venerdì 13 gennaio 2012

libro floris separati in patria

SEPARATI IN PATRIA
Giovanni Floris

Introduzione
“Il Sud alla camorra, il Nord alla Lega”: è stato un collega inglese a tratteggiare bruscamente, durante una cena tra giornalisti di diverse nazionalità, quello che a suo modo di vedere, sarà il futuro più o meno prossimo del nostro Paese. L’Italia, secondo lui, sarebbe destinata a spaccarsi a breve, non importa se formalmente o no, e a vedere “splittato” (così diceva nel suo anglo-italiano) il proprio futuro. Da una parte (al Nord) le cliniche private, dall’altra (al Sud) gli ospedali pubblici; da una parte le università dall’altra i potentati baronali; da una parte il mercato, dall’altra lo stato. Da una parte il centrodestra, dall’altra (se recupera) il centrosinistra, altrimenti un centrodestra arcaico, dai tratti un po’ democristiani e un po’ assistenzialisti. Da una (infine) la legge, dall’altra (nella migliore delle ipotesi) il caos.
Naturalmente la cena è terminata con una grande litigata, scatenata dalla reazione piuttosto accesa dei giornalisti meridionali che partecipavano alla tavolata. L’allarmato e allarmante scenario del collega inglese non veniva respinto solo perché tratteggiava un Paese spaccato a metà, ma anche perché prevedeva un’ ineluttabile separazione dei ricchi dai poveri.

Per quanto da un punto di vista formale le quattro categorie poveri-ricchi, Nord-Sud non siano completamente sovrapponibili a due a due (non va l’equazione Nord= ricchi e Sud = poveri, visto che molti sono i poveri che vivono al Nord e molti i ricchi che vivono al Sud), la spaccatura tra Settentrione e Meridione sostanzialmente può (e anzi da un certo punto di vista deve) essere vista come una linea di frattura economica.
PARTE PRIMA
L’Italia non esiste

1. Vite parallele

Da subito in Italia i destini di chi vive al Sud e di chi nasce al Nord si dividono. E’questa la vera secessione.

Più i bambini crescono, più il divario tra Nord e Sud si apre: il gap territoriale insegue gli italiani per tutta la vita. Per quanto riguarda l’assistenza dei comuni, nell’area “famiglia e minori” la spesa pro capite varia dai 36,4 euro del Sud  ai 140, 5 euro del nord-est, con un minimo di 25,7 euro il Calabria e con i valori superiori a 200 euro pro capite  in Valle d’Aosta, Emilia Romagna e nella provincia di Trento.

Tutti i dati raccolti comunque disegnano due Italie, una a Nord e una a Sud. La prima relativamente benestante, la seconda povera. La prima relativamente ricca di opportunità per chi vi nasce, la seconda meno povera.

“Il Mezzogiorno” spiega il professor Paolo Leon, uno degli economisti che meglio conoscono la realtà del nostro paese “è rimasto più chiuso in se stesso, il Nord è riuscito a farsi contaggiare dall’Europa più sviluppata. Il Nord  ha sempre avuto la possibilità, vista anche la sua posizione geografica , di confrontarsi col resto del mondo, mentre il Sud questa chance non l’ha avuta.

Il Sud stimola meno del Nord a crescere intellettualmente. Nel Mezzogiorno i diplomati sono il 44 per cento della popolazione di 25-64 anni (al Centro-Nord il 54,3 per cento), 39 punti in meno della Germania (83, 2 per cento) e 23 in meno della Francia (67,4 per cento).

Nel Nord-Ovest il 49, 9 per cento dei bambini gioca in giardini pubblici, quota che scende al 16,6 per cento tra i piccoli residenti delle isole.

Chi studia prende l’università come un’opportunità per scappare, oppure si trova costretto, per trovare un lavoro, a lasciare casa. Tra il 1995 e il 2005 sono emigrati al Centro-Nord 589.800 giovani meridionali diplomati e laureati. Chi può, appena può, cerca infine di trasferirsi e studiare direttamente al Nord: la scarsa attrattiva degli atenei del Sud è confermata dal fatto che 23, 9 per cento dei 118.318 universitari residenti nel Mezzogiorno si laure al Centro-Nord.

2.Tutti per uno

Abbiamo visto come a pochi chilometri da Roma si erga una frontiera che divide i ricchi dai poveri, i fortunati dai meno fortunati, quelli che hanno tot. Possibilità di farcela da quelli che ne hanno tot meno x. Cambiando visuale, però, notiamo che le differenze non sono poi molte. Consumi, abitudini, moda: gli italiani sono sempre più omogenei nel modo di pensare rispetto al passato, e persino fra i piccoli centri e le città le differenze si attenuano.

Nando Pagnoncelli è il più autorevole esperto del settore: “In effetti l’Italia sembra, o si sente, più divisa di quanto non sia in realtà” spiega, intervistato da Mercedes Vela Cossìo. “Se poniamo la domanda “Quanto si sente orgoglioso di essere italiano”, la maggioranza risponde di sentirsi molto orgogliosa di esserlo, e il dato è sostanzialmente omogeneo tra Nord, Centro e Sud. Allo stesso modo, quando si domanda “Cosa è per lei la patria” il 69,1 per cento degli italiani risponde “l’Italia”, solo il 2,4 per cento “la mia regione””. Anche sull’orgoglio patrio siamo più o meno tutti d’accordo: gli episodi storici che più ci rendono fieri di essere italiani sono, nell’ordine, la Resistenza, il Miracolo economico, il Risorgimento, il Rinascimento e l’Impero romano. La Divina Commedia  è l’opera più unificativa per l’identità culturale del nostro Paese, seguita dai Promessi sposi e (a buona distanza)  dal libro Cuore, Pinocchio e I Malavoglia, Dante, Manzoni, Moravia, Pirandello e Umberto Eco superano tutti gli altri scrittori nell’immaginario degli italiani.

Non esistono poi un solo Nord, un solo Sud, né un grande e unico Centro. Ma l’economia dà il tratto, e la separazione in patria che più spesa è quella Nord-Sud.
Oggi sei italiani su dieci sono convinti che nel nostro Paese sono più le cose che ci dividono rispetto a quelle che ci uniscono, e questo succede perché al Nord e al Sud si hanno problemi molto diversi. In linea generale possiamo dire che il Sud chiede lavoro e il Nord chiede efficienza: il Meridione è tormentato dal problema dell’occupazione, il Nord da quello dei trasporti. E’ facile capire il perché: al Sud si cerca un modo per vivere, al Nord un modo per stare meglio.

La lettura di questi dati ci porta però anche a conclusioni inaspettate: se infatti sappiamo tutti che il Sud è più povero del Nord, scopriamo che al Nord si può permettere di vivere solo chi ha un lavoro, e chi ce l’ha rischia più che al Sud di decadere dalla posizione sociale che occupa, dal momento che il minimo aumento dei prezzi può diventare insopportabile e farlo precipitare giù dalla scala sociale.

Resta il fatto, però, che le differenze nel rapporto tra salario stabilità dal contratto nazionale e costo della vita ci sono. “Di fatto le gabbie salariali, eliminate dalla contrattazione da quasi quattro decenni, sono resuscitate. Ma al contrario. I lavoratori più penalizzati risiedono a Milano e a Bolzano, seguiti dai colleghi di Trieste e Genova. Mentre quelli di Napoli e Campobasso beneficiano di un più basso livello di prezzi.

Spiega il demografo Alessandro Rosina. “Siamo entrati in una nuova fase che dimostra come l’occupazione femminile inneschi un circuito virtuoso, e la conclusione è che c’è un’unica strada per fermare il declino di quella parte del Paese che da centocinquant’anni è il fanalino di coda: avviare politiche che facilitino il lavoro delle donne.” Il che, a cominciare dalla partecipazione politica, è comunque un tema che percorre tutta l’Italia – e l’Europa.

3. Gli anti-italiani
“Abbiamo qualcosa in comune. La prima è l’odio; noi vi odiamo, come meritate, e voi ci odiate. La  seconda è la consapevolezza che l’Italia non esiste, è solo un’espressione geografica. Purtroppo i Savoia hanno fatto quello che hanno fatto, mettendo insieme popoli che non hanno niente a che fare tra di loro, etnicamente, storicamente, linguisticamente…Dovremmo fare tutti la nostra parte, nelle nostre rispettive terre, in un’ottica anti-italiana. Speriamo che questa pagliacciata che dura da centocinquant’anni finisca presto”. Questo è il contributo di un utente che si firma Lanzichenecco su un forum del sito http://www.politicaonline.net/. Il titolo della discussione è “L’Italia non esiste”.
L’Italia non esiste è anche il titolo di un saggio di Sergio Salvi, uno storico studioso di nazionalismi che in buona sintesi dice questo: non c’è ragione perché esista l’Italia. O meglio, non vi è alcuna ragione alla base dell’Italia. La parola Ri-sorgimento implica che qualcosa, in precedenza, fosse sorto, invece, per Salvi, così non è, perché dal suo punto di vista non abbiamo mai parlato la stessa lingua, siamo sempre stati separati da imponenti confini geografici naturali, proveniamo da ceppi etnici differenti. Mazzini, Garibaldi e Cavour avrebbero insomma preso un granchio.
“Se l’Italia non esiste” controbatte Stefano Tomassini “tantomeno esistono la Francia, la Germania, la Spagna e la Gran Bretagna. Sono tutte storicamente divise da origini etniche diverse, basta pensare ai catalani e ai baschi in Spagna, agli occitani, ai corsi, ai baroni e agli alsaziani in Francia.

Gli anti-italiani sottolineavano poi che in realtà non abbiamo mai parlato la stessa lingua: considerando come stabilizzata la situazione ottocentesca, gli studiosi (e non solo quelli militanti) sottolineano che eravamo divisi in cinque principali bacini linguistici: padano, friulano, toscano, meridionale e sardo. Tullio De Mauro ha calcolato che nel 1861 su 22 milioni di abitanti solo 600.000 persone parlavano italiano, e due terzi di questi vivevano in Toscana.

Per cui, alla domanda Esiste l’Italia? Possiamo controbattere: esiste la Germania? E la Florida? E il Tibet?

Sono nato a Roma, e mi sento romano. Mio padre però è sardo, e mi sento anche sardo, nuorese per di più. D’altronte mia madre è romana, ma i miei nonni materni erano toscani e per questo motivo mi sono voluto sposare a Cosenza.

4. Che cosa fa chi dovrebbe fare l’Italia?

Tra i simboli che ancora reggono c’è, nonostante le frequenti spallate che è costretta a subire, la Costituzione italiana. Ogni volta che se ne parla sembra di dover rendere omaggio a qualcosa di intangibile e sacro, un reperto millenario cui si deve portare il rispetto dovuto agli anziani. Non è così: la forza della Costituzione italiana non è ( o almeno non è solo) nella sua tradizione, ma anche, e forse soprattutto, nella sua fresca modernità.
“Alla fine della Seconda guerra mondiale” racconta Carla Bassu, giovane costituzionalista dell’Università di Sassari “l’Italia è un Paese, molto giovane, e inoltre frammentato, diviso, indebolito e reso povero dal conflitto. La Costituzione viene siglata quando l’Italia è un Paese ancora non unito, ma che all’unità aspira. La precedente carta fondamentale, lo Statuto Albertino, era un codice  concesso dal re al popolo, rispecchiava un’unità solo formale, era la cornice di un Paese a diverse velocità, aggregazione forzata di diverse realtà. Nella costituzione invece c’è una forza nuova: la Carta ci dice che l’Italia è una e indivisibile, ma che allo stesso tempo riconosce le autonomie locali. L’Italia dei Costituenti insomma è una, ma è fatta della somma delle differenze.
Facciamo il punto, allora: durante il pericolo fascista il concetto di patria si era basato sulla cancellazione delle diversità. Tutta l’Italia era Roma, tutta l’Italia era fascista, di fatto era stata negata qualunque diversità locale. La Carta costituzionale ribalta il ragionamento; ribadisce il concetto di patria, ma garantisce che il cittadino possa esprimere la propria individualità e la propria identità territoriale. Un solo Paese, ma tante differenze. Dall’essere italiani e romani si passa all’essere italiani e sardi, italiani e siciliani, italiani e lombardi. Come dall’essere fascisti si passa a essere democristiani, socialisti, comunisti, liberali.
L’assemblea costituente fu un momento di alto compromesso tra diversi, che riuscirono a concordare punti comuni per cui ognuno, per quanto differente dagli altri, potesse, in Italia sentirsi un po’ a casa sua. Ci riuscirono rinunciando ognuno alla parte più radicale di se stesso. Le diverse Italie, insomma, nella Costituzione sono presenti e non vengono negate, anzi: tutte insieme diventano lo spirito di nazionalità.

Vi propongo un gioco che chiameremo “indovina dov’è nato?”, e si fa indicando il luogo di nascita di chi conta in Italia. Partiamo dall’economia, e iniziamo dai più terroni, i romani Fulvio Conti, amministratore delegato dell’Enel, e Innocenzo Cipolletta, presidente Fs. Fatti i loro nomi, dimenticate metà stivale: Paolo Scaroni, Eni, è nato a Vicenza; Pier Francesco Guarguaglini, Finmeccanica, in provincia di Livorno; l’amministratore delegato delle Ferrovie dello Stato, Mauro Moretti, è di Rimini; il presidente di Autostrade per l’Italia, Gian Maria Gros-Pietro, è torinese; il numero uno delle Poste, Massimo Sarmi, è nato sul Lago di Garda; Paolo Garimberti, presidente Rai, è di La Spezia; Lorenzo Pellicioli (Lottomatica) è della provincia di Bergamo.
Potremmo proseguire, ma passiamo ai banchieri, e sempre diamo spazio ai primi ai più meridionali: Cesare Geronzi, nato ai Castelli Romani, e Luigi Abete, nato alla capitale. Abbiamo poi Alessandro Profumo, nato a Genova; Corrado Passera, Como; Matteo Arpe, Milano; Giovanni Bazoli, Brescia. Volete sapere degli imprenditori? Emma Marcegaglia, mantovana, presidente di Confindustria, ha 11 vice; Zegna è di Torino, Trevisani di Cesena, Rocca di Milano, Morandini di Udine, Moltrasio di Bergamo, Guidi di Modena, Garrone di Genova, Bombassei di Vicenza, Bonomi di Brescia, Costato di Roma e Coppola (udite udite!) di Napoli.
Il sindacato si spinge più giù di tutti: Epifani è romano, Bonanni è abruzzese, Angeletti è nato a Rieti.

Presentando il rapporto sulla classe dirigente italiana, Danilo Taino spiegava che i nostri leader  hanno come capitali solo Roma e Milano. Il rapporto sulle èlite italiane metteva infatti in luce che il “30 per cento di queste vive ineffetti nella capitale, ance se solo il 13,6 per cento è nato nel Lazio. Roma, dunque, è il luogo per eccellenza del potere italiano, con una forte capacità di attrazione della classe dirigente da tutte le altre regioni.

E’ insomma l’Italia delle piccole imprese diffuse nella provincia che fatica a rappresentarsi nella classe dirigente e a salire ai piani alti del potere, e lascia così spazio all’accademia, agli avvocati, ai medici, ai politici.

Le ultime elezioni, quelle del 2008 (il dato delle politiche è ai fini del nostro discorso più utile anche se sono più recenti le elezioni europee e amministrative, e spiegheremo a breve il perché), ci hanno detto che il paese non è diviso in due, ma in tre in realtà : il Nord è della Lega e del centrodestra, il Sud del centrodestra e di alcune formazioni territoriali minori (Udc, Movimento per le autonomie), il centro è del centrosinistra.

Il Pd, come già abbiamo visto, ha invece grosse difficoltà a capire i bisogni del Nord, la sua realtà, e non riesce a rappresentare  pienamente questa fetta del paese. Il centrosinistra, secondo il presidente dell’Ipsos, “non è riuscito negli ultimi tempi a mettere in mostra  o valorizzare i tanti suoi politici che al Nord sono benvoluti e fanno anche un lavoro di qualità, come Chiamparino, la bresso, Penati. Gente molto capace che però non riesce ad arrivare al livello nazionale. Eppure la classe dirigente del Pd al Nord, a differenza di quella del Pdl, nasce da una scuola di professione politica: si pensi a Maurizio Martina, trent’anni, oggi responsabile del Pd in Lombardia, che a soli quindici anni aveva cominciato a fare politica nel Comune.

Non è il fine del nostro lavoro spiegare come il centrosinistra abbia perso il Nord, ci basta qui sottolineare il dato su cui sembrano concordare gli analisti più esperti: probabilmente ha fatto  fatica a interpretare i cambiamenti degli ultimi trent’anni, ha tardato a uscire dallo schema fabbrica-padrone per sintonizzarsi sul mondo delle micro-partite Iva, dei piccoli imprenditori.

E’ il momento però di chiedersi se esista ancora per la politica il problema di dar voce alle istanze del Sud. Se per anni ci si è interrogati infatti sulla questione meridionale, è ormai un bel po’ di tempo che è la questione settentrionale ad assorbire mente e cuore della politica italiana. E’ il Sud è scomparso : dalla tv, dagli articoli di giornale, dalla stanza dei bottoni.

Esistono politici che si definiscono “politici del Sud”, e questo è probabilmente il simbolo del fallimento della politica meridionale. Che caratteristiche ha un politico del Sud? Forse quella di rappresentare i problemi della sua gente? Ma questa è (o dovrebbe essere) la caratteristica del politico tout court. Secondo la costituzionalista Anna Chimenti, in realtà “non ci sono più leader nazionali che provengano dalle città del Sud. Chi ha preso il posto di Moro, Reale, Mancini, Amendola, Gullo, Di Vittorio e persino dei Colombo, Misasi, Mattarella, Formica?

Secondo Ernesto Galli della Loggia il problema del Mezzogiorno è che “per decenni le sue classi dirigenti hanno tratto proprio dalla centralità ideologico-culturale della questione meridionale l’essenza del proprio profilo e del proprio ruolo politico sulla scena nazionale. Mentre la lotta per ottenere le conseguenti erogazioni di fondi e i modi di spenderli hanno definito in modo decisivo il cuore della loro funzione, nonché il trait d’union, tra il loro ruolo locale e quello romano.
In pratica sarebbe stata la classe dirigente meridionale a suicidarsi: convinta che il proprio ruolo si esaurisse  nel procacciare denaro da difondere nelle terre di competenza, ha visto dissolvere la propria identità nel momento in cui lo Stato centrale ha deciso di chiudere la cassa, e quando il Paese ha compreso che i soldi che andavano al Sud scomparivano per mille rivoli, non tutti legali. “Le sue classi dirigenti” conclude Galli Della Loggia “avrebbero dovuto capire che, finita la “questione meridionale”, restava loro forse una sola via per continuare a svolgere un ruolo realmente nazionale: e cioè prendere con forza la guida di una grande battaglia per la legge e l’ordine. Ma era difficile trovare qualcuno con il coraggio per una simile scommessa; e infatti non si è trovato”.
Il politico del Sud, insomma, avrebbe legato il proprio destino a un metodo e a un obiettivo, alla soluzione cioè (attraverso i finanziamenti dello Stato centrale) della questione meridionale: rimasta irrisolta quest’ultima, il ceto politico del Sud è semplicemente “scaduto”, come una medicina vecchia, e in quanto tale è stato gettato via.

In questo quadro il politico del Sud si trasforma quindi in una sorta di professionista del precario, esperto in scorciatoie e nella gestione dell’immediato: si cercano soluzioni qui e adesso, non si pensa più alla trasformazione, all’emancipazione e alla modernizzazione del territorio.

E se il Mezzogiorno soffre non può che essere, in qualche misura, anche a causa di una classe dirigente che non riesce a risolver i problemi.

Se basandoci sulle analisi che abbiamo appena visto ci domandiamo “chi comanda oggi in Italia?”, la risposta è secca: in Italia, oggi, comanda il Nord. Votato anche dal Sud, ma comanda il Nord. Nel momento specifico in cui questo libro va in stampa, quella che qualche autonomista incallito definirebbe l’egemonia è evidente: il presidente del Consiglio, il ministro dell’Economia, il ministro del Welfare, della Pubblica istruzione, degli Interni, della Funzione pubblica, delle Attività produttive, delle Riforme (solo per indicare i principali) sono tutti uomini del Nord, esponenti della politica del Nord, della cultura del Nord, del linguaggio del Nord, della mentalità del Nord. Difficile dire se il Settentrione si è trovato a guidare (politicamente) il Paese perché la classe politica del Sud si è “suicidata” o perché ha perso una qualsiasi visione trainante in grado di coinvolgere la collettività, ma di certo sembra che negli ultimi tempi siano al comando coalizioni e uomini a forte tratto settentrionale, caratterizzando (vedremo in seguito) anche le linee della politica economica.

Il punto sembra piuttosto essere che gli italiani hanno problemi diversi che li portano a condurre vite diverse, ma hanno più o meno lo stesso approccio al voto: sono pragmatici, premiano il rapporto personale tra il candidato e il territorio, ascoltano con disincanto i propositi  generale, apprezzano gli atteggiamenti fattivi e il linguaggio diretto, giudicano dai risultati ottenuti.

Non è però neanche da considerare un male tout court, perché potrebbe trattarsi di una sana e conveniente cura dimagrante di un certo modo di far politica, verboso e intellettualistico, ideologico e inconcludente, che ha tradizionalmente caratterizzato parte della rappresentanza italiana.

Opposto naturalmente il discorso che riguarda la Lega Nord, molto forte sul territorio, tanto da dettare spesso i candidati anche al Popolo della libertà. Il rapporto con il territorio premia in particolar modo nelle elezioni amministrative, se si pensa che la Lega sta crescendo nel Lazio, in Toscana, persino in Emilia-Romagna.

In conclusione: più il mondo si avvicina al singolo italiano, più il singolo italiano è attento; più la questione è personale, più noi italiani ci concentriamo, e cerchiamo di non sbagliare.
Più la scelta riguarda il particolare, più la sentiamo nostra.

5.Punti di vista
Il Nord, il Sud, i calabresi, le siciliane, i torinesi, i genovesi, le baresi: macro-categorie che lungi dall’essere grografiche sono ormai stereotipi, categorie antropologiche con le quali ci troviamo a fare i conti. “Essere del Nord” o “essere milanesi” vuol dire nel senso comune avere determinati atteggiamenti, modi di pensare, linguaggi e logiche; così “essere del Sud”, o “essere romani”.

Secondo il Rapporto 2008 sulla qualità della vita, in assoluto Siena è la città in cui si vive meglio in Italia e Agrigento quella in cui si vive peggio; ma anche questi risultati sono estramemte volatili se è vero che Bologna, ad esempio, era la quarta città d’Italia nel 2007 e a un anno di distanza si è trovata a essere la ventunesima.

Certo non si può non notare che, quale che sia il parametro adottato, nessun sociologo riesce a stilare una classifica per cui sia meglio vivere in una città del Sud piuttosto che in una del Nord (naturalmente se si escludono gli spazi nuoresi!).

PARTE SECONDA
Di sprechi e di altre polemiche

1. I pubblici dipendenti
Il pubblico dipendente, agli occhi degli italiani che dipendenti pubblici non sono, rappresenta più di ogni altro la quinta essenza del fannullone. Tutti i dipendenti pubblici sono fannulloni, tutti i dipendenti pubblici sono romani, tutti i romani sono fannulloni. E se non sono romani sono meridionali.

In realtà, al di là dei luoghi comuni del Nordista lavoratore indefesso e del Sudista fannullone incallito, possiamo dire che la cesura tra Settentrione e Meridione è sempre la stessa, ed è di tipo economico. Dove esistono datori di lavoro privati si ha una diversa cultura dell’impiego, dove esiste solo il lavoro pubblico si corre il rischio comune a tutta la pubblica amministrazione: scarsa efficienza e mancato coinvolgimento del dipendente nella missione dell’ente. Al Nord le imprese, al Sud i ministeri, ed ecco scoperto l’arcano.

Spalmata sul territorio nazionale, la compagine dei dipendenti pubblici dimostra “addensamenti” diversi al Sud, dove lavorano 4,2 addetti ogni 1000 abitanti, rispetto al Nord, dove il rapporto è di 2,6 a 1000. La disparità negli organici risulta accentuata se si guarda ai dirigenti delle Regioni – escludendo i dirigenti delle agenzie e aziende regionali – un esercito di 7055 professionisti. Di questi manager della cosa pubblica, la sola Sicilia ne impiega 2528, il 36 per cento del totale. Se il paragone con la realtà siciliana può essere improprio – è regione a statuto speciale – il confronto tra gli organici delle Regioni ordinarie esplode se raffrontato alla popolazione delle singole aree: la Lombardia impiega 3 dirigenti ogni 100.000 abitanti, mentre il Molise 27. Ancor più significativo il confronto tra due regioni con popolazioni simili: con poco più di 5 milioni di abitanti, la Campania impiega 10,3 dirigenti ogni 100.000 abitanti, mentre il Veneto, a fronte di 4 milioni e mezzo di cittadini, ha un rapporto di 5 a 100.000. Mediamente i dirigenti delle Regioni guadagnano 86.199 euro; ma, di nuovo, parlare di medie è poco esplicativo. Anche qui l’assioma “Nord ricco, Sud povero” viene meno: nonostante un costo della vita sensibilmente inferiore, nel Meridione la paga dei manager regionali è di 92.909 euro lordi l’anno, cifra che al Nord scende a 84.888”.

Quando si parla di lavoro pubblico, insomma, Nord e Sud si scambiano i ruoli: su ce n’è poco, giù ce n’è tanto. E allora, prima di dire che al Sud si lavora poco bisognerebbe forse mettere alla prova i meridionali, e provare a farli lavorare per qualcuno che non sia lo Stato.

2. Il Paese delle mancate opportunità
Ma gli italiani sono davvero allergici alle regole? Quello che ci vuole anarchici di natura, un po’ mariuoli ma geniali, creativi e irrequieti è uno stereotipo falso o ha una base di verità?

Se ci rifacciamo alle statistiche che misurano anche il tasso di sicurezza dei diversi comuni, scopriamo che, così scrive il “Corriere della sera”, l’elevato numero di rapine e truffe fa di Bologna “la città meno sicura d’Italia. Mentre Genova conta il maggior numero di borseggi, Modena e Savona hanno il primato dei furti d’auto e in appartamento, a Napoli si concentrano le rapine, a Isernia le truffe, a Crotone gli omicidi, e sempre a Bologna le violenze sessuali su maggiori di 14 anni (Rimini ha il primato negativo per i minori sui 14 anni).

Di certo la vicenda dei rifiuti a Napoli ha insegnato molto a tutti. Sono convinto che il merito della soluzione del problema spetti tanto al governo Prodi quanto al governo Berlusconi, visto che entrambi, nel periodo di loro competenza, hanno posto le basi perché si uscisse da una situazione drammatica.

Ha ragione allora Paolo Leon quando dice che “il Sud d’Italia vive pensando di essere sfruttato. Non guarda più a quello che ha e alle sue potenzialità, ma a quello che dovrebbe avere e che qualcuno non gli sta dando. Questa rivendicazione è strutturale ed è la causa principale del fatto che nel Mezzogiorno la legalità – intesa non come criminalità organizzata, ma come lavoro nero ed evasione fiscale – sia così diffusa. Tanto più la gente del Sud sente forte questa rivendicazione, tanto più non rispetta le regole imposte. Non rispettare le regole diventa quasi un diritto, un modo per pareggiare i conti. E che Stato è quello che non garantisce livelli di legalità uguali per tutti?”.
E che Stato sia quello a sud di Roma lo si capisce analizzando le condizioni in cui opera proprio il potere che dovrebbe giudicare sul rispetto delle regole, la Magistratura.
Secondo una ricerca del dipartimento di Studi del lavoro e del Welfare dell’Università Statale di Milano citata sul “Corriere” da Piero Ostellino, “un procedimento civile di primo grado può durare due anni al Nord; due e mezzo al Centro; tre al Sud. Si passa da 500 giorni di Trento a 1435 di Messina. In Appello, da 349 giorni a Bolzano a 2185 di Reggio Calabria. Nelle controversie di lavoro, al Nord, si arriva a una decisione di primo grado intorno a un anno; al Centro in poco meno di due; al Sud in quasi tre. In secondo grado, 106 giorni a Trento, 1200 a Napoli”.

E’ la collettività, è lo Stato che deve accendere le luci; molte volte l’individuo non ha altra soluzione che quella di arrangiarsi al buio.

Al Sud un lavoratore su cinque è irregolare, una percentuale doppia rispetto alle aree del Centro e del Nord Italia. Secondo Bankitalia “nei settori delle costruzioni, dell’agricoltura e nei servizi di assistenza alle famiglie (colf e badanti), al Sud, almeno un lavoratore su cinque è in nero, con punte record in Sicilia. Stando agli ultimi dati disponibili, fra i lavoratori occupati nell’agricoltura siciliana il tasso di irregolari ha superato il 40 per cento, nelle costruzioni il 34 per cento, mentre nell’industria e nei servizi si attesta intorno al 20 per cento.

Questa è quella che gli economisti chiamano “flessibilità forzata”, e questo spiega perché non è dalla flessibilità ci si può attendere un aumento dell’occupazione nel Mezzogiorno: il lavoro, al Sud, è già flessibilissimo. Le leggi possono aiutare a regolamentare il lavoro che in regola non è, non a creare nuovo lavoro.

3L’Unità che non vorremmo

La mafia unisce l’Italia o per meglio dire ha imparato a utilizzare l’Italia unita: la criminalità organizzata raccoglie denaro al Sud e lo porta al Nord, dove lo “lava” e lo rimette in circolazione. Per tenere insieme Sud e Nord, produzione e finanza, le mafie trovano aiuto e complicità in quelli che lo storico Enzo Ciconte, definisce “uomini-cerniera”, gente che recita due parti nella commedia: il mafioso e il finanziere. Gli uomini cerniera tengono rapporti da un lato con le famiglie di origine, dall’altro con il mondo economico e finanziario, aiutando la criminalità a reinvestire i capitali illeciti nelle regioni più ricche; uniscono in questo modo due mondi altrimenti separati: quello delle famiglie criminali e quello dell’alta finanza, il Nord e il Sud. La mafia al Nord si presenta quindi come un’entità sfuggente, quasi invisibile, proiettata verso operazioni finanziarie e non verso truculente faide a cielo aperto.

Le mafie hanno sempre più interesse ad aprire negozi e centri commerciali, ad acquistare immobili, ad avviare attività commerciali e imprese. Parliamo anche di semplici pizzerie e ristoranti, usati non per trarre profitto quanto piuttosto per riciclare i soldi provenienti dalle attività illecite.

Alla mafia interessano le ricevute e non il ristorante, gli scontrini e non i supermercati: i registratori di cassa emettono ricevute a raffica, ed ecco giustificato un introito che altrimenti non avrebbe ragion d’essere.
Le mafie acquistano attività commerciali usando i contanti, ma, attraverso il meccanismo dell’usura che strozza il commerciante, riescono anche a costringere imprenditori in bolletta a cedere l’attività.

“Le mafie al nord ci sono”, spiega a Giulio Valesini Alberto Cisterna, magistrato della direzione nazionale antimafia “solo che mostrano un’altra faccia rispetto a quella feroce che hanno al Sud. I mafiosi conoscono l’uomo, l’essere umano, come pochi altri, e hanno una grande capacità di mimetizzazione sociale: questo li rende fortissimi. E’ come se avessero una maschera. La stessa persona che a Reggio ti taglia la gola a Torino ti cede il passo e ti offre una cena.
La mafia, la camorra, la ‘ndrangheta non sono solo un problema meridionale: visto che gli affari, per la criminalità organizzata, vanno a gonfie vele, non si poteva immaginare che si accontantessero di circoscriverli al Sud.
La relazione della Commissione parlamentare nazionale antimafia del 2008,  presieduta da Francesco Forgione, racconta di una penetrazione capillare della ‘ndrangheta calabrese nel cuore nel mondo economico e finanziario del Paese, spiegando che “Milano e la Lombardia rappresentano la metafora della ramificazione molecolare della ‘ndrangheta in tutto il Nord, dalle coste adriatiche della Romagna ai litorali del Lazio e della Liguria, dal cuore verde dell’Umbria alle valli del Piemonte e della Valle D’Aosta.
Alberto Cisterna racconta: “Ormai si inizia l’indagine su un imprenditore in odore di mafia nel Mezzogiorno e si arriva a società srl o spa che svolgono la loro attività imprenditoriale nelle regioni settentrionali.

E’ diffuso ovunque un potere economico che si snoda in decine di attività apparentemente legali, come la gestione di bar, ristoranti, sale da gioco, che funzionano in realtà come coperture, come centri di riciclaggio, vere lavatrici per rimettere in circolo i soldi che il più delle volte provengono dal core business,la droga.

Così il nord sconta una sorta di colonizzazione, e un capitolo della relazione della commissione Forgione porta proprio questo titolo: “Colonizzazioni”: “A Milano e in Lombardia, più che altrove” troviamo scritto “l’aggressione al cuore economico delle mafie deve rappresentare la vera sfida.” La Lombardia è la quarta regione per confische, dopo la Sicilia, Calabria e Campania, con oltre 5000 beni passati allo Stato. Eppure c’è ancora chi ha difficoltà ad ammettere la presenza della mafia al Nord. “Se ne parli imbratti il nome della città, ma le mafie sono un problema che unisce il Paese” conclude Ciconte. Non un fenomeno che lo divide.

“Se tu devi nascondere un ago per non farlo trovare, dove lo metti?” si domanda il magistrato Cisterna. “Nel pagliaio, è ovvio. L’ago sono i soldi della mafia, il pagliaio sono i soldi degli Italiani, che sono tutti al Nord.”Ecco perché la mafia si sposta lì, dove può immettere la propria liquidità, i milioni di euro frutto di traffici della droga, dell’usura, del racket, senza dare nell’occhio.

Cisterna spiega così il fenomeno: “Si acquistano questi locali sempre alla fine di riciclare il denaro sporco frutto di altre attività illecite, magari anche approfittando della crisi economica e di liquidità che sta colpendo i commercianti in questi mesi. Perché la mafia può avere interesse ad acquistare un ristorante in vista, e quindi a rischio, in pieno centro a Roma? Perché in quel ristorante puoi trovare il politico, l’imprenditore e il giornalista, e diventa il luogo dove si possono stringere relazioni e conoscenze”
Insomma, siccome da questo punto di vista l’Italia è una sola, la mafia è (ovviamente) anche nella capitale. Nel Lazio sono presente almeno 60 cosche.

Per un’unità da fare, insomma, ce n’è una da disfare. L’Italia è una sola nazione per chi la voglia considerare un Far West del malaffare: sulla pelle dei meridionali si raccoglie il denaro, sulla pelle dei settentrionali lo si lava, sulla pelle di tutti noi lo si reinveste. La mafia applica un prelievo forzoso nell’economia meridionale, incidendo in maniera determinante sull’impoverimento generale del Sud, mentre al Nord finanzia una concorrenza sleale che danneggia imprenditori e commercianti; così facendo condiziona pesantemente l’intero sviluppo dell’economia nazionale. Le organizzazioni criminali sostanzialmente hanno de localizzato il riciclaggio, lasciando in sede il settore produttivo.

4. L’Italia di Penelope.

Visitare Pompei vuol dire scoprire cosa l’Italia intenda per turismo. I pulmann di visitatori sono costretti a fermarsi in parcheggi distanti centinaia di metri dagli scavi; questi ultimi, inoltre, oltre a essere raggiungibili solo a piedi quali che siano le condizioni metereologi che, sono visitabili solo in parte. All’ingresso, i turisti in visita che si sono rivolti a Ballarò hanno incontrato diversi cani sdraiati al sole, e all’interno del circuito  si sono poi imbattuti in randaggi in cerca di cibo.
Musei chiusi, aree circoscritte, zone pericolanti, praticamente metà Pompei è off limits, senza considerare che il tour tra le rovine si snoda tra percorsi accidentati, buche e massi da scavalcare, e che, prima di entrare nel sito, bisogna fare rifornimento di acqua e viveri come se si partisse per il deserto, visto che centri di ristoro all’interno non ce ne sono.

Il turismo è oggi la ricchezza del Nord, non del Sud Italia.

“Dei circa 240 milioni di turisti internazionali che hanno visitato il Mediterraneo” recita il rapporto Svimez “solo il 2,6 per cento si è recato nel Mezzogiorno. Si può affermare quindi che il Mezzogiorno è l’area meno turisticizzata d’Italia, cioè l’area meno capace di attrarre visitatori dall’esterno.”Possibile che i tedeschi, giapponesi e americani non riescano ad apprezzare le bellezze del Sud?

Al Sud naturalmente la rete a binario semplice non elettrificato supera quella a binario doppio elettrificato, mentre al Nord succede il contrario. I collegamenti di Abruzzo, Molise, Basilicata, Calabria, Sicilia e Sardegna sono considerati i più arretrati del Paese.

In Italia poi la rete autostrade è pari a 3000 mila chilometri, in Francia a 8233 chilometri e in Spagna a 9804 chilometri. Le infrastrutture per le grandi percorrenze in autostrada dagli anni Settanta a oggi indicano una crescita della rete del 67 per cento, ma negli stessi anni la rete europea è cresciuta in chilometri di autostrada del 231 per cento.

“Da questa angolazione” spiega Galdieri “non c’è dubbio che esistono due società: quella del Sud, ancora arretrata nell’uso delle tecnologie, e quella del Nord, perfettamente in linea con gli standard del resto d’Europa.” Digital divide è il termine tecnico con cui si indica la disuguaglianza nell’accesso e nell’utilizzo delle tecnologie della società dell’informazione e della comunicazione. “Divario e disuguaglianza digitale” continua Galdieri “significano in sostanza difficoltà  di alcune categorie sociali o di interi Paesi nell’usufruire di tecnologie che utilizzano una codifica dei dati di tipo digitale rispetto alla codifica analogica.

Fare, disfare e ricominciare, proprio quello che succede per le opere pubbliche e i progetti italiani, in particolare quelli destinati al Sud; i progetti che iniziano e che non terminano, soldi investiti che vanno perduti, un processo interminato e interminabile che se da solo non può spiegare l’arretratezza del Mezzogiorno, di certo può però spingere il Sud a una tormentata rassegnazione.

Un esempio? Il Ponte sullo Stretto.
E’ difficile maturare un opinione sul ponte, sono in tanti a non riuscire a decidere se sono favorevoli o contrari. A me, ad esempio, quando se ne parla l’idea piace, ma quando scopro che per andare da Palermo a Catania in treno ci vogliono 5 ore mi sembra che il ponte sia l’ultima cosa a cui pensare.

“Il Ponte sullo stretto di Messina è l’esempio più alto della non capacità decisionale della classe politica italiana” scriveva nell’aprile del 2008 il Wall Street Journal. La realizzazione dell’opera, prevista non prima del 2016, richiede a oggi un fabbisogno finanziario stimato di 6 miliardi di euro compresi gli oneri finanziari, somma da reperire in parte sul mercato in project financing con la partecipazione di operatori privati.

C’è però un paradosso finale, ed è questo: sapere chi ha avuto maggior vantaggio dai tagli Ici? Secondo i conti fatti dallo Svimez, il beneficio per ogni famiglia del Sud sarà di 135 euro, contro i 236 del Centro e 166 al Nord. Le risorse che dovevano aiutare il Mezzogiorno sono finite al Centro-Nord, è visto che l’Ici per le fasce basse l’aveva abolita già il governo Prodi, le risorse che dovevano aiutare le aree più povere sono finite alle famiglie più ricche.
Niente male come risultato.

“Oggi ho firmato il decreto che fa ripartire il processo per una Banca del Mezzogiorno”. Così il ministro dell’economia Giulio Tremonti il  27 febbraio del 2009 ha rilanciato per l’ennesima volta la leggendaria Banca del Mezzogiorno. Il rilancio è stato fatto naturalmente al congresso del Movimento per le autonomie del Sud, la formazione politica che capo al governatore siciliano Raffaele Lombardo. “Le banche sono al Sud per portare via soldi” spiegava Tremonti ai leghisti del Meridione. “Non è possibile che il Mezzogiorno non flusso di denaro che va da Sud a Nord e non viceversa.”
La Banca del Mezzogiornoè uno dei grandi miti italiani, un leggendario istituto della cui utilità si discute da anni, un istituto che, a detta dei suoi sostenitori, dovrebbe dedicarsi esclusivamente a prestare denaro agli imprenditori meridionali.

Secondo Unioncamere, il tasso medio in Italia per i prestiti concessi a breve termine è del 6,43 per cento, ma mentre la città del Centro-Nord possono beneficiare di tassi intorno al 5 per cento, le città del Sud arrivano a pagare prestiti a breve termine con tassi fino al 9 per cento.

L’idea di una banca che favorisca l’accesso al credito per le imprese meridionali circola da almeno vent’anni, e sembra che il primo a portarla avanti sia stato, negli anni Ottanta, Franco Nobili, all’epoca presidente dell’Iri. Dopo tanto discuterne, però, nel 2005 la banca sembrò sul punto di nascere, perché (anche allora) la sua istituzione era tema di una norma Finanziaria, e quindi già era stata istituita per legge. Era tutto pronto, era stato anche registrato il comitato promotore, formato da 29 persone. A Napoli, nel marzo del 2000, fu presentata al pubblico: il  presidente onorario era il principe Carlo di Borbone delle due Sicilie (erede della famiglia reale che cercò di fermare i Savoia e Garibaldi), vicepresidente onorario era invece il principe Lillio Sforza Ruspoli, nobiltà papalina, storico latifondista, candidato a varie elezioni prima sotto le insegne della Lega Nord, successivamente sotto quelle della destra estrema.

A luglio 2008, il governatore di Bankitalia Mario Draghi si è mostrato cauto verso l’iniziativa: “L’importante è evitare i disastri del passato” ha detto, e non è sembrato proprio un incoraggiamento.

Nel decreto anticrisi del governo approvato nel gennaio 2009 veniva disegnata anche la nuova versione della Cassa depositi e prestiti.

Il punto è: la Cassa si finanzia soprattutto con il deposito dei risparmiatori privati, affidato appunto alla raccolta postale: sono circa 100 miliardi di euro da gestire, e indovinare un po’ da dove arrivano? Dal Sud, o meglio dai risparmiatori meridionali, che più dei loro concittadini settentrionali sono soliti utilizzare i libretti postali.

Ma quanti sono i soldi che da Sud vanno a Nord? Difficile dirlo. Si può sostenere che  il Settentrione tragga ricchezza dal Meridione perché è li che si rifornisce di manodopera e perché le grandi banche nazionali raccolgono il risparmio anche al Sud, ma al Sud poi non lo reinvestono.

D’altronde il Sud pagherà ugualmente la crisi: la pagherà sul turismo, sull’agricoltura, sui lavori pubblici, se, come è probabile, diminuiranno gli investimenti dello Stato. Soprattutto poi scoprirà che cosa vuol dire non avere imprese: vuol dire che se arriva la crisi delle imprese, non hai nemmeno un titolo per chiedere aiuto. Pur semplificando, si può dire infatti che ogni contributo deciso dalla politica andrà sostanzialmente a sostenere il Nord: aiuti le imprese? Le trovi a Nord. Dai un impulso ai consumi e aumenti il reddito disponibile delle famiglie? Se ne giovano le imprese, e quindi il Settentrione. Se poi si considera che molti di questi sostegni verranno finanziati con i fondi per le aree più deboli che le regioni meridionali non riescono a utilizzare, ci troviamo di nuovo a vedere nuotare il denaro controcorrente. Come i salmoni, i soldi in Italia risalgono talvolta il fiume.

5. Il piatto del Nord
Il fisco italiano è ingiusto. E’ ingiusto per tanti motivi, ma anche perché ci sono Regioni che ricevono dalle casse dello Stato molto più di quello che versano. Attenzione però, perché non stiamo parlando delle regioni meridionali (che del denaro in più hanno bisogno), ma di quelle settentrionali a statuto speciale, che pur essendo ricche ottengono più risorse di quante ne ottengano quelle povere.
Prima di affrontare però il vero scandalo della fiscalità italiana, dobbiamo confrontarci con il fatto che gli italiani si sono ormai convinti che il fisco sia ingiusto, si, ma soprattutto perché foraggerebbe gli sprechi e le inefficienze del Meridione con i soldi del Nord.
La sanità è forse il caso più lampante. La spesa sanitaria è gestita dalle Regioni, ma i soldi vengono dallo Stato, con un fondo sanitario nazionale che distribuisce risorse a ciascuna Regione. Circa il 30-35 per cento della spesa sanitaria proviene dall’Irap, e quindi gran parte proviene dall’Irap del Nord e del Lazio, le aree  con più aziende.

Quel che è sicuro è che la differenza nella qualità tra i servizi sanitari di Nord e Sud non è data dai soldi che si spendono: le differenze (minime) di spesa pro capite non giustificano il baratro che divide le prestazioni settentrionali da quelle meridionali.

Va innanzitutto detto che molte Regioni negli anni si sono pesantemente indebitate e di conseguenza parte della spesa è ora destinata a coprire i debiti e non a curare i cittadini. Circa il 40 per cento delle uscite viene poi assorbito dal personale, una voce su cui difficilmente si può risparmiare, come la spesa di tutta la pubblica amministrazione.

La Calabria, a fronte di una capacità fiscale pro capite di 183 euro (Irap e addizionale Irpef) presenta una spesa sanitaria di 1581 euro a testa, mentre la Lombardia, a fronte di un prelievo pro capite di 1001 euro spende 1695 euro per ogni cittadino. Con i suoi 694 euro di differenza tra quanto raccoglie e quanto spende la Lombardia copre con le proprie entrate il 59,1 per cento della spesa sanitaria di ciascun cittadino, mentre la Calabria ne copre appena il 10,6 per cento.
Nell’aprile 2008 Tommaso Padoa-Schioppa, all’epoca ministro dell’Economia, presentò dati secondo cui “tre sole Regioni – Lazio, Campania e Sicilia – con meno di 2,6 miliardi accumulano l’85 per cento del deficit 2007 del sistema sanitario nazionale.

Al Sud quindi troviamo pochi centri di eccellenza, quindi pochi soldi, quindi poca ricerca, quindi pochi ricercatori, quindi poca offerta, in un processo continuo (causa ed effetto di se stesso) di svilimento del comparto sanitario.

Ed ecco i numeri; 1 megawatt di elettricità prodotto nel Settentrione il 10 luglio 2008 costava 106,66 euro, al Centro e nel Meridione 123,29 euro, in Sardegna 113,06 euro e in Sicilia toccava la stratosferica cifra di 171,09 euro. Al Sud c’è meno elettricità, e quindi quest’ultima costa di più: non è però possibile trasferire quella in eccesso al Nord, ed ecco che il prezzo medio dell’energia elettrica in Italia raggiungere i 115,20 euro a causa delle inefficienze del Sud e delle Isole.

Scrive ancora Sechi. “Una sorta di secessione energetica che nelle intenzioni della Confindustria deve avere l’effetto di un elettroshock.

Volano gli stracci, insomma, e se si arriva a chiedere che ognuno paghi e consumi quello che produce. In fondo la vita comune è come una cena tra amici al ristorante: se alla fine, quando arriva il conto, ognuno inizia a lamentarsi di quello che ha mangiato l’altro, vuol dire che è ora di darsi una calmata, oppure di sciogliere la comitiva.

Il Nord mette sul piatto della bilancia italiana più soldi di quanti ne metta il Sud, questo è indiscutibile. Lo fa perché è più ricco: producendo di più, versa più denaro nelle casse dello Stato. Ma andiamo per gradi.
Il Nord, producendo più ricchezza, versa più denaro in Ires, Irpef, e naturalmente anche in Iva dal momento che, avendo più mezzi, consuma più del Meridione.

C’è da dire poi che il Sud evade somme maggiori.

Riassumendo, il Sud ha meno ricchezza e più evasione, quindi paga meno tasse. Il Nord produce di più ed evade meno, quindi ne paga di più. Detta così sembra l’applicazione di un principio giusto – evasione e parte – e non si capisce che motivi avrebbe il Settentrione per lamentarsi.
Il senso dell’ingiustizia che si respira al Nord nasce probabilmente quando si prende atto del fatto che le ingenti risorse destinate al gettito fiscale, e indirizzate quindi anche al sostegno dello sviluppo del Sud, non hanno dato i frutti promessi. “L’Italia è un paese  che dal 1860 ha una forte integrazione culturale, sociale, religiosa, un’unità linguistica” spiega l’economista Fabio Pammolli. “Valori rilevanti che il altre zone del pianeta fanno la differenza. Abbiamo però anche un assurdo e profondo divario economico e occupazionale: in centocinquant’anni una parte del Paese è cresciuta economicamente, l’altra è rimasta al palo. In Germania in soli vent’anno sono quasi già scomparse le differenze fra le due Germanie del muro: il divario economico tra Sud e Nord d’Italia rappresenta un unicum in Europa.” Veniamo, secondo Pammolli, da una lunga stagione d’interventi che si è conclusa con un risultato deludente: “Anche solo dal ’98 a oggi sono arrivati ingenti fondi da Bruxelles, fondi cui vanno aggiunti i miliardi investiti in passato dallo Stato per lo sviluppo del Mezzogiorno. Una stagione che doveva puntare alle grande infrastrutture, ai trasporti, ai grandi piani di sviluppo organizzati e coordinati, si è poi ridotta a uno stimolo a tanti piccoli interventi locali, magari di rilevanza regionale o locale, che spesso hanno foraggiato clientelismi o addirittura mafie, e che di certo non sono serviti a ristrutturare il sistema”.
Dovevamo fare i porti, insomma, e siamo finiti a rubare anche sulle fontane. E mentre il nostro Mezzogiorno languiva, altre zone d’Europa che partivano con un Pil analogo usavano i fondi europei e guadagnavano terreno; bastino in tal senso gli esempi di Slovacchia, Irlanda, Spagna, nazioni che hanno basato la loro ripresa sulle infrastrutture, orchestrando lavori finanziati in modo adeguato e con una gestione efficiente. “Il nostro problema è stato la mancata organizzazione, il mancato coordinamento fra Stato, Regioni ed enti locali; tutto è diventato difficile e lento” dice Pammolli. “Ogni intervento si è perso in mille rivoli, dentro un’area grigia di competenze che ha reso tutto faticoso e inutile.”
“Solo nel periodo dal 2000 al giugno 2006 sono 46 i miliardi finiti alle Regioni del Mezzogiorno per finanziarne lo sviluppo” spiegano sul “Sole 24 Ore” Nicola Borzì e Fabio Pavesi. “Risorse messe a disposizione dall’Europa con il programma Obiettivo 1, finalizzato allo sviluppo delle regioni arretrate in cui il Pil pro capite è inferiore al 75 per cento della media comunitaria. Per l’Italia vuol dire il complesso delle regioni meridionali. Fondi che, con le assegnazioni nazionali aggiuntive, portano il totale 2000-2006 a circa 105 miliardi. Un fiume di denaro cui si sommano alri 123 miliardi assegnati per il periodo 2007-2013. Non solo. Già tra il ’94 e il ’99 altri 35 miliardi (di cui 16 messi a disposizione dalla Ue) erano affluiti al Sud. Fermiamoci ai 46 miliardi più recenti: la somma equivale in media, dall’avvento della moneta unica, ad almeno tre leggi Finanziarie dello Stato. L’obiettivo in sé è lodevole: aiuta con risorse aggiuntive le regioni disagiate, sostiene la crescita del complesso del Paese e risponde a logiche di solidarietà economica, politica e sociale più condivisibili.” Il problema è che questi fondi spesso (per non dire quasi sempre) rimangono inutilizzati) non sembrano garantire risultati. Da un lato, dunque, è reale la necessità di non togliere risorse al Mezzogiorno, dall’altro è inevitabile chiedersi: ,a che ci fate con tutti quei soldi?
Quel che fa scattare la rabbia del Nord è probabilmente l’impressione generale che tasse così alte non servano ad altro che a foraggiare l’inefficienza di una macchina pubblica che sembra (nel migliore dei casi) pensare solo a garantire la propria sopravvivenza. Non appena il Nord ha sentito il peso della crisi, non appena le tasse sono aumentate o non sono diminuite come era stato promesso, una certa sensazione che già si era diffusa tra i cittadini settentrionali è diventata vera e propria insofferenza: il Sud spende male, e non è più tempo di regali.

Sia chiaro, anche al Sud aumentano le tasse e, per  quanto generino meno gettito di quanto facciano le tasse del Nord, pesano proporzionalmente (e quindi ugualmente tanto) sulle spalle dei meridionali.

Il problema è tra l’altro che al Sud, oltre a crescere le tasse, cresce anche la spesa generale, ma diminuisce la spesa per i servizi sociali, che ne Mezzogiorno è poco più della metà di quella del Nord.

Le cifre variano dai 90 euro che si registrano in alcune città meridionali agli oltre 250 euro che si raggiungono in molti Comuni del Nord. A Crotone, Reggio Calabria, Taranto e Avellino, nel 2006 la spesa sociale non ha raggiunto i 90 euro pro capite, mentre a Firenze, Udine, Torino, Bologna, Modena e Pordenone sono stati toccati i 250 euro.
Pensiamo anche solo alla scuola: la spesa pro capite per l’assistenza scolastica, il trasporto e le refezione è di 35 euro al Sud, contro i circa 50 euro della media nazionale. Eppure negli ultimi anni le entrate proprie dei Comuni del Sud sono aumentate in maniera vertiginosa né si è badato a spese dal momento che non si è arrestato neppure l’incremento della spesa corrente.

Insomma, i Comuni del Sud chiedono sempre più soldi ai loro cittadini, spendono sempre di più, ma garantiscono sempre meno assistenza sociale a chi ne ha bisogno. E per far quadrare i conti chiedono fondi a Regioni e Stato centrale.

Nel Nord, per esempio, il Piemonte e la Liguria hanno un tasso di spreco vicino alla media nazionale (tra il 18 e il 19 per cento), mentre nel Sud le tre regioni ad alto insediamento della criminalità organizzata, ossia Campania, Calabria e Sicilia, hanno un livello di spreco quasi doppio di quello del resto del Mezzogiorno (42,5 contro 26,6 per cento)”.

L’élite meridionale, rifiutando la sfida per la modernizzazione del proprio territorio, secondo il sociologo Carlo Carboni si è trasformata in un élite “smaccatamente governativa; specializzata, poi, come collettore di spesa pubblica; professionalizzata, infine, nella mediazione clientelare. Il ceto politico si avvale di partiti-etichetta. Diversamente dai partiti di massa, sono un contenitore esclusivo in cui si ritrovano strettamente solo ceti locali ristretti”. Con parole semplici: spesso fingono di essere partiti, mentre in realtà sono cordate, gruppi, clan.
Secondo il filosofo Remo Bodei, “siamo stati il primo Paese che con i Comuni e il Rinascimento ha introdotto la modernità, abbandonando le strutture feudali. Il problema è che fino al 1861 non abbiamo mai avuto quell’unità che ci avrebbe permesso di rafforzare l’innovazione, e siamo rimasti (da questo punto di vista) deboli.

La classe politica del Sud non è moderna.

La soluzione del Sud lasciato a se stesso la scartiamo, dal momento che sul “si salvi chi può” non si costruisce una nazione. Bisogna arrivare naturalmente a una maggiore efficienza e trasparenza della gestione delle risorse, e al momento la ricetta magica è per molti il federalismo fiscale. Di quest’ultimo parleremo tra qualche pagina e scopriremo se serve a unire o a dividere il Paese. Al momento potremmo limitarci a dire che per unire Nord e Sud serve una forte volontà politica, perché come disse Abramo Lincoln (che di unire Paesi se ne intendeva), “Una volta deciso che la cosa può e deve essere fatta, bisogna solo trovare il modo di farla”. Ma a noi non serve Abramo Lincoln, basterebbe un Garibaldi, che offrisse speranza motivate, che aiutasse a ritrovare un progetto di carattere nazionale e che riallacciasse il Mezzogiorno a Roma.
Ma di Garibaldi un certo Sud non ne vuole sapere.

PARTE TERZA
Un’espressione geografica

L’Italia unita l’ha pagata il Sud, e questo è un dato storico. Se il Meridione dovesse intestardirsi per avere i soldi indietro, le ricche regioni del Nord dovrebbero rimandare per un bel po’ l’appuntamento con il federalismo fiscale. Dall’unità d’Italia ci guadagna il Nord, e anche questo è un dato di fatto. Da un punto di vista strettamente economico, almeno non ci sono dubbi. Al momento dell’annessione, quando cioè Garibaldi a Teano consegna a Vittorio Emanuele II le chiavi del Mezzogiorno, il debito pubblico del Regno delle Due Sicilie è irrisorio, mentre quello del Regno di Sardegna è impressionante: Cavour ha prosciugato le casse piemontesi impegnandosi in tre guerre.

Nel 1861 il Parlamento di Torino proclama l’Italia unitaria. Non resta, come dice D’Azeglio, che “fare gli italiani”. Il che diventa estendere al Meridione il sistema piemontese, invadere e modificare geneticamente il Sud. Tasse, burocrazia, leggi diventano uniche per tutti. Il Meridione viene utilizzato come un salvadanaio, subisce un vero e proprio salasso fiscale, che serve per risanare il debito del Nord. Se vogliamo giocare a chi paga, mettiamocelo bene in testa: nella prima pagina del libro contabile va scritto che il Sud ha pagato le spese della guerra che è servita a fare l’Italia.

Il governo decide inoltre di favorire lo sviluppo industriale e infrastrutturale del Nord, a scapito di quello del Sud: la costruzione delle ferrovie meridionali viene bloccata, per concentrare gli sforzi sulle tratte del Nord.

Quella che si scatena, nei dieci anni che seguono l’Unità, è una vera e propria guerra civile.

All’inizio è una questione politica, la difesa della causa borbonica. Pian piano però diventa sempre più forte la questione sociale: non solo l’Unità non ha portato alcun progresso, ma l’unico effetto reale che ha prodotto è un ulteriore impoverimento di quelli che poveri erano già.

Nel 1870 il governo italiano dichiara terminata la campagna contro il brigantaggio. Il bilancio è quello di una guerra vera, potremmo definirla la vera guerra di Secessione d’Italia.

Eppure il fenomeno è stato enorme: quasi 1500 comuni sollevati, 8900 fucilazioni, 13.500 arresti, 10.000 feriti, 20.000 civili morti. Se nel 1870 l’ordine pubblico bene o male è stato ripristinato, i problemi sono appena cominciati. L’arretratezza ereditata dai Borbone è rimasta il nuovo governo, dove ha potuto, ha peggiorato le condizioni di vita della popolazione.
La questione meridionale è appena all’inizio.

Eppure la provincia di Bolzano non ha grosse ragioni per avercela con l’Italia: “La provincia di Bolzano ha un bilancio annuo di 5,5 miliardi di euro” scrive sulla “Repubblica” Giampaolo Visetti. “La spesa pubblica totale supera i 12 miliardi, i dipendenti sono quasi 40.000. In Sud Tirolo, tra denaro e funzioni, rientra il 114 per cento del gettito fiscale.” Sono diversi gli osservatori che sostengono che nel Sud Tirolo lo scontro etnico è anestetizzato dai flussi di denaro. Ma il giorno che il denaro smettesse di affluire (per una crisi, o per una riforma fiscale, magari proprio per quella federalista) cosa potrebbe succedere?
Forse la seccessione? Ma cosa serve in teoria staccarsi dall’Italia? Una riforma costituzionale? Una rinuncia formale dello Stato? Una rivoluzione di piazza? “La Costituzione italiana non prevede alcuna forma di modifica del territorio dello Stato” spiega il costituzionalista Gian Candido De Martin. “L’ordinamento costituzionale riguarda l’Italia così come è adesso in tutte le sue articolazioni interne, Regioni, Province e Comuni, e nei suoi confini territoriali.” Il diritto internazionale prevede naturalmente che delle seccessioni possano esserci, e prevede anche un percorso per il quale un popolo che si senta tale possa essere riconosciuto come Stato autonomo dalla comunità internazionale. Possono aspirare all’indipendenza realtà ex coloniali, popoli sottomessi ad apartheid, popoli sottoposti a dominazione con la forza: in questi casi il diritto internazionale riconosce la possibilità di staccarsi da una nazione per crearne un’altra indipendente. Ovviamente nessuno di questi principi è applicabile all’Italia, neanche lontanamente.

La vera differenza però, il vero salto in serie A, è il passaggio da una Regione ordinaria a una a statuto speciale.

L’autonomia che qui ci interessa, però, è quella che riguarda le risorse nelle regioni speciali le tasse versate vengono reinvestite sul territorio, ed ecco che, a causa di queste agevolazioni fiscali, la spesa della Regione per ogni cittadino è molto più alta di quella che possono permettersi le altre Regioni.
L’origine di questi privilegi è antica: furono concessi nel dopoguerra a tutela delle minoranze linguistiche (francofoni in Valle D’Aosta, germanofoni in Trentino) o per contrastare derive indipendentiste (Sicilia e Sardegna); tuttavia sembra strano sopravvivano al tempo dell’Europa unita.
Finanziamenti, fondi pubblici, agevolazioni fiscali caratterizzano soprattutto il Trentino-Alto Adige e Valle D’Aosta e, in misura minore, il Friuli Venezia Giulia. Sono queste le regioni che appaiono veri e propri paesi del Bengodi , che finanziano funzioni proprie e alimentano un livello di spesa pubblica per servizi che non hanno eguali.
Il termine tecnico è “residuo fiscale”, e rappresenta la differenza tra quanto le amministrazioni pubbliche prelevano dalle tasche dei cittadini e quanto poi restituiscono in termini di servizio e funzionamento istituzionale, o più precisamente la differenza tra ciò che i cittadini di una regione pagano sotto forma di imposte e contributi ai vari livelli di governo e ciò che da questi ricevono sotto forma di spesa pubblica: Trentino, Valle D’Aosta e Friuli sono quelle che ottengono il saldo più conveniente. Unici in Italia, i cittadini pagano meno di quello che poi ricevono in cambio. Nel 2006 ogni cittadino del Friuli Venezia Giulia ha potuto contare su un residuo fiscale di 576 euro; in Trentino gli euro sono 1572, in Valle D’Aosta nel 4191. Ogni lombardo ha dato invece 4000 euro più di quanto abbia ricevuto, ogni veneto 3295 euro in più.

Come disse Luciano Violante, “in Italia lo Stato ha circa 140 anni, le Regioni nemmeno 30 e i Comuni più di mille”: se ognuno inizia a pensare a se stesso, aggiungiamo noi, avremo secessioni all’interno della stessa palazzina.

Le regioni più privilegiate sono la Valle D’Aosta e il Trentino, basti pensare che in Valle D’Aosta i proventi del casinò sono interamente riservati alla Regione.”Le regioni a statuto speciale sono piene di soldi.

Pensi alla benzina e al regime fiscale legato al carburante: dato che la benzina costa meno nelle nazioni confinanti, si trovano meccanismi per farla pagare meno anche ai cittadini di quelle regioni. Parliamo di Valle D’Aosta e Friuli Venezia Giulia. In Sicilia un manifesto di qualche anno fa recitava: “Noi vogliamo pagare la benzina come ad Aosta”, e non mi sembra una richiesta assurda.”

3 Ma cos’è questo federalismo?
Detto in soldoni, il federalismo fiscale è l’applicazione del concetto secondo cui ogni ente locale è responsabile de soldi che raccoglie e di quelli che spende.

Per arrivare al federalismo fiscale, insomma, bisogna rivoltare l’Italia come un calzino.

L’Italia unitaria non ha prodotto questo risultato: i cittadini del Mezzogiorno hanno servizi generalmente peggiori di quelli di cui godono i cittadini che risiedono al Centro-Nord e questo vale anche e soprattutto per i servizi pubblici gestiti dallo Stato (la giustizia, la sicurezza, la scuola, l’università, la tutela ambientale).” In un Paese con un federalismo fiscale che funziona, le regole formali, le leggi diverse da regione a regione comportano divari politicamente accettabili. E che soprattutto non diventino, col passare del tempo, baratri.

Il primo punto da chiarire è insomma che, se si decide di riformare il fisco in senso federale, va in tal senso riformato l’intero ordinamento dello Stato.

A questo punto dobbiamo immaginare, di qui a qualche anno, che ci possa trovare con lo stesso ordinamento attuale dello Stato e con un sistema di federalismo fiscale. Cosa potrebbe succedere?

Uno dei più autorevoli economisti italiani, il rettore della Bocconi Guido Tabellini, ha scritto che “l’incognita è se le regioni meridionali sapranno fare buon uso della maggiore autonomia. La certezza è che le regioni meridionali, non sono solo più povere, ma spendono anche di più … la spesa pubblica pro capite, per istruzione e finanza locale è il doppio in Calabria rispetto alla Lombardia.

Valle D’Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia non avranno invece scuse e (rispetto, se sarà vero federalismo) dovranno rinunciare a quello che di speciale hanno, per tornare a essere Regioni ordinarie, come è ordinario il resto del Paese.

Le funzioni essenziali dello Stato centrale, il servizio del debito pubblico, la solidarietà tra generazioni, la perequazione tra regioni ricche e povere, devono essere a carico di tutti i cittadini indipendentemente da dove essi risiedono”.

In realtà le federazioni sono in genere servite a unire realtà che prima erano separate, non a separare realtà unitarie: il federalismo è un sistema che unisce il diverso, non che divide l’uguale, e in pratica è servito sempre a fare passi in avanti verso la fusione, non a riorganizzare realtà già strutturate.
In realtà il dibattito sul federalismo non dovrebbe limitarsi alla discussione sui tributi e imposte, o a quella sulla distribuzione delle risorse a livello centrale o periferico, dal momento che “il federalismo” ha scritto sul “Sole 24 ore” Marco Vitale “è una concezione politico democratica istituzionale che non va confusa con il roborante e ingannevole concetto di federalismo fiscale”.

Prima di riformare il sistema fiscale, quindi, bisogna domandarsi: come voglio che la mia politica trasformi il Paese? In questo campo senza un’idea del tutto non si può mettere mano a una parte.
Il federalismo fiscale da alcuni anni è stato venduto come la soluzione alle inefficienze del Paese, da altri è stato tratteggiato come l’epifania dell’egoismo particolarista. L’unica verità appurata è che non si può passare al federalismo fiscale per stizza verso il Mezzogiorno povero e spendaccione. Innanzitutto perché spezzare il legame solidale all’interno di una nazione significa mettere a rischio la tenuta complessiva del Paese, in secondo luogo perché non funzionerebbe: se il problema italiano è che ci sono troppi poveri, non è cambiando la modalità con cui si raccolgono le risorse pubbliche che risolveremo le cose. Non è insomma con il federalismo che i ricchi si libereranno dei poveri.

L’Ocse conferma come in Italia i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. E’ un fenomeno mondiale, ma nella Penisola il processo è più veloce e violento che altrove. Altrove dell’area Ocse, l’Italia, il Messico, la Turchia, il Portogallo, gli Usa e la Polonia sono i Paesi dove, più che nelle altre nazioni, la forbice della disuguaglianza si apre e la classe media si va estinguendo. Tra i Paesi del G7, l’Italia è seconda in questo solo agli Stati Uniti.

Secondo i dati ufficiali del ministero dell’Economia e delle Finanze, oltre il 50 per cento dei contribuenti ha un reddito lordo compreso tra 7500 euro e 25.000 euro l’anno. Sopra i 70.000 euro l’anno c’è il 2 per cento dei contribuenti. Dieci milioni di italiani guadagnano così poco che non devono pagare nulla al fisco. O ci sono tantissimi poveri o ci sono tantissimi evasori; o (ed è l’ipotesi più probabile) ci sono tantissimi poveri e tantissimi evasori.

L’Italia sembra aver respinto il principio dell’eguaglianza sostanziale, pur essendo fondata proprio su di esso.

La nostra carta costituzionale non si limita a riconoscere l’eguaglianza di forma, promuove bensì l’articolo 3 l’uguaglianza di sostanza. Promuove lo Stato sociale, si impegna a intervenire per eliminare, dove sussistono, le differenze nell’opportunità.

PARTE QUARTA
L’Italia (invece) chiamò

Facciamo un passo indietro: siamo partiti dall’assunto provocatorio: “L’Italia non esiste”. Questo punto di partenza è servito a farci notare che la politica si è spesso alimentata di un malinteso, credendo di governare l’Italia intera ma in realtà governando, da Roma, due Paesi diversi. In questo modo ha condannato il Nord a soffrire e il Sud a deperire..

Ma, per quello che ci riguarda in questa sede, l’Italia non è un Paese moderno perché accetta di sopravvivere in spaccata su un crepaccio, con un piede nella povertà e uno nella ricchezza.

Tutti i dati che abbiamo raccolto dimostrano che abbiamo un’unica nazionalità, ma due nazioni.














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