venerdì 13 gennaio 2012

libro cassano tre modi di guardare il sud

TRE MODI DI VEDERE IL SUD
Franco Cassano

È questo che ha impedito sempre alla Sicilia di andare avanti: il credere che il mondo non potrà mai essere diverso da com' è stato. Ora siccome questa sfiducia nelle idee, anzi questa mancanza di idee, ormai si proietta su tutto il mondo, in questo senso per me la Sicilia ne è diventata la metafora.
Leonardo Sciascia

Può veramente predicare la giustizia chi non riesce nemmeno a farla regnare nella propria vita?
Albert Camus

Premessa.
La questione meridionale da un secolo alt altro

Una riflessione sul Mezzogiorno oggi sembra superflua, perché quasi tutti pensano di avere già la risposta in tasca: il Sud italiano è una terra perduta per la quale e nella quale sembra inutile battersi. chi, in tempi recenti, lo ha fatto con coraggio è costretto a nascondersi per sottrarsi alla fatwa della malavita organizzata. L'affermarsi di questa convinzione permette di spiegare In strano paradosso che si aggira nel dibattito politico-culturale del nostro paese: nel momento in cui la situazione di alcune aree del Mezzogiorno è diventata particolarmente critica, la questione meridionale, che ha segnato la formazione etico-politica di più di una generazione, sembra essersi eclissata non solo dall'agenda dei politici, ma anche agli occhi di gran parte dell'opinione pubblica, sembra coincidere con la questione criminale.
Una riflessione sul Mezzogiorno oggi sembra superflua, perché quasi tutti pensano di avere già la risposta in tasca: il Sud italiano è una terra perduta per la quale e nella quale sembra inutile battersi. Chi, in tempi recenti, lo ha fatto con coraggio è costretto a nascondersi per sottrarsi alla fatwa tua della malavita organizzata. L'affermarsi di questa convinzione permette di spiegare lo strano paradosso che si aggira nel dibattito politico-culturale del nostro paese: nel momento in cui la situazione di alcune aree del Mezzogiorno è diventata particolarmente critica, la questione meridionale, che ha segnato la formazione etico-politica di più di una generazione, sembra essersi eclissata non solo dall'agenda dei politici, ma anche agli occhi di gran parte dell'opinione pubblica, sembra coincidere con la questione criminale.
Sarebbe semplice rispondere che la centralità della questione meridionale è stata progressivamente scalzata  dall'emersione di un'altra questione «territoriale», quella settentrionale, ma si tratterebbe di una lettura semplificata, che trascura un'analisi delle ragioni profonde del logoramento di quella centralità, Le riflessioni che compongono questo libricino si propongono di discutere di tali questioni inserendo la riflessione sul Mezzogiorno italiano in un quadro più vasto, quello delle grandi trasformazioni avvenute negli ultimi decenni.
L’espressione «questione meridionale» non coincide con una generica attenzione alla condizione del Sud, ma è il prodotto di un contesto storico molto preciso. Essa nasce con la formazione dello Stato nazionale ed è figlia di un:l comparazione tra le diverse aree che vanno a farne parte, comparazione impossibile prima della sua formazione. Subito dopo l'Unità, infatti, la nuova classe dirigente è costretta a prendere atto che lo Stato è uno solo, ma le Italie sono molte, e che la differenza che spicca su tutte le altre è quella rappresentata dalla condizione di arretratezza e miseria in cui versa una gran parte dell'Italia meridionale. Il riconoscimento di questo divario coincide con la nascita della questione meridionale, La «conquista del Sud», con le sue luci e le sue ombre, è segnata da un pesante contrappasso: nel nuovo Stato il Mezzogiorno entra come una questione nazionale, come una ferita aperta che la nuova classe dirigente deve curare per realizzare l'unificazione reale del paese. Il meridionalismo storico altro non è che quel filone di pensiero che s'interroga sulle cause di questo divario e sulle possibili terapie. A partire dalle famose Lettere meridionali di Pasquale Villari nasce un lungo e appassionato dibattito, nel quale si affacciano figure di grande rilievo come Fortunato Salvemini, Sturzo, Gramsci, Dorso e tanti altri, immolati da questo dibattito, i governi intervengono talvolta con opere pubbliche anche imponenti (si pensi alla costruzione dell'acquedotto pugliese), ma non c'è nessun disegno globale, nessun intervento sistematico, nessuna cornice istituzionale che si occupi con continuità del Mezzogiorno.
La situazione cambia e la «questione meridionale» fa un salto in avanti e verso il centro dell’agenda politica con la caduta del fascismo l' l'avvento della democrazia, allorché anche le  masse contadine del Sud iniziano drammaticamente a far sentire la loro spinta. La Costituzione repubblicana, nell' articolo 3, consacra il proprio impegno a «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all' organizzazione politica, economica e sociale del Paese». È di lì che partono sia una timida ma significativa riforma agraria, sia l'intervento straordinario, un impegno programmatico che non si estinguerà neanche negli anni di più acuta contrapposizione tra gli schieramenti politici.
Questo atteggiamento interventista non è però un' anomalia nazionale, perché si colloca all'interno di un quadro internazionale comune a tutti i paesi occidentali negli anni del dopoguerra. Nel corso di tale arco di tempo, i cosiddetti «trent'anni gloriosi» (1945-75), il paradigma egemone è quello dell' universalismo progressista, che si propone di espandere progressivamente il benessere a tutta la società. All'interno di questa prospettiva lo Stato gioca un ruolo decisivo nell' economia, sia come imprenditore sia come erogatore keynesismo di quella spesa pubblica che permette di incrementare la domanda effettiva, espandere i consumi e sostenere lo sviluppo. E lo Stato svolge un ruolo decisivo anche nel progressivo ampliamento dei diritti di cittadinanza e nell’universalizzazione del sistema del welfare. A fondamento di quegli anni c'è quindi, anche come riflesso creativo della tensione planetaria tra le potenze vincitrici del conflitto, la costruzione di un compromesso tra capitalismo e democrazia, che consente di conciliare sviluppo, crescita dei consumi ed estensione dei diritti, in un circolo virtuoso sicuramente limitato ad una piccola parte del mondo e probabilmente irripetibile, ma segnato da conquiste di grande rilievo.
La politica di intervento straordinario non è certo in grado di avviare, come pure pretenderebbe, la «soluzione» della questione meridionale, ma produce significative trasformazioni del Mezzogiorno. Né d'altra parte essa costituisce, come vorrebbe la scolastica neoliberista, un'escrescenza provinciale, perché si colloca in un quadro internazionale che sostiene la necessità di superare gli squilibri e ridurre le disuguaglianze. Va anche detto però che la generosità dell'intervento straordinario nario costituisce l'altra faccia dell'inserimento del Sud all'interno di un modello di sviluppo che aveva il suo centro nella" grande industria del Nord. Rimuovere questo ruolo giocato dal Mezzogiorno nello sviluppo nazionale e concentrare esclusivamente l'attenzione sul flusso di risorse che scende a Sud è uno dei segnali dell'involgarimento del dibattito italiano degli ultimi anni.
Le cose incominciano a mutare quando la produttività degli investimenti straordinari diventa dubbia e lo sviluppo del Sud non sembra essere capace di autopropulsione. Da un lato sui poli industriali di sviluppo piove l'accusa di essere delle cattedrali nel deserto, dall' altro diviene evidente che 1'erogazione straordinaria non può continuare ad inintium, anche perché essa viene destinata, molto più che allo sviluppo, ad organizzare il consenso ai partiti di governo e più in generale al ceto politico meridionale. Impietosamente, le analisi di quegli anni mettono a nudo il clientelismo di massa dei partiti e il ruolo di una classe dirigente che liquida tranquillamente l'obiettivo dello sviluppo per orientare il flusso delle risorse pubbliche in funzione del proprio tornaconto elettorale, modellando su  tali esigenze una parte rilevante della stessa struttura sociale meridionale. L'arretratezza economica si trasforma in dipendenza economica e politica del Mezzogiorno, mentre inizia  diventare più pesante e diffuso il ruolo della malavita organizzata.
Tuttavia anche in questo caso il mutamento decisivo avviene a livello internazionale. Nella prima metà degli anni Settanta le classi dirigenti del capitalismo internazionale, preoccupa te per la crisi fiscale e i costi di quel compromesso tra capitalismo e democrazia che aveva sostenuto il primo trentennio del dopoguerra, decidono di disincagliare i profitti (Lilla pressione del «sovraccarico di domande» a cui sono sottoposti gli Stati nazionali. I termini del compromesso vanno radicalmente rinegoziati  a favore delle imprese e dei mercati, con un netto mutamento dei rapporti di forza tra economia e politica e un drastico ridimensionamento del ruolo di quest'ultima. All'interno del nuovo paradigma liberista lo Stato nazionale non scompare, ma la sua autorità e la sua autonomia subiscono un netto declassamento. Si esaurisce quella dialettica complessa tra democratizzazione della nazione e nazionalizzazione della democrazia che aveva retto il «secolo socialdemocratico» e aveva alimentato l'universalismo progressista.
In un quadro che esalta la competitività, anche la disuguaglianza cambia radicalmente il proprio status teorico: essa non è più una disparità da contrastare e ridurre, ma l'espressione necessaria della diversità degli impegni e delle abilità. Non solo: l'impegno dello Stato nella riduzione delle disuguaglianze appare come una pratica perversa che, in nome di una generosa utopia, finisce per dissipare risorse e penalizzare le classi sociali e le aree territoriali più attive a favore di quelle più passive e inncapaci di produrre ricchezza. Con un singolare movimento viene rovesciato un assunto delle analisi radicali del sottosviluppo care alle teorie della dipendenza: non sono più le aree forti a sfruttare quelle deboli, ma al contrario quelle più deboli a sfruttare, attraverso le politiche redistributive dello Stato nazionale, le aree forti.
Da tali premesse, radicalmente diverse da quelle che avevano ispirato l'universalismo progressista, parte un movimento che avvia l'eclisse della questione meridionale: viene messa in discussione non solo l'efficacia dell'intervento straordinario, ma la sua stessa legittimità. E alla porta, annunziato dall'obiezione fiscale, bussa il federalismo: anche lo Stato dismette ogni pretesa universalistica e si converte all’autsercing. Naturalmente i tempi del disimpegno reale saranno molto più lenti, poiché lo smantellamento dei meccanismi del consenso è un'operazione faticosa e dolorosa. Ma la direzione è presa: non solo la Cassa del Mezzogiorno cessa le sue attività, ma viene avviata la dismissione dell'industria di Stato. L’eclisse della questione meridionale come questione nazionale inizia con questo passaggio.
Ovviamente la riflessione sul Sud italiano non  cessa con l'estinzione dell'intervento straordinario, ma deve misurarsi con un quadro nel quale la parola d'ordine prioritaria è diventata quella di contare sulle proprie forze. Insomma la nuova stagione di riflessione sul Mezzogiorno  pesantemente segnata, nel bene o nel male da questa nuova scarsità che la spinge a fare di necessità virtù. La premessa di questo nuovo ciclo, che noi chiameremo del liberismo comunitario è l'abbandono dei cardini concettuali che avevano caratterizzato la stagione precedente: il Sud non è un tutto omogeneo e uniformemente arretrato e il compito di una ricerca rigorosa è quello di sostituire alla vecchia narrazione meridionalista la ricognizione delle differenze tra un Sud e l’altro. Ovviamente non si tratta di un’esigenza analitica fine a se stessa, perché tale ricognizione mira a mettere a fuoco delle politiche e ad attivare i soggetti più capaci di costruire dal basso quel mercato e quello spirito imprenditoriale che l’intervento straordinario non aveva saputo creare.
La nuova riflessione sul Sud considera quindi l’abolizione dell’intervento straordinario non come una sconfitta, ma come l’offerta di una grande opportunità, come l’occasione di una grane svolta, capace di stimolare, a partire dalla scala locale, comportamenti nuovi, moderni e in grado di inserirsi con successo nel mercato globale. L’attivazione di questi soggetti diventa la vera chiave per avviare lo sviluppo a Sud, nel nuovo quadro della competizione tra le comunità territoriali. Le politiche devono in primo luogo potenziare il gioco di squadra di tali comunità, mettendo a fuoco e sviluppano tutte quelle risorse sociali e culturali che costituiscono le condizioni non economiche dello sviluppo (beni relazionali, rispetto e cura dei beni pubblici, legalità, potenziamento e valorizzazione del capitale sociale della  comunità, ecc.). Il successo dipende quindi soprattutto se non esclusivamente dalla qualità di questo impegno.
Le buone ragioni e i guadagni analitici di questa posizione sono accompagnati però a costi che sul lungo periodo possono diventare pesanti. Il modello concettuale da cui essa muove fa gravare sugli attori locali tutto l’onere di promuovere lo sviluppo, e fa scomparire dall’analisi qualsiasi riferimento a vincoli esterni e al rapporto tra le diverse aeree del paese. L’enfasi sulla qualità della classe dirigente locale e sulla necessità di sollecitare tutte le risorse virtuose disponibili sul territorio ha il merito di rimuovere i bersagli esterni dietro i quali per molti decenni la classe dirigente meridionale aveva mascherato le sue responsabilità, ma è anche affetta a una grave forma di miopia, perché cancella a priori dal proprio campo analitico i vincoli strutturali e le dimensioni geoconomiche e geopolitiche. L’accento sulla dimensione locale produce una sorta di regionalizzazione della regione, che rimuove i processi complessivi che attraversano il Mezzogiorno, come la crisi del sistema finanziario, il passaggio del controllo del risparmio meridionale in altre mani, e il mancato sviluppo delle infrastrutture che dovrebbero collegare sia le diverse aree del Sud italiano sia quest'ultimo nel suo complesso con il suo bacino d'elezione, il Mediterraneo. Non esistono solo territori in libera competizione tra loro, ma contano anche le dotazioni di partenza, le gerarchie esistenti tra essi e la loro posizione. Il Nord del paese è nel cuore dell'Europa, il Sud invece è nel cuore di un mare su cui la retorica sembra aver sostituito la politica e la volontà concreta di aprire una pagina nuova.
Che competizione ci può essere tra soggetti che muovono da punti di partenza così distanti? E come si fa ad ignorare che una competizione così squilibrata corre sempre il rischio di riprodurre e inasprire le disuguaglianze? Non è necessario essere seguaci delle teorie della dipendenza per capire che «l'" economia globale" non è un campo da gioco in cui tutti partono da zero: i paesi sviluppati godono di maggiori vantaggi, in quanto possieedono un contesto istituzionale/ organizzativo che (. .. ) riesce a catturare la produttività potenziale derivante dall'integrazione della conoscenza dispersa».
La mobilitazione virtuosa di tutte le risorse locali è una condizione necessaria, ma non sufficiente per sottrarre il Mezzogiorno ad un crescente slittamento verso la periferia. In queste circostanze tale mobilitazione è debole, ed è spesso accerchiata e pesantemente condizionata dalla proliferazione delle attività illegali. In una situazione periferica la violenza che ispira gli animaI spirits del capitalismo subisce una dilatazione grottesca. Se non vuole essere ridotta ad un moralismo impotente, la prospettiva dell' autonomia deve prendere atto della durezza della condizione periferica e definire uno scenario più grande e impegnativo.
Il processo di lento smottamento dell'evidenza della questione meridionale nasce però anche dalla progressiva emersione della cosidetta  questione settentrionale, che inizia anch’essa con la grande trasformazione che prende avvio negli anni Settanta. Non è queste la sede per affrontare un tema così complesso e a noi può bastare formulare qualche ipotesi. Su un punto convergono gli studiosi: la trasformazione che si avvia nel Nord d’Italia dopo il ciclo delle lotte sindacali a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta vede la crisi della grande impresa e della sua egemonia e l'affermarsi di una larga schiera di capitalisti piccoli e talvolta piccolissimi che riescono a tenere un rapporto con il mercato mondiale. La vera cifra della questione settentrionale sta proprio qui, in una metamorfosi che si mette alle spalle la grande industria, quel segmento che era stato capace di produrre un progetto egemonico e rivolto all'intero paese.
La nuova massa dei «capitalisti personali» è sicuramente il segno di una risposta vitale e diffusa, di un capitalismo «dal basso», ma non è capace di uguale lungimiranza e ha un respiro territoriale molto più corto, che trova la sua espressione nella Lega Nord. Ma la forza della Lega e la sua egemonia derivano anche da chi la lascia fare allo scoperto le battaglie più corporative, salvo poi passare a riscuotere, quando le luci della ribalta si sono abbassate, È qui che si avvia una crisi del vincolo nazionale e una sorta di regionalizzazione della ragione. Per questo nuovo Nord il Mezzogiorno è solo un onere di cui liberarsi al più presto attraverso un federalismo capace di restituire alle regioni settentrionali le risorse finanziarie che esse ritengono siano state loro indebitamente sottratte. D'altra parte coloro che pensano che il rimedio per il Sud sia quello di mimare la Lega non propongono la cura, ma una nuova forma della malattia. Chi sceglie questa strada, invece di offrire al Sud le alleanze che potrebbero venire da un quadro geopolitico più vasto, propone  un'identità chiusa e l'antica dipendenza delle risorse pubbliche. Come si può credere, ad esempio, ad un'autonomia all'ombra degli statuti speciali come quella siciliana? Insomma, l'eclisse della questione meridionale come questione nazionale coincide con la crisi dell'universalismo progressista, ma anche con la crisi dell' evidenza delle ragioni per cui l’Italia dev' essere uno Stato unitario, con la sua trasformazione in un condominio sempre più gretto e litigioso,
Ci troviamo di fronte ad un passaggio ,drammatico, che deriva proprio dallo scarto tra la contrazione regionale della ragione e l’ampiezza di vedute che sarebbe necessaria per conservare  l'unità del nostro paese proiettandolo nel futuro. Il contributo del localismo virtuoso è sicuramente necessario, ma una classe dirigente all' altezza delle sfide globali dovrebbe saper andare oltre il semplice rispecchiamento delle fratture (cleavages) territoriali, spingersi più in là nello spazio e nel tempo, rilanciare il gioco su una scala più larga, raccogliere il suggerimento che viene dalla posizione cruciale che il nostro paese occupa tra Nord e Sud del Mediterraneo. L'eclisse della questione meridionale come questione nazionale prelude a due esiti possibili: il primo, il più probabile, è quello che porta alla sua definitiva scomparsa. Il secondo è quello che la vede riemergere con nuove caratteristiche al di là della cornice nazionale, come un problema di lungo periodo dell'intero paese e di un'Europa capace di guardare oltre il suo cuore settentrionale, consapevole che l'unico modo per riguadagnare il futuro è quello di giocare all' attacco. Può sembrare paradossale, ma, in tempi di crescente internazionalizzazione dell' economia, l'unità del paese può essere salvata solo dal rilancio in grande dell'autonomia del Mezzogiorno e la questione meridionale può rinascere solo come il fulcro della questione mediterranea. L'autonomia o è una prospettiva di largo respiro oppure non è.
Non sono pochi quelli che ritengono la prospettiva mediterranea un'utopia irrealizzabile, ma sanno fare poco più che correggere i compiti degli altri. Sarebbe irragionevole nascondersi le difficoltà di quel percorso, ma ogni tanto vale la pena di ricordare che a Ventotene Altiero Spinelli scrisse il Manifesto per l’Europa libera e unita negli anni in cui gli Europei stavano combattendo, con decine di milioni di morti, una terribile lotta fratricida. Molti dei nostri correttori di compiti, abituati a screditare ciò che trascende il circolo il ristretto dei loro pensieri, lo avrebbero giudicato un utopista. Quando il realistico procedere delle cose va verso una lenta decomposizione, chi non vuole rassegnarsi a questo processo qualche rischio deve saperlo correre.

I Pluralità ed egemonia

Non sempre, quando la confusione è grande sotto il cielo - come diceva un famoso presidente - la situazione è eccellente. Nella Certosa di Parma, pur essendo ,il centro dell'azione, Fabrizio Del Dongo non riesce a capire quasi nulla della battaglia di Waterloo, e in Guerra e pace, durante la battaglia di Borodino, la stessa cosa accade addirittura al comandante in capo, il generale Kutuzov. Come ha suggerito con ironia Umberto Eco, solo a Dio è possibile guardare dall' alto le vicende degli uomini e capire come andranno a finire.  Noi, che non siamo Dio e nemmeno un narratore onnisciente, di fronte alla confusione possiamo solo limitarci a mettere un po' d’ordine, sperando che l'operazione possa aiutare a capire qualcosa. E la confusione nella discussione sul Sud italiano in questi anni è stata sicuramente grande: con intenti e sentimenti spesso opposti è stata dichiarata la fine della questione meridionale, ma, nonostante l'apparente esaurimento della materia del contendere, la polemica è continuata, senza peraltro produrre risultati apprezzabili. È quindi forse utile cercare di riordinare le posizioni e le tesi, provando a ricostruire il retroterra teorico dei principali punti di vista, e restituendo ad ognuno di essi, nei limiti del possibile, la sua dignità e le sue ragioni.
Ci sono, infatti, più modi di leggere il Sud, quadri concettuali diversi all'interno dei quali è possibile inserire, definire e spiegare la condizione meridionale. Questa osservazione non è certo inedita o sorprendente: da tempo, infatti, è noto che nelle scienze sociali non c'è un quadro concettuale che domina da solo e stabilmente il campo, ma una pluralità di approcci in permanente conflitto tra loro. E le differenze tra una prospettiva e l'altra non sono semplici sfumature, ma costituiscono un vero e proprio salto, producono letture profondamente diverse: come dice Kuhn laddove un paradigma vede anatre l'altro vede conigli!. Questa insuperabile pluralità e tensione tra prospettive diverse non consente di parlare di un predominio fermo e stabile di una di esse sulle altre, ma solo di prevalenza temporanea, di periodi di egemonia.
Ovviamente i paradigmi, nelle scienze umane, generano non solo teorie e analisi diverse, ma anche politiche differenti. Essendo intimamente intrecciati a fini e opzioni ideali, essi producono effetti di grande rilievo e talvolta di segno opposto sulle diverse figure sociali. Ogni egemonia individua responsabilità  propone protagonisti e quindi privilegia ,alcuni mentre penalizza altri. Il conflitto tra prospettive è un confronto non solo tra studiosi,  ma tra immagini del mondo e tra interessi spesso aspramente contrapposti.
Del resto ogni egemonia è sempre fragile ed esposta al rischio di una crisi, che potrebbe annunziare l'inizio del suo declino, il momento in cui il consenso attorno alla prospettiva dominante inizia a sgretolarsi. Tale crisi inizia a manifestarsi quando la schiera dei fenomeni che la prospettiva egemone non ha previsto non riesce a spiegare supera la soglia di guardia, quando le anomalie si accumulano e acquistano un'evidenza crescente. E’ in questo momento di crisi che l'approccio dominante inizia a declinare, mentre inizia ad 1IIIlplillrsi lo spazio per l'egemonia dei paradigmi concorrenti o addirittura per l'emergere di nuovi.
Questa successione di egemonie però non è stata già scritta in un libro e alle sue spalle non è al lavoro nessuna provvidenza. Un approccio può conquistare l'egemonia solo se riesce a dimostrare che la prospettiva che esso offre, con i problemi e le figure che essa genera, permette di superare almeno in parte le anomalie e gli insuccessi che affliggevano quello precedente, aprendo nuovi scenari e nuove soluzioni. In questo quadro così carico di tensioni non esiste alcuna vittoria definitiva e alcun approdo finale alla verità, e la musica suonata da ciascun paradigma non riuscirà mai ad assorbire e cancellare il rumore di fondo.
D'altra parte il terreno dello scontro tra prospettive è molto accidentato e complesso, anche perché spesso esse dispongono di risorse profondamente disuguali, squilibrio che incide non poco sulla visibilità delle ragioni e sull'esito della contesa. Non è facile dare evidenza alle anomalie di un paradigma insediato nei luoghi di comando, mentre è molto facile che i suoi difensori riescano a rendere visibili le debolezze di uno emergente. È già successo ad esempio proprio alle origini e ai danni della scienza 'moderna e succede continuamente. conviene ribadirlo: non siamo di fronte ad un’irenistica pluralità, ma ad un conflitto tra prospettive diverse, che non è mai depurato dallo scontro tra i valori e gli interessi che esse premiano o colpiscono. E la nostra riflessione, pur cercando di riconoscere le ragioni delle diverse prospettive, non pretende certo di essere neutrale nella contesa.
Per provare a capire che cosa significhi la pluralità dei paradigmi nella lettura del Sud, occorre formulare una tipologia, in modo da identificare e mettere a fuoco quelli più importanti. Una scelta di questo tipo è sempre discutibile, ma è anche il modo più limpido e diretto per impostare il discorso e affrontare i problemi. È inutile nascondere che la tipologia che formuleremo è fortemente influenzata da una riflessione sui modi in cui il Sud è stato visto nel caso italiano e in cui si è posta la cosiddetta «questione meridionale». L'arco temporale a cui faremo riferimento è quello che partendo dalla fine della seconda guerra mondiale arriva fino ad oggi, sapendo bene che le discussioni nazionali, e quindi anche quella italiana, sono state fortemente segnate dai paradigmi egemoni a livello internazionale.
In sintesi ci pare che si possano individuare tre paradigmi diversi, che non hanno certo lo stesso peso, ma illustrano sicuramente le alternative teoriche più rilevanti. La ripartizione che proponiamo ovviamente non ha la pretesa di esaurire l'intero ventaglio delle opzioni possibili. Tra le prospettive escluse, ad esempio, ce n'è almeno una che, agli albori della riflessione sul Sud (pensiamo allo Spirito delle leggi di Montesquieu), sembrava possedere una capacità esplicativa molto forte, e che oggi vive invece in una condizione marginale. Intendiamo riferirci al ruolo svolto dal clima, al quale il primo Illuminismo attribuiva una rilevante efficacia causale sulle culture e le istituzioni, e che oggi sembra essere quasi del tutto scomparso dal quadro delle scienze sociali. Noi non prenderemo in considerazione direttamente questo approccio, che potremmo chiamare del determinismo geografico, ma il suo rapido declino merita qualche seria considerazione, che potrà ritornare utile in una fase successiva del nostro ragionamento.
In conclusione ci sembra che si possano identificare tre modi di vedere il Sud: 1) il paradigma della dipendenza ovvero dello sfruttamento; 2) il paradigma della modernizzazione ovvero del ritardo; 3) il paradigma dell' autonomia ovvero del Sud come risorsa critica. Proviamo a ripercorrerne i tratti essenziali.

1. La dipendenza

Secondo questa prospettiva il Sud è vittima di un meccanismo sistematico di sfruttamento, espropriazione e spoliazione delle risorse a favore delle aree forti. Le zone sviluppate e quelle e cosiddette «arretrate» non rappresentano dei dislivelli temporali tra i processi di modernizzazione, ma rappresentano due facce di un medesimo meccanismo di dominio. Lo sviluppo e la modernità, di cui si vantano i paesi più avanzati, sono inconcepibili senza lo sfruttamento dei paesi coloniali.
Questo paradigma deriva da una tradizione critica del colonialismo e dell'imperialismo di origine prevalentemente marxista ed è fortemente segnato dall'influenza del nazional-strutturalismo. Al suo interno tutto ruota intorno alla coppia concettuale centro-periferia. I paesi arretrati non sono in ritardo rispetto a quelli sviluppati e l'aggettivo sottosviluppato non illustra uno scarto temporale, ma il compimento di una subordinazione funzionale dell' area debole. Quest'ultima, infatti, non è un'area sempre uguale a se stessa e attardata da una tradizione arcaica, ma diventa periferica, specializzandosi in quelle attività marginali e subalterne che si conciliano con gli interessi del centro. Essa in altri termini si trasforma, si sotto-sviluppa, perdendo sempre più la sua autonomia, Non per caso all'interno di questo approccio un ruolo cruciale assume la categoria della borghesia compradora, in contrapposizione a quella, cara al marxismo tradizionale, della borghesia nazionale (in quanto tale potenzialmente autonoma e conflittuale rispetto al sistema coloniale), La borghesia compradora prospera e si sviluppa proprio in funzione del rapporto di dipendenza dal centro, ne diventa complice e ne costituisce la difesa più tenace. I suoi interessi non sono antagonistici rispetto a quelli del paese dominante, ma complementari e subordinati ad esso, Del resto la discussione sull' autonomia e sull' ambiguità delle borghesie nazionali è sempre stata un tema cruciale per i movimenti nazionalisti e radicali.
Secondo questo paradigma chi sta prima e avanti in realtà sta sopra, e quindi la vera soluzione del problema non viene dalla rincorsa o dalla pedagogia dello sviluppo, ma dal conflitto e dal rovesciamento del rapporto di subordinazione. Le diverse aree territoriali non si muovono correndo all'interno di corsie autonome e parallele: i più deboli trovano la strada ostruita dalla presenza dei più forti e, nella migliore delle ipotesi, possono espandersi solo nelle nicchie lasciate libere,  specializzandosi in una sorta di complementarità marginale e subalterna. Nessuno sviluppo autonomo è quindi ipotizzabile senza mettere a tema l'antagonismo di interessi esistente tra le aree periferiche e quelle centrali. In questo approccio sincronico-sistemico l’unico ruolo riservato alla nozione di ritardo è quello di camuffare un rapporto di dominio presentandolo come il semplice effetto di uno scarto temporale, superabile con politiche di modernizzazione e di sostegno allo sviluppo. Per il paradigma della dipendenza tale rappresentazione «dolce» del divario ha la funzione di delineare come aperto un futuro che in realtà ha come unica prospettiva la perpetuazione del dominio. La variante oggi più conosciuta del paradigma della dipendenza è quella dell'economia-mondo messa a fuoco da Immanuel Wallerstein. Ma occorre ricordare in primo luogo gli studiosi che ad esso hanno dato vita (Baran, Frank, Cardoso, Furtado), i teorici dello scambio ineguale (in primo luogo Emmanuel), e quelli che, come Amin, Arrighi e altri, lo applicano oggi in contesti e a livelli molto diversi.
Questo approccio, che negli anni Sessanta ha avuto una certa fortuna anche nella lettura del Mezzogiorno italiano, stimolando posizioni peraltro tra loro molto diverse (ad esempio quelle di Capecelatro e Carlo, Zitara, Ferrari Bravo), ha il pregio di mostrare che la strada dello sviluppo non solo non è libera, ma è presidiata e governata dai più forti, che non hanno alcuna intenzione di cedere le rispettive posizioni e lo fanno solo quando conviene loro e possono dislocarsi altrove con profitto. Non solo: esso giunge addirittura a leggere le politiche di aiuto allo sviluppo delle zone «arretrate» non come manifestazioni di una spinta solidaristica e perequativa, ma come espressione di un progetto di integrazione subalterna del Sud all'interno di un modello di sviluppo guidato dagli interessi delle aree forti. Da questo punto di vista, in cui nulla si sottrae alla capacità di comando del
capitalismo, l'intervento dello Stato, più che ad avviare lo sviluppo al Sud, mira a sostenere quello del Nord e delle aree forti del paese.
La critica del paradigma che compara le diverse aree, come se esse fossero indipendenti e in libera competizione tra loro, e la sottolineatura della necessità di studiarle sincronicamente, come parti di un tutto disuguale l' gerarchico, aprono uno spazio analitico di indubbio rilievo. Ma comportano anche il rischio di dare all'analisi una torsione deterministica e segnata da un profondo pessimismo, che nega alle aree sottosviluppate e arretrate ogni possibilità di migliorare in modo significativo la propria condizione. L’interdipendenza tra le economie sembra segnata da un destino immutabile, da un'asimmetria così profonda da negare qualsiasi mutamento reale, qualsiasi apertura di opportunità. Proprio per questa ragione il paradigma della dipendenza, con il suo rigido funzionalismo, viene messo in crisi da tutti quei casi di successo che hanno consentito ad alcuni paesi sottosviluppati di risalire nella gerarchia internazionale, dall’ascesa delle tigri asiatiche allo sviluppo della Cina e dell'India, e alle dinamiche innovative di alcuni paesi dell'America Latina.
Questo olismo deterministico, che esclude mutamenti delle gerarchie ed espone alla falsificazione, dipende almeno in parte dal nucleo ideologico- morale che ispira l'assunto principale del paradigma: la via maestra per ridurre le disuguaglianze di sviluppo è quella dell'antagonismo radicale, perché il meccanismo di dominio non lascia alcuno spazio a mutamenti rilevanti. Chi, nelle aree sottosviluppate, sceglie di praticare vie riformistiche e graduali, insegue delle chimere, inganna se stesso e coloro che pretende di difendere. Lo sviluppo viene visto sempre come un gioco a somma zero, nel quale, dietro l'apparenza di un movimento in cui tutti guadagnano, la gerarchia rimane immutata. Questa visione del capitalismo è profondamente sterile, perché, negando ad esso ogni capacità creativa e innovativa, s'impedisce di percepirne le trasformazioni, e quindi l'espansione della sua egemonia attraverso le varie forme di «rivoluzione passiva» (Grarnsci). Di fronte ad una tale chiusura la massa delle anomalie è destinata a crescere. Proprio per quesiti ragione l'influenza del paradigma della dipendenza, che negli anni Sessanta era stata rilevante, ha conosciuto in seguito una drastica contrazione. Ma in forme e tempi differenti non pochi dei suoi esponenti hanno cercato di riformulare alcune sue tesi in risposta alle anomalie ricordate. Non a caso alcuni tra gli autori oggi più influenti hanno cercato di articolare questa gerarchia. Su un versante Immanuel Wallerstein è venuto allargando il suo quadro teorico e mettendo a fuoco l'esistenza, tra il centro e la periferia,  li aree semiperiferiche, innovazione che permette di assorbire meglio e spiegare una fenomenologia varia e inquieta, difficilmente riducibile ad una dicotomia rigida estatica. Del resto da tempo lo stesso Wallerstein parla di declino degli Stati Uniti, nozione che non è facilmente compatibile con un quadro teorico come quello «classico» della dipendenza, che ha una concezione statica e riproduttiva del potere. Su un altro versante studiosi come Giovanni Arrighi sono venuti mettendo a fuoco concetti come quelli di «trasformazione nei rapporti di forza tra le civiltà» e di transizione egemonica», che propongono una lettura dinamica e drammatica della storia, che s'interroga sugli scenari futuri senza ombre di determinismo. Lo stesso Frank negli ultimi anni di lavoro ha riformulato la sua critica all' eurocentrismo, focalizzando la propria attenzione sul continente asiatico con risultati di notevole interesse.

2. La modernizzazione

Questo approccio, che è stato ed è, nelle sue diverse varianti, di gran lunga il più diffuso, legge il Sud come un' area territoriale affetta da ritardo. Se l'evoluzione di tutte le società umane è segnata dal passaggio dalla tradizione alla modernità, il Sud coincide con quell'area territoriale in cui permangono in modo rilevante i tratti sociali, economici e culturali che frenano questa transizione e ritardano il progresso. È quindi necessario rimuovere questi ostacoli, spingere il Sud sulla via della modernizzazione per recuperare al più presto lo svantaggio accumulato. La condizione meridionale non è un handicap ontologico irreversibile, ma uno svantaggio che può e deve essere superato attraverso una massiccia trasformazione culturale. Questo assunto, che porta a vedere la differenza meridionale come l'effetto di uno scarto temporale, di un ritardo, è il tratto costitutivo comune del paradigma della modernizzazione. Lo svantaggio  meridionale si inserisce in un quadro dominato da un ottimismo storico, che vede lo sviluppo come un gioco libero e aperto, nel quale lutti possono entrare con la speranza di partecipare ai suoi benefici, ma anche di scalare le posizioni e risalire le gerarchie. Insomma laddove il paradigma della dipendenza vedeva nello sviluppo capitalistico un gioco a somma zero, quello della modernizzazione vede un gioco a somma variabile e soprattutto una concezione lineare e diffusiva dello sviluppo. Noi ci limiteremo a ricordare le due versioni più importanti di questo approccio, che, nonostante siano caratterizzate da un assunto comune, divergono radicalmente nell'individuazione delle terapie necessarie per superare il «ritardo» meridionale. Tali versioni coincidono con due epoche storiche e due modelli diversi di capitalismo.

1. Nel trentennio che segue la fine del secondo conflitto mondiale la versione dominante del paradigma è stata quella dell'universalismo progressista. Secondo tale prospettiva il ritardo dev'essere affrontato e combattuto ;11 traverso politiche d'intervento straordinario da affidare all'autorità pubblica, cui spetta il compito di ridurre gli «squilibri» territoriale le disuguaglianze tra i cittadini. Il compito di modernizzare un' area arretrata riducendo o. annullando il ritardo spetta allo Stato, sulla base della convinzione che le dinamiche spontanee dell' economia e del mercato, che pure sono caratterizzate da tassi di crescita alti e costanti, non solo non sono capaci di colmare le differenze tra i livelli di sviluppo, ma possono addirittura accentuarle. Il Sud va quindi sollecitato in primo luogo dall' esterno e dall' alto, attraverso politiche capaci di promuovere le forze più innovative e allargare lo sviluppo e il benessere. La gamma di queste politiche è estesa: va dalla costruzione delle infrastrutture a diversi tipi di incentivazioni speciali, fino al vero e proprio insediamento di «poli di sviluppo», capaci di irradiare e diffondere la loro spinta modernizzatrice all' ambiente circostante. Nelle esperienze più avanzate la modernizzazione viene accompagnata da una politica di riforme che mira a colpire le figure sociali tradizionali, quelle che, perpetuando rapporti di produzione obsoleti e premoderni, ostacolano lo sviluppo.
Sulla responsabilità che queste figure sociali hanno avuto nel frenare lo sviluppo hanno insistito molto anche quelle versioni del marxismo che sottolineavano l'esistenza di una potenziale contraddizione tra la borghesia più dinamica e i settori arretrati e conservatori delle classi dominanti. Nella tipologia qui proposta il marxismo ha un ruolo singolare e per così dire trasversale, essendo presente, con le sue diverse varianti, all'interno di entrambi i paradigmi finora descritti. Tale posizione dipende dal fatto che nello stesso Marx coesistono una fortissima fiducia nel progresso e un’acuta tensione antagonistica.
2. Del paradigma del ritardo esiste una versione molto diversa, affermatasi negli ultimi vent' anni, quella liberista, che vede con preoccupazione e con ostilità l'intervento dello Stato. Secondo questa prospettiva le zone arretrate vanno sollecitate allo sviluppo con una strategia diametralmente opposta. Chi è arretrato è l'unico responsabile della propria condizione, e quindi, se vuole svilupparsi, deve imitare chi è più avanti di lui. Come il famoso puritano dell'Etica protestante di Weber, il liberismo vede nel successo un verdetto divino, la giusta ricompensa di una condotta razionale e incentrata sull'etica del lavoro. Chi primeggia non sfrutta gli altri, ma solo se stesso, impiegando nel modo più rigoroso (1'ascesi intramondana) le proprie risorse intellettuali, emotive, di tempo. Bisogna quindi che questa cultura si sviluppi anche al Sud, ma perché questo accada è necessario usare una strategia dura, spingere il Sud a contare solo sulle proprie forze, tenendolo lontano dalle scorciatoie ingannevoli e corruttrici che emergono all'ombra dell'intervento statale. Esso deve liberarsi dal fatalismo, dall'inerzia e dalla paura della competizione perché solo quest'ultima permette di distinguere i più meritevoli da tutti gli altri e di far emergere le energie migliori e più produttive.

Si colloca qui la differenza cruciale tra le due interpretazioni di questo paradigma. Secondo la versione riformistica 1'autorità pubblica ha 1'obbligo di ridurre le disuguaglianze e di aiutare le aree arretrate a svilupparsi: la trasformazione culturale deve essere accompagnata da strategie che aiutino lo sforzo di modernizzazione. Secondo quella liberista, invece, l'intervento dello Stato non è la soluzione, ma il problema, perché la dipendenza di intere aree dai trasferimenti statali genera passività e irresponsabilità, l'esatto contrario della sobrietà operosa da cui nasce lo svii1uppo. Il corollario di questa posizione è la convinzione che al Sud non vada riconosciuto nessuno statuto speciale, perché tale riconoscimento porterebbe ad aiutare chi invece dev’essere costretto, per progredire, a fare affidamento solo sulle proprie forze. Le disuguaglianze non nascono né da meccanismi strutturali né dall' assenza di politiche pubbliche, ma solo dal differente grado di mobilitazione e impegno, da una discontinuità culturale che affligge il Sud e lo tiene al palo nella grande corsa dell'economia. Al fondo, questa versione liberista è ispirata da un nucleo severo e in definitiva pessimistico (saremmo tentati di dire «protestante»), da una sorta di volontarismo morale, che mira soprattutto a premiare i migliori. Questa morale selettiva e darwiniana non conserva 1'ottimismo universalista che animava la versione riformista. Il mondo non è di tutti, ma di chi è capace di guadagnarselo: agli altri è giusto che spetti solo ciò che rimane.
Di questo imperativo (contare sulle proprie forze) esiste tuttavia una versione più sofisticata e «sociale», che assegna un ruolo cruciale alla dimensione locale: per sollecitare tutte le energie occorre iniziare dalle piccole realtà e dall’autogoverno municipale. In questi casi l'individualismo liberista viene temperato dall'enfasi sulla dimensione locale e comunitaria. La competizione non avviene solo tra individui o imprese, ma anche e soprattutto tra sistemi locali. È il modello della concorrenza tra distretti, tra comunità territoriali che, per competere con successo, devono poter contare su un sistema locale caratterizzato da un alto grado d'integrazione ed efficienza. Tale coesione è garantita da un' alta dotazione di beni relazionali, come la fiducia che nasce dalla prossimità e il capitale sociale, in altre parole da risorse non economiche. In questo quadro il localismo virtuoso, vale a dire la mobilitazione costante di tutte le condizioni non economiche dello sviluppo, è la chiave di volta che consente ad una comunità locale di reggere e affermarsi nella competizione globale.
L'affermarsi di questa versione comunitaria del liberismo non può certo opporsi al progredire delle spinte secessioniste in tutte le aree forti, le quali leggono il proprio rapporto con le aree deboli in una chiave opposta e simmetrica a quella formulata dal paradigma della dipendenza e radicalmente divergente dalla versione che caratterizza il riformismo progressista. L'impegno dello Stato di sostegno alle zone arretrate appare come una vera e propria forma di sfruttamento delle aree forti da parte di quelle più deboli. Il federalismo e la rivolta fiscale illustrano questa tendenza che liquida e dissolve i vecchi legami e le vecchie soliarietà territoriali. Ogni accenno alla questione meridionale viene dipinto come una costruzione ideologica che legittima nel Sud vittimismo, passività e rivendicazioni, Questa versione localistico-comunitaria del liberismo ne tempera, almeno in parte, l’individualismo, e attitutisce le spinte più radicali e corrosive, riconoscendo l'importanza di una certa quota di protezione sociale. Ma ovviamente questa protezione ha una forma molto diversa da quella dei modelli universalistici del welfare che si erano sviluppati all' ombra dello Stato nazionale. Essa ha un respiro più ristretto e conosce e accelera le disuguaglianze tra i diversi sistemi territoriali La versione liberista, che da tempo governa le grandi istituzioni internazionali, detta regole agli attori e quindi anche agli Stati nazionali. Come hanno notato alcuni autori insospettabili, essa costituisce un vero e proprio fondamentalismo del mercato», che è portato il negare l'evidenza sia dei propri insuccessi sia di quei casi di successo che ne contraddicono le prognosi e le terapie. Per quanto possa apparire sorprendente, anche il liberismo ha il suo stalinismo. Quando ogni insuccesso del mercato viene imputato alle debolezze dei capitalisti e mai al capitalismo in quanto tale siamo di fronte ad una nuova forma di cecità dogmatica, ma anche alle prime crepe nell'egemonia di un paradigma. Non è quindi un azzardo dire che alcuni sintomi di un'incrinatura dell' egemonia del liberismo stanno conquistando evidenza, mentre incominciano ad affermarsi posizioni che, restituendo legittimità a forme di protezione sociale, sono in contraddizione con i suoi assunti di fondo.

3. I: autonomia
Questo approccio, che vede il Sud come punto di vista critico, butta all'aria tutte le carte del gioco e mette in discussione l'assunto principale della questione meridionale, perché ritiene che la rappresentazione del Sud come una condizione patologica (e quindi categorie come quelle di ritardo e arretratezza) sia una costruzione culturale elaborata dal soggetto più forte. Secondo questa visione il Sud, nella migliore delle ipotesi, è un Nord eternamente imperfetto, uno studente eternamento indisciplinato e impreparato. Il presupposto epistemologico di questo paradigma ha una forte torsione critica nei riguardi delle immagini trionfalistiche ed ecumeniche della modernità, e ha acquistato quota parallelamente al declino delle filosofie universaliste l' progressiste. La coincidenza tra sviluppo e progresso si incrina, si fanno visibili tutti gli effetti perversi di una crescita fuori controllo l'appare legittimo parlare anche di «miseria dello sviluppo». Si congiungono la crisi di tutte le «grandi narrazioni» e lo slancio della filosofia postcoloniale, il nuovo protagonismo di altre aree del pianeta che impone la necessità di provincializzare l'Europa.
Al suo interno il Sud ha uno statuto diverso se non opposto a quello essenzialmente negativo attribuitogli negli altri paradigmi: lungi dall' essere un concentrato di patologie e anomalie dalle quali occorre emendarsi al più presto, esso costituisce una forma di vita diversa e autonoma dalla modernità e quindi estranea sì alle sue conquiste, ma anche alle sue patologie. Questo assunto rovescia quello sotteso al paradigma del ritardo e propone un'idea del Sud come forma di vita dotata di una sua specifica dignità, capace di liberarsi da ogni complesso d'inferiorità, e quindi di leggere criticamente alcuni aspetti cruciali della modernità, in particolare le devastazioni prodotte dal fondamentalismo del mercato e dall'assunzione della competizione come valore fondante. Insomma, lungi dal costituire una patologia, il Sud rappresenta l'occasione per l'avvio di un percorso autonomo e di una visione più ricca e complessa di quella che viene celebrata dai cantori delle «magnifiche sorti e progressive».
Di questo paradigma sono possibili parecchie declinazioni. Ne ricorderemo alcune che si muovono in direzioni divergenti.
1. La prima variante è quella che, per comodità, definiremo postmoderna, secondo la quale la differenza meridionale è una differenza tra le tante, una componente importante di una policromia che permette di sostituire al monoteismo della modernità, della ragione calcolante e dello sviluppo, il politeismo delle culture, tutte ugualmente degne di rispetto e di considerazione. Il pluralismo delle culture produce un multi-versum da contrapporre all’uni-versum della modernità. Il cuore di questa posizione sta nella rivendicazione del v:dore di un'identità ricca e molteplice, lontana da ogni ossessione di purezza e aperta ,d valore della contaminazione. L'etnologia, lungi dal rimanere confinata nello studio delle culture preindustriali e grazie all' arrivo dei migranti, diventa un metodo di analisi della contemporaneità, che spezza la vecchia e rassicurante dicotomia tradizione/modernità e investe i metodi tradizionali delle scienze sociali.
2. La seconda variante è quella che potremmo definire apocalittico-comunitaria. Essa vede l'avvento della modernità come l’affermazione di una megamacchina, una forma di razionalità calcolante, astratta e senza freni, che distrugge tutti i vecchi legami comunitari e sostituisce ad essi un individualismo governato dagli imperativi utilitaristici del mercato. Si tratta di una critica più radicale di quella opposta dagli orientamenti postmoderni, perché, più che esaltare il politeismo delle culture, propone un'alternativa radicale e globale alla macchina globalizzante e distruttiva della modernità. In questo caso non siamo di fronte ad una disseminazione postmoderna, ma ad un vero e proprio antagonismo tra una forma di vita ritenuta alienante e distruttiva e un' altra, che rivendica il valore e la necessità della dimensione comunitaria. Non a caso questo filone s'interseca con il percorso critico della modernità, anch'esso d'ispirazione comunitaria, di studiosi che provengono dalla cultura di destral7. La radicalità di questa posizione la rende nitida e accattivante. Resta da capire dove le comunità capaci di riorganizzare in modo totale la propria vita possano andare ad impiantare la loro sperimentazione, in attesa che la catastrofe della megamacchina renda evidenti al resto dell'umanità le buone ragioni della «decrescita». Non a caso chi non si acquieta nel sogno di un'utopica comunitàl8 sembra destinato a ripercorrere in tutte le sue variazioni la declinazione tragica del rapporto tra Sud e modernità.
3. Tra queste versioni opposte se ne pone un'altra che, pur muovendo da una critica radicale della modernizzazione reale del Sud e delle sue devastazioni, cerca di sottrarsi all' attrazione di uno scontro frontale tra Sud e modernità. Sulla base di un giudizio critico ma non manicheo della modernità si propone di trapiantare all'interno di essa esperienze che ne combattano il fondo dogmatico e frenino la cecità coloniale con cui essa tratta l'altro da sé. Secondo questa prospettiva il Sud non è né il fondale estetico di una fuga dalla modernità né un bastione della resistenza comunitaria contro l'alienazione moderna. Alla critica va piuttosto affiancata la proposta. Occorre trovare un equilibrio creativo, ma dotato di «misura», tra l'appartenenza ad un'identità collettiva e la libertà di movimento dei singoli, tra terra e mare. La modernità non è solo lilla macchina produttivistica e repressiva, è anche apertura, un'idea di fraternità più larga di quella della comunità. Tra la condanna deterministica ad un ruolo periferico e l'illusione (kl recupero del ritardo esiste una terza via, quella della costruzione di un percorso autonomo, di un grado di libertà che, per essere sfruttato pienamente, richiede una mobilitazione alta e complessa e il rifiuto di ogni settarismo.
La dimensione chiave di questa idea del Sud sta nella convinzione che sia possibile confluire un'idea di ricchezza diversa, autonoma della rincorsa infinita dei profitti e dell'appropriazione privata, ricca di beni comuni. Il Sud non ha solo da imparare, ma anche qualcosa da insegnare. La sua resistenza al cambiamento non è solo zavorra conservatrice, ma anche la richiesta di una vigilanza critica sul presente e quindi un suggerimento per il futuro. Lo sviluppo può battere strade diverse da quelle già conosciute e all' autonomia spetta il compito di ricostruire percorsi originali e interpretare in forma nuova e aperta le tradizioni. Spetta alle classi dirigenti del Sud scoprire rotte che spesso sono antiche e inedite, saper distinguere, provare a praticare la difficile arte che si propone di aprire l'identità senza disperdere forme di esperienza preziose nel vortice del fondamentalismo della velocità e della produzione, senza farle stritolare dalla progressiva «compressione spazio-temporale».
Va infine ricordato che questo paradigma è l'unico in grado di confrontarsi liberamente con il problema dell'efficacia causale del clima. Esso, infatti, proprio perché non misura una forma di vita sull'unico parametro dello sviluppo, può parlare senza reticenze dell'incidenza del clima sulle culture. Una forma di vita rallentata dal caldo non è necessariamente inferiore a quella che ha istituzionalizzato la crescita. Il paradigma che assolutizza il valore della competizione e dello sviluppo si trova invece in imbarazzo di fronte al clima, perché dovrebbe riconoscere che esso, favorendo i popoli dei paesi temperati, predetermina di fatto l'esito della gara. Ma questo riconoscimento entrerebbe in contraddizione con l'assunto che fa dei paesi sviluppati un modello universale e vede la disuguaglianza degli l'siti solo come l'effetto della disuguaglianza dell’impegno. E, come accade per ogni presenza imbarazzante, a molti è convenuto farlo scomparire silenziosamente dalla scena. Il clima è il desaparecido delle scienze umane.
Il paradigma dell'autonomia consente invece di parlare liberamente del clima e di riconoscere accanto ai suoi effetti negativi anche quelli positivi, del resto straordinariamente rilevanti in gran parte della produzione culturale dei tanti Sud del mondo. Questo approccio ovviamente non è immune da limiti e critiche (ne parleremo tra poco), ma ha avuto " pregio di ampliare il novero delle possibilità di percorso, di non riconoscere al Nord il brevetto universale per la produzione di forme di vite perfette.

II – La difficile strada dell’autonomia

E opportuno a questo punto richiamare il presupposto teorico del nostro discorso: ognuno dei paradigmi descritti mette in luce alcuni aspetti della realtà meridionale, ma nello stesso tempo rimuove quelli che mal si adattano al suo quadro concettuale. E’ bene quindi che ogni approccio, invece di limitarsi a ripetere le proprie ragioni, impari a confrontarsi, senza snaturare la propria differenza, con le evidenze contrarie, i fenomeni e gli eventi sui quali gli altri fanno perno per sostenere le proprie buone ragioni. Riprendendo la metafora di Kuhn conviene che chi è abituato a vedere soltanto anatre si alleni a vedere anche conigli e viceversa. Insomma la sfida consiste nel riuscire a rendere conto della maggior porzione possibile di realtà. Non si tratta di generosità: la realtà rimossa si vendica di un paradigma moltiplicandone le ano-malie e quindi chi ha di mira l'egemonia deve accettare la sfida della complessità. Tuttavia questo confronto va fatto - non è inutile ribadirlo - senza rimuovere un dato essenziale, il differenziale di forza extracognitiva esistente tra i paradigmi, alcuni dei quali sono solidamente insediati nelle istituzioni internazionali, proprio perché rappresentano le aree più forti del pianeta, mentre altri si appoggiano su soggetti spesso deboli e molto meno dotati delle risorse necessarie per farsi conoscere o ispirare politiche di un qualche peso. Pur consapevoli delle difficoltà del compito cercheremo ugualmente di mettere a confronto i diversi paradigmi, partendo da alcune delle osservazioni già formulate nel corso della loro presentazione.
1. Abbiamo ripetutamente ricordato i limiti del paradigma della dipendenza e le falsificazioni a cui' le previsioni pessimistiche da esso formulate lo hanno esposto. Ma questi «incidenti», che pure hanno favorito il declino di un'egemonia, non devono condurre alla convinzione che le teorie della dipendenza non abbiano messo a fuoco alcune dimensioni decisive della condizione meridionale, in primo luogo il peso del dislivello nei rapporti di forza tra le aree sviluppate e quelle sottosviluppate. Oggi, infatti, si è caduti nell' eccesso opposto, passando da un'immagine statica delle gerarchie, come se esse fossero state fissate una volta per sempre dal sistema dell'economiamondo, ad un' apologia della competizione come forza capace di annullare ogni handicap. Si è passati da un'ideologia ad un'altra, ma soprattutto si è cancellata la durezza delle disuguaglianze globali e delle forme di potere che le riproducono e le allargano.
Va però sottolineato un altro limite di questa prospettiva. Pur soffermandosi sulla critica l' la denuncia delle asimmetrie di potere, la maggior parte degli studiosi che si riferiscono ad essa ha un'immagine della storia nella quale le dinamiche dello sviluppo economico sembrano occupare tutto l'orizzonte. Si tratta della stessa subordinazione all'ideologia dello sviluppo che ha caratterizzato tanta parte del marxismo e che spinge a vedere nello «sviluppo delle forze produttive» il metro di valutazione supremo di una civiltà, la dimensione che permette di misurarne il rango e il valore. Su questo punto la divaricazione del paradigma della dipendenza da quello della modernizzazione appare ridotta: per entrambi lo sviluppo è la cura indubitabile di tutti i mali e la differenza tra le due prospettive sta soprattutto nella diversa definizione delle cause che ne ostacolano la diffusione in tutto il pianeta.
2. Se si passa all'analisi del paradigma della modernizzazione occorre riconoscere che la sua versione riformista e progressista possiede, specialmente se la si paragona all' avarizia pedagogica della versione liberista, una sincera ancorché moderata aspirazione universalistica alt uguaglianza dei cittadini. Anche il modernismo progressista ritiene il mercato un sicuro valore, ma sa bene che esso, lasciato alla sua spontaneità, non ha interesse a ridurre i ritardi delle zone arretrate, e quindi postula che tale compito spetti allo Stato. Questa versione si è affermata in una congiuntura storica che va dal dopoguerra fino all'inizio degli anni Settanta, nella quale lo Stato nazionale ha avuto un ruolo attivo sia nel sostegno allo sviluppo economico sia nell' allargamento progressivo dei diritti di cittadinanza. Nel caso italiano l'egemonia di questo orientamento ha portato alla politica dell'intervento straordinario (che ha avuto in Pasquale Saraceno la sua figura più influente), segnando un periodo storico che ha conosciuto fasi differenti, ma tutte costantemente ispirate alla convinzione di poter ridurre se non annullare il «ritardo» meridionale. Tali politiche d'intervento, accompagnate da un cauto riformismo, hanno prodotto l'orti cambiamenti in tutto il Mezzogiorno e in modo particolare in alcune aree di esso, anche grazie ad un ciclo economico molto favorevole, che ha stemperato, attraverso i processi migratori, le tensioni sociali più acute.

Ma con il passare degli anni, nonostante i massicci investimenti, è diventato evidente che il divario tra Nord e Sud non è scomparso, mentre i flussi della spesa pubblica hanno prodotto molto più che dinamismo economico, assistenza, parassitismo e clientelismo. Al vecchio blocco agrario si è venuto sostituendo un blocco sociale nel quale il peso di figure non produttive e dipendenti dal flusso delle risorse pubbliche è diventato sempre più forte. Laddove non arriva più lo sviluppo, arrivano le risorse destinate ad organizzare il consenso ai grandi partiti di massa, e in particolare a quelli di govern02. È in quegli anni che inizia a ribaltarsi l'immagine del Sud: esso non è più arretrato, ma dipendente e parassitario. La crescente visibilità di questi effetti perversi logora la versione riformistico-progressista del paradigma e apre la strada all' egemonia di quella liberista, che vede quegli effetti non come un incidente, ma come l'esito sistematico di ogni politica d'intervento centralizzata e fondata sul protagonismo dello Stato.
3. A questa logica centralistica la versione liberista contrappone, almeno nelle sue formulazioni più sofisticate ed equilibrate, la necessità dell' autonomia, un ribaltamento della dipendenza della società meridionale dal flusso delle risorse pubbliche. Si tratta di rovesciare il rapporto tra economia e politica e di provare a costruire il mercato laddove si assume non ci sia mai stato. Uno sviluppo senza auutonomia3 è debole, in quanto è costantemente corroso dall'invadenza della politica, dalla riicerca ossessiva del consenso e dalle patologie che normalmente la accompagnano. Al centro dell'attenzione vengono messi l'impresa e il suo rapporto con il mercato globale, mentre a supporto di questo sforzo diviene necessaria e indifferibile quella mobilitazione capillare del territorio di cui abbiamo già parlato.
L'autore della tradizione meridionalista più vicino a questa prospettiva è probabilmente Gaetano Salvemini, strenuo sostenitore del liberismo, dell' autonomia e del federalismo. Ma siamo di fronte ad un salveminismo dimidiato, nel quale è scomparsa ogni asprezza e conflittualità, ogni riferimento polemico alle politiche nazionali e agli interessi che le governano. Il limite di questa prospettiva sta proprio nel suo esasperato moralismo volontaristico: dover contare esclusivamente sulle proprie forze significa fare di necessità virtù e quindi trasferire sulle spalle della sola volontà delle classi dirigenti locali del Mezzogiorno tutto il peso della riduzione degli scarti strutturali, abbandonando a priori come inutile e dannosa qualsiasi prospettiva geopolitica e geoconomica. Che la dimensione locale possa giocare un ruolo cruciale nella costruzione di un' etica pubblica anche nel Mezzogiorno è fuori discussione, perché solo la piccola scala rende comprensibile e praticabile dai più la cura e il rispetto dei beni comuni, permettendo lo sviluppo del senso civico. Ma se è vero che trascurare la dimensione locale è stato l'errore compiuto nel passato, è altrettanto vero che attribuire solo alla mobilitazione virtuosa delle classi dirigenti meridionali la capacità di cancellare l'arretratezza significa ridurre il numero delle variabili su cui si deve intervenire, accorciare il respiro della politica necessaria.
Si rischia di fare come l'ubriaco che cerca la chiave smarrita solo sotto il fanale perché lì c'è la luce. Il localismo è miope: vede bene ciò che è vicino, ma non ciò che è lontano, e per questo corre il rischio di dividere tra loro i soggetti più deboli, spingendoli verso una sfrenata e improduttiva competizione laddove invece la cooperazione potrebbe creare uno straordinario valore aggiunto.
La specificità del Mezzogiorno non solo non va cancellata o abolita, ma è la traccia decisiva per annodare i fili di una soggettività nuova, per scoprire, sulla scia di percorsi antichi, la possibilità di convenienze del futuro. Ad esempio, trascurare la dimensione mediterranea del Sud italiano sarebbe un errore grave, perché impedirebbe di sfruttare quel grande vantaggio competitivo che deriva da una posizione privilegiata nel rapporto con i paesi della costa sudorientale del mare di mezzo. Pensare di poter mutare una condizione, che Wallerstein chiamerebbe periferia della semi periferia, solo con la mobilitazione del localismo virtuoso espone, e sta esponendo, ad amare disillusioni. Anch' esso, come tutte le politiche che rimuovono dal proprio scenario alcune variabili decisive, finisce per mostrare la corda, esibendo una preoccupante c crescente allergia per tutti i dati che smentiiscono e falsificano il suo ottimismo.

Va infine osservato che il localismo sottostima in modo drastico l'aspetto conflittuale e darwiniano che lo accompagna. La competizione tra comunità non è un gioco che rimane confinato nella corsia dell' economia, né un confronto nel quale si può contare sulla correttezza dei concorrenti: chi sta avanti, come del resto avviene su scala globale per le grandi civiltà, non accetta di essere scavalcato, ma lisa tutti i mezzi per continuare a tenere dietro a sé, e a distanza di sicurezza, chi lo segue. Non appena può chi gode di una posizione di vantaggio catalizza risorse, innalza barriere e costruisce la sua forma di rappresentanza politica. Il gioco delle secessioni non è una forma di follia, ma il risultato necessario della competizione tra sistemi locali. Ciò che varia sono soprattutto i tempi e le forme. E in questo scontro giocano un grande ruolo non solo quei beni relazionali che abbiamo ricordato, ma anche, e talvolta soprattutto, la politica e la potenza. Nella competizione c'è un lato tragico che normalmente viene rimosso dall' economia ed espulso altrove, preso in carico dalla politica e dalla storia. Uscire da una collocazione periferica, diventare un altro centro, è un processo complesso che passa attraverso il conflitto, perché richiede forti discontinuità sia al proprio interno sia nelle relazioni con gli altri; è la costruzione di una nuova classe dirigente.
4, Abbiamo già esposto gli aspetti innovativi che caratterizzano il paradigma dell' autonomia, ma va subito detto che la strada che esso indica, proprio perché batte percorsi inesplorati, è anche piena di trappole. Il primo pericolo è che la critica della colonizzazione dell'immaginario meridionale si rovesci in un' esaltazione della marginalità, in un' apologia che idealizza il Sud, disegnandolo come se fosse un' entità compatta ed unitaria da celebrare e da cantare liricamente. Entrambi questi tratti sono fuorvianti: il Sud non rimane sempre uguale a se stesso, ma viene risucchiato anch'esso dal vortice del mondo globale e subisce delle feroci mutazioni. Anche quando esso non nasce in periferia, vi viene gettato proprio dalla sua debolezza di fronte all'espansione delle aree forti, e a questa disuguaglianza si adatta per sopravvivere, frantumandosi e spesso sfigurandosi. Dai migranti al clima, dai paesaggi in offerta speciale alla crescente diffusione dei traffici illegali, gran parte del Sud non è fuori, ma all'interno del grande meccanismo dello sviluppo, non è fuori dalla modernità, ma ne occupa i sottoscala. Si tratta dei drammi delle periferie urbane, delle forme di soggezione e sfruttamento legate all'espansione, capillare del controllo malavitoso, di quella feroce mutazione antropologica di larghe zone del Sud nelle quali la letteratura di inchiesta e di denuncia si è avventurata con un passo spesso più deciso ed efficace rispetto a gran parte della ricerca istituzionale riuscendo ad aprire squarci analitici di grande importanza.
Va anche ricordato però che non esiste I1I1 solo Sud: da un lato c'è la grande varietà dei luoghi che la parola designa, dall'altro la loro ineguale fortuna, che va da chi viene più  o meno felicemente cooptato ai bordi del grande centro a chi invece viene proiettato lontano, privato persino di quella pellicola protettiva che ne custodiva la dignità. Non solo i Sud sono diversi, ma tra essi esistono contraddizioni, che aprono il varco a quelle divisioni e a quei conflitti, che ostruiscono da sempre la strada che porta alla costruzione di un’azione comune dei soggetti più deboli. Quindi nessun idillio comunitario, nessuna forma di orientalismo rovesciato, ma neanche la riedizione politicamente corretta di vecchi pregiudizi, di analisi che sembrano imputare le patologie del Sud ad una soglia antropologica che lo renderebbe irredimibile.
Ogni autonomia deve partire dal riconoscimento di questo impasto drammatico e dal rifiuto di ogni narcisismo. Anche per questa ragione il paradigma dell'autonomia deve imparare a confrontarsi in modo non dogmatico con gli altri paradigmi, Esaltare la differenza del Sud non significa rassegnarsi al margine chiudendo gli occhi sul fatto che le decisioni importanti (come insegna il paradigma della dipendenza) vengono prese quasi sempre altrove dai più forti e nel loro interesse. È forse questo il punto più importante e delicato, quello dei differenziali di potere tra il Sud e le aree forti, ma anche tra i diversi Sud, un tema che sembra essere uscito da tutte le agende e che invece oggi torna ad avere un valore cruciale.
Ma l'autonomia per diventare una prospettiva attendibile e matura deve evitare di chiudersi in piccole nicchie identitarie, perdendo ogni respiro universalistico (come insegna l'ottimismo riformistico). L'autonomia non è seduta sul vittimismo plebeo, ma su una crescita della cittadinanza, su un'assunzione forte di responsabilità da parte del Sud. L’attribuire ai nemici esterni ogni responsabilità è una grave semplificazione, un gioco che non fa crescere e incrementa le patologie. Negli ultimi anni in controtendenza rispetto all’immagine dominante, in alcune aree il Sud ha conosciuto anche dei tentativi importanti di cambiamento e mobilitazione, a dimostrazione che l’esito della battaglia per la costruzione di una cultura civica è ancora aperto. Il dolore e gli insuccessi, si sa, sono più facili a narrarsi, ma qualche volta bisognerebbe provare a narrare in  tutta la loro fragilità, le esperienze positive. Anche perché se tali storie non trovano il loto narratore, il loro isolamento e la loro fragilità aumentano.
La mobilitazione delle risorse migliori e più dinamiche è quindi una risposta necessaria (come insegna il localismo virtuoso), ma tutt’altro che sufficiente. L'autonomia è una cosa seria solo se chi decide di praticarla sa nello stesso tempo essere esigente con se stesso e disturbare i rapporti di forza. Altrimenti non va da nessuna parte. Autonomia quindi non significa autarchia culturale, ma l'apprendimento e immaginazione, confronto  con tutte le esperienze che tentano di battere strade non disegnate sulle mappe esistenti e che proprio per questo hanno bisogno di collegarsi e conoscersi.
Nel caso del Sud italiano questo vuol dire partire dal locale ma saltare la trappola del localismo, evitare che la diversità si trasformi in divisione o in conflitto. La via dell' autonomia è quella che punta sul plusvalore che viene dalla cooperazione, dalla costruzione di una nuova area geopolitica e geoeconomica, di un nuovo centro capace di affiancare quelli esistenti. La questione meridionale è parte della questione mediterranea: affrontarle separatamente non ha senso e porta solo a risultati parziali. L'autonomia richiede un'immaginazione geopolitica coraggiosa. Non bisogna lasciare agli altri il monopolio dell'iniziativa e delle decisioni forti, chiudendosi sulla difensiva rispetto ad esse. Di fronte alla secessione fredda non solo il fragile ossimoro del federalismo solidale, ma l'avvio in tempi ravvicinati della costruzione di un' area euromediterranea. Su quest'obiettivo occorre incalzare l'Unione Europea e il governo italiano, spingendoli ad uscire da una micidiale miscela di retorica ed inerzia. Se l'Europa del Sud non acquista visibilità e forza, se essa continuerà a rimanere politicamente poco più di un'ombra, non c'è da aspettarsi nulla di buono. Occorre far presto e prendere decisioni, perché in un quadro così complesso, chi attende è destinato alla sconfitta. Solo se abbandonerà ogni integrismo la prospettiva dell'autonomia riuscirà a cogliere l'occasione di una possibile egemonia in parte sfuggita dalle mani degli altri paradigmi.
Per alcuni c'è un Sud estremo, un «Sud del Sud», che permette di esperire il grado zero del potere9. In questo punto di vista c'è un’acquisizione importante, ma anche il rischio di condannare ogni azione come sterile e incaa11ace di cancellare il male. A noi non interessa cantare l'impotenza abissale come se fosse un dono straordinario, anche perché sappiamo che essa spinge molto più spesso ad accettare lutto che a ribellarsi. Certo, l'assenza di complicità è una condizione indispensabile per la libertà del pensiero, e permette di vedere nei sottoscala, di scorgere le crepe che insidiano ogni retorica quando esse non sono ancora visibili ai più. Ma è anche vero che bisogna disturbare i guidatori, togliere loro l'innocenza l' la buona coscienza e che occorre molto di più di un «tenersi fuori». Anche la critica ad alzo zero può diventare potere, mentre i giusti possono essere dappertutto. Le contraddizioni e le sconfitte saranno molte, perché anche il paradigma dell' autonomia è esposto ad eventi che lo falsificano: ogni Sud che, per salvarsi, si sgancia dagli altri Sud, cedendo alla tentazione di farsi cooptare, incrina la solidarietà di cui parliamo.
Per un soggetto debole la scelta di allearsi. con i suoi pari non è la più conveniente: è sempre tentato dall'idea di salvarsi da solo o aggrappandosi a chi è più forte di lui, di diventare settentrionale di qualcun altro. Questa diserzione ha un fondamento razionale: molto più che di rivoluzioni attive la storia è piena di rivoluzioni passive. E questi «tradimenti», umani e comprensibili, sfaldano la compatttezza dei più deboli, lasciano i penultimi a contendersi il terreno palmo a palmo con gli ultimi. Ma queste sconfitte della fraternità sono solo una parte della verità. Il paradigma che contiene in sé il punto di vista degli ultimi non viene falsificato dalle delusioni, dalle conntraddizioni e dalle cadute. Esso non è a Sud per una stagione sola, in attesa dell' autobus della prossima cooptazione, ma scomparirà solo quando saranno scomparsi gli ultimi.

III. A mo di conclusione

I l gioco del comparare prospettive diverse, su cui abbiamo imperniato il nostro ragionamento, di solito riesce bene con le idee altrui, meno bene con le proprie. La comparazione critica dei diversi paradigmi da noi proposta non pretende quindi alcuna neutralità. Chi scrive ha dato a suo tempo un contributo alla costruzione del paradigma dell' autonomia, e degli assunti centrali di quel lavoro è tuttora convinto. Il riscatto del Sud italiano può nascere solo da una forte innovazione dello sguardo e non da un atteggiamento mimetico e subalterno rispetto all' esperienza dei paesi sviluppati.
Il compito è tanto ambizioso quanto chiaro: conferire all'Europa del Sud la capacità di esercitare un ruolo non subalterno dentro l'Unione. L'Italia dovrebbe capire che la partita della sua unità ormai la si gioca solo in questo scacchiere più ampio: la questione meridionale come questione mediterranea. Non si tratta di un'impresa da poco, dato che il cuore continentale d'Europa sembra ignorare la questione oppure sentire più forte il richiamo di altri punti cardinali. Ma anche qui i segnali non mancano, e le recenti iniziative di Sarkozy sembrano indicare che qualcosa inizia a muoversi. I limiti dell'Union pour la Méditerrranée sono del tutto evidenti, ma costituiscono un'incrinatura degli equilibri dominanti, così come un' altra incrinatura è rappresentata dalla fine della presidenza Bush.
Ma se il compito è ambizioso, rispondere mimeticamente a chi al Nord del nostro paese si chiude su se stesso sarebbe per il Sud un grave errore: significherebbe amputare gran parte delle proprie migliori ragioni. È necessaria invece una nozione forte di autonomia, un'innovazione profonda dell'immaginazione, capace di coagulare le forze, e di svegliare tutti coloro che in questi anni hanno parlato del Sud con poche cognizioni e molti pregiudizi, scambiando per silenzio la sproporzione crescente di potere tra le voci.
La comparazione delle prospettive, in quanto permette almeno in parte di guardarsi dall’esterno è in primo luogo un esercizio di umiltà, l'indispensabile compagno di strada di ogni ambizione teorica, Un'azione le cui mete sono chiare non deve temere di misurarsi con la complessità del reale. Essa piuttosto richiede l'accostamento di virtù che Simone Weil avrebbe definito incompatibili: fedeltà ai principi e disponibilità ad apprendere, il piacere della vicinanza agli altri e il rifiuto delle omertà, sapersi appassionare senza perdere l'autonomia di giudizio, La navigazione è difficile perché spesso il vento spira in direzioni non  favorevoli. Di fronte a questa possibilità ci sono diverse opzioni: si può decidere di non salpare e rimanere a riva deprecando i tempi; si può decidere di mutare la propria destinazione adattandola alla direzione del vento; si può infine decidere di tenere ferma la meta e prendere lo stesso il mare, sapendo bene che il viaggio potrà essere complicato e incerto. È inutile dire qual è l'opzione che preferiamo.

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