venerdì 13 gennaio 2012

libro de marco terronismo

TERRORISMO
Marco De Marco

1
Caccioppoli '0 professore ovvero
Una storia per cominciare

Giuro di non essere un fanatico della duosicilianità o della sudità o della meridionalità. Insomma, non sono di quelli che si compiacciono di essere un terrone. Eppure, ogni volta che qualcuno parla dei meridionali e ne parla male, ogni volta che si allude alla nostra diversità e si fa i' elenco dei nostri difetti, a me viene spontaneo, per reazione, ricordare cosa riuscì a combinare una sera il professore Renato Caccioppoli. Quando posso, tiro fuori questa storia e la uso come un corpo contundente contro i portatori di pregiudizi, per legittima difesa. Tra me e me, penso che se è cos1 che ci vedono, indolenti e rassegnati, provinciali e inconcludenti, allora è giusto che si becchino questa.
Ed ecco la, la storia di Caccioppoli, '0 professore.
Lo chiamavano cos1 perché insegnava matematica all'università. Tutti concordano nel dire che fosse un genio, e perciò inafferrabile e imprevedibile. Turbolento come il nonno materno, il comunista Bakunin, Renato Caccioppoli parlava correntemente cinque lingue, recitava a memoria Rimbaud e Baudelaire e suonava il pianoforte come pochi. Nel 1931, a ventisette anni, divenne ordinario a Padova. Nel 1934 tornò a Napoli, la sua città, dove morì tragicamente nel 1959.
Luciano De Crescenzo, l'ingegnere-filosofo di Così parlò Bellavista, è stato suo allievo. Nel suo libro Il caffè sospeso racconta che quando vuole vantarsi ricorda sempre di aver sostenuto l'esame di analisi e calcolo con lui. Lo descrive come «un Byron, un Oscar Wilde, un dandy, un personaggio uscito dai Demoni di Dostoevskij, un D'Annunzio con in più il dono dello humour, o forse semplicemente un seduttore». Rimase folgorato quando lo sent1 parlare per la prima volta ai tempi del liceo. Fu allora che decise di non iscriversi più a Lettere e Filosofia.
Mario Martone gli ha dedicato invece Morte di un matematico napoletano, il film d'esordio, smunto come il protagonista, uno di quei film che sembrano in bianco e nero anche se non lo sono. E pure lui ha fatto leva sulla vicenda umana del professore per raccontare le delusioni e i tormenti di un'intera generazione.
Di Caccioppoli, a Napoli, si è detto e ancora si dice di tutto. Di quella volta che, invitato in un teatro a una manifestazione del Pci, restò ostinatamente a bocca chiusa, preferendo suonare, di fronte a centinaia di compagni increduli, !'intero terzo atto del Tristano e Isotta di Wagner. O anche di un gallo furente che si portava dietro legato con lo spago. Ma questa mi sa tanto che è inventata, perché troppo simile a quel che si racconta del poeta Gérard de Nerval, e cioè che, folle com' era, girasse per le vie di Parigi con un' aragosta viva al guinzaglio.
Stranezze. Stravaganze. Ma con i geni e con gli uomini-leggenda, si sa, succede sempre così. Per questa ragione, io ho sempre immaginato che Napoli raccontasse il suo Caccioppoli con voluta esagerazione e anche, vista la sua fine, con un certo senso di colpa. Dunque, ho sempre fatto la tara a quel che mi raccontavano i miei compagni di partito o i miei colleghi più anziani: ebbene si, sono stato un giornalista comunista; ora sono solo un giornalista.
Eppure, o professore fece davvero qualcosa di eccezionale. Quella sera c'erano molti testimoni e molti furono coloro ai quali la storia fu riferita. E ognuno l'ha poi raccontata a suo modo: chi aggiungendo particolari, chi omettendoli per meglio improvvisare, chi dicendosi certo che la cosa fosse avvenuta in un ristorante a Mergellina, vicino al mare, e chi, viceversa, ritenendo quel locale troppo borghese, la trasferiva su in collina, al V omero, in un quartiere più adatto al fascino bohémien del personaggio. Fatto sta che la ricostruzione più attendibile, completa e coinvolgente io l'ho letta in Mistero napoletano, il romanzo-inchiesta che Ermanno Rea ha dedicato ai pudori e alle auto censure dell' élite comunista degli anni Sessanta. Un libro che, in buona sostanza, racconta la storia della redazione napoletana dell'«Unità», della quale, molti anni dopo i fatti narrati, mi è capitato di essere l'ultimo capocronista. Chiusi per sempre quella porta e mi trasferii alla sede di Roma, in via dei Taurini. E fu qui, credo, che cominciai a difendermi con Caccioppoli.
Dunque, ai primi di maggio del 1938, alla vigilia della visita a Napoli di Hitler e Mussolini, la città brulica di tedeschi in allerta, venuti in avanscoperta a sondare il terreno. Il clima politico è più teso
del solito. Quella sera Caccioppoli, che è depresso, e Sara, la sua compagna, che invece come spesso accade è euforica, decidono di uscire insieme per andare a bere qualcosa. Sara Mancuso è una bella ragazza e in molti le fanno la corte. Appartiene a una delle più note famiglie della borghesia cittadina, che mal sopporta le sue frequentazioni comuuniste. A quel tempo, Sara è divisa tra due amori: quello per Renato, che sposerà l'anno successivo, e quello per un altro dirigente del Pci, Mario Alicata, di cui diventerà l'amante.
Sotto braccio lungo l'attuale via Chiaia e dopo aver attraversato la galleria Umberto I, raggiungono la birreria più frequentata del tempo, in piazza Municipio. La Lowenbrau era un locale assai suggestivo, con una boiserie in rovere di Slavonia e la parete in fondo interamente occupata da un grannde organo a canne. Quella sala è rimasta cos1 per molti anni, al piano terra del Grand Hotel de Londres, accogliente d'inverno e allegra d'estate. Fino a quando, pur conservando le canne dell' organo, un burocrate senza memoria l'ha adibita a sede del Tribunale amministrativo regionale, con gli armadi in ferro gonfi di fascicoli al posto dei tavoli di legno massiccio. Ma si fa, dico io, una cosa del genere?
In quella birreria, Renato e Sara entrano senza badare agli altri avventori, e non si accorgono degli uomini in uniforme militare sparsi un po' ovunque, perché altrimenti, vibranti come sono di idee e sentimenti antifascisti, si terrebbero sicuramente e ostentatamente alla larga.
Dunque, salutano qualche amico e si siedono.
Di cosa parlano? Perché sono così presi? Nel suo romanzo, Ermanno Rea avanza !'ipotesi che da giorni Caccioppoli avesse un'idea che gli frullava nella mente e che quella sera la stesse appunto confessando alla futura sposa: probabilmente si sentiva giù di morale, addirittura già morto, ed era in cerca di un gesto clamoroso che desse un senso alla sua vita. Ma questa è una supposizione, una licenza narrativa. Quel che è certo è che all'improvviso i fascisti attaccano a cantare «Faccetta nera, bell'abissina ... » e costringono l'imbarazzato organista ad accompagnarli. Solo a questo punto, Caccioppoli ha un sobbalzo. Due salti e raggiunge l'organista. «Vai via, scansati» gli urla. Quindi si siede al suo posto, si allunga sulla pedaliera e con quanta furia ha in corpo comincia a suonare La Marsigliese. Renato suona e Sara canta. Per molti, dopo l'arrivo della polizia, la serata finirà davanti a un agente che li invita a fornire le proprie generalità. Solo Caccioppoli verrà trattenuto in stato di fermo.
Ora rivediamo la scena: gli uomini in uniforme militare, il fumo in sala, !'inno rivoluzionario, i cori contrapposti. Che cos'è tutto questo se non Casablanca? Anzi, che cos'è se non la scena clou del film di Michael Curtiz con Humphrey Bogart e Ingrid Bergman? Per anni ho creduto che questa storia napoletana, come l'episodio del pollo al guinzaglio, non fosse altro che la trasposizione nel reale di qualcos' altro, nel caso specifico di un film famoso. Mi spingeva a crederlo ciò che tutti sapevano di Caccioppoli: che fosse un cinefilo, che già allora animasse un noto e affollato cineforum, che amasse accompagnarsi a gente dello spettacolo e che avesse un'istintiva propensione alla teatralizzazione dei propri comportamenti. E invece la successione cronologica era tutt' altra, e andava nel senso opposto a quello immaginato.
Il colpo di teatro alla birreria L6wenbrau è del 1938, la commedia da cui è tratto il soggetto, Everyybody Comes to Rick's, è del '40 e il film è del '42. Fu girato negli studios di Hollywood e distribuito l'anno successivo. Nella finzione cinematografica tutto accade nel Marocco occupato, già sotto il controllo
del governo di Vichy, nel locale di Rick (Humphhrey Bogart). Qui, tra tovaglie di pizzo e camerieri che si incrociano indaffarati, gli ufficiali nazisti fuumano e stappano bottiglie di champagne, aggiunngendo l'ebbrezza dell' alcol a quella ideologica; dal canto suo, l' orchestrina accompagna languida il leggendario Sam di As Time Goes By. L'atmosfera è apparentemente rilassata, ma lo spettatore sa che nell' ombra sta prendendo forma un progetto di rivolta. Nel locale, dove sono arrivati dopo essere entrati clandestinamente nel Paese, ci sono anche Victor Laszlo, leader della resistenza ungherese, e sua moglie, l'irresistibile Usa Lund, interpretata da Ingrid Bergman, che di Rick, come si sa, era stata l'amante. Storie di amori intrecciati, nostalgie di affetti perduti o non più esclusivi, il privato che si mescola con la politica: il film made in Usa sembra ricalcare pari pari la realtà napoletana.
E, del resto, avvolti nel fumo dei loro sigari, a un tratto anche i nazisti attaccano a cantare gli inni nazionali. «Zum Rhein, zum Rhein, zum deutschen Rhein ... ». Proprio come era accaduto alla Lowenbrau, la musica comincia a farsi incalzante e gli sguardi, prima solo incuriositi, diventano via via più inquieti. Laszlo, che pure è un partigiano di grande esperienza, è visibilmente insofferente. Impossibile sopportare tanta arroganza nazista. Così, incurante del pericolo, quando la tensione è al massimo l'eroe ungherese si avvicina all'orchestra e chiede di intonare l'inno della rivoluzione francese. I musicisti non sanno cosa fare, continuano a seguire le innocenti armonie di Sam, ma intanto cercano con gli occhi quelli di Rick, l'unico che può toglierli dall'imbarazzo.
A serata ormai compromessa, Rick non si tira indietro: stretto nel suo impeccabile smoking bianco, risponde con un appena percettibile cenno del capo. È questo, probabilmente, l'attimo che proietta Humphrey Bogart tra le stelle del cinema internazionale e lo consegna definitivamente alla leggennda. Si comincia. «Allons enfants de la Patrie, le jour de gloire est arrivé ... » I nazisti tentano di cantare più forte, accennano a una rimonta, ma non c'è nulla da fare, i partigiani hanno la meglio. La cinepresa stringe sul primo piano di una donna che grida «Vive la France!», tutt'intorno molti brindano e si complimentano con Laszlo. A notte fonda irrompe la polizia e il capitano Renault ordina ai suoi uomini di chiudere il night club. Qualche giorno dopo, all'aeroporto di Casablanca, Rick e Usa si separano per la seconda volta, la prima era stata a Parigi. E questa volta per sempre. Caccioppoli ottenne la scarcerazione e poi il ricovero in una clinica psichiatrica. Sara, invece, tornò a casa. Si sposarono, ma poi si separarono per sempre anche loro.
Pure coincidenze? Può darsi. Mi è stato anche detto che a quel tempo non c'era ancora l'abitudine di cantare né Bandiera rossa, né Bella ciao, e che La Marsigliese era l'inno di tutti i rivoluzionari, il che ridimensionerebbe di molto il grado delle affinità. Ma il locale pubblico? Gli uomini in uniforme militare? Gli amori? I tradimenti? Di Casablanca si sa tutto. Si sa che ha vinto tre Oscar (miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura) e che, come ha scritto Umberto Eco in un vecchio articolo del 1975 sull'«Espresso», molti lo hanno ritenuto un film bello perché interessante, credendo lo interessante perché bello. E si sa anche delle incertezze della sceneggiatura, di un altro finale che però non venne utilizzato, della presunta chiave di lettura omosessuale a proposito di Rick e del capitano Renault. Ma resta il mistero di quella scena.
Le date non dicono tutto, d'accordo, ma perché escludere che la favola di Humphrey Bogart e Ingrid Bergman possa essere stata ispirata dal gesto vitale di un matematico napoletano? Qualcuno potrebbe aver raccontato quella scena al regista o a qualcuno che a sua volta avrebbe potuto riferirIa a lui. Non era, Caccioppoli, addentro al mondo del cinema? Non frequentavano, lui e Sara, sceneggiatori e scrittori? E non è tutto. Murray Burnett, uno degli autori della commedia da cui è tratto il soggetto della pellicola, nell' estate del '38 si trattenne in Europa per un lungo periodo, soggiornando di sicuro a Vienna e sulla Costa Azzurra, dove, tra l'altro, erano di passaggio molti emigrati perseguitati dal fascismo diretti in America. E proprio sulla Costa Azzurra, a Nizza, Sara Mancuso aveva studiato e aveva parenti e amici. Lei era stata mandata dai genitori nella speranza di farle dimenticare Renato, che intanto era finito in clinica.
Dopo il film su Caccioppoli ho incontrato più volte Martone, ma non gli ho mai rivolto la vera domanda che avevo in mente. Poi ci siamo rivisti alla presentazione del suo ultimo film, Noi credevamo, dedicato ad alcuni episodi del Risorgimento, e allora gliel'ho chiesto: come mai in Morte di un matematico napoletano non c'era alcun riferimento alla Marsigliese? Fuorviante? Troppo retorico? «No,» mi ha risposto «niente di tutto questo. Semplicemente, perché il film raccontava l'ultima settimana di vita di Caccioppoli e non c'erano flashback. E poi perché non ci ho mai pensato. Ma davvero potrebbe esserci un legame con Casablanca?»

Credo proprio di sì. O, almeno, così mi piace credere. Tanto più che dopo il parapiglia alla L6wenbrau, gli acquiescenti e rassegnati napoletani diedero vita alle famose Quattro giornate. E in quella occasione, che molti continuano a non menzionare tra i primi episodi della Resistenza italiana, la rivolta del singolo divenne la disperata ed eroica rivolta di un'intera popolazione. Le cronache parlano di 2632 combattenti, 260 caduti, 219 mutilati e invalidi e di medaglie al valore dedicate già dopo pochi mesi a Gennaro Capuozzo di anni 12, a Filippo Illuminato di anni 13, a Pasquale Formisano di anni 17, e a Maddalena Cerasuolo, la pasionaria, detta Lenuccia 'a Sanità.
Fu una rivolta di odio contro i tedeschi, una resistenza civile senza movimenti ideologici e banndiere di partito, ma pur sempre una Resistenza.

2
I telai di Camilleri ovvero
Nostalgia della duosicilianità

Con un padre nato a Licata e una madre napoletana, io la duosicilianità ce l'ho nel sangue. È così: la sento pulsare al minimo accenno dialettale, mi prende a ogni scatto di memoria. Se vedo Passione, il film di John Turturro sulla canzone napoletana e sulla Napoli dei vicoli e dei panni stesi, ad esempio, mi viene subito in mente una battuta di Alessandro Siani: «Ma ' sti panni nun s'asciugano mai?)). Eppure, al cinema mi sono ritrovato anch'io preso dall'onda emotiva che ha portato tutti ad alzarsi e ad applaudire, perché ti sfido a resistere alle note di Comme facette mammeta e alla voce rugginosa e verace di Pietra Montecorvino.
Per la stessa ragione, se leggo Prima la musica, poi le parole, l'autobiografia di Riccardo Muti, ho un soprassalto di infantile euforia quando arrivo all'episodio del cappello. Non dico poi se il maestro lo racconta in tv e per giunta in dialetto: il suo compiacimento diventa di colpo anche il mio. Siamo nella fredda Milano degli anni Sessanta. Un amico incontra il giovane Muti da poco trasferitosi per proseguire gli studi e lo sorprende con il Borsalino in testa.
«Uè, Riccà, ma ch'hai fatto?» «Che ho fatto?»
«Ma come! Mi pari Barrièllo.» «Barrièllo chi?»
E l'amico: «'0 cazzo c'o' cappiello».
Chiunque, a questo punto, avrebbe riso solo per la parolaccia, ma la duosicilianità non è acqua fresca: è memoria, è condivisione. E allora ecco che un napoletano come me ride anche per l'effetto livella, perché è proprio vero, come diceva Totò nella poesia, che qui «ognuno comme a 'n ato è tale e quale». Muti, il grande maestro che ha diretto le migliori orchestre del mondo e incantato ogni tipo di pubblico, era stato sfottuto esattamente come poteva capitare a un comune mortale. Solo che a me e a quelli della mia generazione, che il Borsalino lo avevamo già messo da parte, la rima veniva di farla con quelli che portavano gli occhiali. Dicevamo: Me pari Clemente, '0 cazzo cu e lente.
Sono duosiciliano, ancora, perché sono nato a Napoli, nell' ex capitale del Regno delle Due Siciilie, dove ho vissuto per anni in un angolo di Sicilia agrigentina, in una casa che odorava di zucchero a velo e di lino bagnato. Una sorella di mio padre usava lo zucchero per i cannoli e il lino per i corredi. Di sera, quando il sole non poteva più scolorirlo, zia Nina faceva portare il lino bagnato in terrazza a sgocciolare. Poi, ancora umido, ordinava di riportarlo giù. Il mattino seguente tutta la casa sapeva di fresco.
Questi profumi lontani, questi ricordi e queste atmosfere familiari sono la duosicilianità di cui sto parlando e che dunque esiste. Così come esiste la nordestità, o addirittura quella che un inviato speciale come Mariano Maugeri ha chiamato, traendo ne il titolo di un suo libro, la (Nordestraneità», vale a dire la duosicilianità allo specchio, la particolare attitudine dei veneti e dei friulani alla libertà e all'autonomia.
Fabio Fazio, intervistato su «Sette», il magazine del «Corriere della Sera», ha dichiarato di storcere il naso al solo sentir parlare di Padania: «Ma cos'è?

Che confini ha? Sono di Savona e non l'ho mai vista». Capisco, perché in effetti ha ragione. Ma che la padanità esista ormai fo dicono in molti. L'hanno detto anche Sergio Cofferati, quando era sindaco di Bologna, e Riccardo Illy, quando era presidente della giunta friulana. Entrambi hanno ammesso che l'idea di Padania evoca comunque una comune appartenenza. Ed è un po' quello che pensa anche Nichi Vendola, governatore della Puglia, quando, in La fabbrica di Nichi, riconosce che «la Lega fa una straordinaria, seppur distorta, operazione di risarcimento simbolico», intendendo dire che la Lega ti dà ciò che il governo italiano ti toglie: il governo ti toglie con le tasse e i disservizi, la Lega ti accoglie nella sua grande famiglia politica.
A ragione, si obietta che la Padania è nient' altro che un espediente, un artificio geopolitico. E chi lo nega? Ma qualcuno saprebbe dire dove comincia e dove finisce il Meridione? Eppure, Meridione è un concetto corrente, nessuno sta Il a misurarne i confini, a chiedersi se Sant'Agapito sia dentro o fuori .. O Capracotta e Castelpizzuto.
Pur avendola nel sangue e nonostante tutto quello che ho fin qui detto, dunque, io spero che la duosicilianità non mi vada alla testa, che resti Il dov'è, buona buona, senza invadermi. Perché ci si può inorgoglire citando la storia di Renato Cacciopppoli e delle Quattro giornate, ci si può divertire con gli aneddoti e la filosofia pret-à-porter di De Crescenzo e ci si può commuovere ascoltando canzoni come Malafemmena o Indifferentemente, che per certi versi la supera, perché è più assoluta, più tragicamente shakespeariana: «E damme stu veleno, nun aspetta' dimane, ca indifferentemente, si tu m accide, je nun te dico niente». Ma non vedo perché si debba dire: «Homo terronicus sum, et amo cumterronicos».
Questo lo lascio dire a Marcello Veneziani, autore di Sud, libro scritto nel 2009 con lo stesso spirito con cui, nel 1941, Elio Vittorini scrisse Conversazione in Sicilia: come un ritorno alle origini, con lo stesso amore per la terra, la famiglia, i luoghi dell'infanzia. Ma per Vittorini l'ebbrezza della nostalgia era un' ebbrezza senza speranza, tant' è che il protagonista del suo romanzo se ne torna deluso nella più moderna Milano, mentre per Veneziani la nostalgia del Sud è un' ebbrezza e basta, e tale rimane. Ora, so bene che a tutti possa scappare di rivendicare la propria napoletanità o sicilianità o pugliesità. Ma perché insistere su quel terronicus?
Sempre in Sud, Veneziani dice che «amare le differenze» non vuol dire «armarle». Ma il fatto è che, gonfi di rancore, gli «armati» potrebbero alla fine prevalere sugli «amanti», perché c'è poco da fare: la Bassa Italia cammina, ma l'Alta Italia va più veloce. Del resto, ne ho sentite molte, raccontate in siciliano, di storie sull' acqua mancante, sulle autobotti in ritardo, sulle buttigghie riempite con santa rassegnazione. E ne ho sentite ancor di più sull'illegalità patita a Napoli e sul destino di questa città che sarebbe già segnato.
Insomma, loro potrebbero avere la meglio. E loro non sono, come scrive Veneziani, quelli che «dopo valanghe di istigazioni a liberare il Sud dagli incantesimi» vogliono a tutti i costi adeguarlo «alla nordica modernità, all'etica protestante e weberiana». Sarebbe poi cos1 sconveniente se ciò avvenisse, diciamo, in una certa misura? Loro non sono neanche quelli che si danno da fare per tenere in vita «il Sud di Pitagora e di Vico, il Sud greco e poderoso delle origini». Perché se cos1 fosse non ci sarebbe nulla di male, io credo. No. Loro sono i professionisti degli «amarcord» e degli anacronismi, i preraffaelliti del pensiero meridiano, i nostalgici della duosicilianità verginale che, nell' era dell'iPad e del BlackBerry e nell'Italia che non si incontra ma si briffa e che non scrive ma posta e logga, vorrebbero oggi un Sud «arcaico e perfino magico e superstizioso». Nonché borbonico.
Tra questi, e con tutto il rispetto dovuto al padre letterario del commissario Montalbano, io ci metto anche Andrea Camilleri, lo scrittore siciliano di cui mi ha sempre colpito una storia da lui raccontata come esempio della perfidia dei piemontesi vincitori. È la storia dei telai. La ricordo proprio perché nella mia vita c'è stata una zia, piccola, silenziosa e curva, che con ago e ditale ricamava fino a poco prima del tramonto, alla luce naturale di una grande finestra; e che ancora rivedo come in un quadro di Vermer.

La storia dei telai siciliani Camilleri la raccontò all'«Unità» nel 2008, quando Napoli, al tempo dellla prima emergenza rifiuti, era sepolta sotto cumuli nauseabondi e ognuno cercava una spiegazione a tanto scempio. Disse che al tempo dell'unificazione italiana i siciliani avevano ottomila telai che producevano stoffe di prim'ordine e che nel giro di due anni sparirono tutti, a esclusivo vantaggio di quelli di Biella, gli unici rimasti funzionanti. Capito? lo capii solo che i siciliani tessevano più e forse meglio
dei biellesi. Mi lasciò invece basito il fatto che a Napoli noi si penasse tra cumuli di pattume e miasmi e Camilleri tentasse di spiegare tutto con i suoi telai. Non afferravo il nesso. Se a lui fossero rimasti i telai, a noi avrebbero tolto l'immondizia? In sostanza, non afferravo che al Sud «arcaico e perfino magico e superstizioso» avrei dovuto aggiungere, appunto, anche quello borbonico.
Un po' troppo, in verità. E non credo che il mio sia il tipico disagio illuministico di chi vive male la propria meridionalità. La vivo bene, anzi benissimo. A patto che non sia totalizzante, che non diventi l'espressione di una nuova ideologia. Già ho detto della storia di Caccioppoli usata come corpo contundente. Ma potrei raccontare anche di quando, a metà degli anni Settanta, a Napoli fu allestita un'imponente mostra sulla «civiltà del Settecento». A inaugurarla fu il sindaco comunista Maurizio Valenzi, di cui ero il cronista al seguito. Di fronte a quella mostra, che era in realtà un deferente omaggio ai Borbone, anch'io mi sentii riconciliato. Da una parte Enrico Berlinguer, l'allora segretario del Pci, dall'altra Carlo III, il migliore di quei re; da una parte l'austerità anticapitalistica, dall' altra i fasti impareggiabili della monarchia borbonica. Per quanto arduo, l'accostamento reggeva, perché c'era un equilibrio di toni e di misure. E non c'erano equivoci sui tempi. Quello messo in mostra, gli arazzi, le porcellane, le carrozze e perfino le macchine per il divertimento, era il passato. Punto.
Inoltre, non sono mai stato un novantanovino, uno di quelli che, nonostante il clamoroso falliimento, ancora coltivano il mito della Repubblica napoletana del 1799; il mito di Eleonora Pimentel Fonseca e di Gennaro Serra di Cassano, di Domenico Cirillo e di tutti gli intellettuali rivoluzionari che pagarono con la vita l'avversione alla monarchia, l'eccessiva dipendenza dai francesi e l'assoluta distanza dal popolo. Un vero novantanovino ha la fede antiborbonica di un napoletano come l'avvocato Gerardo Marotta, fondatore e presidente ad vitam dell'Istituto italiano per gli studi filosofici, che all'imperituro ricordo di quei martiri ha devoluto tutti i suoi averi. O la passione giacobina di un cilentano illustre come il procuratore generale della Cassazione, Vitaliano Esposito, che ho visto piangere e immalinconirsi a ogni citazione di Francesco Mario Pagano, padre della Costituzione della Repubblica napoletana.
Ma se non è la fede giacobina, che cosa mi infastidisce nell' esaltazione borbonica? Ebbene, credo che mi stordisca tutto quell' eccesso di orgoglio che trasuda da ogni elencazione dei cosiddetti primati storici meridionali. A partire proprio dai telai siciliani, dalle sete di San Leucio, dalla prima ferrovia Napoli-Portici, e perfino dall'insuperabile ma imitatissimo San Carlo.
È vero, avevamo il più bel teatro del mondo, Stendhal ne andava pazzo; producevamo stoffe pregiate, si esportavano in tutti i continenti; potevamo andar fieri per una strada ferrata già nel 1839 (la Torino-Moncalieri è di nove anni dopo). E si sa, avevamo anche il primo telegrafo elettrico e il primo faro lenti colare, il primo ponte sospeso in ferro, quello sul Garigliano, lungo 287 palmi, pari a 76 metri, realizzato in soli quattro anni e così ben fatto da reggere il peso dei carri armati tedeschi in ritiraata. Senza contare il bacino di carenaggio più grande, ma tra quelli in muratura, e la prima nave a vapore del Mediterraneo o la prima a elica in Italia. Mentre nelle piazze e lungo i vichi c'erano già, a rischiarare le notti napoletane, i primi lumini a gas. Ne sono stati contati più di 350. Dimenticavo: e la prima cattedra di Astronomia in Italia, affidata a Pietro De Martino? E la prima cattedra di Economia politica nel mondo affidata ad Antonio Genovesi? E il primo orto botanico o il primo museo mineralogico al mondo? Avevamo anche il maggior numero di tipografie, più di cento solo a Napoli, il minor carico fiscale e la più consistente riserva aurea di tutta la penisola.
Avevamo tutto questo. Ma sempre eccezioni erano. E con le eccezioni borboniche tutto, ancora oggi, si giustifica; poco o nulla si risolve. Del resto, nel suo Voyages en Italie, Stendhal magnificava il teatro San Carlo, ma dei napoletani parlava come di barbari, gente «rozza e seminuda che neanche nei caffè ti si toglie di torno». E l'Abate Galiani, che pure a Napoli era di casa, scriveva in continuazione alle sue amiche Madame Necker e Madame d'Épiinay per confessare che viveva «in un deserto spaventoso» e che temeva di finire «napoletano come gli altri». E poi, non vorrei dire: ma anche l'Urss aveva le sue Soyuz e i suoi laboratori spaziali, le sue prime cagnette spedite in orbita e le sue prime sonde lunari. E il lavoro per tutti? E l'assistenza garantita? E l'uguaglianza e l'internazionalismo? Eppure è finita come è finita. O sbaglio?
Forse ora è più chiaro il perché del mio disagio quando ho letto Terroni, il libro di Pino Aprile
uscito nel marzo del 2010 e dedicato all'altra faccia del Risorgimento, al Mezzogiorno occupato e depredato. Ho pensato: ecco, ci risiamo con la voluttà della malinconia, con l'antagonismo meridionale, con la favola del Borbone liberale e garantista e la tesi del risarcimento per i danni subiti, con la furia rancorosa, con i coltelli tra i denti per le ferite ancora sanguinanti, con il Sud colonizzato dai piemontesi spietati.
Siamo precipitati, infatti, in quello che per me è il paradosso del giorno confuso con la notte. Che consiste nel temere le luci dell' alba e non le oscurità profonde, lo scampato pericolo e non il pericolo incombente. Mi spiego. Nel caso di Terroni, qual è la notte? Il regno borbonico o l'Italia unita? Non c'è dubbio: per Pino Aprile l'oscurità è venuta con le camicie rosse e con i bersaglieri, con il ribaltamento delle classi dirigenti infeudate e con le riforme sabaude. Così come in Napoli milionaria di Eduardo De Filippo la nuttata non è quella delle rappresaglie e dei rastrellamenti nazisti, ma viene con le am-lire e il boogie-woogie portati dagli americani. Adda passa' a nuttata dice Eduardo. E lo diice all'inizio del 1944, in una città appena liberata, quando i tedeschi sono stati già messi in fuga e a Napoli cominciano a sventolare le prime bandiere a stelle e strisce.
In ogni caso, la vera chiave di lettura di Terroni me l'ha suggerita un take d'agenzia apparso un pomeriggio sul computer di redazione. Riferiva di un singolare gioco della torre e di una insolita domanda. Vittorio Emanuele II o Giuseppe Musolino? L'ultimo re di Sardegna e primo re d'Italia, il cavaliere a spada tesa dell'incontro di Teano, l'artefice dell'Unificazione insieme con Garibaldi e Cavour; o u rre dill'Asprumunti, il taglialegna diventato brigante, l'autore di almeno una dozzina di omicidi, tra cui quello di una donna? Era questa, nell' estate del 2010, la domanda posta a Roberto Maroni, ministro leghista con l'incarico preciso di acchiappare i fuorilegge.
Il gioco della torre è la specialità di Atreju, la kermesse dei giovani berlusconiani che si tiene ogni anno a Roma e i cui partecipanti, per come è congegnata, non se la possono cavare con una battuta di comodo o sufficientemente ambigua. Tipo «abbatto entrambi» o «vada per il re dei briganti», che può valere, volendo e alludendo, tanto per il monarca, quanto per il ribelle armato. No. Bisogna letteralmente buttare giù uno dei due. Il ministro degli
Interni Maroni, il volto istituzionale del Carroccio, chi avrebbe buttato giù? Il re o il brigante?
Quando poco prima gli hanno chiesto di scegliere tra la canotta bossiana e la camicia d'ordinanza leghista, Maroni se l'è cavata tradendo il capo in nome dei sacri simboli. Per ironia della sorte, Atreju, il bambino-guerriero protagonista della Storia infinita che ha rinunciato a vendicare la morte dei genitori per dedicarsi alla Grande Ricerca, è un cucciolo della tribù dei Pelleverde. E Maroni è un camiciaverde, perché è il verde il colore d'ordinanza del suo partito. Ragione in più per non deludere. Ma adesso?
«Giù il Savoia!» è la risposta. Una scelta antitaliana, avrebbe detto Francesco Cossiga, che all'antitalianità ha dedicato un bel libro. Ma è inutile farne un dramma, tanto più, mi dice lo storico Giuseppe Galasso, che «Maroni gioca a fare il leghista estremo ma è un buon ministro degli Interni e persegue i briganti, i nuovi briganti».
La battuta di Maroni, che come è giusto che sia è scivolata senza lasciar tracce sui giornali, tranne che in un trafiletto sul «Corriere della Sera», era però importante, almeno per me, perché confermava una vecchia legge, valida sia in politica che in amore. E cioè che così come ci sono uguali che si respingono, ci sono anche estremi che si toccano. Anche gli estremi di cui si parla in questo libro: nordismo e sudismo. O meglio: turboleghismo e ultrasudismo, i quali possono specchiarsi, avvicinarsi e sovrapporsi molto più di quanto si possa immaginare.

Se così non fosse, se certi opposti non si toccassero, sarebbe difficile spiegare il successo editoriale di Terroni, un volume che è uno sbuffo liberatorio di umori sudisti. Un libro antigaribaldino e antirisorgimentale in cui i piemontesi di Vittorio Emanuele II vengono paragonati, in ordine sparso, agli sterminatori di Marzabotto, ai Lanzichenecchi di Roma, ai carcerieri americani di Abu Ghraib, ai soldati marocchini in Ciociaria, ai francesi in Algeria, alle truppe di Tamerlano e di Gengis Khan, di Attila e di Pinochet. E solo dopo molte pagine, e in modo indiretto, anche ai Khmer rossi di Pol Poto Un libro così concepito e dichiaratamente di parte (<<Ho stabilito una personale moratoria: centocinquant' anni bastano, ora voglio sentir parlare solo dei difetti dei settentrionali») è stato letto ed è piaciuto sia nell'ex Regno delle Due Sicilie sia in quello di Sardegna. E non credo che ciò sia avvenuto solo perché al Nord ci sono molti immigrati meridionali.
Quando nell' ottobre del 2010 Terroni viene presentato insieme con Cuor di Veneto, di Stefano Lorenzetto, orgogliosa raccolta di testimonianze del Nord-Est, a far da «padrini» di un ipotetico duello geopolitico ed editoriale ci sono Raffaele Lombarrdo, governatore autonomista della Sicilia, e Flavio Tosi, sindaco leghista di Verona. Sul «Giornale» Lorenzetto annota: «Chi si aspettava di veder scorrere il sangue a las cinco de la tardes, in realtà è rimasto deluso, perché Lombardo e Tosi si sono trovati d'accordo praticamente su tutto». Lo stesso giorno, Francesco Merlo, sulla «Repubblica», parla di terroni e razzisti uniti nella lotta contro l'Italia. E rimpiange i tempi di Quelli della notte, programma Rai che spopolò nell'estate del 1985, quando con ironia e leggerezza Renzo Arbore metteva insieme Miss Nord e Miss Sud, il romagnolo comunista Maurizio Ferrini e il siciliano Nino Frassica di ritorno dalla sua mitica Scasazza.
Con quale termine indicare questi opposti che si incontrano? Che cosa tiene insieme illeghista filobrigantista e il sudista antipiemontese? È il «terronismo», con la enne. Un termine che nei dizionari ancora non esiste. Dovrebbe stare prima di terrore, ma ancora non si trova. Nella Treccani c'è terrone, che è tratto dalle espressioni «terre matte» o «terre ballerine» con cui talvolta si indicavano le regioni dell'Italia meridionale. Ma non c'è terronismo. Se si interrogano Google e altri motori di ricerca, scatta automatica la correzione in terrorismo. Se però si insiste, come ha fatto Pietro Trifone in Storia linguistica dell’Italia disunita, a partire dalla base «terrone» può venir fuori di tutto. Dai diminutivi terroncino, terrunciello e terronetto, agli accrescitivi terronone e terroncione. Dai peggiorativi terronaccio, terronazzo e terronastro, ai sostantivi terronata, terrronità, terroneria, nonché terronizzazione, terronico, meridio-terronale, terronistico. E non mancano il verbo terronare, utilizzabile al posto di taroccare, e la parlata terronese. Che poi sarebbe quella di Diego Abatantuono ai tempi di Eccezzziunale veramente e Viuulentemente mia, quando chiamava la moglie Babbara e non Carmela, che era il suo vero nome, «pecché fa più settentrionale»; e quando da buon figlio di padre pugliese, a ogni occasione ripeteva: «1' so' milanese ciento pe' ciento».

3
Il colbacco e il giubbotto antiproiettile ovvero
Il terronismo

Il terronismo è la convergenza di due opposti localismi, è «quel qualcosa in comune» di cui si parla in un post che non è passato inosservato e che ha colpito anche Giovanni Floris, conduttore di Ballarò e autore di Separati in patria, un libro sull'Italia divisa. Un tizio che si firma Lanzichenecco un giorno si connette al sito www.politicaonline.net e spiega che tra nordisti e sudisti le cose in comune sono due. «La prima è l'odio; noi vi odiamo, come meritate, e voi ci odiate. La seconda è la consapevolezza che l'Italia non esiste, è solo una espressione geografica.» Lanzichenecco scrive anche che «i Savoia hanno fatto quello che hanno fatto, mettendo insieme popoli che non hanno niente a che fare tra di loro, etnicamente, storicamente, linguisticamente ... ». E così conclude: «Dovremmo fare tutti la nostra parte, nelle nostre rispettive terre, in un' ottica anti-italiana. Speriamo che questa pagliacciata che dura da 150 anni finisca presto ... ».

Il terronismo è a geografia illimitata, nel senso che i terronisti sono ovunque, al Nord, al Sud e anche al Centro. A Formia, in un giorno d'estate, ho visto un' enorme scritta su un muro. Ripeto: ero a Formia e non nel profondo Nord, chessò, ad Adro, dove le scuole le arredano con i simboli della Lega; o a Pontida, dove ci si inebria con i riti celtici; o a Lazzate, in Brianza, dove perfino le strisce pedonali sono verdi e dove vie e strade si chiamano «Padania» o «Sole delle Alpi». Ebbene, nel Basso Lazio, a due passi dal mare e all' ombra di palme non ancora infestate dal punteruolo rosso, sul fianco di un palazzo leggo questa frase: «Qui non si fittano case ai napolecani». Proprio così, con la ci e non con la ti. <<A me i gatti neri mi guardano in cagnesco» diceva Totò. Profetico.
Nell'Italia delle piccole patrie, le patrie regionali e cittadine sempre più sentite di quella nazionale, il terronismo «di prossimità» è un fenomeno nel fenomeno. I nordisti ce l'hanno con quelli del Sud, e viceversa. Ma tra di loro non scherzano affatto, e non dimenticano. Ci sono veneziani che ancora guardano con sospetto i genovesi perché colpevoli di aver scoperto l'America e di averli tenuti fuori dai traffici marittimi. Mentre a scrivere Maledetti toscani, a sottolinearne il cinismo e a dire che «dove e quando gli altri piangono, noi ridiamo» è stato appunto un toscano, Curzio Malaparte, anche se con villa a Capri. E chi le ha raccontate ai meridionali le storie dei piemontesi falsi e cortesi o delle donne venete che in italiano sapevano dire solo due parole: «Comandi, signore»?
D'altro canto, dove nasce il razzismo antimeridionale? Al Nord, certo, perché lo attesta scientificamente, o almeno così crede, Cesare Lombroso, un veronese. Ma poi, come vedremo, saranno i suoi seguaci, tutti meridionali, a diffonderlo con particolare zelo.
Vincenzo De Luca, sindaco di Salerno, nel 2010 porta il suo saluto a un congresso della Cisl. Parla di camorra e riciclaggio, e dopo aver premesso di non essere un razzista, rivela tra gli applausi di sentire puzza di bruciato in alcuni negozi di Salerno gestiti da napoletani. Due anni prima, la sera in cui la Salernitana è stata promossa in serie B, va allo stadio e Il, esaltato, stringe mani e dà pacche sulle spalle. Si complimenta anche con i tifosi: «Bravi, mi piace questo slogan». «Noi non siamo napoletani» cantavano quelli. Cantavano e saltavano. In altre occasioni, De Luca ha parlato di «pulcinellismo» o di «magliarismo napoletano», e per magliari solitamente si intendono gli imbroglioni e i truffatori. E gli intellettuali napoletani? «Non vedono più in là di Bagnoli e Ponticelli», che sono le opposte periferie della città. C'è chi concorda.
Alla vigilia delle elezioni amministrative del 2006, telefono a Nusco, al più irpino degli irpini. «Pronto, Ciriaco De Mita?» La risposta: «Voi napoletani, insopportabili!». E perché? «Ma sl, vi lamentate vi lamentate, ma poi siete i primi ad adeguarvi.» Era successo che il magnifico rettore dell'Università Federico II di Napoli, Guido Trombetti, lo aveva appena lasciato per strada, nonostante De Mita volesse puntare su di lui per sostituire la sindaca Iervolino, di cui nessuno gli parlava più bene. L’insofferenza era diffusa, è vero. C'erano state assemblee di protesta e petizioni, lettere ai giornali e dichiarazioni di dissenso. Ma fin1 con la sindaca uscente rieletta a furor di popolo.
E Vendola? A fine 2010 qualcosa è andato storto nella discussione sul bilancio della Regione Puglia, un paio di consiglieri di Foggia si sono messi di traverso e nel corso di una conferenza stampa, al governatore pugliese scappa un velenoso e imprevedibile attacco al foggianesimo. Che poi sarebbe una variante del vittimismo, un sorta di egoismo senza misericordia. Degli italiani, ma di tutti gli italiani, un giornalista e scrittore come Giuseppe Prezzolini diceva che erano «interessosi», cioè motivati esclusivamente dai loro piccoli interessi personali. Vendola ridimensiona il fenomeno, lo riduce a scala provinciale, ma cos1 facendo legittima più di un dubbio: esisteranno anche il baresismo o il barlettismo? Forse s1. «Vendola ha ragione» commenta da lontano, ma da foggiano, l'attore e regista Michele Placido. «Che siamo come i bolognesi, noi? O come i valdostani? Noi non siamo neanche come i barlettani, che pure un po' di iniziativa ce l'hanno.» Solo a VIadimir Luxuria, ex di Rifondazione comunista come Vendola, e a pochi altri conterranei, tra cui il rettore dell'Università degli Studi di Foggia, Giuliano Volpe, viene in mente che possa trattarsi dell' ennesimo pregiudizio.

Tutto origina dall'abitudine a ridurre l'altro a un'idea semplice semplice. Anzi, alla più semplice che ti passa per la mente. In una scena di Tra le nuvole, un film del 2009, George Clooney è in un aeroporto, in coda al metal detector, e insegna alla giovane collega il trucco per sbrigarsi rapidamente.
Clooney: «Mai stare dietro gli anziani, hanno le ossa piene di metallo e sembrano non apprezzare quanto poco tempo gli sia rimasto. Eccoli. Asiatici. Sono essenziali: bagaglio leggero e hanno la fissazione per i mocassini. Li adoro!».
La collega: «Questo è razzismo!».
Clooney: «Sono come mia madre, mi affido agli stereotipi. Si fa prima».
Per la stessa ragione, Milano è al Nord e poiché al Nord fa freddo bisogna coprirsi bene, sia in estate che in inverno: ecco spiegato il colbacco dei napoletani che arrivano in piazza del Duomo in Totò, Peppino e la malafemmena un film del 1956. Napoli invece è al Sud, e poiché al Sud c'è la camorra bisogna proteggersi sempre: per questo è necessario il giubbotto .antiproiettile che indossa Claudio Bisio in Benvenuti al Sud, pellicola uscita nel 2010. Cinquantaquattro anni per passare dall'ironia alla parodia.
Il terronismo affonda le radici in quell' atteggiamento prevenuto con cui al Nord si accoglievano i primi immigrati meridionali. Era il fastidio per le valigie di cartone tenute strette con lo spago, mentre ora è lo sfottò di chi, in finto inglese, i terroni li chiama graziosamente terry. Terronismo è anche lo smarrimento del compassato piemontese accolto con un doppio bacio sulle guance e non con una formale stretta di mano. Il primo a farmelo notare è stato Aldo Cazzullo, piemontese di Alba, che manco a dirlo avevo appena salutato in quel modo. Lui inviato speciale del «Corriere della Sera» a Napoli, io ex dell'«Unità» passato a dirigere il «Corriere del Mezzogiorno». Ho temuto la gaffe, ma Cazzullo aveva appena pubblicato L1talia de noantri, un saggio sulla meridionalizzazione del Paese, e mi ha rassicurato con cognizione di causa. Quando ci siamo inconntrati nell'inverno del 2009, oltre al pomodoro e al caffè ristretto, noi meridionali avevamo già esportato politici come Clemente Mastella e termini come inciucio, dal napoletano 'neiucio, accordo sotto banco, pettegolezzo insistente. Ma il ministro Mara Carfagna non aveva ancora malamente apostrofato Alessandra Mussolini e la parola vaiassa, ovvero serva, plebea, cafona, non era stata ancora nazionalizzata. Così come l'offesa ehiaehiello, variante di naeehennello o fareniello, cioè inconcludente e poco serio, usata da Antonio Bassolino per replicare a chi aveva osato
paragonarlo a democristiani assai discussi come Anntonio Gava e Paolo Cirino Pomicino, altri politici la cui esportazione era finita da un pezzo.
Cazzullo mi disse che lui era di un' altra generazione. Altro discorso se avessi salutato a quel modo suo nonno, il quale non aveva mai mangiato all'aperto, ritenendolo sconveniente, e non aveva mai assaggiato una pizza, che pensava fosse un cibo esotico, come il kebab negli anni Ottanta o il sushi, in parte, ancora oggi. E il baciamano, mi sono poi chiesto? Anche il baciamano alle signore, in cui i duosiciliani sono maestri e riversano tutto il loro presentabile gallismo, era considerato disdicevole come il eheek to eheek, come il bacio sulla guancia? Probabilmente sì, e forse per questo il baciamano era permesso nei salotti e tassativamente vietato nei luoghi pubblici, nei ristoranti e tanto più nelle stazioni o al parco.
Terronismo è anche l'esasperato orgoglio degli stessi terroni, quell' orgoglio scolpito nella frase con cui, nel Gattopardo, don Fabrizio replica agli amici inglesi. Gli chiedono che cosa ci facciano in Sicilia quei volontari italiani in camicia rossa. E lui, con il piacere malcelato del poliglotta e il patimento del siciliano disilluso, risponde: «They are eoming to teaeh us good manners. But they won't sueeeed, beeause we are gods». Vengono per insegnarci la buona creanza. Ma non lo potranno fare, perché noi siamo dèi. Esagerazioni letterarie, si dirà. Eppure, anche Gaetano Salvemini, principe, se non re, del meridionalismo classico, riteneva i meridionali più intelligenti. Diceva che chi era costretto a stare «ora per ora a contatto con la realtà laboriosa e dolorosa della vita» non poteva non essere più intelligente del contadiname della Bassa Lombardia e delle montagne liguri. E perché poi? Non si sa.

In ogni caso, Salvemini era solito ripetere che quando il Comune di Firenze era appena bambino, la Repubblica d'Amalfi mandava le sue navi per il Mediterraneo; che il Comune di Benevento è fra i più antichi comuni italiani; e che quando Milano combatteva con Federico Barbarossa, in Sicilia il feudalesimo era ignoto.
E oggi? Oggi si parla di lombardismo. Che però ognuno interpreta a suo modo. Per Roberto Formigoni, governatore della Lombardia, è sinonimo di civismo. «Si lombardizzi un po'» dice nel gennaio del 20 Il a un giornalista di Annozero troppo aggressivo che gli fa domande senza badare all' etichetta. Per Formigoni il lombardismo evoca la buona educazione, il saper stare al mondo, l'attitudine a

curare le relazioni nel rispetto delle regole comuni. Per il suo vice, illeghista lodigiano Andrea Gibelli, è tutt' altra cosa: nel corso di un convegno sulla riipresa economica, spiega infatti che illombardismo è tenacia imprenditiva, è capacità di resistere alla concorrenza, è la convergenza di interessi per un fiine comune. Di lombardismo hanno parlato anche scrittori come Guido Piovene e Mario Soldati, ma meglio sarebbe, spiega Giorgio De Rienzo sul «Corrriere della Sera», parlare di lombardità.
Il terronismo rimanda a un'Italia disunita e prerisorgimentale che piace al localismo centrifugato. Nella sua forma colta e politicizzata, arruola scrittori e filosofi. Cita Dostoevskij, che nel Diario di uno scrittore parla della nuova Italia di Cavour come di un Paese «di second'ordine», che non significa «letteralmente nulla», e che è «pieno di debiti». O Marx, che nel 1861, in una lettera a Engels, antepone Spartaco a Garibaldi, perché quello sì che era «un vero generale». Garibaldi, invece, aveva da poco incontrato Vittorio Emanuele II a Teano e aveva già messo a riposo i furori rivoluzionari delle camicie rosse. Questo terronismo colto risale, volendo, fino ad Aristotele e alla sua teoria dei luoghi naturali, secondo cui saremmo tutti attratti dalle terre dove siamo nati. Né più né meno che cavalli ansiosi di rientrare nelle stalle.
Terronisti sono quelli che fanno finta di non sapere perché Ferdinando II si sia guadagnato l'appellativo di «Re bomba». Ma è presto detto: a quarantacinque anni, Ferdinando ne dimostrava già sessanta, era più largo che lungo e di lui si diceva che avesse l'aria di un macellaio benestante. Be', in realtà si chiamava cos1 non perché fosse grasso e tondo, ma perché non esitava, come in Sicilia nel 1848, a puntare i cannoni sulla folla.
Terronista è stato Angelo Manna, classe 1935, scomparso nel 2001. Giornalista del «Mattino» più volte licenziato per dissidi politici e più volte riassunto per decisione del giudice; poeta in vernacolo e conduttore di una popolarissima rubrica televisiva, Il tormentone, programma che andava in onda su un' emittente locale napoletana, Canale 21, negli anni a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta, e nel quale tuonava contro i politici corrotti, facendo nomi e cognomi. Nel 1983 Manna fu eletto deputato come indipendente nelle liste del Msi. Raccolse 82.000 voti validi e più di 30.000 annullati. Uno che la duosicilianità ce l'aveva nel sangue, nella testa e anche nell' anima. Celebre una sua interpellanza parlamentare contro il segreto militare posto sui documenti relativi al brigantaggio. Chiedeva di sapere perché l'Ufficio storico dello Stato Maggiore dell'Esercito continuasse a tenere chiuso «un armadio che contiene oltre duemila faldoni e che protegge scheletri infami e gloriosità abiette». Per lui Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele II erano, rispettivamente, «un leone imbecille», un «proto beccaio e porco di Stato» e «il re più spergiuro, fellone e debitoso d'Europa», nonché «un ladro, usurpatore, assassino». Non solo. Poiché tutto questo lo disse in parlamento pochi mesi dopo l'invasione del Kuwait da parte dell'Iraq, Vittorio Emanuele II fu per Manna anche un precursore di Saddam Hussein. Il Risorgimento, invece, «altro non fu se non una schifosa pagina di rapine e di massacri scritta da un' orda barbarica che, oltre la vita e i beni, rubò al Sud e portò nell'infranciosato Piemonte finanche il sacro nome d'Italia». E chi lo promosse «una setta allobrogolombarda». A quell'interpellanza rispose l'allora sottosegretario alla Difesa Clemente Mastella, natio di Ceppaloni, freddo e insensibile, secondo Manna, pur essendo nato a un tiro di schioppo da quelle terre di briganti insanguinate dall' orda barbarica. Mastella se la cavò con poche battute: «Nessun veto militare e nessun segreto, per ottenere libero accesso alle carte sul brigantaggio basta firmare una richiesta». Lasciò che a vedersela con l'interrogante fosse il vicepresidente Adolfo Sarti, il quale sorprese tutti citando e apprezzando lo scrittore Carlo Alianello, autore dell'Alfiere. «È uno dei miei sacri evangelisti» disse Manna, attenuando da quel momento i toni del suo intervento parlamentare.
Come Carlo Alianello e Nicola Zitara, di gran lunga i più noti revisionisti sudisti, anche Angelo Manna è stato per molti un maestro. A loro tre ha dedicato un libro di oltre quattrocento pagine Carmine De Marco, un distinto imprenditore napoletano col pallino della storia. Il titolo dice già tutto: Centocinquanta anni di bugie. Questo allievo di Manna, io l'ho conosciuto nel dicembre del 2010 per il tramite di sua figlia Roberta, giornalista, che proprio per discutere di quel liibro ci ha messo intorno a un tavolo e di fronte a un pubblico in una gelida ma inaspettatamente piena sala del Maschio Angioino. In quell' occasione, Roberta ha letto la lettera che il padre le aveva scritto quando aveva nove anni, per dissuaderla a frequentare le normali lezioni scolastiche di stooria. «Quella è storia scritta dai vincitori, la verità è un' altra, cercala da sola» le disse. A nove anni! Per fortuna intervenne la madre.
Sul fronte opposto, gli estremisti nordisti sono capaci di ben altro. I neoborbonici scrivono lettere, organizzano convegni, pubblicano riviste, tempestano' i giornali di comunicati, o al massimo si infiltrano al teatro Ariston di Sanremo per fischiare Emanuele Filiberto, discendente dei Savoia, che canta Italia amore mio con Pupo e Luca Canonici. Ma non hanno mai tentato di riprendersi il Palazzo reale di Napoli o la Reggia di Caserta. Nella notte tra 1'8 e il9 maggio 1997, invece, i nostalgici della Repubblica veneziana sono arrivati a occupaare sia la piazza, sia il campanile di San Marco. Nessun filo borbonico è mai finito in carcere per le sue idee. Quei Serenissimi, cosl si facevano chiamare, sono stati invece presi di peso e portati dentro dai carabinieri. Avevano un mitra, un residuato bellico e un pulmino truccato da autoblindo. Luigi Faccia, 1'ideologo del gruppo, fu accusato di banda armata e condannato a quattro anni e nove mesi. Una volta scarcerato, spiegò all'«Unità» che quella del Risorgimento era «una storia di massacri e di internamenti nei lager» e che loro volevano impedire l' «etnocidio».
Quando per la prima volta nell' era leghista si parla di Olimpiadi a Milano, Michele Serra scrive sulla «Repubblica» che gli amministratori avrebbero fatto stampare sui simboli ufficiali solo quattro cerchi concentrici: il quinto lo avrebbero portato gli africani al naso. Una battuta. Ma poi sono arrivati i blitz contro gli immigrati e gli slogan antimeridionali. «Abbiamo braccia robuste e pessime intenzioni» dichiara nel 2003 il parlamentare europeo Mario Borghezio all'indomani di una «spedizione» delle ronde padane a Sanremo, in una pensione occupata da extracomunitari. Mentre un altro dirigente leghista finisce su YouTube perché sorpreso a cantare «Senti che puzza) scappano anche i cani / Stanno arrivando i napoletani». È Matteo Salvini, che però poi si scuserà: terronismo goliardico, insomma. Intanto, il dato è questo: a chi Salvemini e a chi Salvini.
Terronista dichiarato è il mite Lino Patruno, per tredici anni direttore della «Gazzetta del Mezzogiorno», che nel nome di Gaetano Salvemini e Tommaso Fiore ha scritto un libro per dire che «non dobbiamo fare la lagna da sudità, ma non dobbiamo neanche porgere l'altra guancia», e lo ha intitolato Alla riscossa terroni. E terronista è Raffaele Lombardo quando minaccia la secessione siciliana facendosi forte delle accise sulle raffinerie isolane. Ma terronista è anche Luca Zaia, governatore del Veneto, che all'indomani di alcuni crolli dovuti al maltempo, definisce «quattro pietre» quelle di Pompei e fa suo un disegno di legge regionale a favore degli editori che prediligano gli scrittori legati al territorio. Una sorta di editoria «a chilometro zero» sostenuta perché, ha spiegato, sarebbe «dalla parte di Ruzzante, del Belli» e, bontà sua, «di Pu1cinella». Che però non ha mai scritto un rigo e chissà pure se sapeva leggere.
Terronista è il cantautore torinese Gipo Farassino, che tra una canzone e l'altra nel 1987 si butta in politica e dà vita al Moviment autonomista Piemontèis, poi confluito nella Lega Nord. Ma lo è anche Pino Daniele quando canta «Terra mia, terrra mia, comm'è bello a la guardà», e ancor di più quando in una canzone scrive ~~questa Lega è una vergogna, noi crediamo alla cicogna». ° quando, interpellato dai giornalisti, dichiara che Bossi gli fa schifo perché è venuto a Napoli a cantare Maruzzella. Eppure, proprio lui, diventato famoso con Napule 'na carta sporca, quasi redimendosi, condanna la sua città perché incapace di scrollarsi di dosso tutta quell'immondizia.
Nell'unire i fondamentalisti del Nord e del Sud, il terronismo lacera l'Italia unita e, in fin dei conti, altro non è che un aspetto dello sfilacciamento dell'identità nazionale. Gli storici dicono che dalla crisi del nazionalismo postbellico non poteva non nascere un micronazionalismo separatista. E portano ad esempio sia l'ex Jugoslavia, andata in frantumi al prezzo di bombe e massacri, sia, come caso opposto, la Cecoslovacchia, separatasi in Repubblica Ceca e Slovacchia senza spargimento di sangue. E in Italia?
In Italia, il finale di partita potrebbe coincidere con le nere previsioni di Jacques Attali contenute nella sua Breve storia del futuro: con il Nord separato dal Sud, come le Fiandre separate dalla Vallonia, la Catalogna dal resto della Spagna, la Scozia dall'Inghilterra e gli Stati creati artificialmente dalla colonizzazione in Africa e in Asia in frantumi. ° con quelle, non molto diverse, di Giordano Bruno Guerri, intervistato per l'uscita del suo Il sangue del Sud, secondo cui abbiamo festeggiato il centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia ma difficilmente festeggeremo il duecentesimo. 0, ancora, con quelle di Emilio Gentile, autore di Né Stato, né Nazione, per il quale «non si può escludere che conquistino un maggior seguito popolare le forze politiche» convinte «che la rivoluzione nazionale, da cui ha avuto origine l'Italia unita, è stata un errore e un danno». Il bello, o il brutto, a seconda dei punti di vista, è che Gentile pensa al Nord. E invece la novità è il terronismo sudi sta, che come quello nordista è convinto che una nazione italiana non esista e non sia mai esistita.
Il terronismo è la deformazione di quel localismo che in Italia prende forma quando, a cavallo tra gli anni Ottanta e Novanta, va in tilt la spesa pubblica, esplode lo scandalo di Tangentopoli e cominciano a scarseggiare le risorse finanziarie. È allora che Bossi comincia a fare strani discorsi. Rivolto ad alcuni membri del governo romano, ad esempio, ricorda minaccioso il caso del conte Giuseppe Prina, che fu ministro delle Finanze nel Regno d'Italia in epoca napoleonica. Prina, che non doveva risultare particolarmente simpatico, fu linciato dai milanesi: prima denudato e scaraventato da una finestra e poi colpito per ore con mazze e ombrelli.
Ma poi il Nord si attrezza, si compatta, si orgaanizza, si dà un partito capace di contrattare pacificamente con Roma, di selezionare la propria classe dirigente, di mettere la museruola ai più esagitati.
Il Sud no. Esce da oltre un ventennio in cui è andato in ordine sparso; ha perso la sua aura di patria della cultura umanistica; e ha visto i suoi professori, sempre più intimiditi, farsi piccoli piccoli di fronte al giganteggiare del self-made man brianzolo o trevigiano. E ora scende in campo con più forze che idee. Con più suggestioni comuni, ma con meno strategie e programmi praticabili. Mentre al Nord la cultura politica comincia a irrobustirsi con prime, incerte e se si vuole omeopatiche dosi di neeoliberismo, al Sud, viceversa, tende a semplificarsi. Nel vuoto aperto dalla crisi dei grandi partiti, il Mezzogiorno va alla ricerca del tempo passato, cova rancori, si autoassolve, riattualizza gli Angelo Manna che dice le stesse cose di Pino Aprile, cura rendite assistenzialiste. E si illude di guardare lontano confidando in un Mediterraneo di pace. Che però è un mare nostrum solo apparente, perché in realtà ospita tutti i conflitti possibili: etnici, politici, economici, religiosi. Ed è il mare in cui noi respingiamo i boat people e i libici mitragliano le nostre motovedette; noi corriamo dietro gli erotismi notturni dei nostri leader politici e i giovani tunisini e algerini spaccano tutto o si danno fuoco per protestare contro regimi illiberali.
Questo Sud mal organizzato e mal rappresentato minaccia lo Stato nazionale, chiede più soldi, ma nulla contrappone all'iniziativa nordista della Lega, a quel federalismo che avverte come imposto e punitivo. Mi chiedo: se il federalismo è uno dei motori che permette allo Stato-nave di tenere la rotta, qual è l'altro, quello pensato e progettato dai nuovi meridionalisti? C'è? E dov'è? lo non lo vedo, a meno che non si voglia prendere per tale l'insorgente, narcisistico e autoconsolatorio nazionalismo sudista.

In altre parole, riusciremo a sconfiggere i fanatici del localismo? Riuscirà l'estremismo sudista, come auspica Ernesto Galli della Loggia, a capire le ragioni vere della Lega, la sua incontenibile intolleranza per l'inefficienza dell' amministrazione centrale, la scarsità degli investimenti infrastrutturali, il livello altissimo della fiscalità, la meridionalizzazione degli apparati dello Stato? Per far questo, bisognerebbe ammettere che come i migliori meridionalisti hanno contribuito in passato a unire il Paese, anche i migliori leghisti, grazie alle continue mutazioni genetiche e agli improvvisi scarti teoretici, grazie al passaggio dai campi di battaglia di Braveheart agli eleganti palazzi ministeriali, in fondo hanno contribuito a evitare il peggio, ovvero lo spezzatino italiano.
Arduo pretenderlo, me ne rendo conto, visto che la Lega è arrivata a dire che «il Nord deve votare razzialmente per difendersi», o che «i giudici sono bande di terroni che occupano i tribunali del Nord», o ancora che «Di Pietro è un terùn che voleva fare un processo etnico al Nord», mentre «Craxi divenne importante grazie al voto dei terroni di Milano». Tutte frasi riportate dai giornali tra il 1995 e il 1997. E visto che, quando non è truculenta, la Lega è ondivaga e opportunista. Così un giorno senti Marco Formentini, l'ex sindaco di Milano, magnificare le sorti di uno Stato spaccato (<<l'Mrica con l'Italia, l'Europa con la Padania»), e un altro vedi gli stessi leader della Lega stringere la mano, per ragioni elettorali, agli auto no misti siciliani.
Però, quando Bossi prova a rientrare nelle righe, quando arriva a mangiare sia la polenta sia la coda alla vaccinara, e quando senza giri di parole chiede scusa per aver sussurrato in un microfono la traduzione volgare di S.P.Q.R., «sono porci questi romani», la maggioranza degli osservatori non nota la sua graduale normalizzazione, ma sempre e solo l'iniziale carica eversiva. Archiviata la secessione (solo e sempre minacciata), la Lega ha cominciato a parlare di nuovi assetti dello Stato senza più metterne in dubbio l'unità, di devolution, di federalismo e, più di recente, anche di decentramento ministeriale. Ma è ancora vista come un' armata Brancaleone, come la degenerazione folcloristica della politica. Bossi? «Uno che non ha lavorato un giorno in vita sua, si è fatto mantenere dai genitori, poi dalla prima moglie, poi dalla seconda moglie terrona, poi dal popolo italiano» scrive Pino Aprile. A uno così si porta però in dono la se cessione sudista. E a me sembra uno sproposito.
Questo da un lato. Dall' altro, da un fronte non estremo, a fine estate 2010 pubblico sul mio giornale un'intervista ad Antonio D'Amato, l'ex presidente di Confindustria, unico meridionale salito al vertice degli industriali, e mi colpisce un' analoga ossessione antileghista. Nel centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia, ai suoi ospiti D'Amato fa indossare un braccialetto bianco, rosso e verde, mentre un tricolore è il simbolo stampato su un migliaio di cravatte e foulard che regala agli amici e ai conoscenti sparsi per l'Italia. Nell'intervista esordisce parlando di una campagna di coesione nazionale, e dunque sarebbe lecito aspettarsi un tono conciliante. E invece a Paolo Grassi, il giornalista che gli chiede cos'hanno fatto i governi per il Sud, risponde così: «Poco o niente. Ma questo è ovvio in un'Italia che da venti anni ormai si fa dettare l'agenda politica dalla Lega. Con centro destra e centrosinistra che cedono spesso e volentieri alle sirene del Carroccio, siamo noi meridionali a doverci riappropriare del presente per costruire un futuro migliore». Coesi ma distinti.
Così facendo e continuando a rimpallarsi le responsabilità, il rischio è che nordisti e sudisti possano cementarsi nell' odio reciproco. Entrambi, e spesso non senza ragione, denunciano la lontananza dello Stato, ma entrambi possono contribuire a paralizzarlo. Per effetto della radicalizzazione, poi, il terronista vede un nemico in chiunque faccia una critica dall' esterno del gruppo di appartenenza, giacché è più facile dividere il mondo tra noi e loro che tra noi e noi.
Per il terronista, i panni sporchi si lavano in famiglia e ne sa qualcosa un leader del centrosinistra come Enrico Letta. È la primavera del 2010 e, commentando le statistiche annuali sul divario NordSud, Letta riflette sulle cause dei fallimenti e alla fine conclude che in effetti è vero, «senza Campania, Calabria e Sicilia, l'Italia sarebbe più forte della Germania». Per un meridionale, gratificante non è. Ma apriti cielo. «Ragiona in modo surreale, omissivo e superficiale, non sa di cosa parla» gli manda a dire dal suo blog Antonio Bassolino. Letta tenta di difendersi, ricorda che si è limitato a riferire un dato nudo e crudo. «Se ne può discutere?» chiede. No, non si può. «Ma così finiamo per nasconderci alla realtà come gli struzzi!» Picche. E il cerchio si chiude: dal meridionalismo sturziano a quello struzziano.
Un epilogo degno di No grazie, il caffè mi rende nervoso. Letta fa retromarcia come Massimo Troisi in quel film, quando lo spiritello tradizionalista gli chiede, prima intimidendolo e poi minacciandolo di morte, perché mai voglia rifare in chiave moderna il festival della canzone napoletana. Troisi, che un eroe non è, cos1 risponde: «Ma sì, perché Napoli deve cambiare? Cambiate Rovigo, cambiate Mantova, cambiate Aosta. Mi piace la pizza? 51, mi piace. Mi piace il sole? 51, mi piace. E il mandolino? Anche quello. 51, mi piace anche il mandolino. Mi piacciono il sole, la pizza e il mandolino». Ovviamente, lo dice a suo modo, in stretto dialetto napoletano e incespicando nelle parole.
Quando Troisi muore, Roberto Benigni distilla la commozione di tutti nelle rime che gli dedica: «Con lui ho capito tutta la bellezza di Napoli, la gente, il suo destino / E non m'ha mai parlato della pizza, e non m'ha mai suonato il mandolino».

4
Un paradiso abitato da diavoli ovvero
Leterna diversità meridionale

«Cialtroni!» L’offesa schiocca all'improvviso il 10 luglio 2010. Il ministro Tremonti interviene all'assemblea della Coldiretti e riesce con poche battute a infiammare una polemica che questa volta, più che politica, è geopolitica. La stoccata arriva mentre sta parlando di quaranta miliardi di fondi europei per il Sud non spesi dalle regioni meridionali: «Qui non c'entrano i governi di destra o di sinistra. Bisogna smetterla con la cialtroneria di chi prende i soldi e non li spende». Fresco di manovra anticrisi, insofferente per le critiche rivoltegli, il ministro rincara la dose: «Mentre cresceva la protesta per i tagli subiti, aumentava l'accumulazione di capitali non usati. Più il Sud declinava, più i fondi aumentavano».
Raffaele Fitto, ministro di Maglie, in provincia di Lecce, non sa come prenderla. Ne approfitta Nichi Vendola, diventato governatore pugliese proprio sconfiggendo Fitto: «Cialtroni noi? E i ministri, allora, che hanno speso solo il 6,7% della loro dotazione?».
Quello dei fondi stanziati e sprecati è solo uno degli aspetti dell'infinita questione meridionale. È la guerra dei numeri che da sempre accompagna la disputa teorica, ideologica e politica sul divario Nord-Sud. Precisamente: dal 6 settembre 1860. Da quando Francesco II abbandona il palazzo reale lasciandolo nelle mani di Garibaldi, e Napoli, quatttrocentottantaquattromila abitanti, la più grande città d'Italia e tra le più popolose d'Europa, dopo centoventisei anni di dinastia borbonica diventa di colpo un' ex capitale. Anzi, l'ex capitale per eccellenza. Per poi essere ulteriormente declassata a «semplice prefettura» nei giorni caldi dell' emergenza rifiuti. La battuta è di Tremonti, sempre lui.
I nostalgici dell'Italia disunita pensano che il declino del Mezzogiorno coincida con l'arrivo in città delle camicie rosse, tanto che da quel giorno inizia un interminabile ping-pong di accuse: i piemontesi contro i Borbone, i meridionalisti contro i
Savoia, i liberali del Nord contro i borghesi del Sud, i socialisti meridionali contro i compagni nordisti, i cattolici contro il nuovo Stato italiano, i comunisti in conflitto con l'universo mondo. Gira e rigira, il punto è sempre lo stesso: è il Nord che ha depredato il Sud, o è il Sud che ha saccheggiato il Nord?
Quando, a centocinquant' anni da quel 6 settembre, nella disputa interviene un sociologo esperto di conti pubblici e per giunta «di sinistra» e non leghista - sto parlando di Luca Ricolfi - sembra fatta: ogni anno, assicura Ricolfi, il Nord cede 50,6 miliardi di euro e il Sud ne prende 41,2. Il titolo del suo libro, Il sacco del Nord, sembra una sentenza inappellabile. In realtà, il testo è molto più complesso e macchinoso di quanto la copertina lasci intendere. Nelle successive interviste il professore arriva anche a sostenere che alcune regioni del Sud come la Campania sono addirittura in credito con lo Stato. E allora? Neanche pochi giorni e la polemica ricomincia. I nordisti: «Il Sud non spende i fondi europei». I sudisti: «Il Nord ha preso per sé quelli per le aree sottosviluppate». I primi: «Quei pochi che ha speso, il Sud li ha utilizzati per le clientele». I secondi: «E il Nord si è preso il resto per pagare le multe europee dei produttori di latte». Un profluvio agitato e melmoso di dati, statistiche, confronti e percentuali che anche a me risulta più noioso di una lettura notarile. I terronisti di professione si sparano addosso senza esclusione di cifre, calcoli, comparazioni e sottrazioni. Come se la critica all' economicismo, alla dottrina secondo la quale ogni sviluppo sociale dipende esclusivamente dalla quantità delle risorse economiche impegnate, non avesse insegnato nulla. E l'oggettiva decadenza di tante aree meridionali? Il fatto che in molte città del Sud si viva peggio che in quelle del Nord? E l'osceno assedio dei rifiuti? E il degrado della provincia napoletana? E l'arroganza dei poteri, criminali? E la Bagnoli in cui sono nato, che morta l'Italsider nulla ha più visto al suo posto?
Pochi o molti che siano stati, i soldi arrivati a Napoli sono stati spesi male. E lo stesso dicasi per gran parte del Mezzogiorno. Il che pone almeno due ordini di problemi. Il primo riguarda l'efficacia dei trasferimenti: servono oppure corrompono? Il secondo riguarda invece le semplificazioni antropologiche tratte dal cattivo uso di quelle risorse: se non innescano meccanismi virtuosi, è dunque perché i meridionali sono diversi dai settentrionali, sono fatti di un' altra pasta? Un dato è certo: il pregiudizio antimeridionale cresce con la consapevolezza, più o meno fondata, che il Sud riceva più risorse di quanto debba e possa avere. O comunque troppe rispetto a quelle sottratte ad altre aree del Paese.
Quest'idea degli aiuti allo sviluppo è davvero singolare. L’esperienza internazionale insegna che un aumento dei finanziamenti non produce, di per sé, più democrazia o un governo migliore, ma noi continuiamo a non tenerne conto. La storia non è avara di esempi di transizioni verso la democrazia avvenute senza immani trasferimenti di risorse. Basta pensare a Taiwan e alla Corea del Sud. Laddove non ci sono state riforme, come ad Haiti, a Cuba, in Nicaragua e nelle Filippine, invece, assetti democratici e sviluppo sono ancora un miraggio o prospettive assai incerte. Quel che fa la differenza, dicono gli esperti, non sono i soldi, ma i residui di feudalesimo. E Dio solo sa quanto feudalesimo c'è ancora nel clientelismo del Sud, nel familismo piccolo-borghese, nella famiglia criminale, nelle università senza qualità, nell' assenza di ascensori sociali e nei troppi figli che continuano a fare il lavoro dei padri.
Quando sapevano cosa fare ma non riuscivano a farlo, i greci parlavano di akrasia, di debolezza della volontà. Nel caso del Sud, ormai la confusione regna sovrana. Non si sa né cosa fare, né come farlo. Addirittura si discute su quale lingua o dialetto si debba parlare, per esempio, nella costruenda Banca del Sud. A Sky, il 31 agosto 2009, Tremonti assicura: «Non si parlerà inglese: i risparmi raccolti non verranno portati né al Nord, né all'estero». Ma il governatore della Sicilia Raffaele Lombardo fa sapere che l'italiano come lingua ufficiale non gli basta: «Dobbiamo dotarci di una banca che parli il dialetto, che conosca i clienti, le loro potenzialità, le loro esigenze». Risultato: né yesterday, né oggi, né duman' a'ssira. Della Banca non c'è traccia.
Nel novembre dello stesso anno, a Capri, Tremonti tiene un discorso sull'Unità d'Italia davanti ai giovani industriali. Ammirato e applaudito, il ministro che piace alla Lega dice che l'Italia fu fatta «non col rispetto della realtà del territorio, ma con le baionette». Da qui «la reazione esagerata della letteratura minore che riporta documenti di straziante umanità». Per Pino Aprile è ancora troppo poco. «Però!» commenta. In effetti, quello di Tremonti è un colpo al cerchio e uno alla botte; da una parte le baionette dei vincitori; e dall' altra la straziante umanità dei vinti, che però è esagerata. Com' è, come non è, tuffandosi nel passato, alla ricerca di cause remote, Tremonti vuole forse attutire il colpo che sta per assestare.
«Cialtroni!», dunque. Ma cialtrone a chi? A chi era indirizzato l'insulto? Al napoletano Bassolino? O al calabrese Loiero e al siciliano Lombardo? Al pugliese ex comunista Vendola, o al berlusconiano ed ex democristiano Fitto? A tutti insieme? E a tutti in egual misura?
Mi sono sempre chiesto perché, quando si parla di classe dirigente settentrionale, si fanno tutte le distinzioni del caso. Per esempio si parla di quella leghi sta, fatta di militanza e vanità municipalista; di quella berlusconiana, tecnici sta e populista allo stesso tempo; e di quella di centrosinistra, politicamente colta ma sostanzialmente nell' angolo. Quando si parla di classe dirigente meridionale, invece, tutto si fonde e il risultato è un unico blob di discutibile consistenza. Eppure, anche nel Sud ci sono stati i rinascimenti salernitani, le primavere siciliane, i miracoli lucani e le svolte a Sud-Est. Tutte stagioni degli ultimi decenni, in cui una classe dirigente ha comunque fatto ben sperare.
Ciò che distingue un pregiudizio da un giudizio, allora, è proprio la vaghezza, l'approssimazione,
l'adesione al senso comune, che non sempre coincide con il buon senso. Chi si occupa di questi argomenti sostiene che il pregiudizio, di per sé utile alla conoscenza ma dannoso quando resiste all'evidenza o all' esperienza diretta, fa valutare le persone non per quelle che sono, ma in blocco insieme a tutti quelli che ne condividono le origini e l'aspetto o, nel nostro caso, il ruolo pubblico, trascurandone le responsabilità individuali.
Guido Barbujani, genetista che di pregiudizi se ne intende, e che incontro nei giardini dell'istituto di ricerche Biogem di Ariano Irpino prima di un dibattito sull' esistenza o meno delle razze umane, mi fa riflettere con una osservazione a effetto. Dice che col terrorismo politico ci si propose di colpirne uno per educarne cento, mentre con il pregiudizio e il razzismo si capovolge lo slogan, arrivando a risultati meno aberranti ma ugualmente assurdi: colpirne cento per educarne uno. Anche se novantanove non c'entrano niente. Lungo questo sentiero, con Barbujani finiamo per parlare di Edward Said, uno dei primi a parlare di «geografia immaginaria», la geografia dei pregiudizi e dei luoghi comuni. Che è cosa diversa da quella reale, perché mentre quest'ultima descrive i confini, le distanze e le differenze per quello che sono davvero, la geografia immaginaria è uno strumento di potere che serve, dice Said, a una parte del mondo per immaginare l'altra parte, in modo tale da poterla meglio controllare e dominare.
Da questo punto di vista, gramsciani e neoborbonici, rivoluzionari e nostalgici, papalini e repubblicani del Sud hanno tutti ragione: il pregiudizio antimeridionale ha una lunga storia. E magari fosse cominciato con Bossi, Borghezio, Salvini o Calderoli. O si fosse limitato a loro.
Il 27 ottobre 2010, per esempio, Eugenio Scalfari è a Napoli per presentare il suo libro Per l'alto mare aperto, viaggio nella modernità da Odisseo a Nietzsche passando per Cartesio, Spinoza e gli amatissimi Montaigne e Diderot. E che cosa dice l'ex direttore della «Repubblica» della classe dirigente meridionale? Che è pessima. «Barbarica. Anzi no: imbarbarita, perché i barbari portano sl la distruzione, però anche il germe del nuovo.» Ma se imbarbariti sono tutti i politici e gli amministratori meridionali e imbarbariti, presumo, sono per Scalfari anche i leghisti, quanti barbari ci sono in questo Paese, che comunque continua a resistere tra i primi del mondo? L’anno precedente, sulla «Repubblica», aveva scritto che al Sud non c'erano più i gattopardi, ma solo «volpi e faine». E prima ancora, Giusepppe D'Avanzo, uno dei suoi migliori allievi, non era stato meno catastrofico. Da napoletano, a proposito della prima emergenza rifiuti, quella del 2008, dei napoletani aveva scritto: sono «irresponsabili, privi di speranza, senza alcuna identità da proteggere o passione civica da coltivare» e per giunta «sovrastati da una cultura plebea».
Poi ci si meraviglia quando, a microfoni spenti, Guido Bertolaso, al momento del congedo dalla Protezione civile, confessa ai suoi uomini che «se il Vesuvio eruttasse non sarebbe poi una disgrazia». Niente più di una battuta «rubata» e finita sui giornali, ma fa sul serio il ministro Sandro Bondi quando, in occasione dell' ennesima puntata di Annozero dedicata ai rifiuti napoletani, afferma che ciò che accade in quella città «è il frutto di un degrado civile, sociale, morale e culturale».
Di immoralità parla anche Renato Brunetta, il ministro, professore di economia, ha scritto un paio di libri sul Mezzogiorno e che ha detto quello che ai meridionalisti piace ascoltare, cioè che a fallire nel Sud non è stato né l'intervento straordinario, né quello ordinario, ma la classe dirigente italiana. Brunetta ha anche proposto di concentrare spese ed energie nel Mezzogiorno e di rovesciare la logica delle gabbie salariali avanzando l'idea di una premialità di vantaggio per chi si trasferisce al Sud. È arrivato perfino a ipotizzare una nuova spedizione dei Mille composta dai migliori magistrati, dai migliori burocrati, dai migliori manager, ma è scivolato quando a Gubbio, nel settembre 2010, nel corso di una manifestazione politica, ha detto qualcosa che non poteva passare sotto silenzio. Non si è limitato a osservare che «se non avessimo la Calabria, la conurbazione Napoli-Caserta, o meglio se queste zone avessero gli stessi standard del resto del Paese, l'Italia sarebbe prima in Europa». No. Ha aggiunto anche che «la conurbazione Napoli-Caserta è un cancro sociale e culturale. Un cancro etico, dove lo Stato non c'è, non c'è la politica, non c'è la società». Il concetto è un po' quello proposto poche settimane prima dall'«Economist» quando, a corredo di un articolo sull'Italia, ha pubblicato una vignetta del Belpaese senza il Mezzogiorno, anzi, col Mezzogiorrno staccato come piaceva a Formentini e, citando Dante, elegantemente chiamato «Bordello».
Per il geografo Ernesto Mazzetti, che sul tema mi invia un commento da pubblicare sul «Corriere del Mezzogiorno», Brunetta richiama alla mente «quel sir Gladstone che nel 1851, dimentico delle scelleratezze del suo paese denunciate da Dickens e Ruskin, definì il regno napoletano "negazione di Dio"». I giornali locali e nazionali si danno da fare, mentre i blog si gonfiano di insulti. Da Napoli, puntuale, arriva anche la T-shirt goliardica. Vi si legge stampata una frase autocelebrativa del ministro: «Il vino buono sta nella botte piccola». E sotto la risposta: «Sì, ma no dint'o tappo».
Ci risiamo: da una parte il pregiudizio, dall' altra l'orgoglio. Il solito déjà vu. E come sempre, il polverone etico-apocalittico serve a creare false prospettive. Serve a ingigantire i problemi e a confondere la percezione della realtà, perché se il problema è morale, allora non è più politico. Serve a chi governa per giustificarsi e a chi è all' opposizione per proporsi come soluzione palingenetica. Ma cosa c'entra la morale con il rispetto delle leggi? Se fossimo tutti eticamente perfetti, se fossimo tutti santi, perché mai avremmo bisogno della politica, dello Stato, dei corpi di polizia, dei ministeri, degli enti locali? In ultima analisi, se fossimo tutti santi non ci sarebbe la storia. Perché se Eva non avesse morso la mela e non ci fossero stati il peccato originale e la cacciata dall'Eden, non ci sarebbero stati il prima e il dopo, né le cause e gli effetti. Non ci sarebbero state le gerarchie, perché non c'è una santità migliore di un' altra, e tutti saremmo stati uguali. E nella linearità assoluta non ci sarebbe stato nulla da raccontare se non la magnificenza di Dio.
Il pregiudizio antimeridionale, dunque, finisce come un giudizio morale. Ma come è iniziato? Giuseppe Galasso, che ha scritto L'altra Europa. Per un'antropologia storica del Mezzogiorno d1talia, mi ricorda che già Cicerone sfotteva i napoletani e i siciliani perché credevano di essere greci. Ma tra quelli che hanno la puzza al naso è difficile superare Roberto d'Altavilla, detto il Guiscardo, classe 1025, sesto figlio di Tancredi, duca di Puglia, Calabria e Sicilia. Di lui parla Fra' Salimbene de Adam da Parrma, che è anche tra i primi a distinguere i meridionali per il fatto che usano gli zoccoli e danno del tu, a differenza dei 10mb ardi che «dicunt vos». Che cosa diceva il Guiscardo dei meridionali? Che erano inadatti alla disciplina militare, incapaci di offendere in battaglia e pronti a darsela a gambe alle prime avvisaglie di pericolo. «Homines caccarelli et merdacoli parvique valoris», ecco cosa diceva. E il fatto che lo dicesse in latino non addolcisce la pillola: uomini da niente. Escrementi.
Si racconta poi che fu Dante, interrogato da Giotto, che si trovava a Napoli per realizzare un affresco, a suggerire l'idea dell' asino come simbolo del popolo napoletano. Ed è vero che il ciuccio è diventato l'emblema della squadra di calcio cittadina. Sta di fatto, però, che quando José Mourinho, allenatore pluridecorato, dà del somaro a Walter Mazzarri, mister degli azzurri, questi non gradisce affatto. Nelle sue Vite, Vasari spiega che Giotto voleva rappresentare l'orgoglio, la forza e forse ancora un altro aspetto del carattere napoletano; e Dante, che avrebbe potuto indicargli il leone o il cane mastino, gli prospetta invece quella soluzione molto meno edificante. Perché? C'è da dire che Dante non la faceva buona a nessuno. Non all'Italia, «serva» e «di dolore ostello», «non donna di province, ma bordello!». Non ai fiorentini, «ingrato popolo maligno». Non a Pisa, «vituperio delle genti». Non a Pistoia, che farebbe bene a decidere di incenerirsi. Non ai genovesi, che andrebbero «del mondo spersi». E non a Roma, descritta come cloaca. Il mistero vero è Giotto. Perché non solo accoglie il suggerimento, ma decide anche di raffigurare l'asino con la sella di legno, «imbastato», e con ai piedi «un altro basto nuovo»? Semplice, perché oltre all'orgoglio e

alla forza, spiega Vasari, voleva simboleggiare altro e cioè «l'avere un re e desiderarne un altro». Propensione al trasformismo? Mastellismo precox? Chissà.
Fu quindi un noto critico della Divina Commedia, Bernardino Daniello, a mettere Benedetto Croce sulla pista del detto più noto e infelice che mai sia stato coniato ai danni di Napoli: «Un paradiso abitato da diavoli». Croce condivideva quel detto? Il filosofo che ha vissuto quasi tutta la sua vita nei vicoli della Napoli antica, in uno di quei palazzi in cui plebe e aristocrazia si incontravano nell' androne, chi aveva come coinquilini? Santi o diavoli? No, non lo faceva suo. E in più faceva a pezzi chi lo utilizzava come strumento di conoscenza e di giudizio. Questi modi di dire, spiega Croce, soffrono di difficoltà obiettive. Sono cioè viziati. Per due ragioni: primo, «perché sono sempre giudizi "per lo più", come avrebbe detto Aristotele, giudizi di prevalenza». Giudizi sommari. E secondo, «perché mantengono carattere statico di fronte alla vita dei popoli, che è dinamica e cangevole». In altre parole, formulati in determinati tempi e in determinati luoghi, e sulla base di osservazioni veloci e superficiali, questi giudizi vengono poi «irrigiditi e resi assoluti», dando vita a vere e proprie leggende. «Menzogne convenzionali», li chiamava. Non è tutto. «Gli sciocchi, gli ingenerosi, i combattitori a vuoto, e con poca spesa e con poco rischio, i plebei di cuore e di mente, sono perciò sempre proclivi a ingiuriare i popoli.» Nondimeno, prosegue Croce, questi giudizi sono talmente ricorrenti da dedurne che corrispondano a una «necessità mentale)). E se è così, «un granello di verità)) deve pur esserci. Nel caso specifico, conclude, la verità è «nelle manchevolezze della vita civile e politica di questa parte d'Italia)). E allora? Inutile ricorrere a interpretazioni consolatorie, «tese a valorizzare le umane virtù che sempre si addensano nei particolari). Inutile, aggiungo io approfittandone, giustificarsi citando ogni volta le solite eccezioni ed eccellenze meridionali. Molto meglio attrezzarsi, evitando di mettere la testa sotto la sabbia.
Come? Eccolo, il cuore del ragionamento, il vero lascito di Croce: «C'importa poco ricercare fino a qual punto il detto proverbiale sia vero, giovandoci tenerlo verissimo per far che sia sempre meno vero)). Chiaro? Il Sud non è un paradiso e i meridionali non sono diavoli, ma, nel nostro intimo, facciamo finta che sia così e preoccupiamoci di correggere gli errori o comunque di migliorare le cose. Altro che orgoglio contrapposto al pregiudizio; altro che perfezione siciliana da spiattellare in faccia allo straniero; altro che borbonismo da rifilare come atteggiamento salvifico; altro che ultrasudismo da contrapporre al turboleghismo. Ecco, volendo, il primo, vero, insuperabile manifesto dell' antiterronismo. Croce lo legge il 12 giugno 1923 all'assemblea generale della Società napoletana di storia patria. Di scontato c'è solo il titolo: Un paradiso abitato da diavoli.

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Il tradimento di Leopardi ovvero
Quando il pregiudizio si insinua tra gli insospettabili

Nel marzo del 2010 apro il giornale e leggo che a Parma, in un' aula di tribunale, un magistrato può rivolgersi a un testimone e intimargli di «non fare il napoletano». La battuta è legittima, ha decretato la Corte di Cassazione, perché in fondo che cosa ha fatto di male quel magistrato? Il testimone parlava e parlava e tirandola troppo per le lunghe ha irritato chi lo interrogava. Tutto qui. «Non c'è alcun intento denigratorio nel convincere il teste a noli essere evasivo» recitano le motivazioni. Quattro anni prima, in Germania, un cameriere di origine sarda, Maurizio Pusceddu, viene condannato per violenza sessuale: per tre settimane ha picchiato, seviziato e stuprato la fidanzata. Tanta brutalità dovrebbe costargli almeno quindici anni di reclusione, ma il barone Blirries von Hammerstein, presidente del tribunale di Blickeburg, in Bassa Sassonia, decide di accordargli uno sconto speciale: pena ridotta a soli sei mesi. La motivazione fa felice il cameriere stupratore, ma suona come una condanna per tutti gli altri: «È sardo». Il che, se non costituisce una giustificazione, «deve almeno essere preso in considerazione come un' attenuante» afferma il giudice. Razzismo a fin di bene, ma pur sempre razzismo.

Allo stesso modo, in pieno Rinascimento, senza cattiveria ma con uguale pregiudizio, i gesuiti in missione nel Sud Italia, come è riportato in Un paradiso abitato da diavoli, il saggio di Nelson Moe, chiamavano i meridionali indios de por acd. Indiani di quaggiù. E questo solo perché quei gesuiti non avevano molta voglia di fare i bagagli e raggiungere le vere Indie. Scrivevano ai loro superiori dicendo che noi eravamo «assuefatti al male, licenziosi, e senza giustizia e governo». Padre Michele Navarro era uno di questi, e invitava a farsi capaci di quanta spaventosa ignoranza regnasse tra queste anime e in queste montagne. Mi immagino la scena. «Ma devo proprio fare la valigia e partire? Siete proprio sicuri?» Povero padre Navarro!
E deve essere stata dura, negli anni del Grand Tour, passare dall' euforia di Goethe, che a Napoli viveva «in una inebriata dimenticanza di sé», ai crolli depressivi di Galiani. Il quale era davvero un caso a parte, perché oltre a non sopportare i napoletani non sopportava neanche i Borbone, ai quali ha dedicato, musicato da Paisiello, il Socrate immaginario, opera simbolo dell' anacronismo culturale, della retorica e del vuoto ideale che l'esagerazione della forma non riesce a colmare. Duecento anni dopo, e non per caso, il maestro Roberto De Simone rifarà a suo modo il Socrate, ma questa volta in polemica con il borbonismo postmoderno di Iervoolino e Bassolino. Alla prima del San Carlo in occasione dell'apertura della stagione 2004-2005 c'erano tutti, tranne la sindaca e il governatore. Vuote le loro poltrone nel palco centrale, e si capisce perché. Nel testo originale dell'Abate Galiani, del 1780, c'è un parallelismo tra Napoli e la Francia. De Simone corregge: «Parigi non è Mragola» fa dire a uno dei protagonisti. Mragola è la città natale di Bassolino. Ah, questi intellettuali!
Sopportare i pregiudizi non è affatto piacevole.
E lo è ancor meno quando dietro quel diluvio di giudizi sommari e di stereotipi trovi, sorpresi con le
mani nel sacco, personalità insospettabili, icone del pensiero illuminato, poeti di infinita sensibilità. Vada per Giacomo Casanova, che, come riporta ancora Moe, durante il suo viaggio da Napoli a Cosenza si compiace di contemplare «il famoso Mare Ausonium»; si rallegra di attraversare la Magna Grecia «che Pitagora aveva resa illustre» e divertito descrive una «Terra di Lavoro dove nessuno ha voglia di lavorare». Perdoniamogli pure che abbia preso fischi per fiaschi; che quello non era il mare Ausonium ma il Tirreno; che Pitagora non ha mai soggiornato da quelle parti bensì in Sicilia; e che Terra di Lavoro è sempre stata da tutt'altra parte. Ma come la mettiamo con Montesquieu e Leopardi?
Chi poteva immaginare che Charles-Louis de Secondat, barone di La Brède e poi di Montesquieu, colui che aveva invocato il costituzionalismo, le libertà civili, l'abolizione della schiavitù, il gradualismo, la pace, l'internazionalismo e aveva dettato i principi che avrebbero costituito il nocciolo del credo liberale sarebbe caduto sulla questione del clima? Come prevedere che l'inventore di una teoria di cui ancora si parla, quella della separazione dei poteri, e l'autore delle Lettere persiane, capolavoro scritto per rendere evidente il contrasto «tra le cose reali e le strane maniere in cui quelle cose sono percepite», vale a dire il contrasto tra realtà e pregiudizio, si sarebbe abbandonato proprio a quest'ultimo?
L’idea del meridionale pigro e indolente perché sovrastato dal sole e spossato dal calore nasce con Ippocrate, ma è con Montesquieu, purtroppo, che diventa terronismo parascientifico. Con Ippocrate, la teoria del clima serve a strappare il destino degli uomini alle mani degli dèi per affidarlo in quelle della natura. Ha dunque un valore progressivo, meno fatalistico. Ma con Montesquieu serve unicamente a dare argomenti ai Salvini che verranno. Il barone si serve delle differenze climatiche per sottolineare la superiorità prima dell'Europa nei confronti dell'Asia, poi del Nord sul Sud. Il freddo e il caldo, sostiene, producono effetti diversi sul corpo: il primo rafforza le fibre esterne, il secondo le indebolisce. Da qui al celodurismo celtico il passo è breve, perché il vigore dovuto alle basse temperature infonde «maggior fiducia in se stessi, maggior coraggio, maggior contezza della propria superiorità»,
Ed ecco la prima epifania della geografia immaginaria. «Troverete nei paesi settentrionali» scrive Montesquieu ne Lo spirito delle leggi «popoli che hanno pochi vizi, parecchie virtù, molta sincerità

e franchezza. Avvicinatevi ai paesi meridionali e vi sembrerà addirittura di allontanarvi dalla morale: passioni più vive moltiplicheranno i delitti, ciascuno cercherà di prendersi sugli altri tutti i vantaggi che possono favorire quelle passioni medesime.» È impressionante, ma sembra davvero di sentire Gianfranco Miglio quando diceva che <<noi abbiamo nelle vene il sangue barbaro, siamo legati al negotium, al lavoro; mentre i meridionali vivono nell'otium, nel dolce far nulla».
Sorge qualche dubbio. L’indemoniato personaggio di Paolo Cirino Pomicino, che balla e si dimena nel film Il Divo, interpretato da Carlo Buccirosso, e il sobrio Gerardo Chiaromonte, che a quanto ne sappia non ha mai fatto baldoria in vita sua, non hanno forse vissuto sotto lo stesso sole e nello stesso clima? E com' è che erano così diversi? E Ciccio Ingrassia e Pirandello? E si può dire che non ci sia nulla, ma proprio nulla di diverso tra la sensuale Luisa Ranieri che nel celebre spot di Nestea esclama «Anto', fa caldo» e Anna Maria Barbera, in arte, e non a caso, Sconsolata? Se il freddo tempra e rende migliori, poi, come ti spieghi i Vallanzasca, i banditi a Milano, i delitti familiari nelle villette?
La teoria del clima è una perturbante sciocchezza. Ma Vico, il padre della Scienza nuova, non ha dubbi: caratteri, costumi e lingua dipendono tutti dal variare delle temperature. Nel Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799, Vincenzo Cuoco la utilizza per spiegare il fallimento di quella rivoluzione, osservando che i patrioti giacobini e i lazzari sanfedisti sono popoli diversi «per due secoli di tempo e per due gradi di clima» anche se sono conterranei e contemporanei. E Vincenzo Gioberti nel Primato morale e civile degli italiani, parla dei «popoli austrini della penisola», cioè dei napoletani, e ha in testa «l'esuberanza» delle temperature.
La più cocente delle delusioni, però, la procura Leopardi. È dura, per un meridionale che ha amato i Canti, che si è commosso immaginando gli occhi «ridenti e fuggitivi» di Silvia, che si è identificato nel pastore errante che parla alla luna, scoprire di colpo che l'infinito in realtà ha un limite e che questo limite è a Sud. L’autore «progressista» della Ginestra, il poeta che nelle interpretazioni marxiste aveva fatto del «formidabil monte sterminator Vesevo» quasi un simbolo della rivoluzione, è stato il primo, nello Zibaldone, a parlare di «meridionalità nel tempo». Concetto che nasconde un giudizio senza appello e il cui senso è questo: l'antichità sta al Sud del mondo, a Babilonia, Menfi, Atene, Roma, come la modernità sta al Nord, a Parigi, Londra o San Pietroburgo.
Leopardi preferisce il Sud dell' antichità (<<Confucio non fu meridionale? Donde venne la filosofia tra latini? Dalla Grecia»), ma è convinto che la bussola della civiltà segni il Nord. Il Sud - è una sua immagine - era una spada bella a cui bisognava togliere solo un po' di ruggine, ma il dato vero è che «siamo andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare che siamo presso a romperla». La causa di tutto ciò? La risposta è in una citazione che lo stesso Leopardi fa della Gerusalemme liberata di Torquato Tasso: «La terra molle, lieta e diletto sa I simili a sé gli abitator produce».
Di clima, Leopardi non capisce quasi nulla. Ne parla con approssimazione, quasi per sentito dire, senza mai un riferimento concreto neanche alle caratteristiche orografiche delle aree di cui si occupa. E tuttavia non ha incertezze sugli effetti culturali e sociali del clima. Il freddo? «Dà maggior forza di agire, maggior contentezza del presente, inclinazione all' ordine, al metodo.» Il caldo, invece, «scema le forze e nel tempo stesso ne ispira ed infiamma il desiderio, rende suscettibilissimi della noia, intolleranti all'uniformità della vita, vaghi di novità, malcontenti di se stessi e del presente». Ancora. I settentrionali, seppur laboriosi, «sono i più quieti popoli della terra», mentre i meridionali più inquieti, «benché sia lor proprio !'infingardaggine». «Infingardi che chiacchierano e non conversano e donneggiano assaissimo» dirà in un' altra occasione. I settentrionali stentano a muoversi e a sollevarsi, «ma mossi che siano non sono facili a acquietare». I meridionali sono facili a muoversi e rivoltosi, «ma facilissimi a acquistare, facilissimi a tornare a ripooso». Caspita! Era dunque una citazione, quella di De Mita, quando dei napoletani lamentava il loro rapido adeguarsi al corso delle cose?
Dopo Leopardi le cose non migliorano. A unificazione non ancora avvenuta, Massimo D'Azeglio scrive a un amico e gli confessa il suo timore: la fusione con i napoletani sarebbe come «mettersi a lettto con un vaioloso». È la frase più citata per indicare il cinismo dei piemontesi. Seguono, a ruota, quelle degli emissari di Cavour, che vengono al Sud e parlano di beduini e di Africa, con due effe. In quegli anni, a Carlo Lozzi, avvocato e patriota marchigiano, autore di un libro intitolato Dell'ozio in Italia, i meridionali appaiono «più feroci degli antropofagi e de' cannibali e al tempo stesso devoti e donnaioli, chiacchieroni, millantatori ed inerti, superstiziosi e noncuranti del domani».
Indicativo è ciò che accade al giovanissimo Gaetano Salvemini, al tempo non più che quattordicenne, nell' estate del 1887. Sembra una sceneggiatura, quasi un' anticipazione di Ombre rosse, il film di John Ford, e invece non è altro che un ricordo che lo stesso Salvemini riporterà, molti anni più tardi, nel saggio Movimento socialista e questione meridionale. A me lo ha segnalato Gianni Donno, studioso del socialismo meridionale. Dunque, nel vagone che procede verso Bari fa un gran caldo e si suda. Seduti sulle scomode panche di legno, gli uni di fronte agli altri, ci sono il piccolo Gaetano, eccitato dal viaggio e attento a quel che si dice intorno a lui; sua madre, stanca ma premurosa; un piemontese figlio di un capostazione, che è in missione di lavoro al Sud ormai da lungo tempo; e un altro settentrionale che si fermerà in città solo per qualche giorno. I finestrini sono aperti, le tende impolverate si gonfiano trattenute a stento dalle cinghie di cuoio e il paesaggio scorre veloce e vario (gli ulivi, i muretti di pietra, il mare), suggerendo continui spunti alla conversazione. Fino a quando il tono non diventa di colpo sgradevole. Il piemontese lancia uno sguardo fuori e poi sbuffa in direzione dell' altro settentrionale: «Postacci. Creda pure che qui non si vive, beato lei che ritornerà presto al Nord. Qui aria cattiva, acqua pessima, dialetto incomprensibile che pare turco, popolazione ignorante, superstiziosa, barbara ... ». I..:altro settentrionale annuisce. La madre di Gaetano Salvemini cerca di distrarre il figlio, di cui conosce il temperamento. E che infatti reagisce, eccome se reagisce: «Ma non siamo mica barbari quando ci rubate i nostri ... ». Sta per aggiungere «soldi», come tante volte ha sentito dire al nonno borbonico, che gli ripeteva sempre le parole di Francesco II (<<Vedrete, i Piemontesi vi lasceranno solo gli occhi per piangere»), quando la madre riesce a tappargli la bocca.
Nel vagone non succede quel che avviene invece sulla diligenza di Ombre rosse: i pregiudizi non svaporano, restano. Il piemontese antipatico rimane tale, non come il dottore ubriaco del film, che lungo il viaggio ha il tempo di riscattarsi. Come nel film ci sono però i selvaggi. Li gli Apache che attaccano scomposti, allo scoperto, senza una strategia, facendosi ammazzare da Ringo John Wayne) come tordi; qui i meridionali «ignoranti, superstiziosi e barbari».
Molti anni dopo, Salvemini dirà che in quel treno era nello stesso stato d'animo dei novantanove centesimi dei meridionali. Provava «un sordo rancore verso quelli del Nord, una coscienza indeterminata e profonda di essere vittima della loro rapacità e prepotenza, una amara avversione, acuita di tanto in tanto da segni di disprezzo, che dal Nord ci vengono».
Passate le paure, penetrate le oscurità di quell'Africa nostrana, trionfano, quasi per contraltare, le visioni prima sorprese, poi pittoresche dei grandi viaggiatori. Sono I giochi dell'incertezza: così li chiama lo storico Paolo Macry nel suo saggio sulla Napoli dell'Ottocento. I giorni in cui, nel grande spettacolo della storia, i Borbone sfumano e alloro posto emergono i Savoia.
Vittime della geografia immaginaria, gli stranieri arrivano a Napoli per lasciarsi alle spalle il fumo e la puzza della rivoluzione industriale, per allontanarsi dalle loro brutte città, per ripiombare nell'Arcadia, per ritrovare il loro paradiso perduto. Trovano invece l'esatto opposto. Ciò che li colpisce sono le dimensioni della metropoli, l'alta densità abitativa, il traffico, l'architettura verticale che dal mare sale fin sopra le colline. Mark Twain paragona la città degli anni Sessanta dell'Ottocento a tre città americane «sovrapposte». La folla abbaglia i turisti. Al liberale tedesco Gustav Rasch il largo di Castel Nuovo appare battuto da «ondate di polvere, di gente e di frastuono, come le onde di un mare in tempesta».
Lo storico Ferdinand Gregorovius si lamenta invece per il troppo rumore: la notte non riesce a dormire. Ma cosa credevano? Quale quadretto naif avevano in mente i viaggiatori che venivano dal Nord? Eppure qualcosa notano. Notano una frattura tra borghesi e popolo che poi spiegherà tante cose. «La vicinanza fisica non impedisce una separazione drastica di condizioni e di culture» scrive Macry. Le due città, quella alta e quella bassa, quella colta e quella plebea, le due città di cui si parlerà per secoli, fino a Raffaele La Capria, fino a Miml Rea, vivono faccia a faccia e si ignorano. «Come nulla in comune ha la vita dell' ostrica con quella dello scoglio al quale è attaccata» scrive nel 1879 Rocco De Zerbi, deputato della Destra.

Ma poi, quando ci si è accorti che potevano esserci sia calabresi brachicefali, sia calabresi dolicocefali, hanno rinunciato a mettersi d'accordo. Così come è successo per il numero delle razze. Se ci sono, quante sono? Linneo, nel Settecento, ne contò quattro, tra cui quella dei Luridi (da non confondere con i Sudici, come poi sarebbero stati chiamati i meridionali).
Anche Kant partecipò alla conta. Ne individuò quattro: la bianca, la nera, la mongola o calmucca e l'indù. Litaliano Renzo Biasutti, nel 1959, le portò invece a 53. E prima di lui la scultrice Malvina Hofmah, incaricata dai responsabili dell'Esposizione universale del 1933 a Chicago di realizzare una statua per ogni razza umana, ne realizzò 104. Insomma, ognuno le contava a suo modo. E cioè in modo debordante, poroso, incontrollabile.
Di quella ossessione misuratoria è rimasta vittima una certa cultura tardo-positivista. E di quella cultura, o meglio dei suoi parossistici effetti, sono mio malgrado testimone. Se ogni cosa poteva essere scientificamente calcolata, se la febbre poteva essere tenuta sotto controllo con il termometro e i terremoti con le scale Mercalli e Richter, perché mai non prendere le misure a ogni fenomeno sociale degno di studio? Al tempo in cui lavoravo per «l'Unità», l'idea contagiò due maturi, apprezzati e insospettabili colleghi. Ebbene, da cattivi epigoni del positivismo partenopeo, lei e lui si erano messi in testa di studiare il fenomeno della prostituzione. Ma non dal punto di vista dello sfruttamento macho-capitalistico, bensì da quello della consumazione dell' organo femminile. ridea era che, alla lunga, anche la vagina si usurava. Come il piede o la mano della statua di un santo oggetto di costante devozione. Cominciarono perfino gli appostamenti ed esultarono quando credettero di aver individuato una prima unità di misura utile per i loro calcoli. Tre minuti. Tanto, avevano accertato, durava in media ogni rapporto sessuale consumato in auto. Tre minuti calcolati da quando il motore si arrestava a quando si riaccendeva. Se dunque c'era un' erosione tot per ogni rapporto, moltiplicando quel tot per dieci, venti o anche trenta, si poteva ragionevolmente prevedere, a seconda della frequenza dell' attività, a che età una certa prostituta avrebbe dovuto ritirarsi. «Chiudere bottega» diceva lui irritando lei.
Lo studio si interruppe perché a un certo punto lei cominciò a nutrire qualche sospetto sul voyeurismo di lui.

6
A misurar crani ovvero
Lombroso e i suoi (inconsapevoli) epigoni

Nel gennaio del 2010, Richard Lynn, professore emerito alla University of Ulster, pubblica sulla rivista «Intelligence» uno studio sul divario italiano. Nord e Sud, sostiene, sono cos1 diversi, cos1 economicamente distanti, perché i meridionali sono meno intelligenti. Tutto qui. E le circostanze, le opportunità, il libero arbitrio dei singoli e le responsabilità delle classi dirigenti? «Le persone intelligenti» risponde «le opportunità le trovano. Si guardano intorno, valutano, se è il caso emigrano Il dove possono essere pagate meglio.»
Lynn è un ornino piccolo e canuto, non capisce una parola di italiano e se ne sta seduto in un angolo, visibilmente a disagio. Fa quasi tenerezza. Lo incontro negli studi Rai di via Teulada dopo aver letto tutto o quasi tutto su di lui. Non potevo credere che esattamente un secolo dopo, sebbene sotto mentite spoglie, Lombroso potesse tornare sulla scena e addirittura partecipare a un talk show. Lynn, infatti, è ospite della trasmissione televisiva di Rai Uno La vita in diretta. Lo raggiungo in camerino prima di andare in onda, cogliendolo intimidito da una truccatrice che incerona chiunque le venga a tiro. Mi presento e gli rivolgo subito alcune domande di «riscaldamento» .
Mr Lynn, lei è un razzista, non le crea alcun imbarazzo esserlo? «Non so se sono un razzista, sono uno scienziato. E uno scienziato ha il dovere di dire la verità.» Davvero un bel tipo, penso. E se la sua verità fosse una sciocchezza? Risposta: «Temo che lei confonda sciocchezza con verità scomoda». Sa, Mr Lynn, sono un duosiciliano, un meridionale, insomma, e mi secca passare per un cretino. Capisce? «Non si butti giù, io parlo di medie e lei può benissimo essere una eccezione.» Ammetterà, almeno, che non tutti i Sud sono come lei li immagina. «Oh, certo. In Gran Bretagna è l'esatto opposto che in Italia. Il quoziente di intelligenza è più alto a Londra e nel Sud-Est dell'Inghilterra ed è più basso in Sco-zia, Galles e Irlanda.» Ecco, appunto, lei è irlandese, giusto? E mi dica: che effetto le fanno tutte le critiche che le sono piovute addosso? «Ci sono abituato. Da voi è già successo con Galileo: nessuno voleva credergli eppure era la T erra a girare intorno al Sole. Da noi è successo con Darwin. Disse che venivamo dalle scimmie, ma nella Bibbia non era scritto così. Vedrà, dia tempo al tempo.» Ha ricevuto e-mail da Napoli o dalla Sicilia? «Oh certo. Qualcuno mi ha minacciato. Altri mi hanno invitato a un convegno a Palermo.» Come ha risposto? «Ho chiesto l'ospitalità e il biglietto aereo per me e mia moglie. Sa, vivo del mio stipendio di accademico.»
Quest'uomo, così semplicemente irlandese, così soavemente british e così imprevedibilmente disarmante, ha detto dei meridionali quanto di peggio si possa immaginare. Anzi, ha preso tutto il peggio possibile e lo ha cucito insieme. La tesi è la seguente. I meridionali hanno un reddito che è inferiore alla media nazionale, dunque non sono capaci di produrre ricchezza per sé e per gli altri; a scuola avranno pure buoni voti ma apprendono meno degli altri, come confermano i dati Ocse divisi per regioni; sono bassi di statura, più della media, lo provano le misurazioni militari negli anni della leva obbligatoria e questo per una cattiva alimentazione; hanno nelle vene sangue arabo e ciò li rende menzogneri, inaffidabili, ingovernabili e via elencando. Conclusione: se fossero intelligenti guadagnerebbero di più, apprenderebbero diversamente, mangerebbero meglio e non si accoppierebbero con chi è peggio di loro.
In diretta, tra ironie intraducibili e allusioni poco chiare, Lynn fa quasi scena muta. Riesce a malapena a rispolverare, e ci mancava, la teoria del clima, del freddo che tempra e del caldo che ammoscia, delle virtù gelate e dei vizi stracotti. «Ma se è così, allora basta spegnere i termosifoni» taglia corto il collega Franco Di Mare, tra gli ospiti in studio. L'unico a dare ragione all'irlandese, in collegamento esterno, è uno svizzero: l'arciterronista Giuliano Bignasca, fondatore e presidente della Lega dei Ticinesi.
A Lynn vengono mosse molte obiezioni: l'inattendibilità dei dati, gli accostamenti illogici, le sintesi forzate, la reversibilità dei cicli economici. E, più in generale, tutti gli fanno notare che i fenomeni coincidenti non sono necessariamente anche correlati. Per capirci: se aumenta la produzione di mozzarella di bufala e crolla la vendita dei contratti di telefonia fissa non vuol dire che l'uso dei celllulari favorisca la diffusione dei prodotti bufalini. Dunque, se il Sud non decolla cosa c'entra che i meridionali non svettano in altezza? Ma il dato più allarmante della teoria di Lynn sta, io credo, proprio nella sua scarsa originalità. La vera domanda che bisogna porsi è questa: perché teorie come la sua, uguale ad altre già confutate nel corso degli anni se non dei secoli, si sganciano dagli abissi e tornano a galla? La ragione è una sola: perché certe teorie sono più utili che vere. Anzi, talvolta sono utili proprio perché non vere. Nel senso che danno risposte semplici là dove risposte semplici non sono possibili. Perché c'è il divario italiano? Perché nel Mezzogiorno succedono cose che altrove non succedono? Perché la crisi dei rifiuti diventa emergenza solo a Napoli? Già, perché? Una risposta vera non può che essere complessa, non può che tenere insieme più cose. E invece arriva Lynn e tomo tomo, cacchio cacchio, avrebbe detto Totò, tira fuori la storia del quoziente di intelligenza. Che è appunto un'idea tutt'altro che nuova. Di recente se n'è occupato, per demolirla, Hans Magnus Enzensberger, il maggior poeta e saggista tedesco contemporaneo. Il suo pamphlet sull' argomento, Nel labirinto dell'intelligenza, pubblicato in Italia nel 2008, è di poche ma essenziali pagine. E non oso neanche chiedere, a Lynn, se per caso lo abbia letto.
Enzensberger ce l'ha con tutti quelli che, come Lynn e prima di lui, hanno voluto dimostrare che l'intelligenza non è una dote acquisibile, bens1 innata. E in modo particolare ce l'ha con Francis Galton, uno studioso inglese che nel 1883 propose di regolamentare i matrimoni e le nascite in modo tale che potessero procreare solo le coppie dotate di un patrimonio genetico meritevole di essere salvaguardato e sviluppato. L'obiettivo dichiarato era di allevare una generazione «intellettualmente e moralmente superiore ai moderni europei, così come i moderni europei sono superiori alle più brutte razze negre». Per questo progetto e per queste parole si pensa che sia stato proprio Galton a inventare l'eugenetica, dal greco «buona nascita», la scienza della razza perfetta. I seguaci di sir F rancis Galton hanno ovviamente fatto molti danni e sbagliato molti calcoli. Come il professor Hans Jirgen Eysenck, che nel 1971 ha scritto un saggio, The IQ Argument: Race, Intelligence and Education, per dire che il quoziente di intelligenza dei neri in America è più basso di quello dei bianchi e che la loro inferiorità intellettuale è di natura genetica. Era tale e tanta, questa inferiorità, che poi, come si sa, Barack Obama, un semplice membro dell' assemblea statale dell'Illinois, figlio di un politico keniota e di un' antropologa del Kansas, è diventato il primo presidente nero degli Stati Uniti. Non solo. È stato anche il primo a fare leva sulla popolarità della black culture per trasferire nell' arena politica un successo nato negli stadi e nei video musicali.
A tutti gli studiosi come Eysenck che mai e poi mai avrebbero scommesso su uno come Obama alla Casa Bianca, Enzensberger ha rivolto queste semplici domande. Scusate, ma di che cosa state parlando? Di intelligenza? E perché non provate a definirla? Alludete a quella biologica o a quella psicometrica? A quella motoria e razionale o a quella analitica e creativa? O forse parlate di quella linguistica e visuale? No, forse alludete a quella spaziale e logico-matematica, vero? La verità è che definire l'intelligenza è praticamente impossibile. Come si può dunque misurare qualcosa che non si sa cos'è? Quando la nave affonda, in altre parole, è più intelligente l'intellettuale titolato o il marinaio che sa portarvi in salvo?
Eppoi, vatti a fidare di questi scienziati razzisti.
Prendiamo uno dei più famosi tra loro, il premio Nobel James Watson, scopritore insieme con Franncis Crick e Maurice Wilkins della struttura a doppia elica del Dna. Watson ha detto dei neri e dell'Mrica ciò che Lynn ha detto dei meridionali e dell'Italia. Eppure, chi è Watson? È uno che nella primavera del 1951, dopo aver preso parte a un convegno scientifico a Napoli, presso la Stazione zoologica, ascolta una relazione di Wilkins e capisce che il futuro non è più nei raggi X di cui si stava occupando, bensì nel Dna. Watson si pone dunque il problema di come conoscere Wilkins e farsi cooptare nel suo gruppo. Deve arrivare a lui, farsi notare, abbandonare i suoi studi che gli sembrano aver imboccato un binario morto. Decide allora di investire 2000 dollari nell' acquisto di due eleganti abiti da sera per l'avvenente sorella Elizabeth. L'intenzione, non proprio nobilissima, piuttosto di netta impronta guicciardiniana (il fine giustifica i mezzi), è di agganciare Wilkins proprio grazie alla bella e scollatissima sorella. Un tipo senza scrupoli? Già, diciamo che Watson, il premio Nobel James Watson, era un tipo così.
Certe teorie razziste, dicevo, tornano sempre e non muoiono mai proprio perché sono apparentemente «utili», appaganti, perfette. E qui c'entra ancora Lynn. Qualche settimana prima della diretta televisiva, la collega Antonella Delprino, sempre per La vita in diretta, aveva intervistato Lynn in Irlanda, a casa sua, tra i libri, il gatto e l'immancabile tazza di tè. Sapevo che non tutto il registrato era andato in onda e mi sono procurato la sbobinatura. Alla quinta pagina, ecco la sorpresa. Il neolombrosiano Lynn non ha mai studiato come avrebbe dovuto Cesare Lombroso. Sa chi è, ma di lui ha letto poco o nulla. Il padre della sociologia criminale, che scende al Sud al seguito dell' esercito savoiardo e passa tre mesi in Calabria a catalogare casi e testimonianze, rimane per lo psicologo irlandese una sorta di Carneade. Il che è davvero paradossale, perché Lynn dice, con un secolo di ritardo, le stesse cose di Lombroso; misura i quozienti di intelligenza dei meridionali come l'illustre predecessore misurava i volumi dei crani; come lui fa discendere da quelle misurazioni discutibili e improbabili teorie; e come lui si convince che nascere al di sotto del Garigliano condanni inevitabilmente ad appartenere a una razza inferiore. Eppure tutto ciò Lynn lo pensa, lo dice e lo scrive sapendo poco o nulla del «maestro». Un neo-neorealista che non ha mai visto Ladri di biciclette? Un post-strutturalista che non ha mai frequentato Jacques Derrida? Ebbene, di Lynn non solo dobbiamo sorbirci le singolarissime teorie, ma dobbiamo farlo sapendo che le ha elaborate in uno stato di sublime ignoranza. Ma non eravamo noi meridionali a studiare poco e ad apprendere ancor meno?

Se avesse letto Lombroso, Lynn sarebbe stato di certo più prudente. Avrebbe saputo, per esempio, che il suo precursore descriveva il calabrese di statura media, e va bene, fatalista (<<Cu nasci tunnu nun pò moriri quatratu», «chi nasce tondo non può morire quadrato»), e poi «bilioso, iracondo, testardo, prepotente», ma anche «impavido», alla faccia del Guiscardo, e «pieno d'intelligenza, di vita» e addirittura «di un senso estetico delicatissimo che si rivela nei proverbi e nelle canzoni degne dell' antica Grecia». Insomma, l'esatto opposto dello stereotipo che lo vuole bifolco e senz' anima. Purtroppo, però, Cesare Lombroso non è solo questo. È il padre della sociologia criminale, ma anche, secondo lo storico tedesco George Mosse, un anticipatore della furia nazista. Credeva che i criminali abituali non potessero essere riabilitati, perché era il loro stesso aspetto fisico a spiegarne le azioni e dunque non si poteva far altro che condannarli a morte. Per la stessa ragione, i nazisti consideravano gli ebrei criminali abituali e perciò destinati all'annientamento. Il fatto è che Lombroso non nasce lombrosiano, ma lo diventa. Così come altri lo sono senza saperlo, come Lynn. Lombroso nasce liberale conservatore e diventa socialista. E più diventa socialista, più diventa positivista, più diventa scientista, crede cioè nell'infallibilità della scienza che tutto può misurare e catalogare, e più diventa razzista. Ne riparleremo, ma intanto, per cogliere il senso di questa parabola, bisogna ripercorrere due storie: quella di Salvatore Misdea e quella, più nota, di Giuseppe Vilella.
La storia del primo è stata ben raccontata da Simona De Luna in Ultima tellus e sembra la versione pulp di Benvenuti al Sud, perché qui i contrasti regionali, i primi nell'Italia unita, degenerano fino alla tragedia. È il13 aprile 1884 e siamo a Napoli, dietro le alte mura tufacee della caserma di Pizzofalcone arrossate dalla luce radente del tramonto. Prima scena. Quattro soldati calabresi, tra cui Misdea e il caporale Trovato, parlano fitto tra loro delle famiglie, delle fidanzate, dei loro paesi. Ma un tal Zanoletti, lombardo, li provoca chiedendo cosa mai si possa fare laggiù in Calabria. Il primo a reagire, secondo i verbali del processo, è il caporale: «Mangiapolente» lo apostrofa, credendolo un piemontese. Poi si corregge: «Mangiacastagnacci» gli urla, questa volta prendendolo per un toscano. Si passa agli spintoni e solo l'intervento di altri militari evita, per il momento, la rissa. Ma salta la libera uscita e bisogna tornare alle rispettive compagnie. Misdea non ci sta e affronta chi ha dato l'ordine. Lo accusa di avere deciso cosl perché lui e i suoi compagni sono tutti calabresi. In risposta arriva uno schiaffo. Si ricomincia. E Misdea questa volta passa alle minacce: «Stanotte ti taglio la gola» annuncia a chi lo ha schiaffeggiato. Seconda scena. E da qui in poi uno sceneggiatore non potrebbe che ispirarsi a Full Metal Jaeket, il film di Stanley Kubrick in cui, con impressionante coincidenza con ciò che avviene a Pizzofalcone, la recluta «Palla di lardo» si vendica del suo addestrato re e lo fa, anche lui, nella toilette della caserma. Come nel film, è notte fonda e l'azione si svolge in una camerata dove il silenzio è rotto solo da qualcuno che russa. In un angolo si intravede un' ombra, è un uomo che stacca il fucile dal muro e lo carica. Terza scena. Stessa camerata, lato opposto al primo. L'uomo armato avanza senza far rumore. È Misdea, che comincia a sparare su un gruppo di commilitoni, e più spara, più urla e bestemmia: ne ferisce molti e ne uccide uno. Quando arriva alle latrine, sfonda la porta con un calcio e fa nuovamente fuoco. Il bilancio finale sarà di quattro morti e dieci feriti.
Al processo la difesa decide di avvalersi, ed è la prima volta, di un collegio composto da medici e antropologi, tra cui Lombroso. È il debutto sul campo dell' antropologia criminale. Il tentativo dei difensori è di salvare la vita a Misdea facendolo passare per epilettico e per pazzo. Non solo. Per essere più convincente, Lombroso allarga il discorso al contesto, alla famiglia di Misdea e al suo paese natale, Girifalco, descritto come un piccolo inferno abitato da barbari e incestuosi, da microcefali ed epilettici con i labbri leporini. Ma il progetto fallisce: due mesi più tardi, il20 giugno, Misdea viene condotto sulla spiaggia di Bagnoli e fucilato. Toccherà poi a Edoardo Scarfoglio, figlio di un calabrese e fondatore de «Il Mattino», il compito di risarcire in parte il paese calunniato. «Girifalco è il più pacifico, il più innocuo, il meno brigantesco villaggio del mondo» scriverà nel libro intitolato Il romanzo di Misdea.
La vicenda di Vilella, invece, è già nei manuali di storia e in quelli di antropologia criminale. Vilella è il contadino calabrese settantenne sospettato di brigantaggio il cui cranio fu sottoposto a misurazioni di ogni genere per provare l'esistenza di un rapporto tra i tratti somatici e la predisposizione a delinquere. In occasione del centenario della nascita di Lombroso, quel che rimane di Vilella è stato esposto a Torino insieme all'intera collezione lombrosiana, tra scheletri e teschi essiccati, ferri di contenzione e corpi di reato.
Chi è dunque Lombroso? Un apostolo della nuova scienza, uno studioso sensibile agli usi e ai costumi e spinto da forti motivazioni umanitarie, come quando vuole salvare la pelle a Misdea? Oppure un oscurantista, un ciarlatano, un personaggio a metà tra Hannibal Lecter e il Collezionista di ossa? George Mosse non ha dubbi: è un pazzo pericoloso, al pari di Heinrich Himmler. Per altri, e nella migliore delle ipotesi, è il principale traduttore dei pregiudizi popolari in pseudogiudizi scientifici. Studiando e misurando le mandibole pronunciate, i seni frontali salienti, il capello folto e l'orecchio ad ansa, Lombroso ha creduto di aver individuato il tipo scrofoloso, quello cretino o mattoide e naturalmente quello criminale. Anche i geni, i poeti e gli artisti lo insospettivano, perché nell' anticipare i tempi «li precipitavano», e costituivano «un lusso superfluo» rispetto agli standard umani. Dal suo punto di vista, Platone e Tolstoj erano dunque cretini. In senso «scientifico», s'intende. Per non parlare delle donne, ritenute insensibili al dolore dal momento che ricadevano di continuo nella gravidanza. Il suo ideale di uomo era il borghese piccolo piccolo che predilige «sé e la famiglia alla patria e la patria all'umanità». L'esatto opposto di quel che, negli stessi anni, pensava Nietzsche, per il quale gli uomini che Lombroso definiva «normali» erano invece «gregge che desidera solo l'animale capo».
In auge negli anni a cavallo tra Ottocento e N 00vecento, inabissatosi nelle stagioni del politicamente corretto, nel 2009, in occasione del centenario della morte, Lombroso è tornato d'attualità per spaccare il fronte dei nostalgici. Da una parte i nostalgici di destra, i neoborbonici, che ne denunciano il dato razzista; dall' altra quelli di sinistra, i nostalgici di un Sud rurale, i sostenitori della decrescita economica come alternativa al progresso esasperato e consumistico, che quel dato invece occultano fino a rimuoverlo del tutto. I primi sono andati a Torino a protestare e a chiedere la restituzione del teschio del brigante Vilella, i secondi hanno invece cominciato a rileggere l'antropologo in chiave sudista. Il Lombroso che questi ultimi preferiscono è l'autore di In Calabria. E il capitolo del libro che più li eccita è l'ultimo. E si capisce perché. È il capitolo in cui Lombroso si duole di come sia avvenuta l'unificazione italiana (<<Ahi, troppo più formale che sostanziale») e in cui denuncia che non solo «non ha recato alcun profitto nei rami più importanti della convivenza calabrese», ma addirittura ha segnato «un regresso nell' agricoltura, nell' emigrazione, nella criminalità, nella proprietà, nell' economia, nella morbilità, nella nuzialità, nei morti precoci, nelle scuole». E i vantaggi? 51 che ci sono stati, ma «più apparenti che reali, più di vernice che di sostanza, perché o precoci, o inadatti, o insufficienti come le ferrovie, le scuole, i giornali, e le rappresentanze politiche divennero nuove fonti di disagio e di criminalità, accumulando a danno degli umili ed a profitto di troppo pochi gli inconvenienti della civiltà insieme a quelli della barbarie».
Esulta, infatti, lo scrittore e studioso calabrese Luigi Guarnieri. Il quale firma una significativa prefazione a una delle ultime edizioni di In Calabria, testo tra i più rivalutati di Lombroso. Quella di Lombroso, scrive Guarnieri, «è la radiografia perfetta di un fallimento storico, di una gigantesca catastrofe». Il che significa una sola cosa. Che per una curiosa piega presa dalla storia delle idee, Lombroso, che fino a poco tempo fa era considerato il massimo esponente del pregiudizio antimeridionale, si è ora trasformato nel suo esatto opposto, vale a dire in un alfiere del meridionalismo.

7
Il discorsetto della fata ovvero Centocinquant' anni di pregiudizi

«Guai a lasciarsi prendere dall' ozio! L'ozio è una bruttissima malattia, e bisogna guarirla subito, fin da ragazzi: se no, quando siamo grandi, non si guarisce più.» È una citazione di Pinocchio. A circa metà del racconto, la fata dai capelli turchini si rivolge al suo amato burattino e gli fa questo discorsetto a proposito dei vizi e delle virtù. Perché gli parla dell' ozio? Perché lo mette così esplicitamente in guardia? Semplicemente perché, fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani. Ed è un progetto a cui lavora anche Collodi.
Resta da capire chi sono questi italiani, di che pasta sono fatti. Un esercizio difficile in cui si cimentano sia i primi, ottocenteschi geometri delle calotte craniche, sia i lombrosiani dell'ultima ora, alla Richard Lynn. Tra gli uni e gli altri ci sono, come abbiamo visto, centocinquant' anni in cui il pregiudizio antimeridionale conosce alti e bassi, talvolta confondendosi nel più generale pregiudizio antitaliano, talaltra attraversando fasi di relativa sospensione. Quel che segue è il racconto ridotto all' osso di questo secolo e mezzo di terronismo.
Nel primo ventennio, tra il 1860 e il 1880, si comincia con un dibattito pubblico tutto incentrato sul carattere degli italiani e in modo particolare sull' ozio, individuato come vizio nazionale numeero uno. Pinocchio è avvertito. Ma più ancora, nel vivo di una vera e propria campagna pedagogica e correzionale, lo sono i meridionali. Sono gli anni, tanto per gradire, in cui la Reale accademia di scienze, lettere ed arti di Modena bandisce, senza che la cosa appaia curiosa o eccentrica, un concorso sulla ricerca delle cause e degli effetti dell' ozio in Italia, nonché sulle possibili strategie politiche e sociali per ridurlo. Non si usano ancora termini come «fannulloni» o «nullafacenti», ma si comincia a parlare sempre più insistentemente di cicisbeismo, che è un po' la stessa cosa vista dalla parte delle classi alte, e di «dolce far niente», che è invece la prospettiva del popolo minuto. Tra i pedagoghi più allarmati c'era Cesare Balbo, politico e scrittore di cultura illuminata e cosmopolita e autore di Speranze d1talia, libro nel quale, lontano dall' accreditare teorie naturalistiche come quelle sul clima, elabora un concetto che si rivelerà decisivo per la comprensione del caso italiano. Secondo Balbo, dunque, «la dipendenza produce vizio, il quale mantiene dipendenza, e questo è il vizioso circolo ond'è difficile uscirne». Oggi si dice in altro modo, ma il problema è sempre lo stesso: è la politica che è viziata o a essere viziata è la società che la politica rappresenta? O anche: è la classe dirigente meridionale che è fatta di falchi e faine, che è «barbara», o sono gli elettori a scegliere deliberatamente questi rappresentanti?
A quei tempi, il Paese provò a uscire dal labirinto dell' ozio visto ora come causa ora come effetto di un vizio nazionale, affidandosi a Francesco De Sanctis, nato nel cuore dell'Irpinia e diventato ministro di Cavour, il quale approntò una riforma della scuola che, tra l'altro, prevedeva anche l'educazione fisica tra le discipline obbligatorie. E oggi? Sarà il federalismo l'educazione fisico-civica del futuro ormai prossimo?
Nel ventennio successivo, tra il 1880 e il nuovo secolo, l'attenzione si sposta invece sull'individualismo, altro buco nero in cui si perdono gran parte degli sforzi compiuti per saldare le fondamenta dello Stato nascente. Fino ad allora, l'individualismo era stato considerato più una virtù che un vizio. Chi e perché fa pendere il piatto della bilancia dalla parte del vizio tout court? Una responsabilità in questo senso ce l'hanno i rivoluzionari senza rivoluzione, quelli alla Giuseppe Mazzini, per intenderei, portati a vedere nell'individualismo italico, inteso come sinonimo di opportunismo, la ragione prima dei loro totali o parziali fallimenti. Della serie: se le rivoluzioni non si fanno e se a esse si preferiscono altre soluzioni meno cruente, la colpa non è della strategia rivoluzionaria o delle idee tanto incendiarie quanto velleitarie su cui queste strategie poggiano, ma del popolo, poco incline agli spargimenti di sangue e portato invece alle pratiche trasformistiche. A questo popolo di individualisti i mazziniani non perdonano la partecipazione ai plebisciti di annessione al Regno d'Italia anziché ai moti insurrezionali per la Repubblica.
Chi sposta ulteriormente l'asticella e fa dell'individualismo nazionale un vizio propriamente meridionale è invece Pasquale Turiello. Avvocato, volontario nella spedizione dei Mille, professore di storia al liceo, politico e giornalista, Turiello rinunciò alla cattedra di Pedagogia all'Università di Bologna pur di restare a Napoli. Qui e in Sicilia, è la tesi del suo saggio Governo e governati, ogni cosa si spiega con la «scioltezza eccessiva degli individui». Il sottosviluppo, l'assenza di senso civico, la criminalità organizzata: tutto dipende dal carattere del popolo, non già dalla storia. Del resto, diceva, il feudalesimo era esistito sia in Piemonte che nel Regno borbonico e sia Milano che Napoli erano state soggette alla dominazione spagnola, eppure i milanesi non sono esattamente come i napoletani.
Una prima risposta gli venne da Pasquale Villari, il padre della questione meridionale: e se la causa principalissima fosse «la grande miseria, il grande avvilimento di una parte della plebe napoletana»? E altre ne seguirono, fino ad arrivare a quella sferzante e infastidita di Leonardo Sciascia. Ma quale homo terronicus? Di cosa state parlando? L'uomo del Sud, diceva, semplicemente non esiste come tipo umano riconoscibile, catalogabile e giudicabile in quanto tale, perché è vero che nel Seicento, al tempo in cui è ambientato I promessi sposi, Sicilia e Lombardia erano socialmente ed economicamente assai simili, ma a fare la differenza, poi, non fu il carattere del popolo, ma altro. Il fatto, ad esempio, che già un secolo dopo la Lombardia conobbe prosperità e sviluppo sotto gli Austriaci e la Sicilia rimase invece a spagnoleggiare sotto i Borbone.
Carattere contro cultura, natura contro storia, destino contro volontà. È un unico conflitto che infiamma da sempre il dibattito pubblico. «Libero è colui che è causa di se stesso e non di un altro» diceva Aristotele. Da allora non abbiamo più smesso di parlarne. In quegli anni cruciali in cui si stava costruendo l'Italia, poi, i temi del carattere e del libero arbitrio, dei condizionamenti ambientali e delle possibili politiche correttive erano all' ordine del giorno. Prova ne è la polemica, di assoluta attualità, che già negli anni Cinquanta dell'Ottocento impegna due meridionali in esilio a T orino, il «murattiano» Francesco Trinchera, direttore generale degli Archivi delle province napoletane, e il «sudista» Francesco De Sanctis. La riporta Nelson Moe in Un paradiso abitato da diavoli.
Il primo è scettico sull'ipotesi di coinvolgere i meridionali nel processo di unificazione e vorrebbe sostituire i Borbone con Luciano Murat, figlio di Gioacchino e nipote di Napoleone II!. Il secondo gli contesta il pregiudizio contro i suoi stessi conterranei e, con ugual forza, il fatto che, proprio sulla base di questo pregiudizio, egli arrivi a confondere i regnanti con i sudditi, il regime politico con la condizione delle masse.
Trinchera: «Non occorre molta perspicacia per comprendere che un popolo così decaduto ed 011tracciò nutrito di errori e pregiudizi grossolani, che crede alla jettatura, al fascino, alla magia, ai maghi, agli stregoni, ai sogni, al miracolo di San Gennaro, e a mille altre cose pazze e assurde tutte, possa poi pensare seriamente alla libertà».
De Sanctis: «Vi è per un popolo qualche cosa di più doloroso che le bastonate di Ferdinando II, ed è il vedersi messo in berlina al cospetto di tutta Italia da uno della sua stessa terra. Ed innanzi a tanti suoi mali il sentirlo insinuare che un popolo, poco più, poco meno, ha quel che si merita».
Trinchera: «Un popolo così non può comprendere la libertà, volerla e morire per essa e con essa».
De Sanctis: «E che cosa ha di proprio la plebe napoletana, perché voi, mettendole un marchio sulla fronte, dobbiate distinguerla dalle altre plebi, tutte più o meno ignoranti e superstiziose? Credete voi che solo essa sia nutrita di errori e pregiudizi, che solo essa creda ai miracoli, ai sogni, alle streghe?».
Una lezione di stile, quella di De Sanctis. Ma nonostante i suoi sforzi, durante l'età giolittiana, per effetto della ripresa economica e dell' emigrazione che alleggerisce la pressione sociale, il pregiudizio antitaliano diventa definitivamente il pregiudizio antimeridionale. E si cristallizza in una vera e propria teoria razzista. Sono gli anni del razzismo parascientifico dei positivisti, quelli su cui si riversa tutta l'insofferenza di Croce. Ma insomma, volete capido, dice nella sua Storia del Regno di Napoli, che «clima, ubertosità o avarizia del terreno, salubrità o insalubrità, posizione geografica, disposizioni etniche» sono tutte cose «prive di importanza prese per sé, fuori del centro, inerti e incapaci di condurre ad alcuna conclusione»?
C'è poi la parentesi fascista, quando la retorica nazionalista riesce a contenere, censurandoli e minimizzandoli, gli umori localistici e gli odi regionali. Ma è appunto una parentesi, nella quale si producono ben altri danni. Eppure, anche in questo clima «normalizzato», qualcosa scappa. Nel 1933, l'anno in cui Primo Camera divenne campione mondiale dei pesi massimi, Mussolini tenne un discorso al Consiglio nazionale del partito fascista e polemizzò contro chi si lamentava della brutalità del pugilato. L'anno successivo, riprende il tema in un altro discorso, e questa volta si spinge ancora più avanti: «Ma quali suonatori di mandolino, noi italiani siamo lanciatori di bombe, cazzottatori» dice gonfiando il petto. Sembra fatta, quel riferimento al mandolino dell' oleografia potrebbe far ben sperare se da un eccesso non si passasse a un altro. E invece nel 1935 il ministro Giuseppe Bottai annota nel suo diario questa frase dello stesso Duce: «Un giorno bisognerà fare una marcia su Napoli per spazzare via chitarre, mandolini, violini e cantastorie». Insomma, si può sapere come stanno le cose? Questi napoletani strimpellano o mostrano i muscoli? Mussolini comincia a nutrire qualche dubbio. Nel luglio del 1941, dopo un attacco dei bombardieri inglesi, infatti, così commenta: «Sono lieto che Napoli abbia delle notti così severe. La razza diverrà più dura. La guerra farà dei napoletani un popolo nordico». Questa volta sarà Galeazzo Ciano, non senza scetticismo sul metodo consigliato, a riportare la frase nel suo diario. La retorica nazionale fascista era appunto retorica: più apparenza che sostanza.
Finito il Ventennio, curate le ferite più gravi e rimosse le macerie, negli anni Cinquanta si ricomincia esattamente dove avevamo lasciato. E cioè dall'individualismo che vive nel vuoto anarcoide di tutte le istituzioni tranne una: la famiglia. «Fuori della famiglia nasce la diffidenza [ ... ], fuori della famiglia non trovi quasi altri legami morali» scriveva Pasquale Turiello. E che cosa sostiene il politologo americano Edward Banfield quando arriva in Italia, raggiunge un piccolo paese della provincia di Potenza, si mette a studiare le dinamiche sociali e infine, nel 1958, pubblica Le basi morali di una società arretrata? Esattamente le stesse cose.
Ancora un decennio e si arriva a un' altra pausa, quella sessantottina, quando la polemica sul dualismo Nord-Sud cede il passo a quella ideologica e di classe, tra capitalismo e proletariato. L'Italia degli eskimo e delle molotov non si divide più tra nordisti e sudisti, tra polentoni e terroni, ma tra padroni e sfruttati, conservatori e rivoluzionari, fascisti e comunisti, maschilisti e femministe. Sull' altro versante, quello del dualismo geografico, regge per anni un tacito accordo: il Nord mette i soldi, il Sud i voti. I grandi partiti costruiscono così il loro consenso e le loro fortune nazionali. Al patriottismo fascista, per certi versi, si sostituisce il dualismo Dc- Pci: due partiti che sono anche due patrie politico che, una filo-americana e l'altra filo-sovietica.
Di questa Italia si è detto e scritto quanto di peggio si possa immaginare. L'Italia dei misteri, dei complotti, delle stragi, della democrazia «malsana», come la definì Norberto Bobbio. E di quest'Italia anch'io, per anni, ho pensato molto male. Eppure, dopo una serie di incontri con Francesco Cossiga avvenuti nel 2009, ricordo di essermene tornato a casa quasi convinto del contrario. Dopo aver parlato a lungo con il «tramologo» e il «complottologo» per eccellenza, e dopo averne raccolto la testimonianza per un libro sui misteri italiani apparso un anno prima della sua morte, mi sono ritrovato sul quaderno questa frase sorprendente: «Democrazia malata? lo non sono di questo avviso. Penso anzi che si potrebbe dire il contrario, perché la nostra è anche, e soprattutto, la storia di una "invincibile stabilità". Nel senso che, nonostante tutto, nonostante le stragi, nonostante la mafia e nonostante il terrorismo nazionale e internazionale, questo Paese è sempre riuscito a evitare che la sua democrazia, per quanto "malsana", si ammalasse del tutto e irreversibilmente». «E ciò è avvenuto» ha concluso quel Cossiga volutamente antimisterico «malgrado fossimo pericolosamente esposti, al confine dei due blocchi in cui era diviso il mondo, e in un contesto mediterraneo a elevata tensione sociale e ad altissima intensità autoritaria.»
Il personaggio pubblico che meglio ha saputo rappresentare i tratti di questa Italia piccola e borghese è forse Alberto Sordi, protagonista assoluto della commedia all'italiana. Lo ha acutamente colto Silvana Patriarca in Italianità, il bel libro da cui ho attinto molte delle considerazioni sviluppate in questo capitolo. Indulgenti e compiaciuti che fossero, qualunquistici e superficiali, quei film fecero incassi inimmaginabili, e dunque incrociarono un senso comune, un sentimento diffuso. Alla fine degli anni Settanta la televisione di Stato utilizzò decine e decine di spezzoni di film di Sordi per realizzare quel capolavoro che è Storia di un italiano, un programma antologico, drammatico e divertente, leggero e appassionato, sulla storia italiana del Novecento, trasmesso in diversi cicli tra il 1979 e il 1986. Nel rappresentare l'italiano medio, annota la Patriarca, «Sordi acquistava una funzione di simbolo nazionale capace persino di trasformare certi vizi in bonarie virtù: in fondo l'italiano non era così cattivo».

Con gli anni Novanta, però, la favola sordiana finisce. Ad accorgersene subito, prima ancora che Tangentopoli deflagri fino a stravolgere gli equilibri politici e istituzionali, c'è, di nuovo, un osservatore straniero, un altro politologo americano, Robert Putnam. Nel 1993, a ventitré anni dal varo delle Regioni, Putnam pubblica La tradizione civica delle regioni italiane e traccia un primo bilancio di una riforma istituzionale che «ha un grande valore nazionale e internazionale» e costituisce «uno dei rari tentativi recenti di creare nuove istituzioni rappresentative nelle Nazioni-Stato dell'Occidente». Due, e non marginali, sono invece le osservazioni negative. La prima: l'efficienza promessa non è arrivata. La seconda: la riforma ha esasperato, piuttosto che attenuarle, le differenze storiche tra il Nord e il Sud del Paese. La riforma, prosegue, ha funzionato più al Nord che al Sud, più in Emilia-Romagna che in Puglia. Perché? Oltre che sulla scorta delle sue indagini, Putnam risponde anche con la forza dell' esperienza personale. «Già riuscire a trovare funzionari della Regione Puglia presso la sede di Bari» scrive «si è rivelato una sfida. Nell'anticamera tetra ciondolano diversi impiegati stanchi o, piuttosto, indolenti perché con molta probabilità non rimangono sul posto più di un' ora o due al giorno ... Più in là vi sono file di scrivanie vuote.» Putnam cita anche il caso di un sindaco furibondo, perché senza interlocutori, incontrato nei corridoi e quello di un impiegato che, rimproverato da un capufficio, cosi risponde: «Non può darmi ordini, lei! lo godo di ottime protezioni». Insomma, è un raccomandato. La conclusione di Putnam: «Se la Puglia diventerà un giorno la "nuova California", come alcuni entusiasti sostenitori dicono a volte, lo sarà nonostante il nuovo governo, non grazie ad esso». Tutt'altra storia in Emilia-Romagna, dove «entrare nella sede regionale, un palazzo dalle pareti di vetro, è come entrare in una ditta di alta tecnologia».
Anche Putnam è dunque intriso di pregiudizio antimeridionale? Assolutamente no, è l'autodifesa. «Alcuni commentatori» scrive nella prefazione all'edizione italiana del suo saggio «hanno erroneamente ricavato che la mia argomentazione attribuisse il ritardo del Sud all'immoralità personale, a difetti caratteriali o perfino (e questo è anche peggio) a una sorta di inferiorità razziale. Questa interpretazione è completamente sbagliata.» E invece? «Il Sud è in ritardo non perché i suoi cittadini sono malvagi, ma perché essi sono intrappolati in una struttura sociale e in una cultura politica che rende difficile e addirittura irrazionale la cooperazione e la solidarietà.» La sua tesi è che anche un individuo highly civic, dotato cioè di molto senso civico, inserito in una società uncivic, priva di senso civico, è destinato a comportarsi in modo non cooperativo, a violare il codice della strada, ad agire con egoismo e diffidenza. La soluzione non può che essere quella di una riforma della società basata sulla sostituzione «dei legami verticali di sfruttamento e di dipendenza», tra cui Putnam mette anche il clientelismo, con nuovi rapporti «orizzontali di reciproco aiuto, collaborazione e fiducia». È questa nuova rete di relazioni il capitale sociale a cui più volte l'autore fa riferimento. Le Regioni non hanno favorito l'accumulazione «capitalistica» di cui il Sud aveva bisogno. I meridionali sono dunque diversi, ma questa volta, oltre che per il contesto, l'ambiente, la cultura e le tradizioni, anche con il beneficio del deficit istituzionale.
Partiti gli osservatori stranieri, nel Sud tornano quindi i piemontesi. Ma questa volta sono scrittori e giornalisti come Guido Cero netti e Giorgio Bocca. Tornano per capire, per cercare di penetrare il mistero di un Mezzogiorno che ancora non riesce a raggiungere il Nord. Perché resta indietro? Che cosa lo trattiene? Cero netti anticipa un po' tutti con il suo Un viaggio in Italia, che è del 1983. Quando arriva a Palermo ne dice di tutti i colori, senza punti e punti e virgola, nel suo stile inconfondibile, senza alcuna inibizione. I meridionali sono vinti, messi a terra per sempre. Morti, insomma. «Tutti quanti, andalusi, cretesi, turchi, arabi, occitani, armeni, siciliani, greci, vixerunt, anche se di fuori sgambettano, la loro anima giace strangolata nel sottosuolo della storia, lo spettacolo, la scena, le parole sono sfoghi di vento, non c'è nulla dietro, popoli finiti. Sono i mediterranei, gli atlantici della finestra di fronte, morti come il loro mare, una specie mentalmente estinta, anche se in spermatozoi vivace ancora, ma non riproducono che sfinimento.» La soluzione? Ceronetti, forse il più colto e provocatoriamente lirico dei terronisti, ce l'ha eccome. «Dna scarica da quattromila Volt nel cervello, in cervelli già malconci, questa è la rinascita dell' ex povero Sud.» E come se non bastasse, prosegue parlando dei meridionali come di chi è stato buttato in un vortice e non ne uscirà più; come malati senza speranze, come anime perse pronte a rispondere «con un pallido grazie di sofferenza per una parola scambiata».
E poi c'è Bocca, l'inafferrabile Bocca, leghista antimeridionale prima ancora della stessa Lega e antileghista quando la Lega dice del Sud ciò che egli stesso ha documentato e raccontato. Nel 1992 scrive L'inferno, un altro viaggio nel profondo Sud. I professori, i notai, gli avvocati, i giudici della Calabria «che sta aspettando il ritorno di Pitagora» vengono descritti «come conigli, come lupi sulle montagne». Quando arriva a Napoli, invece, è come sopraffatto da un sentimento «di un assurdo irreparabile)) che domina la città. Gli vengono in mente le parole di un' altra scrittrice, Anna Maria Ortese, che descriveva la città come una fossa scurissima in cui «non brillava che il fuoco del sesso sotto il cielo nero del sovrannaturale)), e si chiede dove fosse e quando mai c'era stata la Napoli della grande armonia di cui pure aveva sentito parlare. «Non nell'Ottocento delle grandi emigrazioni, non nel Settecento delle sanguinose rivolte dei lazzari o delle repressioni borboniche, non nel Seicento della povertà, non nel Cinquecento delle pestilenze.)
Questo Bocca che artiglia e graffia piace agli oppositori di allora, agli intellettuali di sinistra che gli vanno incontro alla stazione, lo accolgono con simpatia, gli aprono le porte dei loro salotti. Ma lo stesso Bocca non piace più quando ritorna molti anni dopo, nel 2006. Lo scenario politico è cambiato: molti di quegli intellettuali che prima lo avevano sostenuto ora sono andati al governo, collaborano con Antonio Bassolino e con Rosa Russo Iervolino. E dunque lo evitano, lo ignorano con languida nonchalance. Hai letto l'ultimo Bocca? «No, non ne . so nulla.» Parla male dell'Amministrazione. «Ah, sì? Leggerò.» In Napoli siamo noi la città appare a Bocca «peggiorata», «disposta all'infamia più che nel passato».
Da Roma, dove vive, appassionato come sempre, reagisce solo Raffaele La Capria, napoletano di Posillipo, uno dei maggiori scrittori italiani. Nel 1999, nel bicentenario della Repubblica partenopea, La Capria scrive un libro, Napoli. L armonia perduta, per spiegare la sua teoria della napoletanità. La quale altro non è che un modo di fare, ammiccante e compromissorio, tipico della piccola borghesia ma diventato poi, negli anni, il tratto dominante della cultura cittadina. Con quel suo incantatorio uso del dialetto, con quel compiaciuto venire a patti con la Napoli bassa o illegale, la borghesia ha tentato di tenersi buona la plebe. Quella stessa plebe che aveva scannato o impiccato i giacobini del 1799. La napoletanità nasce dalla paura, ma serve a tenere unite le due Napoli.
Bocca: «La napoletanità non è una buona cura, è il folclore che copre l'insipienza del disordine, la finta solidarietà che copre il perdurante sfruttamento dei deboli».
La Capria: «Dici che le mie eleganti teorie sulla napoletanità sono consolatorie, e allora? La lettteratura deve essere anche consolatoria e non solo rabbiosa».
Bocca: «Questa napoletanità risulta francamennte repellente, indegna di una grande città civile».
La Capria: «Credi tu che Di Giacomo, le canzoni napoletane, Era de maggio, Palomma e notte, Eduardo, Totò, Troisi siano delle anomalie o delle conseguenze venute fuori da un Paese di camorristi adoratori di Pulcinella? Quella levità, quel seme oi humour, quella finezza psicologica, quell'ironia, quella simpatia capace di riconoscere l'altro come persona e come uguale, sarebbe di origine camorristica? Sono stati finora semmai un argine, forse un po' debole, lo riconosco, al sempre più sconvolgente irrompere della modernità in un contesto poco adatto a metabolizzarla a causa della sua forte identità».
Bocca: «Caro La Capria, non mi convinci».
La Capria: «Caro Bocca, un po' di napoletanità ti farebbe bene, ti renderebbe un po' più duttile, un po' più aperto alla pienezza della vita».
Il nuovo secolo è dunque cominciato così come era cominciato quello vecchio, parlando del carattere dei napoletani. Nel 2007, ed è un primo segno dei tempi, esce 2061. Un anno eccezionale, dei fratelli Vanzina, il film in cui una voce fuoricampo avverte: «Siamo nel 2061, il Pianeta è sconvolto. Avanzano i deserti, si sono innalzati i mari, è finito il petrolio, manca l'acqua potabile. In questo scenario apocalittico l'Italia è tornata ad essere uno Stivale simile a quello del 1861 [ ... ]. Insomma, la nazione si è sfasciata».

8
Antipatici vs allegri ovvero
Nord e Sud oggi

Tre anni dopo il film dei fratelli Vanzina arriva Benvenuti al Sud, di Luca Miniero, remake del francese Giù al Nord. Rispetto a quest'ultimo è meno sofisticato e più caricaturale. Rispetto al film dei Vanzina, invece, è tutt' altra storia. È quasi un passare dall' Apocalisse alla Genesi.
In 2061 l'Italia è diventata un Paese diviso, quasi pre-risorgimentale, e in più multietnico e postbalizzato. Al Nord i leghisti secessionisti hanno creato la Repubblica Longobarda e per impedire l'ingresso ai terroni hanno innalzato una muraglia lungo il Po. Al Centro è rinato lo Stato Pontificio e al Sud c'è il Sultanato delle Due Sicilie, con un ponte sullo Stretto ridotto a ferraglia e capitale è Monnezza d'Ampezzo. In questa Italia, Diego Abatantuono, il professor Ademaro Maroncelli del liceo Massimo D'Alema, si aggira tra macerie e cumuli di immondizia nel disperato tentativo di riunificare il Paese.
In Benvenuti al Sud, invece, i barbari sono finti, gli umori sono solari e Claudio Bisio, direttore di un ufficio postale trasferito da un piccolo paese della Brianza a un piccolo paese della Campania, vive in paesaggi struggenti, che attraversa zigzagando felice a bordo di una Vespa. Il pregiudizio antimeridionale, che all'inizio del film trasuda da ogni gesto, da ogni sguardo, da ogni frase, lentamente si stempera fino a creare un grottesco ma inatteso clima di fratellanza tra nordisti e sudisti. Capolavoro o cinepanettone fuori stagione?
«È un filmiciattolo» stronca sul «Foglio» Camillo Langone. «È un balsamo leggero contro i pregiudizi» gli risponde sul «Corriere della Sera» Beppe Severgnini. L'Italia intera ne parla, pagine e pagine di giornali. Bruno Vespa dedica al film una serata speciale di Porta a Porta.
Quando ho visto Benvenuti al Sud, io ho riso almeno una dozzina di volte. Come ridevo con Totò e anche con Lino Banfi. Solo che c'è stato un tempo in cui se ridevi con loro non potevi dirlo, perché se arrivavi a tanto allora avresti potuto anche votare Dc, servire messa e rincasare presto la sera. Certo, il giubbotto antiproiettile di Bisio non regge il confronto con il colbacco di Totò e Peppino, ma Severgnini ha ragione: Benvenuti al Sud è un Malox contro le acidità della commedia politica italiana. Poi, c'è una questione personale: con lo snobismo che prima era di sinistra e ora comincia a essere di destra, io non voglio più compromettermi. Ricordo che per via di questo elitismo ci sono voluti più di vent'anni per sdoganare il principe de Curtis, ma abbiamo affossato per sempre la Festa di Piedigrotta, che era il nostro Palio di Siena, il nostro Carnevale di Viareggio, la nostra Corsa dei Ceri di Gubbio. E presi da tardivi sensi di colpa, abbiamo poi rivalutato la taranta pugliese e perfino i cantanti neomelodici prima ancora di celebrare come si doveva la canzone napoletana classica, a cui ha dovuto pensare l'americano Turturro con Passione. Di tutto questo Renzo Arbore, l'Arbore di Quelli della notte e di Miss Nord e Miss Sud, ancora non si capacita e parla infatti di uno snobismo culturale che fa risalire all' epoca di Achille Lauro.
Lauro fu sindaco di Napoli dal 1952 al 1957 e per l'intero 1961. Aveva un partito monarchico tutto suo, era molto amato dai napoletani e raccoglieva più di trecento mila preferenze. I democristiani lo fecero fuori politicamente per dar vita alla stagione del centro sinistra e dello scempio edilizio. I socialisti lo fecero fuori mediaticamente per creare un capro espiatorio. Sobrio non era, riservato neanche. E il fottere, in senso lato, gli piaceva almeno quanto il comandare, tant'è che per tutti era '0 Comandante, ma i registi e gli sceneggiatori socialisti cominciarono a rappresentarlo come un rozzo e un rapace, come un demagogo assatanato,- come una sorta di Berlusconi ante litteram o di Cetto La Qualunque, il volgare e surreale personaggio creato da Antonio Albanese. È a quel tempo, secondo Arbore, che per liberarsi di Lauro molti intellettuali finirono per liquidare gran parte del patrimonio popolare napoletano. Per quanto mi riguarda, Arbore ha pienamente ragione, perché Lauro non fu solo, come qualcuno ora gli riconosce, un grande imprenditore che seppe aprire il cuore alle speranze più ingenue dei napoletani, ma fu anche un coraggioso innovatore. E fu massacrato dalla propaganda politica avversaria più di quanto egli abbia massacrato, con «le mani sulla città», il territorio urbano.
Tuttavia, l'idea di costruire un film sul pregiudizio antimeridionale come Benvenuti al Sud è già di per sé un dato significativo, una conferma di quanto sia tornata d'attualità, nel dibattito pubblico, la questione del carattere degli italiani. Tutto ciò non sembra allarmare Severgnini, il quale definisce una clamorosa sciocchezza la retorica sull'inesistenza dei caratteri nazionali: non siamo tutti uguali, e allora? L'occasione per infrangere quello che a Severgnini appare ancora un tabù gliela dà un giovanotto di trentatré anni, il disegnatore bulgaro Yanko Tsvetkov. Il quale, sul modello di quella pubblicata dall' «Economist», . produce singolarissime mappe in cui i Paesi e le regioni vengono ribattezzati a seconda degli stereo tipi con cui sono visti dagli altri. Per Severgnini giocare sulle diversità non è un problema. E non c'è proprio nulla di male se a molti i tedeschi fanno venire in mente il «pomo spinto»; se per i francesi gli italiani sono amichevoli casinisti; se per gli americani siamo mafiosi; e se noi e gli americani pensiamo che i francesi si lavano poco. Tanto poi ci incrociamo, ci salutiamo, magari ci innamoriamo e gli stereotipi si sciolgono davanti a una birra, o a un bicchiere di vino, o a una coppa di champagne, dipende. Leggerezza, dunque, e non facciamola troppo lunga. Giusto, ma come la mettiamo quando tutto questo denota una profonda ignoranza e un' assoluta indifferenza verso l'altro?
Conservo ancora, e mi torna ora utile, un articolo di Donald Sasson per «Il Sole 24 Ore» sui risultati di un'indagine condotta nel 2008 dal ministero della Cultura francese. Lo scopo era di accertare quanto gli italiani, i tedeschi e i francesi sapessero della cultura altrui. Vennero fuori strane cose. Alla richiesta di citare almeno due uomini di Stato che avessero avuto un ruolo significativo nella storia della Germania prima del Novecento, il 70% degli italiani e il 72% dei francesi non sapeva fare neppure un nome. Né Bismarck, né Barbarossa, né Guglielmo L C'era invece chi citava Hitler, che però nel 1900 aveva appena undici anni. n 70% dei francesi e il 63% dei tedeschi non sapeva citare un solo protagonista della storia italiana, neppure Garibaldi, e solo il 10% sapeva che a scrivere la Divina Commedia era stato Dante. Analoga ignoranza riguardava i nostri monumenti. E se era facile riconoscere il Colosseo o la Torre di Pisa, quasi nessuno sapeva com' era fatto il Duomo di Milano. Al tempo, poi, l'unico italiano davvero conosciuto nel mondo era Pavarotti.
n punto è chiaro. Ognuno sa qualcosa dell' orticello nazionale, ma ben poco di quello altrui. E la colpa, diceva Sasson, non è della gente, che è ignorante, ma dei mass media, che danno al pubblico quello che vuole. E il pubblico vuole quello che già sa.
Il meccanismo appena descritto è appunto quello che determina il luogocomunismo, la riproposizione di luoghi comuni e di pregiudizi. E poiché non si può parteggiare più di tanto per gli uni e per gli altri, ecco che i conti non tornano. Pochi giorni dopo il commento a Benvenuti al Sud, infatti, mi sorprende la recensione dello stesso Severgnini ad altri due film: Eat Pray Love con Julia Roberts e Somewhere di Sofia Coppola, due banalissime storie di viaggi in Italia. E scopro che a Severgnini questa volta hanno dato fastidio tutte quelle stupidaggini sui romani erotomani, sulla nostra incapacità di esprimerci se non a parolacce, sui nostri bagni di casa senza acqua calda, noi che nei bagni ancora conserviamo il bidet. Eat Pray Love viene definito «non un film, ma l'Onu delle banalità». Ma non dovevamo brindare alla scarsa conoscenza reciproca con una coppa di champagne?
Negli stessi giorni, il governatore veneto Luca Zaia, ancora lui, protesta con Mediaset per il disappunto provocatogli dalla visione di Distretto di polizia 10. Nel serial televisivo, si lamenta, la sua gente non fa una bella figura, perché c'è il Giovanni Brenta, il poliziotto centralinista, che parla con accento bergamasco e non è propriamente quel che si dice un genio. Accostamento suggestivo, direbbe un avvocato querelante.
Il problema è che ignoranza e globalizzazione, radicamento localistico e cultura digitale cominciano a fare scintille. Probabilmente ci si arrabbiava anche ai tempi di Arlecchino e Pantalone, ai tempi della commedia dell' arte, ma l'impressione è che oggi, di fronte a certe rappresentazioni, non ci sia più, come una volta, la stessa propensione a sospendere la propria incredulità. Non si è più disposti, insomma, a farsi prendere dalla messa in scena; non si è più disposti a identificare gli attori con la maschera. Colombina e Pulcinella li riconoscevi dal costume, e volentieri ti facevi trascinare nel loro mondo semplificato. Se i nonni cominciavano un racconto dicendo «C'era una volta ... », tu capivi che era una favola e ti predisponevi tranquillo ad ascoltare il seguito. Oggi è più difficile distinguere la fiction dalla realtà. L'agente centralinista, per capirei, ci è o ci fa? E qual è oggi il confine tra ironia e provocazione?
Il nervo è scoperto. Nel commentare Benvenuti al Sud nel salotto di Vespa, il napoletano Alessandro Siani non fa che sfottere per tutta la sera i nordisti e poi, a una domanda sul rapporto con il lavoro, così risponde: «Noi siamo geniali, loro sono robot». Scherzava o faceva sul serio? Dubbio legittimo, tanto più alla luce dei dati che si commentano nello studio. E che testimoniano una singolare tendenza. Pare che il pregiudizio dei meridionali nei confronti dei settentrionali sia superiore a quello del Nord verso il Sud. Due dati prima degli altri. Se si chiede a un milanese «I meridionali sono più ... ?» e si lascia che sia lui a dare la risposta, si scopre che il 30% dice «allegri». Ma se, al contrario, si pone la stessa domanda a un meridionale, il primo aggettivo che viene utilizzato per definire i settentrionali è «antipatici». E così, due settentrionali su dieci dicono che sarebbero «seriamente preoccupati» se si dovessero trasferire al Sud; mentre i meridionali «seriamente preoccupati» di andare al Nord sono di più, tre su dieci.
Incuriosito, il giorno dopo dedico all' argomento un'intera pagina del «Corriere del Mezzogiorno». «È un dato che sorprende anche me» confessa al collega Gianluca Abate il professor Renato Mannheimer, che quei dati ha raccolto per Porta a porta. Una spiegazione però c'è. Parola di milanese che ha insegnato e vissuto a Napoli: «Be', al Nord ci sono un sacco di meridionali che non hanno certo pregiudizi nei confronti delle loro regioni d'origine. E gli stessi settentrionali ormai sono abituati a convivere con i meridionali che si sono trasferiti: li conoscono bene, e non hanno quella visione del Sud presa in giro dal film». Sul primo punto nutro dei dubbi. Anzi, a dire il vero, la storia insegna che i più intransigenti con i meridionali sono proprio gli esuli. Sul secondo, invece, c'è sicuramente del vero. Anche se mi è rimasto impresso quel che un giorno, sul bordo di una piscina a Ischia, in attesa di un ennesimo dibattito sul Sud, mi ha confidato Gianluigi Paragone, l'ex direttore della «Padania» ora alla Rai. Mi ha detto che il sentimento più profondo che caratterizza il Nord nei confronti dei meridionali non è il disprezzo, ma l'indifferenza. Facciano quel che vogliono, basta che non ci intralcino.
Il che non è in contraddizione con le paure invertite sottolineate da Mannheimer. Quasi una sorta di pregiudizio al contrario. Dopo aver definito «allegri» i meridionali, al Nord li vedono come «ospitali» (9%), «generosi» (7%), «creativi» (6%) ed «estroversi» (3%). Mentre i settentrionali visti dal Sud sono «creativi» ed «efficienti» solo per il 6% degli intervistati meridionali. Gli altri, invece, li definiscono «antipatici» e «freddi» (19%).
Tesi confermata dall' altra domanda: «Se lei dovesse trasferirsi al Sud sarebbe ... ?». La maggioranza dei settentrionali (il 59%) dà una risposta positiva, dividendosi tra «incuriosito» (39%) e «non vedrei l'ora di andare» (20%). Il 38% invece sarebbe «seriamente preoccupato» o, addirittura, pronto a «cambiare lavoro» (3%). La stessa domanda, a parti invertite, produce risposte inaspettate. E così, se sei settentrionali su dieci sono pronti a trasferirsi al Sud, solo il 47% dei meridionali andrebbe al Nord. Tre su dieci sarebbero «incuriositi» e il 16% «non vede l'ora». E, soprattutto, sono molti di più i meridionali «seriamente preoccupati» di trasferirsi al Nord (31 %) o che cambierebbero lavoro pur di non andarci (15%). E funziona così anche per tutte le altre domande. Il Sud è la terra delle mafie? Bene, ma se nella terra dei Casalesi e dei Corleonesi il 75% dei cittadini si dice «preoccupato per la criminalità», al Nord non va meglio, visto che il 65% degli intervistati è parimenti «preoccupato» per la delinquenza settentrionale. E i sentimenti, alla fine, sono comuni: dai politici corrotti «ingiustificabili» (la pensa così il 75% dei settentrionali e il 71 % dei meridionali) ai servizi che si ricevono in cambio delle tasse: se ne lamentano il 71 % dei residenti al Nord e il 79% di quelli che vivono al Sud.
Non che sia tutto rose e fiori, precisa Mannheimer: <<A Milano, nel bar sotto casa mia, prendono in giro i meridionali presenti. Ma quel che mi colpisce è che il Sud non ci vede come razzisti. Piuttosto passiamo per stupidi, per quelli che non hanno capito il senso della vita». La verità è che al Sud più che al Nord qualcosa sta davvero accadendo sul fronte delle tensioni territoriali. Lo conferma quest'ultimo dato tratto dal Rapporto 2010 Gli italiani e lo Stato curato dal sociologo Ilvo Diamanti. Nel Nord-Est, Il dove è più forte la «nordestraneità», la quota di coloro che giudicano il Mezzogiorno un peso per lo sviluppo raggiunge il 37% degli intervistati. Nel Sud e nelle isole, invece, l'idea dell' egoismo settentrionale è radicata in oltre il 43% dei consultati. Sei punti di percentuale di differenza. E al Sud non c'è la Lega. Ma forse è proprio per questo.
Non so se è la conferma di una involuzione, ma risalendo la corrente cinematografica che ha portato fino a Benvenuti al Sud, ho ritrovato un vecchio film del 1953 con e di Eduardo De Filippo.
Si intitola Napoletani a Milano ed è la storia di don Salvatore Aianello e dei suoi amici, i quali in cerca di indennizzi per un fantomatico torto subito, si trasferiscono a Milano. Qui gli imprenditori coinvolti nella vicenda offrono lavoro in cambio di risarcimenti. E così comincia l'avventura che non trascura nessuno dei luoghi comuni sul Nord e sul Sud. Alla fine, però, Eduardo fa un sogno: immagina un tram che parte da Mergellina e si ferma sotto le guglie del Duomo. Un'unica corsa. Napoli-Milano una sola città.

9
Arii e mediterranei ovvero
La reazione razzista

Come hanno reagito i meridionali alla grande quantità e varietà di pregiudizi che nel corso dei secoli è piovuta loro addosso? Direi male, anzi malissimo. Tranne che per un aspetto.
Noi napoletani, che pure, come si sa, molto spesso tronchiamo le parole, diciamo fatica e non lavorare, Marì e non Maria; poi, per un curioso rovesciamento delle abitudini, diciamo mignon e non mignon, Cavour e non Cavour, 1'esatto opposto cioè di come dovremmo dire e di come sarebbe stato naturale dire. Tracce di questi errori ci sono anche nei documenti storici, cosicché non è raro trovare storpiato il cognome di donna Eleonora, l'eroina della Repubblica napoletana, che diventava ora Pimmentel ora Pimentella. Nel suo caso, però, quel che più colpisce è che l'errore fu commesso perfino in punto di morte: «Chista è Eleonora Pimentella, una volta marchesa e adesso rea di Stato». Fu con queste parole, pronunciate il 20 agosto 1799 da Mastro Donato, il boia di Ferdinando IV, che si pose fine alla sua esistenza.
Maria Antonietta Macciocchi, giornalista, scrittrice e parlamentare europea eletta a Napoli, ha dedicato alla Pimentel Fonseca il suo penultimo libro, Cara Eleonora, una biografia appassionata e ricca di particolari. Tra cui quello del cognome storpiato, partendo dal quale ha elaborato una teoria chiamata del «disprezzo sillabico». Secondo questa teoria, noi napoletani strapazziamo i nomi coscientemente o per istinto, ma sempre, al fondo, spinti da diffidenza e disprezzo, appunto, per lo straniero, per l'estraneo, per chi metaforicamente o non viene da fuori o è altra cosa rispetto a noi. E io credo che in questa teoria ci sia del vero.
In pieno fascismo, infatti, anche l'ormai anziano Giustino Fortunato praticava il disprezzo sillabico. Lo faceva quando parlava del Duce: lo chiamava «Mussolino», con la o finale, e così anche scriveva. Lo faceva volutamente, perché fosse chiaro a tutti che non era sua intenzione né confondere quel regime con la restaurazione liberale, né cedere a quell'infatuazione politica che aveva già preso molti suoi amici.
Condivisibile o meno, l'abitudine meridionale di sbagliare i cognomi e le parole aveva dunque una sua ragion d'essere. Non come quella del conte Camillo Benso di Cavour, il quale sbagliava unicamente perché era debole in ortografia. Scriveva «eriggere» e «suffraggio», con due gi, come prova il testamento interamente scritto di suo pugno che nell' anno del Signore 1849, il giorno 9 del mese di aprile, in Torino, ore undici circa, egli stesso consegna, alla presenza di cinque testimoni, al notaio di famiglia Tommaso Angelo Piumati. A dire il vero, e a sfogliare Così deciso, così sia, storie di testamenti famosi a cura di Salvatore De Matteis, risulta che anche Francesco II di Barbone, nelle lettere all' amatissimo fratello Alfonso, fosse solito prendersi qualche licenza, come trattenere per sé l'acca del verbo avere. Ma almeno al suo posto usava una specie di accento appena percettibile.
A parte il disprezzo sillabico, sublime esempio di protesta non violenta quando si tiene lontano da forche e patiboli, io credo che il Sud non abbia mai, o quasi mai, trovato le parole giuste per difendersi dal pregiudizio di cui è stato vittima. Le risposte formulate risultano il più delle volte esagerate o parziali. Comunque sbagliate. E a questo proposito, volendo semplificare, si possono individuare almeno tre grandi gruppi di risposte: quella razzista, quella orgogliosa e quella nostalgica.
La prima risposta, quella razzista, ruota grosso modo intorno a questo ragionamento: il Sud è arretrato perché i meridionali sono diversi e peggiori rispetto agli altri italiani, ma sia chiaro, parliamo del popolo minuto, dei lazzari, della plebaglia. La seconda, la risposta orgogliosa, verte su un ragionamento opposto: d'accordo, siamo diversi, ma siamo migliori degli altri, ci attraversa il sangue dei Greci, prolunghiamo nel tempo la loro filosofia di vita e non intendiamo essere contaminati dalla modernità. Infine la terza risposta, quella nostalgica, punta sulla qualità delle origini, su un mitico tempo perduto e sull'illusione che prima si stava molto meglio, prima quando c'erano i Borbone. Come si spiegano queste risposte?
In genere, sostiene a ragione Pino Aprile in Terrroni, i meridionali hanno introiettato a tal punto le accuse da farsene una colpa, perché quando il danno è intollerabile, cercare una ragione che lo renda comprensibile diventa una via per non impazzire. Shakespeare lo diceva in altro modo, diceva che «il racconto del male che si dice di noi, opera sull' animo come l'aratro sulla terra: strazia e feconda». Ma è proprio questa la fattispecie che fa al caso nostro? Vediamo. Nel suo libro, Aprile cita il socialista Ettore Ciccotti, il quale metteva in guardia, allarmato, da un vero e proprio «antisemitismo italiano» ai danni dei meridionali. Aprile attribuisce poi quel particolarissimo antisemitismo alla Lega di Bossi. Se molti meridionali si sono convinti della propria minorità, spiega, è solo perché per anni il partito nordista ha parlato male di loro. E parla parla, alla fine qualcosa resta. In realtà Ettore Ciccotti, storico del mondo antico, amico di Turati, esule a Ginevra per le sue idee socialiste e poi eletto deputato, morì nel 1939, quando Bossi non era ancora nato. Ciccotti, ecco il punto, polemizzava con i suoi contemporanei lombrosiani, che non avevano alcuna idea di riti celtici, ampolle del Po e parlamenti padani.
Questa storia ormai la conosciamo. Immerso fino al collo nella cultura positivista del tempo e con quella sua fissazione sull' anomala volumetria dei crani meridionali, Lombroso si è limitato a preparare il pacco del razzismo antimeridionale. Ma chi davvero lo ha infiocchettato, con tanto di studi, analisi e ricerche sul campo, sono stati i suoi discepoli, tutti meridionali e, particolare non di poco conto, tutti di dichiarata fede socialista. Insomma, non c'erano stranieri con cui prendersela. La storia della razza inferiore il Sud l'ha raccontata per ragioni interne più che per condizionamenti esterni. E per giustificarsi più che per capire davvero come stavano le cose.
La scomoda e ingombrante appartenenza dei lombrosiani alla grande famiglia socialista, del resto, non è casuale, perché la questione razziale, l'idea cioè che il Sud sia la culla di una razza inferiore per indole, intelligenza e aspetto fisico, esplode a circa quarant'anni dall'Unità d'Italia, quando i socialisti meridionali antiborbonici si rendono drammaticamente conto che il Sud non marcia verso la rivoluzione sociale e il Nord comincia invece a svilupparsi. A svilupparsi sia economicamente, con le prime industrie e i primi distretti produttivi; sia politicamente, con la nascita delle leghe e con il rafforzamento del movimento operaio organizzato. Dal punto di vista dei socialisti lombrosiani, il Sud resta invece al palo, nonostante i Borbone non ci siano più da un pezzo. Ed è a questo punto che quei socialisti, invece di guardarsi allo specchio e di interrogarsi sui limiti della loro strategia elitaria e sui difetti del loro agire politico, non sanno fare di meglio che scaricare tutte le colpe sul popolo meridionale, sulla sua diversità e minorità razziale. Che rivoluzione puoi fare con un popolo indolente e individualista?
Al Nord i compagni socialisti si interrogano sul perché il Mezzogiorno sia rimasto la terra del pauperismo, dell'immoralità e dell'immobilità politico-sociale; e al Sud si risponde bellamente con la teoria dell' atavismo, cioè dell' arresto dello sviluppo dovuto alla permanenza di uno stato barbarico. E cosa determina questo stato barbarico? Ma è ovvio: la diversità razziale e quella climatica. Cos' altro altrimenti? E così il cerchio si chiude e almeno apparentemente la faccia del socialismo meridionale è salva. Un gioco da ragazzi che gli antropologi della scuola lombrosiana praticano con particolare impegno e creatività.
Sulla scia delle misurazioni craniche di Lombroso, per esempio, uno dei suoi migliori allievi, l'antropologo siciliano Giuseppe Sergi, sostenitore dell' «eugenetica ambientale» e fondatore del primo laboratorio italiano di psicologia sperimentale, arriva, come già accennato, alla discutibilissima distinzione tra brachicefali e dolicocefali, dove i primi, quelli dal cranio corto, costituivano la razza superiore, evoluta, nordica: gli Arii; e i secondi, quelli dal cranio lungo, appartenevano invece alla razza inferiore, degenerata, mediterranea: gli Italici. Agli inizi del Novecento, Sergi scrive che «negare le influenze della razza è negare che il sole scalda e illumina». E se il Nord è più sviluppato del Sud, e se ha più ferrovie e governanti migliori, inutile fare tante storie. Sergi ragiona così: vince il più forte, e se è più forte non è certo colpa sua. E quindi «sarebbe strano, nella concorrenza alla vita sociale, che il più forte debba starsi inoperoso per far piacere al debole». «La verità» conclude, «è che perirebbero tutti e due, e ciò è assurdo».
Gli risponde Antonio Gramsci, che quasi lo manda a quel paese. E bravo, gli dice, e così ora tutto è chiaro: il Mezzogiorno è, dunque, «la palla di piombo che impedisce più rapidi progressi allo sviluppo civile dell'Italia; i meridionali sono biologicamente degli esseri inferiori, dei semi barbari o dei barbari completi per destino naturale; e se il Mezzogiorno è arretrato, la colpa non è del sistema capitalistico o di qualsivoglia causa storica, ma della natura che ha fatto i meridionali poltroni, incapaci, criminali, barbari». Ottimo.
Ma più di Sergi poté il contemporaneo Alfreedo Niceforo, anche lui siciliano e ben introdotto: presidente della Società italiana di antropologia e poi del Consiglio superiore di statistica, membro della Società hobbesiana di filosofia e scienze sociali di Karlsruhe e socio corrispondente dell'American Academy of Political and Social Science, tanto per citare qualche titolo. Niceforo è uno straordinario divulgatore della dottrina positivista, e ha una scrittura fluida e moderna, a tratti schematica, a tratti immaginifica. È capace di continui riferimenti ai classici e ai maestri del pensiero europeo. Se Monntesquieu dice che nei Paesi settentrionali i popoli hanno pochi vizi, parecchie virtù, molta sincerità e franchezza, mentre chi si avvicinerà ai Paesi meridionali avrà addirittura l'impressione di allontanarsi dalla morale, Niceforo, in Italiani del Nord e italiani del Sud, pubblicato nel 1901, riformula lo stesso concetto su scala locale. «Il carattere del piemontese» scrive «non è quello del siciliano, ed essi divergono, appunto, come diverge la psicologia dei popoli nordici da quella dei popoli meridionali.» E offrendo ai posteri una battuta di sicuro effetto, Niceforo aggiunge che «nel Nord si lavora e si produce, nel Sud si ozia e si consuma». Nella sua analisi c'è un qualcosa in più che lo spinge a privilegiare il Nord rispetto al Sud. È appunto il suo essere socialista, il che lo porta a denunciare sia l'individualismo meridionale, sia la solitudine delle masse ingovernabili.
«Gli Arii» scrive Niceforo «hanno un sentimento di organizzazione sociale più sviluppato di quel che non sia presso i mediterranei, i quali hanno invece più sviluppato il sentimento individualistico. Mentre nella stirpe aria, al Nord, l'individuo facilmente si fonde nell'aggregato e si considera parte dell'unità sociale, sulla quale non aspira ad elevarsi per dominarla, nella stirpe mediterranea, invece, ogni individuo vuole emergere, anche quando sia necessario rimanere come molecola dell'unità indivisa.»
Il socialista, frustrato per non avere tra le mani un' organizzazione politica forte come quella dei «compagni» settentrionali, si assolve dunque senza alcun senso di colpa. L'Italia meridionale altro non è, come intitola un suo libro, che L Italia barbara contemporanea. A questo punto, mi chiedo come sia stato possibile tenere tanta parte del pensiero meridionale al riparo da accuse razziste.
Eppure, lo si è fatto per anni. In primo luogo, sorvolando sul teatro d'azione della scuola lombrosiana, che è nata e si è sviluppata tutta al Sud. In secondo luogo, attribuendo il lato oscuro di quella scuola alla cultura politica dell'Italia capitalista, cioè del Nord.

In altre parole, la sinistra non ha mai omesso di dire che Lombroso e i lombrosiani fossero razzisti, ma ha evitato di aggiungere che erano socialisti e meridionali. Inoltre, la campagna antimeridionale dei lombrosiani è stata indicata dalla sinistra come il migliore servigio reso al dominio di classe in Italia, perché ha dato una giustificazione «scientifica» allo sfruttamento dei contadini meridionali da parte del blocco agrario-industriale del Nord. Fatto sta che, contro ogni logica e contro il normaale corso del tempo, Lombroso è sempre passato per un fascista, e con un analogo anacronismo ancora oggi si parla dei lombrosiani come se fossero dei pericolosi leghisti.
Un caso a parte è poi quello di Giustino Fortunato. Al suo tempo, infatti, l'ossessione razzista era così diffusa che gli capitò di farsi prendere la mano. Ora, so bene che quando si parla di Giustino Fortunato si parla di un gigante del meridionalismo; che Indro Montanelli lo definì «il più grande e illuminato studioso del Meridione»; e che bisogna essergli debitori a vita per aver sfatato, primo tra tutti, il mito di un Sud felix, e per averlo raccontato per quello che era, e cioè povero geograficamente e socialmente, carente di fiumi e pianure, e privo anche di una borghesia diffusa e affidabile. So, ancora, che la sua immediata e istintiva avversione al fascismo gli ha fatto acquistare ulteriori punti. Ma sta di fatto che Fortunato stilò un suo personale elenco delle cause dell' arretratezza meridionale e in quella occasione pose la razza prima di ogni altra. Come mai non se ne è mai parlato? Strano, no? A me è capitato di scoprirlo solo quando ho scritto Bassa Italia, un libro sull' antimeridionalismo della sinistra meridionale. E me ne sono fatto subito una colpa. Ma poi ho cominciato a chiedere in giro, ho inviato sms e interrogato gli amici, ho provato a fare qualche test tra gli addetti ai lavori. E cosa è venuto fuori? Tanta incredulità e tanto disagio. Giustino Fortunato razzista? Ma no, non è possibile. Controlla bene. Eppure, i riferimenti ci sono e sono chiari. Ad esempio, da dove nasce il meridionalismo di Fortunato? Cosa gli provoca la folgorazione e gli svela il mistero del divario Nord- Sud? Lo dice egli stesso in una delle sue lettere: da una frase di Johann Gottfried Herder, allievo di Kant e figura chiave nel passaggio dall'Illuminismo al Romanticismo. È la frase in cui Herder sostiene che «il grande fattore storico della disparità e dello sviluppo dei popoli è il clima, poiché gli uomini non sono altro se non argilla pieghevole nelle sue mani».
Non è ancora razzismo, certo. Ma dal determinismo naturale al razzismo vero e proprio il passo è breve. E infatti «nessuno» scriverà poi Fortunato nel 1912 in Questione meridionale e riforma tributaria, «diede la debita importanza al fatto, sempre accertato, che la nazione italiana è formata di due stirpi originariamente dissimili, l'Aria e la Mediterranea, l'una prevalente al Nord, l'altra a Sud del parallelo di Roma, bionda e di statura alta la prima, bruna e di viso ovale la seconda, sottoposte a ineguale vicenda di nascita, di vita e di morte, a un diverso atteggiamento dello spirito e dell'intelletto». Niceforo, Sergi e gli altri non avrebbero detto meglio.
Quello di Fortunato non è un ragionamento buttato Il e messo da parte, come pure si è tentato di dire. Affatto. «Siamo» scrive in Il Mezzogiorno e lo Stato italiano «quel che la razza, il clima, il luogo, la storia (la storia di un paese naturalmente assai povero che gli uomini si ostinano a credere naturalmente assai ricco) hanno voluto che fossimo: nella sventura i più duramente colpiti, i più deboli al momento della riscossa.» Del resto, è solo per una sorta di cordialità postuma se in una lettera del IO febbraio 1909 Fortunato scrive a Gina Lombroso Ferrero, figlia di Cesare, e le confessa che la memoria del padre gli è «sacra»?
Si è detto che nell' analisi di Fortunato gli elementi veramente importanti fossero la povertà naturale e le condizioni prettamente storiche e che il razzismo fosse una convinzione secondaria e tardiva, frutto di uno scoramento che sopravanzava. Ma perché tanto imbarazzo? E davvero Fortunato non avrebbe potuto sostenere altra tesi che quella? Non direi. Quando Fortunato pubblica le sue riflessioni è già disponibile una significativa produzione saggistica antirazzista. Per la razza maledetta, un testo di Napoleone Colajanni pubblicato nel 1898, è una demolizione esplicita delle tesi di Niceforo: possibile che Fortunato non l'abbia letto? E poi c'è l'inchiesta sull'inferiorità civile dei meridionali condotta l'anno successivo da Antonio Renda, un intellettuale che si dà da fare con l'impegno e la freschezza di un bravo giornalista. Infatti fa un lavoro molto semplice ma molto utile. Formula cinque domande, tutte tese a capire perché il Sud è diverso dal Nord, e chiama a rispondere il fior fiore dell'intellettualità del tempo, da Sergi a Lombroso, da Colajanni a Ciccotti. A confutare le tesi dei razzisti c'è un giovane ma già noto meridionalista che si firma Rerum Scriptor. È Salvemini, il quale scrive che «spiegare la storia di un paese con la parola razza è da poltroni e da semplicisti».
Infine c'è Croce: come si fa a ignorare anche lui? Ebbene, sempre più insospettito da tanta reticenza sul razzismo di Fortunato, arrivo alle conclusioni della Storia del Regno di Napoli. E qui trovo il conforto inaspettato: Croce polemizza sia con i naturalisti, vale a dire proprio con Fortunato, sia con i «misuratori di crani», cioè Lombroso. Con il primo perché, pur all'interno di una tradizione liberale, finisce per imprigionare ogni possibile iniziativa dei meridionali negli angusti limiti di una visione predestinata: quello di Fortunato è un Sud sopraffatto da una natura nemica. Con il secondo, invece, per l'evidente deriva razzista delle sue teorie: quello di Lombroso è un Sud geneticamente immodificabile.
E il tono non è affatto conciliante. Si dirà che Croce ce l'aveva con Fortunato perché quando quest'ultimo scriveva dei tanti che avevano sperato in «Mussolino), con la o, era anche a lui che si riferiva. Sarà, ma sentite cosa scriveva Croce: «Se fossero vissuti nel Settecento avrebbero attribuito le sciagure del Sud ai cattivi sovrani, o ai preti; e se fossero stati napoletani le avrebbero attribuite al caso o alla iettatura. Ma poiché il loro tempo era quello delle cause naturali, furono portati a spiegare la storia dell'Italia meridionale con la causa naturale, non delle regine ma dei campi sterili; e quando parve che alla sterilità della terra qualcosa si dovesse aggiungere, ricorsero all' altra causa, non meno naturale: la razza). Il che porta in un vicolo cieco: quello di una popolazione meridionale «irriducibilmente incapace di incivilimento).
La conclusione di Croce è invece un'altra: la storia non è la storia statica della natura, ma quella dinamica degli uomini. «La storia, condotta secondo quel preconcetto naturalistico, non solo si dimostra nel fatto assai vacua, ma porta logicamente al più completo e quietistico pessimismo pratico: perché che cosa farei se il clima è quello, la terra è quella, la razza è quella?)) Dovrebbe bastare. Macché. Su Lombroso e Niceforo possono abbattersi tutti gli strali del caso, ma sul Fortunato lombrosiano bisogna tenere il punto.
Nel 1993 esce La razza maledetta. Origini del pregiudizio antimeridionale, un bel libro dell' etnologo calabrese Vito Teti, che rilegge e lucidamente commenta i testi più significativi di quel periodo tra Ottocento e Novecento. Ma anche qui prevale un atteggiamento altamente protettivo nei confronti di Fortunato. Teti non ha dubbi: il «cedimento) di Fortunato alla teoria delle «due stirpi)) risulta «alquanto formale e marginale). Già, alquanto. «Non dovendo assolvere Giustino Fortunato dalla colpa, mai commessa, di appartenenza alle posizioni "razziste") scrive ancora Teti «si può tentare di leggere il riferimento alla teoria delle due stirpi come la spia della contiguità che, di fatto, si veniva a creare tra l'immagine di un Mezzogiorno "naturalmente povero", che ragioni fisiche rendevano inferiore al resto dell'Italia, e quella dei meridionali "naturalmente" (per caratteri antropologici e razziali) inferiori ai settentrionali.)) A me, questa di Teti, è sembrata l'ennesima e inutile difesa d'ufficio.
Insomma, bisogna arrivare a un crociano come Galasso per ritrovare in proposito un po' di luce.
All'ipotesi di un Fortunato razzista è dedicato un intero paragrafo della postfazione dell'ultima edizione di L'altra Europa. E già questo è un buon segno. Inoltre Galasso argomenta in modo coerente e non usa due pesi e due misure: quel che vale per i naturalisti vale anche per gli altri. E se per Fortunato gli italiani del Nord e del Sud «saranno pure diversi per civiltà e per razza, per cultura e per costumi, per ricchezza e per geografia, ma tutti sono comunque italiani», anche per i lombrosiani sbaglierebbe chi ne svalutasse l'ispirazione nazionale. Ed è proprio qui, secondo Galasso, la salvezza di entrambi: nel loro essere nazionali e unitari. «Nessuno mise mai in dubbio l'unità nazionale conseguita nel 1861.» Vale a dire che tutto quel parlare di razza, ai tempi di Lombroso e Fortunato, in fondo non arrecò poi gran danno, mentre oggi, quando vacilla il valore compensativo della coscienza nazionale, tutto rischia di prendere un' altra piega.



10
Dal Gattopardo a Maradona ovvero
La reazione orgogliosa

Confinati per secoli nel girone dei miserabili, condannati a una marginalità geografica prim'ancora che sociale, carico di terza classe sulle rotte dell' emigrazione, carne da macello per i fronti di guerra, bestie da soma per l'industrializzazione italiana: sono i veneti di cui Stefano Lorenzetto, nella prefazione del suo Cuor di Veneto, canta il riscatto. Erano considerati zotici, tonti, alcolizzati e baciapile. Sono diventati un modello di sobrietà, di abnegazione, di efficienza. Eppure, si lamenta Lorenzetto, «un corto circuito mediatico, più banale che becero, da anni penalizza il Veneto in forme che gridano vendetta al cielo».
E il Sud, allora?
Cosa dovrebbe dire il Sud? Qui non si tratta di fare a gara a chi le ha buscate di più, e tuttavia basta rileggere l'ultimo capitolo de L'orda, il libro di Gian Antonio Stella sull' emigrazione italiana, per notare la differenza. Emigravano tutti: siciliani e veneti, napoletani e friulani. Ma gli articoli razzisti dei giornali americani erano tutti per noi meridionali. «New York Times» del 25 agosto 1904: «Fra gli uomini provenienti dal Sud Italia e dalla Sicilia l'impulso omicida scoppia come una fiammata di polvere da sparo e il loro stiletto è sempre pronto come il pungiglione delle vespe». «Century Magazine» del 1914: «Gli insegnanti sono d'accordo nel dire che i figli degli italiani del Sud sono inferiori ai bambini settentrionali. Odiano studiare, fanno pochi progressi e lasciano la scuola alla prima opportunità». «Frank Leslie's Illustrated» del 23 marzo 1901: «Per quanto riguarda gli scopi della vita, molti non cercano di fare altro se non raggiungere il dolce far niente. Un po' di maccheroni a pranzo, una strimpellata alla chitarra o al mandolino e sono contenti». «New York Times» del l o gennaio 1884: «La città di New York offre meravigliose opportunità al brigantaggio di natura italiana. Una banda di briganti troverebbe le catapecchie di Mulberry Street molto più comode dei boschi calabresi e molto più sicure. I briganti, inseguiti dalla polizia, possono sfuggire di tetto in tetto, stare in agguato dietro i comignoli e infine riuscire a svignarsela».
Per giudicare i veneri, scrive Lorenzetto, «bisognerebbe sapere che cosa sono le buganse, i geloni, meglio ancora averli provati, questi pomfi lucenti e violacei che prima prudono e bruciano, poi si riempiono di liquido siero-emorragico, infine si ulcerano e vanno in necrosi, o averli almeno palpati sulle dita, sul naso e sulle orecchie di chi non disponeva del termosifone dentro casa e del cappotto di lana fuori casa». Che esagerazione! E la pellagra, allora, la malattia di chi mangiava solo mais di cui si è occupato Lombroso, che procurava glossite, stomatite, dispepsia, vomito e diarrea, che spaccava la pelle delle mani e del volto e che colpiva più i bambini che gli adulti? Mica l'hanno avuta solo i veneti, quella.
No. Con l'orgoglio non si va da nessuna parte. Con l'orgoglio e basta, noi meridionali torniamo al Gattopardo, a quel senso di superiorità che barbaglia in ogni occhio siciliano di cui parlava il principe Fabrizio, a «quella vanità che è più forte della loro miseria». E torniamo alla napoletanità, alla sicilianità, alla pugliesità. Dio ce ne scansi e ce ne liberi. Ricordo che quando Gerardo Chiaromonte, che fu amico di Raffaele La Capria e che ho avuto come direttore all'«Unità», sentiva parlare di napoletanità, aveva come uno scatto d'ira. Lui, che era il più tollerante dei dirigenti comunisti e che anche fisicamente ricordava non tanto l'austero leader quanto il gigante buono delle favole. Un giorno - eravamo nella redazione di via dei T aurini a Roma - Chiaromonte mi sent1 parlare di Ferito a morte, il capolavoro di La Capria. Si avvicinò e mi chiese: «Ma davvero ti è piaciuto?». Gli risposi di sl, certo di compiacerlo. E invece mi gelò: «Perché, se non parla di nulla?». La napoletanità dei posillipini, le discese a mare, le orate fiocinate e le feste nei circoli nautici per lui erano il nulla.
Per Antonio Ghirelli, invece, scrittore e dirigente socialista, che a Napoli ha dedicato gran parte della sua attenzione di giornalista, la napoletanità è stata qualcosa di molto simile alla hispanidad, una filosofia di vita, una poderosa spinta identitaria. Nel 1976 le dedicò un'inchiesta, che poi raccolse in un libro. L'intenzione era quella di verificare non solo se esisteva o fosse esistito «un patrimonio peculiare della nazione napoletana, una civiltà napoletana», ma anche se si poteva ritenere non esaurito, dopo l'unificazione nazionale, il contributo di Napoli alla storia italiana. Risposero in molti, e tra questi Elena Croce e Francesco Rosi. Rispose anche Chiaromonte. «La napoletanità è un concetto ambiguo» disse. E dopo aver spiegato che lo preoccupavano i possibili sbocchi «separatistici» a cui una tale suggestione avrebbe potuto condurre, la fin1là.
Anche la sicilianità è un concetto ambiguo. E se la napoletanità si fonda sulla potenza del genio, sia esso indigeno, come quello di Eduardo De Filippo, o acquisito, come quello di Diego Armando Maradona, il dato portante della sicilianità è invece quello della saggezza assoluta. «Tutto ciò che si poteva comprendere, qui è compreso. Non c'è enigma dello spirito, umanamente solvibile che un umile siciliano non possa sciogliere» diceva Vitaliano Brancati. E beato lui che ci credeva. Anche Marcello Sorgi e Andrea Camilleri hanno parlato di sicilitudine, loro preferiscono chiamarla cosl. Sul tema, in massima parte per celebrarla, ma in parte anche per condannarla, hanno scritto un libro, La testa ci fa dire, ed è piacevole seguirli tra ricordi e nostalgie. A un certo punto Camilleri confessa che questa storia della sicilitudine gli pesava parecchio, al punto di aver scritto qualche articolo a favore del ponte sullo Stretto: basta con la religiosità del mare, e sia il sacrilegio del ponte.
In effetti, scrive un altro acuto siciliano come Francesco Merlo, la Sicilia più che un'isola del Mediterraneo è ormai un'invenzione dei giornali, l'ossessione di tanti siciliani frustrati che si sentono speciali, particolari, diversi, e una furbizia di certi suoi scrittori, che su questa presunta eccezionalità hanno edificato una retorica monumentale.
Chi però passa dal particolare dei vari narcisismi identitari al piano strutturato dell' opera intera è il sociologo Franco Cassano, il teorico di un pensiero colto e seducente: Il pensiero meridiano, appunto, che è anche il titolo del suo testo più famoso. Barba folta, mai in cravatta, sempre rilassato, Cassano è un pigro per vocazione. A Marx, suo malgrado, riconosce una indiscutibile fiducia nel progresso, ma quel che del maestro più lo affascina è la tensione antagonista. Quando all'inizio di questo libro parlavo di «preraffaelliti meridiani» era a lui che pensavo. In Cassano non c'è solo una critica alla modernità, al consumismo e all' omologazione nel senso in cui la formulava Pier Paolo Pasolini quando parlava dei napoletani come ultima tribù superstite, come i Tuareg italiani. No. Cassano ancora crede, come Leopardi e ancora più di Leopardi, nella teoria del clima. E se il sommo poeta alla fine si rassegna e rinuncia al mito sudista, il sociologo barese neanche ci pensa. Nel 2009, tredici anni dopo Il pensiero meridiano, Cassano scrive un altro libro sul Sud e si lamenta: «Il clima è il desaparecido delle scienze umane». Dunque siamo quel che il sole vuole che siamo? Be', si, risponde Cassano. E al diavolo la sociologia di Max Weber e tutte quelle credenze sull' etica protestante. Si leggano, piuttosto Jeffrey Sachs, Tropical Underdevelopment, e David S. Landes, La ricchezza e la povertà delle nazioni, i quali hanno scritto nel Duemila e non in epoche lontane. Sia pure. Ma quel che colpisce è che a volte tu leggi Cassano e hai l'impressione di leggere Niceforo, che invece è ormai vecchio di un secolo. Propongo un test. Leggete queste frasi e poi rispondete: sono di Niceforo o di Cassano? Di Lorenzetto non sono, giuro.
«Ci sono uomini-nord, quelli che sono duro lavoro, che sanno meritare quello che hanno, resi adulti dal freddo e dal vento contrario, quelli cui nulla è stato regalato, quelli della costanza e della disciplina, quelli che si preparano agli inverni, le formiche del mondo [ ... ]. Ci sono infine gli uominisud, e sono quelli che si distendono al sole, quelli che cantano, le cicale del mondo, quelli che perdoono tempo e guadagnano tempo, invidiati e disprezzzati per le stesse ragioni.» Allora? Il libro da cui sono tratte queste frasi si intitola Paenisola, ed è edito da Laterza. Non dico altro.
In realtà,  «efficacia causale del clima» serve a Cassano per scardinare il paradigma nordista, per vincere la sua appassionata e romanticissima battaglia con il Nord che si impanca a modello, che si crede perfetto e che con fare spocchioso considera il Sud mera zavorra conservatrice. Giusto, anzi, giustissimo. Solo che, per correggere il determinismo weberiano o del Leopardi pentito, si finisce per ricadere in un determinismo speculare. La civiltà nasce e resta al Sud. È la civiltà del sole che riscalda e del mare che ti dà il senso del limite, dei pensieri lunghi e dell' andar lento. L' incipit de Il pensiero meridiano, del resto, è tutto un programma: «Bisogna esser lenti come un vecchio treno di campagna e di contadine vestite di nero, come chi va a piedi e vede aprirsi magicamente il mondo, perché andare a piedi è sfogliare il libro e invece correre è guardarne soltanto la copertina. Bisogna essere lenti, amare le soste per guardare il cammino fatto [ ... ]. Andar lenti è fermarsi su un lungomare, su una spiaggia, su una scogliera inquinata, su una collina bruciata dall' estate [ ... ]. Andar lenti è conoscere i nomi degli amici, i colori e le piogge, i giochi e le veglie, le confidenze e le maldicenze».
Ed è cosi che, in tanta orgogliosa meridianità, l' otium diventa meglio del negotium. Qui, però, il vero esperto in materia, il vero interprete dell' esprit meridionale, è un altro sociologo, il napoletano Domenico De Masi, che per anni, tanto per capirci, ha voluto che sul monitor del suo computer campeggiasse questa scritta: «Hombre que trabaja pierde tiempo predoso». Il suo mito è il principe siciliano di Palagonia. Costui, gravemente malato e terrorizzato dalla morte imminente, fece voto, in caso di guarigione, di recarsi a piedi fino a Gerusalemme. Una volta rimessosi, però, poiché non aveva alcuna voglia di sottoporsi a quel lungo viaggio, convinse il vescovo a commutarglielo in un numero di giri intorno alla sua villa pari alla distanza tra la Sicilia e la Palestina. E cosi fu. Ora, è da quando ho letto per la prima volta questa storia, e sono ormai molti anni, che mi chiedo quanti altri giri a vuoto bisognerà fare prima che il Sud prenda una direzione certa.
A proposito di tutto questo e di South Pride, ecco infine una sorpresa. Almeno, tale è stata per me.
Nell'agosto del 2010 vado in Calabria, sulla Sila, nel bel parèo del Museo dell' emigrazione, e chi ci trovo, nel corso di un dibattito, a militare nel parrtito dell' orgoglio meridionale? Franco Piperno, l'ex leader di Potere operaio, poi coinvolto nelle vicende giudiziarie di quella infelice stagione e ora docente di fisica a Catanzaro. Lo avevo conosciuto un paio di anni prima a Napoli, in un contesto, sia per lui che per me, a dir poco surreale. Presentavamo un libro di Lina Sotis sul bon ton e in quell' occasione io me la cavai sparando la grossa. Dissi che per me il primo vero manuale di buone maniere era stato l' Odissea, perché lì, seppure a modo suo, Omero ti spiega non solo come si costruisce una barca o si prende il vento, ma anche come si sta in società. Ricordo male o era stata N ausica a ripulire Ulisse e a suggerirgli di darsi una rinfrescata prima di entrare nel palazzo reale e, una volta dentro, di salutare prima la madre e poi Alcino, suo padre?
Piperno, invece, ci ha colpiti per una storiella che ha raccontato dopo la presentazione, a cena. Morto e sepolto Potere operaio, chiusa la fase dei processi, Franco era stato appena nominato assessore nella giunta comunale di Catanzaro, sindaco il vecchio Giacomo Mancini, quando gli arrivò un telegramma dalla Francia. Era di Toni Negri, grande capo di Potere operaio, il quale si congratulava perché uno di loro, finalmente, era stato messo a capo di una banda armata legalizzata. La banda era quella dei vigili urbani e Piperno era assessore al Corso pubblico.
Sulla Sila, il discorso è stato più serio. Con Piperno c'era anche Marta Petrusewicz, docente di storia moderna nella City University di New York, nonché collega di Franco a Catanzaro. Marta è famosa per la sua tesi sui meridionali cacciati dai Borbone per le loro idee democratiche e repubblicane: sarebbero stati loro, carichi di rancore, a diffondere tra i primi l'immagine di un Sud arretrato e barbaro. Quel pomeriggio abbiamo parlato di Napoli, e io ho detto la mia. Perché Napoli è così? Così sciatta, così inconcludente? Così provocatoriamente sempre uguale? Cambia, sì, ma troppo lentamente rispetto a tutte le altre città italiane. Altrove le mutazioni architettoniche e strutturali riescono a modificare le città. A Napoli accade l'opposto. Qui è semmai il ventre molle della città a metabolizzare ogni, seppur rara, novità. O eccellenza. Gioiamo se in Francia va a ruba il numero di «Maisons Càté Sud» con le belle immagini dei nostri sublimes palais cosl popolari e tanto barocchi. Ci inorgogliisce l'esaltazione che «Il Sole 24 Ore» fa del nostro Teatro Festival. Ma poi tutto ritorna al punto di partenza. Non sono stati il Madre, il museo voluto da Bassolino, e l'arte contemporanea a cambiare la città. A Napoli non è il vecchio a cedere il passo, ma il nuovo. «Meglio così, no?» è stato il loro commento. Entrambi, Franco e Marta, alludevano al potere corruttivo della modernità.
Tornato dalle ferie, ho ripreso l'argomento sul mio giornale. Meglio così un corno, ho scritto. In realtà non ho usato proprio queste parole, ma il concetto era quello. Ero stato a Genova, Marsiglia e Torino, e ovunque avevo visto che la modernità era preferibile all'immutabilità. Insomma, si può discutere sul nuovo porto di Genova. Si può, legittimamente, ritenere che il waterfront disegnato da Renzo Piano, per le sue novità stilistiche, sarebbe piaciuto più a Walt Disney che a Fabrizio De André. È però difficile negare che il nuovo acquario su cui poggia l'intero progetto genovese abbia scosso la città riviitalizzandone i quartieri e il turismo. Meglio Marsiglia? E va bene. Li almeno il Vieux Port è rimasto tale, cioè vecchio. Ma la città non è più la stessa e nell' ex quartiere malfamato del Panier, ormai del tutto ristrutturato, e che sul vecchio porto affaccia, ora si può tranquillamente cenare senza paura di essere borseggiati. Quel che proprio non si può tollerare, ho aggiunto, è che per evitare il modello Genova, Napoli scarti anche quello marsigliese.
Chi ha letto il romanzo Il museo dell'innocenza di Orhan Pamuk, ho proseguito, sa che il protagonista riesce a visitare 5723 musei particolari, di quelli dove «parlano» oggetti ordinari come penne, lenti, fotografie, lumi e via collezionando. E sa che è possibile passare piacevolmente un'intera giornata nella casa di T agore a Calcutta, o in quella di Pirandello ad Agrigento; e che si possono visitare senza pentirsene le residenze di Spinoza a Rijrisburg o di Proust a Illiers-Combray. Con un solo capello «originale» di Dostoevskij, a San Pietroburgo hanno messo su un intero museo. A Napoli quello della canzone napoletana non è mai nato, e si sta ancora aspettando quello dell' attore, una cui prima, poverissima e fallimentare versione fu allestita, sembra assurdo, in un sotto passo che fungeva da toilette pubblica. Si allagò al primo acquazzone e dovettero intervenire i pompieri per portare in salvo la paglietta tagliuzzata di Nino Taranto e le prime locandine degli spettacoli di Pupella Maggio e dei fratelli De Filippo. E il museo di Totò? Inagibile «a prescindere», perché la sede c'è ma non è mai stata inaugurata. Nella piazza del San Ferdinando, il teatro di Eduardo che invece è stato ristrutturato e inaugurato ma mai definitivamente restituito alla città, ogni tanto bisogna addirittura rimuovere le carcasse d'auto, tanto è il degrado.
Allora, perché Napoli è così? Perché qui un cantiere della metropolitana deve restare aperto più di undici anni, più degli anni, cioè, che furono necessari a realizzare il canale di Suez? Perché a Napoli nulla o quasi nulla deve girare per il verso giusto? Corsie preferenziali incontrollate, multe salate ma mai riscosse, autobus senza aria condizionata, tassametri suggestivamente taroccati. ..
Non c'è città d'Italia o d'Europa che non abbia una rete di parcheggi tale da alleggerire il traffico. A Torino ce n'è uno che scorre sotto tutta la centralissima via Roma. A Roma c'è da tempo immemorabile quello di Villa Borghese. A Napoli è stato sventrato il sottosuolo per far posto a decine di stazioni del metrò, addirittura troppe, pare, e le hanno generosamente arredate con opere di arte contemporanea, ma a nessuno è venuto in mente che scavando scavando si poteva realizzare anche qualche parcheggio.
Niente. Neanche un posto auto, così che se vai al cinema e riesci a entrare in uno dei rari garage privati preesistenti arrivi a pagare anche 17 euro. Un mio amico, Andrea America, vecchio sindacalista Uil bravo a raccontare, ha scritto un romanzo, Ciccio 24, ambientato nella Napoli del 2027: la trovata, originale e amara allo stesso tempo, è che tutto, uomini e cose, è rimasto esattamente come oggi. Questa è la Napoli di cui dovremmo andar fieri?
Dalla Calabria sono poi arrivate le repliche al mio articolo. Attenti a invocare la modernità, avverte Marta Petrusewicz. Ma poi, di quale modernità si parla? Ricordatevi, scrive, che Aleksandr Solgenitsin, insieme con milioni di sovietici «kulakizzati», accusava la modernizzazione staliniana di aver distrutto l'anima russa. Altra cosa è invece la modernità legata alla terra, la modernità alternativa al modello industriale di Manchester. E dunque quale sarebbe il modello ideale? «Nel Regno delle Due Sicilie» scrive la Petrusewicz «questo progetto di sviluppo armonico trovò sostenitori nella vasta rete di Società economiche, nella borghesia agraria e professionale, nella stampa progressista e persino negli ambienti governativi.» Il modello borbonico, dunque.
Franco Piperno batte sullo stesso tasto. «Costringere Napoli nei canoni della modernità vuol dire stravolgerne il destino» dice. E questa è la conclusione: «Se le cose stanno così, ecco che quella resistenza sorda e anonima alla modernizzazione che ha segnato il Meridione dopo l'Unità nazionale, quella diffusa preferenza per le manifatture di bucatini destinati all' alimentazione piuttosto che per le fabbriche di tondini per l'industria delle costruzioni; insomma, quel ritardo epocale tante volte denunciato, quella disgrazia così spesso lamentata si rovescia in fortuna insperata».

Come in una foto Alinari, insomma. Ecco come Napoli dovrebbe felicemente rassegnarsi a viveere. Ma in quegli anni, gli anni degli acquafrescai e dei bucatini stesi al sole ad asciugare, chi la città la conosceva bene la descriveva così: «Una città disgraziata, in mano di gente senza ingegno e senza cuore e senza iniziativa. Tutto procede irregolarmente, abbandonato ai peggiori. Qualche giornale scorna pubblicamente gli amministratori e costoro, tacendo, confessano». Firmato: Salvatore Di Giacomo.
Sono perciò assolutamente d'accordo con chi, polemizzando anche con La Capria e Turturro, dice che la prima cosa da fare è sbaraccare il mito reazionario secondo cui Napoli avrebbe superato il moderno. Magari.
Punto di forza della risposta orgogliosa al pregiudizio antimeridionale è quello della genuinità sudista associata alla genialità. È un argomento che piace molto anche agli antimodernisti, ai teorici della decrescita economica tutta local e prodotti tipici. Ma c'è un solo modo per misurare la genialità: contare le idee brevettate. Ebbene, negli ultimi dieci anni nel Nord-Ovest sono stati registrati quindicimila brevetti, mentre nel Mezzogiorno solo mille. E a parte i numeri, c'è poi quello che Mario Moretti Polegato, Mr Geox, l'inventore della «scarpa che respira», è andato a dire nelle università americane. Invitato per una serie di conferenze sul made in Italy, Mr Geox ha detto che il Sud ha uno scrigno con dentro quattro pietre preziose: l'olio, il caffè, la pizza e la mozzarella. Quali di questi prodotti il Sud è riuscito a commercializzare nel mondo? «Nessuno» ha lasciato intendere. Vero o falso?
Ho cominciato a guardarmi intorno. Le olive sono un vanto della Puglia, ma sono stati i fratelli Saclà, azienda di Asti, a inventarsi l'oliva denocciolata finita in tutti i party. :L’espresso ha trovato la sua collocazione commerciale più glamour in casa Nestlé con Nespresso, grazie anche agli spot con George Clooney; la pizza surgelata? In tutti i supermarrket si trovano quelle della Cameo e della Buitoni, che certo meridionali non sono. E a tutti, prima o poi, è capitato di entrare in un americanissimo Pizza Hut, mentre durante la campagna elettorale di Obama andava forte, su tv e giornali, la pubblicità di Tuscany Pizza. Perché poi Tuscany?
La mozzarella, infine, non l'ho dimenticata: è che mi sono già fatto male abbastanza.

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Il Terroni ovvero
La reazione nostalgica (quando non lamentosa e rivendicativa)

«Un libro colmo di invenzioni strampalate e di fole.» A Milano, nel corso di una manifestazione organizzata dalla Fondazione Corriere della Sera, Ernesto Galli della Loggia liquida cos1 il pamphlet di Pino Aprile. Ma poche sere dopo, Paolo Mieli va a 8 e 1/2, la trasmissione di Lilli Gruber, e ne parla invece con tutt' altro tono. Non è che si metta a tesserne le lodi, ma di sicuro non lo stronca. Tutto sommato c'era da aspettarselo, da un allievo di De Felice, maestro di una storia riscritta grazie al ribaltamento dei punti di vista tradizionali.
Solo che, io credo, Térroni eccede rispetto al modello prefigurato. Perché se l'intenzione era quella di ridimensionare l'eccessiva retorica risorgimentale svelando il volto violento, repressivo e anche coloniale dell'intervento sabaudo, il risultato è andato molto al di là del limite. Nulla a che vedere, insomma, con la Storia del Regno delle Due Sicilie scritta da Angelantonio Spagnoletti nel 1997, cui Mieli dedicò subito un ampio articolo carico di speranza poi ripreso in Le Storie. La storia. Da una riscrittura del Risorgimento, scrisse Mieli in quell' occasione, «i Borbone avranno molto, forse moltissimo da guadagnarci» .
Il fatto è, però, che Terroni non si accontenta del molto. E neanche del moltissimo. Punta al tuttto, al ribaltamento assoluto della storia. E qui è il suo punto debole. Con il rischio, e il paradosso, che dopo tali eccessi sarà ancora più difficile introdurre, nel raccontare le tormentate vicende del Mezzogiorno, 1'ancor necessaria dose di revisionismo, critico. Ma c'è revisionismo e revisionismo: ecco il punto. Infatti, mentre Spagnoletti parla del Regno delle Due Sicilie e tende a mettere in luce ciò che era stato mantenuto in ombra, e dunque anche le non rare forme di innovazione nell' organizzazione dello Stato, Aprile non vede oscurità se non nei vincitori, vale a dire nei piemontesi. I quali, alloro passaggio, lasciano tracce insanguinate, smontano industrie per ricostruirle al Nord e svuotano le casse delle banche meridionali per rigonfiare gli scrigni di quelle nordiste.
Spagnoletti racconta l'Unità d'Italia come un esito, tra i tanti possibili, della storia meridionale; Aprile la descrive come l'origine di tutti i mali, lo spartiacque morale tra il bene e il male. Il che lo porta a un'ipotesi conclusiva a dir poco azzardata: quella della secessione meridionale. «Un nuovo inizio: l'insorgere di una forte connotazione identitaria e la coscienza della sfida darebbero una potente spinta» scrive Aprile nelle conclusioni. E ancora: «Quanto vale il Meridione staccato dal resto dell'Italia? Poco. Ma da soli avremmo la possibilità di trasformare i nostri ritardi in occasioni di sviluppo: senza doverci rinunciare, come adesso, nell' attesa che chi ha in mano le leve del paese decida se ce lo meritiamo». Come poteva non sfondare, un libro così, anche in Padania?
Per la ragione opposta, il libro di Spagnoletti non solo non ha avuto lo stesso successo editoriale, il che è comprensibile, essendo stato scritto da uno storico di professione e non da un giornalista, ma neanche è diventato quel «caso politico» che Mieli si aspettava. Storiografico sì, ma non politico.
Eppure, Spagnoletti non si è limitato, come tanti, a riconoscere ai Borbone il merito di aver costruito la Reggia di Caserta, o di aver iniziato gli scavi di Pompei, o, ancora, di aver irreggimentato il primo esercito nazionale, ma è andato molto più in profondità. Ha detto che non dovunque e non sempre l'ordinamento borbonico fu foriero di modernizzazione, ma ha detto anche, e non è cosa da poco, che il personale burocratico e amministrativo operò «sul tessuto sociale ed economico una serie di interventi che in molti casi contribuirono ad accelerare lo sviluppo». È questo il passaggio del libro di Spagnoletti che più piace a Mieli. Siamo ben lontani, rivela infatti, «da quei giudizi talvolta intrisi di razzismo che hanno forgiato lo stereo tipo dell' arretratezza meridionale, del Sud palla al piede del Paese, moderno solo nell'inventare sistemi sempre più sofisticati per la malavita organizzata e forme raffinate di furto di risorse al Nord».
In Tèrroni, viceversa, questo sforzo analitico diventa battaglia politica, militanza sudista. E tutto si assolutizza. I briganti? Eroi civili. L’Unità? Un'Apocalisse. L’economia borbonica? Un modello di efficienza. I piemontesi? Peggio del Settimo Cavalleggeri alle calcagna di Geronimo e degli Apache.
Prendiamo la storia, ormai arcinota, di Pontelandolfo e Casalduni, nel lembo settentrionale dellla provincia di Benevento, i comuni delle stragi ordinate dal generale Cialdini a poche settimane dall'avvenuta unificazione. C'è modo e modo di raccontarla. C'è chi, con colpevole imbarazzo, nei libri di storia le stragi le ha solo accennate, se non censurate. E c'è chi, come i neoborbonici, da anni si batte per un' ammissione di colpa da parte dello Stato italiano. Aprile si schiera con i secondi, ritenendo che quelle stragi altro non furono che il primo amarissimo frutto del nuovo ordine statuale. E va bene. Inoltre, esclude che le vittime possano essere state solo poche decine o 164, come scrissero i giornali filogovernativi del tempo. E non fa una piega anche questo. Sceglie, ancora, di descrivere le stragi nei minimi dettagli, e dunque racconta delle donne violentate, della ragazza di sedici anni legata a un palo in una stalla e oltraggiata davanti agli occhi del padre, nonché del piccolo strappato alle braccia dei genitori e ucciso a colpi di fucile. E anche questo è un indiscutibile merito, giacché spesso è proprio nel dettaglio mancato il principale trucco della dissimulazione storica. Ma in Tèrroni non si dice nulla, neanche una parola, dell' antefatto. Anzi, degli antefatti. E questo non va più bene, perché nel disvelare un dettaglio, chiamiamolo cosl, se ne cela un altro.
Il primo antefatto è databile 7 agosto 1861, giorno della processione di San Donato. Approfittando della festa, don Epifanio De Gregorio, un fedelissimo di Ferdinando II, apre le porte al brigante Cosimo Giordano e gli consente di scatenarsi dando il meglio di sé. La conseguenza è che tra un'Ave Maria e un Padre Nostro vengono trucidati gli ufficiali del corpo di guardia di Pontelandolfo e l'esattore delle imposte, saccheggiate le case dei filosabaudi e bruciati i registri del servizio di leva. Il secondo antefatto è di pochi giorni dopo. Quaranta bersaglieri entrati in paese per riportare l'ordine, ma sventolanti bandiera bianca, vengono prima costretti a fuggire e poi uccisi senza pietà mentre, in marcia verso Casalduni, cercano di ripiegare verso San Lupo, poco distante. A raccontare questa storia con dovizia di particolari è Giordano Bruno Guerri in Il sangue del Sud, uscito sulla scia di Terroni e dunque scritto con particolare attenzione alle ragioni dei vinti, ma assai più equilibrato e sicuramente senza coltello tra i denti.
Quella sera dell'11 agosto 1861, dunque, i cittadini di Casalduni non vollero sentire ragioni.
Nonostante la bandiera bianca e nonostante fossero stati già disarmati e bloccati, i soldati piemontesi furono spogliati delle divise e fucilati in largo Spinella. Contro di loro ci fu un barbaro accanimento, raro anche per quei tempi. Alcuni dei fucilati, ancora in vita o cadaveri, furono fatti a pezzi da falci, scuri e mazze; altri furono schiacciati da cavalli lanciati al galoppo. Brandelli umani furono appesi ai rami degli alberi e rituali macabri accompagnarono le esecuzioni. Fu appunto questa ferocia, il 14 agosto, a scatenare la rappresaglia. Ora, sebbene non sia mai giusto rispondere a una strage con una nuova strage moltiplicata per cento, per dieci o anche solo per due, resta il fatto che una guerra è una guerra. E va raccontata per quella che è, con i prima e con i dopo, oltre che dal lato basso dei particolari e da quello alto dello scenario generale. Del resto, si sa: nel pieno della battaglia si potrebbe essere affiancati da Napoleone e non accorgersene, mentre dal punto di vista dell'«occhio di Dio», come lo chiamano gli storici, tutto diventa molto più chiaro. Nel nostro caso, i dati ufficiali del bilancio totale dello scontro tra bersaglieri e briganti parlano di setteotto mila morti da una parte e altrettanti dall' altra. Sono morti più piemontesi nella campagna contro il brigantaggio che in tutte le tre guerre d'indipenndenza. E se è lecito credere che tra i briganti e la popolazione civile le vittime siano state molte di più, è altrettanto lecito ipotizzare che le fonti sabaude avessero tutto l'interesse a contenere il numero delle perdite, per non dare l'idea di una disfatta.
Fra i briganti, scrive Giordano Bruno Guerri in Il sangue del Sud, è difficile distinguere i criminali puri, che furono coinvolti in una vicenda storica più grande di loro, da quelli che davvero combatterono una guerra di liberazione. A volte difensori dei Borbone e della Chiesa, altre del proprio bottino, «molti sarebbero stati comunque delinquenti, con o senza l'invasione piemontese».
Proprio nelle zone di Casalduni e Pontelandolfo, tanto per dire, venivano arruolati per disposizione diretta di Francesco II e ricevevano belle cifre, almeno per quei tempi: 50 ducati all'ingaggio, l'equivalente di 950 euro, e 40 grana al giorno, pari a 240 euro al mese.
I briganti taglieggiavano, violentavano, uccidevano e quando erano particolarmente ispirati strappavano anche il cuore ai nemici. Difficile immaginarli come eroi civili. Ciò nonostante, col tempo il tratto criminale del brigantaggio ha ceduto spazio a quello romantico, passionale, militante. Nell'immaginario antirisorgimentale, Luigi Alonzi, detto Chiavone, o Carmine Crocco, che più di ogni altro tenne In scacco I piemontesi, sono assurti a un unica dimensione, quella dei capi carismatici, dei guerriglieri, dei combattenti per la libertà. Più Che Guevara che Cutolo, insomma. Più comandante Marrcos che Totò Riina. Una mitizzazione che ha finito per abbattere ogni divisione politica, ogni barriera ideologica.
Al ministro Maroni piace il brigante Musolino e dispiace Vittorio Emanuele II. Ma prima di lui aveva fatto la sua scelta di campo anche Gianfranco Miglio. Il quale, in un articolo apparso sul «Giornale» del 30 agosto 2000, parlò esplicitamente di guerra civile e di resistenza sudista legittima e confessò compiaciuto che nella sua biblioteca privata i libri sul cosiddetto brigantaggio occupavano ormai «un intero palchetto». Su un altro fronte, poi, dice niente Li chiamarono ... briganti!, il film del regista napoletano Pasquale Squitieri, che non ha mai nascosto le sue simpatie anarchico-sudiste? E dicono niente, ancora, le «canzonette» di quel perenne sessantottino che è Edoardo Bennato? Ce n'è una che parla proprio di Vittorio Emanuele II. Ci si chiede cosa fecero il re, Cavour, Mazzini e Garibaldi. E questa è la risposta: «Completarono a Téano / il loro folle colpo di mano». Ce n'è poi un'altra, dedicata a Musolino o a qualche altro fuorilegge come lui. Fa cos1: «Sono il capo dei briganti, inseguito, braccato [ ... ]. Son l'erede di Robin Hood e difendo i disperati». C'è dunque anche la bella LadyMarian? Si, c'è anche lei.
Eugenio Bennato, fratello di Edoardo, le ha dedicato un capitolo di un suo libro, Brigante se more, e una ballata. La nostra Lady Marian si chiama Michelina Di Cesare ed è nobile d'animo, s'intende. Eugenio guarda la sua fotografia e si ispira: «Non posso fare a meno di notare la fiera bellezza della donna del Sud, l'eleganza del portamento, la vivacità dello sguardo, lo splendore somatico di una discendenza che viene da lontano, dalla storia più nobile della Magna Grecia». Quindi i versi: <<Accussì va la guerra / accussì va la gloria / da che Sud è Sud / accussì va la storia / Ma la storia 'e Michela / è 'na storia diversa / pecché è 'na storia vera / pecché è una brigantessa» .
Ma vera, anche se meno romantica, è anche la storia di Marianna Oliverio, detta Ciccilla in onore di Francesco II, brigantessa di animo meno puro e col sangue, se possibile, ancora più caldo, andata in sposa al capo banda Pietro Monaco, specializzato in azioni niente affatto patriottiche, vale a dire riicatti, aggressioni e sequestro di bambini. Catturata a ventun anni con trentadue capi di imputazione, Marianna, per gelosia, un giorno si avventò come una furia sulla sorella e con una scure la fece a fette davanti ai figli: 48 colpi, tutti andati a segno. Anni dopo, quando il marito fu ucciso in un agguato, Marianna chiese al fratello e al cognato di tagliargli la testa per impedirne il riconoscimento: la bruciarono durante la fuga. Non provvide lei personalmente al taglio e al resto dell' operazione solo perché era gravemente ferita a un braccio.
Infine, un particolare non trascurabile: il brigantaggio non nasce affatto con l'Unità d'Italia e con la piemontesizzazione. È un fenomeno risalente nei secoli. E apparteneva, come riporta Croce nella Storia del Regno di Napoli, «all'Europa tutta». Ancora nel 1550, infatti, il viceré Toledo confessava di aver fatto morire «per giustizia» diciotto mila persone, e che «non sapeva più che fare». Ma anche questo Térroni evita di dirlo. Cos1 come, nella separazione netta e moralistica tra male e bene, lascia svaporare la faccia feroce dei Borbone. Un regime, come racconta Raffaele De Cesare in La fine di un regno, che ancora nella sua ultima primavera poteva arrestare un artigiano solo perché aveva pronunciato frasi ritenute ingiuriose o donne e ragazzi per essersi ribellati al nuovo parroco o qualche contadino sorpreso a tagliare ramoscelli nel bosco. E lascia svaporare anche la terribile complessità di quegli anni. I borbonici, scrivono gli storici, soccombono a un cocktail micidiale di iniziativa politica e criminalità. I briganti stanno prima con i ricchi contro i contadini poveri, poi con i garibaldini contro le truppe regie e infine con i Borbone in esilio contro i piemontesi.
E veniamo al dato socio-economico, alle condizioni di vita nel Regno borbonico. Nonostante l'analfabetismo diffuso, la privazione delle libertà e la potente macchina repressiva dello Stato, già Spagnoletti invitava a considerare la materia in una «luce più laica», «meno teleologicamente orientata». Ma a Pino Aprile non basta. E per una ragione molto semplice: perché, spiega, «i meridionalisti parlano da professori, sono preoccupati della dimostrabilità di fatti e dati; parlano al cervello, all'università, si vergognano se gli scappa una fesseria». A suo avviso, invece, bisogna essere più diretti, più espliciti, anche a costo di dilatare fatti e cifre, perché, spiega, «più basso è il messaggio, più facile è farlo giungere». Ed ecco allora che una ricerca sul divario Nord-Sud tra il 1861 e il 2004 svolta da Vittorio Daniele, dell'Università Magna Grecia di Catanzaro, e da Paolo Malanima, dirigente dell'Istituto di studi sulle società del Mediterraneo del Cnr di Napoli, diventa, per Aprile, la prova tanto attesa, quella che inchioda Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele II alle loro inconfutabili responsabilità. Sono loro, a conti fatti, ad aver creato la questione meridionale. Se in sella fosse rimasto il re Borbone, invece ...
Ma invece cosa? Nel libro Térroni, dove il professor Malanima viene citato, Aprile gli fa dire che «se non si paragona il Sud al Nord, se lo si guarda come un paese a parte, non si può che definirlo di grande successo». Visto? Aprile canta vittoria. Dunque, non ci sono più dubbi. Se non ci fosse stata l'Unità, per i duosiciliani il futuro sarebbe stato tutto rose e fiori.
Si dà il caso, però, che intervistato da Simona Brandolini per il «Corriere del Mezzogiorno», lo stesso professor Malanima quasi cada dalle nuvole. Lui un terrone o peggio un terronista? Non si direbbe.
Professore, dal suo studio si può dedurre, come è stato fatto, che il Sud stava meglio al tempo dei Borbone e che i guai sono cominciati con l'Unità d'Italia? «No, assolutamente no.» E che l'Unità d'Italia fu un furto perpetrato dal Nord nei confronti del Sud? «Neanche.» Però lei sostiene che al tempo il divario Nord-Sud non c'era: come si spiega? «La contraddizione è solo apparente. All'epoca dell'Unità d'Italia non c'erano grandi differenze tra gli Stati, perché il tessuto economico, generalmente, non era avanzato e gran parte della popolazione si trovava vicina al livello di sussistenza, sia a Nord, sia a Sud.» La tesi di Malanima, neoborbonica quanto neo melodica può essere una canzone heavy metal, è che a determinare la differenza tra Nord e Sud non fu il processo di unificazione, ma lo sviluppo dell'industria, che al Nord ci fu e al Sud no. Non Cavour, ma Agnelli; non i bersaglieri, ma i metalmeccanici: ecco chi davvero determinò il divario. Ancora nel 1891, a trent'anni dall'Unità, infatti, in Campania il reddito pro capite era simile a quello della Lombardia, mentre il Veneto continuava a restare fortemente arretrato. Segno che l'unificazione del Paese non aveva interrotto di colpo il trend economico del Mezzogiorno; né che il Nord ne aveva ricavato un immediato beneficio. La frattura avviene nel primo decennio del Novecento, quando c'è un balzo in avanti delle tre regioni del triangolo industriale, vale a dire Piemonte, Lombardia ed Emiliagna. Tra il 1931 e il 1951, poi, le differenze interne al Sud si abbattono e le regioni meridionali, Campania compresa, diventano simili. Nel 1951 l'Italia è definitivamente tagliata in due, la nostra diventa un' economia dualistica. In Campania, che resta la regione più ricca del Mezzogiorno, il Pil pro capite raggiunge appena il 68% di quello settentrionale.
Insomma, se non si stava meglio prima e se i guai non sono cominciati con l'Unità perché quell'Italia a macchie di leopardo poi si è fatalmente divisa? «Il problema» risponde ancora Malanima «è che la modernizzazione ha appianato le differenze tra le regioni settentrionali elevando ovunque il livello produttivo, ma ha attecchito meno al Sud.» Non solo. Proprio il professor Malanima, sulle cui spalle Pino Aprile si è arrampicato per sostenere le sue tesi neoborboniche, arriva a una clamorosa conclusione: «Se il Mezzogiorno dovesse essere paragonato ad altri paesi del mondo» dice «risulterebbe un caso fortunato. Nel senso che la crescita c'è stata, eccome. Anche al Sud c'è stato il miracolo economico.
Il Mezzogiorno diventa sfortunato se il confronto lo facciamo con il Nord Italia». In altre parole: nessuno ha tarpato le ali al Sud, anzi. Solo che il Nord ha preso talmente il volo da far apparire zavorrata l'altra metà del Paese.
Per quanto riguarda i famosi primati borbonici, poi, c'è ancora qualcosa da aggiungere. Ricordate la ferrovia Napoli-Portici? Ebbene, inaugurata solennemente nel 1839, serviva un tratto di appena 33 chilometri. [orgogliosa pubblicistica meridionale la presentò come la prima in Italia, dimenticando di aggiungere che per anni e anni rimase anche l'unica. A guardarlo più da vicino, poi, questo primato dice dei Borbone molto più di quanto si creda. In quanto a gettare fumo negli occhi erano maestri. Come ricorda Romano Bracalini in Brandelli d1taalia, per esempio, le carrozze erano prive di servizi igienici e di sedili. Si viaggiava in piedi e quando il treno sostava nelle stazioni i viaggiatori prendevano d'assalto le latrine. Molte strade ferrate furono progettate ma mai realizzate. Al momento dell'Unità, le ferrovie napoletane non superavano il centinaio di chilometri e non arrivavano a Salerno. Particolare curioso: per ragioni di pudore, i Borbone pretesero che i tratti ferroviari non avessero passaggi in galleria. Il timore era che nell' oscurità potessero scatenarsi chissà quali impudiche pulsioni.
E le strade? Ancora peggio. Al tempo della spedizione garibaldina, in Sicilia quasi non esistevano. Come nel resto del Regno, dopotutto. C'erano 1848 comuni e di questi solo 227 erano raggiungibili in carrozza. Giordano Bruno Guerri riporta a mo' d'esempio quel che accadde a Luigi Settembrini nel novembre del 1835, quando ancora ventiduenne dovette lasciare Napoli per raggiungere Catanzaro, dove aveva vinto il concorso per la cattedra di Eloquenza. Sall su una diligenza e ne discese nove giorni dopo. Ma almeno arrivò. Sempre Giordano Bruno Guerri riporta un racconto di Carlo Dossi a proposito di quel che capitò invece ai garibaldini penetrati in Calabria. Per giorni e giorni cercarono la grande strada riportata sulle carte geografiche. Si spinsero in tutte le direzioni, risalirono l'Aspromonte e discesero a valle, inviarono avanguardie e continuarono fiduciosi a setacciare il territorio. Niente. Non riuscirono mai a trovarla. Semplicemente, quella strada riportata sulle mappe non esisteva, era un'invenzione. Si scopre poi che la stessa cosa si era ripetuta molte altre volte. Le strade c'erano sulla carta, ma non nella realtà. C'erano i progetti, i piani dettagliati, i protocolli per gli apppalti, ma quasi mai tutto questo andava in porto. Le buone intenzioni rimanevano tali, impigliate «nei lacci della burocrazia e nei contrasti tra comuni, signori, preti, e quanti, vassalli e valvassori, si arrogano il diritto di avere voce in ogni decisione».
E qui storia e cronaca quasi si confondono: da quanto tempo si aspetta il completamento dell' autostrada Salerno-Reggio Calabria? Su questo tema, nel 2007, la storica Leandra D'Antone ha scritto addirittura un libro, Senza pedaggio, a conferma di quanto questi 442,9 chilometri siano col tempo diventati un simbolo «della lentezza, dell'inefficienza, dell'illegalità, dello sperpero del Mezzogiorno peggiore».

12 Armonia ritrovata ovvero
Il romanticismo sudista

Quando, il 15 novembre 2010, nella seconda puntata di Vieni via con me, Roberto Saviano, con il suo fare un po' casual, un po' ispirato, comincia a raccontare della 'ndrangheta che «interloquisce» con la Lega, quel discorso lento e penetrante, come i gesti e lo sguardo che lo accompagnano, sortisce effetti a valanga. La Lega insorge, il ministro Maroni minaccia querela, la Rai entra come sempre in fibrillazione, il popolo sudista prepara i forconi a difesa del suo nuovo idolo.
Sono passati solo quattro anni da quando quel ragazzo che ora riempie lo schermo con i suoi ritmi e le sue pause è entrato nella mia stanza in redazione, accompagnato da Mirella Armiero, la prima tra noi a scoprirlo frequentando i blog dei nuovi scrittori e a intuirne il valore. Nel senso letterale del termine, Saviano era l'ultimo arrivato tra i collaboratori del giornale. Eppure, senza farsi troppi scrupoli, quel giorno era venuto a chiedermi più spazio per i suoi racconti. Voleva spiegare che erano i boss a ispirarsi ai grandi film e non viceversa; e che anche i giovani killer dei Casalesi, per darsi un tono da divi del cinema, sparavano come gli attori di Scarface e Pulp Fiction. E come si spara in quei film? Mi spiegò che si spara in pose innaturali, ammesso che sparare sia naturale, e cioè dall'alto in basso e con la pistola messa di piatto. A confermarlo sarebbero le autopsie sui corpi delle vittime.
Per tutto questo, a Saviano, la lunghezza di un normale articolo non bastava. Esuberanza giovanile? Abitudine alla illimitatezza dei nuovi spazi massmediali? Disprezzo per la sintesi giornalistica? Non so e non mi importava molto. So solo che, infastidito, ero 1111 per congedarlo, ma ebbi come un flash. Mi tornò in mente Ennio Simeone, il mio primo capo. Aveva portato in redazione, all'«Unità» e in altri giornali, giovani cronisti come Rocco Di Blasi, Antonio Polito, Federico Geremicca, Luigi Vicinanza, Giuseppe D'Avanzo e Michele Santoro.
Ma, di fronte a una richiesta analogamente eccessiva rivoltagli da un’ aspirante collaboratore, reagì come io stavo per fare. Risultato: quel tizio intraprendente fu accompagnato alla porta. Era il maestro e critico musicale Paolo Isotta, ora al «Corriere della Sera».
Trovai allora una soluzione: insieme con Giorgio Fiore, l'amministratore delegato del giornaale, decisi di accelerare i tempi di pubblicazione dell' «Osservatorio sulla camorra», un nostro inserto mensile. Su quelle pagine sgombre di pubblicità e prive di obblighi cronachistici, Saviano pubblicò molti dei racconti poi confluiti in Gomorra. Se ne ricordò con una citazione nella quarta di copertina della prima edizione.
Quattro anni dopo, a Saviano stanno già stretti non solo le pagine dei giornali e gli inserti mensili, ma anche i libri, il cinema, i blog dedicati alla New italian epic e agli astri letterari nascenti, nonché la stessa televisione tradizionale. Ormai è da molti considerato il parresiastes italiano, colui che dice la verità costi quel che costi. «Siamo tutti riscattati dal coraggio di questo ragazzo del Sud, siamo tutti sconfitti dalla sua stessa inevitabile tristezza» dice di lui Nichi Vendola. E forse è vero, come è stato notato, che soltanto Pier Paolo Pasolini ha goduto in Italia di un' analoga notorietà come moralizzatore. Ma Pasolini fu figura più controversa, non come Saviano che tende piuttosto a un consenso universalistico. La sua è diventata una comunicazione totale, ecumenica, diretta, per certi versi telepatica. Per intendersi con il suo pubblico può bastargli un gesto. Uno sguardo. Una parola. Ed è giusto, come suggerisce il sociologo Alessandro Dal Lago, che si rifletta sull' evoluzione mediatica di alcune coppie che hanno segnato la storia recente della mobilitazione moralistica, progressista e di sinistra: da Borrelli-Di Pietro a Santoro-Travaglio a Fazio Saviano. Come dire: dal professionismo tecnico degli atti giudiziari a quello più allusivo del giornalismo d'assalto, fino all' approdo estetico dei romanzi e dei monologhi televisivi con tanto di sceneggiatura. Quasi una sublimazione dell'impegno, una poetizzazione della consapevolezza civile. Dalla militanza al racconto, dalla partecipazione alla narrazione. Una prospettiva che piace a molti ma non a tutti, anche se sono pochi i critici che ritengono opportuno venire allo scoperto. Tra questi c'è proprio Dal Lago, che gli ha dedicato un corrosivo pamphlet.
Ma Saviano è ormai così coinvolgente da trasformare addirittura il senso stesso delle parole. Con lui, per esempio, il verbo «interloquire», usato per tirare in ballo la Lega, perde del tutto il significato neutro e generale che ha sempre avuto e ne acquista un altro assolutamente allusivo e simbolico. Quando Saviano parla, esiste una sola interlocuzione: quella del potere criminale con il potere politico. Basta coniugare quel verbo, in qualsiasi contesto, e immediato scatta l'applauso.
I.:immagine di un Nord camorrizzato, 'ndrannghetizzato e mafiosizzato, non poteva non scatenare la reazione del Nord stesso. In quei giorni, Vittorio Feltri scrive sul «Giornale» che riferire di picciotti che tentano di intrufolarsi a Milano, o di comprare le simpatie dei candidati al consiglio comunale di Pavia, «significa soltanto creare confusione, alimentare la sensazione che sia tutto uno schifo da Palermo alle Alpi». Non vorremmo, conclude, che il risultato di simili mistificazioni fosse: tutti mafiosi, nessun mafioso. «Nossignori, non è così.»
In realtà, Saviano ancora una volta è riuscito a cogliere l'attimo, ha incarnato lo spirito del tempo. Nel raccogliere il malumore che saliva dai calanchi calabresi e dalle piane pugliesi, dalle coste siciliane e dalla mostruosa conurbazione campana, non ha fatto altro che dare forma e sostanza a un nuovo blocco di opinione che trova il suo massimo livello di coagulazione intorno alla suggestione di un secessionismo culturale del Sud. «Culturale, non politico,» spiega Angelo Panebianco sul «Corriere della Sera» «perché il Sud non ha i soldi del Nord, ma quella che agita è pur sempre una secessione. E ugualmente pericolosa dal momento che potrebbe esasperare quella settentrionale.»
Ora, sotto il segno di una riaffìorante, caotica e diffusa auto stima sudista, sta succedendo che molte voci del Sud prima dissonanti tendano ad accordarsi. Se il pregiudizio antimeridionale prima le spingeva fuori dal coro, ora avviene esattamente l'opposto. Un processo inclusivo, non escludente. Raffaele La Capria ha spiegato per anni cosa fosse la napoletana «armonia perduta», ma ora potremmo assistere a una paradossale «armonia ritrovata», a un' apparente ricomposizione unitaria di opposti e distanti che si tengono. Una sorta di meridionale compromesso storico-culturale. Ma per andare dove? La sensazione è che a partire dall'orgoglio, dal riscatto, dalla rivincita e dal ribaltamento dei ruoli, al Sud stia avvenendo qualcosa di assolutamente inedito. The Great Gig in the Sky, come cantavano i Pink Floyd? Un grande concerto nel cielo del Sud?
Tutti uniti contro la Lega di Bossi, contro i nordisti che camorrizzano i loro territori per egoismo capitalistico, e che prima ancora si erano arricchiti a spese dell'Irpinia terremotata sfruttando i finanziamenti a fondo perduto per aprire aziende fantasma fregandosene della ricostruzione. Gli stessi nordisti, ancora, che non avevano avuto scrupoli nello smaltire nel Casertano i loro veleni e i loro rifiuti tossici o che, prima ancora, con i fondi pubblici avevano impiantato improbabili centri siderurgici sulle coste meridionali, devastando e distruggendo paesaggi fino ad allora incontaminati. E così, via via, risalendo fino a Cavour, a Garibaldi, al generale Cialdini, ai bersaglieri violentatori e squartatori di Pontelandolfo e Casalduni, ai briganti eroi, ai Barbone, che Dio li protegga!
In questo clima accade anche che lo stesso Saviano, sempre in diretta tv, parlando di Napoli sepolta sotto i rifiuti arrivi a portare come esempio addirittura Ferdinando II, primo monarca a ordiaare la raccolta differenziata. Poco importa se quella era la stessa città delle ripetute e micidiali epidemie coleriche. Saviano legge sorpreso l'editto del re in cui si invitano i napoletani a «tener pulita la strada davanti alla casa usando l'avvertenza di ammonticchiare le immondezze al lato delle rispettive abitazioni e di separarne tutt'i frantumi di cristallo o di vetro che si troveranno riponendoli in un cumulo a parte». Evviva! «Napoletani, è l'ora dell' orgoglio. Napoli, alzati!» esulta subito dopo Carlo di Borbone, discendente di Ferdinando e sposo di Camilla Crociani. Tutto questo nel pieno della crisi politica della Seconda Repubblica, con l'esaurirsi della spinta propulsiva del berlusconismo e con gli spazi che questa crisi ha aperto nel mosaico dei partiti nuovamente scompagmato.
Quello che è possibile intravedere nel Sud, insomma, è un'unica trama, un'unica storia, sebbene raccontata a più voci. In effetti, è risaputo che il Sud sia sempre stato attraversato da un'imponente corrente antirisorgimentale: il Risorgimento non è mai piaciuto ai comunisti, che avrebbero preferito una rivoluzione sociale; non è mai piaciuto ai cattolici che il 20 settembre 1870 risposero con le cannonate degli zuavi all'attacco dei bersaglieri; non è mai piaciuto ai borbonici orfani della loro duosicilianità fatta di sete pregiate, patiboli, teatri fantastici e cannonate sui rivoltosi; e non è mai piaciuto, a dirla tutta, a quei meridionalisti come Salvemini, Fortunato, Nitti. I quali, però, non misero in discussione il «se» fare l'Italia, ma piuttosto il «come» fu fatta.
Il dato nuovo, ora, è proprio questo: la possibile confluenza degli epigoni. Forze e culture che si sono sempre mantenute distinte, lontane da ogni contaminazione, gelose della propria diversità, separate per ragioni ideologiche, sensibilità culturale o mera opportunità politica, ora si avvicinano, si annusano, si sovrappongono. Chi poteva immaginare che, in un' atmosfera da nuovo Romanticismo, un giorno i nipotini di Gramsci e quelli di Ferdinando II avrebbero deposto le armi in nome di una causa comune? E che alla figura del neoborbonico vero, di tradizione e cultura monarchica, si sarebbe affiancata quella di un neoborbonico giacobino, repubblicano e postcomunista?
Può darsi che io mi sbagli, e che mi sia fatto suggestionare da certi saggi di Isaiah Berlin sul passaggio dal Settecento all'Ottocento, ma del Romanticismo quest'ultima fase della nostra storia meridionale sembra avere la caratteristica primaria: quel clima che riesce a infiammare e fondere gli animi nel segno della passione e del riscatto, della terra e dell'innocenza, del recupero delle condizioni primarie e della denuncia delle artificiosità sociali. Insomma, un po' Rousseau e un po' Hamann, un po' Vico e un po' Herder: tutte personalità decisive per il passaggio dall'Illuminismo al Romanticismo. «Sezionare è assassinare» dicevano i romantici ottocenteschi. Ed ecco quindi un nuovo Sturm und Drang per spazzare via, tutti insieme, appassionatamente, anni e anni di mortificazioni e frustrazioni meridionali. E come nell'Ottocento la poesia era la lingua madre dell'umanità, la pittura veniva prima della scrittura, il canto prima della recitazione, i proverbi prima delle conclusioni razionali, cos1 ora è tutto un fiorire di nuove «narrazioni» del Sud, di nuove ricostruzioni fatte di essenze primordiali, di nuove visioni ispirate ai caldi umori mediterranei, di nuove politiche fondate su nostalgici recuperi storici.
E non a caso si dedicano riflessioni e saggi alla retorica di Nichi Vendola, che, perso l'ancoraggio ideologico di un Walter Veltroni o il tono da tribuno di un Antonio Di Pietro, parla di sentimenti, di emozioni, si commuove, sogna e lascia sognare. Sul «Corriere della Sera», Galli della Loggia lo ha definito un leader etnico, che tratteggia il Sud come una sorta di luogo pacificato dello spirito, come un modello di essenzialità e di verità umana, da proporre alla sinistra contro il cattivo modello del produttivismo a tutti i costi, del consumismo. Il Sud di Vendola è la metafora di ciò che è buono e insieme antico.
Che oggi il clima sia cambiato, che oggi gli opposti sudisti tendano più ad attrarsi che a respingersi, lo si nota da tante cose. Il terronista Angel Manna, quello delle interpellanze incendiarie in parlamento, non ebbe mai il piacere di un' attenzione, se pur critica, fuori dalla cerchia ristretta dei nostalgici. Con le sue stesse argomentazioni, Pino Aprii parla non solo al Sud neoborbonico, ma anche al. Nord leghista.
Nel recensire il saggio di Angelantonio Spagnoletti sulla storia del Regno delle Due Sicilie, Paolo Mieli aveva fatto una premessa. Attenzione, aveva scritto, le trecentocinquanta pagine di questo libr non contengono una rozza rivalutazione dei Borbone e del loro regno. Né si ricollegano alla letteratura di scrittori come Carlo Alianello o Nicola Zitara che, dal versante meridionalista, hanno cercato di impostare un processo postumo al Risorgimento. O agli omologhi storici e scrittori che hanno fatto la stessa operazione ma dal versante settentrionale antisavoiardo. Il punto di riferimento di Spagnoletti diceva Mieli, è semmai quella corrente storiografica che nacque nel Mezzogiorno, alla metà degli anni Ottanta, intorno allo storico Carmine Donzelli e alla rivista «Meridiana», cui collaborarono studiosi come Piero Bevilacqua, Augusto Placanica, Salvatore Lupo, Gabriella Gribaudi, Alberto Banti e Marta Petrusewicz. Ora, non tutti, ma alcuni di questi studiosi sono sicuramente meno distanti di prima dagli umori sudisti. Potrei proporre un altro indovinello, ma è evidente che certe valutazioni sul periodo borbonico fatte da Marta Petrusewicz potrebbero facilmente essere confuse con analoghe valutazioni fatte da Pino Aprile.
Altra convergenza fino a ieri imprevedibile arriva dal versante cattolico e ha come protagonista assoluto l'ex magistrato Alfredo Mantovano, eletto in parlamento nelle fila del centrodestra e quindi sottosegretario agli Interni nel governo Berlusconi. Colto e sicuro del suo integralismo, Mantovano è uno di quelli che non si è sottratto al dibattito sui centocinnquant' anni dell'Unità d'Italia. Come quando, in un articolo apparso sul «Corriere della Sera», ha esaltato le manifestazioni che ogni anno si tengono a Brindisi di Montagna, nel Parco della Grancia, vicino a Potenza. Di che si tratta? Ecco come lo spiega egli stesso: «Di un grande affresco delle insorgenze antigiacobine e dell'invasione piemontese, raccontato all'aperto, nei fine settimana estivi, realizzato con professionalità, coniugando rigore nella ricostruzione storica ed efficacia nel messaggio visivo».
Ma detto in altre parole, la manifestazione estiva nel Parco è pura propaganda filobrigantista. Lo spettacolo è tratto da La storia bandita, una ricostruzione dell' epopea dei briganti attraverso la vicenda del più famoso di tutti: Carmine Crocco Donatelli. Ce n'è traccia anche in Terroni, dove si ricorda che a dare la voce a Crocco è Michele Placido, suo discendente. Ma mentre Mantovano tende a far credere che dietro quello spettacolo non ci sia altro che l'innocenza di una storia «oggettiva», Pino Aprile non ci prova neanche a rifilare una simile ipotesi. «La partecipazione» scrive «nasce dalla curiosità ed evolve spesso in qualche forma di impegno, di militanza. Come prendere parte alla commemorazione della resa di Gaeta, ogni anno in febbraio, con corteo storico, cerimonia in chiesa.»
Nel nome di una presunta oggettività storica, dunque, tutto si tiene. Perché, come si ricorderà, anche il ministro Maroni, il ministro di cui Mantovano è sottosegretario, preferiva i briganti ai Savoia, la storia «bandita» alla storia ufficiale. Ed è davvero curioso questo corto circuito tra il leghista e il sudista, tra i massimi responsabili della legalità e la loro irrefrenabile tendenza a parteggiare per i fuorilegge di una volta. Ma resta da chiedersi se è oggettivo scrivere, come pure solitamente si fa sui manifesti che annunciano lo spettacolo nel parco, che «Crocco dà voce all'anelito di riscatto sociale, di rivendicazione di dignità e di libertà di un popolo, il popolo dei cafoni che disprezzato e umiliato, tradito e deluso, insorge».
Non scherziamo. Crocco sarà pure un lontano parente di Michele Placido, ma non era certamente quel che si vuol far credere. Figlio di un pastore, capo indiscusso delle bande del Vulture-Melfese, chiamato dai suoi «generalissimo», in nome di non si sa quale coerenza Crocco combatte prima con Garibaldi, poi con la resistenza borbonica e infine per se stesso. Latitante per oltre quattro anni, si vantò di non avere quasi mai dormito all' aperto e di essere stato accolto nelle proprietà dei signori più in vista, mentre i suoi si menavano per un tocco di pane. Wikipedia lo definisce «brigante» e «rivoluzionario», ma per capire esattamente chi fosse bastano alcuni episodi della sua vita. Ad esempio quello che si verificò durante la sua latitanza a Venosa. Ci fu uno scontro a fuoco e alla fine Crocco, il mitico
Crocco, colui che dà voce al riscatto del popolo, «vestì i panni del giustiziere». Cosl, almeno, scrive Giordano Bruno Guerri, la cui «equivicinanza» ai briganti è fuori discussione. Quel giorno a Venosa, dunque, alcuni preti e borghesi vicini ai liberali furono portati in piazza e fucilati. Tra le vittime ci fu anche Francesco Saverio Nitti, vecchio medico e notabile del luogo, nonno dell' altro Nitti, quello che le tentò tutte pur di portare l'industrializzazione anche al Sud. Si fa forse accenno a tutto questo, e a quanto avvenne subito dopo, nei weekend estivi al Parco della Grancia? Per niente. Eppure, un contadino di cui si sa il nome e il cognome, Antonio Ghiura, scambiò gli uomini di Crocco per guardie e, sventurato, gridò: «Viva Garibaldi!». Non lo avesse mai fatto. Venne fulminato con una scarica di fucilate. Terrorizzati, i possidenti del luogo decisero allora, per non fare la stessa fine, di tirar fuori i tappeti rossi e di srotolarli davanti al brigante. Così, in segno di riscatto, di orgoglio e di libertà.

Si dirà: d'accordo, ma almeno si vorrà ammettere che quel ribelle fu uomo tutto di un pezzo. Neanche questo. Una volta arrestato, quando seppe che sarebbe morto lontano da casa, Crocco cominciò a piangere e non la smise più. Parola di Pasquale Penta, lo psichiatra che lo teneva sotto osservazione e che, secondo le abitudini di allora, gli misurò il cranio. Aveva una circonferenza massima di 55 centimetri. «Rispetto alla statura, non molto grande» certificò Penta. Un microcefalo, per dirla alla Lombroso.
Tutto questo non per infierire contro la buonanima di Crocco, i briganti di un tempo e i filobriganti di adesso, ma semplicemente per sottolineare che contrapporre retorica a retorica non serve a molto. Tanto più se alla retorica risorgimentale si risponde con l'orgogliosa retorica della storia «bandita» e dei briganti finti eroi.

13
Troisi tale e quale a Hegel ovvero
Il grande alibi

«Carlo III fu il reggitore più illuminato e profondamente riformatore che Napoli abbia mai avuto.» Nel novembre 2010, Giorgio Napolitano ospita al Quirinale un incontro italo-spagnolo con la partecipazione dei ministri Franco Frattini e Trinidad Jiménez e in quella occasione, e con negli occhi ancora le immagini della sua città sporcata dai rifiuti, il presidente ritiene sia il caso di esplicitare la sua antica e mai celata ammirazione per il re del San Carlo e della Reggia di Caserta, del Museo archeologico e degli scavi di Pompei.
Un'ulteriore, inattesa e autorevolissima manifestazione di orgoglio sudista? In effetti, la citazione presidenziale cade in un momento assai particolare di ripresa di questo orgoglio, inoltre non è un omaggio formale scaturito dal clima cerimoniale ed è la conferma di un' attenzione storica che risale almeno al tempo, come si è visto, della prima mostra sulla civiltà del Settecento, quella inaugurata a Napoli dal «migliorista» Maurizio Valenzi, che di Napolitano era non solo grande amico ma uno dei principali collaboratori politici.
Ma pur avendo citato il re Borbone, ed ecco il punto, Napolitano non ha mai sottaciuto le responsabilità recenti del Sud, in modo particolare delle sue classi dirigenti, spingendosi più volte perfino a sostenere la necessità di una profonda, impietosa e convinta auto critica meridionale. Il che fa, e non poco, la differenza: perché una cosa sono i fasti del passato, presi per sé e salvati da ogni forma di odiosa e ideologica damnatio memoriae, e un' altra le drammatiche condizioni del presente. I primi non possono coprire le ultime. Così come le ultime non possono dissolversi nel ricordo estasiato dei primi.
L’idea di un' autocritica meridionale ha molti padri. Nel maggio del 1990 provò a suggerirla anche Norberto Bobbio, pubblicando sulla «Stampa» un lungo articolo in cui si parlava di questione meridionale come di questione «dei» meridionali. Ma si era all'indomani del crollo del Muro di Berlino e di Il a poco sarebbe venuta giù anche la Prima Reepubblica italiana. In quegli anni di convulsi capovolgimenti nazionali e internazionali, mentre quel che rimaneva del Novecento politico andava in fumo, l'articolo e l'invito del filosofo liberalsocialista caddero inascoltati. E poi, Bobbio era un piemontese. Come avrebbe potuto un piemontese apparire disinteressato agli occhi dei meridionali e rompere la scorza del loro orgoglio? Eppure Bobbio, nel porre il problema, fu sincero, quasi accorato: «Come uomo del Nord, anche se non nordista, perché ho avuto una educazione risorgimentale, ispirata non teoricamente all'idea dei "fratelli d'Italia", e debbo gran parte della mia formazione civile a uomini del Mezzogiorno come Croce e Salvemini, ho sempre esitato a esprimere il mio parere su una questione così complessa e controversa come la questione meeridionale. Ma ormai una cosa è diventata ai miei occhi sempre più chiara, e sempre più difficilmennte confutabile: la questione meridionale è prima di tutto una questione dei meridionali».

Nel senso, spiegava, «non già che i meridionali, per il solo fatto di essere nati al Sud di un certo parallelo, siano responsabili dell' arretratezza economica e civile di certe parti del Mezzogiorno, ma nel senso che spetta prima di tutto a loro, seppure non soltanto a loro, mostrare, con il minor numero di parole e il maggior numero di fatti, la loro volontà di correggere vecchi costumi di cui sono piene le cronache patrie». Agli inizi del Novecento, ammetteva Bobbio, anche Giovanni Giolitti rimandava spesso alla responsabilità dei meridionali, ma allora la classe dirigente era principalmente piemontese. Ora, invece, «è diventata in buona parte meridionale, specie nel partito di governo».
Il riferimento era alla Dc di Moro e di Gava, di De Mita e di Cossiga e degli andreottiani napoletani e siciliani. Quando Bobbio sollecitò l'autocritica, nessuno volle raccogliere il senso profondo di quella proposta, che non aveva nulla di recriminatorio o di paternalistico. Non ho memoria né di un dibattito pubblico, di quelli fritti e mangiati su giornali e riviste, né di una riflessione specialistica in sedi più appartate. Niente. Non successe nulla. E fu una grande occasione persa. Così come non c'è stata alcuna auto critica quando, dopo la «primavera dei sindaci» e dopo l'elezione diretta di molti governatori regionali di sinistra, il potere meridionale è passato di mano. Gli sprechi nell'uso dei fondi pubblici, l'inefficienza emersa dalla parziale e distorta utilizzazione di quelli europei, gli scandali legati alla cattiva amministrazione sanitaria, nonché le ripetute emergenze rifiuti di Napoli bastano e avanzano per rilanciare il tema.
Napolitano ci riprova allora il 10 dicembre 2008, già nelle vesti di capo dello Stato. «Se il Mezzogiorno non dà il senso di una forte capacità autocritica» dichiara nel corso di una visita a Napoli «difficilmente riuscirà ad essere credibile.» Il presidente allude anche al federalismo fiscale, e infatti aggiunge: «Non possiamo denunciare i rischi e gli esiti infausti di politiche meridionali se ci si sottrae ad un esercizio di responsabilità per quel che riguarda l'amministrazione della cosa pubblica».
Niente da fare. L’idea dell' autocritica meridionale non piace e non attecchisce. Al suo posto si fa invece spazio un atteggiamento che è l'esatto opposto. Si diffonde e prende forma, infatti, una sorta di rimozione collettiva. In altre parole, va in scena il grande alibi. Quando Saviano va in tv e descrive un Nord brutto, sporco e cattivo almeno quanto il Sud, il fenomeno è ormai al suo punto più alto. In molti, nel sentire Saviano, esultano. Ma come non vedere la perversa soddisfazione che si cela dietro quel dannosissimo atteggiamento? «Nossignore, non è cos1» aveva detto il nordista Feltri. Il Nord non è come il Sud. E che la Brianza non sia l'Aspromonte e che Brescia non sia Caserta lo dice anche il napoletano Giuseppe Galasso: «Le collusioni e i traffici sporchi sono una cosa; il radicale condizionamento criminale di intere aree, urbane e non, è un' altra cosa. Credere il Nord tutto innocente e puro sarebbe addirittura sciocco. Credere che equivalga in tutto e per tutto al Sud è ancora più errato. Oltre tutto al Nord la questione è stata certamente importata dal Sud». Seguono una battuta sul pessimismo cosmico di Saviano, giacché «in un paese tutto criminoso la lotta alla malavita da ardua diventerebbe disperata», e una conclusione in linea con l'asse Bobbio-Napolitano: «Insomma, il problema vero ed enorme della malavita organizzata resta sempre un dramma del Sud, ed è qui, da noi, e fra noi, che lo si deve innanzitutto risolvere».
Ma a questo punto le cose si complicano, perché se dal Nord vengono solo critiche indiscriminate o, peggio ancora, pregiudizi e luoghi comuni, e se il Nord non fa distinzioni tra meridionalisti critici o terronisti, come farà la voce più consapevole a farsi spazio e a farsi sentire sempre più forte? A questo proposito, la tesi di Galli della Loggia, bruciante come uno schiaffo in pieno viso, è che è inutile farsi troppe illusioni, tanto più che dopo la morte di Ugo La Malfa, erede di Pasquale Villari e don Sturzo, il Sud è rimasto privo di quelle prestigiose figure di intellettuali-politici che per oltre un secolo sono stati decisivi nel porre il problema del Mezzogiorno al centro dell' agenda politico-culturale del Paese. Vero? Falso? È ancora Galasso a rispondergli e questa volta è lui a restituire lo schiaffo. Caro Galli della Loggia, è questo che pensi? E allora sappi che quegli uomini, i La Malfa, i Villari e i don Sturzo, contavano perché a Torino e a Milano c'erano i Gramsci, i Gobetti, i Luzzatti e tanti altri che li prendevano in seria considerazione. Dove sono oggi costoro?

Difficile essere più espliciti di cos1, difficile essere più impietosi. Ma la polemica sul Mezzogiorno è ricca di duelli come questi. E spesso a duellare sono proprio i più sensibili e i più consapevoli. Ma se questo è comunque il modo in cui il Sud viene percepito anche dal Nord migliore, il problema è come evitare una deriva antropologica. Come evitare, cioè, che tutto si possa facilmente spiegare, per l'ennesima volta, con la diversità caratteriale dei meridionali. In altre parole, il problema è come evitare di ridursi a quella che io chiamo l'opzione Jane Austen, ,dal nome dell' autrice di Orgoglio e pregiudizio; di bloccarsi, cioè, di fronte alla contrapposizione tra l'orgoglio sudista e il pregiudizio nordista. Se questa semplificazione non è servita finora a risolvere il dualismo Nord-Sud, perché mai dovrebbe risolverlo ora o negli anni a venire?
Vorrei evitare di semplificare a mia volta, ma non aiutando a fare le giuste distinzioni e, paradossalmente, accomunando tutti i meridionali in un'unica, grande area di identica responsabilità, il pregiudizio antimeridionale ha favorito una lettura fatalistica o deterministica del Sud. Della serie: qui niente e nessuno riuscirà mai a cambiare le cose e dunque c'è poco da fare. D'altra parte, l'orgoglio meridionale, utile a coprire le colpe endogene e a trasformare i vizi in virtù, è servito solo a portare il meridionalismo su un binario morto. Il binario del grande alibi; un unico, grande, infinito alibi che si poggia, da un lato, sull'idea di un Nord colonizzatore e «pigliatutto», dall' altro su quella di una storia, per così dire, ineluttabile.
A proposito del Nord colonizzatore, c'è stato chi, come Angelo Panebianco, sul «Corriere della Sera» si è detto convinto che esistano forti analogie tra la storia dell'America Latina e quella del nostro Sud. Nel senso che per un lungo periodo le classi dirigenti latinoamericane hanno coltivato, nei connfronti degli Stati Uniti, lo stesso atteggiamento che i meridionali italiani hanno nutrito nei confronti del nostro Nord. Hanno cioè attribuito all'imperialismo yankee la causa del proprio sottosviluppo. Ma quando la teoria della colonizzazione è stata abbandonata, il Brasile è sostanzialmente riuscito a tirarsi fuori da quel binario morto. E se là l'operazione è riuscita, dice Panebianco, perché non provare anche da noi? Potrebbe essere, paradossalmente, la via sudamericana alla seconda unificazione italiana.
A proposito della ineluttabilità della storia, invece, è illuminante un ragionamento proposto da Antonio Bassolino al termine della sua lunga esperienza amministrativa a Napoli e in Campania. Prima di riportarlo, però, serve una premessa. Nel 1993, quando fu eletto per la prima volta sindaco di Napoli, Bassolino promise che avrebbe insegnato ai napoletani a rispettare il rosso dei semafori. Un tipico programma antropogenetico. Nel senso che il nuovo sindaco non si sarebbe limitato, com era giusto, a promettere il rispetto delle regole nel governo dei flussi di traffico, ma si sarebbe spinto, sulle orme del dottor Jekyll, a forgiare l'uomo nuovo, vale a dire il napoletano che avrebbe rispettato l' «abc» del vivere civile. Ma sedici anni dopo, a ciclo politico concluso, del programma antropogenetico di Bassolino non si è più parlato. È spuntata, invece, anche in questo caso, una banalissima giustificazione antropologica. Se le cose non sono andate nel verso giusto, se a Napoli il traffico non è sparito e se i napoletani non hanno ancora imparato a fermarsi al rosso dei semafori, la colpa non è stata dell' amministrazione comunale o dei vigili o dei dispositivi di traffico o dei consulenti pagati per suggerire soluzioni, ma del contesto socio-culturale. Bassolino l'ha detta così: «Ebbene, devo ammettere che a Napoli il peso della politica non è stato pari a quello della storia».
Quando gli ho sentito pronunciare questa frase, ricordo che mi è venuto in mente l'ex ct della nazionale di calcio Arrigo Sacchi. Anche lui, dopo che fummo eliminati dai Campionati europei del 1996, disse che ci condannavano i risultati, non il gioco. Già. Napoli non era diventata quelle ibniziano migliore dei mondi possibili che pure ci era stato promesso, e Bassolino non aveva nulla, ma proprio nulla, da rimproverarsi.
Ma più di Sacchi, qui è Lucio Battisti che può aiutare a rendere bene il concetto. Mi riferisco a Le cose che pensano, testo dell'irraggiungibile, secondo me, Pasquale Panella. È la storia di un paradossale autoinganno. C'era, e non c'è più, una lei. E c'è, ed è terribilmente solo, un lui che ne soffre l'assenza, anche se non ha alcuna intenzione di ammetterlo. Infatti, «son le cose / che pensano ed hanno di te / sentimento. Esse t'tlmano e non io / come assente rimpiangono te». Sono le cose, dunque, che «prolungano» lei, nel senso di una totale ininfluenza dell'uomo, e dunque della politica, nel succedersi degli accadimenti. Portati dalle note e a ben riflettere, siamo a cavallo tra Hegel e Troisi. Tra il gigante del pensiero, secondo cui gli uomini non sono altro che «polvere sugli stivali della storia», e il simbolo della napoletanità in una delle scene più simbolicamente forti di Ricomincio da tre. In quel film, Troisi è pigramente seduto su un divano e fissa con sguardo ipnotico un vaso. Gli ordina di muoversi, perché sono le cose, secondo lui, che devono muoversi, che devono raggiungerlo. E se non si spostano, se non si avvicinano, la colpa è delle cose riottose, non dell'uomo che dovrebbe alzarsi, afferrarle e metterle nel posto desiderato. Una concezione della responsabilità della politica che ci riporta a prima di Machiavelli, a quando si riteneva che tutto dipendesse dalla fortuna. E dunque dalla sorte. Dal destino.
Ora, sarebbe davvero un curioso epilogo se nel Duemila, non in un secolo oscuro, non in pieno delirio positivista, tra le tante secessioni possibili, il Sud escludesse proprio quella dal destino. E giocando un po' con le parole, sarebbe ancora più singolare se dopo 1'antropogenetica e 1'antropologia, il Sud decidesse anche di diventare oggetto dell' entropologia. Con la e. Dello studio, cioè, della disintegrazione.

14
Giovani in mare aperto ovvero
I veri rivoluzionari d'oggi

Quando si parla dei meridionali e si insiste sui loro difetti caratteriali, quando si parla di noi e ci si immagina tutti con gli occhi illiquiditi dalla nostalgia, a me viene in mente anche un' altra storia. Questa volta, però, non riguarda un singolo uomo, bensì una collettività. E non è clamorosa, teatrale, o eroica. È invece silenziosa, se silenziosa può essere una grande marea o una moltitudine in marcia.
Nella storica sede del «Corriere della Sera», in via Solferino a Milano, dopo un dibattito sul Sud, si avvicina un giovane collega e mi consegna un suo libricino. Mi incuriosisce il post scriptum: «Sul mio balcone, al centro di Milano, ho un alberello di limone. Me l'ha affidato un amico di Parma a cui si era seccato. Un tronco spoglio. Poi sono spuntati i primi germogli. Dopo un anno ha ripreso vita. Lho trapiantato e concimato. Ogni giorno lo curo. Oggi è rigoglioso. E sono arrivati perfino i frutti. Cinque limoni sul mio balcone a Milano. Mi sembra fantastico!». È la piccola testimonianza di Giuseppe Matarazzo, siracusano, uno di quelli che, come la juliette Binoche di Chocolat, è stato richiamato dal vento del Nord. «Anch'io sono diventato un siciliano di mare aperto» dice.
Mare aperto a Milano? Pare sia stato Vittorio Nisticò, storico direttore dell' «Ora» di Palermo, a dividere i siciliani in due grandi categorie: di scoglio e di mare aperto. Di scoglio sono quelli che partono, che lasciano l'isola, ma che il secondo giorno già cominciano a lamentare crisi di astinenza, perché mancano loro tutta una serie di cose, dalla pennichella alle melanzane. Di mare aperto sono invece quelli che la Sicilia ce l'hanno nel cuore, ma che non si sentono iettati da qualche parte del mondo, come Sciascia che si sentiva iettato a Parigi, perché sono serenamente consapevoli di essere esattamente lì dove hanno deciso di essere.
Ma non è l'unica distinzione possibile. Tra quelli che sono partiti e che hanno resistito alle prime
crisi di astinenza, lo scrittore palermitano Roberto Alajmo distingue a sua volta quelli che pensano di tornare e quelli che pensano di non tornare. I primi sono alla perpetua ricerca di una pasticceria dove facciano i cannoli e quando vengono a sapere che un amico o un parente sta per tornare sull'isola gli chiedono di portare al ritorno almeno un mazzetta di finocchietto selvatico. All' opposto, c'è la protervia di chi, una volta partito, non solo taglia ogni ponte con il passato, ma sente il bisogno di dimostrare al mondo di aver seppellito ogni forma di dubbio e addirittura si sforza di fare proselitismo. I primi, quando possono, mangiano la pasta con le sarde, i secondi mai.
Di mare aperto, con o senza limoni sul balcone, forniti o meno di finocchietto selvatico: ma perché vanno via? Perché i giovani del Sud emigrano al Nord o all'estero? A queste domande, finora, hannno risposto gli analisti economici e i demografi. E hanno detto cose sensate, ma parziali. Entrambi si sono occupati esclusivamente degli squilibri tra domanda e offerta di lavoro, arrivando a conclusioni diverse ma speculari. Con l'occhio alla domanda, gli economisti hanno concluso che quei giovani se ne vanno perché c'è poco lavoro. Guardando all'offerta, invece, gli esperti di flussi migratori hanno dedotto che se ne vanno perché sono troppi e non c'è spazio per tutti. È sempre mancata, paradossalmente, la risposta dei diretti interessati. I quali sono stati trattati ora come numeri, ora come percentuali, ora come rette o curve tra l'asse delle ascisse e quello delle ordinate, ma mai come persone, come singoli appartenenti, l'uno all'insaputa dell'altro, a un unico fenomeno di massa. A colmare il vuoto, concentrandosi esclusivamente sui laureati e sui ricercatori, ha provveduto, per la prima volta in Italia, un giovane sociologo calabrese, uno di quelli a cui piacciono le ricerche empiriche e che dal 2004 al 2006 ha interrogato più di cinquecento «migranti».
Ed ecco, senza un solo lamento e senza il fastidioso rimbombo del piagnisteo sudista, il risultaato: cresce la disoccupazione giovanile e quella femminile, i dati Istat parlano ormai di quasi quattro giovani disoccupati su dieci, aumentano anche gli «inattivi», quelli che hanno smesso di cercare lavoro, e sale anche il tasso di disoccupazione di lungo periodo, ma i giovani laureati del Sud se ne vanno non tanto per questo, ma perché non ne possono più del clima generale. Non ne possono più delle famiglie e del familismo amorale; non ne possono più delle piccole e grandi arroganze di paese; non ne possono più delle caste professionali, chiuse e immobili come ascensori bloccati tra un piano sociale e l'altro. Non ne possono più dei corsi di formazione infinita, degli esami regalati, dei concorsi fasulli, delle élite asfittiche e consociative più che ai tempi di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto. Non ne possono più del paternalismo dei Gaspari e dei Colombo, che hanno mortificato i genitori, dei Bassolino e dei Loiero, che invece hanno mortificato le loro speranze, e in genere di tutti i leader, i capicorrente e perfino i portavoce che hanno popolato il pannpoliticismo meridionale, quell'informe garbuglio in cui la politica controlla ogni assunzione, ogni progetto a termine, ogni passaggio di carriera, ogni posto in ospedale, ogni appalto, ogni assegno di riicerca. Non ne possono più, direbbe Piero Barucci, di un Mezzogiorno «dalle intermediazioni multiple, impropriamente svolte da soggetti non autorizzati, senza alcun riconoscimento di professionalità e senza controlli». E non ne possono più, anche, di quelle cene a casa organizzate per chiedere la raccomandazione al notabile di turno, o dei fiori o dei cioccolatini inviati a ogni festa comandata alla signora tal dei tali per commuovere il potente marito.
Quando ancora frequentavano i corsi di laurea, quando vivevano tutti insieme negli studenta
ati, questi ragazzi si erano illusi di poter cambiare le cose restando nella loro terra. Ma ora no, non ci pensano più. C'è un bel racconto di Silvia Avallone, l'autrice di Acciaio, pubblicato su un numero speciale di «ltaliani europei», che rende bene questo clima. Parla di gruppi coesi tra di loro: i pugliesi da una parte, gli abruzzesi dall' altra; di ragazze calabresi che si svegliano presto, indossano il grembiule e occupano la cucina lessando patate e girando il ragù; di altri che a malapena riescono a fare colazione perché sui tavoli e sui fornelli non c'è più spazio; di diffidenze che si dissolvono e di solidarietà che si creano a ridosso delle prove di esame. E poi di valigie, di saluti, di incontri successivi, di racconti di fallimenti. E di colleghi che invece hanno tagliato i ponti e sono andati via.
Proprio questi ultimi sono l'oggetto della ricerca di Francesco Maria Pezzulli. È lui il giovane sociologo che ha programmato, raccolto e schedato le interviste ai cinquecento migranti raccogliendole poi in un libro, In fuga dal Sud, che Mirella Barracco ha meritoriamente presentato un giorno d'estate sulla Sila. A voler usare il linguaggio accademico di
Edith Pichler, che della pubblicazione ha curato la prefazione, la tesi suona così: «Le migrazioni meridionali qualificate dipendono dallo scarto esistente tra soggettività dei migranti, in continua crescita, e le reti sociali e professionali di provenienza, sostanzialmente arretrate». Ma con meno giri di parole il senso è quello di cui sopra: basta, noi togliamo il disturbo.
Tra il 1997 e il200B circa 700.000 meridionali hanno preso un aereo o un treno per trasferirsi altrove. Nel solo 200B, il Sud ha perso oltre 122.000 residenti. Sono andati in cerca di un altro mondo, molto meno angusto di quello meridionale. Un mondo, per intenderci, dove se parli di merito non scandalizzi nessuno e non fai scattare l'allarme antincendio. «La mia più grande soddisfazione? Trovare clienti non per il cognome che ho, non per le relazioni di tipo familiare, ma per la professionalità che offro» dice uno degli intervistati.
Questi ragazzi sono i nostri Luftmenschen, come li chiama George Steiner. Sono gli «uomini dai piedi leggeri», i nuovi cosmopoliti. Francesco Saverio Nitti li chiamava invece «gli spostati» e oltre un secolo fa li vedeva come il «peggior pericolo per 1'Italia». Fino a quando non troveranno un lavoro o un guadagno sicuro, diceva Nitti, questi giovani «non potranno fare a meno di coltivare le loro velleità rivoluzionarie».
Gli «spostati» di oggi sono apparentemente meno pericolosi, eppure la loro rivoluzione, seppur silenziosa, non è meno dirompente. Sono gli stessi ragazzi di cui ha scritto Franco La Cecla sul «Sole 24 Ore», consapevoli del fatto che le complicazioni burocratiche, il clima fatiscente e ricattatorio dell'università italiana e lo strangolamento delle potenzialità giovanili sono una malattia ormai cronica. E allora lo scossone provocato dal loro lucido e consapevole distacco non potrà essere privo di conseguenze. Chi troppo frettolosamente continua a parlare di un Sud lamentoso, compromesso e rinunciatario dovrebbe cominciare a riconsiderare questo straordinario fenomeno sociale.
È impressionante, a leggere il libro di Pezzulli, mettere in fila il modo in cui gli intervistati descrivono il contesto di provenienza: «Mi innervosiva», «cominciava ad ammorbarmi», «un orizzonte chiuso, troppo claustrofobico, insopportabile», «arrogante e incivile», «odioso, deprimente, castrante», «ristretto e senza prospettive», «affollato di gente corrotta e di malaffare», «c'erano solo briciole, ci saremmo ammazzati a vicenda». E ciò spiega, dice 1'autore, la prima differenza tra questa emigrazione e quella di un secolo fa. Rispetto ai loro nonni, rispetto al Totò di Nuovo cinema Paradiso a cui il vecchio Alfredo urla vattinni e rispetto ai 'uaglioni napoletani a cui Eduardo dice jujtevenne, i giovani d'oggi partono «senza alcun rancore». Il che vuol dire anche, ed ecco una seconda differenza, che quest'ultima generazione di migranti non ha alcuna intenzione di tornare. «Il rischio di impantanamento sarebbe molto elevato» confessa un ricercatore felicemente approdato in un'università americana. Rientrare? «Soltanto se la mia famiglia avesse necessità della mia presenza» è la risposta più frequente.
Malinconici? Mammisti? Languidamente distesi al sole a discettare di pensiero meridiano? Tutto si può dire di loro tranne che questo. I nuovi meridionali di mare aperto o dai piedi veloci sono gli unici, veri rivoluzionari dei nostri tempi. Altro che Masaniello, altro che Pisacane, altro che Eleonora Pimentel Fonseca. O Caccioppoli, che come Cesare Pavese si ammazzò con un colpo alla testa. Questi, almeno, non faranno una brutta fine.

Post Scriptum

Con tutti quei ragazzi in mare aperto, l'idea di un possibile naufragio ce l'ho, eccome. Proprio per questo, scrivendo questo libro, me ne sono venuti in mente due, di naufragi: quello di Robinson Crusoe e quello di Cristoforo Colombo.
Robinson Crusoe è uno dei romanzi più belli che siano mai stati scritti; un libro che Kant, Marx e Rousseau leggevano come Platone leggeva l' Iliade e l' Odissea e che ancora oggi, volendo, e rinunciando a un po' di effetti speciali, è possibile apprezzare con immutato piacere. Tutto sta a entrare nella storia. A seguire le vicende di quel ragazzo che a poco più di vent'anni, terminati gli studi, parte per i mari del Sud, affronta varie disavventure, poi ripara su un atollo e qui, tra pirati e selvaggi, in realtà un solo selvaggio, comincia a progettare il ritorno a casa. Prima costruisce un rifugio, poi recupera il recuperabile e nel frattempo raziona i viveri, impara a seminare e a difendersi, fa tutto ciò che può e che deve. Insomma, vive nell' austerità ma non rinuncia all'idea della civiltà e del ritorno alla modernità. Senza pregiudizi nei confronti di Venerd1, il selvaggio; senza orgoglio, che non avrebbe saputo dove appoggiare, e senza nostalgia, che lo avrebbe consumato, Crusoe parte dal fondo e comincia a risalire.

Perché ricordo tutto questo? Perché la metafora prevalente del romanzo è certamente quella del naufragio, ma non è l'unica possibile. C'è anche quella del viaggio, c'è l'avventura, e poi ci sono l'isola misteriosa, l'incontro con l'altro, la rinascita, il ritorno.
Cos1, quando nel 2006 Napoli cominciò a risvegliarsi tra i rifiuti, provai a suggerire di imitare Mantova, città che aveva da poco adottato un classico di Salgari, Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, per una lettura collettiva. E scelsi il personaggio di Daniel Defoe. Da mesi, da anni non si faceva altro che portare la contabilità dei fondi pubblici strappati ora per questa, ora per quella emergenza;
e da mesi non si riusciva ad andare al nocciolo delle questioni.
Con Robinson Crusoe, invece, l'idea era di parlare di Napoli e del Mezzogiorno fuori dai luoghi comuni e dentro una metafora a scelta tra quelle suggerite dal libro. Basta cifre, basta calcoli su quello che lo Stato ha dato o ha tolto a Napoli per dare a Milano o a Torino, e basta lamentele e piagnistei. Robinson reagisce in modo esemplare, proviamo a farlo anche noi, suggerii. E se le discussioni sui problemi concreti non avevano portato a nulla, l'idea era di provare a fare il contrario, di liberarci tutti e di liberare il linguaggio e gli schemi mentali ideologici per partire dall' astratto puntando al possibile.
Dunque, che cosa fa Robinson dopo il naufragio? Di sicuro non si avvilisce, anzi. Passa all' azione, si preoccupa di dominare la realtà naturale, prova a piegare ai propri fini anche ciò che gli è ostile. E così facendo lotta con il destino, lo umanizza e nel fare questo comincia a riconoscere se stesso. Non sta Il ad aspettare che le cose si spostino da sole o che siano esse a «prolungare» il ricordo, non la nostalgia, dei libri, dei giornali, della casa paterna. Nel ricominciare daccapo, dalla costruzione degli utensili alla messa a punto dei progetti, dalla selezione delle priorità alla cura delle relazioni, Robinson suggerisce una serie di analogie con la vita reale.
Su quell'isola, incontra anche Venerdì. Ed è l'incontro tra due mondi, due culture: da una parrte c'è un europeo del XVII secolo in possesso delle conoscenze scientifiche più avanzate della sua epoca, che ha studiato ed è abituato alla lettura della stampa; dall'altra un selvaggio dei mari del Sud, con un sapere limitato alle tradizioni orali della sua tribù, senza la minima conoscenza delle grandi città dell' epoca. Qui mi rendo conto che la metafora è eccessiva e sdrucciolevole: siamo noi i barbari, o sono i leghisti? O forse sono i piemontesi e gli eroi siamo invece noi sudisti? Non è questo il punto. Il punto è che siamo diversi, perché ognuno è diverso dall' altro, ma che solo uniti possiamo farcela.
Finché è solo, Robinson affronta questioni tecniche, meccaniche, igieniche, persino scientifiche. Ma quando trova l'impronta di Venerdì sulla sabbia cominciano i problemi sociali. Non si tratta più di sopravvivere in mezzo alla natura, ora deve iniziare a vivere in modo sociale, cioè insieme agli altri uomini o contro di loro. Robinson sa distinguere tra Venerdì e i pirati, fugge i secondi e ripone invece fiducia nel primo, nonostante le tante differenze.
Nata come una provocazione, l'analogia tra Napoli e l'isola di Robinson e tra noi meridionali e il marinaio di Defoe fu raccolta con entusiasmo. Prima con curiosità e poi con la consapevolezza di partecipare a una sperimentazione. Sulle pagine del «Corriere del Mezzogiorno» avemmo più di due mesi di interventi, di lettere, di interviste. Vennero fuori nuove e sempre più originali interpretazioni. Ci fu chi ricordò di aver studiato Robinson come un modello di organizzazione aziendale; chi lo aveva letto in sovrapposizione a Cast Away, il film con Tom Hanks; spuntò perfino una copia di un vecchio film di Luis Bufiuel del 1954 custodita nella videoteca comunale; e ci fu chi ironicamente sottolineò che il vero meridionale del romanzo non era Robinson bensì suo padre, che, come tanti genitori della nostra borghesia, consigliava al figlio discolo di preferire il «posto fisso» alle avventure. Finita la «robinsonite», le cose sono poi andate come sono andate, la dimensione emergenziale ha prevalso su tutto, il discorso è rimasto sospeso.
E tornano le domande di sempre: perché il Sud è ancora coslontano dal Nord? Perché tutto succede a Napoli? Perché tutto si ripete? E di chi è la colpa? Degli eletti o di chi li elegge?
In questo libro ho provato a dare qualche risposta, ho indicato nel terronismo una deriva possibile e in un neo romanticismo sudista in formazione non una zattera di salvataggio ma un vicolo cieco. E voluutamente mi sono tenuto alla larga, se non in rari casi, da calcoli e cifre, comparazioni e percentuali, perché mi sono convinto che quel che più pesa non sono i numeri ma le idee. Lo stesso Risorgimento non nacque esclusivamente da interessi materiali, ma da suggestioni; lo fecero i politici, ma non senza i letterati, i lavoratori, gli studenti. Quali idee, dunque?
Allora come ora, io ripartirei da Robinson Crusoe e dagli utensili necessari: e comincerei dalla scuola, dall' università, dalla cultura vera e non dagli eventi effimeri. Così da evitare il rischio di un colonialismo vero, che è quello che ti prende tutto, perfino la luna. Non sto esagerando cedendo alla retorica, o almeno non è questa l'intenzione. Sto solo raccontando una storia vera.
Stava per finire il febbraio del 1504 e Cristoforo Colombo, arenatosi sulla costa giamaicana, non riusciva a muoversi da circa otto mesi. Non aveva più viveri per l'equipaggio e non sapeva piu che fare. Poteva uscirne solo se qualcuno gli avesse fornito acqua e cibo. Ma chi? Colombo avrebbe potuto minacciare gli indigeni, ma forse non aveva le forze necessarie, e forse non voleva. Capace di leggere il cielo meglio di chiunque altro, sapeva che il 29 di quel mese ci sarebbe stata un' eclissi di luna. Decise di terrorizzare gli indigeni annunciando che avrebbe rubato la luna se i suoi uomini non avessero ricevuto gli aiuti sperati. Il giorno previsto, tutto accadde natura/iter e la luna scomparve davvero. Gli indiani credettero in un prodigio e per riavere la luna si affrettarono a inviare le prime canoe piene di acqua e viveri come cornucopie.
Secoli dopo, quel mistero è rimasto tale, se è vero quel che scrive un corrispondente del «Philadellphia Enquirer» in occasione dell'eclissi del 29 luglio 1878: «Fu lo spettacolo piu magnifico che avessi mai visto ma terrorizzò enormemente gli indiani. Alcuni di loro si gettarono in ginocchio invocando la benedizione divina, altri si sdraiarono a terra, altri ancora urlavano e piangevano in un eccitamento frenetico e nel terrore. Infine, un vecchio uscì dalla porta della sua casetta pistola alla mano, e guardando il sole oscurato mormorò alcune parole incomprensibili e alzando l'arma mirò all'astro e sparò».
I nostri giovani in mare aperto, invece, hanno studiato, e questo li proteggerà dai misteri.

Bibliografia

A un certo punto le forme classiche collassano e spunta fuori l'arte astratta. Nel mezzo di un racconto, la realtà trasfigura e diventa metafora. E perfino nel mondo delle note la melodia cede alle dissonanze. La ragione è sempre la stessa: ogni artificio è utile per colmare la distanza che sempre separa ciò che sentiamo e ciò che diciamo, ciò che impressiona la nostra sensibilità e ciò che riusciamo a comunicare. Per spiegarsi, la realtà ha spesso bisogno dell'irrealtà. Ed ecco perché anche a me è capitato frequentemente di citare film e romanzi. Uno fra tutti: Il Gattopardo, di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Feltrinelli, 1958; libro fin troppo frequentato da chi è in cerca di immagini simboliche sulla dissoluzione del Regno borbonico e la nascita dell'Italia unita. E tuttavia, quando si parla di Mezzogiorno, è difficile schivare i principi di Salina e gli Chevalley di Monterzuolo, i giovani Tancredi e i Calogero Sedara.
L'ennesima conferma di quanto questo romanzo, ambientato in una Sicilia allo stesso tempo appassionata e trasformista, sia entrato nel Dna di noi meridionali l'ho avuta leggendo l'ultimo libro di Antonio Bassolino, Napoli Italia, Guida, 20 Il, Il dove l'ex sindaco di Napoli ed ex governatore della Campania parla dei suoi anni nel Palazzo. Mai un' ammissione di colpa, mai un accenno a un proprio errore; eppure, nel vivo di una vicenda tutta politica, Bassolino non resiste alla tentazione di raccontare una vicenda personalissima: la morte della sua micia Petra. La descrive rigida, con le zampe all' aria e gli occhi che sembrano di vetro, e racconta anche di come lui, che non aveva pianto neanche per la morte dei suoi cari, si sia sciolto in lacrime davanti a quella visione. Il non detto politico, l'autocritica mai fatta, io credo, è tutta in quella scena. Così come la fine del principe di Salina è tutta nelle ultime battute del Gattopardo, quando la figlia Annetta decide di fare pulizia in casa del padre e di liberarsi anche del suo Bendicò, il cane impagliato che insinuava ricordi amari. «Mentre la carcassa veniva trascinata via, gli occhi di vetro la fissarono con l'umile rimprovero delle cose che si scartano, che si vogliono annullare. Pochi minuti dopo quel che rimaneva di Bendicò venne buttato in un angolo del cortile che l'immondezzaio visitava ogni giorno: durante il volo giù dalla finestra la sua forma si ricompose un istante: si sarebbe potuto vedere danzare nell' aria un quadrupede dai lunghi baffi e l'anteriore destro alzato sembrava imprecare. Poi tutto trovò pace in un mucchietto di polvere livida.» Anche il bassolinismo finisce nella polvere e Bassolino, seppure inconsciamente, non poteva che dirlo attraverso una metafora. Il suo è un crepuscolo politico che avvolge l'intera città e che ben emerge da Napoli dei molti tradimenti, Il Mulino, 2008, il bel saggio-racconto di Adolfo Scotto di Luzio.
E come si spiega, se non con il continuo rincorrersi di realtà e irrealtà, il successo di Gomorra, il libro di Roberto Saviano? Per lui vale ciò che George Steiner (Letture, Garzanti, 2010) ha scritto per altri grandissimi autori. Siamo di fronte, cioè, «ad un tipo di situazione che riconosciamo: uno specialista trascende la sua stessa disciplina tecnica e raggiunge grande notorietà; i colleghi che si è lasciato alle spalle serrano i ranghi in uno schizzinoso rifiuto. È la storia di Mar:x e degli economisti accademici, di Freud e degli psicologi suoi contemporanei, di Toynbee e degli storici. Dopo un certo periodo si vede che l'opera del grande outsider ha alterato nel suo complesso il campo da cui si era distaccato, e i detrattori sopravvivono sotto forma di acide note a piè di pagina nelle memorie del maestro». Dopo di che c'è chi, come T omasi di Lampedusa, è vissuto libero ma ha avuto un successo clandestino, nel suo caso postumo; e chi, come Saviano, è invece vissuto clandestino, cioè sotto scorta, ma ha avuto un libero successo.
Come le metafore, così le citazioni. Citiamo per tante ragioni, belle e brutte. Citiamo per ruubare idee, o per non ripetere cose che altri hanno già detto meglio di noi. E citiamo per condividere concetti, per entrare a far parte di un'unica grande famiglia, quella di chi ha letto gli stessi libri e si è entusiasmato per gli stessi autori. lo ho citato con tutte le migliori intenzioni, e a tutti gli autori sono debitore, anche a quelli il cui pensiero non coincide con il mio ma il cui lavoro ha arricchito il mio. Tra i vari libri che fanno da sfondo a Terronismo c'è, naturalmente, Terroni, di Pino Aprile, Piemme, 2010, di cui ho già parlato diffusamente e a cui faccio costante e polemico riferimento. Ma Terroni è solo l'ultimo file che ha mandato in fibrillazione la memoria del mio computer interno. Tra i primi ci metto invece The View [rom Vesuvius, di N elson Moe, tradotto con il titolo Un paradiso abitato da diavoli. Identità nazionale e immagini del Mezzogiorno, edito da L'Ancora del Mediterraneo nel 2004. Un libro di uno storico americano che, arrivato in Italia per completare i suoi studi, un giorno ha preso un treno e si è trasferito a Napoli. «Quando dissi alla signora di Firenze che si trovava nel mio scompartimento che prevedevo di fermarmi a Napoli» racconta Moe «mi lanciò un' occhiata sgomenta. Non sapevo che era una città sporca e pericolosa, piena di venditori ambulanti e ladri?
Non sapevo che il Sud era come l'Mrica? Con tante belle città da vedere al Nord, perché me ne andavo nel Mezzogiorno? La sua reazione ai miei progetti di viaggio mi prese alla sprovvista: la vivida evocazione degli orrori di Napoli e del Sud suscitò la mia curiosità non solo per la regione, ma anche per come veniva percepita.» Quanta parte della questione meridionale è stata scritta in un vagone ferroviario? Ricordate l'episodio del piccolo Salvemini che ho riportato in questo libro? È dunque Moe che, collocando il Sud d'Italia in una dimensione internazionale, mi ha introdotto nel mondo e nella storia del pregiudizio antimeridionale; di quel pregiudizio che ha visto il Sud come una realtà ora affascinante, ora perturbante. A catena, risalendo nel tempo e inneguendo la contemporaneità, sono venuti tutti gli altri saggi sul tema. O a esso vicini. A cominciare da Storia del Regno di Napoli, di Benedetto Croce, che ho letto in una edizione Adelphi del 1992, regalo di Walter Veltroni, allora mio direttore all'«Unità» e di cui conservo con affetto la dedica. Le considerazioni finali di Croce costituiscono un solido punto fermo rispetto a ogni forma di deriva sudista. E da qui a Galasso, interprete e prosecutore di Croce, il passo è stato breve. Un libro in particolare ha catturato la mia attenzione: L'altra Europa. Per un 'antropologia storica del Mezzogiorno d,Italia, Guida, 1982, i cui capitoli «Lo stereotipo del napoletano e le sue variazioni regionali» e «L'imprenditore» fissano i paletti per ogni storia del pregiudizio antimeridionale, mentre nella postfazione dell'ultima edizione, quella del 2009, c'è tutto quello che bisogna sapere sulle più recenti polemiche culturali relative al meridionalismo.

Ottocento. Famiglia, élites e patrimoni a Napoli, di Paolo Macry, il Mulino, 2002, offre, invece, uno straordinario spaccato della città proprio negli anni dell'incertezza, quelli in cui se ne vanno i Borboone e arrivano i Savoia. E infatti I giochi dell'incertezza si intitola un successivo saggio dello stesso Macry proprio su quel periodo, edito da L'Ancora del Mediterraneo nel 2002. Lungo questo percorso e grazie a questi autori prende forma, anche sul «Corriere del Mezzogiorno», una nuova voce, terza tra quelle del sudismo orgoglioso e del pregiudizio nordista. La definirei del meridionalismo critico. È il contesto in cui sono nati i miei primi due libri:
L'altra metà della storia. Spunti e riflessioni su Napooli da Lauro a Bassolino (2007) e Bassa Italia. L'annimeridionalismo della sinistra meridionale (2009) entrambi editi da Guida.
In tema di orgoglio sudista e di revisionismo meridionalista, le correnti di fondo sono almeno due. La prima è quella di matrice storicolistica, la cui ispirazione più o meno filoborbonica non viene mai celata, che da Carlo Alianello (L'allfiere, La conquista del Sud) o Nicola Zitara (L'unità dltalia. Nascita di una colonia) porta fino a Angeelo Manna, Pino Aprile e Gigi Di Fiore, autore, tra l'altro, di Gli ultimi giorni di Gaeta, Rizzoli, 20 l O, ricostruzione della battaglia finale che «condannò», recita il sottotitolo, «l'Italia all'unità». Revisionista, ma ben più equilibrato nel ripartire i torti dei Borbone e quelli dei Savoia, è invece Il sangue del Sud. Antistoria del Risorgimento e del brigantaggio, di Giordano Bruno Guerri, Mondadori, 2010.
La seconda corrente è invece di matrice storicosociologica e porta, appunto, fino al gruppo di «Meridiana», la cui principale preoccupazione è di frantumare l'idea di un Mezzogiorno inteso come corpo unico per affermare quella di più Mezzogiorni, diversi tra loro. Su questo fronte, come in parte ho già riferito citando Paolo Mieli (Le storie. La storia, Rizzoli, 1999), si ritrovano autori come Piero Bevilacqua, Gabriella Gribaudi, Salvatore Lupo, Marta Petrusewicz, Alberto Mario Banti e Augusto Placanica. Di quest'ultimo c'è un libro a cui sono particolarmente debitore. Ed è Leopardi e il Mezzogiorno del mondo, Avagliano Editore, 1998, dove viene ricostruita passo passo tutta l'iniziale fascinazione leopardiana per il Sud e tutta l'adesione del poeta alla teoria del clima. Di Banti, invece, ho letto con piacere Il Risorgimento italiano, Laterza, 2004, specialmente per l'accento che pone sulle suggestioni ideali e letterarie che portarono all'Italia unita.
A proposito di romanticismo sudista e di modernità ridotta a sinonimo di disumanità, c'è poi, come ho spiegato in queste pagine, Il pensiero meridiano di Franco Cassano, Laterza, 1996. Un saggio che ha influenzato più di quanto si creda una parte della cultura meridionale, specialmente giovanile e di sinistra, da anni in attesa di qualcosa di nuovo sul fronte del meridionalismo. Il pensiero meridiano, basato sulla classicità dell' ozio, sulla lentezza e sulla decrescita economica, è diventato una moda, un atteggiamento, un contraltare all' efficientismo nordista. Per certi versi, Cassano ha anticipato la filosofia de Il grande Lebowski, film del 1998 dei fratelli Coen, il cui protagonista, che vivacchia senza troppi problemi tra una fumata di marijuana e una partita di bowling e levita come in un sogno, ha ispirato una sorta di religione laica, il dudeismo (da Dude, soprannome di ]effrey Lebowski). L'uomo meridionale di Cassano non indossa le camicie hawaiane e i pantaloncini corti, non si trascina tra notti bianche e lunghe bevute, non ha intorno una frenetica Los Angeles e non è votato al disimpegno assoluto, anzi; ma ugualmente disprezza l'arrivismo e l'accumulazione capitalista, lo stress da modernità e la febbre progressista.
Sul fronte del dualismo Nord-Sud, piuttosto che fare un lungo elenco di testi per lo più insistennti sul tema della diseguaglianza economica, prefeerisco indicare due soli saggi che hanno per me una particolare importanza. Parto dal più vecchio, ma non per questo meno stimolante: La questione meridionale di Antonio Renda, Remo Sandron Editore, 1900. È un libro semplice e geniale. L'autore formula cinque domande e poi pubblica tutte le risposte raccolte. Le domande sono le seguenti: «1) Qual è la vostra opinione sul fatto che non tutte le parti che compongono il multiforme e differenziato organismo sociale dell'Italia moderna progredirono di pari passo sul cammino della civiltà del progresso? 2) Se ammettete questo dislivello, credete voi che le cause siano da trovarsi nell'isolamento in cui l'Italia meridionale fu lasciata dal malgoverno spagnolo e borbonico? 3) Quale effetto credete abbia sul Sud la moderna struttura economico-sociale d'Italia? 4) Quali cause hanno influito ad arrestare lo sviluppo dell'Italia meridionale? 5) Quali sono i mezzi che voi giudicate più opportuni per ricondurre l'Italia meridionale al livello della civiltà moderna?».
A leggerle ora vengono le vertigini, tanto sono attuali. E lo stesso vale per una parte delle rispooste. Su altre pesa invece l'ipoteca culturale del lombrosismo. E Cesare Lombroso è infatti il primo a dire la sua. Seguono Lino Ferriani, Achille Loria, Rerum Scriptor (Gaetano Salvemini), Scipio Sigheele, Napoleone Colajanni, Giuseppe Sergi, Ettore Ciccotti e molti altri. Ma di questo ho già riferito in precedenza. L'altro libro, molto più recente, è Le «due Italie». La questione meridionale tra realtà e rappresentazione, di Claudia Petraccone, Laterza, 2005; un testo che per equilibrio ed esposizione è utilissimo a chi voglia entrare nel vivo della storia del meridionalismo e al contempo aggiornarsi.
Un gruppo a parte è invece costituito dai testi dedicati ai temi della razza meridionale e del carattere nazionale. Qui, oltre a Identità italiana, di Ernesto Galli della Loggia, Il Mulino, 1998, di sicuro non si può prescindere da La razza maledetta. Alle origini del pregiudizio antimeridionale, di Vito Teti, manifesto libri, 1993. È una raccolta di testi di Alfredo Niceforo, Napoleone Colajanni, Pasquale Rossi, Ettore Ciccotti, Cesare Lombroso, Gaetano Salvemini, Giuseppe Sergi e Giustino Fortunato. Tutti magistralmente contestualizzati e commentati. Da alcuni commenti, come si è visto, dissento, ma il libro è davvero prezioso. Così come lo è Italianità. La costruzione del carattere nazionale, di Silvana Patriarca, Laterza, 2010. Il perché è presto detto: se, infatti, l'idea del carattere nazionale non è generalmente accettata a livello accademico e gli storici non vi ricorrono in maniera esplicita, poi, di fatto, molte storie vengono raccontate e spiegate proprio a partire da quella premessa negata. Silvana Patriarca si sporca le mani con questa materia e alla fine la sua tesi è convincente: ogni discorso sul carattere tende a lasciare le cose come stanno. Caratterialità e determinismo sono infatti spesso facce della stessa medaglia. Ed è per questo che, approfondendo il discorso, ho trovato di grande beneficio la lettura sia di Sono razzista, ma sto cercando di smettere, di Guido Barbujani e Pietro Cheli, Laterza, 2008; sia di Elogio del senso comune. Rinnovare la democrazia nell'era del relativismo, di Raymond Boudon, Rubbettino, 2008. Suo, a proposito di razzismo, il conncetto di teorie utili ma false; utili a placare l'ansia di conoscenza ma false nella sostanza. Polemico nei confronti dello storicismo e del culturalismo, Boudon, sulla scia di Popper e della sua Società aperta, contesta tutte le teorie che ritengono l'essere umano sottoposto a forze sociali e storiche tali da alterarlo come un metallo sotto l'azione della temperatura e della pressione. «Il contesto sociale» scrive Boudon «fissa le condizioni che si impongono all'individuo, non determina i suoi sentimenti e il suo comportamento. Fissa i limiti della sua autonomia, non l'annulla.» Prendiamo Alessandro Siani (Un napoletano come me, Rizzoli, 20 l O) quando racconta del padre ignorante e della sua giovanile difficoltà a fare bene i compiti.
«Papà, dove si trova la T our Eiffel?»
«Domanda a màmeta, è essa ca leva e cose da mezzo ... »
Povero lui e poveri noi, verrebbe da dire. Eppure Siani ha avuto successo. Nonostante tutto.


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