace. Secondo questo diverso approccio l'attenzione deve spostar­e sistemarsi sul modo in cui l'azione criminale e illegale incide sul funzionamento del sistema economico.         
E su questo aspetto del problema, il più rilevante dal punto di vista economico se non da quello del cosiddetto allarme so­ciale, che vogliamo qui richiamare l'attenzione.
A questo fine, il primo passo è distinguere tra di­versi tipi di criminalità, concentrando 1'analisi sull'impatto della criminalità organizzata, che in questo scritto possiamo chiamare anche con il termine generico di «mafia». Più in particolare riteniamo utile concentrare l'analisi non sulle attività criminali della «mafia», ma sul ruolo della criminalità organizzata nelle attività economiche legali e sull'azione nel mercato della corruzione collegato al controllo di attività economiche legali.

Strategie anti-corruzione
Un utile punto di partenza dell'analisi è riferirsi agli studi sulla cosiddetta «organizzazione industriale dellacorruzione» (Schleifer - Vishny 1993). L'idea è che esi­sta un mercato della corruzione in cui abbiamo da una parte funzionari con poteri discrezionali sull' offerta di beni governativi (licenze, permessi, concessioni di ap­palti) e dall'altra imprese disposte a pagare sia per otte­nere beni legittimi, cioè dovuti in base alle leggi, sia per ottenere concessioni non dovute e quindi illegittime. Una delle principali conclusioni di questi studi è che una struttura monopolistica o di collusione oligopolista dell' offerta di «beni governativi» sul mercato della cor­ruzione è preferibile a una struttura più decentrata in cui ogni singolo livello di governo o funzionario pubblico possa vendere separatamente il suo «bene» che è complementare rispetto ai beni venduti da altri funzionari (un bene governativo complementare può essere un permesso, che rappresenta solo un elemento di una catena autorizzativa). Il motivo di questa conclusione è che una struttura monopolistica di controllo del merca­ti della corruzione tiene conto dell'impatto complessivo del prezzo della corruzione sulla domanda di beni governativi e sulle attività economiche connesse, mentre chi impone il prezzo della singola fase procedurale non tiene conto degli effetti che si possono avere sulla domanda connessa di altri beni governativi e tende solo a massimizzare la propria rendita. In altri termini, una struttura monopolistica della corruzione tiene conto del fatto che prezzi (tasse) troppo elevati possono ridurre i ricavi complessivi. Non sarebbe tempo sprecato quello dedicato a capire, ad esempio, il mercato della sanità alla luce di questi strumenti di analisi. Seguendo questa strada, il ruolo della mafia nel mercato della corruzione potrebbe essere considerato, paradossalmente, come un ruolo razionalizzatore. Una volta che prendiamo in considerazione l'azione con­giunta della mafia nei mercati legali e nel mercato della corruzione dobbiamo, tuttavia, modificare questo mo­dello. Il modello che vede un mercato della corruzione formato da una parte da agenzie governative che offro­no i propri «beni» e dall'altra da imprese private che li acquistano non riflette, infatti, correttamente la realtà nei territori controllati dalla criminalità organizzata. Il potere regolato re della mafia impone un monopolio bilaterale controllando sia il lato dell'offerta (le agen­zie governative) sia il lato della domanda attraverso il controllo, imposto mediante l'acquisizione diretta con il provento delle azioni criminali o attraverso minacce di azioni criminali, delle imprese che agiscono sui mer­cati legittimi. Il ruolo fondamentale della criminalità organizzata può essere, infatti, visto come quello di as­sicurare la formazione di cartelli e il loro mantenimen­to. La funzione di questi cartelli è quella di assicurare dei vantaggi alle imprese partecipanti eliminando la concorrenza tra le imprese già sul mercato e bloccando la concorrenza potenziale di nuove imprese. Come è noto, uno dei problemi dei cartelli è quello della loro stabilità e la criminalità organizzata assicura la stabilità di questi cartelli che operano sia in quello che abbiamo chiamato il mercato della corruzione (non tutti sono ammessi a corrompere o remunerare i detentori di «beni governativi») sia nei mercati legali. Il risultato è che i mercati (sia i mercati formali sia quelli informali del sommerso) sono di fatto meno contestabili nei territori controllati dalla criminalità organita di quanto lo siano in quelli in cui la criminalità organizzata è presente con i propri capitali nelle attività legali ma non è in grado di controllare i mercati. In casi estremi, laddove la mafia controlla sia il mercato della corruzione sia i mercati legali, di fatto il mercato viene eliminato e l'organizzazione economica diventa di ti­po «gerarchico», ponendo costi di transazione molto elevati (e non solo di tipo economico) a chi volesse en­trare nei cartelli o contestarli.
Il principale risultato di questo «ambiente istitu­/ionale» è una bassa crescita della produttività. La pre­senza di cartelli imposti dalla criminalità organizzata, determina esternalità pecuniarie negative che riduco­no l'attività economica in molti settori e, eliminando la pressione competitiva sulle imprese, rallentano innovazione e ricerca dell'efficienza sia produttiva sia nell’allocazione delle risorse. Inoltre, la stabilità di questi cartelli, impedendo il libero ingresso di nuove impre­se da altre regioni o da altri paesi, riduce la diffusione tecnologica e rende le imprese locali più deboli nei mercati competitivi esterni. In sintesi, il maggior impatto  negativo della criminalità organizzata sull' economia delle aree da essa controllate non dipende dall’ammontare delle rendite estorte ma dalla distruzione dei mercati competitivi, dalle barriere poste all' entrata di nuove imprese, dall'impedimento di flussi di investimenti esteri, e dal conseguente rallentamento della crescita della produttività.
Ma quali sono le implicazioni di questa analisi, peraltro non nuova, dal punto di vista delle politiche? La risposta richiede di completare la storia fin qui raccontata. La criminalità organizzata, con tutte le sue ramificazioni nella società civile, ha interesse a massimizzare i propri ricavi. A questo fine non ha motivo di prosciu­gare lo stagno in cui pesca. La parabola dell' overfishing corrisponde alla famosa curva di Laffer. Se riduco ec­cessivamente la base imponibile, a causa dell' eccessiva tassazione o dell'eccessiva inefficienza che genero sco­raggiando le attività produttive, riduco nel lungo ter­mine l'ammontare del prelievo. Perché quindi arrivare a ostacolare la crescita economica? La situazione, tutta­via, cambia se la mafia non pesca in uno stagno chiuso, nel cui caso si dovrebbe porre il problema del prelievo (taglieggiamento) sostenibile, ma in mare aperto. Fuori di metafora, se la base economica dello sfruttamento è indipendente dal tasso di sfruttamento, allora un alimento di quest'ultimo non è più irrazionale. Il punto cruciale è quindi l'esistenza di quelli che possiamo chiamare i flussi esterni di reddito, quali quelli garantiti nel Mezzogiorno da una spesa pubblica superiore al prelievo fiscale proveniente dalle stesse regioni. Se la spesa pubblica finanziata attraverso trasferimenti nazionali è sufficientemente alta, la mafia non ha bisogno di una  crescita economica locale per aumentare il gettito delle sue attività estorsive o i proventi delle sue attività nei mercati locali. Ciò determina una maggiore aggressività della criminalità organizzata e un maggior interesse a impedire il rafforzamento delle istituzioni di mercato per mantenerne il controllo.

Tre punti fermi per battere la criminilità
Le implicazioni di quest'analisi in termini di scelte politiche possono essere riassunte in tre punti.  Primo punto. Se si va oltre l'approccio che abbiamo chiamato statico-contabile, aumenta fortemente il co­sto della criminalità e quindi il potenziale beneficio, mi­surabile in termini di punti percentuali di tassi di cre­scita, derivante da una sua riduzione perseguibile con l'aumento della spesa diretta al suo contrasto. Implici­to in questa affermazione è il fatto che, essendo gli ef­l'etti della criminalità non organizzata contro le perso­ne e le proprietà - che forse è quella che più sta crean­,lo il senso di insicurezza dei cittadini anche nel Centro e nel Nord d'Italia - diversi dagli effetti della crimina­lità organizzata sulla crescita economica, è al Contrasto di quest'ultima che andrebbe attribuito il maggior beneficio di cui si è parlato. Quanto detto propone anche una diversa lettura di quei costi della criminalità classificati come «trasferimenti». Molti di questi trasferimenti, tra cui sono da annoverare i proventi di attività di estorsione e corruzione, non sono più da considerare neutrali dal punto di vista della collettività, perché riducend l'incentivo alla produzione, e generando un'allo­cazione inefficiente delle risorse, determinano un impoverimento complessivo della società.
Secondo punto. Gli studi teorici ed empirici sulla relazione tra povertà e arretratezza economica e criminalità non danno risposte univoche. Certamente esiste un circolo vizioso povertà-criminalità-povertà, ma la nostra analisi, se ritenuta valida, suggerisce che la povertà, che è un prodotto della bassa produttività, non può essere superata laddove la criminalità organizzata distorce e annulla i mercati. La conseguenza è che non è importante capire se la riduzione della povertà e della disoccupazione riduce di per sé il tasso di criminalità, perché il punto di attacco al circolo vizioso non può non essere la riduzione del controllo della cri­minalità organizzata sulle attività economiche. Questo risultato non è irrilevante quando si tratta di operare una scelta tra aumento della spesa sociale e aumento della spesa di contrasto alla criminalità.
Terzo punto. La metafora dell'overfishing suggeri­sce che il passaggio a un sistema conseguente di fede­ralismo fiscale, con la riduzione dei flussi di reddito provenienti dall' esterno, è una chiave importante per il contrasto della criminalità organizzata. Se, infatti, la spesa pubblica diviene più legata alla capacità di finan­ziamento generata dallo sviluppo locale, si hanno due possibili conseguenze: da una parte una possibile mi­nore pressione di una mafia «razionale» sull' econo­mia, dal momento che la sua capacità di estorsione è legata alla «base imponibile» e quindi alla necessità di non frenare troppo la produzione di reddito, dall' altra una maggiore percezione sociale del costo della crimi­nalità come fattore di sottosviluppo. Proprio questa percezione costituisce il presupposto del consenso politico alla scelta di mobilitare grandi risorse per con trastare e finalmente sconfiggere ogni forma di l'rimi nalità organizzata.

Responsabilità e territorio
L'Italia è un paese esposto alle catastrofi naturali, il Mezzogiorno in particolare. Le recenti vicende dei paesi intorno a Messina indicano che l’interconnessione e l'interazione tra le agenzie che controllano e “mantengono” il territorio è del tutto inadeguata.
La Protezione civile ha allertato le amministrazioni siciliane per l'arrivo del maltempo, anche se lo ha fatto non sulla base di protocolli comportamentali che defi­niscono in modo preciso che cosa debbano fare le am­ministrazioni locali. Il bollettino diramato alle 15,00 del 10 ottobre dalla Protezione civile recita: «tempor­ali anche di forte intensità e [ ... ] venti forti con raffi­che di burrasca dai quadranti occidentali» (Sarzanini 2009). Ma se questo linguaggio tecnico non si traduce i Il indicazioni di prevenzione adeguate, in comporta­menti che vengono indicati alla popolazione da parte della regione, rimangono agli atti, senza conseguenze pratiche. E succede quello che è successo. La linea difensiva delle amministrazioni locali è stata che le carte erano a posto, anche se si era autorizzata la costruione nell'alveo di un torrente.
La risposta a questo disastro non sono norme più severe, e neppure nuove sanzioni: la risposta della giustizia basta che sia veloce, magari senza ingiustificati ricorsi. Il processo restituisca fiducia e non si presti al gioco del rinvio della giustizia, che si traduce in impunità.
Ma la risposta delle istituzioni e della società civile, che debbono collaborare per superare questa incuria, può venire soltanto dalla chiara distinzione dei ruoli e del contrasto di interessi. Sia chiaro che non invoco uno spirito di collaborazione generico e un «volémose be­ne” come si dice a Roma. Lo Stato definisca le regole e le applichi con fermezza, ma le regole siano capaci di incentivare i comportamenti virtuosi e spingano all’assunzione delle proprie responsabilità. Abbiamo proposto l’introduzione dell' assicurazione per i disastri naturali come strumento di responsabilizzazione dei cittadini e delle autorità locali (Brunetta - Dal eo 2004). In base alla mappa dei rischi, i cittadini devono provvedere al tipo di assicurazione necessaria, che può essere obbliga­toria in alcuni casi e volontaria in altri, in base al livello di rischio. Il mirabile pragmatismo americano definisce il rischio elevato riferendolo alla probabilità che l' even­to si verifichi nella durata di un mutuo, e introduce la possibilità delle banche di non concedere il mutuo se manca l'assicurazione. Non solo, ma la tariffa viene concordata con le compagnie private a livello federale, perché è a quel livello che si deve far fronte con l'intervento di ultima istanza. E la tariffa viene scontata se il comportamento delle amministrazioni locali è virtuoso, ossia se il piano regolatore tiene conto dei rischi, se i re­golamenti edilizi sono fatti rispettare, se la manutenzio­ne delle infrastrutture di prevenzione e sicurezza è ese­guita a regola d'arte, se i cittadini partecipano a programmi di informazione e prevenzione attiva.
Come si vede il disegno istituzionale punta sulle regole, sulla distinzione dei ruoli, sulla responsabilità dei diversi livelli, dal cittadino all' amministrazione locale, alle imprese sul mercato, allo Stato federale.
È solo quando la banca avrà negato il mutuo all’acquisto di una casa costruita in mezzo al torrente elI\' l'amministrazione locale non potrà chiudere un’occhio, o due occhi, di fronte all'assurdità del permesso concesso «secondo la legge» o «rispettando le norme”. Se impediamo lo sviluppo di un sano contrasto di interessi, non garantiremo il controllo reciproco, trasparente, diretto sugli atti dell' amministrazione. Saremo conniventi con la sua sciatteria e con il malaffare.
E avremo uno Stato paternalistico, senza una società responsabile.

VI. Legalità e fiducia
Legalità e società civile, ovvero «Lo strano caso delle finestre rotte»
Senza società civile gli investimenti pubblici conti­Ill/eranno a produrre sprechi, clientele, dipendenza e proliferazione delle reti antagonistiche, espressione tanto della criminalità organizzata quanto dell' anomia diffusa; e il risparmio privato, che pure si produce ab­bondantemente nell'area, rimarrà inutilizzato (o impiegato altrove). Quindi, colmare il gap infrastrutturale produttivo è certamente condizione necessaria per innescare uno sviluppo economico e sociale sostenuto e duraturo, ma non può essere condizione sufficiente se non viene accompagnata, anche finanziariamente, da un parallelo impegno nella produzione di quei beni relazionali che sono, come abbiamo visto, così importanti per una forte società civile.
Procediamo con ordine. I problemi sul tavolo a suo tempo individuati possono essere sintetizzati in punti tanto noti quanto ancora attuali: 1) esiste la necessità di colmare il gap infrastrutturale produttivo; 2) c’è la necessità di investire in legalità come premessa a qualsiasi crescita culturale ed economica; 3) va spezzata la visione storica secondo cui il Sud è diver­so e pertanto merita «attenzione e sconti», come se questi fossero ammortizzatori sociali impliciti; 4) vanno destinate risorse economiche mirate per quali­ficare quantitativamente e gualitativamente gli inve­stimenti; 5) si deve investire sulle persone e rafforza­re il capitale sociale.
Qualsiasi contratto sociale si basa sun'ipotesi che la legge comandi il rispetto dei cittadini sia attraverso le sanzioni, sia attraverso le reciproche aspettative dei cittadini stessi che ciò avvenga. Affinché ciascun citta­dino rispetti la legge, perché si aspetta che gli altri fac­ciano altrettanto, è necessario che si instauri un mec­canismo virtuoso di attese soddisfatte, e di soddisfa­zioni attese, che riguardi un numero sufficiente, una massa critica, di cittadini.
Il ragionamento teorico sottostante è formalizzato nella «Teoria delle finestre rotte» di ]ames Q. Wilson e George Kelling (1982). Gli autori sostengono che il degrado sociale è l'inevitabile risultato del disordine: se una finestra è rotta e non viene riparata, chi vi passa davanti concluderà che nessuno se ne preoccupa e che nessuno ha la responsabilità di provvedere. Ben presto ne verranno rotte molte altre e la sensazione di anarchia si diffonderà da quell’edificio  alla via su cui si affaccia e poi all'intera città, dando il segnale che tutto è possibile.
Secondo questa teoria, in un territorio, problemi di minore importanza, come le finestre rotte, sono inviti a irregolarità più gravi.
Curare il particolare per migliorare il generale è un concetto che porta notevoli benefici. La lotta che è stata condotta dal ministero per la Pubblica ammini­strazione e l'Innovazione Contro l'assenteismo è nata proprio da una considerazione di contesto come que­sta. Se tra i dipendenti pubblici viene sviluppato il senso del rispetto per il loro lavoro, se si comincia a punire chi, con il suo lassismo, porta maleficio ai cit­tadini e superlavoro ai colleghi, si viene a creare una coscienza condivisa.
Nel nostro Mezzogiorno di finestre rotte ce ne sono migliaia. E non sono solo guelle fisiche, legate a pa­lazzi fatiscenti o all’abbandono in cui versano veri e propri tesori storici e artistici. Sono le finestre rotte degli ospedali mai finiti, le finestre rotte di progetti comunitari inutili e lasciati a metà, sono le finestre rotte della scuola e della pubblica amministrazione, intese come istituzioni, non solo come edifici, che tirano a campare distribuendo stipendi.
Questa teoria ha avuto importanti applicazioni in alcune aree metropolitane, come New York negli Stati Uniti e Curitibain Brasile, uscite dal degrado per diventare due importanti e ricche realtà urbane. È vero, sono esempi di grandi metropoli; ciò nonostante i principi e i modelJi possono, su scala diversa, essere applicati anche a realtà più ampie e articolate, come il Mezzogiorno.
Fondata nel 1654, Curitiba è la capitale dello Stato Parana sin dal 1831. Oggi ha 1,5 milioni di abitanti, negli anni trenta ne aveva poco più di 100 000. Era una delle tante piccole città di provincia di cui è piena l'America Latina. Diventò ricca negli anni cinquanta grazie al caffè, ma alla fine degli anni sessanta il mercato del caffè crollò e la città cominciò a sprofondare in un inesorabile stato di degrado urbanistico e sociale.
Nel 1971 fu eletto sindaco Jaime Lerner; nel 1972 egli si convinse che era arrivato il momento di cam­biare il destino della sua città: decise di creare la prima isola pedonale del mondo. Lerner sapeva di avere con­tro buona parte della città. I lavori iniziarono un ve­nerdì pomeriggio. Il lunedì mattina erano finiti. I cit­tadini di Curitiba restarono a bocca aperta. Erano sta­te piantate migliaia di piante fiorite e la popolazione si mise a strappare tutti i fiori per portarscli a casa. Ler­ner lo aveva previsto e già erano pronte squadre di giardinieri che sostituivano immediatamente le piante. Ci vollero un po' di giorni ma alla fine i cittadini smi­sero di rubare i fiori. I commercianti, da contrari di­vennero favorevoli, perché si accorsero che il centro cittadino trasformato in salotto favoriva le vendite.
La riforma non si limitò al centro cittadino, ma fu estesa alle periferie; per la raccolta differenziata venne creato un servizio di camioncini che giravano per la città scambiando i sacchi di immondizia differenziata con buoni acquisto per nuovi beni (quaderni, libri o biglietti per gli autobus). In breve tempo il 96% del l'immondizia della città venne raccolta in modo dille renziato e riciclata. Ragionando a partire dai bisogni dei cittadini, si ha sempre successo.
Non sono i problemi ad essere diversi. È la logica con la quale si affrontano ad essere differente. È ovvio che non si possono risolvere i problemi del Mezzogiorno introducendo qualche isola pedonale o con la raccolta differenziata. Ma applicando con intelligenza le idee come queste, facendo partecipare la popolazione alla «cosa pubblica». Crediamo che gli abitanti della Sicilia o della Calabria non abbiano nulla di meno de­gli abitanti del Parana in termini di senso civico e di amore per la propria terra.

I biglietti si pagano e i graffiti si puliscono: la lezione di New York
A metà degli anni ottanta, il sistema dei trasporti della città di New York era al collasso: degrado, delinquenza, prendere la metropolitana era un atto di coraggio per la maggior parte dei cittadini. L'azienda dei trasporti comunale chiese l'intervento di George Kelling (uno dei due studiosi ideatori della Teoria delle finestre rotte) come consulente; egli invitò l'azienda a mettere in pratica la sua teoria ed essa acconsentì, affidando la nuova direzione del servizio di metropolitana a David Gunn, incaricato di sovrintendere alla ricostruzione della rete.
Gunn decide di partire lanciando una campagna contro i graffiti. Molti sostenitori del progetto, al
Tempo stesso, dissero a Gunn di non preoccuparsi di queste cose e di concentrarsi piuttosto su questioni più gravi: consiglio che sembrava ragionevole. Gunn insistette. «I graffiti simboleggiavano il collasso del “sistema” affermò. «Bisognava vincere la battaglia contro i graffiti. Senza quella vittoria, tutte le riforme ai vertici del sistema e i cambiamenti concreti non si sarebbero verificati». Gunn disegnò una nuova struttura residenziale e fissò una serie di obiettivi precisi e una tempistica allo scopo di ripulire tutta la metropolitana, treno per treno. Impose la regola ferrea che non ci sarebbe stato alcun passo indietro e che non si sarebbe mai più permesso che una vettura, una volta «recuperata», subisse nuovamente atti vandalici. Al capolinea installò una stazione di ripulitura. Se una vettura tornava con nuovi graffiti, questi dovevano essere rimossi durante il turno di sosta, oppure il con­voglio veniva escluso dal servizio. Le vetture «spor­che» non dovevano mai viaggiare insieme a quelle «pulite». L'idea era quella di lanciare un messaggio che risultasse privo di qualunque ambiguità anche agli occhi degli stessi vandali.
L'operazione di ripulitura durò dal 1984 al 1990. A quel punto, l'autorità dei trasporti chiamò William Bratton a dirigere la polizia della metropolitana ed ebbe inizio la seconda fase del recupero. La sua prima misura come capo della polizia della metropolitana, a prima vista, fu tanto avventata quanto quella di Gunn. Mentre gli episodi di criminalità grave sulla metropolitana restavano a un livello elevato, Bratton decise di dare un giro di vite alla questione dei biglietti non pagati. Secondo Bratton non pagare i biglietti era un segnale che invitava a commettere reati ben più gravi, si stimava che 170000 persone al giorno entrassero nella rete della metropolitana, in un modo o nell'altro, senza pagare. Alcuni erano ragazzini che saltavano semplicemente i cancelli automatici; altri li forzavano, una volta che due o tre persone iniziavano a imbrogliare l'azienda, altre, che diversamente non avrebbero mai considerato l'ipotesi di eludere la legge, si univano a loro, argomentando che, se c'erano individui che non pagavano, nemmeno loro erano tenui a farlo, e così si arrivava all'effetto valanga. Bratton seelse le stazioni dove il fenomeno dei passeggeri abusivi era il problema dilagante e piazzò fino a dieci poliziotti in borghese ai cancelli d'entrata. La squadra fermava le persone ehe non pagavano una alla volta e le trattene­va lì in piedi in modo da segnalare, quanto più pubbli­camente possibile, che la polizia della metropolitana .ldesso aveva davvero intenzione di usare le maniere iorti. Colpiti nel rispetto di se stessi, in molti riprese­ro a pagare il biglietto.
In seguito all'elezione di Rudolph Giuliani a sindaco di New York, nel 1994, Bratton fu nominato capo del Dipartimento di Polizia ed estese l’applicazione delle stesse strategie all'intera città. Diede ordine ai suoi agenti di usare la mano pesante con i reati mino­ri. Quando la criminalità iniziò a diminuire in città, in modo veloce e improvviso come era accaduto per la metropolitana, Bratton e Giuliani indicarono la stessa causa: reati apparentemente insignificanti, sostennero, erano i punti critici della criminalità violenta.

Più legalità, più fìducia
La legalità crca fiducia e la fiducia genera a sua volta legalità. Il rapporto tra aspettative e legalità può essere virtuoso o vizioso a seconda di dove si colloca la massa critica. Se, ad esempio, la massa critica, per una data comunità, è data dal 5O%, cioè se si prevede che il 50% della popolazione rispetti le leggi, molto probabilmente rispetterà il numero di cittadini che effettivamente rispetterà  le leggi sarà anche superiore (la più che proporzionalità della risposta effettiva varierà ovviamente da comunità a comunità), poniamo al 70%. Questo ti­po di valori porterà, nel tempo, a rivedere verso l'alto la previsione sul numero di cittadini che rispetteranno la legge, oltre il livello di massa critica, innescando co­sì inevitabilmente un nuovo aumento del numero di cittadini che effettivamente rispetteranno la legge, e co­sì via, fino a un punto massimo di saturazione virtuosa in cui il contratto sociale si afferma progressivamente per la stragrande maggioranza della popolazione.
La teoria delle finestre rotte è dunque una teoria di contesto: sostiene che il comportamento sia fun­zione del contesto ambientale e si fonda sulla pre­messa che un fenomeno possa essere invertito inter­venendo sui dettagli minori dell'ambiente immedia tamente circostante. Sostiene che i cittadini siano ill realtà persone sensibili all'ambiente in cui si trovano, attente a qualsiasi segnale e indotte a comportarsi bc ne o male basandosi sulla percezione che hanno (kl mondo intorno a sé. Si tratta di un'idea incredibimente radicale, che ribalta le teorie degli anni sessanta secondo cui la criminalità era il risultato dell'ingiustizia sociale, di iniquità economiche strutturale, della disoccupazione, del razzismo, di decenni di neglicenza istituzionale e sociale, per cui se si voleva fermare la delinquenza si doveva avere il coraggio di compiere azioni eroiche.
L'eroismo, sappiamo, è invece nelle piccolo esattamente quello che affermano Wilson e Kelling: non è necessario risolvere solo i grandi problemi per risollevare una città dal degrado. Anzi, spesso limitarsi ai grandi temi è solo un nuovo alibi per l’insuccesso.
La colpa è sempre di qualcosa di grande che non è possibile vincere. Invece si può fare molto anche con le piccole cose. Se il contesto in cui il Mezzogiorno opera cresce di livello, di conseguenza anche le azioni che vi si compiono diventano migliori, contribuendo alla sua crescita.
È su questo slancio che possono essere attivate i niziative per il Sud Italia per creare più fiducia e più legalità.
Corollario delle azioni fin qui descritte, così come li quelle che avremo modo di elencare nel prosieguo, il principio di «ordinarietà» nella gestione degli aHa­pubblici e privati: ogni aspetto della vita civile, sociale ed economica deve poter essere svolto secondo le leggi e le regole esistenti, in via ordinaria e in ossequio alle normali responsabilità di ciascun individuo ed entità sociale.

La prevenzione, arma di base contro la corruzione
Anche  il nostro paese, in linea con gli altri, si è dotato recentemente di nuovi soggetti istituzionali e ha adottato e sta adottando nuovi strumenti per produrre in generale più legalità e più fiducia; per ora questi strumenti sono in via di definizione sotto il profilo organizzativo e concettuale, ma certamente il Sud potrebbe costituire un primo terreno di sperimentazione interessante con ricadute non solo per le regioni direttamente, il Mezzogiorno, ma anche per tutto il resto del paese.
Ora, sulle risorse da destinare al Sud il dibattito è acceso: è opinione diffusa che i fondi assegnati per investimenti alle strutture della pubblica amministra­zione costituiscano il terreno di coltura ideale per at­teggiamenti illegali: corruzione, concussione, infil­trazioni di malavita organizzata e via di seguito. Le forze dell' ordine e la magistratura lavorano a valle del processo di consumazione del reato, mentre si rende necessario lavorare sulla prevenzione e creare le condizioni perché il rischio di corruzione diminusca velocemente.
Delle tre componenti classiche, prevenzione, investigazione e sanzione, quella che è maggiormente ef­ficace nella lotta alla corruzione è la prevenzione. Pre­venzione significa adottare modelli organizzativi che tengano opportunamente conto dei diversi gradi di rischio ai quali si è esposti. Allo stato non è così. In Italia, infatti, un' amministrazione della Val d'Aosta o del Trentino ha lo stesso livello di rischio di una struttura che opera nel Sud, dove la criminalità è piil forte; un centralino e un ufficio appalti, sotto il pro filo del rischio di corruzione, sono assolutamente uguali, o meglio nessuno presenta alcun livello di rischio, dal momento che non viene analizzato e misurato e, si sa, elemento che non si misura non si gestisce e non si migliora.
In tale contesto può giocare un ruolo importante un nuovo soggetto istituzionale: la Commissione sulla valutazione della trasparenza e dell'integrità delle amministrazioni pubbliche, introdotta con la legge delega n. 15/2009 e oggetto del decreto legislativo delegato approvato il 9 ottobre 2009.

Nuovi strumenti per la pubblica amministrazione
Tra i vari compiti della nuova Commissione c'è anche quello di governare il processo di diffusione dell'integrità e dell'etica pubblica facendo leva sulla trasparenza e suggerendo alle pubbliche amministra­zioni l'adozione di strumenti e modelli organizzativi atti anche a prevenire fenomeni di corruzione e frode ,li loro stesso interno. Il tema della lotta alla corruzio­Ile per creare più legalità e più fiducia è peraltro un impegno che accomuna la maggior parte dei paesi in­,I ustrializzati. L'Ocse, a tale proposito, ha predispo­sto unframework concettuale, assolutamente condivisibile e applicabile al contesto del Mezzogiorno, che si articola in quattro aree (I. «definizione di concetto ,I i integrità», Il. «supporto»-affiancamento al personale; III. «monitoraggio»; IV. enforcement). All’interno di tale quadro la Commissione potrebbe dare il suo contributo nell'implementare la strategia di azione con riferimento alle prime tre aree.
L’idea da perseguire è quella di fare per la corruzione ciò che si è fatto per la sicurezza, con il decreto legislativo 626 del 1994 (trasfuso nel Testo unico sul­l",mezza sul lavoro, d.lgs. n. 81 del 9 aprile 2008): si valuta il rischio, si mettono in atto procedure di gestione per prevenire questo rischio - agendo sia sulla probabilità che sugli eventuali effetti -, si controlla che le procedure adottate siano realmente seguite .(audit), e se accade qualche cosa di spiacevole – e accade anche nelle migliori organizzazioni -, se non si riesce a dimostrare che si è fatto tutto il possibile, scatta una responsabilità organizzata individuale. Un elemento, questo, quasi sconosciuto nelle nostre'" publiche amministrazioni che è affidato alla sola sen­sibilità delle persone, anche se non avviene così nel settore privato. Tutti ricordano il doloroso incidente accaduto nella fonderia di Torino dove hanno perso la vita diversi operai e dove al direttore dello stabili­mento è stata riconosciuta in primo grado una «re­sponsabilità organizzati va forte», una colpa grave miscelata al dolo, per il fatto di non aver adottato procedure idonee e di non averle fatte rispettare. L'accusa è di omicidio.
Ora, se un dipendente è corrotto, egli risponde da­vanti alla magistratura per i reati penali commessi, ma il suo dirigente, il suo capo diretto, magari un po' troppo distratto, che non ha valutato per nulla il ri schio (differente è la situazione se lo ha valutato e lo ha valutato male, e questo è ovviamente ammissibile che capiti) e non ha adottato idonee procedure di prevenzione, ha una responsabilità organizzativa pesata' nei confronti sia dell'amministrazione che della società civile, ed è pertanto giusto che paghi anche lui.
La domanda da porsi è: quanti dirigenti repsonsabili di quelle strutture dove si sono consumati reati di corruzione, invece di pagare per la loro «culpa in violando», hanno magari ottenuto il premio di risultato fine anno?
Per le regioni del Sud che ricevono risorse aglomerative e speciali, ma non solo per queste, è fondamentale che tra gli obiettivi strategici vengano inseriti il contrasto e la lotta alla corruzione con precisi indicatori di risultato. Affidare il tutto alla diligenza del buon padre di famiglia - la storia lo ha dimostrato non è sufficiente.
Senza andare troppo lontano si potrebbe adottare, anche se qui il concetto è rovesciato, ciò che è adotta­to nelle aziende private e in alcune S.p.A. a prevalente capitale pubblico con la legge 231 del 2001 : se si riesce a dimostrare che sono state messe in atto tutte le pro­cedure per combattere le frodi e le malversazioni, in ,ede giudiziaria le eventuali sanzioni per gli ammini­';tratori vengono attenuate.

Il Sud; laboratorio per combattere la corruzione
Il modello di valutazione del rischio in ambiente pubblico non serve solo per contrastare la corruzione ma anche per: assicurare la trasparenza; gestire la capacità di risposta delle varie strutture organizzative alle missioni assegnate (rischio organizzativo); per gestire i rischi patrimoniali, i rischi di reputazione e di immagine.
Una possibile soluzione a che tali modelli si diffondano tra le amministrazioni italiane consiste nel prevedere un disincentivo economico indiretto per tutti i soggetti che ne sono privi. Il sistema che si propone è molto simile a quello che adotta la Comunità europea quando decide di non finanziare più alcuni dei nuovi paesi entranti perché esposti a un rischio di corruzione troppo elevato. La sospensione dell'erogazione dei fondi è limitata nel tempo e fino a quando idonei modelli di 'prevenzione del rischio non saranno stati adottati. Ovviamente vengono forniti nel con­tempo anche tutti i supporti necessari per migliorare in tempi brevi la situazione.
Considerando il fatto che la gestione e la valuta­zione del rischio, fatte le solite eccezioni (Banca d'Ita­lia, Ragioneria generale dello Stato, Agenzia delle en­trate), è quasi sconosciuta nelle amministrazioni italia­ne, nessun ente sarà in grado da subito di garantire una corretta gestione del rischio di corruzione. Si potrà prevedere una gradualità nell'introduzione del siste­ma: erogare una prima trance di fondi «sulla fiducia» e subordinare ]'erogazione del resto all'adozione di si­stemi di valutazione del rischio.

Siamo tutti responsabili
Si tratta di creare unframework culturale e tecnicll che ancora non esiste nella pubblica amministrazione italiana, e meno ancora in quella del Mezzogiorno.
Il framework si articola in diversi passaggi. Nel primo si obbliga ogni amministrazione che riceve fondi ad adottare un sistema di «auto rivelazione” dei rischi e dei controlli legati alla corruzione (risk assessment) che risponda agli standard (una sorta di Iso de11'anticorruzione) emessi dalla Commissione per la valutazione, la trasparenza e l'integrità delle Pa; la realizzazione di questi standard sarà uno dei primi atti della stessa Commissione, non appena verrà operativa: un compito non troppo difficile, dal momento che all' estero hanno già inventato tutto e da tempo.
Nel secondo passaggio la Commissione, nel suo ruolo di accompagnamento, di delivery unit più che di controllo, potrebbe affiancare le amministrazioni del Sud nell'adottare queste nuove tecniche e proce­dure per presidiare i rischi di corruzione attivando gemellaggi e tuta raggi, gruppi di lavoro e cantieri di sperimentazione.
In un terzo momento si potrà identifìcare un soggetto indipendente che verifichi a campione l'adozio­ne degli standard proposti dalla Commissione, e qui c’è solo l'imbarazzo della scelta tra Corte dei conti, Ragioneria generale dello Stato, con le sue strutture Territoriali, i vari ispettorati (anche quello della Funzione pubblica), la Guardia di finanza, gruppi di verifica creati ad hoc, strutture professionali private ecc.
L'utilizzo dei patti di integrità, a differenza di ciò che avviene in altri paesi, non è molto diffuso, anche se ha registrato interessanti sperimentazioni in un paio di grandi comuni del Nord d'Italia e un tentativo di applicazione in un grande comune della Sicilia. Il patto di integrità è un accordo di massima trasparenza tra ente committente e fornitore con il quale si stabiliscono, in maniera chiara e trasparente, da un lato i criteri di decisione in merito alle gare bandite dall'ente, e dall'altro i l’impegno del fornitore e dei suoi dipendenti a non mettere in atto comportamenti scorretti, obbligandosi anche a rendicontare in maniera puntuale tutte le entrate le uscite del progetto, per tutta la sua durata. Il patto di integrità prevede la presenza di un organismo non profit qualificato e indipendente, che «certifica» il rispetto di tale accordo e la contestuale emissione di una fideussiaria bancaria che, qualora il patto non venga rispettato in toto o in parte, è escutibile imme­diatamente da parte dell'ente appaltante. Questo di­venta un momento di trasparenza, di autoregolamen­tazione e di autoselezionc, che prevede anche una san­zione non solo morale, ma anche economica, e co­stringe la banca che rilascia la fideiussione a un'istrut­toria sull'integrità e sui comportamenti etici del forni­tore prima di assumersi il rischio. Certo, questa non è la panacea per tutti i mali, ma certamente contribuisce a creare un clima di fiducia e di legalità che non guasta. Anche cosÌ si crea la cultura della legalità, si incremen­ta la fiducia e si alimenta un fenomeno che potrebbe diventare emulativo: si potrebbe addirittura prevedere l'adozione dei patti di integrità come requisito qualifi­cante sui bandi di gara. In fondo è una sorta di certifi­l'azione di qualità.

Un nuovo Risorgimento: il ritorno dei Mille e le risorse umane del Sud
Un altro elemento importante per aumentare il livello di legalità e di fiducia è quello legato alle risorse umane: la qualità di un territorio la fa la sua gente. Questo significa che bisognerà avviare un programma poliennale di investimenti non solo in capitale umano, ma anche e soprattutto in capitale umano che abbia come obiettivo il superamento del gap di legalità e  fiducia nelle aree più a rischio del Mezzogiorno. Ciò significa che in tali aree dovranno essere completamente rivisti i parametri di assegnazione di risorse tanto nel campo della prevenzione quanto in quello della repressione, così come in quello infrastrutturale. Il tutto potrebbe tradursi in semplici e ehiari indica­tori differenziali di fabbisogno. Il programma, inol­tre, non dovrà essere di natura meramente quantitati­va, ma caratterizzarsi per precise valenze gualitative. Non serviranno cioè solo più magistrati e più forze dell'ordine, ma soprattutto i migliori magistrati, le migliori forze dell'ordine e dotati dei migliori mezzi lecnologici e di intelligence.
Detto in altri termini, serve Ulla nuova «spedizione lei Mille». Naturalmente per attrarre le migliori risorse umane non si potrà unicamente far riferimento al tradizionale richiamo al senso del dovere, ma occorre­rùà mettere in atto un efficace sistema di incentivi eco­nomici, finanziari, di carriera tali da innescare una competizione al rialzo per andare a svolgere la propria missione in aree tanto difficili, ma anche tanto potenzialmente gratificanti dal punto di vista del riconoscimento morale, civile e, perché no, economico. Esattamente tutto il contrario di guanto si è fatto finora. È chiaro che interventi di questo tipo richiederanno una completa revisione delle norme di reclutamento, completa assegnazione (eventuale superamento dell'inamovibilità per i magistrati), remunerazione del personale, pubblico coinvolto, Questo forse è il punto di più difficile realizzazione: cambiare le regole del gioco dell’agire burocratico, in relazione a una situazione oggettivamente e strutturalmente divergente e di alta pericolosità sociale. Sembrerebbe un punto di buon senso e di relativamente facile acquisizione, in realtà potrebbe diventare l'ostacolo più rilevante. Infatti, l’applicazione sostanzialmente omogenea a tutto il territorio delle medesime regole dell'agire burocratico, senza tener conto delle difficoltà ambientali differenziate, ha di fatto prodotto sino a oggi una selezione al contrario: il miglior capitale umano e, con esso, la maggior parte delle risorse finanziarie e infrastrutturali e i relativi be­ni rclazionali sono andati a localizzarsi nelle aree di più alta qualità sociale ed economica, per ragioni di si­nergia facilmente comprensibili.
Nelle difficili, pericolose e sgradevoli sedi del Sud sono spesso finiti, involontariamente, i meno qualifi­cati o più inesperti o, volontariamente, i figli delle stes­se borghesie locali che culturalmente e socialmente non sentivano la diversità, ma anzi cercavano, attra­verso il ritorno nelle zone di origine, la realizzazione sociale e di carriera, sulla base di valori personali se non conniventi, di fatto neutrali e certamente non in chiaro e palese conflitto con gli equilibri perversi pre­valenti in tanta parte del Mezzogiorno. La selezione al contrario ha finito per depauperare e svilire ancor più il capitale umano presente nell'area, in uno dei tanti circuiti viziosi che siamo andati sin qui trovando. Naturalmente le eroiche eccezioni che pur in questi decenni ci sono state, e che sono state prontamente eliminate o messe neIla condizione di non agire, non fanno altro che confermare la regola. A titolo di esempio, di recente mi è stato segnalato che una dirigente, la dottoressa Michelina Grillo, ha dovuto addirittura affrontare, superandoli positivamente, diversi processi che le erano stati intentati perché in una sede del Nord aveva applicato con opportuna severità le regole sulle visite fiscali, contro l'assenteismo. Questa stessa dirigente, tornata al suo Sud, sta realizzando importanti risparmi di amministrazione. Mi chiedo: quante dot­toresse Grillo attendono ancora di essere valorizzate?
Bisognerà quindi pensare anche a mobilitare le energie locali, che, lo ribadisco, esistono ma sono com­presse da un ambiente non favorevole, per affiancarle ;lgli apporti positivi dal Nord: i «gemellaggi». Per tor­nare alla metafora dei Mille, ricordo che Garibaldi e i suoi, quando sbarcarono a Marsala, trovarono in Sici­lia e nel Sud nuclei già attivi di "insorti», che avevano da tempo preparato il terreno. Uno di loro, Rosolino Pilo, si batté da eroe aprendo la strada ai garibaldini e i suoi alla conquista di Palermo, dopo la battaglia di Calatafimi; e anche questa, forse, non sarebbe stata vinta " le truppe borboniche, incalzate dall'impeto dei Mil­lle , già raddoppiati di numero grazie ai volontari siciliani, non si fossero ritirate per la paura di ulteriori bande e di insorti pronte ad accerchiarli.
Allo stesso modo, dunque, mentre si cercheranno al Nord funzionari e dirigenti pubblici esperti e di comprovata capacità del inviare al Sud per portarvi il loro contributo di professionalità e managerialità, l' "Operazione Pilo», utilizzando le nuove tecnologie, in particolare quelle gestite dai Dipartimenti della Funzione pubblica e dell'Innovazione, dovrà prevedere la creazione del Sud di una rete che finora non è esistita, fatta di dirigenti e funzionari pubblici preparati e onesti. Essi verranno incentivati a confrontare tra loro - e a inviare al centro - proposte di miglioramento, segnalazioni di inveterati ritardi e di inaccettabili disfunzioni, relazioni sulle cose positive che sono riusciti a realizzare, vincendo le difficoltà e le diffidenze consolidate. Con questi nuovi insorti», a difesa della buona e sana amministrazione, dovranno prendere contatto le tante sedi di eccellenza riscontrate al Nord, e ognuna di esse dovrà «adottare» un'amministrazione del Sud per instaura­re con quei colleghi un dialogo fecondo, fatto di scambi di programmi, metodologie, esperienze. Pe­riodicamente, le amministrazioni unite da queste «au­tostrade di buone pratiche» daranno conto dei pro­gressi registrati (e non è detto che anche le ammini­strazioni del Nord non debbano avvantaggiarsi di questi scambi, grazie magari a qualche soluzione più «creativa» inventata dai colleghi del Sud). Questo si intende quando si parla di «gemellaggi» tra pubbliche amministrazioni. Gemellaggi che possono anche vali­care i confini delle Alpi per consentire alle strutture amministrative meridionali (e non solo) di sviluppare relazioni e collaborazioni istituzionali al fine di avvi­cinare le culture amministrative dei diversi paesi coin­volti e trame reciproco vantaggio. A livello operativo si può pensare di adattare il progetto comunitario «Twinnings» ai rapporti tra le aree a diverso livello di sviluppo dei singoli Stati membri.
L'unificazione del nostro paese, purtroppo, è stata sentita da buona parte del Sud come una sorta di ope razione di colonizzazione, e la propaganda reaziona ria ha avuto buon gioco nell'amplificare questa percezione. Ora, attraverso la nuova rete di scambi di esperienza tra pubbliche amministrazioni, possiamo fare in modo che i cittadini italiani, tanto del Nord quanto del Sud, arrivino a considerare la Pa una struttura ovunque egualmente «amica» e alloro servizio: come si diceva una volta, «dalle Alpi al Lilibeo».
Per riassumere: si propone una politica di investi­menti in beni pubblici (giustizia, sicurezza, ordine pub­blico, lotta all'evasione fiscale e alla corruzione) che, se attuati nelle quantità e qualità necessarie, con il massi­mo di garantismo, il massimo di consenso e per tutto il tempo necessario, può non solo far raggiungere la massa critica della legalità di autoriproduzione, ma in­durre una crescita più che proporzionale di beni rela­I.ionali connessi con l'aumentata fiducia: la produttivi­1:1 media sociale, a parità degli altri fattori, ne risulte­'ebbe fortemente aumentata, con effetti di spill over i tracimazione) positivi in tutti i gangli della società ci­\ ile ed economica.

Per una giustizia che deve funzionare
N on basta, l'Italia ha un livello di litigiosità civile superiore di 3,5 volte a quello della Germania, doppio di quello di Spagna e Francia. Il Mezzogiorno ha 2,5 volte la conflittualità dell'Italia del Centro­ nord, già più alta del valore dei grandi paesi europei (Carmignani - Giacomelli 2009). Perché? La spiegazione non sta nella durata dei procedimenti, che pure al Sud è quasi doppia, rispetto al Centro-nord. Si tratta nfatti dei nuovi procedimenti, sono questi che hanno doppia frequenza rispetto al Centro-nord. La spiegazione è che nel Sud la giustizia civile, proprio o perché non funziona, consente di non attivare procedure di arbitrato e di transazione tra i privati. Non c’è nessuna convenienza a definire privatisticamente le controversie: i beni relazionali non sono sviluppati, la reputazione conta poco se il mercato è debole e il mercato è debole e non si allarga se la reputazione non conta, perché si può bloccare la regolazione di tipo privatistico ricorrendo ad un sistema giudizia­rio che garantisce l'inefficienza e quindi l'impunità della mancanza di parola o di impegno o di lealtà commerciale.
Non solo occorre svelti re la giustizia rendendola più efficace, ma bisogna anche renderla più costosa per impedire che della giustizia si faccia un uso distor­to che finisce per appesantirla ulteriormente.
L'illegalità e la corruzione, comunque, possono rappresentare anch' esse delle opportunità, almeno dal punto di vista strettamente economico. Basti solo pen­sare, per fare un esempio, alla quantità di ricchezz;l che potrebbe essere reimmessa tra i beni pubblici se solo si riuscisse a moltiplicare per dieci o (meglio) pel cento il gettito derivante dalla confisca dei beni dei mafiosi. Si avrebbe il classico doppio beneficio: aumenterebbero in maniera consistente e significativa, dal punto di vista ambientale, le risorse da riutilizzare per il programma di ripristino della legalità, e parallalamente diminuirebbero quelle destinate al manteniemento e riproduzione del ceto mafioso, fatto dai criminali, dalle loro farniglie, e dall'arca esterna di appoggio e favoreggiamento.
Se al recupero legato alla confisca dei beni dei mafiosi si potesse aggiungere il recupero di fondi egati ai fenomeni di corruzione, l'effetto sarebbe ancora maggiore. Secondo le statistiche (Davigo – Mannozzi 2007) la corruzione dichiarata finisce ad Ancona, più a Sud non ci sono quasi denunce di reato, e questo significa che c'è un giacimento di ricchezza da recuperare che si aggiunge a quella già nota e stimata.
Si tratterebbe di arrivare, nel più breve tempo pos­sibile, al raggiungimento della massa critica (non diffi­cilmente calcolabile) di beni confiscati. Oltre questo punto tutto il processo si avvierebbe velocemente verso la saturazione, con effetto a valanga. Aumentereb­be la fiducia della gente perbene, diminuirebbero i legami criminali o paracriminali di quanti trovavano nel sistema mafioso la loro principale fonte di reddito e di status sociale.
Ma moltiplicare per dieci o per cento il gettito delle confische vuol dire disporre, nella giusta quantità, dei migliori analisti finanziari e dei migliori investigatori italiani e internazionali, esperti del ciclo di accumulazione del capitale criminale e del riciclaggio. La cosa non appare impossibile, e neanche tanto costosa in relazione ai possibili ritorni, basta volerlo con grande determinazione.
Il ripristino della legalità, o anche il semplice annuncio di un programma credibile di ripristino di legalità, produrrà circuiti virtuosi a catena, soprattutto nell’area degli investimenti privati, che vedrebbero così venir meno il detenente principale a un loro stabile e duraturo insediamento. Gli investimenti, sia quelli pubblici infrastrutturali, sia quelli privati produttivi, troverebbero allora un terreno più semplice e fertile, senza il taglieggiamento insopportabile di cui sono stati finora oggetto. Più legalità e più fiducia finirebbero per tradursi inevitabilmente in maggiori diritti di cittadinanza. La gravità della situazione è segnalata ancora dalla cronaca: una catena internazionale che opera nel settore della grande distribuzione ha deciso di chiudere i propri centri commerciali al Sud perché i condizionamenti sono tali che è diventato impossibile operare nell'ambito della legalità.

VII. Eppur si muove
Nuove tecnologie per superare vecchi fallimenti
Abbiamo le energie per destare dal torpore il Meridione e incoraggiarlo a muoversi. Tre le linee di azione, una legata all'asse innovazione, la seconda che punta a guidare i processi di crescita e renderli più rispettosi dell’ambiente, la terza che nasce dall'incontro fra solidarietà ed efficienza.
Per la prima azione sarà di assoluta rilevanza il “Piano i2012 per una nuova politica dell'innovazione. Il programma che vuol fare emergere il ruolo centrale della pubblica amministrazione, non solo e non tanto come finanziatore di programmi di ricerca, ma come: facilitatore dei processi innovativi attraverso la semplificazione normativa; elemento di coordinamento, spinta e valorizzazione degli attori territoriali dell'innovazione; acquirente di prodotti e servizi nuovi. Il Piano si articola in tre assi, Pubblica amministrazione, Imprese e Persone, corrispondenti rispettivamente ai programmi eGov2012, che sviluppa il piano e-Gov 2012 già approvato dal governo, iEconomy, che favorisce la digitalizzazione e l'innovazione nelle imprese eliminando gli ostacoli alla competitività, e iSociety, che punta a prevenire il ri­schio di esclusione informatica.
Il Mezzogiorno è parte fondamentale del program­ma, fuori da ogni retorica meridionalista. L'innovazio­ne è il processo mediante il quale l'idea si trasforma in prodotto. Avviene quando si riesce a risolvere un pro­blema vecchio (magari ritenuto irrisolvibile) in modo nuovo. Spesso l'innovazione nasce in modo sponta­neo, dal genio e dalla perseveranza di alcune persone straordinarie che dedicano tutta la vita alla loro idea e che riescono a cambiare le cose. Altre volte è ne­cessario stimolarla con una strategia che indirizzi gli sforzi dei singoli verso un obiettivo comune. In que­st' ottica, all'interno della molteplicità di azioni del Piano i2012, nell' ottica dello sviluppo del Sud due at­tività assumono una valenza strategica: la realizza­zione dell'infrastruttura di rete a banda larga, tecnologia abilitante ormai necessaria, e il trasferimento di tecnologie e di processi verso le imprese, favorendo la costituzione di imprese innovative, anche con iniziative di fiscalità di vantaggio.
La realizzazione di infrastrutture è fondamentale per lo sviluppo del territorio: va dalle strade e dalle ferrovie (e nel caso del Mezzogiorno l' aggiornamento della rete stradale, sia in termini di nuovi tratti sia in termini di potenziamento di quelli esistenti, è imprescindibile alla realizzazione di nodi intermodali, ai porti marittimi, agli aeroporti, Se si pensa (comc è ormai obbligatorio) al Mezzogiorno non come alla periferia dell'Europa ma al centro del Mediterranco, le nostre regioni del Sud, se bene attrezzate in termini di infrastrutture, potrebbero godere degli stessi vantaggi competitivi della Baviera, posta al centro dell'Europa continentale.
Ma tra le infrastrutture indispensabili va anche (e forse, oggi, soprattutto) compresa la realizzazione di una rete a banda larga minima garantita. Internet non è uno sfizio per giovani ricchi urbani. È un'infrastrut­lura fondamentale, così come lo è stato il telefono. Deve essere un servizio pubblico garantito, almeno nelle forme minime soddisfacenti (2 Mbps, se non 20 M bps). Il Mezzogiorno, così come il resto del paes, leve avere larga banda ovunque.

Più impresa, più solidarietà
Infine il tema del trasferimento tecnologico, che è importante e deve permettere la nascita al Sud di imprese innovative in grado di dare quel lavoro di qualità che i giovani del Sud cercano ma non trovano. È un processo lento, che deve indurre i giovani meridionali a preferire agli studi che oggi li portano ad aspirare a un posto pubblico, agli studi che li introducano nel mondo delle imprese, come dipendenti o come imprenditori. Il trasferimento tecnologico, il sostegno alla nascita di imprese innovative è una politica che è stata lanciata più volte, nel nostro paese, con esiti discutibili. Anche il tentativo di far svolgere a Sviluppo Italia il ruolo di attivatore di investimenti dall'estero è fallito; ma noi vogliamo rilanciarlo come obiettivo del governo, anche attraverso l'Agenzia per la diffusione delle tecnologieper l'innovazione.
A questo si aggiunge il Fondo high-tech per il Sud, destinato al sostegno delle POli di Mezzogiorno, Abruzzo e Molise per promuoverne l'innovazione: vede la partecipazione del Cm e di quattro società di gestione del risparmio - Quantica, Vegagest, Vertis e il Fondo Atlante Ventures Mezzogiorno San Paolo Imi Fondi Chiusi - che hanno il compito di realizza­re investimenti per lo sviluppo e la digitalizzazione delle imprese locali, con una disponibilità di circa 160 milioni di euro, di cui 80 provenienti dal governo. Il Fondo pone particolare attenzione allo start-up, ossia all'avvio di nuove attività d'impresa, finanziando an­che le attività cbe le precedono: studio, valutazione e sviluppo dell'idea imprenditoriale. Un compito ar­duo, stante le difficoltà di questa fase congiunturale e la mancanza di tradizione di venture capital in Italia c in particolare nel Mezzogiorno.

L'Agenda verde per il Mezzogiorno
La questione ambientale è oggi il vero banco di prova per l'esercizio di una governance pubblica cap;1 ce di definire processi di sviluppo più rispettosi del l'ambiente.
La stessa tragedia di Messina dell'ottobre 2009, .111 corché scatenata da un evento eccezionale (sono caduti circa 250 millimetri di pioggia nello spazio di qualche ora, una quantità pari all'intera pioggia di un trimestre piovoso registrato in passato nella stessa area segnala l'incuria dell'uomo, il ritardo nell'attuazione di politiche preventive, la violenza sulla natura perpetrata dal mancato rispetto di norme e vincoli, di cui l'abusivismo non è che la punta dell'iceberg, e da ulti­mo è un monito rispetto a quanto può succedere e a quanto ci dobbiamo attendere proprio in conseguen­za dei cambiamenti climatici.
Si evidenziano cosÌ due possibili campi di azione per l'intervento pubblico, entrambi prioritari e già fat­li propri dagli indirizzi dell'Unione europea: a) rispar­mio energetico e più efficace utilizzo delle risorse, da associare alla riduzione dei combustibili fossili e al­['aumento di energia prodotta da fonti rinnovabili; b) la capacità di risposta e di adattamento alle conse­guenze dei cambiamenti climatici.
Il governo della crisi climatica può quindi diven­l,Ire, se correttamente affrontato e agito, un' enorme opportunità.
Al riguardo esiste una bibliografia sconfinata, i cui studi, però, nel nostro paese ancora stentano a produrre risultati significativi, nonostante gli sforzi di Carlo Rubbia cbe, già alla fine degli anni novanta del secolo scorso, progettava pezzi della Sicilia quali nuovi «granai» energetici.
Il nostro Mezzogiorno è una miniera di risorse naturali, il sole lo inonda dei suoi raggi e il mare ne i bagna le coste per ogni dove. Oltre a promuovere il turismo in ogni mese dell'anno si tratterebbe di sfruttare queste qualità per favorire una rivoluzione, culturale e comportamentale, per ora solo abbozzata, in grado di consolidare risposte alla crisi climatica coerenti con una crescita e uno sviluppo realmente sostenibili. È prioritario quindi andare nella direzio­ne, di un incremento delle energie rinnovabili sia in termini di sviluppo tecnologico sia in termini di con­testo sociale.
Nell'agenda internazionale del dopo Kyoto, lun­go la via che conduce alla conferenza sul clima di Co­penaghen del dicembre 2009, il nostro Mezzogiorno si è infatti adoperato solo nel settore degli impianti eoli­ci, mentre poco o nulla si è fatto per la produzione di energia solare, geotermica e marina, nel comparto del­l'efficienza energetica (risparmio e edilizia sostenibile) e soprattutto nel campo del governo della crisi climati­ca (politiche di prevenzione, adattamento e messa in si­curezza dei territori e delle infrastrutture).
Dopo le iniziali incertezze, le recenti intese sino-sta­tunitensi nel G2 sembrano rafforzare la scelta mondia­le di un futuro sostenibile, sino a far assumere alle poli­tiche lineamenti sempre più concreti.
In questo panorama si aprono le prospettive per il nostro Sud, che dovrà essere in grado di non perden' il treno della crescita economica conseguente al programma di riduzione dei gas serra (attraverso la produzione di energie rinnovabili da sostituire a quel le fossili, e con politiche spinte di efficientamenlo energetico, a partire da comportamenti virtuosi della pubblica amministrazione) e di governo dei cambia menti climatici. Potremmo moltiplicare a diminuire l'uso dell' energia solare ed eolica congiuntamente al risparmio energetico con appositi Twinning con cui adottare le migliori esperienze tedesche che tanto di positivo hanno prodotto per la qualità della vita dei loro cittadini, delle loro tasche e dello sviluppo economico delle loro aziende, vincendo una scommessa per il futuro.
Qui entra in gioco la responsabilità del legislatore, a tutti i livelli, che deve essere in grado di compiere al­cune scelte decisive, ad esempio, per accompagnare e favorire la rivolta delle coscienze di fronte al fenome­no degradante della mancata gestione dei rifiuti pro­dotti per permetterne la minimizzazione, il riciclaggio e la trasformazione in fonti di energia, premiare i con­sumatori e le imprese che risparmiano e agire sulla le­va dei prezzi, penalizzando i prodotti inquinanti in fa­vore di quelli che non lo sono, provocando una pronta risposta del mercato, con crediti di imposta signifiativi per la realizzazione di infrastrutture per la pro­,iuzione di energia rinnovabile e con meccanismi che trasformino in crediti i risparmi e i vantaggi conseguiti attraverso programmi di efficientamento energetici. Ad esempio riconoscendo crediti di investimento pari a quanto il comportamento virtuoso fa risparmiare al sistema paese rispetto alle sanzioni economiche previste dal mancato rispetto delle quote assegnate all’Italia dal Trattato di Kyoto. Sul fronte dei rifiuti bisogna poi intervenire al fine di realizzare la «bonifica integrale» delle discariche abusive e delle aree inquinate se possibile facendone sostenere il costo ai soggetti responsabili dell'inquinamento.
L’energia pulita e l'efficientamento energetico saranno certamente vettori trainanti dell' economia del futuro. Chi prima vi investirà potrà rivenderne le conoscenze a tutto quel mondo economico emergente che va dai paesi del Sud-est asiatico a quelli del BRIC, spesso distratti sul fronte dei problemi ambientali.
In questo scenario, non è visionaria la posizione di l" IIltTavede per la Silicon Valley siciliana una futura conversione in una sorta di grande Casa degli innova­tori tecnologici in cui realizzare microchip per il ri­sparmio e il controllo energetico di abitazioni, azien­de e strutture pubbliche. Ci si inserirebbe cosÌ in quel­la che l' «Economist» ha definito la catena di «internet dell'energia» sulla medesima strada di rivoluzione tec­nologica che già percorrono le nostre reti amiche.

Chi sa, insegni, chi vuole, impari
Solidarietà e efficienza
Il Sud ha bisogno di partire da una considerazione più matura di federalismo e di cooperazione sociale. Diceva Carlo Trigilia che la solidarietà non può essere a lungo svincolata dall'efficienza (Trigilia 1994). Ebbe­ne, è possibile veramente, in Italia, legare la solidarie­tà all' efficienza, in un circolo virtuoso.
È necessario promuovere un'amministrazione più intelligente e più colta, una maggiore soddisfaziont' dei lavoratori e una più efficace partnership sociale.
È inutile prenderscla con le carenze del Sud, peli sando che non ci sia niente da fare. Ci sono e vanllo superate, in modo che in futuro non ci siano più. Occorre stimolare una maggiore creatività, innovativa e autonomia del lavoro pubblico, e, insieme, individuare le migliori opportunità di valorizzazione delle risorse umane esistenti.
Il ragionamento è questo: visto che l'Italia c'è, e spesso produce eccellenze che il mondo le invidia, prendiamole e facciamole diventare standard.
Quando si fa un progetto, permettiamo che la stazione appaltante sia quella di un'altra regione, ad esempio l'Emilia Romagna, il Veneto, l'Alto Adige, scelta a sorteggio. Consentiamo poi che la valutazione sia fatta da una commissione nominata, sempre a sorteggio, appartenente a un'altra regione. Così abbiamo fatto un vero federalismo, in cui le intelligenze delle diverse par­i i di Italia si sommano per creare progresso ovunque.
Non solo - e la legge del riuso informatico lo pre­vede, andando nella giusta direzione -, per risparmia­re e fare tesoro di quanto già realizzato, un’amministrazione locale può prendere i buoni progetti già realizzati da altre amministrazioni pubbliche e riutilizzati, senza dover pagare nulla, se non i costi di installazione e avvio.
Nel Mezzogiorno sono più evidenti le debolezze tipiche del sistema amministrativo italiano. La Pa meridionale è, in altri termini, la lente di ingrandimento dei problemi della Pa centrale. In quest'area, a causa di un consistente deficit di capacità amministrativa, è maggiore che altrove il divario tra le politiche di riforma della Pa e la loro attuazione.
Tali deficit non si ripercuotono solo sull' efficacia delle riforme amministrative, ma sono anche responsabili del fallimento di molte politiche settoriali necessarie per lo sviluppo economico e sociale dei territori meridionali. Le risposte non devono risolversi in pura propaganda: può essere molto utile semplicemente incentivare la permanenza e il trasferimento volontario dei migliori dipendenti pubblici nel Mezzogiorno, assicurando la possibilità di carriere indipendenti da raccomandazioni e anzianità.
Gli interventi volti a rafforzare la capacità amministrativa nei territori meridionali devono necessariamente essere allineati alle principali priorità della rifor­ma della Pa. Stiamo parlando di qualità dei servizi e mi­glioramento delle performance, Customer satùjàetion e valutazione civica, riconoscimento del merito, maggio­re trasparenza, digitalizzazione.
Un obiettivo centrale degli interventi è rafforzare il ruolo dell'amministrazione regionale quale nodo in­termedio per l'attuazione delle politiche di moderniz­zazione delle Pa nei rispettivi territori.
Le azioni da realizzare per raFforzare la capacità amministrativa dei territori meridionali dovranno fare leva sulla disseminazione mirata dei migliori risultati conseguiti dalle amministrazioni più perFormanti (<<gemellare le ecce!lenze») a partire dalle più recenti iniziative di raccolta e valorizzazione delle migliori esperienze (come i programmi «Non solo fanulloni» e il concOrso «Premiamo i risultati» del ministero per la Pubblica amministrazione c l'Innovazione).
Occorre fare leva sul benchmarking tra ammini strazioni su performance e accountabzlity, dare massimo Sostegno alla diffusione di pratiche e logiche di customer satisfetion management.
Si tratta di favorire non progetti quadro così vasti d’essere privi di contenuti reali, ma interventi mirati a settori strategici per lo sviluppo economico e sociale, come ad esempio quello della giustizia, con il rafforzamento dell'iniziativa finanziata dal Fse volta a diffondere negli uffici giudiziari ubicati nelle regioni meridionali  la best praetice della Procura di Bolzano, alla quale, hanno già aderito 6 regioni con 42 uffici giudiziari.
Si potrà eccepire che serve ben altro per «riattivare» il Sud, ma è un'obiezione nota e abusata. Da sempre, infatti, i detratto privi di idee Sostengono che so­no «ben altri» i problemi, qualunque proposta venga Fatta. Che, ad esempio, bisogna combattere la crimina­lità e l'evasione fiscale. È la stessa Cosa che è stata det­ta nei confronti della battaglia condotta dal ministero per la Pubblica amministrazione e l'Innovazione contro l’assenteismo, vinta, come dimostrano le cifre, op­pure nei confronti del mio programma «mettiamoci la faccia», con cui si vuole dare ai cittadini la possibilità di giudicare la qualità dei servizi. Purtroppo per i detrattori, questi tipi di progetto funzionano. Certo, vanno inseriti in una strategia più ampia, il governo lo sta facendo.
In aggiunta, il governo si deve senz'altro occupare di capitale umano ed emersione del sommerso, ma di questo si dirà nel prossimo capitolo.

VIII. Capitale umano e competitività
Una garanzia per tutti i lavoratori
L'emersione del sommerso e la valorizzazione del capitale umano, anche se relativi al mercato del lavoro, fanno ovviamente parte della più generale strategia di investimento in legalità e fiducia. Anche in questo caso l’obiettivo è il recupero del gap di legalità e produttività che continua a condannare il Sud a forme persistenti di dipendenza e sottosviluppo. Ma emersione del sommerso e miglioramento delle performance produttiva del capitale umano non sono altro che le due facce dell’unico processo di liberazione del Mezzogiorno e vanno pertanto perseguiti congiuntamente, se si vuole giungere al progressivo annullamento del dualismo' dell’economia e della società italiane che costituisce il compimento materiale» dell'unità nazionale.
Questo programma non può non richiedere l’attivazione, lo sviluppo, la diffusione di opportune prassi di regolazione , così come di concertazione e cooperazione a livello centrale e periferico, dirette a stabilire o ristabilire i necessari beni relazionali tra l’operatore pubblico, i partner sociali (imprenditori e sindacati) e tutti gli agenti della società civile (volontariato, comitati di cittadini, associazionismo ecc.).
Una prima forma di regolazione utile a favorire, senza spese per l'erario, l'emersione del sommerso, è quella della fissazione per legge di un salario orario minimo interprofessionale da parte del governo, sulla base di una consultazione con i partner sociali. Il mes­saggio sarebbe chiaro e semplice per tutti i lavoratori impiegati al nero: contratto o non contratto, meno del salario minimo orario non potete prendere, lo dice il governo ed è in grado di farlo rispettare anche dove i sindacati sono deboli o inesistenti.
Gli studi empirici su questo strumento, con parti­colare riferimento ai paesi dell'Est europeo dove la re­tribuzione in nero è un fenomeno diffuso, dimostrano che l'introduzione del salario minimo provoca la for­mazione di una «gobba» nella distribuzione del reddi­to, attraendo verso quell'importo una piccola parte delle retribuzioni di ammontare superiore, ma soprat­tutto una parte molto maggiore di quelle inferiori, che in questo modo possono emergere.
Non si può ignorare che già ora non poche impre se del Sud, allo scopo di far figurare agli enti di previ denza le retribuzioni minime fissate dai contratti collettivi nazionali di lavoro, non esitano a «sottodichiarare» le ore lavorate. Per questo è necessario introdur re un salario orario minimo legale uguale per tutti i lavoratori, indipendentemente dal contratto collettivo o dalla forma di impiego (standard, flessibile, atipica), dal settore di attività economica e dalla dimensione d'impresa, dal mestiere, dal sesso, dall'età e dalla nazionalità. Il salario minimo indica chiaramente che chi obbliga qualcuno a lavorare per un compenso inferiore infrange la legge, non un contratto: la sua introduzione costituisce perciò un segnale forte di chiarimen­to e razionalizzazione dei mercati del lavoro deboli.
In più, il salario minimo potrebbe essere articolato a livello territoriale, in modo da tener conto delle spe­cificità dei mercati del lavoro e delle dinamiche di prezzo.

Concertazione e contratti in deroga
Un secondo strumento di lotta al sommerso è co­,;tituito dalla concertazione, opportunamente incenti­lata fiscalmente, dei cosiddetti contratti in deroga (temporanea e a termine) ai contratti collettivi, sia nella parte normativa, sia in quella economica.
Si tratta soltanto, in questo caso, di dare applicazione intelligente e rigorosa a quanto già previsto dall' Ac­cordo quadro sulla riforma del modello contrattuale ,sottoscritto da tutti i datori di lavoro (incluso il gover­no) e da tutte le organizzazioni sindacali (esclusa la Cgil) il 22 gennaio 2009. L'Accordo prevede che, al fine di governare situazioni di crisi aziendali o di favori­re lo sviluppo economico e occupazionale di un territorio - e un elemento fondamentale dello sviluppo occupazionale è proprio l'emersione del sommerso -, i contratti nazionali possono consentire alle strutture territoriali delle parti stipulanti di modificare, in tutto o in parte, anche in via sperimentale e temporanea, singoli istituti economici o normativi disciplinati dal contratto collettivo nazionale di lavoro di categoria.
La capacità di stabilire profili salariali idonei ad assicurrare il rientro dal sommerso va esercitata sulla base di parametri oggettivi (sempre individuati nel contrat­to nazionale) quali, ad esempio, «l'andamento del mer­cato del lavoro, i livelli di competenze e professionali­tà disponibili, il tasso di produttività, il tasso di avvio e di cessazione delle iniziative produttive, la necessità di determinare condizioni di attrattività per nuovi inve­stimenti». Per essere efficaci, le intese in deroga cosÌ raggiunte devono essere preventivamente approvate dalle stesse parti che hanno stipulato i contratti nazio­nali della categoria interessata, che quindi sono chia­mate non solo a fissare i criteri per la contrattazione, ma anche a verificarne la coerenza con i criteri stessi.
Col contratto in deroga finalizzato al rientro del sommerso i partner sociali si accordano a livello loca­le, in riferimento a un determinato settore e/o a un de­terminato gruppo di aziende che utilizzano lavoro ne­ro e irregolare, perché non in grado economicamente di rispettare le regole contrattuali nazionali, di appli­care deroghe temporanee e parziali all'interno di un programma poliennale di rientro e di regolarizzazio ne, di recupero cioè sia della produttività sia delle condizioni contrattuali generali, così eliminando le ragioni alla base del circuito vizioso della sommersione dell'illegalità (bassa produttività, incapacità di reggere economicamente le regole nazionali, sommersione e irregolarità, ancor più bassa produttività).
L'istituto, dunque, è già previsto dal nuovo modello contrattuale varato quest'anno ed è caratterizzato dalle necessarie forme di controllo che assicurano la minimizzazione dei comportamenti opportunistici. Bisogna che ora i partner sociali si impegnino a darne concreta attuazione nella stipula dei nuovi contratti nazionali.

Salario di produttività e fiscalità «leggera» per far emergere il sommerso
La strategia basata sul salario minimo e sui contrat­ti di rientro va affiancata da una generale applicazione del salario di produttività, della correlazione cioè di una parte crescente della remunerazione all'effettiva produttività aziendale. Anche in questo caso non si tratta che di dare applicazione a quanto previsto dal­l'Accordo del 22 gennaio, che prevede per il secondo livello di contrattazione il collegamento di «incentivi economici al raggiungi mento di obiettivi di produttivi­tà, redditività, qualità, efficienza, efficacia e altri ele­menti rilevanti ai fini del miglioramento della competi­tività nonché ai risultati legati all'andamento economi­In delle imprese, concordati fra le parti». L'accordo, peraltro, sottolinea la necessità che vengano incremen­1 ,IIC, rese strutturali, ccrte e facilmente accessibili tutte le misure volte a incentivare, in termini di riduzione di tasse e contributi, la stessa contrattazione decentrata. E aggiunge che, ai fini della diffusione della contrattazione di secondo livello nelle piccole e medie imprese, gli accordi locali possono prevedere, in ragione delle caratteristiche dimensionali, specifiche modalità e condizioni di applicazione del secondo livello contrattuale, non esclusa l'adozione del cosiddetto «elemento economico di garanzia», ovvero di una voce retributiva destinata ai dipendenti di imprese che non hanno ac­cesso alla contrattazione decentrata.
Il salario di produttività commisurato ai risultati ottenuto localmente metterebbe così in moto un benefico processo di catching-up, fondamentale per l'espansione della produzione e della domanda di lavoro. Ma la ge­neralizzazione del salario di produttività, sia al Sud che al Nord, implica il ridimensionamento del contratto nazionale tanto neila parte economica quanto nella par­te normativa, oppure la previsione, in esso, di ampie bande di oscil1azione, così da consentire alle singole re­altà produttive di trovare, a livello micro, il loro punto di equilibrio. Anche in questo caso, il modello contrattuale del 22 gennaio offre spunti importanti, che vanno tradotti in pratiche innovative e coraggiose.
Salario minimo, Contratti di rientro e salari di pro­duttività, inducendo emersione del sommerso e au­mento di domanda di lavoro, producendo cioè cresci­ta economica ed efficienza produttiva, debbono essere premiati fiscalmente, e questo in perfetta armonia con le regole comunitarie in termini di concorrenza, e costi benefici effetti in termini di maggior gettito fiscale contributivo.
Gli effetti dell’ emersione delle attività sommerse per l'economia meridionale possono essere analizzati secondo uno schema costi-benefici. Anzitutto i costi progressivi dell'emersione (fiscali, salariali, sindacali) che devono essere Sostenuti da parte delle imprese si svelano, in realtà, benefici immediati per i lavoratori e per la finanza pubblica. E dunque l'impatto macroeconomico potrebbe essere neutrale o addirittura positivo sin dall'inizio. Ma, pur favorendo lavoratori e finalità pubblica, questo trasferimento può comportare, nella sua applicazione iniziale, una perdita di profittabilità per le imprese direttamente coinvolte; ed è questa perdita iniziale di profittabilità che dovrebbe essere, allili no in parte, compensata fiscalmente.
Assieme agli incentivi di costo e alle semplifica­zioni normative dovranno svilupparsi forme di Con­trollo sia degli ispettorati del lavoro sia del ministero dell'Economia, attraverso i controlli incrociati. Un utile impulso all'emersione è la subordinazione di in­centivi e contributi all'attivazione di contratti di rien­tro per quelle imprese (in agricoltura, edilizia, nei set­tori tessile, delle pelli, del cuoio ecc.) che notoriamen­te usufruiscono di lavoro nero e/o irregolare. Anche in questo caso, l'obiettivo è di raggiungere, settore per settore, la massa critica necessaria a modificare il sistema delle convenienze, pur con le opportune flcs sibilità applicative.
Occorre rompere le connivenze tra datori di lavo ro e lavoratori del sommerso, consentendo la parziail' deducibilità a fini fiscali delle spese per l'acquisto d, servizi lavorativi per la famiglia (colf, assistenza ecr.). Tale contrasto di interessi potrebbe far emergere grandi quantità di lavoro attualmente prestato in nero.
Lo stesso vale per le attività di manutenzione edilizia e di riparazione, che rappresentano circa 12 miliardi annui nei consumi degli italiani e nascondono l'evasione fiscale di molti doppiolavoristi. In definitiva si tratterebbe di modificare, da un lato, il sistema delle convenienze relative tra emerso e' sommersp, e dall'altro, di cambiare progressivamente, nella cultura del paese in generale e in quella del Sud in particolare,  la funzione del benessere, responsabilizzando mag­giormente tutti gli attori economici e sociali, cosÌ da li­mitare al minimo, nel mondo del lavoro, l'area del non rispetto delle regole fiscali, contrattuali e contributive, una volta che esse siano state riformate, nel senso del realismo, dell' efficienza economica e della differenzia­zione territoriale.

Valorizzare il capitale umano: dalle sanzioni contro l'illegalità al programma per l'occupazione
Ciò che più conta nello schema contabile dei co­sti e dei benefici, però, al di là della stessa esatta quantificazione delle diverse imputazioni, è che entrambi i lati del processo di emersione delle attività sommerse, tanto quello dei costi, quanto quello dei i benefici, concorrano comunque a produrre un aumento strutturale della produttività economica e sociale, e un miglioramento delle relazioni sindacali e dei relativi beni relazionali per l'intera economia Meridionale.
Ovviamente, per quelle attività che, nonostante il programma di emersione, la generalizzazione del salario di produttività e i relativi benefici fiscali, si ostinassero a rimanere sommerse e/o irregolari deve valere la strategia primaria della repressione e della sanzione, in un clima però rinnovato di consenso sociale di superamento della massa critica tale da ridur­re progressivamente al minimo fisiologico (sia come fatturato che come occupazione) la relativa devianza.
Ridotto, così, a valori «fisiologici» il lavoro som­merso e irregolare, anche l'evasione fiscale generaliz­zata subirebbe un drastico ridimensionamento, sia dal lato delle famiglie (non potendo più queste contare su redditi in nero), sia dal lato delle imprese (soprattutto in termini di evasione di imposta sulle persone giuri­diche e sull'Iva) e finirebbe col rientrare nella pur ele­vata media del Centro-nord.
Ma l'emersione del sommerso e il miglior funzio­namento del mercato del lavoro del Sud non possono prescindere da un parallelo programma di interventi sullo stock di capitale umano, cOllsiderandone i diver­si aspetti culturali, formativi, valori ali, rclazionali, so­ciali e di mercato.
Il programma dovrebbe porsi come obiettivi: a) l'individuazione delle migliori opportunità di valoriz­zazione delle risorse umane esistenti, nello sforzo di trasformare il capitale umano potenziale, largamente disponibile, in capitale umano effettivamente utilizza­bile per la produzione e per la società; b) il supera mento del mancato adeguamento dinamico tra offerta e domanda di lavoro (il cosiddetto mismatch), tra re gole offerte e regole domandate. L'individuazione del le possibili linee di correzione degli attuali squilibri del sistema formativo meridionale richiede che venga al frontato il problema della comprensione dei processi che determinano l'ingresso nella condizione di o('ell pazione, a partire dalle determinanti (demograficlir. salariali, assistenziali, sociali, culturali ecc.) che regolano qualità, quantità e flussi dell' offerta, in una parola transizione scuola-lavoro. Se si considerano le diverse condizioni che caratterizzano la struttura del mercato
del lavoro (famiglia, scuola, formazione, ricerca di la­voro, occupazione, disoccupazione, mobilità, welfare, pensionamento) come differenti stati in cui viene a tro­varsi l'individuo nel suo ciclo vitale (Brunetta - Turat­to 1992), appare evidente che la principale carenza del mercato del lavoro meridionale si riscontra nella rigi­dità strutturale dei diversi stati, legata a sua volta a una debolezza o mancanza di direzionalità delle transizio­Il i tra stato e stato.
Informare, formare, collocare
Il lavoratore meridionale sembra incontrare una particolare rigidità sociale, un'inerzia del mercato, un attrito istituzionale che lo costringono a permanere troppo a lungo nei singoli stati del suo ciclo di vita e pertanto, a seguire processi di transizione più incerti, difficili, ritardati e spesso male indirizzati tra uno stato e l'altro. Uno dei motivi principali di tali rigidità e attriti risiede nella mancanza di trasparenza e nella relativa scarsità di segnali ad adeguato contenuto informativo relativamente alle condizioni, alle necessità e alle opportunità del mercato del lavoro, come anche ai profili di mobilità verticale c orizzontale.
Questo stato si inquadra in una condizione di particolare debolezza e arretratezza di alcuni comparti del sistema economico meridionale, diversi da quello industriale, quali l'insieme delle attività che costituiscono la cosiddetta economia dell'informazione (formazione, ricerca, cultura, comunicazioni ... ) e che sono alla base dell'esistenza e della produzione, in modo adeguato, dei relativi beni relazionali.
Un esempio per tutti: il razionamento del credito e ' gli alti tassi di interesse nel Mezzogiorno finiscono per produrre una selezione al contrario tra gli imprendi­tori, come è dimostrato dalla percentuale più alta di sofferenze nei crediti concessi. Inoltre, con qualche sovrapposizione con la debolezza dell'economia del­l'informazione, si segnala, al Sud, l'estrema carenza delle attività di servizio (pubbliche o private) che co­stituiscono lo specifico comparto del mercato delle transizioni (Tronti 1997). Si tratta della domanda e dell' offerta di tutto quanto (beni e servizi) può soste­nere funzioni, quali: a) l'informazione sul mercato del lavoro; b) l'orientamento scolastico; c) il collocamen­to e la ricerca-selezione del personale; d) la formazio­ne professionale, la sua programmazione, certificazio­ne, valutazione, con particolare riferimento alla pro­fessionalità autopropulsiva; e) il sostegno ai processi di allocazione ottimale delle risorse e di mobilità territo riai e, formativa e occupazionale.
Le cose da fare, dunque, per la valorizzazione de gli investimenti in capitale umano devono riguardan' l'insieme degli stati e l'insieme delle transizioni all'in temo di tutto il ciclo di vita. In primo luogo, con rife rimento alla scuola dell' obbligo, la dispersione scolastica produce dropout che restano inattivi, in cerca di occupazione, o comunque impegnati in attività precarie, sommerse o illegali.
È pertanto ipotizzabile, nel processo di generazi, I ne della dispersione, la sovrapposizione di due meccanismi. Il primo è legato alla disgregazione sociale, alle difficoltà del sistema scolastico e alla permanenza di modelli di comportamento caratterizzati dalla non valutazione (specialmente per le donne) dell'istruzione come investimento, nonché dal facile allettamento, di breve periodo, di elevati guadagni derivanti da attività non in regola con la legge.
Il secondo meccanismo, invece, è quello della dif­ficoltà nella ricerca del lavoro per coloro che hanno una formazione di cattiva qualità e possiedono un titolo di studio di livello intermedio, una difficoltà che si riflette sugli studenti dell' obbligo, sotto forma di scoraggiamento crescente allo studio e, quindi, di au­Illento della propensione all'abbandono.
La piaga degli abbandoni, non essendo riassorbibi­k attraverso le normali azioni in sede nazionale o locale, va affrontata in maniera straordinaria, aggredendo il problema su ogni versante: redditi delle famiglie, ambiiente socio-economico, infrastrutture scolastiche preparazione degli insegnanti e degli assistenti sociali, sbocchi professionali. A questi scopi potrebbe esserefinalizzata una specifica Agenzia, con pieni poteri di intervento e relativa dotazione di risorse. L'Agenzia potrebbe agire sui meccanismi all' origine della dispersione, sostenendo le famiglie, le istituzioni e i singoli studenti, accrescendo la fiducia nel sistema scolastico , I, Il'fllativo, fornendo servizi reali ed esempi concreti, rallentando, così, il valore attuale dell'investimento scolastico rispetto alle altre possibili scelte sostitutive (lavoro precario, illegale, sommerso).
Un’’azione di tal genere dovrebbe essere sostenuta da capillari iniziative informative a livello locale, ten­denti a sensibilizzare gli strati sociali più a rischio, attraverso centri di assistenza e di orientamento specifici.
Anche in questo caso, come per il programma sul­la legalità, l'attuale struttura scolastica andrebbe raf­forzata, soprattutto nelle zone di frontiera (nelle zone, cioè, dove più alto è il fenomeno della dispersione e dell'abbandono) in termini di personale, mezzi e in­centivi. Non solo, dunque, più strutture e più perso­nale, ma anche e soprattutto il miglior personale, con il massimo di motivazione c incentivi. D'altra parte uno sforzo aggiuntivo e costante di questo genere si giustifica appieno in termini di costi-benefici tenendo conto dell' onere socio-economico rappresentato da ogni singolo giovane che non porta a termine la scuo­la dell'obbligo: nella maggioranza dei casi, per il resto del suo ciclo di vita, sarà un disadattato, uno sfruttato, un precario, un deviante, un assistito: un individuo cioè costoso per la società.
Recuperare dropout, dunque, non solo è un'azione doverosa dal punto di vista morale, ma è anche conve­niente in termini economici, come un buon investi­mento a medio-lungo termine.

La formazione professionale nel Sud, un sistema da cambiare
Sulla cronica debolezza del sistema della formazione professionale al Sud già molto si è detto ma quasi niente si è fatto, se non mandare in galera un po' di assessori e funzionari per malversazioni e ruberie varie. Niente si è fatto, nonostante gli ingenti fondi che continuano a essere inutilmente spesi ogni anno, senza contare quelli che, colpevolmente, vengono persi in ragione dell'inaffidabilità delle strutture formative nei confronti dell'D nione europea.
Il sistema, così com'è, non appare riformabile: una soluzione provocatoria, ma forse non insensata dal punto di vista di una corretta valutazione costi-bene­li ci, potrebbe consistere nel prepensionamento imme­diato o nel diverso utilizzo dei circa 50-60000 inutili lormatori regionali (nessuno ne conosce il numero esatto), secondo un programma attivabile, anche dal l'unto di vista finanziario, all'interno delle procedure ,olTIunitarie, in analogia con quanto è stato fatto, nel l';lssato, per talune tipologie di lavoratori dell'indu­;1 ria, come i siderurgici.
Dopo aver fatto tabula rasa degli inutili «formatori», si dovrebbe celermente mettere mano a un sistema nuo­vo, questa volta solo su basi di mercato (interpretando in questo modo il superamento dell'attuale normativa, palesemente incontrasto non solo con la normativa antitrust, ma anche con il buon senso) e di qualità, con il pieno coinvolgimento dei sistemi formativi delle imprese pubbliche e private, delle associazioni di categoria degli ordini professionali, privilegiando al massimo le esperienze di alternanza formazione e lavoro.
In questo ambito (quello dell' alternanza) andrebbero previsti consistenti programmi di mobilità formativa attraverso stage in aziende italiane ed europee. Il tutto potrebbe essere tranquillamente coordinato da un’Agenzia nazionale, in coordinamento con le strutturali regionali competenti. In pochi anni si metterebbe così fine a uno scandalo di proporzioni ben superiori a quelle di tangentopoli, e si avvierebbe, senza insopportabili eredità, il nuovo.
Per quanto riguarda, invece, gli esiti scolastici nel I post-obbligo, la disponibilità locale di capitale umano qualificato non si dimostra (date le altre condizioni ambientali negative) un motivo sufficiente a richiamare dal resto del paese, o anche dall'estero, una domanda di lavoro adeguata. Né d'altra parte le figure pro­fessionali formate mostrano di essere in grado di svi­luppare forme di autoimprenditorialità e autopropul­sività nella misura necessaria.

Tornare in Europa, ma senza la valigia di cartone
A questo scopo, contemporaneamente alla messa in moto dei programmi di investimento infrastruttu­rale, dei programmi di ripristino della legalità, e di quelli sul capitale umano, andrebbe sviluppata, in for­me quanto più possibile penetranti e diffuse, una seria strategia di mobilità verso le zone del paese (e perché no, dell'Europa) deficitarie di manodopera. Tale linea d'azione, coordinata centralmente, potrebbe opportu namente mettere in comunicazione i diversi bacini di domanda (al Nord) e di offerta (al Sud), al fine di realizzare le opportune selezioni e i necessari servizi, sia a livello formativo che a livello di residenza nelle aree di destinazione.
I Servizi pubblici per l'impiego appaiono però inadeguati alle necessità. Anche in questo caso potrebbero quindi intervenire agenzie private che, in coordinamento con le associazioni imprenditoriali del Noni e del Sud, e con le strutture scolastiche, formative e di orientamento del Sud, laddove esistenti, o con le più efficienti strutture delle parrocchie, potrebbero svol­gere la necessaria attività di intermediazione. Si for­merebbero, cosÌ, consistenti flussi di mobilità guidata l'assistita, in grado di far diminuire, già nel breve pe­riodo, sia la pressione dell'offerta nel mercato del la­voro meridionale, sia gli squilibri da domanda nel Nord, evitando che questi, in mancanza d'altro, vengano compensati, come sta avvenendo ora, da manodopera immigrata, magari illegalmente.
La riapertura dei flussi di mobilità avrebbe, inoltre, Il positivo effetto di contribuire a rompere i condizionamenti socioculturali tanto presenti nel Mezzogiorno offrendo esperienze formative e di lavoro riutilizzabili dagli stessi soggetti, nel medio periodo, nelle stesse aree di origine.
Si potrebbe, in altri termini, mettere in moto un circuito virtuoso programmato, basato sulla mobilità in uscita, in una prima fase, e di successive mobilità di ritorno, quando lo sviluppo economico e sociale nel Sud, finalmente innescato, mostrasse una domanda esplicita di forza lavoro qualificata e di esperienza.
Dunque, se da un lato appare necessario favorire comunque l'ulteriore qualificazione del capitale umano eccedente, in modo da realizzare un investimento qualitativo che si dimostri adeguato a un mercato del lavoro esteso territorialmente e vitale, in competizione con quello stagnante locale, dall'altro appare necessario migliorare e rafforzare lo snodo strategico costituito dal mercato della transizione, così da rendere più accessibile e trasparente l'offerta di lavoro nei confronti della domanda locale, attraverso lo sviluppo di servizi pubblici e privati di orientamento, collocamen­to, mobilità da un lato, e servizi qualificati delle im­prese e per le imprese, di selezione, screening, forma­zione interna dall'altro.
Si riqualificherebbe così, progressivamente, l'intero sistema dei segnali (anche questi, in fondo sono beni relazionali) non solo per il mercato del lavoro, ma per l'intero sistema economico meridionale e nazionale.
Tuttavia, alcune altre riflessioni si impongono: se nell'ideare la nuova strategia formativa per il Sud si prendesse a riferimento la probabilità di successo oc­cupazionale nel breve periodo, allora bisognerebbe necessariamente ridimensionare drasticamente l'of­ferta di formazione. Si cadrebbe però in un pericolo­so circuito involutivo, in cui una domanda scarsa e dequalificata induce un' offerta altrettanto dequalifi­cata, ma abbondante, fatta di precari età e di irregola­rità. Ciò non appare proponibile, ritenendosi nei fat­ti che un'attività di formazione anche abbondante (la cosiddetta overeducation) sia socialmente desiderabile, da perseguire, come un investimento di medio lungo periodo.
Più che meramente quantitativo, tuttavia, il problema è di natura qualitativa, all'interno, comunque, della «rivoluzione» strutturale e organizzativa più sopra proposta in termini di società civile.
Occorre, in ogni caso, ridimensionare e riorentare l'offerta formativa intermedia, attraverso il massimo di concretezza e coerenza con quanto il mercato del lavoro sembra richiedere. Inutile formare tanto male su professionalità per le quali la domanda non esiste meglio formare bene su skills tendenzialmente sorbibili dal mercato, come quelli legati al settore tu­ristico-alberghiero, per i quali nel Sud c'è una tale ca­renza strutturale e qualitativa da costringere, spesso, le principali catene di villaggi turistici a «importare» per­sonale qualificato dal Nord, lasciando alla manodope­ra locale solamente le qualifiche più basse.
In secondo luogo, come abbiamo già detto, occor­re formare i giovani in una prospettiva di mobilità ter­litoriale, in quanto punto cruciale dell'attuale disfunzione dei percorsi di transizione. La costruzione di specifici canali di mobilità/valorizzazione appare un passaggio fondamentale al fine di riallacciare, con nuovo vigore, il dialogo oggi inesistente tra il Sud e il resto del paese, e tra il Sud e il resto dell'Europa. Tali canali andrebbero attivati a tutti i livelli della transizione (scuola formazione e lavoro). Una scelta strategica potrebbe essere quella di promuovere sin dal livcllo della scuola dell'obbligo opportuni programmi di scambio che prevedano, ad esempio, la permanenza, per un intero anno scolastico, di studenti del Sud in scuole del Centro-nord Italia o dell'Europa comunitaria.
Il modello, per tali esperienze, potrebbe consistere nell' estensione, a livelli quantitativi consistenti nel programma Erasmus, dell'Unione europea, al ciclo della scuola media superiore e alla formazione professionale. I costi sarebbero certamente accettati (utilizzando sempre la partecipazione europea), e i benefici evidenti in termini di acquisizione di esperienze, nuovi valori culturali e ambientali, costruzioni di reti di amicizia, comunicazione, collaborazione a livello familiare con realtà diverse da quelle del Sud. Analogamente, utile ed efficace potrebbe dimo­strarsi la promozione dell'acquisizione di opportune esperienze di formazione on the job da parte di gio­vani diplomati meridionali presso piccole e medie imprese del Centro-nord, magari appartenenti a quei distretti industriali (come Prato, Vicenza, la Riviera del Brenta ... ) il cui modello, da tempo, si cerca di esportare al Sud. Anche in questo caso andrebbero messi a punto programmi ad hoc, finanziati con i fondi italiani ed europei della formazione professio­nale. Le esperienze dovrebbero essere opportuna­mente monitorate e seguite, cosÌ da costituire dei ve­ri e propri percorsi formativi, fino all'acquisizione delle opportune specializzazioni da spendersi, a que­sto punto, indifferentemente nelle aree di residenza, o in quelle dove più significative sono state le esperienze formative.

Un'emigrazione di eccellenza: l'Europa e il Nord vanno al Sud
Potrebbero, inoltre, nella stessa logica diretta, essere attivati opportuni flussi di mobilità in senso inverso (Nord-Sud) per le professionalità carenti e/o non sufficientemente coperte nelle aree meridionali, per gli opportuni «innesti» di personale più qualificato e di cultura manageriale in aree di endemica carenza di capitale umano e di beni relazionali, per la promozione di specifici programmi di sostegno alla formazione in loco di professionalità strategiche, di nuova imprenditorialità, di buona amministrazione.
In queste iniziative dovrebbe essere attivato il mon­do della piccola, come della medio-grande impresa, so­prattutto attraverso il coinvolgimento di manager di esperienza. Una strada percorribile potrebbe essere quella di coinvolgere i dirigenti d'azienda a riposo: con opportuni incentivi, finanziari e non, essi potrebbero Irasferirsi temporaneamente nelle località dove più ca­Icnte è la cultura d'impresa, essere inseriti in programmi di tutoraggio, di direzione, di formazione, ai vari livelli, così nel settore privato come in quello pubblico. Il tutto dovrebbe avvenire con convenzioni quadro di tipo privatistico, tra singole regioni, comuni, zone industriali, enti di vario tipo, e le associazioni imprenditoriali e manageriali del Centro-nord.
I vantaggi sarebbero certi e reciproci i manager a riposo potrebbero trasferire in queste missioni tutte le loro esperienze, le loro reti di relazionalità, tutta la loro cultura d'impresa, senza l'assillo immediato della competizione, ma con la consapevolezza di contribuire a un' azione di formazione e sviluppo ad alto contenuto sociale, come coronamento della loro carriera in azienda. Gli utilizzatori potrebbero, invece, disporre di quadri dirigenti di altissima qualità, a costi relativamente contenuti e con programmi chiaramente a termine.
Questo tipo di azioni dovrebbe essere accompagnata da significativi investimenti nell'offerta formativa di eccellenza nel settore strategico delle qualifiche dotate di autopropulsività per lo sviluppo dell' economia e dell’ occupazione: tecnici dell' ambiente, tecnici dell’energia, tecnici dell'ottimizzazione dei sistemi di trasporto o, tecnici della manutenzione, tecnici delle reti idriche, tecnici delle risorse culturali e turistiche. Tale offerta formativa di eccellenza dovrebbe necessaria­mente correlarsi al mondo universitario, in particolare a quello di produzione delle lauree brevi. In questo campo andrebbe fatto uno sforzo rilevantissimo, so­prattutto attraverso l'importazione mirata e strutturale di docenti dal resto dell'Italia e dal resto dell'Europa.
Non è più ammissibile infatti la condi%ione di sottosviluppo del Sud t e di inesorabile dipendenza in cui versa il sistema universitario meridionale. Terra di colonia e di conquista (salvo poche eccezioni), incapace di tratte­nere i migliori, incapace di costruire ricerca di eccel­lenza e di fornire didattica di qualità, l'università me ridionale finisce per riprodurre la marginalità. Il governo avvii, dunque, un piano nazionale per portare " (soprattutto) per far restare al Sud i migliori, dando loro i necessari incentivi finanziari compensativi, le ne cessarie risorse infrastrutturali e di ricerca in tutti i campi strategici per lo sviluppo economico. In altre parole, mettere fine allo scandalo inevitabile dei «docenti con la valigia» che, pur avendo vinto la cattedra in una sede del Sud, non aspettano altro che passi il tempo minimo necessario per andarsene, attratti dai luoghi di ricerca e di realizzazione professionali più gratificanti al Centro-nord.

Una burocrazia di nuovo modello
Se le cose stanno così, non potendosi pretendere gratuitamente l'eroismo e l'altruismo, si dia a questi ricercatori (solo ai più bravi, però) l'equivalente (o anche qualcosa di più) di quello che hanno lasciato e a cui vogliono tornare. Si facciano contratti chiari, come nei settori concorrenziali: a fronte di condizioni eco­nomico-finanziarie, ambientali di eccellenza, si pretenda altrettanta eccellenza nella ricerca, nel1a didattica, nella costruzione di comunità di lavoro e di studio capaci di resistere nel tempo e di svilupparsi.
La stessa operazione dovrebbe essere avviata nel settore della pubblica amministrazione, grande risorse capitale umano potenziale, oggi ridotta a costo­so e inefficiente settore di rifugio occupazionale per la pigra e sfiduciata piccola e media borghesia locale.
Il processo di riorganizzazione ed «efficientamento» del lavoro pubblico già in atto, a livello paese, attraverso la legge delega sul pubblico impiego (legge Brunetta) dovrebbe trovare, nel Sud, una particolare accellerazione
Con la riorganizzazione dovrebbe avviarsi a livello nazionale, in coordinamento con le regioni, un un programma di riqualificazione dell' esistente e di selezioni di nuovi quadri dirigenti, assunti con contratto a tempo determinato, con salari concorrenziali con quelli dell'industria e del terziario avanzato, da immettere nei gangli vitali del sistema: innanzi tutto nella burocrazia preposta a produrre legalità (prefetture dell'ordine, Guardia di finanza – opportunatamente militarizzata -, tribunali civili e penali ecc.); nella burocrazia preposta ai regolatori del mondo del lavoro (ispettorati del lavoro, camere di commercio Iecc) hurocrazia preposta alla produzione e alla manutenzione del capitale umano (provveditorati agli studi scolastici, enti per il diritto allo studio,
scuole di ogni ordine e grado, mondo della formazio­ne, università, assistenza agli anziani, assistenza sani­taria ecc.); nella burocrazia preposta al controllo e alla gestione degli investimenti infrastrutturali e nel cam­po dell'edilizia e dell'urbanistica (assessorati ai lavori pubblici e ambiente, assessorati all'urbanistica ecc.), e nel campo dell'acquisizione e gestione dei fondi co­munitari (il personale addetto, cioè, alle cabine di regia previste dalla normativa sul Mezzogiorno). L'immis­sione di alcune decine di migliaia di medio-alti funzio­nari pubblici opportunamente selezionati su base na­zionale e comunitaria, con contratto a termine di di­ritto privato e salari conseguenti, non potrebbe non innescare positivi processi competitivi e di ulteriore selezione e qualificazione.
Certo, per far questo non basta cambiare un po' di vecchie e dannose regole dell'ordinamento burocrati co, come già è stato fatto: bisogna vincere la resistenza di molti centri di potere, a livello sia centrale che periferico. Tuttavia i tempi sono ormai maturi e le alleanze sociali del tutto disponibili, anche in ragione del tumultuoso e positivo sviluppo di un associazionismo spontaneo, soprattutto in ambito culturale, ormai in atto nel Sud da oltre un ventennio.

Conclusioni
Perché non ce l'abbiamo fatta finora
A conclusione del nostro ragionamento è giusto soffermarci sul perché fino a ora l'Italia non ce l'abbia fatto a risolvere compiutamente il problema del Sud.
Come abbiamo cercato di spiegare nelle pagine precedenti, il divario tra Nord e Sud può essere sintetizzato come un divario di redditi e di capacità competitive, che sono nel tempo divenute fonte di tensioni e contraddizioni insanabili.
Le ragioni storiche e le cause più vicine sono ben note le soluzioni e le vie d'uscita pure, come abbiamo cercato  ulteriormente di motivare, ma sta di fatto che l’implementazione è rimasta a livello di wishful thinking. La questione meridionale rischia quindi di restare insolubile, a meno che non si determinino le condzioni affinchè il Sud possa essere individuato come fonte' di opportunità non solo per se stesso, ma anche e soprattutto per il Nord. La
 storia ci ricorda momenti (sia ai tempi di Roma, che all’epoca di Federico II) in cui il Sud rappresentava la parte più sviluppata d'Italia, ovviamente nel contesto di equilibri geo-politici egeo-economici da quelli prevalsi negli ultimi due o tre secoli.
Fino a ieri, nell' ambito degli equilibri della guerra fredda, inevitabilmente il problema meridionale si po­neva nei termini della cosiddetta riduzione del ritardo rispetto al Nord Italia, il quale a sua volta doveva recu­perare il ritardo accumulato nei confronti dei paesi e delle regioni più settentrionali dell'Europa, che aveva­no conosciuto la rivoluzione industriale con decenni di anticipo.
Per di più nei primi decenni del dopoguerra le condizioni obiettive della divisione del lavoro verificatasi nell' ambito della cosiddetta Europa carolingia hanno giocato fortemente a favore delle regioni settentriona­li dell'Italia, le quali si sono trovate in una fase di svi­luppo ottimale per riuscire a svolgere le funzioni sus, sidiarie di cui aveva bisogno il sistema produttivo dei paesi settentrionali dell'Europa, in primis Germania. Francia e Benelux.
Ciò naturalmente favorì il cosiddetto miracolo economico degli anni sessanta e settanta, ma nonostante lo sforzo della politica meridionalistica dei Vanoni e dei Saraceno, di fatto aumentò il divario con l’economia meridionale e favorì la scelta della scorciatoia rappresetata dall'emigrazione verso il Nord della parte più intraprendente delle giovani generazioni meridionali.
E quando, negli anni ottanta e novanta, si sviluppò pienamente l'azione delle cosiddette politiche di coesione interna dell'Europa, la competizione dei paesi iberici prima e di quelli dell'Europa orientale dopo, una volta caduto il Muro di Berlino, ebbe facilmente la meglio rispetto alla capacità di reazione di una società meridionale indebolita dal salasso dovuto all' emigra­zione delle sue forze migliori e dal prevalere della con­Icrgenza dei ceti rappresentativi, sia della società lega­I" che di quella illegale, nel difendere la loro conve­'I ienza al mantenimento dello status quo.
Naturalmente, come ben si è visto con il successo non solo elettorale della Lega Nord, il Settentrione non ha visto minimamente crescere la propria convenienza a favorire il recupero del Sud.

Perché ora possiamo farcela
Non vi è ragione al mondo che possa indurre qualcuno a ritenere che, a parità di condizioni oggettive, ciò che non è riuscito fino a ieri possa riuscire domani.
Anzi, come abbiamo visto negli ultimi quindici anni, la situazione può solo peggiorare e le difficoltà , per l’implementazione dei rimedi, pur noti, crescere.
E però le cosiddette circostanze al contorno sono venute cambiando: con la fine della guerra fredda i connotati del contesto complessivo sono profonda­mente mutati, il procedere della cosiddetta globalizzazione ha fatto il resto e il tutto ha portato all’esplodere della crisi sistemica di cui stiamo subendo le conseguenze.
Da questa crisi usciremo, ma oramai è chiaro che ne usciremo con un mondo profondamente diverso e soprattutto caratterizzato da gerarchie ed equilibri totalmente nuovi: non siamo ancora in grado di prevedere compiutamente i connotati di questo mondo diverso e al tempo stesso alcuni di tali connotati sono già individuabili.
Il nuovo mondo sarà compiutamente multipolare e alcuni dei nuovi poli sono già chiaramente definiti: le cosiddette «economie emergenti» (quelle che possia­mo chiamare con più esattezza BJC anziché BRIC, e cioè l'Asia dell'Est con al centro la Cina, l'Asia del Sud con al centro l'India e l'America Latina con al centro il Brasile) sono ormai compiutamente emerse e si appre­stano, assieme agli Stati Uniti, a costituire l'ossatura della nuova governance globale, nonché i centri della nuova architettura economica.
In questo contesto l'Europa rischierà moltissimo: per la prima volta dopo molti secoli rischia di perdere una centralità che era stata totale nel periodo delb divisione coloniale del mondo e che aveva mantenuti anche nel XX secolo, dopo la prima guerra mondiale, sia pure come «junior partner» degli Stati Uniti, nel l'ambito del cosiddetto Occidente e sulla base dell’asse transatlantico.
Nel nuovo contesto i rischi del declino e della marginalizzazione diventeranno molto concreti, e ciò ovviamente creerà seri problemi anche per la coesione dell'Europa e nuove difficoltà al procedere dell’integrazione non è difficile immaginare le conseguenze negative di tale prospettiva per un paese come l’Italia e, all'interno di esse, i potenziali effetti sulla coesione del paese, e quindi sui rapporti tra il Nord e il Sud
Ovviamente c'è da augurarsi che non prevalga l’accettazione passiva di tale prospettiva e che sia le opinioni pubbliche che le élites europee scelgano di battersi per contribuire alla creazione di consizioni almeno in parte restituiscano al nostro continente, e soprattutto alla sua economia, delle opportunità capa­ci di impedire declino e marginalizzazione.
Ebbene non ci dovrebbe volere molto a capire che ciò sarà possibile solo se l'Europa sceglierà con chiarezza e determinazione di operare perché da subito, in coincidenza con la fuoriuscita dalla crisi, si possa sviluppare, accanto ai tre poli già emersi, un quarto polo presentato dai paesi compresi in quella che possiamo definire la regione mediterranea allargata (i paesi mediterranei in senso stretto, i paesi del Mar Nero, i paesi del Medio Oriente fino potenzialmente all'Iran e quelli del Golfo Persico).
Basta pensare ai dati demografici (si tratta di 400 milioni di persone nel 2010, destinati a crescere di 100 milioni di unità entro il 2025), alle risorse energetiche concentrate in tale regione e al vantaggio rappresentato dalle potenzialità da soddisfare in termini di infrastrutture, urbanizzazione e fornitura di beni pubblici.
Il Pil aggregato di questa regione è oggi di circa 1,5 trilioni di dollari, destinati a raddoppiare in quindici anni a un tasso di crescita del 5%" assolutamente realistico se si considerano le performance di tali paesi tra il 2003 e il 2008.
Lo sviluppo di tale nuova area economica permetterebbe tra l'altro di risolvere il problema della Russia, facilitando il suo ricongiungimento con la propria vocazione europea.
Per l’Europa e la sua struttura produttiva una maggiore cooperazione con queste nazioni consentirebbe di resistere alle tensioni proprio al momento del passaggio più difficile, rappresentato appunto dal superamento della crisi, quando la nuova “corsa all’oro” comincerà.
Lunica area dotata di queste potenzialità è la Regione mediterranea allargata, composta non solo dai paesi mediterranei ma anche da quelli del Mar Nero, del Medio Oriente e del Golfo.
Non sfuggono gli ostacoli che si frappongono a un effettivo sviluppo di tale processo: in primis le questio­ni geopolitiche, che rendono tale regione molto instabi­le e al tempo stesso di interesse generale per tutti i prin· cipa1i attori del nuovo mondo globale, alla ricerca di una soluzione positiva e pacifica di tali problemi.
Tutto ciò ovviamente avrà profonde conseguenze sia a livello europeo che a livello italiano. A livello Europeo farà pendere la bilancia a favore dell' opzione di I un'Europa a forte dimensione mediterranea, rispetto all'opzione del rattrappimento baltico. A livello italiano creerà le condizioni per un rafforzamento dell’interesse del Nord nei confronti del Sud, essendo chiaro che l'opzione mediterranea diventerà la condizione per il mantenimento di un ruolo competitivo del sistema produttivo settentrionale, destinato altrimenti a  correre il rischio della perifericità e della marginalizzazione rispetto a un'Europa più settentrionale e più forte forte destinata inevitabilmente ad allontanarsi anche dall'Italia del Nord.
Quindi si creerebbero le condizioni per andare ben oltre la logica un po' astratta del federa1ismo solidale o della coesione interna di tipo europeo, già messa for­lemente in discussione dalla competizione dei paesi di Iluova adesione dell'Europa orientale.
Visto che è difficile parlare di un'Europa a forte dimensione mediterranea, senza un ruolo centrale del­l'Italia meridionale, diventerà evidente l'interesse sia europeo che italiano settentrionale all' allocazione del­le risorse necessarie per mettere il Meridione nelle condizioni di assolvere effettivamente il ruolo potenziale che storia e geografia gli assegnano.
In questo modo si creerebbero altri interessi, fino a oggi sempre assenti o minoritari, capaci di capovolgere il perverso e negativo rapporto di forza rispetto a quegli interessi illegali che hanno prosperato proprio sulle condizioni di ritardo e di declino del Mezzogiorno che sono stati la principale ragione del circuito vizioso che ha reso sempre più lontano l'obiettivo del riequilibrio tra le due parti del paese.
Verrebbero inoltre eliminate le ragioni che hanno indotto le risorse umane migliori del Sud a scegliere la via di fuga dell' emigrazione verso il Nord dell'Italia o verso l’Europa, come scorciatoia inevitabile e razionale rispetto a un recupero del ritardo che appariva come un lontano miraggio.
Si avvertono già i primi pallidi sintomi di un'intuitiva comprensione dei vantaggi di una prospettiva del genere: basti pensare alle spontanee esplorazioni di prime avanguardie imprenditoriali nei confronti di paesi come la Turchia o la Tunisia, tra l'altro, guarda caso, individuati come tappe ulteriori di un percorso spontaneo che prima aveva riguardato paesi come la Romania.
Una prima traccia di dimostrazione di interesse si trova da parte dell' economia tedesca nei confronti di potenziali vantaggi a instaurare solidi rapporti con i paesi del Golfo (dove all'ormai ovvio Dubai si è aggiunta 1'Arabia Saudita), ma anche con paesi come l'Egitto o 1'Algeria.
D'altronde un minimo di attenzione, ancor oggi assolutamente carente sia a livello europeo che italiano, dovrebbe spinger ci a rilevare e a capire il senso delle nuove attenzioni verso questa regione del mondo, che provengono soprattutto dalla Cina, e capire anche che la partita di più lungo periodo, che riguarda i rapporti futuri con 1'Africa sub-sahariana, si vincerà o si perde­rà proprio qui nel Mediterraneo.
Incontrerà il successo chi avrà le idee più chiare  saprà concentrarsi sui fattori decisivi per ancorare l'Europa a quei paesi che sono destinati a fornire ad essa le ragioni per mantenere un ruolo centrale a livello globale: su questo bisognerà avviare una riflessione approfondita.

Quali sono le priorità?
In primo luogo la costruzione di un sistema logistico capace di riportare il Mediterraneo a una centralità di livello mondiale e di ricreare un'unità tra la sponda Sud e la sponda Nord. Una particolare importanza nella definizione e nella realizzazione di tale sistema logistico dovrà essere attribuita alle questioni relative all'energia (piano razionale di oleodotti, gasdotti, elettrodi, nonché terminali gasieri).
In secondo luogo la priorità da assegnare al contri­buto europeo in termini di tecnologia hard e soft per la trasformazione sociale di questi paesi. Ciò investe la questione dell'urbanizzazione e quindi la necessità di utilizzare in tempi brevissimi nuovi ambienti urbani nell’ordine di grandezza di milioni di abitanti. L'urbanizzazione di queste dimensioni può avvenire secondo le soluzioni più avanzate (sostenibile ed eco-compatibile) o secondo la logica degli slum o delle favelas: questa alternativa risulterà decisiva per il successo o l'insuccesso dell'intero disegno.
Più in generale, bisogna pensare all'approvazione di un’agenda vcrde per il Mezzogiorno per guidare i processi di crescita e renderli più rispettosi dell' ambiente. La costruzione di una sana coscienza ambientalista che abbia a riferimento un concetto di ambiente in senso lato è la precondizione per sovvertire una serie di cattive pratiche e cambiare il volto del Mezzogiorno. Si consideri a riguardo come potrebbero apparire le città e le aeree rurali del Sud laddove la cultura del rispetto dell’ambiente fosse radicata nelle popolazioni meridionali: rifiuti, discariche abusive, siti inquinati, degrado, abbandono, trascuratezza, abusivismo edilizio, inquinamento sarebbero solo un ricordo.
Infine l'offerta all'Europa di un'occasione sul ter­I 1,',;sivo della formazione del capitale umano, dando così una risposta sia al rischio di declino demografico delle società europee, sia al problema di mettere a disposizione di quella che è destinata a diventare la ragione economica euro-mediterranea un pool di risorse umane giovani e formate.

Qual è il ruolo del nostro paese?
Legalità e capitale umano sono i catalizzatori della società civile; nei benchmark europei sono prerequisi­ti dello sviluppo e della diffusione dell'innovazione.
Ma investire in legalità e capitale umano è difficile e richiede non tanto e non solo risorse aggiuntive, quan­to determinazione e consenso, giacché si tratta di «beni» in gran parte invisibili, immateriali senza parti­colari tassi di ritorno nel breve periodo e, quindi, poco appetibili per i tradizionali circuiti di finanziamento e spesa, a livello nazionale come locale.
È molto più facile costruire un ponte, allargare un'autostrada, impiantare una raffineria: in questo ge" nere di attività, la spesa per investimento è immediata' mente percepita come positiva. Poco importa, poi, se la strada e il ponte sono del tutto inutili, e se la raffincri.l è fuori mercato e, magari, inquina. Allora, si spost('\'~ l'attenzione e le richieste su altri ponti, su altre stradt" su altri impianti, sempre con la stessa logica del finali ziamento, spendi e fuggi.
Per investire in società civile bisogna, invece, creare fiducia: occorrono determinazione, coerenza e fermezza. Occorre un ambiente di norme semplici e rispettate, come abbiamo visto, l'enforcement delle norme non è una virtù italica e men che meno meridionale.
Se l'Europa potenzierà gli strumenti per la convergenza, in sintonia con la visione eurocentrica della questione del Sud, come l'abbiamo proposta in queste pagine, allora il potenziamento della società civile e la capacità di autogovernarsi spingeranno la società meridionale a uscire dall'assistenzialismo e ad assumere su di sé il tema dello sviluppo. Ma occorre che questo processo sia innescato da una regia politico-istituzio­nale che mantenga uno straordinario impegno nei tempi di attuazione del programma. Non parliamo di intervento straordinario, ma di straordinaria capacità di mobilitazione delle istituzioni e delle risorse europee e nazionali disponibili.
Da questo circuito virtuoso devono venire le risorse politiche e le risorse finanziarie, tanto a livello locale, quanto a livello nazionale ed europeo.
Non servono nuove agenzie, ma bisogna valorizzare quelle esistenti e migliorarne l'utilizzo per un rogetto chiaro e condiviso sulla base di un modello tipo “Hube e Spoke”.  In cui l' hub è la guida del processo da parte del governo centrale: la Presidenza del Consiglio dei ministri e gli spokes sono le Agenzie esistenti, dei ministeri e delle regioni, le braccia operative del sistema. E’ loro attivazione e mobilitazione sugli obiettivi che abbiamo indicato che deve offrire risultati straordinari. Come è accaduto a L'Aquila, dove il piano di rientro alle normalità e di ricostruzione è stato condotto enfatizzando i metodi di intervento di Protezione civile i metodi di ricostruzione integrata di un territorio regionale e di rilancio di un campus universitario di eccellenza (anche sugli stessi temi della ricostruzione).
Strumenti ordinari, mobilitati per obiettivi e risultati straordinari. Queste le parole d'ordine di una nuova politica al Sud, per realizzare quello che potremmo definire un grande intervento basato sul concetto di straordinarietà di rete», che quindi sia in grado di mobilitare risorse umane, strumentali e finanziarie straordinarie, non introducendo nuovi soggetti ma «semplicemente» valorizzando e mettendo a siste­ma, in rete, resistente.
Occorre sostenere la crescita del Mezzogiorno anche con il sostegno finanziario di un soggetto quale la Banca del Sud. Questo a partire dalla considerazio­ne che tutte le grandi regioni europee hanno la propria banca che si fa promotrice dell'istanza di raccogliere risorse sul territorio (e non solo) per il territorio. A riguardo si può ipotizzare di mettere in rete le banche di credito cooperativo e le popolari, soggetti che per dimensioni meglio si adattano a fornire una risposta alla domanda di credito del Mezzogiorno. D'altra parte (Commissione europea 2009a), all'interno di un quadro assai critico delle performance del sistema Italia, sotto il profilo dell'innovazione, riconosce al sistema finanziario un posizionamento di relativa forza su cui occorre fare leva per uscire dalla crisi e per rilanciare il Sud.
Il federalismo fiscale, pensato per accrescere la responsabilità di chi governa nei confronti della società locale, ridurrà inevitabilmente i trasferimenti dello Stato centrale alle regioni, e a quelle del Sud in particolare. Nel Sud occorrerà sviluppare la finanza di progetto per attirare capitale privato negli investimenti per servizi pubblici e infrastrutture. Occorrerà migliorare la gestione dei servizi e l'efficacia della spesa, selezionare gli investimenti con le priorità. La debolezza della capacità di innovazione organizzativa (Commissione europea 2009b) delle nostre imprese non aiuta il cambiamento organizzativo necessario nella pubblica amministrazione: oggi si può dire che quest’ultima potrebbe svolgere un ruolo di stimolo nei confrontidel settore privato (ministero per la Pubblica ammini­strazione e Innovazione, Piano e-Gov 2012 e Docu­mento preparatorio del Piano i2012 per una nuova \ ,olitica dell'innovazione).
Hub & spoke, il mozzo e i raggi di un sistema dinamico, sono necessari per accelerare il movimento della società e dell' economia del Sud. Sono necessari un Hub & Spoke un coordinamento instancabile, l'hub, e una focalizzazione delle istituzioni per far girare il meccanismo istituzionale. Lo abbiamo visto in atto a L'Aquila, dopo il terremoto. Questa regia e questa focalizzazione delle istruzioni debbono assicurare che si realizzino i prerequisiti per creare una convenienza forte dal punto di vista economico, come abbiamo visto più sopra - ricordiamo i titoli dei prerequisiti che abbiamo individuato e che si avvicinano molto a quelli che si desumono dalle indagini europee sullo stato della convergenza  delle regioni: sviluppo delle infrastrutture e della logistica; miglioramento del capitale umano; investimenti del settore privato.
Ma senza una forte convenienza agli investimenti privati, senzala capacità di attrarre investimenti dal Nord e dal resto del mondo, il Sud non avrà un processo autoalimentato di sviluppo. È su questo fronte decisivo che si deve concentrare la scelta politica europea e nazionale. Creare una fiscalità di vantaggio che faccia da leva allo sviluppo, poggiando sulla crescita della società civile, o, se preferisce, del capitale sociale del Sud.
Sull’ultimo punto occorre insistere. L'occasione offerta da questa crisi è importante. Anche l'Ocse ritiene che l’innovazione sia necessaria per uscire dalla crisi, ma che la crisi stessa offra risorse per rilan­ciare gli investimenti. Sono risorse di una maggiore disponibilità al cambiamento, di una nuova volontà di assumere responsabilità e di non rinviare le decisioni. Se il terremoto ha indotto la necessità di un modello di amministrazione focalizzata al risultato, la crisi attuale può creare la scintilla per far partire il motore dello sviluppo al Sud. Occorre fare presto anche per questo motivo.
Si tratta, certamente, di una complessa strategia istituzionale di progettazione e azione, cui dovrà esse­re affiancata una parallela azione di monitoraggio sui risultati via via ottenuti, in stretta coerenza con quanto previsto dalla normativa comunitaria. Gli uomini e le donne del Sud devono rendersi conto che «più legalità e più capitale umano» vogliono dire «più sviluppo, più benessere vero, più libertà, più cittadinanza». Meno dipendenza e più responsabilità. E un Sud, avviato su un sentiero virtuoso di crescita, fa bene all'Italia e fa bene all'Europa.











































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