venerdì 13 gennaio 2012

libro claudia petraccone federalismo e autonomia libro

FEDERALISMO E AUTONOMIA IN ITALIA DALL’UNITA’ A OGGI
Claudia Petraccone

PREFAZIONE
Anche nel difficile processo di transizione dalla Prima alla Seconda repubblica si è tornati a fare appello al federalismo come alla soluzione più valida dei problemi italiani: le ipotesi di una trasformazione dello Stato in senso federale non sono più nel programma della sola Lega ma sono state fatte proprie anche da altre forze politiche, pur di opposti orientamenti ideologici, mentre la proposta dell’introduzione del «federalismo fiscale» è, nelle sue linee generali, accettata da molti partiti. La causa determinante del riproporsi del federalismo va cercata nella crisi che ha investito non solo le istituzioni  ma l’intera società italiana. Nella storia dell’Italia contemporanea c’è uno stretto rapporto tra situazioni di crisi e ripresa del federalismo: anche in passato se n’è discusso, e spesso aspramente, a livello sia ideologico che politico, in momenti di difficoltà sociali ed economiche particolarmente gravi.
Per comprendere le ragioni, è necessario risalire agli anni 1860-65, quando la volontà di raggiungere prima e di consolidare poi l’unità spinse la classe dirigente a compiere la scelta accentratrice che avrebbe dovuto consentirle di eliminare le differenze esistenti tra gli Stati preunitari e di fondare lo Stato nazionale. Una scelta così netta fu condizionata da alcuni fattori che spingevano verso la decisa affermazione di un potere centrale forte: l’imprevista estensione e rapidità assunta dal processo di unificazione e il conseguente timore che la costruzione statale a cui aveva dato origine fosse precari; la lotta politica in corso tra i moderati e democratici, che indusse i primi a vedere nell’accentramento la più sicura garanzia di poter esercitare la propria egemonia anche nelle diverse realtà locali, la necessità di presentarsi sul piano internazionale con un forte Stato unitario. Una volta sconfitti, i federalisti italiani dovettero ripiegare nell’azione pratica, su più realistiche  richieste di decentramento. Cadute le aspirazione di Cattaneo alla nascita degli Stati Uniti d’italia, il federalismo cedette il passo all’automismo e al regionalismo, considerati come le sole strade praticabili per allentare la morsa accentratrice. Nell’elaborazione teorica, che continuò a opera di alcune èlites politiche e intellettuali, esso fu collegato alla ricerca della repubblica: la repubblica federale fu così vista come la soluzione alternativa alla monarchia unitaria.

Nel corso della crisi di fine Ottocento, la questione del difficile rapporto tra Nord e Sud fu collegata, per la prima volta con quella del federalismo. In un clima di risentimenti reciproci, in cui meridionali e settentrionali si mossero accuse di sfruttamento, partirono dalla Lombardia le prime proposte di un autonomismo territoriale che, con la scuola antropologica, sfociò poi in un federalismo dai caratteri razziali, utile a proteggere e quasi a isolare le zone dell’ancora arretrata economia meridionale.
Da parte loro meridionalisti come Ciccotti e Salvemini rivendicarono anche per il Mezzogiorno una soluzione federalistica, ma in una prospettiva più ampia, con una maggiore accentuazione degli elementi politici, sociali ed economici: Salvemini la considerò l’unica possibilità di spezzare il blocco agrario industriale a cui attribuiva la responsabilità di mantenere le masse del Sud in una situazione di soggezione nei confronti del Nord.
La componente specificamente territoriale del federalismo e dell’autonomismo era debole sul piano ideologico e aveva obiettivi prevalentemente polemici e tattici. Ma ce  n’era un’altra, dotata di maggiore spessore teorico e ideale, che mirava invece a costruire, partendo dal basso e dalla pratica, un nuovo rapporto tra lo Stato-Nazione e i cittadini. Essa si affermò con forza nel primo dopoguerra, inserendosi nella più generale discussione che si svolgeva in quegli anni sul tema della riforma dello Stato. L’enorme crescita dell’apparato burocratico avvenuta durante la guerra, che aveva accentuato le difficoltà di una amministrazione statale fortemente centralizzata, e la più ampia partecipazione delle masse popolari alla vita del paese sembravano rendere inevitabile l’estendersi delle forme di democrazia rappresentativa, alle quali non si vedeva uno sblocco adeguato nell’ambito dell’ordinamento dello Stato liberale. La componente territoriale che aveva caratterizzato il federalismo alla fine del XIX secolo passò così in secondo piano di fronte a quella politica ideologica. La vittoria del fascismo portò alla riaffermazione dello Stato centralizzato e il regime liquidò in maniera radicale qualsiasi ideologia che, come diceva Mussolini, potesse mettere in pericolo l’unità della patria. Ma proprio in quegli anni il federalismo italiano, sul fondamento dell’antifascismo, diventò espressione di una forte richiesta di democrazia dal basso, con la sottolineatura dello stretto rapporto che, come affermava Carlo Cattaneo, univa federalismo e libertà. E a cattaneo si richiamò esplicitamente il movimento di «Giustizia e Libertà» in cui i principi dell’autonomia e del federalismo trovarono una convinta adesione, con una forte accentuazione degli elementi ideali. E tuttavia nel secondo dopoguerra questa carica ideale non fu sufficiente a dare forza alle posizioni federalistiche che riemergevano nel corso dell’ampio dibattito che si svolgeva intorno alla rifondazione dello Stato italiano: la minaccia costituita dal separatismo siciliano e la decisa professione di fede unitaria da parte dei grandi partiti di massa ne impedì ogni possibilità di affermazione.
Ma esse non rimasero senza effetto, sia perché contribuirono al riconoscimento delle autonomia locali, che nella Costituzione furono poste a fondamento del nuovo Stato, sia perché, col Manifesto di Ventotene sfociarono nel federalismo europeo, il quale appartiene però alla storia dell’Europa che a quella dell’Italia (e di cui perciò non tratta in questa antologia, che riguarda specificatamente la storia del federalismo considerato come soluzione dei problemi interni dello Stato italiano).
Il carattere pratico, e talvolta anche strumentale, del federalismo è nuovamente emerso con forza negli scorsi anni nei progetti iniziali della Lega Lombarda, dovuti soprattutto alla volontà  di preservare dalla crisi economica le zone forti dell’Italia, e in cui esso tornava a essere, come alla fine dell’Ottocento, uno strumento più che un obiettivo. La grande novità rappresentata dalla Lega era però costituita dal fatto che si trattava di un movimento che traduceva le posizioni ideologiche in concreta azione politica, come aveva già fatto, ma in una dimensione strettamente regionale, il Partito Sardo d’Azione, e che aveva una base di massa oltre che nella Lombardia anche nel Piemonte e nel Veneto. In questa base avevano una notevole diffusione alcuni elementi di polemica antimeridionale simili a quelli affermati dalla scuola antropologica negli ultimi anni del secolo scorso.
Nelle più recenti prese di posizioni della Lega Nord, questi elementi sono stati messi spesso in secondo piano, a vantaggio del richiamo all’importanza che il federalismo può avere come più diretto strumento di partecipazione dei cittadini al governo dello Stato, ma la componente territoriale non è scomparsa e di tanto in tanto riaffiora con forza. Essa è presente anche nella richiesta di «federalismo fiscale» che sembra ricevere molti consensi anche al di fuori della lega e che riflette soprattutto la volontà di trovare uno strumento per uscire dalle difficoltà economiche. Ma nella discussione generale sul federalismo che si sta svolgendo in Italia – e di cui ormai le posizioni leghiste rappresentano soltanto un aspetto – sta emergendo con forza anche l’altra componente, quella politico-ideologica, fondata sull’aspirazione a stabilire un diverso rapporta tra Stato e cittadini. E’ un’ aspirazione che mira ad unire meglio gli italiani, mentre la volontà di servirsi del federalismo per salvare le zone economicamente più progredite dalle conseguenze della crisi potrebbe solo dividerli. Siamo, comunque, soltanto agli inizi di una riflessione e di un’azione politica che possono svolgersi in direzioni diverse e  in maniera oggi non prevedibile. E occorre non dimenticare che il federalismo odierno nasce, comunque, all’interno di uno Stato unitario e ha poco a che vedere con quello risorgimentale, che rappresentava una tappa versa l’unità.

Parte Prima
LA FORMAZIONE DELLO STATO DAL FEDERALISMO AL REGIONALISMO

FEDERALISMO E LIBERTA’
Carlo Cattaneo

L’elemento specifico che contraddistingue il federalismo di Cattaneo è costituito dallo stretto rapporto tra federalismo e libertà: «Il federalismo» scriveva il 29 dicembre 1851, «è la teorica della libertà, l’unica possibile teorica della libertà».

La sua scelta federalista fu, come ha notato Norberto Bobbio, «la federazione repubblicana del Cattaneo era il fine stesso della rivoluzione italiana, il porro unum et necessarium del nuovo Stato nazionale» (C. Cattaneo, Stati Uniti d’Italia, a cura di n. Bobbio, Chiantore, Torino 1945, p. 33). Essa aveva, perciò, un carattere sostanzialmente ideologico, che stava alla base sia del suo federalismo nazionale sia del suo precedente federalismo europeo, che gli aveva fatto auspicare già nel 1848 la nascita degli Stati Uniti d’Europa come unica garanzia di «pace vera».

Anche quando si andò affermando sempre più chiaramente il particolare tipo di soluzione unitaria che la monarchia piemontese voleva dare al problema italiano, egli ribadì con fermezza: «Io non ho sperato mai nella nuda unità; per me la sola possibili forma d’unità tra liberi popoli è un patto federale. Il potere debb’essere limitati, e non può essere limitati se non dal potere».
Cattaneo tentò di attuare le sue idee nell’ottobre del 1860, quando raggiunse Garibaldi a Napoli. Lì si battè contro l’annessione immediata e per la costituzione di un’assemblea che avrenne dovuto salvaguardare le autonomie locali.

Il Piemonte, afferrando l’egemonia militare, doveva porsi in grado di precedere anche coll’egemonia civile. Ma gli uomini che si fecero per dodici anni arbitri delle cose, paghi d’esercita la potenza, e non curanti di farsene strumento di progresso, si lasciarono sopraggiungere dagli eventi. Quindi la necessità di applicare in fretta e in furia i pieni poteri a riparare i danni dell’ostinata inerzia; e di moltiplicare gli atti legislativi intantoché non vi erano legislatori. Ma il Piemonte, anche addensando in sei mesi i progressi d’un secolo, si trovò inferiore in diritto penale alla Toscana, in diritto civile a Parma, in ordini communali alla Lombardia; ebbe la disgrazia d’apportare ai popoli, come un beneficio, nuove leggi ch’essi accolsero come un disturbo e un danno. Li assennati riputarono un vituperio che il popolo preferisse le leggi austriache alle italiane; e non si avvidero che il vituperio era che le leggi italiane potessero apparire peggiori delle austriache. Ogni mutazione di leggi, che non sia un vero miglioramento è un danno.

E qui siamo condutti a mentovare ancora l’antica e gloriosa legislazione toscana; e perciò di nuovo le considerazioni del senatore Matteucci sull’ordinamento del nuovo regno. Nota l’illustre scienziato che ciò non consiste «nel creare delle province: perché esistono naturalmente. E fin qui egli ben si appone. Le province esistono e l’accentramento non esiste; ed è ancora sogno di fantasia che vedono nella futura italia una Francia, anzi una China; ove ogni cosa ragionevole debba piovere sull’armento dei popoli da un unico Olimpo, giù fino alla nomina del sindaco dei villaggi di cento anime.»

Prima di tutto, se v’è in Italia un ente sociale che si chiama provincia di Pisa o di Cremona, v’è anche un altro ente più grande e non meno reale, che si chiama la Toscana, la Lombardia, la Sicili. E ognuno di codesti stati o regni uniti non è un corpo meramente amministrativo, ma comprende un intero edificio legislativo.

Né crediamo che sarebbe lecito il togliere ad alcuno di codesti stati quel massimo grado di progresso che già in alcuna cosa avesse raggiunto, per mero protesta di rendere uniforme per tutti una legge meno ragionevole e meno civile.

Non si tratta di decentrare, poiché l’accentramento ancora non esiste; ma di coordinare la vera e attual vita legislativa degli stati italiani a un principio commune e nazionale. Tutto ciò che dev’essere commune, dev’essere assolutamente e altamente progressivo; il ritorno dell’Italia sul campo della legislazione dev’essere degno dell’ahntica sua grandezza e maestà. Ma la vita legislativa dei varii regni non può rimanere interamente e violentemente soppressa. Il coordinare i due ordini legislativi dell’intera unione e dei singoli stati è problema che, grazie a Dio, non è così nuovo nel mondo vivente delle nazioni come alcuni, piuttosto monòmani che unitari, vanno imaginando. E non è opera di dissoluzione e di discordia, ma è necessaria e impreteribile condizione di concordia e d’amistà.

II

I ministri che hanno voluto fin qui ciò ch’essi chiamano lo Stato compatto, adesso credono necessario ciò ch’essi chiamano l’armonia delle libere forze. A noi pare che la forza e la libertà, e anzi tutto l’armonia, sarebbero sempre state ottime cose, anche quando l’annessione si fosse circoscritta all’Emilia e alla Toscana, anzi alla Lombardia sola. A noi pare che anche allora l’unità dello Stato si sarebbe dovuta coordinare coll’alacre sviluppo della vita locale, e colla soda libertà.

Solamente adesso si avvedono che le province italiane si aggruppano naturalmente e istoricamente fra di loro in antri centri più vasti, che hanno avuto ed hanno tuttavia ragione di esistere nell’organismo della vita italiana. Questi centri possedono antichissime tradizioni fondate in varie condizioni naturali e civili. La politica italiana, disgregata fra i communi e le repubbliche del medio evo, ha trovato in essi una prima forma e disciplina di Stato. La più stretta colleganza politica e sociale ha portato particolari risulta menti di civiltà, che ad ognuno di essi sono cari e preziosi . Al di sopra della provincia, e al di sotto del concetto politico dello Stato, io penso che si debba tener conto di questi centri; i quali rappresentano quelle antiche autonomie italiane che fecero si nobile omaggio di sé all’unità della nazione.

Ciò che a torto o a ragione ora si chiama la Lombardia, ha ben le sue proprie condizioni naturali e civili; ha bene anch’essa più d’uno di quei particolari risulta menti di civiltà che ad ogni popolo sono cari e preziosi.

Resta a vedere quale parte il ministro veramente intenda di fare a codeste unità morali, intorno a cui le provincie si aggruppano naturalmente e istoricamente e che sono al di sopra della provincia e al di sotto dello Stato.
Il regno, egli dice, si divide in regioni, provincie, circondari, mandamenti e communi. Più provincie insieme unite formano una regione, la cui circoscrizione deve rispondere ai naturali e tradizionali scompartimenti italiani, p. e. Piemonte, Lombardia, Emilia, Toscana, Liguria e Sardegna.

Pertanto noi crediamo che né al regno di Sicilia o di Napoli o di Lombardia e a quanti altri Stati il ministro riserva il poco felice vocabolo di regione, possa bastare che nel loro centro abbia sede un governatore, il quale nomini i sindaci e i gonfalonieri dei villaggi (quando meglio sarebbe lasciarli in tutto nominare dagli abitanti) e che s’ingerisca più o meno nella nomina o sospensione di quegli esseri, in tanta parte inutili, che il ministro medesimo chiama la nomade burocrazia.

In ognuno di codesti Stati o regioni o regni uniti, i consigli provinciali potrebbero bene adunarsi tutti nel loro centro in certi tempi dell’anno, e procedere a quegli atti legislativi che potessero emendare i particolari difetti dell’amministrazione locale e provedere agli altri particolare bisogni, senza che potessero in nulla contrariare o limitare la legislazione nazionale. E anche i deputati che quello Stato manda al Parlamento, potrebbero intervenire a codesti Consigli generali delle provincie, ovvero anche formativi una specie di seconda camera, incaricata principalmente di coordinare quelle deliberazioni alla legge nazionale.

La formula degli Stati Uniti o Regni Uniti è in italia l’unica possibile forma d’unità e di durevole amicizia e di pratica e soda libertà; essa esprime la sola possibile armonia delle libere forze.

LA NOTA DEL 1860
Luigi Carlo Farini

La nota del ministro degli Interni Luigi Carlo Farini del 13 agosto 1860 a cui faceva riferimento Cattaneo nel suo intervento sul Politecnico era stata presentata alla Commissione temporanea istituita presso il consiglio di Stato per esporre criteri da seguire per il riordinamento amministrativo del Regno. Già nel maggio Farini aveva sostenuto la necessità di conciliare «le ragioni dell’unità e della forte autorità politica dello Stato colla libertà dei comuni, delle provincie e dei consorzi».

Le opposizioni all’ordinamento regionale, che trovavano la loro giustificazione nella debolezza, in campo internazionale, di un’Italia da poco unificatasi, ma a cui non erano estranee ragioni di politica interna dovute alla forte contrapposizioni tra moderati e democratici, fecero fallire i progetti di Minghetti sull’ordinamento amministrativo del nuovo Stato e con essi fu abbandonata per molti anni ogni ipotesi di decentramento che non fosse esclusivamente burocratico: con l’estensione a tutta l’Italia della legge comunale e provinciale sarda del 23 ottobre 1859, fu sancita la scelta accentratrice dello Stato italiano.

Vuolsi dunque considerare, da un lato, quali sieno le vere condizioni della società civile italiana, e dall’altro lato quale sia il fine a cui si intende, per fare giusto concetto del problema che a noi tocca risolvere. Esso consiste, per mio avviso, nel coordinare la forte unità dello Stato coll’alacre sviluppo della vita locale, colla soda libertà delle provincie, dei comuni e dei consorzi, e colla progressiva emancipazione dell’insegnamento, della beneficienza e degli istituti municipali e provinciali dai vincoli della burocrazia centrale.
Per fare una legge che miri a questo fine, è necessario innanzi tutto lo stabilire le massime fondamentali sulle quali deve farsi il disegno della circoscrizione politica dello Stato. Volendo divisare questa circoscrizione, dobbiamo noi disconoscere ogni altra unità morale fuorchè quella costituita dalla provincia, così come provvede la legge in vigore? O invece non dovremo conoscere che le provincie italiane si aggruppano naturalmente e storicamente fra di loro in altri centri più vasti, che hanno avuto e hanno tuttavia ragione di esistere nell’organismo della vita italiana? Questi centri possiedono antichissime tradizioni fondate in varie condizioni naturali e civili: la politica italiana disgregata fra i comuni e le repubbliche del medio evo ha trovato in essi una prima forma e disciplina di Stato, la più stretta colleganza politica e sociale ha portato particolari risulta menti di civiltà, che ad ognuno di essi sono cari e preziosi. Al di sopra della provincia, al di sotto del concetto politico dello Stato, io penso che si debba tener conto di questi centri, i quali rappresentano quelle antiche autonomie italiane, che fecero sì nobile omaggio di sé all’unità della nazione.

La libertà dell’amministrazione deve essere esercitata nella provincia, s4enza offesa e danno di quella del comune, il quale come ha suoi peculiari interessi, così deve avere vita e rappresentanza propria.

Perché la libertà possa veramente dirsi posta in sodo, è l’uopo che si fondi nelle istituzioni e nei diritti locali. Quando la libertà è dappertutto, essa non può distruggersi.

Il comune è la prima base dei liberi ordini. In esso si manifesta più vivamente il nativo genio delle popolazioni.


LA QUESTIONE DEL FEDERALISMO NEL DIBATTITO PARLAMENTARE DELL’OTTOBRE 1860
Giuseppe Ferrari

Giuseppe Ferrari fu conterraneo di Carlo Cattaneo, ma la sua origine lombarda non lasciò alcuna impronta nel suo federalismo, che, invece, fortemente influenzato dalle esperienze intellettuali compiute in Francia, la sua patria d’adozione, dove si era trasferito nel 1839, e soprattutto dalla conoscenza del pensiero di Pierre – Joseph Proudon.

Nell’ottobre del 1860 Ferrari tenne alla camera un importante discorso nella discussione sul progetto di legge per autorizzare il governo a stabilire, per decreto, le annessioni delle provincie meridionali. Ferrari fu il primo a intervenire nel dibattito e il suo intervento, di netta opposizione, assunse torti particolarmente aspri nei confronti del Piemonte, accusato di voler sovrapporsi agli Stati italiani. Egli argomentò con molta efficacia le sue posizioni contrarie all’annessione incondizionata dell’italia meridionale, in quanto, disse, la dedizione incondizionata significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi le leggi piemontesi.

In che consistono dunque i difetti del sistemo piemontese? Essi consistono nel sovrapporre uno Stato unico a tutti gli altri Stati italiani, la è cosa momentanea, transitoria, sarà riparata; ma giacchè siamo in un Parlamento per riparare i disordini che potessero emergere, noi dobbiamo cominciare dal riconoscere il disordine massimo del piemonte che vuol sovrapporsi agli Stati italiani.

Una capitale è una città preponderante, che sorge nel mezzo d’una nazione con una popolazione talmente esuberante che schiaccia tutte le altre città (Mormorio), le quali in nessun modo possono competere e rivalizzare con essa. Parigi è capitale, perché possiede un milione e duecentomila abitanti, mentre lione non ne conta che duecentomila. Londra è pure la metropoli inglese, perché abitata da due milioni di abitanti, mentre tutta l’Inghilterra non giunge a venti milioni. Una capitale, sia essa nella China, o in Tartaria, o in Turchia, od in qualsivoglia Stato barbaro od incivilito, è sempre un fatto economico, un fatto preponderante, che nessuno capo, nessun re, nessun popolo può decretare o improvvisare, senza disporre di forze barbare assolutamente, eccedenti la nostra civiltà.

Coll’unione delle Due Sicilia che voi reclamate subitanea, incondizionata, voi svelate l’ostacolo supremo del vostro sistema, il quale deve essere ormai vinto dal sistema italiano. Difatti voi sapete che la città di Napoli conta 520.000 abitanti; sapete che è ricca, che è organizzata, che regge, e, se occorre, tirannicamente le Due Sicilie, e che fa loro subire spietatamente il suo dominio sotto l’aspetto economico; e non parlo qui dei Governi che passano, e si fanno, e si disfanno quando si vuole. Napoli è abbagliante di splendori, e voi volete prenderla incondizionatamente, volete che si dia a Torino. Non dico che voi vogliate, intendiamoci; ma il moto economico lo vuole, la vostra politica lo esige, la geografia del Piemonte e delle sue ambizioni ingenite lo richiede, ed, astrazione fatta dalla volontà individuali, il vostro principio conduze alla confiscazione immediata e incondizionata della più grande tra le città italiane a profitto di una città senza dubbio coltissima e dotata di invincibili attrattive, ma della metà inferiore alla grandezza di napoli.

La dedizione incondizionata significa che sarà libero al Piemonte di distruggere tutte le leggi napoletane per sostituirvi tutte le leggi piemontesi.

Ho visto una città colossale, ricca, potente: innumerevoli sono i suoi palazzi, costrutti con titanica negligenza sulle colline, sulle alture, nei vichi, nelle piazze, quasi che indifferente fosse la scelta del luogo in una terra da per tutto incantevole.

Napoli è la più grande capitale italiana, e quando domina i fuochi del Vesuvio e le ruine di Pompei sembra l’eterna regina della natura e delle nazioni.
Or bene, c’io avessi l’onore d’essere nato nella patria di Vico, e se l’alta italia volesse annetter visi senza condizione, subito, io direi no, non confondiamoci, ma confederiamoci. E difatti, giacché la storia non volle che l’Italia appartenesse alla classe delle nazioni unitarie, colle federazione possiamo giungere ogni più gloriosa meta, Colla federazione ogni città si trasforma in capitale e regna sulla sua terra; colla federazione ogni Stato italiano si riconosce con una propria assemblea erede della patrie glorie; per ogni assemblea nomina i rappresentanti della nazione nella dieta dove l’intera patria sottrae ai pontefici la sua ragione per riflettere alla fine sui propri destini. Colla federazione si ottiene l’unità d’un esercito, perché non vi fu mai lega il cui scopo non fosse di riunire le disperse forze degli Stati Uniti, colla federazione si ottiene l’unità della germania e degli Stati Uniti, colla federazione si ottiene l’unità della diplomazia, la quale trae dalla dieta un unico pensiero e la direzione unica degli stati in faccia alle estere nazioni.
Fu sparso l’errore che la federazione volesse dir divisione, dissociazione, separazione. Ma la parola federazione viene da Foedus; Foedus vuol dire patto, unione, reciproco legame; il legame delle federazioni è si flessibile e potente che congiungere in Germania repubbliche e principati.

I PROBLEMI DELL’UNIFICAZIONE ITALIANA VISTI DALLA FRANCIA
Pierre Joseph Proudhon

Pierre-Joseph Proudhon è generalmente considerato uno dei maggiori teorici di una concezione federalistica integrale, nel senso che per lui il federalismo doveva caratterizzare non solo i fondamenti politico-istituzionali della società, ma anche quelli economici e sociali.

Il principio federativo, come l’organizzazione municipale, è un corollario del principio, ancora poco conosciuto, della separazione dei poteri, fuori del quale non v’è repubblica, e neppure monarchia costituzionale.

L’Italia per natura e configurazione, è federalista.

L’italia si compone principalmente: 1° d’una lunga penisola in forma di stivale, limitata a nord-ovest dalla catena semicircolare delle Alpi, e da tutte le altre parti dal mare; 2° di tre grandi isola, la Sicilia, la Sardegna e la Corsica. La superficie del paese è di circa 18.000 leghe geografiche, di cui 14.600 per la parte continentale; 1.600 per la sardegna; 443 per la Corsica, e 1.360 per la Sicilia. La popolazione totale è di circa 25.000.000 d’anime, più densa in lombardia, più rara in Sardegna. Ed anzi tutto, in ciò che concerne le isole facendo astrazione della Francia che sìè incorporata la Corsica, io domando, dov’è per loro la ragione dell’unità? Quale argomento de commodo er incommodo, quale ragione di vicinanza, di sfruttamento, di convessità territoriale, di solidarietà di coltura, d’industria, d’amministrazione si può invocare?

Qui, l’unità è cosa fittizia, arbitraria, pura invenzione della politica, combinazione monarchica o dittatoriale, che non ha nulla di comune colla libertà.

Che è Roma oggi? Un museo, una Chiesa, niente di più. Come centro d’affari, di commercio, di industria, come punto strategico, come influenza di popolazione, nulla: Roma vive dello straniero, cioè come diceva l’economia Blanqui, dell’elemosina della cristianità. Toglietele i suoi preti è la città più meschina, più nulla dell’italia e del globo, una necropoli.




DAL FEDERALISMO ALL’AUTONOMISMO
Carlo Cattaneo

Cattaneo metteva in stretto rapporto la sua richiesta della libertà regionale con l’esistenza di diverse tradizioni locali e di differenti livelli di sviluppo economico e sociale che non potevano essere appiattiti sotto una rigida uniformità legislativa.

A suo parere, infatti, anche i comuni più piccoli dovevano essere salvaguardati, poiché «i comuni sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà».

I piccoli comuni un male? Come? La Lombardia, che fra tutte le regioni d’italia si trovò primamente e più largamente delle altre dotata di strade, di scuole, di medici condotti e d’ogni altra comunale provvidenza, è appunto quella che fra tutte quante ha il massimo numero di comuni piccoli e piccolissimi. Più di un quarto di essi (607) non giungono a cinquecento anime; per un altro quarto e più (746) non giungono a mille anime. E sopra 2242 comuni questa è già la maggioranza. Quelli poi che oltrepassano la magica cifra delle tremila anime sono in tutto 151.

L’aumento continuo della prosperità, dopo il 1755 in quel perpetuo campo di guerra che si chiama Lombardia, fra le tante irruzioni straniere da cui furono immuni la Sardegna e la Sicilia, si deve principalmente a questo.
Si deve alla molteplicità dei comuni, alla mutua loro indipendenza, a una più larga padronanza delle cose proprie, a un più libero uso della ragione e della volontà nei propri affari. Questo è il secreto, e questo vuolsi divulgare per tutta l’Italia.
E’ un errore che l’efficacia della vita comunale debba farsi maggiore colla incorporazione di più comuni in un solo, vale a dire, con una larga soppressione di codesti plessi nervei della vita vicinale.

L’AUTONOMISMO CATTOLICO
Enrico cenni, Giovanni manna, Pietro Ulloa

I processi di centralizzazione e di piemontesizzazione che si andarono accentuando quando al governo di cavour succedette quello presieduto dal toscano Bettino Ricasoli incontrarono notevoli opposizioni nell’opinione pubblica degli Stati che avevano proclamato la loro immediata annessione al Piemonte tra il 1859 e il 1860. I dissensi maggiori vennero dal regno delle due Sicilia, il più grande degli ex-Stati. Due tra i principali rappresentanti della classe dirigente napoletana, Enrico cenni e Giovanni Manna, che erano stati anche tra i più convinti avversari del governo borbonico, si batterono per ottenere che i vecchi Stati potessero conservare la loro autonomia legislativa e amministrativa. Cenni era un noto giurista, esponente di quella corrente cattolica che si faceva al federalismo amministrativo di Vincenzo Gioberti.

L’unità dello Stato deve rispettare l’autonomia amministrativa, nel senso più ampio della parola, di ciascuna provincia, e lasciare che viva co’ proprii ordini e temperamenti, co’ quali ha sempre vissuto; in guisa che rimanendo un centro supremo governativo, questo si appoggi su’ centri particolari proprii di ogni provincia, coordinandoli alla vita unica dello Stato, ma consentendo loro in tutto il resto libero spazio a muoversi; così che l’ordine fondamentale presenti un connubbio dell’unità con la varietà speciali e indelebili di ciascuna famiglia, e concordi con l’unità del parlamento e dell’armata, la diversità delle leggi amministrative finanziarie ed anche degli ordini giuridici ( Delle presenti condizioni d’italia e del suo riordinamento civile, Stamperia del vaglio, napoli 1862).

Per ottenere questo risultato era necessario per Manna che i popoli meridionali fossero resi «molto padroni di sé e delle cose loro»: autonomia, dunque, come strumento di responsabile partecipazione all’amministrazione locale delle popolazioni meridionali.

Il Cavour volle d’un colpo adeguare le ineguaglianze naturali delle provincie italiane; immutarne dalle viscere le condizioni reali; e non tenere ragione della loro secolare esistenza, delle indoli peculiari di ciascuna, e degli istituti diversi che da quelle erano nati. Ma quello che era bene per Francia, come innanzi vedemmo, non potea essere bene per l’Italia, e non fu.

Ed oggi non è chi non veda, che dopo due anni poi che quel sistema è stato applicato, le condizioni del regno sono assai peggiori di quelle che non erano sotto la dittatura del generale Garibaldi.

Ma per far questo, che impossibile non è, non di dovea procedere colle idee francesi, ma con quelle suggerite dalle condizioni naturali de popoli italiani, e da nostri migliori politici. L’unità volea essere organica, non meccanica: doveansi alle diverse famiglie italiane lasciare intatta l’autonomia de loro ordini civili.

Insomma ad unificare l’Italia doveansi sposare il principio dell’unità monarchico a quello della confederazione, come con prudenza si vede essersi fatto per gli esempli d’Inghilterra, di Austria, di Russia, di Svezia e Norvegia e di altri molti. Il principio federativo lasciando intatte le singole autonomie, quello dell’unità monarchica consertandole insieme, avrebbero solo potuto produrre quell’unità, ricca, complessa, organica, e per conseguente fortissima.

II

Bisogna che gli abitanti delle provincie meridionali non solo possano dire con fondamento: noi abbiamo la legittima parte in tutto l’indirizzo centrale governativo: ma possano dire ancora: noi siamo veramente liberi e responsabili della nostra amministrazione locale.

Per ottenere dunque questi due effetti, cioè per ispirare ai popoli dell’Italia meridionale fede in se stessi e fece e amore negli altri, sembra utilissimo che sian lasciati da una parte molto padroni di sé e delle cose loro, e dall’altra che sia schivata ogni soverchia ingerenza nelle faccende che riguardano estimazione di persone e gestione d’interessi materiali.

Del resto, tutto deve tendere a corroborare la responsabilità e a garantire la libertà municipale, non a diminuirla.

III

Era la politica tradizionale della Francia; era il pensiero di Entico IV che veniva in luce a traverso alle vicende de tempi, perché rispondeva ad interessi reali e durevoli. L’unità dell’italia con la federazione era la sola possibile perché sta nell’ordine naturale storico ed etnografico della penisola.

Con la confederazione si sarebbero avuti due grandi regni l’uno al Nord al Sud l’altro: alcuni piccoli stati al centro per impedire i conflitti. Il Papa avrebbe distesa la sua mano sull’italia per benedirla e difenderla. Sotto la protezione del papa avrebbe conseguito forza equilibrio sicurezza. La federazione avrebbe avuta la sua vera forza nel popolo e nell’appoggio reciproco degli Stati Confederati: essa soltanto poteva dare alla penisola una vita seria e duratura.

L’Italia si compone di popoli differenti per origine, costumi, linguaggio ed abitudini: fra loro non ci à unità che per le religioni, la letteratura e la gloria. Lo spirito italiano è così per eccellenza uno spirito di rivalità e di antagonismo. E’ il lavoro dei secoli.

La attitudini incerte incoraggiano sempre la temerità, e però gli unitari spinti trionfarono; ma vollero attribuirsi troppo presto gli onori del trionfo. Con lo spettro di una grande potenza anno creata una immensa servitù.
Dal momento in cui si precipitarono su la china della rivoluzione cominciarono a recitare la commedia delle grandezze antiche: anno invocata la unità per giustificare la violenza; ma oggi è forza confessare che quando pure fossero arrivati a fare l’unità dell’Italia non mai avrebbero formata la unione degli italiani.

L’AUTONOMISMO IN SICILIA: FRANCESCO PEREZ E IL CONSIGLIO DI STATO.

Dopo l’unificazione la lotta per l’autonomia ebbe un impulso particolare in Sicilia, dove si innestava su un antico sentimento separatista che aveva a lungo caratterizzato i rapporti tra napoli e la Sicilia.

Ripresero allora vigore le richieste autonomistiche sia in campo legislativo che amministrativo: esse, però, non si dovevano limitare alla sola Sicilia, ma estendere a tutte le regioni, anche in risposta al forte malcontento provocato negli ex-Stati dall’estensione delle leggi piemontesi.

Perez giudicava inopportuno proporre anche per l’Italia, come faceva Giorgini, il modello accentratore francese, che era stato riprovato nella stessa Francia una volta accertata l’inconciliabilità della libertà coll’accentramento.

I
Mossa l’Itala dal sentimento della propria dignità e verace interesse e dalla esperienza dolorosa di tredici secoli a rivendicare la nazionalità e la libertà sua, concorre ormai tutta, con accordo degno di quel popolo intelligente e civile ch’ella fu sempre, nel pensiero di accomunare la maggior somma possibile di libertà a’ cittadini, ai municipi, ed alle associazioni più larghe create dalla geografia e dalla storia: centri di vita e d’incivilimento da non potersi distruggere senza scemare lustro e possanza alla nazione. In altri termini si vuole l’unità dello Stato, con larghe franchigie nell’amministrazione locale e nella vita civile.

I federalisti non hanno contesa in fondo l’unità del potere politico, dell’esercito e navilio da guerra, né del governo negli interessi maggiori e comuni della nazione. Similmente gli unitari non sognaron mai di trapiantare in Italia un accentramento incompatibile col genio e le tradizioni della nostra schiatta, quanto con gli ordini di verace libertà.

Usando la parola felicemente adoprata dal Ministro Farini, noi chiameremo regioni le grandi divisioni territoriali dell’Italia.
Il quale principio, ove s’andati alla Sicilia, si vede che a lei convenga per filo e per segno, come alla Toscana, alla Lombardia e via discorrendo tanto che la si potrebbe prendere per misura nella istituzione delle altre regioni, né troverebbe preciso riscontro se non che nella Sardegna, supposto che questa avesse due milioni di abitatori e la storia di Venezia o della Toscana, isola, posta ad una estremità del territorio nazionale, a due giorni di vapore dai porti più prossimi dell’Italia meridionale, popolata da poco men che due milioni e mezzo d’abitatori, parlante dialetto proprio, avvezza da mille anni a governo distinto e locale, fosse o no dipendente da altra dominazione; l’indole, gli usi, i costumi, la natura e i prodotti del suolo, l’importanza di tre città che noverano 200.000, 100.000 e 80.000 anime, al par che la storia politica de tempi che furono, al par che le tradizioni di una legislazione propria esordita allo scorcio dell’XI secolo e durata, con le modificazioni del 1816, infino ad oggi, al par che la rappresentanza parlamentare nata con la monarchia siciliana e non cessata innanzi il 4 novembre 1860; - tutte queste condizioni, diciam noi, producono e giustificano l’antica ed universale brama de Siciliani alla quale si può soddisfare nell’ordinamento regionale.

II

Quanto a me ora, e fin da quando – sono trent’anni ormai – presi, non senza qualche pericolo e danno, a divulgare in Sicilia la grande e santa idea della Unità italiana, ciò che sempre mi pare e m’è parso innegabile è questo, cioè:
-         Che il diritto di cittadinanza locale, applicato al consorzio regionale, non è meno fondato nella reale natura delle cose di quel che lo sia applicato al consorzio municipale e nazionale.
-         Che la Unità politica italiana in tanto è, e può sussistere, in quanto l’individuo v’è stato condotto, e vi sarà mantenuto, da quella serie crescente di associazioni e governi che, dalla famiglia, dal municipio e dalla regione, sono venuti gradatamente elevandolo a riconoscere il bisogno dell’associazione politica di tutta la nazione.
-         Che in italia, e per le sue grandi isole specialmente, pretendere di sopprimere la libertà regionale è non meno ingiusto e dannoso del sopprimerne qualunque altra.
-         Che questa soppressione, ingiusta sempre, tanto più lo è quanto la unità politica nazionale è necessaria ed utile a tutte le regioni, quanto più spontaneo è stato il movimento per conseguirla, e universale la convinzione che debbasi mantenere: quanto più insomma legittime ed apprezzate sono le ragioni che la persuadono, e più ingiusti quindi i motivi di fondarla sulla violazione delle libertà regionali.
-         Che finalmente nessuna guarentigia sarebbe più solida, nessun ordinamento più fecondo di vita e  di forza alla nazione e allo Stato, quanto il rispettare e riconoscere la libertà regionale.

REGIONE RAPPRESENTATIVA E REGIONE GOVERNATIVA
Giuseppe Montanelli

Anche il toscano Giuseppe Montanelli, che in un’opera del 1859 aveva avanzato per l’Italia l’ipotesi di un impero federale a base popolare, attenuò, dopo l’unità, il suo federalismo e, intervenendo nel dibattito sull’ordinamento del Regno, si oppose al sistema delle regioni contenuto nel progetto del Minghetti. Egli respingeva in particolare l’ipotesi che le regioni dovessero essere rette da un governatore nominato dal governo, poiché questi governatori regionali avrebbero rappresentato un’altra forma di accentramento.

Uno dei punti di maggiore originalità delle tesi di Montanelli sull’autonomia regionale riguarda la distinzione tra regione governativa e regione rappresentativa, a cui si riferisce il brano qui riprodotto: la prima era quella delineata nel progetto di minghetti come un semplice strumento dell’azione governativa, la seconda, che trovava un riferimento concreto nella relazione presentata dal Consiglio straordinario di Stato siciliano, era invece una istituzione che poggiava su principi liberali e democratici.

Si vede ora la differenza che passa fra la Regione come l’aveva disegnata il ministro Minghetti, e come la propose il Consiglio di Stato della Sicilia. La prima è un istrumento di governo; la seconda una istituzione rappresentativa; la prima appartiene a quel sistema d’idee imperiali e autocratiche da cui nacquero i presidj d’Augusto, e i profeti del Napoleonide: appartiene la seconda a quel sistema d’idee liberali e democratiche, che diede origine al Comune degli italiani, e al self-governement degli Anglo-Sassoni.

Respingiamo l’antico pregiudizio che dell’autorità faceva la regola, e della libertà l’eccezione; e se non vogliamo perpetuamente aggirarci in un circolo vizioso provvedendo a libertà per mezzo di spedienti a quella esiziali, lasciamo che la regione liberamente provveda a tutto quello che l’autorità nazionale non dichiarò di sua competenza. Per via d’esclusione, e non d’attribuzione, le autorità superiori segnano i limiti alle libertà sottostanti, o individuali, o collettive.

Noi poo anderemo anche più oltre: né solamente rifiutiamo alla piccola provincia la rappresentanza amministrativa, ma vorremmo al tutto levato di mezzo il poliziesco sistema delle Prefetture. Come conciliare questo sistema colle esigenze d’una monarchia libera, e democratica?
La rivoluzione del 1789 con liberissimi e democratici intendimenti dava il governo delle provincie francesi a rappresentanti elettivi delle provincie stesse. Le Prefetture furono istituzione napoleonica; e s’intende come il possente guerriero, imitatore di Cesare e di carlomagno, avesse bisogno di cotesta istituzione per reggere dispoticamente la Francia. L’istituzione delle Prefetture si collegava a un sistema d’inquisizione politica, per cui non solo ogni libertà di stampa, e di ringhiera, ma perfino d’elezioni municipale e provinciali, diventava sospetta.

E’ naturalmente sentito il bisogno di costituire la nazionalità italiana senza cadere per un lato nel federalismo, per l’altro nel centralismo francese.
Quanto al primo pericolo, si eviterà avendo la metropoli della nazione in Roma: colà è il capo d’italia: colà ogni politico ritrovo italiano è necessariamente unitario.
Per isfuggire al secondo pericolo, non basta porre autonomie amministrative in ogni Municipio, o in ogni città; ma conviente fondare grandi centri di amministrazioni provinciali o regionali (il nome non importa), nelle città che ereditarono dal passato una primazia provinciale egemonica. Chi rinnega queste secondarie preminenze metropolitane, abbandoni come sogno l’idea del disaccentramento, e si rassegni a fare un’Italia francese.

L’idea d’imprefettare l’Italia potè nascere alla falde del Monte Cenisio, ma non sosterebbe la discussione sulla cima del Campidoglio. – Roma non iscambiò mai l’unità coll’uniformità. – Roma non può temere, che alcuna delle sue figlie succursali concepisca l’insano e parricida disegno di segregarsi dalla madre e dalla patria italiana.

LIBERTA’ E GIUSTIZIA E LE AUTONOMIE LOCALI

Il brano seguente apparve nell’agosto del 1867 sul primo numero del settimanale “Libertà e giustizia”, organo dell’omonima associazione, espressione dei democratici napoletani.

Nel programma dell’associazione già si delineava quella che sarebbe stata negli anni successivi la posizione dei socialisti sul problema del decentramento e delle sempre apertamente favorevoli. In esso, sviluppando la tematica sulle autonomie locali che si ispirava a Carlo Pisacane e cattaneo, si chiedeva il riordinamento delle libertà comunali e provinciali sulle basi di una completa autonomie amministrativa, messa in stretto rapporti con la conquista del suffragio universale che avrebbe concesso ai ceti popolari la partecipazione attiva alla vita politica. Grazie allo sviluppo delle libertà comunali e provinciali, ma soprattutto alla rivitalizzazione dei comuni, si sarebbe costituita libera e vivente la unità della Nazione, sostituendosi a quella centralistica e burocratica da cui derivava solo oppressione.

Niuno ignora che la vita d’una nazione è il risultato della vita dei comuni e questi dei singoli individui, sicché nella libertà della nazione deve coesistere quella del comune e dell’individuo.

Oggi il comune è una fattoria dello Stato al quale ha sacrificato il maggior suo avere, la propria sovranità, è un minore sub tutela; laddove considerato nella sua origine, nella sua natura ed intendimento, è la sola legittima personalità giuridica collettiva, sorgente di tutte le rappresentanze nazionali.

IL PROGETTO REGIONALISTA DEI MODERATI
Stefano Jacini

Il problema delle autonomie regionali continuava ad essere discusso anche all’interno delle forze moderate, ma il dibattito si limitava quasi esclusivamente all’ambito amministrativo.

Agli inizi del 1870 apparve l’opuscolo Sulle condizioni della cosa pubblica in Italia dopo il 1866, in cui Jacini indicava come causa del malcontento del paese reale nei confronti del paese legale l’accentramento amministrativo e parlamentare: questo mostruoso connubio.

La soluzione a questi problemi era vista nell’istituzione, accanto ai comuni e alle provincie, delle regioni che, lasciando al governo centrale “gli affari esteri, l’esercito, la flotta, la sicurezza pubblica, il debito pubblico, la giustizia, la massima parte dell’amministrazione delle finanze , lo avrebbero reso più forte, liberandolo dalla cura degli affari amministrativi, affidati agli organismi locali.

IL MODELLO AMERICANO
Aurelio Saffi

L’approdo federalista di Aurelio saffi seguì un percorso del tutto particolare. Fedele seguace di Mazzini, fino al 1860 egli sostenne  apertamente la validità della soluzione unitaria, anche se, in linea di principio, non era contrario al federalismo qualora ne esistessero le condizioni.

Compito dell’Italia era quello di sperimentare una forma di sintesi superiore in cui si superassero sia il gretto municipalismo sia il micidiale accentramento alla francese. In concreto, egli accettava il progetto di Minghetti sulle regioni, purché per regioni si intendessero quelle naturali e non gli ex-Stati preunitari.

Bisogna aver mente, guardando ai fatti, alla natura delle istituzioni sotto le quali si produssero. Gli ordini amministrativi e politici degli Stati Uniti sono l’opposto dei sistemi che prevalgono in Europa. Ivi, tutto si da dal Popolo pel Popolo: negli Stati Europei, tutto si fa dai Governi o da certe classi privilegiate, per interessi particolari, per fini personali d’impero, per conservare una dinastia, per mantenere un monopolio, per restringere la libertà sotto protesto di regolarla – per qualunque motivo ingiusto e parziale: di rado, o non mai, pel vantaggio del maggior numero e per la comune giustizia. In America, il Governo governa, i cittadini amministrano. In Europa – differenza mortale per la libertà – i Governi governano e amministrano.

Negli Stati Europei, invece, l’azione personale del potere è più visibile di quella della legge: una falange di prefetti, di commissari di polizia, di gendarmi – interponendosi, sotto colore di assicurare l’esecuzione delle leggi, fra queste e la coscienza pubblica – avvezza i cittadini a perder di vista le prime e a guardare, per ben o per male, agli esecutori delle medesime come ad arbitri e padroni. E da ciò poi, il facile prostituirsi per favore o paura; il difetto di virilità e di costanza nel dovere di combattere gli abusi di una falsa autorità; il sottomettersi per ossequio servile o per disperata inerzia, non per rispetto alla legge.

IL FEDERALISMO REPUBBLICANO
Alberto Mario

Il federalismo di Alberto Mario risentì in notevole misura dell’influenza del pensiero di Cattaneo, che conobbe personalmente durante il suo esilio a Lugano.

Per Mario. Come per Cattaneo, la conquista della libertà era strettamente collegata all’affermazione della repubblica: i due concetti erano legati in un rapporto indissolubile. Come la monarchia si sosteneva sull’accentramento così la repubblica si doveva reggere sul federalismo, che soprattutto per l’Italia costituiva, a suo avviso, il sistema di governo più adatto per la “stupenda varietà dei tipi, dei sangui, dei pensieri, dei caratteri, dei paesi, degli idiomi, del genio, dell’istoria” che caratterizzava la penisola e che non poteva “tollerare un medesimo trattamento senza oltraggio costante alla natura e alla realtà irriducibile”.

Egli proponeva, perciò, l’istituzione di complete autonomie regionali, garantite dall’eliminazione dell’uniformità legislativa, sicché ogni regione potesse darsi “le sue leggi civili, criminali, municipali e finanziarie, d’istruzione, di sicurezza e d’igiene”.

Nel 1878 il suo federalismo trovò piena espressione sulla “Rivista Repubblicana”, di cui fu direttore: nell’articolo programmatico del primo numero che qui riproduciamo Mario, dando un giudizio negativo sia sulla destra che sulla Sinistra, affermò la necessità dell’istituzione di una repubblica federale, nella convinzione che non esisteva nessun dissidio tra federazione e unità politica della nazione; la garanzia di un’unità “più poderosa e indissolubile” stava, anzi, proprio nelle autonomie legislative regionali.

Nella monarchia rappresentativa lo Stato risolvesi in una tutela di pochi su tutti. In Italia i tutori sommano a 500 mila; il popolo è minorenne. Tale la condizione giuridica. I 500 mila deputano l’esercizio della sovranità a 500, ma una camera alta e vitalizia nominata dal capo dello stato diminuisce di un terzo quella sovranità e di un altro terzo la scemano i rimanenti diritti della Corona.

E la centralizzazione sta tutta racchiusa nel legislatore unico e nella legge unica in cotanta diversità di popoli, di tradizione, di genio, di linguaggio, d’interessi, di costumi, di civiltà. Passando da certe regioni a cert’altre diresti di vivere in differente secolo. Or come la stessa legge civile e penale e finanziaria e comunale e di sicurezza pubblica e di lavori può adattarsi alla basilcata e alla Toscana, alla Val di Mazzara e alla Venezia, alle popolazioni dell’Appennino calabrese e alla Montagna di Pistoia?

La centralizzazione nega categoricamente l’Italia.

La storia d’Italia venne svolgendosi dal comune sovrano alla regione sovrana alla nazione sovrana.
Ella deve ordinarsi senza la soppressione di nessuno dei tre termini costitutivi.

A ciascuna regione, che ha configurazione geografica precisata e personalità storica contornata e sangue e favella e affetti e tipo inconfondibili con altre, la cura degli interessi speciali e relativi: costituzione propria, e parlamento e leggi e potere esecutivo a sé.

Ora, in tale intreccio armonico di regioni legislative e di unità politica l’Italia si sentirà libera, sana, vigorosa, prospera, felice.
Ma questo modo d’essere urta verticalmente l’istituzione monarchica e ne esprime l’antinomia, costituisce la repubblica nel suo solo concetto verace, ed è ciò che appellasi repubblica federale.

Non v’ha italiano che non riconosca la necessità dell’articolazione di questo regno elefantesco, e del mutamento in libere e maggiorenni convivenze di questo orfanotrofio.

Temesi che federazione importi disgregazione; donde il dissidio. Ma quando sia palese che federazione suona unità nazionale e politica snodata in autonomie legislative regionali, la più poderosa e indissolubile delle unità, molti animi oggi divisi più ch’altro da un dubbio d’origine nobilissima si uniranno in concorde pensiero.

L’IMPORTANZA DELLE REGIONI NELLA STORIA D’ITALIA
Giuseppe Saredo

Come Alberto mario aveva messo in rilievo già nel 1877 la Sinistra disattese il suo programma di governo nella parte in cui si prospettava l’introduzione di un profondo decentramento delle funzioni dello Stato, basato su una larga autonomia dei comuni e delle provincie.

Negli anni giovanili Crispi era stato un fermo sostenitore delle più larghe autonomie amministrative e dell’autogoverno locale, ma con il progetto di legge comunale e provinciale presentato nel 1888 egli mise da parte le precedenti convinzioni, confermando definitivamente la scelta accentratrice compiuta dallo Stato italiano al momento dell’Unità. Con l’istituzione della Giunta provinciale amministrativa si realizzava un’aperta forma di controllo da parte degli organismi centrali, che si esprimeva attraverso l’attività del Prefetto, che diventava anche presidente della Giunta, e dei due consiglieri di prefettura che lo affiancavano: i maggiori poteri che pure erano stati conferiti alle amministrazioni locali venivano fortemente limitati.

L’istituzione delle regioni era giustificata per lui da motivi di carattere geografico, storico, politico e non ultimo economico, come unico mezzo per non annullare le rilevanti differenze esistenti tra le varie parti d’Italia e per attuare tra loro un giusto coordinamento.

Se noi osserviamo la carta geografica d’Italia, se ne interroghiamo le condizioni, gli interessi, le tradizioni, le tendenze, ci convinciamo agevolmente che essa presenta una mirabile combinazione di elementi unitari e di elementi regionali: come ben pochi altri popoli l’Italia ci da la varietà nella unità.

Dagli Inglesi e dagli Scandinavi fino agli Spagnuoli ed ai Greci, ogni nazione del nostro continente si riscontra con una provincia italiana, dal freddo Piemonte all’ardente Sicilia: onde tutta l’Italia viene ad essere una piccola Europa.

Così il concetto di una forte unità politica con una ordinata autonomia delle diverse regioni, propugnano per la prima volta fra noi da V. Gioberti, venne raccolto e svolto da altri pensatori, da eminenti uomini di Stato. E coloro stessi che, come Carlo Cattaneo e Giuseep Ferrari, sollevarono la bandiera della federazione repubblicana, non fecero in sostanza che rendere omaggio a quel concetto, spingendone l’applicazione alle conseguenze più radicali.

Venendo all’Italia nostra, basta esaminare la sua conformazione geografica, le sue tradizioni, i suoi interessi per comprendere che se vi ha paese al mondo pel quale è necessaria una divisione costituita sul sistema regionale, quello è senza dubbio il nostro. Quale altro Stato possiede regioni a capo delle quali stanno città come Venezia, Milano, Torino, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Napoli, Bari, Cagliari, Palermo?

Non bisogna  d’altra parte dimenticare che lo Stato, nell’esercizio delle sue funzioni e de’ suoi doveri, non rinuncierà mai alla missione che la ricostruzione nazionale gli ha imposto, quella, cioè di un necessario trattamento speciale per le regioni meno favorite.

Parte Seconda
LA RIPRESA DEL FEDERALISMO NELLA CRISI DI FINE SECOLO

L’AUTONOMISMO TERRITORIALE LOMBARDO: GIUSEPPE COLOMBO E L’IDEA LIBERALE.

Il terreno dell’interesse economico fu quello su cui il discorso sulle autonomie fu accolto con particolare favore nelle aree più avanzate del paese, come la Lombardia, dove la borghesia liberista vedeva in esse lo strumento per conquistare una più ampia libertà d’azione, al riparo da ogni interferenza del potere centrale.

In contrapposizione alla democrazia autoritaria e allo statalismo di Crispi, Colombo si richiamava alla tradizione regionalistica di origine risorgimentale, a Minghetti ma anche a Ferrari e a Cattaneo, sostenendo la necessità di una riforma generale dell’ordinamento amministrativo italiano alla cui base fosse posta un’ampia autonomia degli enti locali, tale da realizzare nel paese una vera unità, che potesse prendere nuova linfa proprio dalle libertà locali.

Bisogna conservare le fonti della ricchezza nazionale, non inaridire coll’abuso delle imposte e del credito; bisogna opporsi alla megalomania; bisogna muover guerra all’esagerazione delle spese di qualsiasi natura, ma soprattutto all’eccesso delle spese per opere pubbliche e armamenti, che pesano sui bilanci in una misura ormai diventa intollerabile.

Quando Minghetti mise avanti l’Idea delle regioni, l’unità politica era fatta da troppo poco tempo per arrischiare di compromettere col principio delle autonomie locali. Ma ormai son passati trent’anni dalla costituzione della nostra unità: nulla più la può compromettere; e non si riuscirebbe  certo a scuoterla applicando il principio delle autonomie gradualmente e con grande prudenza.
Ma non si può sfuggire alla questione. Essa parla tutti i giorni con voce più alta e imperiosa. Quasi tutti i nostri ordinamenti, quasi tutte le nostre leggi, stampate su un modello uniforme, non si possono applicare ugualmente, senza danno, a popolazioni profondamente diverse ugualmente, senza danno, per tradizioni.

Bisognerebbe cominciare dalla unità minori, dalle Provincie, dai Comuni, preludiando a poco a poco alle maggiori autonomie della regione su questa base: che riservando al Governo centrale tutti gli ordinamenti d’indole generale, l’esercito, la marina, la giustizia, i grandi lavori pubblici, gli scambi internazionali, sieno lasciati alle amministrazioni regionali, provinciali e comunali tutte le questioni d’interesse locale.

Si tratta infatti di non creare uno Stato in piccolo, ma di diminuire le funzioni dello Stato; questo rimanga al suo posto, ma appunto per esercitare meglio le funzioni che gli spettano, abbandoni alle regioni la cura degli interesse regionali, come ai privati (individui o associazioni) quella degli interessi privati.

Ma è necessario di ripetere che l’uniformità amministrativa non è l’unità nazionale? Che anzi solo un assetto conforme alla natura può dare all’unità politica la base più sicura e durevole, mentre l’accentramento che soffoca la varietà dei caratteri regionali finirebbe col renderla insopportabile?

L’ITALIA DEL POPOLO: I LOMBARDI E LE TASSE

Negli anni 1894-95, parallelamente alla battaglia per il decentramento portata avanti dai moderati lombardi in funzione prevalentemente anticrispina, anche le forze democratiche ripresero il tema delle autonomie regionali, che non dovevano riguardare solo il campo amministrativo, ma anche quello legislativo, in stretto rapporto con la tematica federalistica che faceva capo al pensiero di Carlo Cattaneo.

Dunque, ribadiva Papa, il governo di popolo doveva essere affiancato dal Comune di popolo e nella insistenza sul valore del Comune, focolare di libertà popolari, affiorava la sua ammirazione per Cattaneo, il grande statista lombardo, scienziato, letterato, artista.
L’avversione al siciliano Crispi spinse anche i democratici a sottolineare la componente territoriale del loro federalismo e la lotta al nemico comune sembrò avvicinarli momentaneamente ai moderati e ai conservatori nella richiesta di autonomie regionali, il cui obiettivo principale era quello di restituire ai settentrionali la guida politica del paese.

Da una parte c’è una moltitudine di gente la quale sente, senza dirlo in forma solenne, che la incredibile baraonda avente nome governo d’italia, mostro accentratore e distruggitore, confusionario o parassita, non finirà mai se non quando il regime del paese sia conforme alla storia, all’indole delle diverse regioni, all’interesse esclusivo del popolo e al senso comune.

“Stato di Milano” vuol dire la Lombardia governata dai lombardi, senza che nelle cose loro, non aventi relazione con ciò che concerne l’amministrazione generale dello Stato (armi, poste, dogane, ecc.), altri abbia diritto di mettere naso.
E quel che vuol dire “Stato di Milano” vuol dire “Stato di Piemonte, di Venezia, di Toscana, di Roma”. Ecc.

Vuol dire maggior responsabilità di chi governa, maggior libertà e dignità di chi è governato, maggiore partecipazione di tutti al governo di tutti, maggior ordine, maggiore sicurezza, maggior ragione di affetto all’Italia.

Lo stato di Milano con meno impiegati, meno militari, meno parassiti, meno corruttori, meno corrotti, meno imbroglioni, meno ladri dello Stato d’Italia – anche fatte le proporzioni – verrà senza dubbio quando verrà il giorno del giudizio.

IL MEMORANDUM DEI SOCIALISTI SICILIANI

L’istituzione del Commissariato civile per la Sicilia nel 1896 voluta dal capo del governo Antonio Ruini rappresentò l’attuazione di una particolare forma di decentramento burocratico regionale, interpretata come la prima fase di un più ampio decentramento a carattere amministrativo. Il senatore Giovanni Codronchi fu nominato Commissario civile della Sicilia con l’incarico di riordinare la situazione amministrativa e finanziaria dell’isola, in modo da allontanare il pericolo di altre esplosioni di malcontento, come quelle che avevano portato alle agitazioni dei Fasci duramente represse dal governo.

Essi affermavano che solo attraverso l’autonomia che lasciasse alla Sicilia le sue peculiarità regionali l’isola avrebbe potuto provvedere “da sé ai bisogni suoi non comuni alle altre regioni d’italia” e rimediare ai danni provocati nella società, nell’economia, nell’amministrazione, dall’imposizione del sistema di rigido accentramento imposto con l’unità.

La prima dimostrazione di quanto affermiamo ci vien data dalla vostra nomina a Commissario civile, che ricorda gli antichi viceré. Tale nomina è nuova affermazione del bisogno che ha la Sicilia di provvedere a gran parte dei suoi interessi, non comuni alle altre regioni d’italia, con un ordinamento locale, che riunisca tutta l’isola in una sola unità politica.

Non si è pensato, o forse si è troppo pensato, che la Sicilia da molti secoli – dalla dominazione romana – fu sempre governata come unità politica, e quantunque spesso riunita sotto monarchie aventi sedi lontane, mantenne i suoi ordinamenti, le sue libertà, il suo parlamento, e non fu mai disgregata e confusa con alcun altro paese. Non si è pensato che tanti secoli di governo unitario hanno creato tali legami di interessi, di tradizioni, di sentimenti, che, nonostante la varietà degli elementi che compongono la nostra popolazione, mostrano subito a chiunque anche per la prima volta visiti l’isola, come essa formi un tutto, un insieme, inscindibile, con caratteri spiccati e singolari, diversi assai da quelli di qualunque altra regione italiana. Non si è pensato come gli interessi nostri, il grado, la qualità della nostra cultura, il nostro temperamento reclamassero e reclamino provvedimenti speciali e locali.

L’accentramento politico, imponendo la fusione forzata di tutti gli interessi, e riuscendo solamente a determinare la sovraproduzione dei più forti ai più deboli, ha addossato sulle sue spalle l’enorme debito pubblico degli Stati annessi, l’ha obbligata a ricomprare per contanti (250 milioni) e con debiti (5 milioni di canone annuo) un terzo del suo territorio espropriato per conto dello Stato alle corporazioni religiose; le ha imposto un tributo di più che 25 milioni alimentano le industrie e le ricchezze altrui; e l’ha impegnata nell’enorme debito pubblica, col quale si costruivano a prezzi favolosi le ferrovie degli altri; le ha chiuso l’esportazione dei prodotti con la rottura dei trattati di commercio, che permettevano la concorrenza ai manufatti non suoi; le ha imposto di concorrere ai salvataggi e alle liquidazioni delle banche non sue, dalla Subalpina alla Romana, le ha tolto le intelligenze, e l’ha abbandonata al governo dei funzionari di prima nomina o in punizione.

IL FEDERALISMO RAZIALE
Alfredo Niceforo e Scipio Sighele

Sul finire del secolo molti uomini politici e intellettuali cedettero di aver trovato la ragione della profonda crisi che stava scuotendo le fondamenta stesse del giovane Stato unitario nell’esistenza di una questione meridionale. Per la prima volta il problema del Mezzogiorno e soprattutto del diverso grado di sviluppo delle regioni meridionali fu avvertito come un problema nazionale a cui occorreva necessariamente trovare una soluzione per evitare che tutto il paese fosse frenato dal ritardo del Sud.
Fu in questi anni che nacque ed ebbe ampia diffusione la tesi dell’inferiorità razziale dei meridionali.

Il rimedio all’errore era individuato nell’adozione di due governi diversi per le due Italie, due governi che adattassero il più possibile al grado di sviluppo e alle  caratteristiche peculiari delle due popolazioni.
Quella indicata da Niceforo era una forma di federalismo molto singolare, e non solo per il suo fondamento razziale. Le sue richieste di autonomia e decentramento riguardavano, in realtà, solo la parte più evoluta del paese, e cioè solo le popolazioni settentrionali, mentre per le società ancora bimbe e primitive del Mezzogiorno era necessario un sistema di governo fortemente accentrato, un esecutivo energico, in alcuni casi anche dittatoriale, poiché esse non erano mature per la libertà e il self government
Nonostante la forte, reciproca, influenza tra i seguaci della scuola antropologica e il movimento socialista, il quale, tra l’altro, come avrebbe poi messo in rilievo Gramsci, contribuì in misura determinante alla diffusione tra gli stati popolari del Nord della tesi dell’inferiorità razziale dei meridionali, il rifiuto di qualsiasi forma di decentramento per il Sud finiva per avvicinare, almeno sul piano politico, gli atteggiamenti dei rappresentanti della scuola antropologica a quelli dei conservatori. Non erano assai distanti, infatti, le posizioni di un Sidney Sonnino, che con il suo Torniamo allo Statuto auspicava il ritorno di un governo forte, o di un Giustino Fortunata, che temeva l’introduzione del decentramento per l’esistenza al Sud di un  vasto sistema clientelare, fonte di grande corruzione, di cui avrebbe favorito l’ulteriore crescita.

Antonio renda sulle cause dell’inferiorità dei meridionali, sostenne anche lui la necessità di un ampio decentramento amministrativo legislativo che non opprimesse le diverse realtà regionali, ma si adeguasse ai caratteri specifici, anche razziali delle varie popolazioni italiane.

I
Abbiamo visto che un abisso separa l’italia del nord da quella del sud; tutta la grande iridescenza de costumi, della vita sociale, delle credenze, si manifesta in modo diverso a seconda che si esplichi nell’Italia del settentrione o in quella del mezzogiorno. Sono veramente due Italia stridenti tra di loro, con una colorazione morale e sociale del tutto diversa.
Noi vogliamo ora mostrare che questa diversità è anche fisica, poiché l’Italia è formata da due stirpi ben dissimili tra loro, anzi di caratteri fisici e psicologici del tutto diversi.

L’Italia fu dunque divisa tra due razze: i mediterranei al sud, gli ari al nord, (suddivisi nelle due sotto varietà di proto-celti e proto-slavi) fino alla riva del Tevere.
E gli attuali ari dell’Italia settentrionale, vale a dire i piemontesi, i lombardi, i veneti, i romagnoli che appartengono a quella stirpe che venne ad invadere l’Europa primitiva, sono perciç – antropologicamente – fretelli dei tedeschi, degli slavi, dei francesi celti. Gli attuali mediterranei d’Italia del sud invece – che appartengono alla stirpe mediterranea venuta dall’Africa – sono antropologicamente fratelli degli spagnuoli, dei francesi del sud, dei greci e di gran parte dei russi meridionali. Quella parentela può forse sembrare strana ma è luminosamente dimostrata dagli studiosi di antropologia e risulta evidente dalle scoperte del Sergi.

Gli ari – vale a dire l’Italia del nord – hanno un sentimento di organizzazione sociale più sviluppato di quel che non sia presso i mediterranei – vale a dire nell’Italia del sud – i quali hanno invece più sviluppato il sentimento individualistico.

I popoli con sentimenti sociale preponderante sono più conservatori, più facili alla disciplina, all’educazione, ad ogni fatto, infine, che serva all’interesse comune, invece, i popoli con sentimento individuale più spiccato, sono facilmente ribelli, indisciplinati, e anche spesso ineducabili.

Vi sono due Italie dissimili tra loro nelle costumanze, nelle civiltà, nella razza; esse sono saldamente legate – e lo saranno per sempre – dal vincolo della coscienza nazionale, ma occorre – per adagiarle sulla incrollabile base dei fatti naturali – un buon sistema di governo che, pur senza toccare il concetto nazionale, regga e disciplini la penisola né con una sola legge, né con un solo codice, né con una sola autorità; bisogna invece saper applicare a ciascuna parte dissimile dell’organismo sociale dissimili trattamenti di governo.

Occorrono quindi due  governi diversi per le due Italie: da una parte – al sud – il regime governativo deve tendere a civilizzare e a togliere dalle mani autonomie locali inadatte al self governement le redini di amministrazioni libere alle quali non sono mature; dall’altra – al nord – concedere ampie libertà di evoluzione e di azione autonoma. A quella guisa che l’individuo, finché è bimbo, ha bisogno di guida e di maestro, ma quando ha raggiunto il suo pieno sviluppo, la più ampia libertà è condizione di miglioramento e di azione sana a proficua, così le società ancora bimbe e primitive hanno bisogno dell’azione energica e qualche volta dittatoriale di chi le strappi dalle tenebre, mentre le società evolute, sviluppate, per contro, hanno la necessità della più grande libertà e della più sana autonomia.

II
Che vi sieno, per esempio, due italia, la settentrionale e la meridionale, - differenti per razza, per storia, per costumi e per abitudini, - è uno di quegli assiomi che nessuno s’attenta a negare quando parla in privato; ma questo assioma diventa un’ipotesi, anzi un paradosso, anzi addirittura una menzogna, e una menzogna antipatriottica, quando, - invece di sussurrarlo in una conversazione, - lo si stampa in un libro o sopra un giornale.

Il pericolo vero per l’unità della nostra patria non istà nel riconoscere apertamente che essa è formata di regioni che hanno idee, sentimenti e bisogni diversi, ma consiste nell’ostinarsi a negare questa differenza e nel voler quindi governare ed amministrare nello stesso modo i cittadini di Cuneo e quelli di Siracusa, quelli di Venezia e quelli di Napoli.

Ma egli non sapeva che la vera giustizia – per i fanciulli come per gli uomini – consiste nel trattare diversamente gli esseri disuguali.

L’AUTOGOVERNO COME STRUMENTO PER L’AFFERMAZIONE DELLA DEMOCRAZIA NEL MEZZOGIORNO
Napoleone Colajanni

Il repubblicano napoleone Colajanni, mazziniano e, insieme, ammiratore e seguace di Cattaneo, medico e insieme sociologo e professore universitario di statistica, fu uno dei personaggi più estroversi e indipendenti della vita politica e intellettuale italiana negli anni tra il 1880 e il 1920.

L’inferiorità sociale ed economica del Sud era stata favorita dall’unificazione legislativa e amministrativa, che ben poco aveva avvantaggiato i meridionali.

Solo una repubblica federale, in cui fosse attuato il più largo decentramento attraverso un sistema d’integrale autogoverno regionale e comunale, avrebbe potuto spezzare il rapporto di asservimento e di corruzione che legava le popolazioni siciliane e meridionali al potere centrale e alle clentele locali.

Il federalismo diventò così per Colajanni, proprio mentre si accentuava la polemica tra Nord e Sud, lo strumento più adatto per risolvere il problema dell’inferiorità del Mezzogiorno, non provata dalla razza, ma dal centralismo monarchico che aveva favorito solo il Nord e non aveva impedito che il Sud fosse trattato dai “fratelli” del Settentrione come una colonia di sfruttamento.

Sin dal primo discorso della Camera – in Gennaio 1891 – non mancai di dichiararmi quale sono stato e rimango, quale mi professai nei Comizi per non rubare voti, nascondendomi e camuffandomi sotto mentite spoglie, cioè: discepolo convinto di Cattaneo e di Ferrari, di Rosa e di Mario, e sin d’allora provocando rumori e proteste, affermai che il mezzogiorno agricolo era stato sacrificato al settentrione industriale.

E sempre ribattei su questo chiodo: gli italiani sono diversi tra loro, più che non lo siano i francesi e i tedeschi – che pur conservano ordinamenti federali -; ed essendo diversi non possono vivere bene e svolgere rapidamente sotto l’attuale mastodontica unità. Ai discorsi parlamentari aggiunsi la propaganda nella Rivista popolare. Dove, tra le tante, una volta esaminando il grande equivoco – l’unità d’italia – così conclusi: “Gl’Italiani erano diversi per dati antropologici, per gl’interessi, per la coltura, per la moralità, per le tendenze, per lo sviluppo industriale, per le tradizioni e li si volle riunire sotto un regime rigidamente unitario. Necessariamente il malessere non tardò a sopraggiungere ed oggi tutti di dolgono dell’unità, cui attribuiscono anche quelle conseguenze che non le spettano … comunque, oggi, forse non potremmo fare ritroso calle; ma i temperamenti s’impongono e se vogliamo salvare l’italia dobbiamo preoccuparci dell’accentramento unitario e non renderlo, com’è, sinonimo di uniformità malefica; se vogliamo salvare l’unione dalle forze italiane molto dobbiamo cedere e concedere all’idea federale.” Né questa grande diversità tra gl’Italiani delle diverse regioni era una scoperta mia? Tutt’altro. Iacini nelle conclusioni sull’Inchiesta agrarum constatò, che in italia c’era tale varietà di coltura determinata dalle varietà delle condizioni naturali quanta potevasi osservarne scendendo dalla Norvegia all’Andalusia; Aristide Gabelli affermò che tra Piemontesi e Siciliani le differenze antropologiche erano più spiccate, che tra Italiani e Scandinavi il generale Marselli, infine, trovò che due civiltà vivevano contemporaneamente in italia: la militare e la industriale, e che nel mezzogiorno c’è la costanza della tradizione monarchica, che manca al settentrione.

Alla cresciuta coscienza del disagio unitario si deve il sorgere e l’azione dei Comitati regionali della Lombardia, del Piemonte e del Veneto per il decentramento, dei quali facevano o fanni ancora parte i monarchici di quattro cotte di tutte le gradazioni – dai più rigidi conservatori ai più avanzati democratici.

E questo esame condusse molti, che per lo passato non se n’erano accorti o non lo avevano detto, a riconoscere che gl’italiani sono diversi tra loro e non vivono di buon accordo sotto la cappa di piombo dell’unità.

IL MODELLO SVIZZERO
Ettore Cicotti

Anche il socialista Ettore Ciccotti rispose ai quesiti dell’Inchiesta di Antonio Renda, rifiutando però decisamente qualsiasi spiegazione che facesse derivare dalla razza il più lento sviluppo del Mezzogiorno.

Nel lasciare il Sud in una situazione di arretratezza lo Stato accentratore aveva avuto in una situazione di arretratezza lo Stato accentratore aveva avuto un ruolo di primo piano, sicché l’unità d’Italia, affermava Ciccotti, “Non si era volta proprio a beneficio della parte meridionale … L’Italia unita era diventata il grande mercato della sua regione industriale.

Al posto del bastardo decentramento di cui allora si discuteva, Ciccotti proponeva un ordinamento federale del tipo di quello svizzero, che egli aveva avuto modo di conoscere da vicino durante un periodo di esilio che vi aveva trascorso dopo i moti del 1898.

Raccogliere tutte le forze del paese e imprimere ad esse unità d’indirizzo dove l’unità è richiesta dall’interesse di tutti e dalla natura delle cose; dirigere e accordare l’azione de cantoni, dove la loro cooperazione s’impone; eliminare o dirimere i conflitti tra i vari membri della confederaizone, lasciando a loro di svolgersi secondo il genio, le tradizioni, i costumi, i bisogni locali, dove l’intervento della confederazione non sia indispensabile; realizzare tutto un sistema di contrappesi e di mutui limiti e controlli per assicurare alle minoranze e agl’individui un’efficace guarentigia contro l’oltrepotenza delle maggioranze: ecco i criteri a cui sembra informarsi la costituzione e che risolvono l’assurdo giuridico di due sovranità in un provvido ordinamento politico-amministrativo, atto a suscitare e fecondare tutte le energie.

LA QUESTIONE MERIDIONALE E IL FEDERALISMO
Gaetano Salvemini.

Anche per il Salvemini degli anni tra ottocento e Novecento il federalismo ebbe soprattutto carattere politico-territoriale.

Già nel 1899 Salvemini era intervenuto nel dibattito sulla questione meridionale sollevato dall’inchiesta di renda chiedendo un “larghissimo e radicale decentramento amministrativo” che togliesse dalle mani del governo centrale l’istruzione, l’amministrazione finanziaria , la politica e l’esercito, lasciandogli soltanto la politica estera, la politica monetaria, la legislazione civile, criminale e commerciale.

La scelta federalistica di Salvemini era legata soprattutto al problema meridionale: essa era vista come “l’unica via” per la soluzione; egli, infatti, negava ogni efficacia al regionalismo (“le contese grette e pettegole fra le regioni della stessa patria a base di dare e avere, di stradicciuole concesse, di preture negate, di imposte ineguali, di spese mal distribuite”), e vedeva, invece, nell’autonomia il punto di partenza per arrivare al federalismo. Il primo passo da compiere era un federalismo “amministrativo”, cioè un sistema di federazioni regionali di Comuni che dovevano occuparsi “di tutti gli affari che non erano d’interesse davvero generale”.

Salvemini riteneva che lo sfruttamento economico del Sud si conciliasse senza difficoltà con il ministerialismo dei deputati meridionali, perché il Sud non era un blocco omogeneo: al suo interno c’erano latifondisti, piccoli borghesi e contadini. Il federalismo, secondo Salvemini, sarebbe servito non solo a spezzare il blocco reazionario-conservatore tra Nord e Sud, ma anche, all’interno del Sud, a togliere il potere ai latifondisti: “Date … all’italia meridionale una costituzione federale. E poi sappiatemi dire a che si ridurrà dopo qualche anno il potere politico dei latifondisti.

La ricchezza del Sud, inoltre, grazie al decentramento amministrativo, non sarebbe emigrata al Nord, ma sarebbe rimasta nel meridione e avrebbe potuto essere impiegata nell’agricoltura e nell’industria. In pochi anni il Mezzogiorno, grazie al federalismo, sarebbe diventato nella vita italiana “un magnifico elemento di progresso”.
Non si comprende, però, il federalismo di Salvemini senza tener conto del suo progetto di alleanza tra gli operai del Nord e i contadini del Sud, che ne costituiva allora l’elemento caratterizzante.

Il federalismo scriveva Salvemini è utile economicamente alle masse del Sud, politicamente ai democratici del Nord, moralmente a tutta l’Italia.

I nordici disprezzano, come dicon essi, i sudici; e i sudici detestano con tutta l’anima i nordici; ecco il prodotto di quarant’anni.

Il regionalismo si presta invece molto bene allo scopo: bisogna approfittare dell’ostilità, che i meridionali di tutti i partiti sentono acuta verso i settentrionali, bisogna far leva sugli interessi regionali, trasformando la lotta fra democrazia e reazione in lotta tra Nord e Sud. Distratti dal miraggio di scuotere l’oppressione dei settentrionali, gli stessi democratici e socialisti del Sud – la cui coscienza politica è purtroppo appena in via di formazione – dovranno unirsi ai conservatori meridionali.

Sarà una nuova unità a profitto del Sud, che comincerà a sfruttare il nord. Ma che importa? Il “porro unum necessarium” è che si salvino le istituzioni, cioè che si salvi l’attuale impalcatura politica amministrativa, condizione indispensabile al predomini delle consorterie conservatrici del Nord e del Sud.

L’italia meridionale è oggi, di fronte all’Italia settentrionale, quello che era prima del 1859 il Lombardo-Veneto di fronte agli altri paesi dell’Impero austriaco. L’Austria assorbiva imposte dall’Italia e le versava al di là delle Alpi; considerva il Lombardo-Veneto come il mercato naturale delle industrie boeme; con un sistema doganale ferramente protezionista impediva lo sviluppo industriale dei domini italiani. E i Lombardi erano allora ritenuti fiacchi e privi d’iniziativa, ed era ormai ammesso da tutti che il popolo lombardo era “nullo”. Cristina Belgioioso pubblicava degli Studi su la storia di Lombardia, nei quali cercava di spiegare “il difetto di energia nei Lombardi”; e gli scrittori d’oltralpe spiegavano le condizioni arretrate dell’Italia con la inferiorità della  razza. Non altrimenti oggi degli sciocconi, camuffati da antropologi, vanno nel Sud, misurano un centinaio di nasi, contano le rughe dei polpastrelli delle dita destre, studiano le forme dei coccigi e ne ricavano la inferiorità della razza meridionale di fronte alla settentrionale.

In generale, per tutte le spese dello Stato, unica via a impedire gli spostamenti artificiali di ricchezza è che lo Stato faccia il minor numero di spese possibile. Lasciate ai Comuni e alle federazioni regionali di Comuni la cura della viabilità, delle acque, della giustizia, dell’istruzione, dell’ordine pubblica, delle finanze, di tutto ciò che non è politica estera, politica doganale, politica monetaria, di tutti gli affari insomma che non sono d’interesse davvero generale.

Volete uccidere il regionalismo? Uccidete il tronco, su cui il parassita vive, uccidete l’unità amministrativa. Il federalismo è l’unico antidoto del regionalismo.
Il federalismo è non solamente l’unico sistema amministrativo, che possa eliminare ogni artificiale squilibrio finanziario ed economico fra le singole regioni italiane, ma è anche l’unico mezzo adatto a fiaccare la reazione, alla quale l’italia meridionale offre oggi la più solida base.
L’Italia meridionale è stata sempre, dal 1860 ad oggi, il serbatoio delle maggioranze ministeriali; è in grazia dei deputati meridionali, quasi tutti eternamente ministeriali, che  si regge l’attuale ordinamento politico. Ora, una domanda che nasce naturalmente dal confrontare l’eterno ministerialismo del Mezzogiorno con l’eterno sfruttamento di cui il Mezzogiorno è vittima è questa : come mai l’Italia meridionale, sfruttata dal governo unitario, lungi dal ribellarsi, manda alla camera sempre maggioranze unitarie? Come mai fu proprio un meridionale, il Crispi, a introdurre, nel 1887, le tariffe protezionistiche, rovinando l’agricoltura del Sud a vantaggio delle industrie del Nord? Sarebbe questo nella storia il primo esempio di un paese, che non solo subisce la propria rovina, ma la approva e la promuove, facendosi sostenitore di un governo che ne è lo strumento.

Quando si discute della cosidetta italia meridionale, bisogna sempre distinguere se si parla dei latifondisti o dei minuti borghesi o delle plebi rurali; perché quel che si dice degli uni non è in alcun modo applicabile agli altri, e viceversa.
L’attuale regime, se da una parte opprime la gran maggioranza della popolazione, riesce invece a tutto vantaggio della minoranza nobile e latifondista, la quale ha quindi tutto l’interesse a conservare lo “statu quo” e a difendere con le unghie e con gli artigli le felicissime istituzioni presenti.

E poi sappiatemi dire a che si ridurrà dopo qualche anno il potere politico dei latifondisti. Pochi di numero, ignoranti e disadatti a qualunque serio lavoro, absebteisti e sconosciuti da tutti i loro sottoposti, privi della stessa forza materiale – ultima difesa delle classi conservatrici – dovrebbero presto o trasformarsi o perire.

La differenziazione tra le funzioni amministrative, affidate ai Comuni autonomi e alle federazioni regionali autonome, e la funzione politica, affidata al Parlamento nazionale, renderebbe sana, onesta, sincera anche e soprattutto la politica del governo centrale.

La coscienza che il federalismo è l’unica via per la soluzione della questione meridionale è molto più diffusa di quanto non si saprebbe sperare.
Il federalismo è utile economicamente alle masse del Sud, politicamente ai democratici del Nord, moralmente a tutta l’Itali.

Mentre i regionalisti unitari gridano, per i loro fini occulti, che tra il Nord e il Sud vi è la lotta d’interessi, i federalisti debbono gridare che non è vero: non vi è lotta fra Nord e Sud: vi è lotta fra le masse del Sud e i re azionisti del Sud; vi è lotta fra le masse del Nord e i reazionari del Nord, e come i reazionari del Nord e del Sud, così le masse delle due sezioni nel nostro paese debbono unirsi per sconfiggere a fuochi incrociati la reazione.

LA SOLUZIONE POLITICA DELLA QUESTIONE MERDIONALE
Arcangelo Ghilseri

Agli inizi del nuovo secolo la questione meridionale era ancora al centro del dibattito politico. Nel tentativo di risolverla, il governo aveva imboccato la strada della “legislazione speciale”.

In questa prospettiva, anche il ricorso alla legislazione speciale non avrebbe potuto ottenere nessun risultato positivo se non fosse stato il frutto dell’attività di “Assemblee legislative regionali, libere e sovrane per tutto che riguarda gl’interessi locali, i quali non fossero in contrasto cogl’interessi generali della nazione.

I suoi legami con Salvemini e Colajanni erano perciò diventati assai stretti e li portarono a condividere la tesi del carattere politico della questione merdionale: essa risaliva alle origini del sistema unitario e “involgeva direttamente il sistema politico dello Stato italiano”, cioè il “regime unitario monarchico e costituzionale.

“La prima spinta ad ogni rinnovamento deve venire dagli interessati – questo anche il Nitti afferma replicatamente con onesta franchezza. I meridionali devono cessare dallo sperare sempre e solo nel Governo.

Domandate l’iniziativa degl’interessati, senza offrir loro gli strumenti legali per tradurla in pratica di opere efficaci; domandare la legislazione speciale senza creare l’organo speciale che la elabori, la promulghi e vigili alla sua esecuzione – è domandare una funzione senz’organo, è domandare l’assurdo, è far del verbalismo inconcludente, è pigliare a gabbo i meridionali e il grave problema di cui si ostenta cotanta considerazione.
La legislazione speciale invocata, non sarà utile, vigile, proporzionata alle attitudini e ai bisogni delle popolazioni, per cui è fatta, se non allorquando uscirà da Assemblee legislative regionale, libere e sovrane per tutto che riguarda gl’interesse locali, i quali non siano in contrasto cogl’interessi generali della nazione.

Poiché bisogna avere l’onesto coraggio e la patriotica fiducia di affermare, che soltanto gl’interessi avrebbero la competenza, la perseveranza e lo spirito di sacrificio necessari a promuovere e attuare i rimedi.
Non dunque intervento ma emancipazione dal Governo.

Un’obbiezione nuova, che io medesimo mi propongo, la quale parrà forse a moltissimi di voi la più grave e la più seria, è quella del come passare dal regime attuale al regime federativo?
Rispondo senza esitare: - Non si può passare dall’uno all’altro sistema, se non per volontà e richiesta delle stesse regioni più interessate.

A noi non ispettano che due doveri. Il primo, si è di riconoscere oggi, senza ipocrite e convenzionali reticenze, senza pavide od ostentate preoccupazioni, questa verità fondamentale: che col regime attuale nessuna soluzione è possibile – ma che tutte le soluzioni migliori dei problemi speciali, siano agricoli, finanziari, morali, giuridici e sociali, diverrano possibili o tentabili efficacemente sol quando (salvi i doveri, fissabili dalla Costituente, verso l’organo centrale dell’Unità Nazionale) verrà instaurata fra quelle popolazioni, contemporaneamente che per noi, la padronanza di se stesse.
L’altro dovere nostro sarà di secondare e aiutare consapevolmente tutti gli sforzi, che le popolazioni del Sud venissero facendo per ottenere quelle autonomie legislative e amministrative, della cui necessità noi siamo persuasi.

CONTRO LA “GUERRA REGIONALISTA”
Luigi Sturzo

Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del nuovo secolo anche tra i gruppi cattolici il problema del decentramento amministrativo regionale fu vivamente avvertito: nel 1900 sia Giuseppe Toniolo che Romolo Murri si batterono apertamente per esso, sostenendo la necessità di ampie autonomie regionali che rinvigorissero la vita degli enti politici locali.

In un articolo pubblicato nell’aprile del 1901 sul “Sole del mezzogiorno”, scrivendo contro l’accentramento statale e l’uniformità tributaria e finanziaria, Sturzo propose come rimedio “un sobrio decentramento regionale, amministrativo e finanziario e una federalizzazione delle varie regioni, che lasciasse intatta l’unità di regime” (in L. Sturzo, mezzogiorno e classe dirigente, a cura di G. De Rosa, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1986). Ma nel dicembre dello stesso anno, pur ribadendo l’unità d’italia, come risultante dalle varie tendenze delle vite diverse delle sue regioni”, affermò: “Io sono unitario, ma federalista impenitente, una decisa professione di fede, espressa però in maniera molto generica.
Fu la particolare attenzione ai problemi dei contadini e dell’agricoltura a spingere Sturzo verso la richiesta di una maggiore autonomia per la Sicilia e il Mezzogiorno, perché vedeva proprio l’accentramento dello Stato” e l’uniformità tributaria come le cause maggiori dell’inferiorità del Sud, oltre all’assenza di una educazione politica delle popolazioni meridionali.

E’ inutile illuderci: Nord e Sud abbiamo interessi antagonistici, ed esercitiamo l’uno a danno dell’altro la concorrenza e il monopolio ; ci serviamo delle camarille locali e degli intrighi di gabinetto; tentiamo strappare una concessione per ferire o per avere pronta l’arma a ferire.

Eccoti i piemontesi, quelli che più hanno usufruito della unità d’italia, quelli che economicamente e moralmente divennero per certo tempo i padroni d’Italia, a protestare e a fare del chiasso.
La questione è li: noi siamo regionalisti; la nostra politica dev’essere regionalista, la nostra finanza, la nostra economia, la nostra amministrazione, tutto deve corrispondere alle regione.
La Sicilia ai Siciliani, una nuova dottrina di Monroe, deve essere la base di un vero movimento politico siciliano.
Non vogliamo la secessione dalla madre patria; ma vogliamo da noi curare i nostri interessi.

La nostra autonomia è un’ideale che sembra irraggiungibile, ma che dovrebbe esser base d’un partito veramente siciliano e veramente patriottico.

Sarebbe il momento di iniziare la formazione di un partito siciliano, a cui aderirebbero tutti gli altri partiti, con la bandiera di autonomia amministrativa e finanziaria, e col carattere di lotta al governo centrale.
I fieri siciliani di un tempo si ricordino che questa terra non è nata per servire, ma ha servito quasi sempre, per la vigliaccheria dei suoi figli.




Parte terza
IL PROBLEMA DELLA RIFORMA DELLO STATO DAL PRIMO DOPOGUERRA ALLA CADUTA DEL FASCISMO.

IL REGIONALISMO CULTURALE
Giovanni Crocioni

Nel 1914, alla vigilia della guerra, apparve a Catania un volumetto di Giovanni Crocioni su Le regioni e la cultura nazionale che fu accolto da Augusto Monti sulla “Voce” come la manifestazione di un nuovo regionalismo.

Il neoregionalismo insomma non era “la regione che rinasce , ma era piuttosto “la regione che muore” o per lo meno la regione che cessa di esistere solamente come regione, per incominciare a vivere anche e soprattutto come elemento della nazione.

Per Crocioni, infatti, il regionalismo consolidava e cementava l’unità, e perciò non era più necessario commettere lo stesso errore fatto al momento dell’unità, quando, per paura di velleità separatistiche, si era voluto uniformare la cultura, e non la cultura soltanto. Occorreva, invece, sviluppare gli aspetti regionalistici della civiltà italiana, che proprio nelle regioni trovava il suo fondamento sia per peculiarità geografiche sia per tradizioni storiche.

Per Crocioni le regioni italiane erano profondamente radicate su peculiarità geografiche, storiche, etniche che avevano dato loro impronta specifica alla cultura italiana nelle sue più varie manifestazioni.

DECENTRAMENTO O FEDERALISMO?
Gino Luzzatto e Gaetano Salvemini

La prima guerra mondiale diede una forte spinta ai processi di trasformazione della società italiana e la crisi che investì le sue strutture fondamentali fece tornare al centro del dibattito anche il problema dell’assetto politico-istituzionale dello Stato. Il contemporaneo risveglio delle tendenze regionaliste e autonomiste, che ricoprivano durante ogni periodo di crisi, moltiplicò le richieste di autonomie regionali, viste come condizioni necessarie di un profondo rinnovamento dello Stato liberale.

Col semplice decentramento amministrativo degli enti locali avrebbero continuato a dipendere almeno sul piano finanziario, dal potere centrale. A suo avviso, per distruggere l’accentramento burocratico, era necessaria l’istituzione di organismi regionali dotati di larghissima autonomia.

Nella Postilla che fece seguire all’articolo di Luzzatto, Salvemini volle precisare che, nella lotta contro l’accentramento, il decentramento amministrativo doveva essere accompagnato dalla ricostruzione delle autonomie locali, ma, per ottenere questo risultato che egli assimilava al federalismo, non occorreva creare le regioni, giudicate organismi inesistenti istituiti con atto autoritario dal governo, ma ricorrere al potenziamento dei comuni e delle provincie. Solo se fossero state espressioni di esigenze specifiche delle masse popolari, si sarebbe potuti anche arrivare alla creazione di formazioni più ampie come quelle regionali. 

In un articolo apparso sull’Unità nell’aprile 1920 anche Salvemini accettò l’idea di federazioni regionali dotate di poteri legislativi.

Per tutto ciò la creazione d’organi rappresentativi ed amministrativi regionali con autonomia larghissima e con l’assorbimento di quasi tutte le attribuzioni attuali dello Stato può considerarsi come il mezzo efficace per distruggere l’accentramento e l’elefantiasi del potere burocratico.

Se si è convinti che la necessità più urgente della nostra vita pubblica è quella di distruggere l’accentramento burocratico, si deve anche riconoscere che questa distruzione rappresenta una vera e grande rivoluzione che sposterebbe e sconvolgerebbe una rete formidabile di interessi.

Quel che, invece importa soprattutto è che la intera burocrazia statale, centrale e provinciale, sia spossessata di molte delle attuali funzioni. E’ questo spossessamento deve avvenire a favore di enti locali, elettivi, indipendenti dalla burocrazia statale, e forniti delle risorse finanziarie corrispondenti alle nuove funzioni, dallo Stato e agli enti locali.
Insomma bisogna distinguere il decentramento amministrativo dalla ricostruzione delle autonomie locali o federalismo che dir si voglia.
Il federalismo oppone le autonomie locali alla burocratizzazione statale; il decentramento oppone gli organi provinciali dell’amministrazione statale ai ministeri.

Il problema da risolvere è se la ricostruzione delle autonomie locali o federalismo debba avvenire sotto la forma di regionalismo, oppure se il trasferimento delle funzioni e delle entrate finanziarie statali debba avvenire a vantaggio dei comuni e delle provincie. Io sto per questa seconda soluzione: perché i comuni e le provincie già esistono, mentre le regioni sono organismi inesistenti. I comuni e le provincie sono, certamente, organismi deboli e modesti, oggi.

Io, infatti, ritengo che le provincie attuali, arricchite di funzioni e di redditi e rese perfettamente autonome, debbono, nella loro incondizionata economia, avere facoltà non solo di consorziarsi per intraprese d’interesse comune (lavori pubblici, istruzione inferiore e medi, ecc.), ma addirittura di fondersi in amministrazioni regionali più vaste e più complesse.
Ma questi consorzi e queste fusioni debbono nascere da bisogni locali, essere volute dalle amministrazioni autonome locali, e non deliberate e designate a priori dal Parlamento centrale.

IL FEDERALISMO COME RIMEDIO ALLA DISSOLUZIONE
Oliviero Zuccarini

Con Oliviero Zuccarini il movimento repubblicano conquistò una posizione di primo piano nella lotta contro lo Stato accentratore: seguendo la strada indicata da Cattaneo e Ferrari, esso si confrontava ora con i nuovi problemi nati nel primo dopoguerra sotto la spinta della crisi che minava le fondamenta stesse dello Stato liberale.

Nell’articolo Le linee programmatiche, egli affermò esplicitamente il carattere federalista e regionalista della rivista e la sua scelta di campo repubblicana.

Per Zuccarini il termine di decentramento andava integrato con quello di unità federale, da cui sarebbe nata una migliore unità, che fosse a tutti benefica, che non riuscisse di peso e di sacrificio a nessuno: l’ordinamento federale non contrastava l’unità nazionale, ma ne era una più sicura garanzia, anche se – egli precisava – non si sarebbe trattato di innestare una nuova riforma sull’ordinamento preesistente, ma di procedere alla costruzione dello Stato nuovo. Un vero e proprio modello di Stato regionale e federale fu delineato da Zuccarini nell’aprile del 1922 nel saggio che qui riproduciamo.

La fiducia nello Stato provvidenza, propulsore e moltiplicatore di attività produttive e commerciali, regolatore della vita sociale, non esiste più.

Già nel periodo del nostro Risorgimento Cattaneo e Ferrari intesero esattamente la inconciliabilità di questi due termini: accentramento e libertà.

Il risultato dell’Unità accentratrice è stato così – precisamente come Cattaneo e Ferrari avevano previsto – quello di un annullamento progressivo di libertà. L’appunto fondamentale che si faceva al centralismo era quello che la legge unica toglieva al Parlamento unico la competenza necessaria a trattare e decidere ogni genere di affari.

Man mano che il movimento dell’accentramento progrediva intensificandosi, il potere del Parlamento si riduceva. Oggi è quasi nullo. Il Governo stesso è prigioniero del sistema; è costretto ad agire in conformità di situazioni e di organismi che si sono formati indipendentemente dagli interessi e dalle volontà popolari. La sovranità effettiva, anziché appartenere alla collettività dei cittadini, appartiene di fatto ad un ristretto gruppo di categorie parassitarie che sovrappongono costantemente i loro interessi particolari di gruppo e di categoria a quelli generali della nazione. La burocrazia ha sullo Stato una sovranità più vera ed elettiva di quella del parlamento.

Democrazia e sovranità di popolo, e perché esista deve potere effettivamente esercitarsi sulle cose. L’accentramento esclude, invece, assolutamente tale possibilità.

 Non in altri termini si pone il problema nel suo lato economico. Ed è anche qui una questione di libertà. Una delle spinte maggiori al centralismo è precisamente venuta dalla illusione che lo Stato potesse utilmente sostituirsi alla iniziativa privata in tutti i campi ed in un infinito numero di faccende. Statalismo e protezionismo hanno operato nello stesso senso e con gli stessi effetti e sono il prodotto della stessa pretesa e della stessa illusione. Tra l’uno e l’altro i rapporti sono inestricabili.

Gli effetti sono naturalmente questi: distruzione progressiva dei capitali nazionali accumulati pel lavoro d’innumerevoli generazioni, diffusione delle tendenze parassitarie. Nessuno si interessa più di produrre, ma ciascuno lotta per conquistarsi nello Stato una posizione privilegiata a danno della collettività.
Rompere l’accentramento statale non è solo una esigenza politica, ma altresì una esigenza produttiva.

L’accentramento figlierà il protezionismo – il protezionismo figlierà l’accentramento. Tutte le libertà sono solidali ed è uno solo il problema della libertà.

Solo un ordinamento in cui le autonomie, le libertà, le indipendenze economiche siano ben garantite, in cui l’intervneto statale non possa riuscire a turbare le tendenze e le iniziative spontanee, può liberare la nazione dagli interessi parassitari che l’anemizzano.

Per raggiungere tale ordinamento non basta che lo Stato riduca i suoi organi, le sue funzioni e le sue attribuzioni, occorre altresì che al potere unico, alla uniformità delle leggi si sostituisca la pluralità dei poteri e la varietà delle leggi.

 L’ordinamento nuovo non potrà peggiorare su altre basi che non siano regionali e federali.
La Federazione suppone reciprocità di consensi per unità d’interessi di fini.

La Regione è mezzo per arrivarvi.
Dicendo Regione intendiamo fissare una precisa delimitazione di poteri politici amministrativi. L’Italia è regionale nel clima, nella natura, nello spirito, nelle abitudini, negli interessi. Regionale, cioè varia, straordinariamente varia.

LA REGIONE
Luigi Sturzo

Dopo la fondazione del partito popolare italiano, Luigi Sturzo riprese i temi dell’autonomismo e del regionalismo su cui era già intervenuto agli inizi del secolo, quando aveva sostenuto soprattutto la causa del potenziamento delle autonomie.

La regione delineata ora da Sturzo non aveva più alcun rapporto con le sue precedenti aspirazioni al federalismo; egli, infatti, scrisse esplicitamente che “lo stato italiano era unitario, non federale” e sostenne che l’istituzione della regione come ente autonomo non solo non indeboliva la sua struttura unitaria, ma ne rafforzava la capacità d’intervneto nelle sue funzioni fondamentali.

Egli respinse nettamente l’opinione di quanti ritenevano che le regioni fossero costruzioni artificiose, senza precedenti storici; a suo avviso, invece, la regione esisteva come unità specifica di lingua, di storia, di costumi, di affinità, e ne individuò ventuno.

La regione doveva essere un “ente elettivo-rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo, sommando in se stessa tutti gli interessi elettivi locali dentro i limiti del proprio territorio. A essa si doveva arrivare attraverso elezioni a suffragio universale, esteso anche alle donne, e tenuto con sistema proporzionale. I suoi poteri dovevano riguardare sia il campo amministrativo sia quello legislativo, relativamente ai settori di competenza ad esse assegnati, dei quali avrebbe dovuto occuparsi con “propria amministrazione, finanza e responsabilità”. Il suo campo d’azione doveva estendersi ai lavori pubblici, alla scuola, all’industria, al commercio, all’agricoltura, al lavoro, all’assistenza e all’igiene. In questo modo si sarebbe potuto combattere “l’invadenza della burocrazia statale e l’eccessivo accentramento dell’amministrazione dello Stato.

Si seguiva in ciò quasi inconsciamente quell’indirizzo che la politica burocratica italiana ha assunto come suo speciale compito: svuotare, cioè, l’amministrazione libera ed autonoma di ogni compito specifico, rendere i controlli amministrativi e contabili strumento politico, ridurre a semplice attività dipendente dallo Stato, quella che doveva essere manifestazione e attività amministrativa libera e responsabile.

Né è serio l’altro timore, affermato anche recentemente sopra una rivista, che il movimento regionale disgreghi lo stato; secondo noi lo rafforza nella sua caratteristica statale eliminando la debolezza organica dell’accentramento amministrativo. Certo noi non neghiamo, anzi confermiamo la nostra tendenza politica espressa nell’appello del paese del 18 gennaio 1919 in questi termini: “Ad uno stato accentratore, tendente a limitare e regolare ogni potere organico e ogni attività civica, vogliamo sul terreno costituzionale sostituire uno stato veramente popolare, che riconosca i limiti della sua attività, che rispetti i nuclei e gli organismi naturali – la famiglia, le classi, i comuni – che rispetti la personalità individuale e incoraggi le iniziative private.

Ecco perché in italia si può parlare di regioni, non come una eventuale o burocratica o sistematica divisione di territorio, ma come una regione geografica, storica e morale, come una realtà esistente e vivente nell’unità nazionale e nella compagine statale.

Io sostengo che la regione da far sorgere deve essere sana, valida, completa, e quindi con la caratteristica fondamentale di ente elettivo-rappresentativo, autonomo-autarchico, amministrativo-legislativo, sommando in se stessa, tutti gli interessi collettivi locali dentro i limiti del proprio territorio.

L’AUTONOMISMO COME STRUMENTO DI LOTTA POLITICA
Guido Dorso

La scelta dell’autonomismo fu dettata a Guido Dorso da motivazioni di carattere politico: come scrisse nella Rivoluzione meridionale (1925), si trattava di “un sistema ed un metodo di lotta esclusivamente politico”. Egli dava così esplicitamente un carattere strumentale al suo autonomismo, distinguendo nettamente sia dal federalismo che dal regionalismo, di cui non condivideva le motivazioni e gli obiettivi e che, almeno in quella determinata fase storica, avrebbero potuto, a suo avviso, ostacolare con i loro”pregiudizi costituzionali ed istituzionali” la meta finale da raggiungere grazie all’autonomismo: completare la rivoluzione liberale del Risorgimento anche a vantaggio delle popolazioni meridionali.

Nell’ambito della rivoluzione nazionale che avrebbe dovuto porre fine alla politica trasformista iniziata con la “conquista regia”, l’autonomia regionale aveva un ruolo di primo piano sia per contrastare l’accentramento statale sia, e soprattutto, per spezzare il blocco agrario meridionale e l’immobilismo politico del Mezzogiorno.

Forse uno dei sintomi maggiori dell’immaturità italiana è stato l’assenza di particolarismo politici pur dopo l’unificazione di sette stati indice questo, che, all’infuori del Piemonte, in nessun’altra regione d’Italia era maturata una classe politica nettamente definita, e che l’unità dell’azione statale restò lungamente affidata soltanto alla burocrazia.

Ma appunto queste comuni benemerenze e questi sacrifici danno oggi diritto alle genti meridionali di esigere la distruzione del vecchio organismo economico-politico, attraverso cui le oligarchie del nord sono riuscite a creare una vera e propria dittatura ai danni del Mezzogiorno, dissanguandolo economicamente e non educandolo politicamente.

La soluzione del problema meridionale quindi non potrà avvenire se non sul terreno dell’autonomismo. Ogni altro tentativo o ci conduce nel vecchio schema della carità statale o minaccia sbalzarci nel separatismo.

L’autonomismo dovrà rappresentare il più profondo e serio tentativo di capovolgere in tutti i campi la basi storiche dello Stato , per completare la rivoluzione liberale del Risorgimento anche a vantaggio delle popolazioni meridionali, e perciò potrà pervenire sul terreno delle riforme federaliste o regionaliste, senza però che questi obiettivi debbano essere posti all’inizio dell’azione come mete da raggiungere ad ogni costo.

Queste considerazioni ricevono più ampia conferma, quando si rifletta che la colorazione federalista o regionalista di un futuro partito autonomista potrebbe complicare notevolmente i rapporti con altri partiti che offrissero la collaborazione nella lotta contro lo Stato storico.

Del resto un partito autonomista già esiste ed ha dato non dubbie prove di vitalità: il Partito sardo d’Azione.

Specialmente il Partito sardo ha dimostrato una vitalità irresistibile che il fascismo non è riuscito a fiaccare.

L’esperimento può dirsi confortante e fa sperare che non sia assai distante il momento in cui la questione meridionale diverrà l’epicentro della rivoluzione italiana, conferendole quella concretezza, di cui hanno finora difettato tutti i movimenti affiorati dal caos della nostra storia postbellica.
Tuttavia, se il Partito sardo d’Azione costituisce la formazione d’avanguardia della futura azione autonomista, e la sua intransigenza contro gli eventi più eccezionali ci consolida nella convinzione che profondamente antitrasformisti, non bisogna nascondersi che questo luminoso esempio rimarrà assolutamente sterile se non riuscirà ad estendersi nella Sicilia e nel mezzogiorno continentale, magari attraverso una federazione di partiti regionali, che riflettano nell’unità dell’azione meridionalista la diversità delle singole situazioni locali, senza mutilazioni arbitrarie o compressioni dannose.

L’AUTONOMISMO SARDO
Camillo Bellieni

Le critiche all’accentramento e le rivendicazione di forme di autonomia che andassero dal semplice decentramento regionale di tipo amministrativo al più ampio decentramento politico del primo dopoguerra, trovarono espressione concreta nella nascita in Sardegna di un consistente movimento autonomista.

L’autonomismo non era inteso da Bellieni come semplice forma amministrativa, ma come primo passo verso l’istruzione di uno Stato federale. Un momento intermedio era individuato nella creazione dell’ente regione, che doveva avvenire solo se fosse stata proposta “dal basso” e non imposta dal governo centrale.

Autonomia è per noi sardi, ed analogamente vogliamo per tutti gli italiani, rivendicazione della nostra individualità, continuazione di una tradizione di secoli, ricerca di una norma comune per l’azione futura di tutti i nati in Sardegna. Consapevolezza di noi stessi per inserirci consapevolmente nell’azione italiana.

A chi chiede che cosa intendiamo noi per autonomia della sardegna, noi risponderemo: “autonomia è per noi completo trionfo dello spirito in Sardegna.

Fare organi della battaglia gli enti locali esistenti: comuni e provincia. Conquistarli, e violentemente reclamare dallo stato maggiori attribuzioni e maggiori responsabilità, reclamare l’aumento dei propri cespiti l’imposizione tributaria, togliendoli alla burocrazia centrale. Strappare ogni giorno nuove attribuzioni a Roma, in modo da far sentire ad essa l’inutilità del suo controllo, della sua ingerenza, di gran parte delle sue funzioni. Conquistare altresì la facoltà di liberamente consorziarsi per provvedere organicamente ed unitariamente ai problemi regionali; ecco il punto d’appoggio per la creazione dell’ente regione.

E’ chiaro però che nessuna rivoluzione si potrà compiere fino a che milioni d’italiani deferiranno ogni diritto d’iniziativa allo Stato, generoso distributore di benefizi a chi più da vicino lo prega; fino a che gli italiani non avranno compreso la necessità di sistemare, ciascuno per sé i propri casi.

Noi non sappiamo quali qualità di adattamento abbia la monarchia sabauda; è certo che la soluzione più logica sarebbe l’instaurazione della repubblica federale.

In definitiva tutti i mali che adesso affliggono l’attuale sistema resterebbero aggravati dalla creazione di una nuova burocrazia che si aggiungerebbe a quella romana, a quella prefettizia, a quella provinciale, a quella comunale. La confusione delle competenze, della funzioni, dei controlli nelle forme e nei modi attuali sarebbe aggravata dall’ente regione.
Il riordinamento in senso autonomistico del regime, deve dar luogo alla instaurazione di uno stato federale. Esempi: le grandi confederazioni americane, la Svizzera, la Germani, l’impero britannico.

ACCENTRAMENTO E CAPITALISMO
Rodolfo Morandi

Rodolfo Morandi precisò la sua posizione sul tema delle autonomie dopo che il delitto Matteotti gli ebbe fatto avvertire in tutta la sua gravità la crisi che il paese stava attraversando. Fin dal 1923 egli aveva collaborato alla “Critica Politica” di Zuccarini, condividendone la fede repubblicana e la centralità della questione delle autonomie amministrative. Nel nuovo clima politico creato dal colpo di Stato del 3 gennaio 1925 Morandi maturò una nuova impostazione del problema.

Per Morandi vi era un legame strettissimo tra accentramento statale e monarchia da una parte e ritardato sviluppo del capitalismo in Italia dall’altra, a cui si doveva ascrivere anche l’affermarsi del fascismo.

LA REPUBBLICA REGIONALE
Emilio Lussu

Parallelamente al consolidarsi del fascismo i gruppi di oppositori al regime trovarono nella prospettiva dell’autonomismo e del federalismo un forte elemento di aggregazione; intorno a esso convergevano repubblicani, liberaldemocratici, socialisti e anarchici. Nel gennaio del 1932 il movimento di Giustizia e Libertà, diede inizio alla pubblicazione dei suoi “Quaderni”: nell’articolo programmatico Carlo Rosselli indicò nell’autonomismo l’asse centrale intorno al quale si sarebbe dovuto costruire il nuovo Stato dall’abbattimento del fascismo.

A differenza di Ginzburg, Lussu, riprendendo “il filone regionalfederalista dell’autonomismo sardo e del repubblicanismo di Zuccarini”, riproponeva la validità della regione come l’organismo più adatto a diventare “unità politica”, poiché la storia, il clima, la geografia, la lingua le avevano dato una fisionomia specifica, facendole distinguere nettamente l’una dall’altra anche sul piano sociale ed economico. Sulla base di questa sua unitarietà egli riteneva si potesse dare alla regione la denominazione di “Repubblica” e attribuirle potere legislativo e amministrativo in tutti i settori, ad eccezione di quelli di esclusiva “pertinenza federale”, come l’emanazione della “legislazione di principio”, distinta dalla legislazione procedurale ed esecutiva”affidata alle repubbliche regionali.

Gli autonomisti del mezzogiorno e delle Isole, organizzatisi più o meno male dopo la guerra, vedevano nella regione la base unica e possibile di una riorganizzazione dello Stato. Il partito repubblicano ufficiale non precisava, neppure nella sua rivista neo federalista, ma sembrava propendere per la regione. Il partito comunista ha, in recente Congresso, precisato: repubblica Sarda. “Giustizia e Libertà”, in attesa di un convegno a cui possano partecipare i diretti rappresentanti delle organizzazioni all’interno, ha ritenuto tenersi sulle generali con le più larghe autonomie. Dovendo precisare, io propendo ancora per la regione. La regione è in Italia un’unità morale, etnica, linguistica e sociale, la più adatta a diventare unità politica.

Vi sono insomma, in ogni regione, tali esigenze particolari per cui sono richiesti attività, sistemi, provvedimenti e leggi specialmente adeguati solo là richiesti, e che non hanno niente a che fare con le altre regioni.

Ora la differenza essenziale fra decentramento e federalismo consiste nel fatto che, per il primo, la sovranità è unica ed è posta negli organi centrali dello Stato ed è delegata quando è esercitata alla periferia; per l’altro, è invece divisa fra Stato federale e stati particolari, e ognuno la esercita di pieno suo diritto.
Dicendo dunque “federazione” noi intendiamo esprimere un concetto identico a quello  del periodo del risorgimento: cioè, uno Stato federale centrale, a sovranità limitata, che è il risultato dell’unione di altri stati locali, sovrani anch’essi ma in forma minore.

Sulla rappresentanza all’estero, sulla politica estera, sull’organizzazione armata dello Stato, sul sistema monetario, non vi possono essere questioni: la competenza è della Confederazione. Come non vi può essere questione sulla necessità di una legislazione unica e eguale sui diritti fondamentali politici e sociali su tutto il territorio della Repubblica.

Noi, federalisti, riteniamo soprattutto che quello dell’autonomia debba essere uno dei principi ispiratori della rivoluzione antifascista. Autonomia, cioè coscienza di se stessi, consapevolezza della propria funzione, conquista e difesa, delle proprie posizioni etiche, sociali e politiche che consenta il più ampio sviluppo delle proprie capacità, individuali e collettive, in ogni campo. Ciò presuppone fiducia nelle libere e spontanee iniziative popolari e attribuisce al popolo capacità creativa.

Il federalismo non è certo una miracolosa “acqua di catrame” fatta per sanare tutti i mali, ma non v’è ombra di dubbio che la cosiddetta crisi della democrazia moderna è, in gran parte, prodotto del centralismo statale.

Federalismo significa frazionamento della sovranità, e nessuna sovranità può essere esercitata seriamente alla base, se  i cittadini che la rappresentano non sono liberi. Poiché sono gli uomini che vivono e si muovono e agiscono, non le formule: senza uomini liberi, la sovranità è una chimera.

IL FEDERALISMO NEL PARTITO COMUNISTA D’ITALIA
Ruggero Grieco

Alla fine del 1925, in occasione del V Congresso del Partito sardo d’azione, Ruggero grieco, a nome dell’Internazionale contadina (un’associazione internazionale, con sede a Mosca, che aveva lo scopo di favorire la “fraternizzazione dei contadini del mondo intero nella loro lotta per la terra e la libertà”), scrisse un Appello ai contadini sardi per spingerli a liberarsi dei loro “capi opportunisti, legati agli interessi della borghesia italiana” e a creare una Repubblica sarda degli operai e dei contadini inserita nella Federazione soviettista italiana”.

Proseguendo la sua riflessione politica sulla questione meridionale, nel 1927 Grieco formulò di nuovo la tesi federalista, affermando che, per legare più saldamente allo Stato unitario le regioni meridionali, dove più diffusi erano i movimenti autonomistici, occorreva organizzarle in tante “repubbliche soviettiste” che, insieme con la Federazione settentrionale, avrebbero costituito l’Unione soviettista italiana.

La concezione federalista aveva senza dubbio una base sociale nella Italia del Risorgimento. Totale questa base essa restava una divagazione letteraria, amministrativa con toni di folklore.
Un federalismo attivo avrebbe dovuto legare in un fascio le forze sociali via ad una unità nazionale vera. Il federalismo doveva essere, come conseguenza dello sviluppo economico-sociale differente dei vecchi Stati, il punto di partenza di una unificazione reale. Esso andò invece diventando l’armamento ideologico di coloro che propugnavano il tipo migliore di organizzazione di Stato, proprio quando il giovano Stato unitario proseguiva con logica di ferro il suo adattamento alle vecchie forme che aveva trovato e si faceva pagare dalle popolazioni “liberate” le spese di liberazione, e arrangiava coi vecchi padroni il nuovo dominio. I federalisti del 1867 e del 1870 avevano già fatto cilecca alcune decine di anni prima.

Il proletariato, erede storico del capitalismo, sola classe progressiva, è centralista. Il centralismo proletario è una conseguenza stessa dello sviluppo economico e della necessità per esso di stabilire un potere capace di servire all’opera immane della distruzione delle classi. Ma il centralismo proletario, per gli scopi ai quali esso mira, produce in se stesso gli elementi della propria eliminazione. E’ ciò che gli anarchici non sono mai riusciti a capire.

La federazione delle repubbliche sovietiche italiane è la organizzazione che si da la rivoluzione proletaria che distrugge alle radici il potere della grande borghesia, della grande proprietà fondiaria e che stabilisce la più larga democrazia.

LIBERARE E FEDERARE
Silvio Trentin

Il percorso intellettuale che portò Silvio trentin a diventare uno dei più convinti difensori del federalismo fu lungo e complesso. Nel 1924 egli aderì all’Unione Nazionale di Giovanni Amendola, che aveva tra i suoi punti programmatici il decentramento amministrativo regionale.

Le opere a ci trentin affidò il suo pensiero federalistico furono scritte durante la seconda guerra mondiale: la prima, Stato-Nazione-federalismo, scritta nel 1940, era di carattere più storico; la seconda, Liberare e federare, scritta in francese nel 1942, era di carattere teorico: in questa egli illustrava in maniera articolata il suo socialismo federalista. Secondo l’intellettuale e uomo politico veneto, la socializzazione dei mezzi di produzione non accompagnata dall’organizzazione di uno Stato di tipo federale, non poteva garantire il mantenimento della libertà degli individui, un valore, per lui irrinunciabile che era messo in pericolo sia da un sistema di economia capitalistica sia da un sistema di economia collettivistica.

Ora, man mano che lo stato, sotto l’influenza dapprima delle vicissitudini storiche che accompagnarono l’elaborazione e il consolidamento delle grandi monarchie, poi sotto la suggestione dell’idea e del mito della nazione, sui quali non tardò a innestarsi l’idea e il mito della patria, fu condotto ad accentuare viepiù il suo carattere accentratore e monocentrico, queste sorgenti veramente organiche di vita collettiva non cessarono d’essere oggetto d’una lenta, progressiva, inesorabile compressione, che a poco a poco finì per toglier loro ogni dinamismo e per neutralizzare tutta la forza vitale.

Lo stato ricondotto alla sua vera natura, quale è messa in risalto dal processo della sua formazione e del suo sviluppo, non è né può essere che un ordine degli ordini. E gli ordini che esso cerca di coordinare e in qualche modo di unificare sono appunto queste agglomerazioni suscitate da affinità di scopi, d’aspirazioni o d’interessi attraverso le quali gli uomini giungono a tradurre in realtà storica la loro vocazione sociale.

La prima preoccupazione della rivoluzione deve essere pertanto quella di classificare i cittadini secondo l’istituzione cui appartengono e d’elevare questa a mezzo organizo d’espressione e a misura della loro volontà. In tal modo il principio di autonomia si troverà posto all’origine di ogni attività, alla sorgente di ogni facoltà e potere. Acquisterà così di diritto lo stesso valore che ha di fatto: quello d’un vero fermento vitale, per l’azione del quale gli interessi degli individui come quelli dei gruppi sono posti in condizione d’esprimere, al più alto grado, tutta la loro potenza creatrice. L’autonomia del cittadino non può essere colta, e di fatto non riesce ad affermarsi, che in rapporto all’autonomia della collettività territoriale la cui giurisdizione definisce lo statuto della sua persona considerata in quanto soggetto d’una attività politica, in quanto depositaria d’una particella di quel potere il cui esercizio genera l’ordine.
Paramenti l’autonomia del produttore o del lavoratore di ogni ordine o grado non può farsi valere che attraverso la mediazione dell’opera alla quale esso collabora. L’istituzione sola, d’altra parte, può permettere allo stato di organizzarsi come stato libero, e impedirgli la degenerazione in sovrastruttura oppressiva. Per questo lo stato di domani, se vuole realizzare un progresso rispetto allo stato di oggi, sul piano dell’affrancamento dell’individuo e della salvaguardia della dignità della persona, non può essere che federalista, nel senso proudhoniano della parola.

Le regioni, le provincie, i comuni nella misura in cui hanno, di fatto, acquisito una individualità e una personalità proprie, in cui determinino la nascita e garantiscano il mantenimento di un focolare di vita unitaria, suscettibile di dare un’impronta caratteristica alle relazioni tra le persone che coabitano il territorio ch’esse circoscrivono, costituiscono gli elementi fondamentali d’uno stato libero.

Analogamente allo stato, i corpi territoriali saranno così condotti a ordinarsi secondo una costituzione federalista.

Parte quarta
DALL’INDIPENDENTISMO SICILIANO AL FEDERALISMO LEGHISTA

IL MOVIMENTO INDIPENDENTISTA SICILIANO
Andrea Finocchiario Aprile

Come nel 1860, dopo la spedizione garibaldina, la Sicilia aveva cercato di realizzare le sue aspirazioni autonomistiche, rapidamente cadute di fronte alla scelta accentratrice compiuta dal governo piemontese, così nel 1943, quando lo Stato italiano attraversò uno dei momenti più difficili della sua storia, riemersero con forza le tendenze autonomistiche, sconfitte in passato ma non distrutte.

Noi vogliamo che la nostra isola faccia da sé, noi vogliamo che dal nuovo assetto internazionale la Sicilia esca come Stato sovrano e indipendente. L’unità italiana è stata deleteria per noi. Noi nulla avemmo dall’unità che non fossero l’abbandono, lo sfruttamento e il disprezzo.

Noi vogliamo, dunque, la costituzione di una repubblica indipendente siciliana a base democratica e a largo contenuto sociale. Noi vogliamo che la nostra repubblica sia all’avanguardia di ogni progresso e che assicuri a tutti il maggior benessere.

Cosicché ho voluto forzare un poco la ano ai separatisti veri e propri, per indurli a considerare benignamente le proposte di coloro che non vorrebbero il taglio così netto come quello di cui vi ho parlato. E’ nata così la nostra adesione al criterio di una federazione di Stati italiani, comprendente anche la Sicilia.
Io non ignoro le difficoltà di creazione e di funzionamento di uno Stato federativo, specialmente latino. Non sarebbe da noi possibile né il tipo statunitense, né il tipo svizzero, dove i pretesi Stati sono più che altro, regioni o provincie con autonomia più o meno larga. Sarebbe forse preferibile il tipo germanico, secondo la concezione bismarkiana, nel quale ciascuno Stato ha una decisa personalità propria a carattere internazionale, con proprie forze armate, e nel quale l’adesione alla confederazione è rappresentata, più che altro, dalla necessità di formare un blocco di forze per resistere ad un’aggressione nemica.

Ma a quali condizioni la Sicilia potrebbe entrare a far parte di questa confederazione? E’ ovvio che preliminarmente dovrebbe costituirsi lo Stato sovrano di Sicilia nella pienezza della sua funzione internazionale; come è ovvio che dovrebbero costituirsi in italia uno o più Stati ugualmente sovrani. Non è possibile, date le mie premesse che una confederazione di Stati sovrani.

Se però in Italia dovessero sorgere una o più repubbliche affini a quella che sorgerà in Sicilia, fondate cioè sugli stessi principi democratici e sociali della repubblica siciliana, noi che pure, insieme con i Sardi, i Calabri ed i Lucani, apparteniamo ad un ceppo razziale a parte, diverso dal resto d’italia, saremmo contenti di entrare a far parte della confederazione italiana.

Ma vi sono anche gli autonomisti di buona fede e ve ne sono fra essi taluni che meritano ogni estimazione. Effettivamente essi pensano che tutto potrebbe sistemarsi con l’istituzione di un parlamento e di un governo regionali, competenti a legiferare e a decidere su tutto quanto possa interessare la vita del paese. L’amministrazione interna, la finanza, l’economia, le comunicazioni, i trasporti, il lavoro e via dicendo sarebbero di stretta ed esclusiva attribuzione degli organi suddetti. Soltanto la politica estera e le forze armate resterebbero al governo centrale.

Premesso ciò, io, pur rispettando i tentativi degli autonomisti di buona fede, pur riconoscendo che l’attuazione dell’autonomi rappresenterebbe un grande e decisivo passo verso l’indipendenza, mi dichiaro contrario, non solo all’accettazione di una premessa di autonomia, comunque fatta, che sarebbe uno specchietto per le allodole, ma mi dichiaro contrario all’autonomia anche se effettivamente concessa, preferendo di gran lunga la soluzione più logica e radicale dell’indipendenza, il solo mezzo che condurrà sul serio alla soffisfazione degli antichi voti e delle nuove aspirazioni del popolo siciliano.

LA REGIONE LIBERA
Oliviero Zuccarini

Con la caduta del fascismo Oliviero Zuccarini riprese la sua attività politica nel gruppo repubblicano e pose subito in primo piano il problema dell’ordinamento dello Stato su basi federalistiche.

Il nuovo Stato avrebbe dovuto poggiare sul federalismo e sul regionalismo, non imposti però dall’alto, ma frutto spontaneo dell’estrema varietà della tradizione regionale italiana: “L’Italia è regionale: nel clima, nella natura, nello spirito, nelle abitudini, negli interessi”.

La soluzione per Zuccarini non poteva essere che “federale” poiché “l’unità federale” era l’unica unità attraverso cui si poteva realizzare la vera democrazia, fondata sulla partecipazione popolare dal basso. Nella sua proposta, infatti, occorreva partire dall’anello più basso, il “Comune libero”, per arrivare, attraverso la rivitalizzazione di tutti gli enti locali che potevano ancora “funzionare magnificamente e con generale soddisfazione” alla “Regione libera”.

In Italia si è scambiata l’Unità con l’uniformità. E l’organizzazione statale italiana si è basata e si è sviluppata nel senso dell’uniformità. L’Italia è e resta, invece, quella che è sempre stata, prima di Roma, con Roma, dopo Roma, nel medio evo e nel Risorgimento: il paese della varietà; varietà di situazioni, varietà di vita e di economie, varietà di popolazioni, di bisogni, di sentimenti, di situazioni. Tale varietà non si può sopprimere! Non c’è riuscito lo Stato monarchico, neanche allorché divenne dispoticamente autoritario e col sistema livellatore di Mussolini. Non ci riuscirà nessuno! Non si può sopprimere l’italia! E unificarla si potrà solo rispettando quello che in essa vi è di essenziale ed è ragione di vita e di progresso insieme: la varietà. L’unità attraverso la varietà e vivificare la varietà per rendere più solida l’unità: ecco la nostra concezione. Ecco che cosa significa l’unità federale.

Prima di formare la Regione bisognerà formare, riformare il Comune. L’Italia è nata ed è rimasta comunale. La sue glorie sono tutte comunali. Il comune ha cessato come tale da tanti anni.

Si è dimenticato che da più di cento anni – molto di più – non abbiamo avuto vita comunale in Italia.

Ogni comune dovrebbe essere lasciato libero di modificare e di adattare la propria organizzazione e di regolare il proprio funzionamento nei modi che reputerà migliori, sempre che lo faccia col corso e col consenso dei comunisti.

La scala della sovranità e dell’ordine costituzionale potrebbe essere questa: affari del Comune al Comune, affari della Regione alla Regione, affari della Nazione allo Stato. E lo Stato, sintesi, espressione politica della Nazione attraverso una progressione di autonomie e di diritti, partendo dall’individuo per passare alla famiglia e dalla famiglia alla nazione in successivi ordini di comunità d’interessi e di sentimenti.

Come i Comuni potranno consorziare insieme se e quando lo vogliano (e questo diritto di consorziarsi dei Comuni elimina ogni discussione sulla convenienza di tener in vita le Provincie come conformazioni amministrative più piccole, in quanro permette di attuare tutte le ripartizioni e i raggruppamenti amministrativi ritenuti opportuni ed adatti senza ostacoli costituzionali che diventerebbero solo per ciò insuperabili), la Regione risulterebbe così praticamente, se pur non organicamente, come un vasto consorzio di Comuni.

Credo che nessun regolamento, nessun diritto costituente dovrebbe negare all’organismo Regione, come organo costituzionale e legittimo dello Stato, formatore anzi della realtà dello Stato (Stato federale), il diritto di darsi la propria costituzione e di poterla modificare, sempre che i diritti della sovranità collettiva e della libertà dei singoli restino salvaguardati. E’ solo in tale modo che la Regione, come ente sovrano e fonte esso stesso di sovranità, può divenire ed essere elemento costituitivo e indispensabile dello Stato più grande e della unità dello Stato: lo Stato federale.

La Regione non dovrà avere, come abbiamo premesso, una costituzione fissa prestabilita, identica e immutabile per ogni regione d’Italia del nord come delle isole, con compiti limitati e definiti. La maggiore attribuzione e una minore dipendenza dall’autorità tutoria, non riuscirebbe a soddisfare le esigenze della vita nazionale, giacché non segnerebbe in essa né una nuova svolta né l’inizio di rinnovamento.

Mi si domanderà: ed allora quale sarà il posto della Regione nello Stato? La risposta è ovvia quando si consideri che noi pensiamo che si debba arrivare ad un ordinamento dello Stato nazionale basato sull’unità federale. Unità federale significa che nel complesso statale ogni regione deve valere e pesare allo stesso modo, qualunque sia la sua estensione. La Regione piccola varrà in quel complesso quanto la grande. Non altrimenti del resto avviene in tutti gli Stati federali. Accanto ad un assemblea elettiva si avrà un’assemblea nazionale formata dei rappresentati di tutte le regioni: e sarà a tale assemblea che spetterà – magari sotto forma di deliberazione di secondo grado come nel Senato americano – decidere su tutte le questioni a carattere nazionale. Alla competenze della magistratura suprema dello Stato federale dovrebbero restare in tale ordinamento le sole funzioni politiche a carattere regionale e nazionale: Affari Esteri, Difesa, Finanzia e tesoro dello stato, Giustizia, sicurezza interna.

IL MOVIMENTO DEL CISALPINO

Nel 1945 l’ipotesi federalista fu portata avanti anche dal movimento cattolico del “Cisalpino”, che se ne fece aperto sostenitore sul suo omonimo di stampa.

Il movimento nasceva in risposta al nazionalismo fascista: il nazionalismo, avrebbe scritto Gianfranco Miglio sul numero del 5 agosto, era stato “il cavallo di Troia per mezzo del quale l’assolutismo dittatoriale aveva superato le mura delle garanzie costituzionali e aveva distrutto lo stato democratico”. Miglio spingeva l’analisi alle estreme conseguenze: c’era molta ingenuità, osservava, in quelli che volevano condannare il nazionalismo ma salvare la nazione.

Soltanto la scelta repubblica, accompagnata dal federalismo, avrebbe potuto realizzare quell’unità che in Italia non c’era mai stata. Nel nuovo Stato, l’Italia “Transpadana e cispadana” avrebbe dovuto avere un particolare rilievo, in ragione della sua specificità economica produttiva storica e perfino linguistica.

La polemica contro lo Stato unitario riguardava anche le regioni. Sul primo numero del settimanale, apparso a Como il 27 aprile 1945, il suo direttore, Tommaso Zerli, firmò un articolo contro il regionalismo storico in cui rifiutava il decentramento amministrativo regionale e una concezione della regione intesa come unità saldamente ancorata alla storia e alle tradizioni italiane. In sostituzione delle regioni i federalisti cisalpini proponevano, come leggiamo nel secondo brano, i cantoni: punto fermo della ristrutturazione del territorio nazionale sarebbe stato il Cantone Cisalpino, comprendente tutta l’Italia settentrionale e l’Emilia.

I
In realtà, l’Italia non è mai stata spiritualmente e moralmente una. Interessi, abitudini, costumi, dialetti, soprattutto spiccate qualità di stirpi e fermenti di tradizioni, hanno tenuto divise le regioni ed impedito la formazione di una mentalità comune a isolani e a continentali, a meridionali  e a gente della vallata padana.

Il solo fatto che dal 1861 al 1940 sia sempre esistita una “questione meridionale” come è rimasta viva nella Sicilia e in Sardegna l’aspirazione all’autonomia e al separatismo, dimostra che la sbandierata unità d’Italia, quale era concepita dalla monarchia sabauda e predicata dalla rettorica di corte non si è mai realizzata. Perché?

L’unità non doveva essere il punto di partenza ma il punto d’arrivo della sistemazione politica interna. Il problema non era di unire l’Italia sotto i segni di casa savoia, ma di consociare gli italiani liberati dallo straniero, tenendo presenti le diversità delle zone e l’inconfondibilità delle loro varie condizioni sociali, armonizzandole e valorizzandole in funzione nazionale, senza sperequazioni e senza sacrificare una parte della persona per l’altra.

I meridionali si convinsero anzitutto di avere diritto a ricevere dal settentrione tutto quanto loro occorreva e di avere, perciò, il dovere di sostenere le vedute unitarie del governo, prestando il braccio del questurino e la penna del funzionario alla attuazione migliore del simpatico programma

Al posto di una settentrionalizzazione della bassa Italia con un risveglio di energie e un ordinamento economico confacente alle possibilità locali, si ebbe una meridionalizzazione dell’alta Italia.

II
L’insidia più pericolosa per l’idea federalista è il cosiddetto decentramento amministrativo regionale; più o meno esplicitamente promesso da alcuni partiti.

Ma che cos’è dunque il Cantone per il quale si battono i federalisti cisalpini?
E’ un razionale spazio geofisico, economicamente e demograficamente individuato e costituito di ujità capace di fornire materia per una vita politico-amministrativa autonoma e fattiva, col minimo possibile di ciarpame burocratico.
La Liguria, il Piemonte, la Lombardia, l’Emilia e le Tre Venezie, ossia tutta l’italia settentrionale nel suo insieme costituisce un’armonica unità geografica, economica, etnica e spirituale, ben degna di governare sé stessa: sarà il Cantone Cisalpino, con capitale in Milano, baricentro della Val Padana, sarà il cantone campione che rimorchierà l’Italia intera sull’erta del risorgimento nazionale.

IL FEDERALISMO A BASE COMUNITARIA
Adriano Olivetti

Tra le proposte portate avanti dopo la liberazione per dare un nuovo volto all’Italia uscita dal fascismo un posto particolare occupa quella avanzata da Adriano Olivetti in un’ opera apparsa a Ivrea nel 1945, L’ordine politico delle comunità. Olivetti era un industriale moderno, aperto alle nuove esperienze culturali che venivano dalla Francia, dal federalismo integrale di Denis de Rougemont alla concezione che avevano della persona Jacques Maritan, Emmanuel Mounier e lo stesso de Rougemont: a loro, come scrivere Olivetti, il pensiero politico contemporaneo era debitore per aver portato “al centro dell’attenzione politica i rapporti tra la Persona e le comunità differenziate in cui si esprime l’umana società .
La concezione integrale del federalismo si fondava sulla Comunità, uno spazio geografico determinato dalla natura o dalla storia, nel cui ambito far nascere un comune interesse morale e materiale che portasse alla fratellanza tra gli uomini. Il fine della Comunità era perciò di carattere etico, ma essa aveva un solido fondamento economico e sociale, anche se in essa Olivetti introduceva alcuni elementi utopistici.

Le comunità dovevano costituirsi democraticamente come libere associazioni di comuni che conservavano amministrazioni autonome proprie, in quanto organi di decentramento amministrativo della Comunità stessa, la quale assorbendo il ruolo dei prefetti, avrebbe assunto una più alta funzione di supervisione nei confronti delle deliberazioni comunali.

Nell’organizzazione generale dello Stato progettato da Olivetti la Comunità era un organismo di raccordo tra il Comune e la Regione: il nuovo Stato sarebbe stato così uno Stato federale delle Comunità d’Italia.

Lo Stato federale immaginato da Olivetti si fondava così sulla Comunità p0er quanto riguardava l’aspetto politico e sulla Regione per quello tecnico-organizzativo: obiettivo era quello di distruggere non solo il centralismo ma anche la mediazione dei partiti, stabilendo un contatto diretto tra i membri della Comunità e i loro rappresentanti.

IL PROBLEMA REGIONALE ALL’ASSEMBLEA COSTITUENTE

Il rinnovamento dello Stato avviato dopo la caduta del fascismo fu discusso in ampi dibattiti, in cui il problema della riforma in senso democratico degli organi amministrativi dello Stato fu posto subito al primo posto. Fino dall’ottobre del 1944 fi istituita da Bonanni un’apposita Commissione per lo studio della riforma regionale e dell’amministrazione locale; un anno dopo il Ministero per la Costituente nominò una Commissione per la riforma dello Stato in cui si delineò una serie articolata di posizioni sulle quali si confrontarono i diversi partiti.

Lo Stato regionale prefigurato da Ambrosini nel 1933 fu da lui riformulato nelle conclusioni dei lavori della Sottocommissione, in cui si realizzò un compromesso tra le diverse tesi esistenti all’interno del gruppo di lavoro. Ma il principio dell’autonomia regionale che era alla base di questo tipo di Stato fu fortemente ridimensionato nell’ambito della discussione all’Assemblea Costituente del titolo V della Costituzione che regolava l’ordinamento regionale: soprattutto per la ferma opposizione delle sinistre non fu attribuito alla Regione il potere legislativo primario, sicché essa si configurò come un ente autarchico dotato di poteri essenzialmente amministrativi.

LE REGIONI NELLA CARTA COSTITUZIONALE

Nei primi dodici articoli della Costituzione italiana, in cuci sono formulati i suoi Principi fondamentali, è contenuto anche il riconoscimento delle autonomie locali. Nell’articolo 5, infatti, dopo aver ribadito l’unità e l’individualità della Repubblica italiana, si riconoscono le autonomie territoriali, si impegna lo Stato ad attuare il più ampio decentramento amministrativo per i servizi che dipendono da esso e si invocano i principi dell’autonomia e del decentramento come i punti di riferimento fondamentali a cui devono essere adeguati i contenuti ed i metodi della legislazione dello Stato: in questo modo si vuole garantire ai cittadini il diritto di prendere parte in manier attiva alla vita degli enti territoriali.

Lo Stato non rinuncia così a riaffermare la sua sovranità nei confronti dell’ente regione: i suoi poteri derivano esclusivamente dallo Stato che, fonte di tutti i poteri, vuole però evitarne la concentrazione in un solo organo o in una sola istituzione, decentrandoli tra gli enti locali sia nelle funzioni amministrative sia in alcune funzioni legislative.

L’AUTONOMISMO SPONTANUISTICO
Gaetano Salvemini

Nel 1945 fu pubblicato sulla rivista di Zuccarini un articolo di Gaetano Salvemini, su Federalismo, regionalismo, autonomismo

Salvemini aveva, in realtà, profondamente rivisto le tesi federastiche che aveva sostenuto durante gli anni del suo meridionalismo socialista: come avrebbe scritto pochi anni più tardi, molte esperienze lo avevano costretto a mettere una certa dose d’acqua nel suo vino federalista di mezzo secolo fa, che era saldamente fondato su basi di classe più che territoriali. Nel 1945, invece, si faceva sostenitore di un autonomismo spontaneistico che non aveva più alcun fondamento di classe.

Se Cattaneo riaprisse gli occhi alla luce, troverebbe che le divisioni politiche dei suoi tempo sono sparite, e che l’Italia è governata da una mastodontica burocrazia accentrata, la quale provvede anche alle scuole elementari nel comunello di Scaricalasino. E in cima a questa burocrazia c’è un unico Parlamento centrale, che pretende di dettare leggi a quella burocrazia, mentre in realtà è la burocrazia che gli dice quali leggi esso deve approvare, e molte volte non gliela dice nemmeno, e ogni caso le applica a modo proprio.

Occorre, dunque, togliere ai prefetti il diritto di approvare o annullare le deliberazioni dei Consigli comunali e provinciali ed i loro bilanci, e quello di sospenderli dalle funzioni, o di scioglierli addirittura mandando commissari. Cioè, affermiamo la autonomia delle Amministrazioni comunali e provinciali  di fronte ai prefetti, agenti del Governo centrale nel soffocamento dei governi locali. I Consigli comunali e provinciali diventeranno altrettante repubbliche autonome ciascuna entro i limiti delle proprie competenze, così come sono i Consigli comunali e cantonali in Svizzera, i Consigli comunali e Consiglio di contea in Inghilterra, i Consigli comunali e i Consigli statali nell’America del Nord.

La regione non sarebbe stata inserita nella Costituzione del 1943 – secondo il metodo di Mazzini e non quello di Cattaneo – se non l’avessero voluta i clericali.

Ma, mentre ripetevano la formula imparata ai tempi di Pio IX, i clericlai nel 1948 hanno conquistato il Governo. Perciò dopo aver messo la regione nella Costituzione, si sono dimenticati di svilupparla. Chi sta bene non si muove, debbono pensare Scelba e De Gasperi e Pio XII. I partiti, finchè non stanno al governo, sempre criticano il prepotere della burocrazia, ma non appena arrivano al governo, diventano ammiratori della burocrazia, perché ne vedono i vantaggi per chi maneggia i manubri centrali.

 E quello che è ancora più buffo è che, mentre le regioni castellin-aria erano costruire nel vuoto, tutte le leggi fasciste, dico tutte, erano lasciate intatte. Nessuno si curò mai di abrogarne una sola – dico una sola . meno il Gran Consiglio del fascismo, che era stato abolito da Badoglio nel luglio 1943. Il presente regime politico italiano può essere definito come un fascismo meno Mussolini più la regione.

Quasi tutte le provincie italiane esistevano prima del 1860, quando non si parlava né di unità nazionale né di accentramento burocratico. Molte provincie sono le civitates del mondo romano. Firenze, Lucca, Pisa, Siena, Arezzo: città romane (anzi Arezzo preromana). I cui confini provinciali sono su per giù oggi quali si trovano nei documenti sopravvissuti all’alto Medioevo. Molte provincie non solo risalgono al mondo romano, ma corrispondono perfettamente a una regione naturale: provincie di Foggia – Capitanata; provincia di Bari – terra di Bari; proncia di Lecce – Terra  d’ Otranto o Salerno ecc.

LA PADANIA
Gianfranco Miglio

Erano passati più di vent’anni dal momento in cui la Costituzione aveva sancito la suddivisione del territorio italiano in regioni quando, nel 1970, venne finalmente approvata la legge che disponeva il finanziamento e si poterono svolgere le prime elezioni per le regioni a statuo ordinario. Dopo altri due anni furono amanati i decreti per il trasferimento alle regioni delle competenze amministrative e legislative che si trasformarono poi nella legge 382 del 1975. Come si vede, l’attuazione dell’ordinamento regionale, previsto dalla Costituzione in tempi molto ravvicinati – alle elezioni dei Consigli regionali, da indire entro il 31 dicembre 1948, avrebbe dovuto seguire entro tre anni l’adeguamento delle leggi statali “alle esigenze delle autonomie locali e alla competenza legislativa attribuita alle regioni” – fu assai lenta, ostacolata da forti opposizioni da parte dei partiti della maggioranza di governo.
Nel 1975 si svolsero alcune polemiche sui caratteri e gli sviluppi che avrebbero avuto avere in italia il regionalismo. Esse furono come un’anticipazione di temi che qausi vent’anni più tardi sarebbero stati portati al centro del dibattito politico e scoppiarono alla fine del 1975 in seguito a un’intervista a Guido fanti, presidente della regione Emilia Romagna, pubblicata sulla “Stampa” di Torino del 6 novembre.
Fanti individuava nel superamento delle strutture dello Stato centralistico e nella rapida attuazione del nuovo Stato decentrato la possibilità per il paese di uscire dalla crisi che stava attraversando. Più concretamente egli avanzava un progetto di aggregazione tra le cinque regioni della Valle Padana, che avrebbero dovuto avere un ruolo fondamentale in una politica generale di programmazione regionale e nazionale, rivolta a un nuovo tipo di sviluppo del paese e alla riduzione degli squilibri tra il Centro-Nord e le regioni meridionali d’Italia. Il progetto di Fanti fu accolto con cautela dal presidente della Lombardia e con maggiore favore dal presidente della Liguria, che sottolineò la funzione della sua regione come sbocco al mare del bacino padano, proponendo anche un piano per i porti e per la ristrutturazione della flotta.
Il progetto per la nascita della Padania suscitò forti opposizioni da parte di alcuni uomini politici meridionali: particolarmente vivaci furono gli interventi del repubblicano Francesco Compagna, che vide nel “mito della Padania” la premessa se non di una scissione dell’Italia, certo di una erosione della sua unità, oltre alla possibilità che sulla proposta formulata da Fanti “si potesse innestare il separatismo del Nord, armato da interessi ben più consistenti di quelli che operavano nell’arcaico retroterra de separatismo siciliano. Al pan regionalismo Compagna opponeva la necessità di ricondurre le regioni ad un ruolo giusto di articolazione autonomista dello Stato.
Le preoccupazioni di Compagna si erano accresciute anche a causa di un intervento sul “Corriere della Sera” del politologo Gianfranco Miglio, in cui il discorso sulla Padania era apertamente inserito in quello, più generale, di una rifondazione in senso federalista dello Stato italiano. Nell’articolo del Lombardo Miglio era messa in discussione la stessa sopravvivenza dello Stato unitario: per lui, in realtà, non ci sarebbero mai state, nemmeno dopo il 1860, le condizioni per la sua esistenza.
L’unica soluzione era vista da Miglio nella “consapevole integrazione fra,  grandi aggregazioni geo-economicamente omogenee, com’era appunto, la Padania. L’Italia avrebbe dovuto dividersi nelle tre grandi aree del Nord, del Centro e del Sud, secondo la tradizionale impostazione territoriale del federalismo, a cui Miglio però aggiungeva, come avrebbe precisato meglio negli anni successivi, una forte componente etnico-razziale.

Se qualcuno vorrà governare questo paese, non potrà mai farlo seriamente senza riconoscere che esso non fu mai né sarà mai – per una folla di ragioni – uno Stato unitario.

Alla luce di tale sviluppo, se lo Stato italiano appare troppo grande per governare, la Regione è invece troppo piccola.

In tali condizioni i “meridionalisti”, quando insorgono contro il progetto di aggregazione “padana”, hanno tutta l’aria di difendere non gli interessi dei loro rappresentanti ad un autonomo sviluppo, ma soltanto le abitudini, i privilegi e le strutture clientelari in cui si è decomposta fin qui la così detta “politica per il Sud”.
Allora il ragionamento da fare è quello: non è forse praticamente più produttivo e formalmente più corretto, chiedere alle Regioni in cui il Meridione attualmente si disarticola di raggrupparsi stabilmente per definire prima e poi gestire, in modo finalmente davvero autonomo, le scelte relative al tipo di avvenire verso cui tendere, tutti insieme, classi dirigenti e popolazioni del Sud?

LA FONDAZIONE AGNELLI: L’ITALIA IN DODICI REGIONI

Nella convinzione dell’esistenza di uno stretto rapporto tra politica ed economia la Fondazione Giovanni Agnelli organizzò un programma di ricerca rivolto a individuare nella riforma dello Stato la risposta alla grave crisi politica e finanziaria che la società italiana stava attraversando. In sintonia con quanto era emerso nel dibattito che contemporaneamente si stava svolgendo in ampi settori del mondo politico e culturale, anche i risultati del lavoro del gruppo di ricerca della Fondazione andavano nella direzione di “una trasformazione dello stato centralista in uno stato che veniva definito o come “neo-regionale” o come “federale”. A differenza della proposta della Lega Nord, favorevole a una soluzione federale con  la divisione dello Stato in tre macroregioni, gli studiosi torinesi si pronunciarono a favore di uno stato organizzato in dodici regioni, accorpate sulla base del consenso e non per imposizione dall’alto.

Le nuove regioni dovranno rispondere positivamente all’esigenza di garantire un’eccellente governabilità delle dinamiche territoriali dello sviluppo e all’esigenza, altrettanto importante, di offrire in modo efficace servizi pubblici sulla base di un’adeguata e autonoma capacità di prelievo fiscale.

Una prima ipotesi, quella che più naturalmente appare discendere dai ragionamenti sull’autonomia finanziaria, prevede un’Italia suddivisa in dodici regioni. I criteri che hanno ispirato tale ripartizione sono stati, da un lato, l’esigenza di ridurre l’area della non autosufficienza finanziaria; dall’altro, la necessità di eliminare le realtà regionali, di più minute dimensioni in una prospettiva di potenziamento delle funzioni ad esse assegnate.
Il nuovo disegno regionale deriva dall’accorpamento delle attuali regioni; non sono scorporate provincie, così da rispettare  gli attuali perimetri regionali.

Nella riduzione delle regioni da venti a dodici scompaiono le otto regioni di taglia inferiore al milione e mezzo di abitanti.  (Marche, Abruzzi, Friuli, Trentino,Umbria, Molise, Valle D’Aosta, in ordine decrescente di grandezza), e la Liguria, che sta al di sopra di questo livello, ma presenta gravi problemi.

Prima osservazione: i criteri proposti, comunque li si interpreti a livello operativo, pongono certamente il problema delle regioni a statuto speciale. La specialità è nata nel 1948 con modalità che corrispondevano a particolari necessità. E’ bene oggi ridiscutere come vada inteso il concetto di specialità, nella convinzione tuttavia che la tutela delle specialità culturali non può reggersi su speciali trattamenti finanziari e fiscali, che determinano situazioni di squilibrio.

Seconda osservazione: non si può ignorare che, ragionando a partire da criteri di razionalità economica, si possa arrivare ad accorpamenti che non necessariamente trovano risonanza nell’identità storica di alcune regioni. La Liguria, ad esempio, è regione di grande storia, tradizione e immagine. Non sarebbe sorprendente se la proposta di agganciarla al Piemonte incontrasse resistenze. Ciò non cancella tuttavia i problemi: oggi la Liguria è una regione in grave crisi economica e demografica.

Bisogna altresì stare attenti a non perdere di vista le logiche di grande bacino. Si è già sottolineato come per la Padania esista un novero di problemi, di carattere idrografico  ed ambientale, o attinenti alle reti di comunicazione e di trasporto, che richiedono un livello di competenza sovra regionale, che come si indicava avrebbe potuto avere al suo centro accordi di cooperazione stabile tra regioni, eventualmente in forma di agenzie. Questo ragionamento vale a maggior ragione per il Mezzogiorno, dove la logica che aveva a suo tempo suggerito la scala geografica dell’intervento straordinario è venuta meno, ma dove resiste una serie di problematiche, attinenti, ad esempio alla vecchia e irrisolta questione idrica, ma anche alle nuove reti e agli assi di sviluppo emergenti, che richiedono una visione svraregionale del problema, più estesa anche delle mesoregioni che abbiamo proposto. Se tale logica deve evitare di ricadere nelle secche del centralismo, dovrà comunque restare coerente con la riformulazione istituzionale che mette la regione al suo centro.

L’impressione è che il nostro paese sia nella situazione di poter afferrare un’occasione storica, quella della riforma degli assetti regionali, che in passato si è già almeno due volte lasciato sfuggire. Nate male o, per lo meno, nate troppo in fretta, le regioni italiane non sono sostanzialmente cambiate per numero e confini, sopravvivendo a tutte le grandi trasformazioni dello stato italiano, comprese quelle dettate dalla Costituente. Oggi l’occasione di sanare la frattura tra regioni economiche e ordinamenti istituzionali si ripresenta, dettata dalle molteplici emergenze della crisi italiana: perderla nuovamente sarebbe grave.

IL FEDERALISMO LEGHISTA
Negli anni Ottanta la crisi di rappresentatività dei partiti politici ha trovato espressione nella progressiva crescita di consenso che ha accompagnato la nascita del fenomeno leghista.

Anche la Lega Lombarda, nata ufficialmente nel 1984, si ispirò inizialmente al modello etno-regionalista ma, come ha osservato Ilvo Diamante, dopo le elezioni amministrative del 1985, in seguito al “basso grado di attrazione sociale di questo tipo di offerta, all’idea del territorio come fonte di identità storica, della regione some nazione, Bossi sostituì  il concetto di territorio come centro di identità fondata sugli interessi: comunità con grandi tradizioni e capacità produttive, costretta alla subalternità delle logiche dello Stato e dei partiti.

Sulla loro base Umbero Bossi, il segretario della Lega, elaborò una ideologia fondata sulla contrapposizione tra il Nord produttivo e il Sud assistito e caratterizzata in un primo momento, da una forte connotazione antimeridionalistica, successivamente sfumata.
Il consenso intorno alla Lega crebbe notevolmente, estendendosi ad altre regioni settentrionali, come Piemonte e Liguria. In seguito a questa crescita nacque la Lega Nord, da cui partì la parola d’ordine, nel maggio del 1991, della proclamazione della Repubblica del Nord. Nel discorso di Pontida in cui la lanciò, Bossi prevedeva la divisione del territorio nazionale in tre macroregioni: il Nord, il Centro e il Sud. L’11 dicembre del 1993, ad Assago, il segretario della Lega Nord presentò una Costituzione federale provvisoria in dieci punti, alla cui elaborazione aveva dato un notevole contributo Gianfranco Miglio. In essa si proponeva l’istituzione di un nuovo Stato, l’Unione Italiana, comprendente otto formazioni subnazionali: ne avrebbero fatto parte, oltre alle tre Repubbliche, la Padania, la Repubblica di Etruria e la Repubblica del Sud, le cinque Regioni a statuto speciale. Il cosiddetto Decalogo federalista della Lega non era però accompagnato da maggiori specificazioni sui confini geografici delle macroregioni, il cui numero, tra l’altro, non era considerato rigido, ma, così come tutta la Costituzione, ancora provvisorio.

Sicuramente, fino al secondo dopoguerra, l’integrità etnica in Lombardia e in quasi tutte le nazioni del Nord Italia era assicurata. Chi conosce la nostra terra sa bene che intere città, intere vallate sono rimaste ai margini dei grandi flussi migratori. Nei secoli, le diverse dominazioni non hanno violato i ceppi originari, neppure nelle grandi città di pianura. Anche l’immigrazione dal Sud non ha schiodato certi caratteri etnici; e quel che più conta, non ha modificato l’etica del lavoro – un incrocio curioso di calvinismo e morale cattolica – che rappresenta, a mio avviso, il patrimonio caratteristico e il municipalismo, dei nostri popoli del Nord Italia.

Lo stesso discorso vale per l’Italia: il federalismo può tenere insieme questo Paese, direi che è la ricetta minimale. Però non posso garantire che basti. Per questo diciamo che il Nord imporrà la Federazione o se ne andrà. Roma è avvertita.

E’ chiaro, comunque, che nell’analisi di noi federalisti le attuali divisioni nel nostro Paese non sono razziali o etniche in senso naturalistico. Io non sono come quello pseudo autonomista di Roberto Gremmo, che un giorno sostenne davanti a me che i meridionali hanno una vertebra in più. Però esiste sempre un’etnia in senso socio-culturale, intesa come identità affettiva radicata nella famiglia, nell’ambiente, nelle abitudini, nelle convinzioni, nel clima.

I popoli non accettano all’inifinito di essere schiavi. Il Nord, la Padania, la Repubblica Cisalpina, o viene essa in condizione di autogovernarsi o se ne va.

IL FEDERALISMO DELLE REGIONI ROSSE

Nella crisi generale che la società italiana attraversò tra la fine degli anni Ottanta e gli inizi degli anni Novanta, il richiamo al federalismo come possibile soluzione dei problemi nazionali diventò sempre più frequente.

Volendo dare espressione a queste tendenze e indirizzarle nel senso di una diversa impostazione dei rapporti tra Regioni e Stato centrale il Pds della Toscana tenne nel marzo del 1993 il primo congresso regionale del nuovo partito. Nel documento base preparato per la discussione congressuale veniva compiuta una aperta scelta federalista da realizzare attraverso l’istituzione di una “Repubblica delle autonomie” in cui, sulla base di un diverso rapporto tra Stato e Regioni, il nuovo sistema delle autonomie locali potesse “incentrarsi sulla Regione come livello di governo, con funzioni forti di legislazione di indirizzo, di programmazione, di controllo. Il nuvo regionalismo, come veniva anche definita questa apertura al federalismo, poneva così il presupposto di uno spostamento in questa direzione anche del gruppo dirigente nazionale del partito, che venne reso ufficiale al Consiglio nazionale del Pds del 12 dicembre 1994, quando il suo segretario Massimo D’Alema, sostenne la necessità della scelta federalista come l’unico strumento capace di realizzare una “nuova unità della nazione”.

L’attuazione di una simile piattaforma di governo presuppone una drastica redistribuzione di poteri e di risorse dal vertice alla base e dal centro alla periferia. Il Pds è per una Repubblica delle autonomie, per uno Stato di ispirazione federalista, in cui siano di competenza delle Regioni tutti i poteri non esplicitamente attribuiti dalla Costituzione allo Stato, come politica estera, difesa, moneta, giustizia. Le prospettive dello sviluppo regionale dipendono sempre di più dalla possibilità che le decisioni vengano prese là dove i problemi si manifestano, là dove le soluzioni debbono essere realizzate e verificate. Una regione effettivamente dotata di piena autonomia impositiva e responsabile verso i cittadini dell’uso delle risorse raccolte, può essere un’interlocutore credibile verso lo Stato nazionale e verso la Comunità europa, nei cui confronti debbono essere possibili rapporti diretti per il negoziato sulle politiche regionali comunitarie.

Il Pds propone periò di articolare la piattaforma regionale in progetti di sviluppo locale integrato allo scopo di accrescere l’efficienza economico-sociale dei singoli sistemi. E’ questa una nuova idea-forza della programmazione regionale, del nuovo corso delle politiche di piano che è stato avviato dalla Giunta regionale.

IL FEDERALISMO FISCALE
Senza dubbio, quello del federalismo fiscale è oggi tra po problemi più dibattuti. Non c’è da meravigliarsene, perché il federalismo è tornato di forte attualità in rapporto alla crisi della società italiana, di cui le difficoltà economiche costruiscono una componente fondamentale: il federalismo fiscale dovrebbe essere per molti il principale strumento per uscire dalla crisi, o, quanto meno, per evitare che quella economica abbia effetti dirompenti anche sul piano istituzionale.

Nell’opera di Giulio Tremonti e Giuseppe Vitaletti di cui riportiamo un brano e che ha rappresentato uno dei più vivaci contributi alla discussione, il federalismo fiscale è inteso come una vera e propria rivoluzione: la “rotazione dell’asse del prelievo fiscale, dal centro alla periferia, dalle persone alle cose” farebbe “ruotare la politica intorno alla realtà, come secondo natura”.

Rispetto al modello di un federalismo fiscale possibile, il modello italiano di finanza pubblica è - come si è già notato - esattamente l’opposto, è il contromodello. Si tratta infatti del più verticale ed orientale tra i modelli fiscali possibili. La riforma fiscale del 1971-73 ha, in specie, azzerato l’autonomia fiscale degli enti locali, trasformandoli in centri di spesa elettorale irresponsabile, trasferendo tutto il potere fiscale allo Stato, infine spingendo lo stato - caricato di un onere politico ed economico eccessivo - a fare sempre più massiccio ricorso al debito pubblico. E’ in questi termini che la democrazia è degenerata in cleptocrazia: i corpi politici rappresentativi - i Municipi, le Regioni, il Parlamento - essendo così progressivamente diventati centrali di intermediazione del debito, banche d’affari e di malaffari. Ciò che è soprattutto evidente, in questa realtà devastata, è il legame tra politica e finanza; la politica è degenerata perché la finanza era incontrollata, e viceversa. All’opposto l’essenza del federalismo sta propria nella ricerca del legame più stretto ed efficiente possibile tra politica e finanza.
L’essenza del federalismo sta in specie (ci si perdoni la parola straniera, non facilmente traducibile) nel budget: nello strumento politico con cui si definisce che fa cosa nel modo migliore possibile. Ad esempio i Comuni fanno i parcheggi, le Regioni o aggregazioni di Regioni fanno la sanità, lo Stato fa la difesa. Il modello federale politicamente “ottimo” è in particolare quello in cui il soggetto tassato vota il soggetto tassatore, in cui tanto l’oggetto tasato, quanto l’opera finanziata, sono nella competenza dell’amministratore votato.

La gran massa delle imposte moderne è, in specie, riscossa attraverso meccanismi di sostituzione (le ritenute sui salari, sugli stipendi, sui depositi bancari ecc.) di autoliquidazione (come nel 740, delle persone fisiche, o nel 760 delle società), di traslazione (come nell’Iva). E i relativi flussi di gettito non sono acquisiti dal fisco in funzione del luogo ove ha la residenza o la sede chi trattiene, paga o trasla le imposte.
Ad esempio l’IRPEF degli operai di Cassino va a Torino; l’imposta sostitutiva riscossa sui depositi fatto presso le agenzie del Monte dei Paschi di Siena, che sono sparse in giro per l’Italia va comunque a Siena. E così via. Ciò vuol dire che o si cambia radicalmente il sistema fiscale italiano, trasformandolo da sistema personale in sistema reale (in cui conta dove è effettivamente svolta l’attività economica), cosa attualmente impossibile, o si devono fare dei compromessi. In specie, si deve accettare un federalismo fiscale che non si sviluppa linearmente sul piano della riscossione ma solo residualmente, su quello della ripartizione dei gettiti fiscali. Ogni unitò politica di riferimento dovrà in specie rinunziare all’idea di finanziare le proprie spese con proprie imposte; dovrà accontentarsi dei riparto convenzionale (basato su parametri stranieri) del gettito di imposte che sono nazionali.

LA COMMISSIONE BICAMERALE: IL NUOVO REGIONALISMO.

Anche a livello istituzionale la discussione su una riforma dello Stato che andasse nel senso di un deciso rafforzamento dei poteri delle regioni compì notevoli passa avanti. Il 27 ottobre 1993 la Commissione bicamerale per le riforme istituzionali presentò il testo di revisione del Titolo V della Costituzione, che fu poi inserito in un più ampio progetto di revisione di tutta la parte seconda della Carta costituzionale.

Una modifica consistente nella regolazione del rapporto Stato-regioni era costituita dall’adozione del principio che i poteri residuali fossero di competenza regionale: si realizzava così il ribaltamento del criterio di ripartizione delle competenze legislative tra Stato e regioni, così come era previsto dall’art. 117 della Costituzione. L’elenco di materie per le quali la regione poteva emanare norme legislative - come era prescritto nell’articolo 117 - era sostituito dalla specificazione delle competenze attribuite allo Stato, mentre tutte le altre non definite restavano alla regione.

Il progetto della Bicamerale è stato oggetto di interpretazioni molto diverse: particolarmente severo è stato il giudizio di Ettore Rotelli, che ha parlato di una confusione concettuale e di una campionario di errori e falsificazioni che avrebbero come conseguenza, non il federalismo, ma la restaurazione al centralismo.




































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