venerdì 13 gennaio 2012

libro GE rusconi se cessiamo di essere una nazione

SE CESSIAMO DI ESSERE UNA NAZIONE
Gian Enrico Rusconi

1. La questione dell’identità nazionale italiana
Una nazione può cessare d’esserlo. La nazione infatti non è una struttura statuale fissa e indistruttibile. Non è neppure un dato etnico disancorato dalle sue forme politiche storiche.
La nazione democratica, in particolare, è una costruzione sociale delicata e complicata, fatta di culture e storie condivise, di consenso manifesto e corrisposto, basato sulla reciprocità tra i cittadini. E’ un vincolo di cittadinanza, motivato da lealtà e da memorie comuni.
Soltanto attraverso questo intreccio di motivi e di legami si istaurano  rapporti politici che possono dirsi democratici. Soltanto così si crea l’intelaiatura istituzionale di una “nazione di cittadini”.
Ma quando la politica produce inefficienza e corruzione, si intaccano i vincoli stessi che tengono insieme una nazione al di là della sua struttura statuale. Allora il senso di reciproca appartenenza storica non è sentito più come un valore. L’identità nazionale non sostiene più la vita politica, tanto meno la surroga. Allora una nazione cessa di esserlo. E può farlo in tanti modi non necessariamente nel più clamoroso della disgregazione del suo apparato politico amministrativo con la secessione di alcune regioni.
Una nazione democratica è fatta ad un tempo di radici etno-culturali e di buone ragioni politiche di convivenza. Ma le radici si possono seccare o strappare e le ragioni si possono smarrire o falsificare. Tanto più in un paese come il nostro, dove la democrazia è maturata faticosamente dopo aver tentato altrettanto faticosamente di diventare una nazione.
Quando il tessuto politico-istituzionale di una nazione così costruita si sfilaccia, non è strano che nasca la voglia di cercare o di inventare radici “etniche più originarie” della nazione storica, sulle quali ancorare una democrazia su misura, ritagliata su confini territoriali e secondo criteri socio culturali opportunistici e discriminatori – secondo il motto: “democrazia si, ma a casa mia, e con chi voglio io”. Così finisce una nazione democratica e sorgono etnodemocrazie regionali, magari dietro una facciata di unità formale.
E’ questo il futuro dell’Italia?
Già porre questo interrogativo è un sintomo di incertezza. Da tempo in Italia alla inerzia del senso di appartenenza nazionale si sovrappongono ipotesi di autonomismo regionale più o meno  radicale con conseguenze pratiche molto confuse. Il prodotto più vistoso di questo clima sono le proposte leghiste di disarticolare lo Stato nazionale in “macroregioni” – proposte prima annunciate e poi ritirate o solo sospese. Proposte rimaste sempre operativamente nel vago, ma proprio per questo efficaci come minaccia: diventano una carta spendibile nella contrattazione politico-partitica.
E’ tempo di andare oltre l’allarme il lamento per questa situazione. E’ necessario ricominciare a pensare se e come dobbiamo diventare una democrazia solida senza cessare di essere una nazione, una “nazione di cittadini”.
Oltretutto, il lamento per l’assenza in Italia del sentimento di identità nazionale nasconde un equivoco – anche negli storici e negli studiosi meglio intenzionati. Costoro infatti, per un verso, insistono nel mostrare quanto sia stato difficile costruire la nazione Italia. Per un altro verso, però, faticano a fornire ai cittadini argomenti convincenti perché si sentano “nazione” in modo significativo oggi. Mancano argomenti che innovino rispetto a quelli tradizionali, che si rivelano deboli e pregiudicati da esperienze che sono si superate ma che continuano a condizionarci passivamente.
In questa ottica cambia peso anche la controversia storiografica se in Italia la nazione abbia ma effettivamente svolto un ruolo di identificazione collettiva, e quindi abbia adempiuto alla funzione di integrazione civica, prima ancora che politica, senza la quale una democrazia non è vitale. Molti storici lo negano. Soprattutto asseriscono che la nazione non ha più svolto tale funzione a partire dalla seconda guerra mondiale.
Cercherò di mostrare che le cose non sono proprio così.
Intanto prendiamo atto che troppo spesso storici e osservatori in genere hanno guardato con toni di sufficienza e quindi hanno valorizzato la persistenza di forme di (sub)cultura popolare “nazionale”, che soltano oggi si stanno effettivamente estinguendo.
Non è facile rispondere perché la cultura cosiddetta “alta” in Italia da decenni abbia snobbato il tema nazionale, riservandogli soltanto frettolose critiche liquidatorie. E’ stata la centralità assorbente di altri paradigmi ideologici; è stata l’incapacità di tenere separati davvero senso di identità nazionale  e nazionalismo; è sta l’insofferenza verso un certo residuo pompierismo storiografico tradizionale; è stato il complesso del provinciale verso le grandi  culture europee (che pure sono inequivocabilmente segnate a caratteri nazionali).
Certamente non è stata una maniera, sia pure indiretta, di criticare il centralismo statale e i suoi guasti. Infatti gli intellettuali di cui parliamo non hanno mai preso sul serio le identità regionali. Le piccole patrie rimangono pretesti biografico-letterari, non fonti di civismo in alternativa al centralismo statale-nazionale. Il regionalismo in Italia ha prodotto letteratura, folklore e recriminazioni (a parte, beninteso, amministrazioni ora buone ore cattive). Nonostante il suo abbondante sentimentalismo non ha mai rappresentato un’autentica alternativa culturale alla dimenticanza della nazione.
Negli anni ottanta si è assistito ad un riacutizzarsi della questiona nazionale in tutti i paesi europei, che pure hanno una tradizione diversa dalla nostra. Vi hanno contribuito non solo reazioni a revival regionalisti ma fenomeni di altra natura, che è bene ignorare. Così in Francia i problemi  dell’immigrazione sono sfruttati politicamente del lepenismo con lo slogan della priorità della scelta nazionale, in Germania è la combinazione della questione dell’immigrazione con quella persistente dell’identità tedesca.

2. Non farò qui analisi politiche del leghismo, che rischiano di appiattirsi su una cronaca tumultuosa di parole e manovre di breve respiro. In questa sede il leghismo è semplicemente un sintomo da prendere sul serio: il sintomo che l'inerziale senso di appartenenza nazionale degli italiani non ha solide difese verso involuzioni localiste che mettono in gioco non soltanto una astratta integrità nazionale, ma valori concreti di cittadinanza democratica. Può darsi che il leghismo, «nazionalizzandosi» politicamente, perda i suoi tratti più rozzi, di fronte a progetti e pratiche regionali consistenti. Purché in queste ultime non si infiltrino surrettiziamente processi involutivi di tipo etnodemocratico.
Tanto meglio se tutto ciò non si verificherà. Ma questa semplice eventualità è un motivo sufficiente per le nostre riflessioni.
Il leghismo a tutt'oggi è culturalmente gracile e incerto sulla praticabilità dei suoi progetti di autonomismo e federalismo regionale - in breve sulla questione dello Stato nazionale. Sotto la pressione delle necessità politiche locali e nazionali, i suoi piani, dai contorni indefiniti e prossimi al separatismo, si sono deradicalizzati o solo mimetizzati. Ma continuano ad essere parte integrante delle motivazioni originarie del movimento.
Il leghismo infatti ha due moventi di fondo, entrambi indispensabili.
Il primo è la protesta intransigente, onnipresente, rumorosa sulle cose che non vanno in questo disgraziato paese e che riempiono la cronaca e gli editoriali dei nostri giornali. Quando tutti criticano tutto, gli elettori leghisti non hanno bisogno di ascoltare ogni giorno gli esponenti del proprio movimento per sentirsi confermati nel loro comportamento. Oltre tutto dopo i successi elettorali e grazie all'abile guida politica della Lega, l'atteggiamento dei mass-media è sensibilmente cambiato nei loro riguardi. Dal sarcasmo si è passati all' attenzione. Il leghismo si candida realisticamente per un ricambio della classe politica. Ricambio forzato non sulla base di una rivoluzione ideologico-politica, ma dietro la spinta di slogan e formule molto concrete ed elettoralmente efficaci.
Una di queste formule è: «se Roma ha fallito, facciamo da soli, con la nostra gente». È l'altro movente del leghismo: l'orgoglio e il credito di doti politiche all'appartenenza regionale, come tale, se non ad una vera e propria «identità etnica». Il ritrovato interesse della gente a praticare la propria cittadinanza politica nell'orizzonte locale, regionale o etnico fa del leghismo una variante nostrana e originali di un fenomeno presente in svariate forme in altre parti del mondo. È l'etnodemocrazia: la pratica democratica esercitata entro confini auto definiti, autodefinibili e quindi controllabili. Si è cittadini davvero solo su un territorio dichiarato «proprio», anche a costo di discriminare chi non è gradito comunque.
Non è necessario che la etnodemocrazia, di cui parliamo, assuma forme istituzionalizzate esplicite. (Basti pensare alla spiacevole sensazione che talvolta i cittadini italiani provano di essere «ospiti sgraditi» in talune zone del Sud- Tirolo / Alto Adige - una regione che, magari per buoni motivi storici, è virtualmente allo stadio terminale della secessione dallo Stato italiano.)
Con 1'entrata in circolazione di termini che coniugano in molte varianti «etnia» e «nazione», si sono resi disponibili nella comunicazione politica dei veri e propri costrutti identitari polemici. L'improbabilità, l'inconsistenza storica o il semplice opportunismo di immaginarie «nazione» o «etnia» lombarda, o veneta o piemontese, non elimina il fatto che esse svolgono funzioni identitarie che motivano all'azione (quanto meno a quella «dimostrativa» elettorale) gente disgustata dalla politica tradizionale. Tecnicamente sono operazioni «mitopoietiche» nello stesso senso in cui lo sono state quelle che hanno forgiato le nazioni storiche. Non credo che il leghismo possa del tutto rinunciare ad esse, pur usandole strumentalmente.
Chi studia il revival etnico e nazionale in atto da anni in tutto il mondo (ben prima del fatidico 1989) è colpito tanto dal grado di selezione inventiva delle identità etniche emergenti, quanto dalla carica simbolica che riescono a sprigionare, riaccendendo memorie antiche, per quanto labili. Nel guazzabuglio culturale dei leghisti ci sono elementi di questo tipo, anche se la loro caratteristica principale è la polemicità, che accentua i motivi della differenziazione, della contrapposizione, dell'antagonismo. Diventano così una risorsa strategica per ottenere qualcosa per sé e per negare qualcosa ad altri.
Che questo atteggiamento possa portare ad una alterazione profonda della identità nazionale italiana quale si è storicamente formata, con costi pesanti per il valore della cittadinanza in generale; che varianti etnodemocratiche si instaurino di fatto attraverso regionalismi ossessionati dalle proprie competenze - sono questioni che i leghisti affrontano con una leggerezza che noi non possiamo permetterci.
Per il resto, non è il caso di insistere che il pericolo della disintegrazione della nazione o dello svuotamento dei suoi contenuti civici non sta nell'ipotesi di federalismo regionale in quanto tale, ma nella combinazione di federalismo e di etnicismo della primitiva proposta leghista. Una volta respinta questa combinazione, si apre il dibattito sul ridisegno regionalistico della struttura dello Stato italiano, con tutte le difficoltà tipiche di ogni progetto di regionalizzazione: l' ottimale dimensionamento geografico, l'autonomia economico-fiscale, le nuove competenze politico-amministrative e fiscali, senza dimenticare gli spazi da riservare ad eventuali espressioni linguistico-culturali locali ecc. ecc.
È significativo che su questa difficile tematica le proposte più costruttive e innovative non vengono dagli ambienti leghisti, ma dalle sedi di studio dove non solo non è in discussione il principio dell'integrità nazionale ma addirittura ci si muove «nel solco della tradizione risorgimentale».

3. Le riflessioni di questo libro partono dall' assunto che una democrazia per funzionare ha bisogno
di lealismo e solidarismo civico; queste virtù civiche, nel cuore e nella testa della gente, non discendono semplicemente dal principio universale della cittadinanza, ma esigono l'identificazione con una qualche comunità concreta d'appartenenza. Tradizionalmente questa comunità, culturale e politica insieme, porta il nome di nazione. Che succede quando questo riferimento non funziona più? Quando il termine stesso di nazione è pronunciato con imbarazzo e con mille precauzioni? Quando suona obsoleto o patetico?
È vero che da qualche tempo si sentono in Italia voci in direzione opposta, e non solo nelle sedi istituzionali ufficiali. Ma se queste non sono accompagnate da uno sforzo innovativo sul piano delle argomentazioni, rischiano di suonare meramente difensive e passatiste. E questo a dispetto del paradosso che i movimenti di contestazione della nazione storica riattivano di fatto - in nome di vere o presunte etno-nazioni antagonistiche - meccanismi di identificazione e mobilitazione del tutto analoghi a quelli messi in atto dalle vecchie nazioni e del vecchio nazionalismo.
In Italia il tema della nazione non si è mai concettualmente liberato né emotivamente riavuto dal trattamento subito dal nazionalismo storico, soprattutto da quello fascista. Questo dato di fatto tuttavia rischia di essere un alibi. \
È luogo comune che il fascismo storico, usando e abusando del sentimento nazionale degli italiani, portandoli al disastro della seconda guerra mondiale, abbia pregiudicato nel profondo l'idea stessa di nazione e di patria. Di conseguenza, dopo la degenerazione nazionalistica e fascista, il ..Il patriottismo e il senso di appartenenza nazionale non sarebbero più una risorsa civica e politica attiva bile in una democrazia.
Non credo che le cose stiano così. Questo libro è innanzi tutto un invito a riflettere sulla nazione come forma di integrazione civica e democratica, che si emancipa dall'orizzonte concettuale fissato dal nazionalismo storico. L'idea di nazione cioè può essere sottratta alla sua storica subordinazione e strumentalizzazione statalista; può collegarsi all'universo dei valori della società civile e quindi alla logica della cittadinanza democratica, proiettata già in prospettiva europea (capitolo secondo).
È bene però ricordare che questa nazione-dei-cittadini non è un dato spontaneo ma il risultato di uno sforzo culturale e concettuale che ricupera in modo riflessivo e critico le proprie radici e memorie storiche.

4. Storia e memoria comune sono parte integrante del riconoscersi nazione. Nella cultura italiana odierna la lacuna più grave è l'incapacità di raccontare la storia nazionale in modo convincente, in modo cioè da creare identificazione, nonostante anzi proprio attraverso le sue immense contraddizioni. La storia comune non è diventata momento insostituibile del «discorso pubblico» democratico. È un lavoro di grande impegno per la qualità informativa richiesta in una società dominata dai mass-media e per trovare la giusta profondità storica per fare un discorso sensato.
Non so se da qualche parte c'è chi sa raccontare questa storia evitando retoriche neonazionaliste o controstorie di classe.
Non so se debba essere lo storico o lo scrittore a raccontare una storia di comunanza fatta non solo di letteratura, di armi e di sangue, ma di lavoro e di fatiche comuni, di migrazioni e rimescolamenti interni da cui si sono prodotti legami che non possono essere spezzati senza ferire l'identità storica di tutti gli italiani del nord come del sud. È con questa operazione che vanno sfidate le chiacchiere di certi leghisti. Senza la ricostruzione di una memoria comune, ad un tempo critica e solidale, in Italia non si creerà alcun senso civico d'appartenenza.
«Quanto indietro» si deve andare nella storia nazionale per questa operazione? Al Risorgimento? Alla cesura della Grande Guerra? Alla Resistenza e alla nascita della Repubblica? Agli anni della ricostruzione postbellica e della rapida modernizzazione, che sono generalmente studiati esclusivamente sotto il profilo socio-economico e dello scontro politico-partitico?
In questo libro mi limiterò al periodo l'esistenziale e a quello immediatamente successivo, perché in essi affondano le radici della legittimazione della Repubblica (capitolo terzo). Ripercorrerò i concetti di «guerra civile», «attendismo», «resistenza passiva», «costituzione», «repubblica dei partiti» che definiscono la matrice storica della nostra democrazia, nella quale agiva ancora in positivo !'idea di nazione, nonostante gli effetti perversi indotti dal fascismo. L'identificazione nazionale perde forza soltanto dopo i primi anni della Repubblica.
È innegabile che la Resistenza sia guidata da una schietta rivendicazione patriottica e nazionale e insieme ispiri, grazie ad alcuni suoi rappresentanti, significative prospettive federaliste europee e di autonomismo regionale, anche se queste - come vedremo - rimarranno marginali e senza seguito pratico.
Tra il 1943 e il 1945 si scontrano in Italia due idee di patria e di nazione: quella nazionalfascista, che non ha altre motivazioni se non il richiamo fideistico all'onore, a dispetto della catastrofe provocata, e l'idea di una nuova nazione orientata ad un rinnovato senso civile, democratico ed europeo, tutto da costruire, anche se collegabile ad un antico sentire. Da qui il carattere di «guerra civile» che inevitabilmente assume la lotta di liberazione nazionale perché ridefinisce con le armi e con il sangue i criteri di una nuova identità politica nazionale.
Oggi siamo in grado di misurare in tutta la sua ampiezza la complessità motivazionale dei protagonisti di allora , che si trasmette in modo problematico alla nascente democrazia. Su questo tornerò nel capitolo dedicato alla rivisitazione della Resistenza e dei primi anni della Repubblica. Qui mi preme anticipare che se la democrazia italiana regge nelle sue prime prove, evitando una virtuale guerra civile di segno diverso da quella appena conclusa (non più fascisti! antifascisti ma comunisti!anticomunisti), lo si deve alla lealtà di uomini che nella Resistenza, pur avendo passioni e concezioni diverse di democrazia, si riconoscono in una comunanza di storia e di destino. Si riconoscono in una nazione capace di moderare le tensioni di parte nel momento stesso in cui vengono ridisegnate le nuove regole politiche.
In altre parole i fondatori della Repubblica sono guidati da un autentico patriottismo costituzionale - un concetto da intendere in senso integrativo, non surrogatorio o antagonistico rispetto al tradizionale sentimento di appartenenza ad una nazione storica.

5. A questo punto è opportuno un breve excursus sulle varianti del patriottismo degli italiani.
L'identificazione soggettiva tra nazione e Costituzione (il patriottismo costituzionale) è possibile in Italia, nel periodo a ridosso della guerra di liberazione, perché il sentimento patriottico dei resistenti trova risonanza presso quello che chiamerei il patriottismo espiativo di una parte della popolazione italiana.
Con questa espressione intendo il sentimento che si diffonde tra la gente con il procedere disastroso della guerra, soprattutto a seguito della tragica ritirata dalla Russia (inverno 1942-43), un evento che come pochi entra in profondità nella memoria collettiva degli italiani. Attorno a quell'episodio si raccoglie uno spontaneo senso di solidarietà nazionale per un dolore comune subìto in modo non del tutto immeritato. Soltanto pochi tuttavia hanno la capacità e il coraggio (soprattutto dopo 1'8 settembre) di maturare il giudizio etico-politico complessivo che dal dissenso verso il regime fascista porta alla scelta resistenziale. La maggioranza della popolazione si sente oscuramente una nazione punita, rassegnata alla espiazione attraverso una guerra combattuta sul proprio territorio e nella forma della guerra civile. Tutto questo non falsifica ma conferma - anche se in modo passivo -la comunanza di un destino nazionale.
Questo complesso di sentimenti si attenua e muta dopo l'istituzione della democrazia, con il funzionamento della «repubblica dei partiti» e le sue nuove tensioni. L'inasprirsi della lotta sociale e ideologica, soprattutto nella forma dello scontro frontale comunismo-anticomunismo, fa perdere gradualmente rilevanza etico-politica al patriottismo costituzionale e al tradizionale sentimento nazionale, in esso ricuperato e conservato. La sostanziale perdita di sovranità verso l'esterno, in un mondo ferreamente chiuso nel bipolarismo ideologico e militare delle due superpotenze, porta la maggioranza degli italiani a far coincidere l' «interesse nazionale» con l'integrazione atlantica e poi europea. La classe politica al governo, una volta fatta questa scelta, rinuncia ad ogni autonomia d'azione.
Alla perdita della sovranità esterna corrisponde anche l'affievolimento della «sovranità interna» intesa come predominio di un interesse comune su quello di parte. I partiti conducono i loro confronti e scontri usando solo retoricamente il richiamo alla comune appartenenza nazionale, ritenuta insieme ovvia e spendibile elettoralmente, ma con valore decrescente. I contendenti politici si rimproverano reciprocamente di svendere l'interesse nazionale allo straniero (all' America piuttosto che a Mosca o a Belgrado12). Ma si tratta di affermazioni sempre più ideologiche e strumentali. Per la cultura di sinistra (non necessariamente la più sprovveduta) quella di nazione diviene gradualmente un' «idea di destra». Per la cultura cattolica e quindi democristiana è un'idea ingombrante.

La stessa ritualità ufficiale è incerta e divisa tra il 25 aprile (memoria della Resistenza), il 2 giugno (fondazione della Repubblica) e il 4 novembre (ricordo della «vittoria» del 1918). Il risultato della «repubblica dei partiti» quindi non è (come pure ci si poteva attendere) una sorta di salvaguardia «extrapartitica» dell'idea e del valore della nazione. Al contrario, «uno degli effetti di lunga durata e più negativo del clima di scontro nei primi anni di vita della democrazia italiana sarà quello di creare, a livello di cultura popolare, il senso forte di "appartenenze separate" escludendo invece il sentimento di una cittadinanza comune»13.
Gli anni sessanta e settanta meriterebbero un supplemento di analisi per approfondire il nesso tra la selvaggia modernizzazione sociale e culturale, il nuovo modello di integrazione sociale su base consumistica, e l'espulsione definitiva della nazione dall' orizzonte dei valori civici degli italiani. Scivola in forme popolari subculturali o memorialistico-Ietterarie (dalle feste degli alpini al successo di un certa letteratura-memoria di guerra). La concentrazione collettiva su standard di benessere acquisibili individualisticamente o attraverso mobilitazioni di settore, con il contemporaneo crescente affidamento agli ammortizzatori dello Stato sociale, fanno dell'appello ad un superiore «solidarismo nazionale» un motivo polemico un po' patetico, anziché un realistico progetto politico.

6. Intanto sin dai primissimi anni cinquanta la cultura italiana si espone senza filtri alla più massiccia irruzione di autori e opere europee e americane della sua storia. La comprensibile e giustificata voglia di ricupero culturale si trasforma presto in dipendenza dalle culture esterne e in un senso di inferiorità, da cui non si sarebbe mai più liberata. Tutto ciò che è italiano è sentito oscuramente come «provinciale». Il riferimento affermativo alla nazione è lasciato alle subculture e come tale snobbato dagli intellettuali che contano.
Quando sociologi e politologi si applicano all'analisi dei meccanismi di funzionamento e di disfunzione culturale e politica del sistema italiano, danno per scontato che la nazione sia per gli italiani un residuo storico, deprivato di rilevanza, incapace di identificazione. Ma gli stessi scienziati sociali e politici, lungi dal farne un dramma, considerano il debole senso di appartenenza nazionale una peculiarità non negativa della struttura societaria italiana, ricca di simpatici risvolti umani.
In compenso saggisti e letterati coltivano con successo il genere letterario dei «caratteri originali» degli italiani, spesso con grande acume, sempre con autoironia, qualche volta con autolesionismo.
Ma il punto cruciale per la nostra ottica non sta nello scoprire e nel descrivere indicatori e tratti caratteriali o culturali della «italianità» (che gli stranieri attribuiscono agli italiani in dosi massicce e omogenee più di quanto questi stessi non siano disposti ad ammettere). Ciò che conta è il contributo che questi caratteri etnoculturali danno (o possono eventualmente dare) al buon funzionamento della società politica e civile, alla sua vivibilità. Ancora recentemente Alain Touraine, riprendendo una tesi diffusa nella comunità scientifica, ha ripetuto che «in Italia la coscienza della italianità è molto più forte dell'idea dello Stato nazionale». Ma il sociologo francese non si chiede se e come questa presunta «coscienza di italianità» possa essere surrogatoria di quel civismo e spirito di cittadinanza che lo Stato nazionale storico come tale non ha saputo creare.
Non si capisce perché l'italianità sarebbe compatibile con la positività di legami e lealtà regionali e municipali, mentre inserita nel quadro dello Stato nazionale ostacolerebbe lealtà e senso civico. Perché mai in Italia regionalismo e localismo dovrebbero, di per sé, essere motivi di anticivismo?
Siamo di nuovo al rapporto tra nazione e cittadinanza esercitata a livello locale e a livello generale. Soltanto una nazione democratica, sicura delle proprie radici e ragioni storiche, pratica positivamente forme di autogoverno regionale senza sentire il bisogno di disconoscere l'appartenenza storica comune. Non c'è affatto incompatibilità tra autonomie regionali e un forte senso di appartenenza nazionale. Entrambe sono segni di una cittadinanza matura.


7. Il deficit di riflessione e di cultura pubblica in Italia attorno al rapporto tra democrazia e nazione si nasconde volentieri dietro all' annuncio della fine degli Stati nazionali e della nascita di un'Europa sovranazionale e insieme regionale.
È stato un annuncio incauto. La realtà si sta rivelando un'altra.
I paesi della Comunità europea procedono certamente verso l'unione politica, ma con estrema circospezione. Solo a denti stretti sono disposti a ridurre le loro tradizionali prerogative. Quando sono in gioco moneta e armi (istituzione di una banca e di una moneta unica europea, creazione di un esercito comune, coperazionegiudiziaria) si va al cuore della sovranità degli Stati-nazione. E questa sovranità - per quanto ridimensionata - è ancora una risorsa della quale i governi europei non intendono privarsi. Lo si è visto durante il confuso ed emozionale dibattito sul trattato di Maastricht e nelle riserve formulate di volta in volta dai vari governi nazionali.
Naturalmente gli stessi governi poi alla fine cercano e trovano accordi significativi. Ma un conto è l'intesa tra gli Stati nazionali, un altro è la cessione delle loro prerogative ad una autorità sovranazionale. Chissà per quanto tempo ancora l'Europa politica vivrà del bilanciamento delle sovranità (sia pure ridimensionate) delle nazioni esistenti, in un equilibrio di forza dove alcuni Stati palesemente contano più di altri. Solo la retorica europeista impedisce di valutare nel suo pieno significato il dualismo presente nella costruzione della Comunità tra Bruxelles e Strasburgo e che il progetto dell'Unione non sembra in grado superare con chiarezza. Il dualismo cioè tra una Commissione europea che interloquisce direttamente con i governi nazionali, con le agenzie statali, e un Parlamento europeo sovranazionale ma limitato nelle sue competenze, anche se legittimato da elezioni dirette (svolte, per altro, con sistemi elettorali tra loro eterogenei).
Mentre l'Europa politica, presa tra vaghe aspirazioni federaliste e potenti catenacci nazionali, fatica a darsi una precisa forma politico-statuale, altri fenomeni mettono in imbarazzo la sua cultura presuntivamente omogenea. Strati consistenti di popolazione nei paesi politicamente più solidi (Francia, Germania, Gran Bretagna) sono diventati sensibili alla questione della propria «identità nazionale» nel contesto europeo.
Non si tratta di semplici compensazioni per la riduzione delle sovranità statuali. Sono in gioco processi più sottili che investono la memoria di passati nazionali separati, che non producono spontaneamente sensi di appartenenza comune.
Dietro all' enfasi della comune civiltà europea, rimane inquieta e in conciliata la memoria lunga della lacerazione d'Europa che non a torto viene chiamata «guerra civile europea» (a questo tema è dedicato il capitolo quarto). È una lacerazione che, iniziata nel lontano 1914, è proseguita in forme alterne, con guerre civili e transnazionali, guerre tra Stati-nazioni e Stati-ideologie, per assestarsi in una lunga guerra fredda alla cui conclusione è seguita inaspettatamente la ripresa di guerre e conflitti etnici di sapore antico nell' area balcanica e altrove. La conseguenza di questo processo è il paradosso di un'Europa piena di buoni propositi ma con memorie unificate dalla reciprocità delle ferite.
Ci si può stupire che si facciano queste affermazioni di fronte al susseguirsi di due, tre generazioni. Ma le nuove generazioni sono state tenute accuratamente schermate da quelle memorie storiche: Sono generazioni senza memoria storica o, nel migliori dei casi, autodidatte.
Da questo punto di vista la costruzione dell'Europa, così come si sta configurando, non svolge alcun ruolo critiico-integrativo. Né potrebbe farlo automaticamente secondo il modello che ha funzionato storicamente per i singoli Statinazione europei.
Per la prevedibile persistenza delle culture nazionali tradizionali è ipotizzabile a lungo termine uno Stato federale europeo con una identità del tutto peculiare. A breve/ medio termine è più realistico prevedere un organismo di tipo confederale (comunque etichettato) in cui le nazioni storiche svolgeranno ancora un ruolo importante. Su questo sfondo è pura demagogia enfatizzare una ipotetica «Europa delle regioni» che rischia, di dar luogo a regioni senza Europa. Quando manca una / solida cultura della nazione manca anche una seria visione del regionalismo europeo.

Su questo sfondo è urgente che l'Italia si ritrovi «nazione» nel senso civico pieno detto sopra. Non cessi di esse,re nazione. Ne va di mezzo la capacità di concordare e contrattare con i più solidi partner europei l'insieme degli interessi legittimi di una collettività storica, che ha tutto da perdere dalla propria disgregiazione.
Ne va di mezzo la rilevanza della sua identità culturale, altrimenti abbandonata alla casualità dell' accesso di qualche eminente intellettuale italiano nei salotti europei.

Il.
Ripensare la nazione.
Tra etnodemocrazie regionali e costruzione europea

1. Nell'Europa occidentale proiettata verso l'unità politica ci si attendeva l'eutanasia della nazione. Invece il faticoso processo politico europeo di questi mesi conferma non soltanto la sopravvivenza competitiva di alcune prerogative degli Stati nazionali, ma rivela lo sconcerto di vasti strati di popolazione diventata insicura circa la capacità di determinare il proprio destino. Dietro alla protesta contro la «burocrazia di Bruxelles», magari pilotata da qualche governo nazionale in nome di una maggiore «partecipazione democratica», si intuisce una genuina inquietudine della gente circa il valore della propria appartenenza nazionale. A molti non è più chiaro che cosa vuol dire in concreto essere cittadini tedeschi, italiani, francesi ecc. e insieme cittadini europei.
La formazione dell'Europa politica non estingue le identità delle nazioni storiche europee: le costringerà a ridefinirsi. Ma per ora semplicemente le mette in agitazione. La stessa Europa come entità geopolitica unitaria rivela una fisionomia culturale frammentata e separata lungo linee nazionali assai più tenaci di quanto non voglia ammettere la buona volontà europeista1.
Naturalmente tutto questo è correggibile, anzi va corretto, perché non esistono alternative all'Europa unita. Ma il lavoro politico e la riflessione culturale devono cominciare dal dato che sembrava più obsoleto e triviale: dalla nazione appunto. Con una precisazione in più: se perde importanza la omologazione delle nazioni europee secondo il calco dello Stato-nazione, ciascuna nazione è costretta a ridefinirsi come tale da sola. Il modo di rapportarsi dei tedeschi verso la propria nazione e verso l'Europa, ad esempio, ha percorsi diversi da quelli degli italiani' e dei francesi - e così via.
La «de-costruzione» dello Stato-nazione in prospettiva europea non porta dunque al dissolvimento della nazione. Certamente non nella direzione attesa da chi ritiene che la nazione moderna sia un'invenzione dei nazionalismi e dei loro progetti politico-statuali. Siamo davanti invece ad una fenomenologia molto complicata, che va dalla ricerca di nuovi criteri di riaffermazione della propria «identità nazionale» (con un avventuroso ricupero dell'idea di etnia che in poco tempo è diventata una parola passe-partaut), sino a veri e propri risvegli neonazionalistici, soprattutto nell'area orientale dell'Europa. Ma separatismi etnonazionali, regionalismi etnocentrici e movimenti xenofobi, che si autolegittimano in nome di presunte minacce alla propria integrità identitaria, percorrono trasversalmente tutto il continente. Tutto questo è soltanto un modo selvaggio di riaffermare ciò che un tempo era semplicemente chiamata «nazione» ?
Svilupperò questa problematica, prendendo spunto dalla specifica situazione italiana, in modo tale però da mantenere sempre un'ottica europea, senza perdere di vista la relazione tra nazione, etnia e cittadinanza in termini generali.

2. Parlavo sopra del successo del termine «etnia» nel linguaggio colto, giornalistico e quindi politico. Il suo significato sembra immediato e insieme suggestivo, in realtà rimane vago nei suoi indicatori concreti. Si dice «etnia» là dove ieri si diceva semplicemente «popolo» o «nazionalità» (ma anche «razza», prima che questa parola divenisse tabù). Etnia diventa così la somma delle consuetudini, tradizioni, simboli e ricordi di comunità relativamente ristrette. Diventa sinonimo di identità culturale radicata o ascritta ad una appartenenza «originaria» contrapposta a quella nazionale convenzionale.

Ma non basta. Le etnie non sono soltanto «identità non negoziabili» (come dicono volentieri i sociologi), ma anche risorse strategiche. E quindi le loro auto rappresentazioni possono essere opportunamente modificate, manipolate, funzionalizzate. Soltanto così il riferimento alla identità ettnica può aggregare le più disparate esigenze e domande materiali e sociali, sprigionando le energie necessarie per un impegno politico che altri riferimenti ideologici o identitari non sanno più produrre.
Dal punto di vista logico e funzionale l'invenzione e la manipolazione dell'identità etnica, compresi i suoi miti e simboli, non è diversa da quella nazionale. Siamo davanti ad un agire politico delle etnie del tutto omologo (fatte le debite proporzioni) a quello che ha caratterizzato le nazioni storiche, che ora vengono contestate.
L'Italia si è trovata imprevedibilmente coinvolta in questo processo, non già per il risveglio di domande autonomiste antiche (siciliane, sarde, valdostane), ma per la comparsa di un movimento nuovo, squisitamente politico e geograficamente radicato al nord, il movimento delle leghe, che ha saputo suscitare pretese di identità regionale antagoniste alla identità nazionale. Da qui nasce la rivendicazione di un «federalismo radicale» che non esclude quale extrema ratia la divisione dell'Italia unitaria in tre «macroregioni» (settentrionale, centrale e meridionale).
Non ci interessa in questa sede valutare il grado di realizzabilità politica o anche solo tecnico-operativa di questa ipotesi. Ci basta prendere atto che essa ha fruttato alla lega in consensi elettorali e rimane un argomento credibile da spendere nel dibattito e nella contrattazione politica. È spendibile paradossalmente anche nel suo abbandono o nel rinvio sine die. Questo ci basta per fare alcune considerazioni di merito.
L'ipotetica creazione della cosiddetta Repubblica del nord, vero obiettivo della divisione macroregionale, non può avanzare motivazioni «etniche» o storico-culturali analoghe a quelle che legittimano l'autonomismo della Catalogna o quello della Slovenia. Non può cioè esibire specificità etno-culturali, linguistiche, storiche o territoriali analoghe a quelle degli Stati-regione ora menzionati. Dal punto di vista storico e etno-culturale, ad esempio, non c'è nessuna ragione per tenere unito il Friuli alla Liguria o all'Emilia piuttosto che al Lazio o alla Puglia. L'obiettivo della ricomposizione «macroregionale» risponde a criteri geopolitici ed economici del tutto opportunistici.
Non meno problematico è il richiamo ad una presunta «cultura lombarda» concepita, per altro, più come costume morale che come dato etno-antropologico.
In verità il leghismo usa con moderazione (e solo in ristrette cerchie di attivisti) l'elogio diretto delle virtù lombarde, preferendo l'elenco dei soprusi (iniquità distributiva, inefficienza dei servizi pubblici, dissesto generale dell'economia, partito era zia ecc.) di cui i lombardi e i settentrionali sarebbero vittime privilegiate - proprio perché impediti dal poter porvi rimedio direttamente.
Non va sottovalutata l'abilità di questa strategia a due livelli nel motivare alla rivolta autonomista. Alla richiesta dell'autonomia si arriva innanzitutto per l'inefficienza e la corruzione di Roma, e solo secondariamente per la presunzione di innate virtù o talenti lombardi o nordisti.
Insomma, il primo movente del federalismo leghista è quello politico di costruire un'efficiente struttura regionale o macroregionale su misura del potenziale (ora mortificato) delle regioni interessate. Soltanto in seconda istanza il leghismo si concepisce come una sorta di recinto di difesa di una specifica cultura «diversa», non omologabile a quella genericamente nazionale.
Molti degli obiettivi proclamati non sono di per sé incompatibili con la persistenza della unità nazionale, articolata in regioni. Ma l'intero progetto rimane a tutt'oggi troppo indeterminato, perché palesemente subordinato ad una ulteriore affermazione elettorale. La «nazionalizzazione» del leghismo è un passo necessario sul quale sta puntando tutte le sue carte il leader della lega. La minaccia - ora sospesa - di iniziative unilaterali di tipo secessionista fa parte del gioco.
Che questo gioco possa degenerare, al di là delle manovre di vertice, verso risultati che intaccano il solidarismo civico, sostanza della nazione democratica, è una preoccupazione che non turba i leghisti. Per noi invece diventa l'invito a ridefinire la nazione in modo che i legami delle appartenenze particolari non entrino in collisione con l'universalismo della cittadinanza. La posta in gioco della contestazione leghista infatti non è soltanto l'unità nazionale storica, come tale, ma una certa idea di cittadinanza nazionale e universale con essa con cresciuta.
Sarebbe scorretto dire che allo stato attuale il leghismo sia antidemocratico tout court, anche se non sembra possedere una cultura democratica limpida e consolidata. Questo porta molti osservatori a metterne a fuoco le componenti negative (pregiudizio antimeridionale, latente xenofobia) o dubbie dal punto di vista democratico (rivolta fiscale). Molte incertezze di giudizio sono prodotte dallo stile carismatico o demagogico di comando del vertice della lega lombarda, che solleva dubbi sulla visione e sulla pratica democratica del leghismo in quanto tale. Occorre tuttavia distinguere tra problemi di leadership (ed eventuali incertezze al suo livell103) e spontaneo democraticismo di base che non sembra covare sindromi autoritarie o fascistoidi, ma piuttosto modelli populisti. In ogni caso la partecipazione democratica è vista sempre strettamente radicata al territorio etnico di elezione.
Qui si annida un potenziale etnocentrico che può entrare in collisione con una concezione universalistica (oltre che nazionale) dei diritti di cittadinanza. Non credo che il leghista anche più radicale, che sogna la propria «repubblica del nord», pensi a restrizioni di diritti civili e politici fondamenntali per chi dovesse venire da altre «repubbliche», o pensi di costruire nuovi «muri». Ma il primo effetto del federalismo radicale (di fatto secessionista) sarebbe un diverso valore della cittadinanza sociale nella macroregione settentrionale rispetto a quella meridionale. Quest'ultima, nella sua nuova «autonomia», dovrà rinegoziare, da ovvie posizioni di debolezza, un'infinità di regole che porteranno ad una profonda alterazione dell' attuale insieme di diritti sociali di cittadinanza degli abitanti delle regioni meridionali. Non c'è nessun dubbio che questo risponde alle intenzioni dei leghisti che vogliono punire sia la politica meridionalista condotta sinora dallo Stato centrale sia lo stigma mafioso che ai loro occhi segna il Mezzogiorno come tale.
Come si vede, la minacciata ritrattazione della appartenenza nazionale non è più una questione di rescissione di legami storici e culturali: è una incisione profonda nel valore concreto della cittadinanza italiana.

3. Non si può fare un'analisi seria del leghismo senza una riconsiderazione della nazione - una riconsiderazione che la precede sul piano argomentativo mettendone a fuoco il nocciolo civico-democratico. Ben consapevoli della complessità del tema4 e della sterminata letteratura esistente5, procederemo in tre passaggi successivi e complementari.
a) Per cominciare, la nazione è un costrutto identitario di soggetti! attori che, per suo tramite, danno senso e coerenza ad alcune dimensioni della loro identità e storia personale e collettiva, vincolandosi a determinati comportamenti.
Questa definizione, tutta centrata sulla funzione identitaria della nazione, è tuttavia insufficiente perché nella costituzione dell'identità di individui e gruppi entrano molti e differenti fattori costitutivi. Non a caso si parla per individui e collettivi di identità plurime. Siamo così dinnanzi al compito di qualificare con maggiore precisione «il senso e la coerenza» della identità nazionale, rispetto - poniamo a quella religiosa o all'appartenenza sociale (professionale o di classe). La qualificazione identitaria nazionale non può che essere di ordine politico. Ovvero il senso e la coerenza, da essa generati, devono materializzarsi in lealtà verso un sistema politico e quindi in solidarismo tra i suoi membri.

b) A questo punto, compiamo un secondo passaggio argomentativo. Consideriamo cioè il risultato oggettivo, per così dire, dei processi soggettivi di identificazione nazionale appena formulati. La nazione allora ci appare come una comunità umana che, nell'ambito di un determinato territorio, pretende per sé (con successo) la lealtà politica e la solidarietà civica.
L'orecchio esperto del sociologo e del politologo ha colto che questa definizione di nazione ricalca esattamente la definizione weberiana di Stato. L'ho fatto intenzionalmente per mostrare non solo che si può definire la nazione in modo distinto ma congruente con lo Stato concepito weberianamente come monopolio della forza legittima; ma anche che la nazione, intesa come sopra, svolge una funzioone primaria di legittimazione dello Stato stesso. Infatti uno Stato che non disponesse di lealismo e solidarismo civico è destinato a perire.

c) Siamo al passaggio finale: le virtù civiche della lealtà e della solidarietà, cui è assegnata la funzione legittimatoria del potere statale democratico, non possono essere considerate in qualche modo innate, ma vengono prodotte. Questo processo formativo si fonda sul riconoscimento sia di comuuni radici storiche, di comuni matrici etnoculturali, sia di buone ragioni attuali per mantenere viva la democrazia. La sintesi tra il riconoscimento delle radici storiche e quello delle ragioni della convivenza democratica dà corpo alla «nazione dei cittadini» in senso pieno.

4. Non mi nascondo la complessità e i limiti di questa formulazione, in particolare nel secondo passaggio (funzione legittimatoria della nazione nei confronti dello Stato) che sembra ignorare l'esistenza di Stati plurinazionali. Questo punto si chiarisce estendendo e sviluppando ad esso la tensione tra la nazione-ethnos e la nazione-demos - un paradigma tra i più stimolanti sul nostro tema6. Infatti l'identità nazionale, articolata attraverso il lealismo politico, rimanda al modello politico del demos (appartenenza elettiva ad una comunità politica), ma rivendica nel contempo il riferimennto a comuni radici storiche e culturali, all' ethnos appunto.
Le difficoltà nascono quando scopriamo che la nazione storica è una concrezione di più ethnos (così potremmo al limite chiamare le tradizionali culture regionali italiane). Il punto allora non è tanto il riconoscimento dell' ethnos accanto o dentro al demos, quanto 1'accettazione di più ethnos che hanno contribuito storicamente a fare una nazione. Anzi sono diventati essi stessi una «buona ragione» per costruire insieme una comunità nazionale. In questo modo la reciprocità tra i cittadini dei diversi ethnos trova il suo fondamento proprio nella comune impresa storica di farsi nazione-demos.
Insomma, nella definizione della nazione democratica l'universalismo della cittadinanza politica liberamente scelta (demos) si concilia con il particolarismo delle appartenenze ad una pluralità di ethnos con cui è storicamente concresciuta. Il riferimento affermativo alla nazione intesa in questo modo plurale fa parte di una cultura democratica.
Se assumiamo questa ottica, non pare convincente Èneppure da un punto di vista di una pedagogia democratica la contrapposizione della cittadinanza universalistica alla nazione storica - come suggerisce Jirgen Habermas7• Il filosofo tedesco infatti insiste sul carattere contingente del nesso tra nazione storica e democrazia. Non c'è dubbio alcuno che sul piano concettuale la democrazia possa fare a meno del riferimento nazionale e la cittadinanza democratica sia separabile dall'identità nazionale. Ma se ci poniamo dentro alla concretezza delle culture politiche, della società civile e alla loro storia (alle «forme di vita» - come piace dire al filosofo franco fortese) questa separazione rischia una operazione mentale dalle conseguenze dubbie. Faccio un esempio-limite: che senso avrebbe dichiarare ad alcune dimensioni della loro identità e storia personale e collettiva, vincolandosi a determinati comportamenti.
Questa definizione, tutta centrata sulla funzione identitaria della nazione, è tuttavia insufficiente perché nella costituzione dell'identità di individui e gruppi entrano molti e differenti fattori costitutivi. Non a caso si parla per individui e collettivi di identità plurime. Siamo così dinnanzi al compito di qualificare con maggiore precisione «il senso e la coerenza» della identità nazionale, rispetto - poniamo a quella religiosa o all'appartenenza sociale (professionale o di classe). La qualificazione identitaria nazionale non può che essere di ordine politico. Ovvero il senso e la coerenza, da essa generati, devono materializzarsi in lealtà verso un sistema politico e quindi in solidarismo tra i suoi membri.
b) A questo punto, compiamo un secondo passaggio argomentativo. Consideriamo cioè il risultato oggettivo, per così dire, dei processi soggettivi di identificazione nazionale appena formulati. La nazione allora ci appare come una comunità umana che, nell'ambito di un determinato territorio, pretende per sé (con successo) la lealtà politica e la solidarietà civica.

L'orecchio esperto del sociologo e del politologo ha colto che questa definizione di nazione ricalca esattamente la definizione weberiana di Stato. L'ho fatto intenzionalmente per mostrare non solo che si può definire la nazione in modo distinto ma congruente con lo Stato concepito weberianamente come monopolio della forza legittima; ma anche che la nazione, intesa come sopra, svolge una funzione primaria di legittimazione dello Stato stesso. Infatti uno Stato che non disponesse di lealismo e solidarismo civico è destinato a perire.
c) Siamo al passaggio finale: le virtù civiche della lealtà e della solidarietà, cui è assegnata la funzione legittimatoria del potere statale democratico, non possono essere considerate in qualche modo innate, ma vengono prodotte. Questo processo formativo si fonda sul riconoscimento sia di comuni radici storiche, di comuni matrici etnoculturali, sia di buone ragioni attuali per mantenere viva la democrazia. La sintesi tra il riconoscimento delle radici storiche e quello delle ragioni della convivenza democratica dà corpo alla «nazione dei cittadini» in senso pieno.

4. Non mi nascondo la complessità e i limiti di questa formulazione, in particolare nel secondo passaggio (funzione legittimatoria della nazione nei confronti dello Stato) che sembra ignorare l'esistenza di Stati plurinazionali. Questo punto si chiarisce estendendo e sviluppando ad esso la tensione tra la nazione-ethnos e la nazione-demos - un paradigma tra i più stimolanti sul nostro tema6. Infatti l'identità nazionale, articolata attraverso il lealismo politico, rimanda al modello politico del demos (appartenenza elettiva ad una comunità politica), ma rivendica nel contempo il riferimento a comuni radici storiche e culturali, all'ethnos appunto.
Le difficoltà nascono quando scopriamo che la nazione storica è una concrezione di più ethnos (così potremmo al limite chiamare le tradizionali culture regionali italiane). Il punto allora non è tanto il riconoscimento dell' ethnos accanto o dentro al demos, quanto 1'accettazione di più ethnos che hanno contribuito storicamente a fare una nazione. Anzi sono diventati essi stessi una «buona ragione» per costruire insieme una comunità nazionale. In questo modo la reciprocità tra i cittadini dei diversi ethnos trova il suo fondamento proprio nella comune impresa storica di farsi nazione-demos.
Insomma, nella definizione della nazione democratica l'universalismo della cittadinanza politica liberamente scelta (demos) si concilia con il particolarismo delle appartenenze ad una pluralità di ethnos con cui è storicamente concresciuta. Il riferimento affermativo alla nazione intesa in questo modo plurale fa parte di una cultura democratica.
Se assumiamo questa ottica, non pare convincente neppure da un punto di vista di una pedagogia democratica la contrapposizione della cittadinanza universalistica alla nazione storica - come suggerisce Jiirgen Habermas7• Il filosofo tedesco infatti insiste sul carattere contingente del nesso tra nazione storica e democrazia. Non c'è dubbio alcuno che sul piano concettuale la democrazia possa fare a meno del riferimento nazionale e la cittadinanza democratica sia separabile dall'identità nazionale. Ma se ci poniamo dentro alla concretezza delle culture politiche, della società civile e alla loro storia (alle «forme di vita» - come piace dire al filosofo francofortese) questa separazione rischia una operazione mentale dalle conseguenze dubbie. Faccio un esempio-limite: che senso avrebbe dichiarare «contingente» il nesso storico tra la motivazione patriottico nazionale della Resistenza antifascista e la qualità del «patto democratico» sedimentato nella Costituzione che alla Resistenza si ispira?
Dal punto di vista civico sarebbe opportuna una pedagogia opposta a quella habermasiana che asserisce il carattere «contingente» di quel nesso.
Detto questo, rimane vero che l'appartenenza nazionale, non essendo un'impronta etnica indelebile, è in linea di principio ritrattabile. Si suppone tuttavia che siano casi estremi e motivati da buone ragioni. Ci sono esempi storici di rinuncia alla nazionalità (non solo in senso formaletico ma di profonda e dolorosa disidentificazione culturale) quando la nazione di appartenenza si trasforma in sistema antidemocratico, totalitario. È stata 1'esperienza di molti esuli antifascisti italiani e tedeschi. Ad essi potremmo aggiungere gli esuli e i dissidenti sovietici. In questi casi, sì, il principio democratico si dissocia dalla appartenenza nazionale. Ma si tratta di situazioni così anomale che 1'aspirazione più grande degli interessati è quella di ricomporre democrazia e nazwne.

5. La legittimità della ritrattazione della nazione ora ricordata non può essere riconosciuta all'ipotetico autonomismo regionale leghista, che pure avanza pretese di democrazia diretta e radicale.
I leghisti declinano a loro modo demos e ethnos subordinando il primo al secondo, creando potenzialmente le premesse per una etnocrazia o quantomeno una etnodemocrazia. Riprendendo quanto anticipato sopra, si può aggiungere che questa espressione segnala la rivendicazione di diritti di autodeterminazione con esclusivo riferimento a criteri etnoculturali o geografici auto definiti.
Questi possono includere il diritto di conservazione e promozione esclusiva di un patrimonio culturale e linguistico autonomo (vero o presunto) e la pretesa di proteggere e mantenere lo status di benessere regionale al di fuori da ogni vincolo nazionale. È il mito della Padania agganciata all' area del marco e alla Baviera.
La etnodemocrazia può presentare molte varianti, talvolta apparentemente innocue, come una gestione della politica scolastica regionale rigidamente affidata a personale locale, con il pericolo di un impoverimento culturale etnocentrico e separatista - pur nel mantenimento formale di legami nazionali.
Alle suggestioni etnodemocratiche si può rispondere in due modi. O si nega decisamente la pretesa di una pluralità di «identità e regioni etniche» in Italia, oppure si riconosce positivamente che la nazione italiana è nata storicamente ed è maturata civicamente anche da tale pluralità.
La storia italiana preunitaria, quella che cronologicamente coincide con la formazione dello Stato moderno, non è una storia di regioni violate e soggiogate al potere centrale (come è accaduto altrove in Europa). È una storia di piccole e grandi regioni-Stato (ora autonome ora subalterne a potenze esterne) che non hanno mai cessato di sentirsi unite tra loro per storia, cultura e lingua. In questo senso non hanno mai cessato di sentirsi un'unica nazione culturale. È insensato pertanto stabilire analogie dirette tra la Bretagna, la Corsica e il Lombardo-Veneto o la Romagna papalina.
Dopo l'unificazione nazionale, sconfitta l'ipotesi federale di Cattaneo, non è mai emersa in modo energico l'alternativa o il correttivo regionalista al rigido centralismo. Presso la classe dirigente italiana è prevalsa la visione della nazione unitaria e centralizzata come strumento di controllo e di modernizzazione di un paese indebolito do' secolari microdivisioni statuali-regionali oltre che socio economicamente. Il federalismo regionale non è mai sta lo considerato uno mezzo adatto alla modernizzazione neppure dagli avversari politici del nuovo Stato unitario, clericali e socialisti, che pure erano gelosi dei loro poteri locali periferici. Poi con il primo decennio del secolo esplodono sull'intero continente le passioni nazionalistiche cui il ceto dirigente italiano non sa sottrarsi. Il resto lo fa il fascismo.
Insomma ufficialmente nell'Italia unitaria si pratica, o meglio si sarebbe dovuta praticare, una rigorosa nazionalizzazione delle regioni e quindi dei nuclei etnici espressi loro tramite. Dico «si sarebbe dovuto» perché la endemica debolezza dello Stato nazionale e della sua classe dirigente non riesce mai a «fare gli italiani» in modo analogo a quanto accade nello stesso periodo in Francia ad esempio.
Con ciò, sarebbe storicamente scorretto negare che in Italia si sia formata comunque una coscienza nazionale, non foss'altro attraverso l'esperienza traumatica della Grande Guerra e - diciamo pure - attraverso il suo sfruttamento emotivo e propagandistico da parte del nazional-fascismo, complice illealismo monarchico. Certo: il grado di identificazione nazionale segue una sottile ma trasparente stratificazione di classe, parzialmente coincidente anche con quella tra territorio urbano e territorio rurale. Presso le classi proletarie e contadine si tratta di una sovraimpressione rispetto a originarie identità locali. Ma queste ultime sopravvivono per spontanea vitalità, non come motivo di resistenza culturale alla nazione.

Le due identità, locale/regionale e nazionale, convincono pertanto a lungo in una singolare simbiosi che sfugge al controllo del nazionalismo ufficiale. Questa simbiosi, sopravvissuta alla catastrofe nazional-fascista, non appare degna di attenzione e di studio da parte della nuova cultura politica democratico-repubblicana.
Neppure il federalismo di origine resistenziale - nella sua doppia valenza sovranazionale (europea) e infranazionale (regionalista) - riesce ad affermarsi politicamente. Anzi, sin dall'inizio il regionalismo viene sacrificato in nome di una corretta ma astratta precedenza logica al federalismo europee. Si ritiene infatti che la strategia migliore per battere lo Stato-nazione sia quella di intaccare la sua sovranità esterna, piuttosto che di disarticolarlo al suo interno.
Certo: la Costituzione prevede le Regioni nello spirito dell'autogoverno democratico che corregge il tradizionale statalismo centralista. Ma il principio dell' autogoverno regionale è visto innanzitutto come decentramento amministrativo o, nelle ipotesi più politicizzate di sinistra, come controllo sociale dal basso - non certo come riconoscimento di specifiche identità regionali degne di diventare come tali soggetti di politica.
Così le Regioni saranno realizzate tardivamente negli anni settanta con competenze assolutamente insufficienti; si riveleranno un adempimento amministrativo senza forza innovativa, con progressiva perdita di legittimazione politica, diventando addirittura in qualche caso strumenti di ulteriore mediazione politica, con la moltiplicazione, a livello locale, di difetti del sistema generale. Oggi è ridiventato urgente rimettere mano a tutta la materia e non mancano proposte interessanti che riguardano il ridisegno territoriale delle regioni, la loro autosufficienza economico-finanziaria e quindi le loro nuove competenze politico-amministrative.
Di fronte a questa tormentata vicenda del rapporto nazione-regione, le abborracciature storiche con cui il leghismo nei discorsi da bar e nelle adunate di Pontida si autolegittima come riscopritore di un originale ethnos regionale reggono soltanto grazie al miserabile livello della cultura e della memoria storica pubblica del nostro paese. Ma la colpa non è dei leghisti, bensì delle insufficienze della nostra scuola e delle inadempienze del servizio pubblico radio-televisivo. Responsabile è il ceto intellettuale, che sta alle spalle della scuola e dell'apparato mass-mediale, e che ha sempre considerato provinciale (se non reazionario) raccontare, in modo affermativo, le vicende grandi e miserabili che ci hanno fatto upa nazione da regioni separate.
E rinuncio qui a contestare la pretestuosità del richiamo leghista al regionalismo europeo che nasce da esperienze nazionali inconfrontabili con quella italiana. Il regionalismo europeo, quando non è semplicemente efficiente decentramento amministrativo, esprime una fase avanzata dello sviluppo delle società e delle economie nazionali, che ricercano cooperazioni transnazionali circoscritte geopoliticamente (le «regioni», appunto). Questo regionalismo non ha le finalità punitive nei confronti della nazione unitaria che caratterizzano invece certo leghismo nostrano, senza dimenticare che la vaghezza e le ambiguità della tanto evocata «Europa delle regioni» solleva autorevoli perplessità anche fuori Italia.

6. Torniamo alla questione generale dei diritti di cittadinanza e della loro messa in pratica. Su questo tema, anche su stimolo della trattazione di T.H. Marshall, che distingue tra diritti civili, sociali e politici, disponiamo di una abbondante e qualificata letteratura storico-politologica.Ma si ha spesso la sensazione che sia più facile evocare la cittadinanza come catalogo dei diritti (e della loro motivata estensione nel corso del tempo) che non come vincolo di reciprocità, base del solidarismo civico.
Naturalmente tutti gli autori hanno cura di menzionare anche i doveri del cittadino. Ma questa menzione ha spesso l'aria di un fortunoso affidamento alla buona volontà degli interessati. Dando centralità al concetto di reciprocità intendiamo invece sottolineare che la cittadinanza stessa, intesa come titolarità di accesso a determinati beni pubblici, presuppone una condizione di interazione che ha costi collettivi da spartire - sotto pena di un danno comune. Con questo approccio l'esercizio della cittadinanza democratica trova argomenti «razionali» in più per stigmatizzare comportamenti opportunistici, strumentali e profittatori.

Quello della democrazia non è il legame spontaneo e insieme coatto «del sangue e della terra», bensì un rapporto di reciprocità condizionale, secondo regole liberamente condivise. Rapporto condizionale non significa determinato dal calcolo del proprio beneficio immediato ma consapevole della condizione di interdipendenza dei cittadini. Esso può implicare anche il differimento dell'utile immediato. Anzi non va dimenticato che la reciprocità, di cui parliamo, prevede e sconta squilibri e disimetrie di risorse e di posizione di potere tra i cittadini, che dovrebbero essere corrette appunto dalle politiche di solidarismo civico.
Mi rendo conto di fare un discorso ovvio per il filosofo morale ma astratto per il cittadino comune, che si trova frequentemente a corto di ragioni che motivino alla solidarietà che gli viene raccomandata. Per questo ritengo che tra le «buone ragioni» a favore dei vincoli di reciprocità tra i cittadini debba trovare posto anche una comune appartenenza nazionale. Ritorna il quesito che è sotteso alle considerazioni fatte sin qui: a favore dei vincoli di reciprocità tra i cittadini può valere l'argomento della comune identità nazionale, sia pure articolata regionalmente?
Il richiamo alla nazione ha buone chances di svolgere questa funzione se i contenuti, che le sono stati sopra positivamente attribuiti, vengono sganciati dalla tutela dello Stato-nazione e rideclinati invece con i valori presenti nella società civile. Non si tratta di rinnegare il processo storico che ha prodotto lo Stato-nazione ma di prendere atto che la statualità non esaurisce le ragioni di una «nazione di cittadini» che si ritrova e si riconosce piuttosto nella storia e nella dinamica della società civile.
Questo riaggancio della nazione alla società civile deve essere tuttavia accompagnato da una avvertenza. La «società civile» non può essere immaginata come una sorta di sede della libertà, fonte di vitalità e ricchezza, contrapposta alla «politica statuale» vista come mero potere, fonte di rigidità burocratico-istituzionali e di impoverimento civico. La «società civile» è semplicemente il luogo dello scambio interattivo e quindi dei processi di integrazione tra cittadini. Questi riconoscono tra di loro legami precedenti e stringono liberamente patti, da cui prende legittimità lo Stato democratico stesso. In questo processo interattivo trova posto anche il riconoscimento dell'appartenenza nazionale con la sua funzione legittimatoria, con le precisazioni fatte sopra. Il patto di lealtà verso lo Stato democratico si fonda sull' aspettativa (condizionale) del soddisfacimento dei propri legittimi diritti, sulle «ragioni» della convivenza democratica, ma anche sul riconoscimento di altri legami, che abbiamo individuato come «radici» storiche della nazione.
Nei dibattiti sulla nazione si incontra sempre la felice espressione di Ernest Renan che la nazione è «un plebiscito di tutti i giorni»14. Questa frase è citata a sostegno della natura essenzialmente politica ed elettiva della nazione in contrapposizione ad una sua concezione etnicista e naturalista. Ma l'affermazione di Renan, posta nel suo contesto, si trova al culmine di una appassionata perorazione della nazione come somma di glorie, emozioni, ricordi, amnesie collettive, come comunanza di destini. Il «plebiscito di tutti i giorni» prima ancora che formula politica del fondamento universalistico della nazione, è una metafora del riconoscimento reciproco basato su storie e memorie comuni. Questo non significa, beninteso, affidarsi acriticamente alla nazione storica come destino, ignorando gli errori e i costi umani terribili richiesti e dati per la sua costruzione. Ma per risarcire quei costi, per instaurare un nuovo solidarismo non basta contrapporre il principio universalistico della cittadinanza democratica a quello storico della appartenenza ad una nazione. Occorre ricomporre positivamente le due dimensioni in un unico discorso pubblico, proiettato ovviamente nella dimensione europea. Ma - si badi - l'Europa non potrà fornire il surrogato della integrazione solidale, di cui stiamo parlando, perché non è e non sarà una nazione nel senso in cui lo sono (o lo sono state) le nazioni europee.

7. Come si presenta allora l'Europa nell’ottica sin qui tracciata? Distinguiamo per chiarezza la costruzione politiico-giuridica in senso proprio, da cui procedono formalmente i diritti di cittadinanza, e la costruzione culturale che di tali diritti è l'ambiente di incubazione. In entrambe le dimensioni sono evidenti le carenze - se guardiamo alle nostre aspettative e impazienze.

Deficit di politica e deficit di democrazia sono le obiezioni avanzate più frequentemente. In previsione dell'Unione europea si teme che i meccanismi burocratici e/o tecnocratici comunitari, lasciati alla propria logica, tendano soprattutto ad espandersi anziché a dare spazio a più ampi processi di legittimazione democratica e in generale alle scelte della political5. Dahrendorf parla di «assenza di una vera constituency politica per l'Europa»l6. Ma è difficile dire se siano proprio queste le cause delle difficoltà continuamente risorgenti in tema di politica economica e monetaria, per tacere del «pule della difesa europea»l7.
Se passiamo alla dimensione culturale della costruzione europea, occorre prendere atto che alcuni tratti costitutivi della nazione storica - lingua, cultura, storia, memoria comune - non caratterizzano la Comunità europea e la futura Unione come tale. Eventualmente la caratterizzano in modo completamente inedito. Quando si dice che le nazioni europee hanno una «comune» storia, memoria, cultura, si fa evidentemente un'affermazione vera. Ma il suo significato è completamente diverso da quello inteso quando si dice che ciascuna delle nazioni europee ha una storia, memoria, cultura che «accomuna» i suoi membri. È la differenza che esiste tra la comunanza che si stabilisce con la interazione tra più nazioni e la comunanza che si produce all'interno di ciascuna nazione attraverso l'integrazione identitaria dei suoi membri. Naturalmente quest'ultima può essere anche un sottoprodotto della interazione con gli altri paesi: l'identità di una singola nazione europea infatti può essersi formata delimitandosi - spesso col ferro e col fuoco - dalle nazioni VIClne.
Che nel frattempo la Comunità europea non intenda più essere soltanto una «interazione di nazioni», ma voglia diventare un soggetto autonomo di politica comune, non significa che l'Europa si trasformi automaticamente in una «nazione più grande». Non significa che si mettano in moto spontaneamente meccanismi integrativi e identitari analoghi a quelli che hanno creato le nazioni tradizionali. Lo si vede persino nelle famiglie ideologico-partitiche (liberale, socialista, democristiana) che si pretendono transnazionali. I loro rapporti hanno i caratteri della diplomazia e della cortesia più che della affinità culturale. Al di là delle grandi dichiarazioni di principio non esiste vera sintonia culturale tra un democristiano di Bonn e uno di Roma, tra un socialista di Lione e uno di Milano. L'Europa non ha solo opinioni pubbliche schermate l'una verso l'altra, ma anche classi politiche con una insufficiente intesa reciproca - nonostante la buona volontà dei parlamentari che siedono a Strasburgo.
Né, d'altra parte, l'Europa unita potrà aspirare ad essere una nazione come gli Stati Uniti d'America costruiti storicamente su processi paralleli di assimilazione (sopratutto attraverso la lingua) e segmentazione delle etnie e culture immigrate.
All'Europa non può neanche essere applicato per analogia il concetto di Kulturstat, usato dai tedeschi per definire la loro condizione di area politicamente divisa ma culturalmente omogenea nei secoli XVII e XVIII. Le nazioni europee infatti stanno convergendo politicamente e amministrativamente ma rimangono differenziate sul piano culturale e innanzitutto linguistico. Insisto sul fattore linguistico perché nel dibattito tra intellettuali viene troppo disinvoltamente sottovalutato. Parlare di cultura europea quasi si trattasse di un omologo delle singole culture nazionali (tedesca, francese, italiana), è un benevolo autoinganno. Per una solida comunicazione culturale viene sottovalutata in genere la barriera linguistica, che nessuno scambio turistico e attivismo editoriale multinazionale possono facilmente abbatte-. re. Un'Europa poliglotta avrà comunque seri problemi di integrazione culturale. Uno Stato di nazioni o nazionalità europeo assomiglierà - culturalmente parlando - ad una confederazione svizzera di dimensioni continentali.
Queste considerazioni di cautela non intendono minimamente frenare le iniziative tese a superare le differenze, soprattutto nel campo dei diritti di cittadinanza. È decisivo arrivare a legislazioni sempre più omogenee e a diritti equivalenti a Disseldorf e a Palermo, a Lione e a Glasgow. Ma, per raggiungere questo obiettivo ci sono due tappe importanti: l'effettiva rappresentanza e competenza legislativa del Parlamento europeo, eletto con un sistema elettorale omogeneo sull'intero territorio comunitario; e quindi il diritto di voto nelle consultazioni comunali di residenza per tutti i cittadini europei regolarmente ivi residenti. Su entrambi i punti le resistenze sono forti - a cominciare dai due paesi pivot dell'Europa, Francia e Germania.
Eppure queste sono le premesse necessarie, e neppure sufficienti, per creare in Europa un senso di appartenenza e di lealtà che svolga una funzione identitaria non surrogatoria né antagonista a quella nazionale. Solo così si potrà parlare seriamente e non solo burocraticamente di cittadinanza europea.

III.
Le radici della legittimazione della Repubblica. Senso e mito della Resistenza

1. La Resistenza italiana contro il fascismo e le truppe di occupazione tedesche (settembre 1943-aprile 1945) è l'evento che dà senso politico fondante all'Italia repubblicana. Ma da qualche tempo !'immagine pubblica della Resistenza, al di là della ritualità unanime che l'accompagna, mostra incrinature e contestazioni. Anche quando non è direttamente messo in discussione il suo valore storico e simbolico di lotta per la liberazione nazionale, si avanzano dubbi sulla sua reale fisionomia storica e sulle motivazioni dei suoi protagonisti. Si contesta un «mito» della Resistenza - senza che sia chiaro che cosa si intenda con questa espressione.
La sinistra, soprattutto ex comunista, vedendo in tutto questo oscure manovre politiche, lancia 1'allarme contro «l'attacco ai valori della Resistenza». In realtà non ci si trova di fronte a orchestrazioni politiche ma a segni di un più generale disorientamento, non da ultimo a seguito della eutanasia del Partito comunista italiano.
Come esempio può valere il clima teso di polemiche che nell'estate-autunno 1990 si diffonde sui mass-media italiani a proposito dei delitti politici commessi mesi e anni dopo la fine della guerra, soprattutto nel «triangolo della morte» della rossa Emilia. La Resistenza come tale sembra rimanere fuori discussione, ma ne è coinvolta retrospettivamente una sua certa immagine pubblica. Infatti in contrasto ad una Resistenza celebrata come lineare, intrepida anche se sanguinosa «guerra di liberazione nazionale», sui mass-media guadagna spazio l'immagine di una feroce «guerra civile» dai confini cronologici e ideologici molto incerti.
A questo punto nella polemica scattano due reazioni di segno opposto, ma altrettanto sterili ai fini di una matura educazione storica collettiva. Infatti, da un lato, presso le forze politiche cosiddette moderate (ma anche in alcuni socialisti), prevale la voglia di riaprire la querelle della corresponsabilità morale, ideologica e politica del PCI in atti criminosi commessi nell'immediato dopoguerra da alcuni ex partigiani - nonostante tali atti fossero già stati a suo tempo fermamente condannati dalla direzione centrale comunista. L'operazione è tentante proprio nel momento in cui il PCI si trova in una drammatica fase di metamorfosi culturale e politica (il cui segno più vistoso sarà il cambiamento del nome da PCI a PDS). D'altra parte, nel campo (postkomunista, dopo qualche iniziale incertezza, prevale il criterio della intoccabilità di una questione che si presta troppo facilmente alla diffamazione della Resistenza.
Il risultato è stata l'occasione mancata di spiegare al grande pubblico con argomenti di merito uno dei passaggi più drammatici della storia nazionale, che ha lasciato indietro tante memorie ferite. Si è toccata con mano la nostra incapacità di «narrare», in modo critico e solidale insieme, la vicenda che ci ha riconfermato «nazione» nel momento in cui rifondava su nuove basi la democrazia. Parlo di «narrazione» nel senso pieno del termine (anche a livello di comunicazione mass-mediale). Sono prevalsi opportunismi e paure di parte.
Così non si è ancora riusciti a presentare e narrare in modo convincente al grande pubblico l'impossibilità psicoologica e operativa di depositare le armi dopo il 25 aprile _ quasi si trattasse di un cessate-il-fuoco a conclusione di una guerra di tipo convenzionale. La guerra resistenziale si spe- I gne lentamente tra spasimi e furori tipici di una «guerra civile», appunto. Ma questo stesso concetto viene riabilitato oggi improvvisamente nel linguaggio pubblico (dopo essere stato sussurrato da molti come una provocazione o una profanazione), senza che ci si preoccupi di approfondirne il senso - nonostante o forse proprio grazie alla felice coincidenza della pubblicazione del libro di Claudio Pavone Una guerra civile, su cui tornerò.
Un altro episodio che accende il dibattito è il pubblico riconoscimento (da parte del controverso ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga) di Edgardo Sogno, un eminente partigiano, «medaglia d'oro», uomo di sentimenti conservatori, membro italiano del britannico Special Operations Executive e politico di tenaci convinzioni anticomuniste (per inciso, negli anni settanta è sospettato dalla sinistra di coltivare intenzioni golpiste antideemocratiche). Questo singolare e scomodo personaggio della guerra di liberazione è stato per anni guardato con sospetto ed emarginato da una certa storiografia resistenziale di sinistra. Ora torna alla ribalta espone le sue tesi e fa le sue contestazioni storiche su «Mondoperaio» (la rivista del Partito socialista italiano)3. Ricorda che ci furono resistenti pronti a combattere senza indugi contro i comunisti nel caso la democrazia dovesse essere in pericolo. In questo quadro prende consistenza l'ipotesi di una virtuale guerra civile in Italia di segno diverso da quello appena combattuta contro il fascismo.
Su questo sfondo in campo cattolico viene avanzata la tesi di una Resistenza autenticamente popolare soltanto in quanto «resistenza passiva», moderatrice di violenza, praticata appunto dal mondo cattolico e dalla chiesa, in contrapposizione al mito della Resistenza armata che nella lotta contro il fascismo prepara là rivoluzione comunista.
A confronto di questo tentativo di «revisione» della Resistenza appare persino smorzato l'effetto di un pamphlet contro Il mito della Resistenza4, scritto in un'ottica «operaista» in polemica contro comunisti e azionisti. Appare più una anacronistica resa dei conti interna alla sinistra che non un contributo alla conoscenza storica, nonostante la perentoria conclusione che l'insurrezione del 25 aprile 1945 è stata «non solo inutile ma dannosa» per le illusioni che ha creato.
In questo temperie revisionistica non sorprende infine il tono distaccato ma attento con cui gli storici di sinistra dibattono le memorie di un importante neofascista (Pino Romualdi) che parla delle sue esperienze di combattente contro la Resistenza nel campo della Repubblica sociale italiana5. Fortunatamente va a vuoto il poco convinto tentativo di qualche giornale di montare un «caso».
Attraverso queste polemiche l'opinione pubblica italiana si trova inaspettatamente di fronte ad un momento decisivo del passato nazionale assai più complicato e controverso di quanto si era voluto presentare. Di colpo riemergono memorie ancora doloranti e inconciliate. Si riaprono interrogativi sulle radici ideali e politiche della Repubblica e sui suoi primi duri anni. Molti vecchi militanti della Resistenza e alcuni storici reagiscono a questa situazione con argomenti spesso convincenti, ma appaiono nel contempo psicologicamente sopraffatti dall' amarezza o dal risentimento di chi assiste alla liquidazione dei propri ideali. Si crea cosi!' equivoco che oggi in Italia si debba affrontare una battaglia civile per la difesa dei valori dell' antifascismo storico messi in dubbio da un non meglio specificato «revisionismo». Invece è in atto una sfida per una conoscenza più critica e matura dell'esperienza storica in cui quei valori e ideali hanno trovato espressione. Il compito più urgente non è soltanto la ricerca di fatti nuovi ma la de-costruzione ideologica di fatti già noti.


2. In questi anni non sono mancati segni di novità nella storiografia sulla Resistenza (legata agli Istituti per la storia del movimento di Liberazione e agli Istituti storici della Resistenza). Accanto al moltiplicarsi di ricerche locali, ricche di informazioni ma poco innovative sul piano della interpretazione generale, si è incominciato a porsi il problema di una ridefinizione più precisa della guerra del 1943 -45 all'interno del più ampio contesto mondiale. In questa ottica si è gradualmente affermato, non senza iniziali opposizioni, lo schema della Resistenza come intreccio di «tre guerre»: guerra patriottica contro il tedesco, guerra civile contro i fascisti per la democrazia e guerra di classe in un' ottica di rivoluzione sociale anticapitalista.
Si tratta - come vedremo - di uno schema insostituibile ma non risolutivo, soprattutto per quanto riguarda la qualiifica della Resistenza come «guerra civile». È importante comunque ricordare che ad esso si accompagna un lento ma consistente spostamento dell'interesse scientifico dai tradizionali aspetti ideologico-politici della Resistenza alle motivazioni e attese dei protagonisti (in qualche caso sotto l'etichetta di ricerche di storia orale o di storia sociale).
Il frutto più maturo di questa evoluzione e innovazione è il già citato libro Una guerra civile7 di Claudio Pavone, uno studioso di collaudata ricerca storica. Il successo editoriale di questa opera e il tono entusiasta di molti commenti di sinistra hanno creato l'impressione che la rivalorizzazione della Resistenza debba prendere le mosse dalla soggettività dei protagonisti, dalle loro intenzioni, percezioni, speranze e progetti. Quasi che oggi, dopo la conclamata fine delle ideologie, si possa finalmente cogliere l'essenza della Resistenza ricostituendo la pluralità e il contrasto delle motivazioni dei suoi protagonisti. Da qui breve è il passo ad affermare che l'autenticità storica della Resistenza sia da ricercarsi sostanzialmente nella sua «moralità» soggettiva (o nelle sue moralità - al plurale) che sono state sacrificate in qualche modo alla «politica». Non a caso il sottotitolo dell'opera di Pavone è Saggio storico sulla moralità nella Resistenza. Con l'implicito suggerimento che questo debba essere il criterio di giudizio retrospettivo e la maniera migliore per reagire all'appannamento dell'immagine pubblica della Resistenza, di cui si parlava sopra.
Ritengo che questa impostazione sia corretta e suggestiva, purché non veicoli in modo magari inconsapevole e più sofisticato la tesi tradizionale della Resistenza vanificata o traviata - in questo caso traviata dalla «politica dei partiti» del dopo-Resistenza, non solo dei partiti moderati, come la Democrazia cristiana, ma anche di quelli comunista e socialista.
In realtà la Resistenza italiana, comunità d'armi motivata da grande carica morale, è opera di minoranze guidate da una forte legittima competizione «di parte», nella prospettiva di vincere per poter costruire secondo il proprio modello il nuovo Stato democratico. Per questo la Resistenza si attrezza subito in forma partitica. È il solo modo per conquistare il consenso elettorale delle masse, senza il quale non c'è legittimazione democratica.
Se assumiamo questa ottica, è del tutto naturale che la competizione tra le componenti della Resistenza si proietti oltre l'aprile 1945. Anzi in questa proiezione trova il suo inveramento. Da questo punto di vista, un filo diretto lega il già contorto rapporto tra la guerra «civile» antifascista e la guerra di «classe» anticapitalista nella Resistenza con la cosiddetta «doppia strategia» del PCI del dopo liberazione.
In ogni caso, il risultato politico che qualifica in modo incontrovertibile la Resistenza è la pratica politica che porta alla Costituente (1946-47) e quindi alla Carta costituzionale.
Dal confronto/scontro che ne discende, nasce la «repubblica dei partiti» che nel bene e nel male funziona per oltre un quarantennio garantendo la maturazione della democrazia italiana.
Oggi questa «repubblica dei partiti» è sotto accusa e alla vigilia di una sua riforma. In che senso la Resistenza - da cui essa è nata - può continuare ad esserne un referente storico ideale?
Può ancora offrire alla politica italiana contemporanea un «senso fondante»? Come?
Per rispondere a questi interrogativi ripercorreremo non soltanto i concetti delle «tre guerre», focalizzando il concetto di «guerra civile», proiettata con segni politici cambiati oltre il 1945 . Rivisiteremo anche i fenomeni dell' attendismo, della resistenza passiva e quindi le strategie comunista e democristiana nell'intero arco cronologico 1943 -48. Nei protagonisti decisivi di quel periodo troveremo - a dispetto dei contrasti e degli errori -le virtù civiche del patriottismo costituzionale e della pratica della democrazia senza aggettivi. Sono virtù ancora oggi esemplari.
3. Prima di entrare nel vivo di questa rivisitazione sono opportune un paio di precisazioni.
In questo saggio la Resistenza italiana sarà considerata una variabile indipendente commisurata agli atteggiamenti, ai comportamenti, al «senso inteso» dei suoi diretti protagonisti. Ma un giudizio storico complessivo sulla dinamica formativa della Repubblica italiana non può non collocare la Resistenza in un più ampio diagramma di forze che vede in primo piano le potenze alleate anglo-americane e i loro progetti sulla struttura interna e sulla collocazione internazionale del nuovo Stato italiano. Anche se non mancano lavori storici significativi in questo senso, si può dire che qui si apre un importante campo di ricerca per la storiografia italiana dedicata al periodo 1943 -48.

Una seconda annotazione: se è vero che la Resistenza va considerata un evento cronologicamente circoscritto, non è men vero che in esso confluisce e culmina il movimento antifascista, che aveva assunto in precedenza altre forme di testimonianza e di azione da parte di ristrettissimi gruppi di uomini e di donne. Ma il rapporto tra questo «antifascismo storico» e i resistenti e partigiani nel loro insieme è meno lineare di quanto sembra.
Non dimentichiamo che il regime politico fascista crolla (con le dimissioni di Mussolini imposte dal re il 25-26 luglio 1943) senza un apparente diretto apporto dell' antifascismo storico. Il gruppo politico monarchico, che prende il potere al posto del fascismo (dopo averlo sostenuto per un ventennio) dà prova di una totale inettitudine senza che le forze antifasciste siano in grado di creare e contrapporre alternative efficaci. Molti nuclei della Resistenza si formano così del tutto spontaneamente dal basso nel settembre 1943 per un senso di orgoglio civile e patriottico contro la disgregazione dello Stato. In alcuni resistenti questo sentimento si accompagna ad una coscienza politica antifascista più o meno meditata, che si svilupperà e maturerà eventualmente nei «venti mesi» della lotta armata. Ma per molti altri - soprattutto per i giovani di leva - la scelta di «andare in montagna» è dettata dal rifiuto di servire senza prospettive né ideali né materiali il regime fascista della Repubblica sociale italiana, risorto esclusivamente con il sostegno dei tedeschi. Li guida un istinto di sopravvivenza non sempre chiaro nelle sue implicazioni politiche. Poi, forse, in montagna a contatto con altri compagni già politicamente orientati, acquisteranno anche una coscienza politica antifascista più precisa. Ma spesso sarà il puro caso a decidere a quale «banda» si aggregheranno e quindi quale «educazione politica» riceveranno e quindi verso quale partito antifascista si orienteranno. Le bande guidate dai comunisti sono le più estese ed efficienti, ma ci sono anche quelle legittimiste-monarchiche, quelle radical-democratiche del Partito d'azione e le bande cattoliche. La differenziazione ideale-ideologica diventa immediatamente un motivo di identificazione del partigianato italiano. La Resistenza armata italiana appare così caratterizzata sin dall'inizio e in profondità dal policentrismo geografico e politico-ideologico, anche se corretto dalla collaborazione antifascista interpartitica dei Comitati di liberazione nazionale.

4. Soltanto a partire dal 1990-91 l'idea della Resistenza come «guerra civile» si afferma senza remore nella pubblicistica di sinistra, nonostante la disapprovazione di alcuni autorevoli resistenti, storici di professione1o• Molti avrebbero preferito continuare a parlare di «guerra di liberazione nazionale». Questa reticenza traspare ancora nel compromesso, per così dire, di collocare la natura «civile» della guerra resistenziale tra quella «patriottica» e quella «sociale», secondo lo schema delle «tre guerre» già citato. Questa definizione «cumulativa» riabilita la parola «guerra civile» senza che si approdi ad una determinazione concettuale più precisa.
L'espressione «guerra civile» era stata usata, istintivamente e consapevolmente, da molti combattenti della Resistenza, innanzitutto dagli esponenti del Partito d'azione. In seguito però venne abbandonata di fatto alla storiografia di destra, o comunque non orientata a sinistra, che la usò come mero sinonimo di guerra fratricida. Gli azionisti invece parlavano di guerra «civile» non solo perché condotta da italiani contro altri italiani, ma perché guerra «politica» radicale. Al di là della sua forma armata, la lotta partigiana per essi preludeva ad una autentica «rivoluzione democratica» sociale e civile.
Ma, a lotta militare conclusa, gli azionisti stessi non riescono a fare della «guerra civile» il paradigma di autoriconoscimento della Resistenza. Tra le ragioni (c'è anche il fatto che con la loro dispersione e rapida emarginazione politica (il PdA si scioglie nel 1946), gli azionisti si sentono presto psicologicamente «vinti» sul piano ideale e politicol2. Soltanto un vincitore sicuro di sé può assumere l'onere etico di dichiarare «civile» la guerra che ha combattuto e vinto, facendone l'evento fondante del nuovo ordine politico.
Al contrario i comunisti, pur seriamente intenzionati a fare anch'essi la rivoluzione sociale in nome della contimità degli obiettivi sociali della Resistenza, sono risoluti a qualificare quest' ultima solo come «guerra di liberazione nazionale».

Questo atteggiamento risponde non solo al desiderio di autolegittimazione «nazionale» del PCI e alla strategia politica di solidarietà nazionale, soprattutto nei riguardi delle forze cattoliche. È anche in sintonia con il sentire spontaneo di molti partigiani, anche non comunisti. In essi la premiinenza data alla lotta armata contro il tedesco invasore censura psicologicamente la natura della lotta partigiana contro i fascisti in quanto connazionali, al punto che a questi viene negata la stessa appartenenza nazionale essendo «traditori della patria» quindi «non italiani». Soltanto chi registra dall' esterno questo atteggiamento vi trova la paradossale conferma della natura appassionatamente «civile» dello scontro in atto.
I comunisti, in ogni caso, a differenza degli azionisti, non si sentono affatto politicamente vinti, nelle prime prove elettorali del 1946. Si sentono anzi investiti della gestione diretta della memoria e dell'eredità dell'intera Resistenza, identificata come grande impresa nazional-popolare cui essi hanno dato un contributo determinante.
Ma questa operazione avviene in un contesto politico che si deteriora rapidamente rispetto al solidarismo resistenziale. A partire dal 1946 infatti - come vedremo ancora meglio più avanti - la componente cattolica della Resistenza accentua la propria dissociazione e si schiera senza riserve con la Democrazia cristiana, diventata ormai partito antagonista diretto della sinistra socialcomunista. D'altro canto il comportamento di molta magistratura che procede a scandalose assoluzioni e riabilitazioni di fascisti, inasprendo nel contempo sentenze e misure contro ex partigiani, distrugge il residuo clima solidale delle forze antifasciste. In un clima generale di duro scontro sociale e di irrigidimento ideologico, nel quadro della guerra fredda internazionale, ricompare nel dibattito politico l'espressione «guerra civile» _ questa volta riferita non già alla lotta appena combattuta con i fascisti ma a quella latente tra comunismo e anticomunismo. L'accusa reciproca tra i partiti di fomentare una «guerra civile» diventa strumento di polemica quotidiana. È verosimilmente per questa ragione che tra gli antifascisti viene tacitamente lasciato cadere il concetto di guerra civile per qualificare retrospettivamente la Resistenza.

5. Dopo queste inevitabili anticipazioni sul dopostenza, torniamo cronologicamente indietro alla «guerra civile» come tratto qualificante della Resistenza, prendendo in considerazione due pubblicazioni. Il primo è il carteggio tra due eminenti esponenti delle formazioni partigiane piemontesi «Giustizia e libertà» (GL), espressione del Partito d'azione: Giorgio Agosti e Livio Bianco, Un'amicizia partigiana. Lettere 1943-1945.
Dalle lettere esce una duplice accezione di guerra civile. «Civile» è la guerra partigiana per la qualità del suo impegno umano e professionale che non ha analogie con la guerra tipica dell'esercito regolare basata su schematismi, staticità, esecuzioni passive e strutture burocratiche. Nella guerra partigiana invece non funzionano più le regole e le prestazioni militari tradizionali. Ora al primo posto ci sono le doti della persona: fantasia, responsabilità, solidarietà e senso politico. La banda partigiana diventa tra l'altro un «microcosmo di democrazia diretta» che rimette in discussione le vecchie logiche di potere nel quadro di una grandiosa «guerra civile europea» che getta «le fondamenta di un mondo migliore».
Ancora più politicamente circostanziata è la seconda accezione di guerra civile messa a fuoco soprattutto nelle lettere di Agosti. Qui a differenza che in molta memorialistica e letteratura resistenziale il nemico principale non viene individuato nei tedeschi ma nei fascisti italiani. O meglio, c'è la «guerra grossa» e militarmente prioritaria contro i tedeschi che i partigiani affrontano bravamente anche se non sono sempre tecnicamente attrezzatP4. Ma poi c'è la nuova guerra con obiettivi politici e civili che richiedono un impegno e un dispiegamento elastico delle forze a seconda delle circostanze, della geografia e delle fasi politico-militari (sabotaggio, rastrellamento, ostaggi ecc.).
Merita di essere riportato un brano di una lettera di Agosti, datata 4 settembre 1944, che partendo dalla (erronea) previsione di un imminente crollo del fronte nazifascista in Italia, si interroga sulla incerta situazione politica generale, segnata dall' ambiguo atteggiamento degli angloamericani verso le forze partigiane. Il commissario politico azionista enuncia la ferma volontà che i partigiani non vengano sacrificati alla restaurazione conservatrice e monarchica. E ipotizza una loro riorganizzazione militare dopo la conclusione delle ostilità.
Lo scopo dell'impostazione politica della nostra guerra partigiana è la liquidazione, prima del nazismo e dello stesso fascismo, di tutto quello sporco ammasso di interessi reazionari che sappiamo. I quali interessi cercano oggi disperati appigli in campo conservatore angloamericano e certo ne troveranno. A noi restano due cose: 1) creare il maggior numero possibile di fatti compiuti (liquidazione spietata di fascisti e collaborazionisti, e liquidazione radicale di istituzioni e posizioni). 2) Non disarmare nell'immancabile fraterno abbraccio democratico della vittoria, ma tenere pronti gli animi e gli uomini e le armi. Le armi non dobbiamo lasciarcele togliere domani in nome di nessun immortale principio né di destra né di sinistra. E non dobbiamo lasciare arruginire quell' arma anche più forte che è la coscienza della forza popolare nata nella lotta partigiana. [. .. ] È possibile creare accanto e dentro alle brigate GL ufficiali di oggi nuclei politico-militari clandestini di domani? Dobbiamo cercare di fare lo stesso dei comunisti, naturalmente in quello che è il nostro spirito democratico: ma democrazia armata e decisa a continuare la lotta: non democrazia elettorale soltanto.
Come si vede, si tratta di una prospettiva estremamente decisa e ed esplicita, anche se - non dimentichiamolo - la lettera di Agosti riservata all' amico Bianco è innanzitutto un'ipotesi di discussione, non un progetto operativo.
Le cose - in realtà - andranno molto diversamente, anche perché uomini come Bianco hanno un altro temperamento, scettico sulla possibilità di riportare nella politica partitica lo stesso slancio che caratterizza la lotta partigiana. Come è stato giustamente osservato15, già qui si intravvedono le cause soggettive della dissoluzione del Partito d'azione, i motivi della impossibilità di riciclare nella normalizzazione del dopo-Resistenza un modello di politica ispirato da una «morale eroica».
In questo contesto va visto il difficile rapporto tra le formazioni «gielliste» e quelle «garibaldine» comuniste. Tutto il carteggio Agosti-Bianco è percorso da contrastanti sentimenti di diffidenza, ammirazione, imitazione e antagonismo con i garibaldini e i comunisti italiani. Pur apprezzandoli sul piano organizzativo e militare, gli azionisti ne denunciano spesso la mancanza di tatto e la mentalità autoritaria. E sul piano politico diffidano dell' opportunismo del PCI - a partire dal sostegno dato al governo «legale» monarchico di Roma. Reciprocamente gli azionisti si sentono «tollerati e detestati» dai comunisti perché «più irrequieti e pericolosi dei vecchi partiti» ma insieme più accetti alla popolazione.
Per il resto, sin dal 30 luglio 1944 Agosti esplicita l'ambizione azionista: «Dobbiamo sfruttare il malcontento contro le formazioni garibaldine e gli errori dei comunisti per porci, anche militarmente, come forza armata popolare ma non estremista, rivoluzionaria ma non rossa; il programma massimo sarebbe di ritrovarsi alla fine come la sola forza armata che gli alleati possano riconoscere come vera espressione della democrazia rivoluzionaria italiana». Questo concetto viene ripetuto più volte nelle lettere successive, accompagnato tuttavia dalla preoccupazione che GL non possa essere considerata una specie di «squadra bianca» in alternativa ai garibaldini o una forza anticomunista, soprattutto alla luce di quanto sta accadendo in Grecia. In altre parole si tratta di evitare che un rapporto privilegiato con gli alleati diventi pericoloso: «Il nostro gioco deve essere di imporci come forza mediatrice fra alleati e garibaldini, fra forze restauratrici e dittatura di sinistra». Nei primi mesi del 1945 ad Agosti sembra realistica la prospettiva che «i giellisti non saranno disarmati, ma saranno direttamente utilizzati dalle forze inglesi e americane e riconosciuti come truppe regolari»; questo significherebbe un enorme vantaggio per il Partito d'azione nell'Italia liberata.
Mi sono soffermato su queste lettere perché ci riportano con grande immediatezza i sentimenti dei combattenti azionisti alla vigilia della insurrezione finale e la loro esaltante prospettiva politica. Il loro «massimalismo delle coscienze» era sostenuto da una robusta ambizione politica. Questa ambizione sarà duramente frustrata dai rapporti di forza che si delineano dopo il 25 aprile 1945. Le formazioni GL disarmano, come le altre, con molti malumori e mai integralmente. il Partito d'azione entra nell' agone politico con l'aspettativa di guidare le nuove forze democratiche di sinistra ma ne esce sconfitto. Sin dalla consultazione del 2 giugno 1946 non ottiene il consenso elettorale sperato: è letteralmente annullato tra i grandi partiti di massa della sinistra tradizionale, socialista e comunista, e i partiti moderati, democristiano e liberale17. Gli azionisti come forza politica si disperdono: alcuni vanno a militare in altre formazioni politiche (Partito socialista, Partito repubblicano), ma i più si ritirano dalla vita politica.
Sono essi i primi a denunciare il fallimento degli ideali della Resistenza e a coltivarne una memoria polemica. Per certi versi, l'eredità della Resistenza viene sottratta alla politica e collocata nella dimensione metapolitica della moralità e della cultura.

6. In questa linea interpretativa si muove il libro di Pavone, la cui chiave di lettura è data dal sottotitolo Saggio sulla moralità nella Resistenza. Si tratta di una ricerca riccchissima di materiali: dai documenti della clandestinità alla memorialistica successiva e alle fonti più varie. Il materiale è organizzato secondo lo schema delle «tre guerre» che consente di individuare sia l'esistenza di diversi attori per così dire ideaI-tipici (patrioti, democratici, rivoluzionari) sia la coesistenza in alcuni di essi di motivazioni e intenti diversi.
Lo schema delle tre guerre è uno strumento analitico, che l'autore usa con finezza per scomporre e valorizzare la complessità motivazionale dei vari protagonisti della Resistenza (anche se la sinistra vi è nettamente privilegiata). Ma da esso non scaturisce un nuovo criterio di giudizio storicopolitico, nonostante la presenza di frequenti acute osservazioni di merito. L'impianto analitico rimane così in un certo senso sotto-utilizzato. Le tre guerre rimangono configurazioni motivazionali, psicologiche, più che idee-guida politiche, in parte coincidenti in parte incompatibili, attorno a cui si coaguleranno le identità politiche e i nuovi rapporti di forza nella nascente Repubblica. Lo schema, in altre parole, non riesce a determinare quale combinazione tra le tre guerre condiziona effettivamente la formazione della legittimazione dell' ordine democratico in fieri.
Di fatto la guerra «civile» nel significato rivoluzionario azionista, mirata alla radicale innovazione democratica, uscirà sostanzialmente sconfitta nella fase costituente - se si prescinde dalla istituzione della forma statuale repubblicana. Ma perdente sarà anche la dimensione rivoluzionaria implicita nell'idea di guerra «sociale e/odi classe», anticapitalista, nonostante essa venga sussunta energicamente nella visione comunista. Anzi la strategia del PCI alla fine fallisce anche nel tentativo di sussumere nella propria concezione nazionalpopolare della lotta di liberazione tutti gli elementi della «tre guerre».
Il libro di Pavone rimane dunque una suggestiva autobiografia corale dei protagonisti della Resistenza, attenta alla pluralità delle loro intenzioni e posizioni. Dal momento
che la sua preoccupazione principale non è l'analisi delle conseguenze politiche che discendono dalle motivazioni plurali degli uomini della Resistenza, bensì la loro tensione morale, non sorprende che alla fine riproponga la tesi della interruzione della spinta rinnovatrice della Resistenza, senza che vengano offerti criteri di spiegazione all'infuori delle delusioni direttamente espresse dai protagonisti. Pavone sembra ammaliato lui stesso dal «massimalismo delle coscienze», incarnato dal Partito d'azione, che fa della Resistenza una «moralità armata» con l'implicito sottinteso che la politica partitica abbia guastato tuttol9. Probabilmente questo è un esito non voluto dall' autore, ma è lo scotto che paga perché non vuole più essere invischiato (come lui stesso ammette) nelle vecchie diatribe partitico-ideologiche.

7. In realtà non si può adottare il concetto di guerra civile per definire la Resistenza senza rifocalizzare i suoi nessi con le altre due guerre: nazionale e sociale.
Sappiamo che gli uomini della Resistenza motivano la loro scelta anche in termini patriottici, per schiette convinzioni personali, anche se con formule dal tono che oggi ci lasciano scettici o infastiditi. Ma è il tono di un'intera epoca storica che ci è diventata estranea. L'epistolario dei due esponenti dell'azionismo piemontese, citato sopra, è particolarmente sobrio nel linguaggio patriottico anche se è tutto percorso sotterraneamente dal motivo del riscatto nazionale. Non ci sono retorici richiami alla continuità risorgimentale (che sarà uno dei motivi ricorrenti nella celebrazione della Resistenza come Secondo Risorgimento), neppure pressanti inviti al compromesso politico in nome della unità (tipico dello stile comunista). Domina l'esigenza del ripristino della dignità nazionale. .
Ma la testimonianza più netta e inequivoca dei sentimenti nazionali dell'azionismo è offerta da un altro piemontese antifascista di sinistra, Vittorio Foa. Nelle sue recenti memorie, rileggendo un testo del settembre 1943, che invitava a prendere iniziative politiche autonome affinché l'italia cessasse di essere «una semplice espressione geografica», scrive: «La futura democrazia non poteva ricevere legittimazione dall'esterno, doveva autolegittimarsi. La Resistenza si presentava dunque in partenza come la riaffermazione di una identità nazionale smarrita». E ancora più chiaramente: «L'obiettivo della ricostruzione dell'identità nazionale perduta conferma la tesi della Resistenza come guerra civile. L'identità italiana non era stata negata solo dall'esterno, era stata avvilita e negata all'interno, dal fascismo. Noi dovevamo combattere il fascismo fra di noi, fra italiani, e poi anche dentro di noi».
Anche il libro di Pavone documenta quanto profondo sia il senso di appartenenza nazionale degli resistenti - non solo come eredità di una cultura e di una educazione tradizionalmente centrata sul primato della patria e della nazione. Molti di loro - soprattutto i combattenti reduci dalla Russia - hanno sperimentato sulla loro pelle dove ha portato il nazionalismo di stampo fascista. Anche se per qualcuno di essi è diventato intollerabile il linguaggio che parla di nazione e patria, queste rimangono valori ovvi e passioni mobilitanti contro il fascismo (vecchio e nuovo) che continua a pretendere di avere il monopolio dell'idea nazionale.
La conseguenza è che tra il 1943 e il 1945 si combattono nell'Italia centro-settentrionale due concezioni di patria e nazione: quella nazionalfascista, che fa appello fideistico all'onore e alla fedeltà ad un passato rivelatosi catastrofico, e l'idea di una nuova nazione riorientata ai valori democratici. Vista così la guerra di «liberazione nazionale» non può che essere una guerra civile in quanto ridefinisce i criteri di una nuova identità nazionale.
Contro questa tesi si obietta che essa metterebbe idealmente sullo stesso piano fascisti e antifascisti in nome di un comune riferimento alla nazione, anche .se di segno opposto - come se si confrontassero due concezioni della nazione di eguale valore. In questo modo si darebbe ragione a chi, riconoscendosi in qualche modo ancora oggi nei valori nazional-fascisti, definisce la Resistenza una «tragedia nazionale» e la considera «guerra civile» semplicemente in quanto guerra fratricida - squalificando così la specifica moralità della Resistenza.
A questa obiezione si può replicare nel modo seguente.
L'attendismo non paga più. Avviene così la convergenza della protesta operaia con le posizioni politiche degli antifascisti (comunisti innanzitutto) che si organizzano più o meno clandestinamente nelle principali fabbriche.
Oggi è facile criticare il «mito» che ha consentito alla sinistra storica di considerare come espressione della Resistenza la «lotta della classe» nelle fabbriche del 1943-45. Si sono identificati senz' altro gli operai in fabbrica con i proletari in armi sulle montagne, lasciando nel vago (o trasfigurando ideologicamente) il modo di conciliare la lotta salariale contro il padronato con la guerra patriottica contro il tedesco.
Questa problematica non si risolve assumendo che gli operai in fabbrica, in forza di una presunta «autonomia d'azione», coltivassero un atteggiamento agnostico e strumentale verso il movimento politico di Resistenza23. Questo vale innanzitutto a proposito del salvataggio delle fabbriche settentrionali dallo smantellamento tedesco (ma anche dal bombardamento degli alleati). La salvaguardia degli impianti risponde oggettivamente all'interesse di tutte le parti: ai tedeschi che per !'impossibilità materiale (o la non economicità) di trasferire le fabbriche, le sfruttano nei limiti del possibile; agli alleati che già pensano alla prossima ripresa produttiva; alla proprietà e alle maestranze interessate a conservare e risparmiare impianti, materie prime ed energie per un futuro migliore. È difficile dire quanto questa visione razionale ex post non sottovaluti la precarietà di una situaazione sull' orlo di una possibile catastrofe comune. Ma non si può neppure sottovalutare l'effetto positivo (quasi di collante di tutte le parti in causa) di una costante pressione operaia sul padronato, sull' occupante, sugli alleati.
In realtà i comportamenti conflittuali di cui stiamo parlando sono forme tipiche e importanti di «resistenza» nel senso letterale del termine e quindi di intenzionale, non solo oggettivo, logoramento del regime nazi-fascista e delle sue strutture materiali. Sono forme di «resistenza» che si allontanano lentamente dal semplice «attendismo» e precedono la graduale presa di coscienza politica, che varia di intensità e qualità da luogo a luogo a seconda delle situazioni.
Con questa osservazione entriamo in un nuovo orizzonte di problemi.

9. Attorno alle minoranze della Resistenza militante c'è una popolazione frastornata, umiliata, in alcuni casi terrorizzata, in gran parte in posizione di attesa. Nella letteratura resistenziale il termine «attesista» o «attendista» implica un giudizio di disvalore appena inferiore a quello di «collaborazionista». «Attendista» è genericamente chi aspetta che la guerra contro i tedeschi e i fascisti sia condotta e vinta dagli alleati anglo-americani. Tra le motivazioni addotte c'è la stanchezza per le sventure già subite dall'Italia, la palese incapacità di condurre azioni militari di rilievo contro i nazifascisti e, non da ultimo, il dichiarato desiderio di non spargere inutilmente altro sangue tra italiani. Queste motivazioni possono coprire opportunismo o quegli atteggiamenti che nell'immediato dopoguerra si auto definiranno «qualunquistici». Ma possono anche accompagnarsi ad argomenti più plausibili, soprattutto quando si appellano a convinzioni religiose oppure presuppongono la ricerca di legami diplomatici con gli alleati angloamericani.
Per la grande maggioranza degli italiani del Centro e del Nord il venir meno del consenso al fascismo e la presa di distanza dalla Repubblica sociale non si traducono ancora in sostegno all'azione partigiana, tanto meno ai progetti di democrazia radicale o socialista di molti suoi esponenti. L'attendismo rimane così segno di una sostanziale apoliticità, anche presso coloro che anni prima si erano lasciati anelare agli entusiasmi per le conquiste «imperiali» fasciste. Tra gli attendisti ci sono molti esponenti dell'apparato burocratico-amministrativo, che deve continuare a funzionare sotto il controllo del rinato fascismo. Naturalmente ci sono anche ex fascisti o fascisti pentiti o forse solo impauriti e codardi. Bisogna inoltre distinguere tra aree urbane e aree rurali. In queste ultime la popolazione entra spesso in contatto con i partigiani, mostrando nei loro riguardi atteggiamenti ambivalenti e mutevoli a seconda delle circostanze (come è testimoniato da un' amplissima memorialistica e letteratura partigiana). Ma se in molti casi l'attendismo è mero egoismo, in altri può convivere con il solidarismo per i perseguitati politici, i renitenti alla leva, gli ebrei ecc.
Discorso a parte meritano i comportamenti degli «internati militari italiani», «né carne né pesce, né resistenti né repubblichini ma semplici prigionieri in normali burocratici campi di prigionia»25. La loro amarezza per sentirsi abbandonati e poi guardati indiscriminatamente con sospetto e freddezza, una volta rientrati in Italia, avrebbero avuto una parte difficilmente valutabile nell'invelenire il clima postresistenziale.
È su questo sfondo che in alcuni ambienti cattolici viene elaborata e praticata, con maggiore o minore consapevolezza e linearità, quella «resistenza passiva» che consente ad alcuni studiosi di individuare uno specifico merito dei cattolici nel creare il clima morale e civile adatto alla nascita della Repubblica. Un merito pari (ma qualcuno suggerisce addirittura superiore) a quello della resistenza armata.

Il problema vero - scrive Pietro Scoppola - non è di quantità nella partecipazione dei cattolici alla lotta armata: è più che legittimo che la coscienza cristiana guardasse all'uso della violenza nella lotta contro il nazismo con profondo disagio e che perciò la partecipazione alla lotta armata fosse frenata da ragioni morali e psicologiche; il problema vero è quello della qualità della partecipazione cattolica e delle sue autonome espressioni - resistenza passiva nei campi di concentramento, sostegno del clero e delle popolazioni alle unità combattenti ecc. - e delle ripercussioni che la partecipazione attiva o passiva alla Resistenza ha avuto, dopo venti anni di fascismo, sulla vita religiosa nel suo complesso, su un diverso modo di sentire il problema dell' autorità, il valore della coscienza ecc.

La sinistra non è mai stata convinta di questa interpretazione e ha accusato i cattolici d'avere spesso favorito e cooperto le ambiguità dell'attendismo. Soprattutto continua a respingere la pretesa che la «resistenza passiva» cattolica sia l'autentica forma popolare di resistenza contro il nazifascismo e quindi la premessa alla instaurazione della democrazia.
In effetti nel periodo 1943 -45 gli atteggiamenti del «mondo cattolico», intendendo con esso le gerarchie ecclesiastiche e le grandi organizzazioni laiche da esse guidate, non sono limpidi. Come osserva Francesco Traniello, uno studioso molto attento a questa tematica, nel mondo cattolico «l'affermarsi del binomio antifascismo-democrazia seguì un percorso non lineare né in larga misura predeterminato». Il tracollo del regime fascista e l'inconsistenza del governo badogliano prendono in contropiede la chiesa italiana, suscitando grande insicurezza, nonostante o forse proprio a causa della salda posizione che aveva acquisito durante il regime fascista. Si trattava per altro di una posizione pagata con la depoliticizzazione o departitizzazione dei cattolici, organizzati esclusivamente in organismi ecclesiali. Questo spiega l'enorme influenza diretta del clero (e del Vaticano) durante e dopo il periodo resistenziale, le incertezze attraverso cui nasce il partito della Democrazia cristiana e, non da ultimo, i contrasti attraverso cui si fa strada la strategia di collaborazione antifascista di De Gasperi.
La paura maggiore dei vertici cattolici e vaticani è che attraverso la strategia politica dell' antifascismo si affermi il comunismo. Se è vero che durante la Resistenza l'anticomunismo ideologico si attenua moltissimo in Italia, non è men vero che i protagonisti più attenti hanno la sensazione che si tratti di una tregua - imposta dai rapporti internazionali della grande coalizione antihitleriana. Oltre a ciò, la prospettiva della restaurazione della democrazia rilancia le vecchie riserve cattoliche per il timore che essa porti con sé fenomeni di secolarizzazione e di disgregazione sociale. Da qui la preoccupazione di preparare «correttivi» di tipo corporativistico e organicistico alla futura democrazia, di cautelarsi contro radicalizzazioni politiche e sociali di tipo socialista e comunista, contando anche sulla prolungata presenza in Italia delle potenze alleate (americana soprattutto).
Detto questo dallo stesso «mondo cattolico» provengono anche formazioni partigiane che fanno la loro parte, soprattutto nell'Italia settentrionale, nord-orientale e sull'appennino modenese. Collaborano lealmente con le altre formazioni partigiane sotto il comando del Corpo dei Volontari della Libertà (CVL), l'organismo militare che a fianco del Comitato di Liberazione dell'Alta Italia (CLNAI) coordina le attività partigiane nei mesi finali della Resistenza. Naturalmente le formazioni partigiane cattoliche mantengono gelosamente le loro caratteristiche ideali e ideologiche: accentuazione del momento militare rispetto a quello politico, formale apartiticità delle organizzazioni, rifiuto di azioni di tipo «terroristico» in grado di provocare feroci rappresaglie nazi – fascista.
Da qui nascono diffidenze e obiezioni di «attendismo» da parte degli elementi più decisi del partigianato comunista o azionista - obiezioni che puntualmente vengono respinte dai cattolici durante e dopo la guerra di liberazione, quando l'attendismo si rivela psicologicamente il serbatoio più consistente del moderatismo democristiano. Sono gli anni in cui si consuma anche la rottura politica tra la Resistenza rossa e quella cattolica. A proposito di Giuseppe Dossetti, la figura che più di altre incarna il cattolicesimo schiettamente aperto e partecipe dei valori della Resistenza e del loro rispecchiamento nella Costituzione, scrive Paolo Pombeni, «Pur richiamandosi in alcune occasioni al grande valore morale del momento della Resistenza, preferì ritenerlo un momento eccezionale che si era chiuso con la liberazione. Egli non fu in alcun modo favorevole per esempio alla gestione diretta del potere da parte delle istituzioni partigiane in sostituzione dei poteri statali tradizionali»30.

Va aggiunto che il dossettismo, come alternativa di sinistra fortemente motivata religiosamente, fallisce di fronte alla strategia politica democristiana che garantisce, sì, l'instaurarsi della democrazia ma con un'impronta sociale nettamente moderata, se non restaurativa. Per il resto, la chiesa è preoccupata innanzitutto di garantire la propria posizione nel nascente Stato italiano con la riconferma dei Patti lateranensi (stipulati nel 1929 con Mussolini) e il loro inserimento nella Costituzione repubblicana. La democrazia cristiana si fa interprete zelante di questa richiesta, trovando l'appoggio del Partito comunista, disposto a questa soluzione (per taluni aspetti inattesa) al fine di legittimarsi come partito popolare rispettoso dei sentimenti religiosi.
Soltanto tenendo insieme tutti i pezzi del mosaico cattolico - senza isolarne o trasfigurarne la «resistenza passiva» e i suoi effetti - diventa chiaro il contributo dei cattolici alla legittimazione del risultato politico della lotta resistenziale, anche se il loro contributo armato è stato inferiore a quello di altre parti politiche, comunista innanzitutto.

lO. Approdiamo cosi al problema della strategia del PCI, durante e  soprattutto dopo la Resistenza, definita come «doppia strategia»: disposizione alla rivoluzione sociale da un lato e leale collaborazione con gli altri partiti antifascisti (dopo la cosiddetta «svolta di Salerno» voluta da Togliatti di ritorno dall'URSS nel 1944 ).
In realtà non è facile definire con precisione la «doppiezza» comunista neppure se riferita al suo leader. Limitandoci qui al periodo post-resistenziale, essa comprende infatti due differenti dimensioni: a) la tensione tra l'attesa rivoluzionaria (di tipo insurrezionale) di una larga base comunista e la strategia di legalità parlamentare imposta dalla direzione comunista nella prospettiva della «democrazia progressiva»; b) l'incertezza nello stesso Togliatti dei contenuti di questa stessa strategia progressiva che si proclama «rivoluzionaria», affidando la fuoriuscita dal capitalismo e il superamento della democrazia borghese alla «azione delle masse» dai contorni istituzionali incerti.
Sul primo aspetto ha insistito molta -letteratura storiografica cosiddetta «liberalcomunista». Scrive ad esempio lo storico Paolo Spriano:
Il Pci del 1946-48 è un partito che per la sua storia, 1'educazione clandestina dei suoi quadri, gli umori della sua base più combattiva, è percorso trasversalmente da tentazioni rivoluzionarie, sovversive. Dinanzi ai deludenti risultati elettorali del 2 giugno 1946 si sente parlare spesso di «seconda ondata». Gli ex partigiani garibaldini, la parte di essi entrata o rientrata nelle fabbriche, organizzata, insofferente, rancorosa (anche verso Togliatti per 1'amnistia ai fascisti e la sua applicazione scandalosa) rappresenta L .. ] la punta di un iceberg, di quella «doppiezza», di quella insofferenza diffusa nelle file del partito verso una strada democratica di avanzata che Togliatti propugna.
Prima di procedere è bene spendere qualche parola sulla questione della «mancata epurazione» e della amnistia di fascisti e collaboratori (giugno 1946), appena accennata nella citazione sopra riportata.
Non credo sia corretto considerare l'epurazione come il sigillo legale della guerra civile appena conclusa - come qualcuno ha suggerito. Credo si debba intendere come l'atto dovuto di una democrazia che vuol fare sul serio. Sta di fatto che in Italia - secondo la convinzione nettamente prevalente tra gli storici32 - l'epurazione più volte enunciata non è portata a compimento.
Di questa «epurazione mancata» si alimenta la cattiva coscienza della sinistra storica che si sente in qualche modo corresponsabile, non foss'altro perché l'amnistia porta la firma del Guardasigilli Togliattp3. A voler essere precisi, per una valutazione più corretta di tutta questa materia, occorrerebbe tenere distinti i risultati dei procedimenti giudiziari di epurazione e la successiva decisione politica di amnistia. La macchina burocratico-giudiziale dell'epurazione funziona per un ristretto vertice del personale politico fascista più compromesso. Diventa invece lassa per i funzionari anche di livello elevato senza la cui collaborazione, per altro, il fascismo come regime non avrebbe retto. Non funziona per i fiancheggiatori dell' economia, della pubblica amministrazione, dell'università e della scuola, disposti del resto a schierarsi con il nuovo ordine. In questa ottica l'epurazione diventa davvero una questione politica in senso stretto che incrocia le differenti strategie di ricerca del consenso da parte dei partiti del CLN. Da qui le tensioni in seno alle forze politiche resistenziali - tensioni che alla fine si traducono, come per altre questioni, nella neutralizzazione delle posizioni più intransigenti (quelle azioniste) e nella linea comunista della moderazione - non prima però che si siano verificati fenomeni di epurazione spontanea o selvaggia.
Soltanto in un secondo tempo, davanti al fallimento complessivo della strategia conciliatoria di Togliatti, si darà sfogo in campo comunista ad un generale risentimento mettendo sullo stesso piano la insufficiente epurazione e la improvvida decisione politica di amnistia.
Riprendiamo il filo della «doppiezza» togliattiana. Annche se il leader comunista non ha mai preso in considerazione strade insurrezionali, attraverso la formula «partito di governo e di opposizione» lascia credere che la democrazia parlamentare «formale» esistente sia transitoria  strumentale rispetto alla democrazia «sostanziale» socialista. Ma i passaggi operativi dall'una all'altra sono tutt'altro che chiari. L'unica cosa evidente è la continua, pressante mobilitazione extraparlamentare di massa, attraverso l'attivazione di innumerevoli organizzazioni fiancheggiatrici del partito; la rigorosa centralizzazione organizzativa del partito con la creazione di strutture clandestine di autodifesa armata dal ruolo incerto tra «servizio d'ordine» e potenziale nucleo insurrezionale. Nei comunisti domina la convinzione (terzainternazionalista) che il sistema capitalista sia giunto alla sua fine e che tutte le masse «popolari» (anche democristiane) si lasceranno prima o poi convincere alla prospettiva socialista. Da qui la sistematica critica e diffamazione delle socialdemocrazie e di ogni «riformismo». Su tutto domina il mito della Russia sovietica e del suo capo carismatico Giuseppe Stalin.
Questo atteggiamento non impedisce che i comunisti si impegnino a fondo nella creazione del sistema democratico italiano - collaborando in modo costruttivo nella Costituente, unica sede formalmente deputata a dare corpo agli ideali della Resistenza. Questo è il punto decisivo che interessa l'analisi che stiamo conducendo. Agli occhi dei comunisti italiani la Costituzione repubblicana non è di ostacolo ad un futuro superamento della società borghese. Questa convinzione da un lato rafforza nei comunisti la certezza di essere portatori di un' alternativa anticapitalistica democratica ma dall' altro vincola la lotta di classe alle regole della legalità democratica ma dall'altro.
Togliatti iscrive la sua strategia di via nazionale al socialismo in una visione internazionale che ha come polo trainante l'Unione sovietica e il mito Stalin. Ma si tratta di un polo che favorisce la distensione e la collaborazione con l'occidente così da poter configurare per l'Italia uno spazio di autonomia tra socialismo sovietico e capitalismo. Togliatti oltre tutto - se si trovasse in un un momento di grave crisi non può contare sul sostegno diretto dell'URSS. Non ci potrà essere alcun appoggio o intervento del tipo assicurato ai comunisti dei paesi dell'Europa orientale, perché l'Italia appartiene irreversibilmente al campo occidentale.
La strategia togliattiana appare plausibile sinché dura e si sviluppa la distensione internazionale: si trova in un vicolo cieco non l'irrigidimento degli schieramenti imposto dalla guerra fredda. Allora diventa evidente come la doppiezza fosse «in re ipsa - per dirla con Antonio Giolitti - derivata
dalla impossibilità storica per il PCI di sottrarsi all'una o all' altra delle due scelte di campo». «li capolavoro togliattiano consistette dunque nel far coesistere quasi senza attriti (almeno fino al 195 6) due motivazioni, due finalità che sostanzialmente e anche apparentemente si sarebbero dovute considerare incompatibili: l'utopia comunista e conseguentemente il legame di ferro con 1'URSS e l'incondizionato impegno per la democrazia».
L'allontanamento dei comunisti e dei socialisti dal governo (maggio 1947) non è la meccanica conseguenza della «scelta di campo» americana di De Gasperi. La coalizione, anzi la coabitazione tra la DC e la sinistra nel governo aveva già toccato da mesi il suo punto morto per inerzia interna. Non c'erano infatti soluzioni autarchiche nazionali alla ripresa dell'economia capitalistica in Italia. Né le sinistre avevano reali praticabili strategie alternative. Anzi, nella fase di collaborazione nei governi con la DC, avevano ceduto più di quanto non si rendessero conto ad una politica economica e finanziaria che era la premessa della svolta del 1947. Le sinistre infatti erano al governo quando erano stati parzialmente liberalizzati gli scambi e ridotti progressivamente i controlli sui cambi; quando si era presa la decisione di aderire al Fondo Monetario Internazionale e alla Banca Internazionale per la Ricostruzione che erano i pilastri del sistema capitalistico internazionale.
Il resto lo farà il peggioramento dei rapporti est-ovest nella metà del 1947 che, costringendo il PCI a schierarsi con il blocco orientale, pregiudica in maniera irreversibile le sue chances di attrattiva sull' elettorato italiano. Pesanti sono anche i contraccolpi interni al partito. In una drammatica riunione della direzione comunista nell' ottobre 1947 Togliatti si espone come non mai nella sua doppiezza strategica: «Esiste oggi una prospettiva immediata di insurrezione? - si chiede - lo ritengo che non sia giusto porre così la questione, ma certamente un comunista non può escluderla in eterno [ ... ]. Occorre esaminare alcune questioni di organizzazione, prendere nuove misure, prepararsi, infine, se non all'illegalità certo ad una lotta molto dura».
La formula della «lotta molto dura» sottintende chiaramente - dietro 1'enfasi della militanza - il riconoscimento dei vincoli imposti dalla legalità democratica cui il PCI si impegna (e si impegnerà per i decenni a venire). Sono i vincoli nazionali e internazionali entro cui si incanala definitivamente anche la «guerra di classe» della Resistenza.
Il PCI non ha mai abbandonato il piano della legalità costituzionale, soprattutto nei momenti più acuti di crisi politica, anche se il suo messaggio ai militanti ha sempre lasciato indeterminato se si trattasse di un differimento della decisione rivoluzionaria o di un inevitabile lungo processo di trasformazione.

11. Uno dei pericoli maggiori per questa prospettiva e strategia politica è l'impazienza rivoluzionaria ovvero la provocazione dell' avversario che spinge sul terreno della illegalità. Il leader comunista - come ha osservato Giorgio Bocca  aveva capito tardivamente e forse mai sino in fondo il valore della Resistenza armata in Italia: «Togli atti accetta la guerra partigiana da politico che non si oppone alle necessità del presente, ma senza crederci sino in fondo, sempre stalinianamente persuaso che ciò che conta è solo il grande potere dell'Unione Sovietica, il potere che il partito saprà assicurarsi nello Stato»36.
Qui sta la chiave della diffidenza togliattiana verso quella parte del movimento partigiano che non è mai completamente rientrata nei ranghi. Per molti partigiani comunisti questa diffidenza è fonte di continue frustrazioni. A ciò si aggiunga il sospetto continuo di «sovversivismo illegale» con cui sono guardati dalle forze moderate e dal governo. Per la verità da parte di alcuni di loro non sono mancati comportamenti che rafforzano tale sospetto. Non si tratta soltanto di episodi di giustizia sommaria contro fascisti e fiancheggiatori, proseguiti apparentemente senza controllo in alcune zone per mesi (quelli che saranno chiamati i delitti del triangolo rosso). Ciò che ha colpito è il dissenso manifesto di alcuni settori della base comunista ex partigiana, prossimo alla insubordinazione civile.
La miscela tra le vecchie frustrazioni e lo shock dell'attentato a Togliatti porterà alla metà di luglio del 1948 ad un confronto politico e sociale così grave da sembrare la premessa di una guerra civile.
Nei momenti cruciali del confronto/scontro politico comunisti e democristiani (e i loro alleati) non mancano di rimproverarsi reciprocamente con un costante crescendo di portare il paese sull' orlo della guerra civile, avanzando nel contempo il merito d'averla sino ad allora evitata. Il ricorso alla grave espressione di «guerra civile» è frequente nella polemica giornalistica e nella retorica politica con una particolare intensificazione nel 1947. È un motivo che ritorna nello stesso Togliatti soprattutto nello strascico polemico che segue alla crisi governativa del maggio 1947, a seguito della quale la sinistra è estromessa dal governo. Ancora sul «l'Unità» del 30 novembre leggiamo che «invocare oggi i comunisti fuori dalla legge vuol dire invocare la guerra civile, nella quale credo che molti ormai abbiano capito che gli sconfitti non saremo noi». E De Gasperi gli fa eco parlando poco dopo in un comizio a Napoli di «puzzo acre di guerra civile».
Ancora più forte ed esplicita è la reazione alla notizia dell'attentato a Togliatti il 14 luglio 1948. «L'Unità» esce con il titolo Via il governo della guerra civile. E lo stesso concetto ritorna nel passaggio-chiave del documento della Direzione stilato in quella circostanza.

Le grandi città del nord sono paralizzate dalla protesta dei comunisti e delle altre organizzazioni di sinistra, ex partigiani in testa, in un clima che appare a molti preinsurrezionale. Mai in Italia si era vista una mobilitazione di quelle proporzioni e con quei caratteri. Non è certo un dettaglio secondario constatare che il 15 luglio in una Torino con le fabbriche occupate, le strade percorse da formazioni partigiane in armi e la polizia consegnata in caserma, a Palazzo Madama venga sottoscritto un durissimo documento di condanna al governo, che porta la firma di tutti i capi partigiani del Piemonte, azionisti e comunisti.
La vicenda di metà luglio si conclude con episodi di sangue circoscritti in alcune località italiane, per la ferma determinazione della direzione comunista di evitare lo scontro e per la controllata reazione del governo De Gasperps. Nell'Italia repubblicana non si sarebbero mai più verificati episodi analoghi. Si può dire che tra il 1945 e il 1948 ci fosse una guerra civile latente? Quando la possibilità del ricorso alle armi viene seriamente presa in considerazione dai partiti contrapposti e diventa una preoccupazione costante del governo, allora non si può negare che l'interrogativo sia
legittimo. Si può quindi parlare per quel periodo di una guerra civile virtuale - dando all'aggettivo «virtuale» il suo pieno significato.
Vanno comunque tenuti presenti due dati di fatto. Una iniziativa armata, ipoteticamente proveniente da sinistra, dopo il 1945 -46, non avrebbe affrontato tanto ex compagni di lotta antifascista quanto forze regolari di polizia. E soprattutto avrebbe dovuto fare i conti con gli alleati angloamericani. I dirigenti comunisti - saggezza politica a parte _ erano ben consapevoli di questo scenario militare.
In secondo luogo - ed è un aspetto essenziale per le nostre riflessioni - per tutti i possibili attori in causa il ricorso alle armi viene ipotizzato esclusivamente come difesa dell' ordine democratico, anche se i contrasti nascono proprio sulla determinazione dei contenuti sociali di questo «ordine democratico». Da qui il paradosso di una virtuale guerra civile reciprocamente rimproverata tra parti politiche che non la vogliono, in nome della democrazia che intendono difendere.

12. Anziché sviluppare in termini generali questa problematica, desidero qui rivolgermi alla testimonianza39 di due protagonisti, di due ex partigiani che dopo il 1945 si trovano su posizioni politiche antitetiche, in aree geografiche lontane. Parlo del cattolico Ermanno Gorrieri, capo partigiano sull'appennino modenese e poi avversario politico dei comunisti, in veste di sindacalista cislino e democristiano di sinistra in un' area tipicamente «rossa»; e dell' azionista Nuto Revelli capo partigiano nel cuneese e poi schierato politicamente su decise posizioni di sinistra, antidemocristiane in nome dell'antifascismo militante, in un'area tipicamente «bianca».
Abbiamo davanti due uomini esemplari per l'impegno sociale e il lavoro di studio, due uomini solidi e integri, eppure con una reciproca idiosincrasia sul piano delle valutazioni politiche ed etiche. A loro modo incarnano non solo il policentrismo geografico e politico della Resistenza ma anche le sue profonde incompatibilità politiche, che si trasmettono direttamente allo scontro politico nel dopostenza.
Gorrieri ritiene oggi di riassumere la sua posizione di allora in una frase che compare in un documento degli ex partigiani cattolici impegnati nel sindacato negli anni immediatamente successivi alla Resistenza: «non ci alleeremo mai con i fascisti contro i comunisti ma neppure con i comunisti contro i fascisti».
Diametralmente opposta è la posizione di Revelli che scrive perentoriamente: «si è costruita la democrazia su fondazioni fasciste, e oggi scopriamo che il fascismo è nello Stato fin dal 26 aprile». Di conseguenza, di fronte al successo elettorale democristiano dell'immediato dopoguerra nel cuneese, precisa: «il voto è già un tributo da pagare ai parroci, ai mafiosi, ai padroni»40.
Specularmente opposta nel biennio 1946-48 è la valutazione e la preoccupazione di Gorrieri: come riconquistare nel modenese il consenso popolare al partito cattolico sottraendolo a quelle che lui ritiene le pressioni e le intimidazioni comuniste.
Come è possibile che due uomini con giudizi di valore così diversi possano costruire insieme la democrazia italiana? Qual è l'elemento unificatore di queste due personalità con opzioni politiche antagoniste? Credo che questo elemento possa essere individuato nella lealtà reciproca, forgiata dalla comune esperienza resistenziale. Questa lealtà da qualità morale diventa risorsa politica, diventa determinazione soggettiva a difendere comunque la democrazia nata dalla Resistenza.
Per capire questa lealtà non è irrilevante notare che per entrambi, per Gorrieri come per Revelli, il motivo iniziale della scelta resistenziale non è una precedente solida «cultura politica», ma la schietta reazione di sdegno e di orgoglio per 1'8 settembre. Entrambi cioè reagiscono in nome di una dignità e identità civica e nazionale, sentita d'istinto, anche se mai esibita come «patriottismo» - una espressione di cui hanno sperimentato tutto l'abus041. E possiamo anticipare che nessuno dei due ama la definizione di «guerra civile» applicata alla Resistenza. È come se la qualità della passione morale con cui hanno vissuto sulla propria pelle quella esperienza impedisca loro di chiamarla - almeno in prima battuta - con il suo nome.
Ma torniamo al tema da cui siamo partiti in questo paragrafo: la plausibilità di una guerra civile nei primi anni dopo la Resistenza. La premessa non può che essere il dato di fatto che molti partigiani azionisti, comunisti e cristiani dopo il 25 aprile non disarmano completamente.
Gorrieri non esita a confermare:

È assolutamente naturale che tenessimo le armi usate in montagna. Dopo il 25 aprile ne avevamo consegnata soltanto una parte. Le altre le abbiamo nascoste in depositi sia in montagna che in pianura (nei cimiteri ad esempio). Eravamo sicuri che anche gli altri, i comunisti, facevano così, anche se sapevamo che in caso di scontro saremmo stati noi i soccombenti per la sproporzione del numero e della qualità dell'armamento. Poi, dopo l'attentato a Togliatti (luglio 1948) ci sembrò di capire che la presa rivoluzionaria del potere da parte comunista non ci sarebbe stata. E la tensione diminuì molto lentamente.

Alla domanda se c'era anche un piano predisposto, Gorrieri risponde affermativamente. Nei prim,imesi del 1948 c'erano state riunioni, analoghe a quelle del periodo della clandestinità, durante le quali erano state tracciate sette zone, con percorsi organizzati, collegate via radio. Quanto alla quantità e qualità dell'armamento, il gruppo disponeva di fucili mitragliatori Bren e di Sten, già in dotazione nella guerra di Resistenza e tenuti sempre in stato di efficienza. Con essi si poteva armare una formazione tra i due e trecento uomini.
La ragione addotta per questo atteggiamento - Gorrieri lo ripete - è il timore di un «colpo di Stato» comunista.
Oggi sappiamo che era un timore infondato, ma qui ci interessa registrare le motivazioni soggettive, le paure e le attese di chi non sapeva nulla della grande politica e viveva quotidianamente in un clima politico di ansia e ambiguità. In particolare il fattore di inquietudine per il giovane Gorrieri di allora, che aveva combattuto al fianco dei comunisti, era la possibilità che essi ricorressero a forme illegali di violenza. Questa paura era alimentata dalla frequenza delle soppressioni illegali di avversari politici da parte di ex partigiani, proprio nelle aree reggiana e modenese, e diventate immediatamente occasioni di aspri contrasti tra democristiani e comunisti. Essi gettavano ombre retrospettive anche su certi episodi e comportamenti durante la guerra di Resistenza.
A differenza di altri cattolici, Gorrieri non ha avuto alcuna esitazione circa la moralità della lotta armata e del ricorso alla violenza intrapreso in nome della solidarietà verso le vittime dirette e indirette del nazifascismo. Più complessa invece gli appare la questione della qualità e delle forme della violenza da esercitare effettivamente. Soprattutto qui sta la differenza con la concezione comunista.
Nel suo libro sulla Repubblica di Montefiorin042 Gorrieri scrive che i cardini dell'impostazione comunista alla lotta armata erano la più larga estensione quantitativa (criterio di massa) e l'inflessibile durezza, incurante delle conseguenze.
Da parte democristiana si riteneva invece che una rigida selezione degli effettivi partigiani e un loro inquadramento disciplinato e organizzato non erano soltanto un'esigenza di carattere militare, ma anche un problema di dignità e di prestigio delle formazioni nei confronti della popolazione, e nel contempo 1'aspirazione era quella di «umanizzare» la lotta evitando gli spargimenti di sangue che non fossero necessari.
In altre parole i partigiani cristiani non approvavano la tecnica del «terrorismo» con le conseguenti rappresaglie che alla fine alienavano la popolazione anche meglio disposta. Riecheggiando un documento democristiano del febbraio 1945, Gorrieri rimprovera ai comunisti «troppe eliminazioni che non erano né lecite né necessarie né opportune». Se il «criterio di massa» praticato dai comunisti sottolineava da un lato il carattere di «lotta di popolo» della Resistenza, dall' altro portava con sé anche manifestazioni di indisciplina, disordine e violenza controproducenti. Gorrieri - beninteso - dice a chiare lettere (e con prove circostanziate) che erano i fascisti i responsabili primi e principali delle degenerazioni che accompagnavano la lotta armata. Ma sull' Appennino modenese si intravvedevano tutti i sintomi di un dopo-Resistenza carico di violenze e intolleranze.
Scrivendo il suo libro nel 1966 Gorrieri respingeva vivacemente la qualifica di «guerra civile» per la Resistenza che doveva invece essere considerata essenzialmente come «ribellione contro lo straniero occupante» e contro un fasciismo che però non aveva «nessuna rispondenza nella coscienza popolare».
Al Gorrieri di oggi faccio presente il semplicismo di questa concezione tradizionale della Resistenza. «Sì, per certi aspetti è stata anche una guerra civile» ~ ammette ora, anche se ribadisce che le motivazioni primarie alla lotta e le azioni di guerra rimangono fissate soprattutto sui tedeschi.
Sono le stesse parole con le quali anche Nuto Revelli respinge l'idea della Resistenza come guerra civile, aggiungendo per altro che «i fascisti erano per noi degli stranieri come e forse più dei tedeschi». Ma il contrasto tra i due partigiani, cattolico e azionista, ridiventa abissale a proposito dei comunisti. Per Revelli sono leali compagni di lotta durante e dopo la Resistenza armata. Gorrieri invece precisa: «Abbiamo combattuto insieme contro i tedeschi, certo, ma con grandi contrasti. Soprattutto politici, ma non solo».
Al mio interlocutore modenese chiedo se non si debba far risalire a questi contrasti il fatto che l'epopea della Resistenza non abbia attecchito in profondità nella popolazione di tradizione cattolica che pure era maggioritaria almeno nella provincia. Gorrieri conferma, ma insiste nel precisare che la colpa è soprattutto di quello che è successo dopo la Resistenza.
Lo stillicidio di uccisioni, violenze o anche solo intimidazioni dopo 1'aprile 1945 ha impedito che la Resistenza diventasse un «mito» per i cattolici. Retrospettivamente sembrò piuttosto una tregua. Nei paesi della provincia modenese per noi cattolici l'attività politica dei primi anni era invivibile: i comunisti non sapevano o non ne volevano sapere niente della grande politica dei Togliatti e dei compagni romani. Loro aspettavano l'ora.
Collocate oggi nella loro prospettiva storica, queste vicende remote non hanno perso nulla della loro forza emotiva, ma suggeriscono un giudizio politico più pacato. Personalmente Gorrieri, impegnandosi nella sinistra democristiana vicino alle posizioni dossettiane e soprattutto nel sindacato, ha sempre concepito il confronto con i comunisti come competizione democratica e impegno fattivo nelle cose. Del resto, precisa, «il contrasto politico con il comunismo non impediva una mobilitazione contro il neofascismo missino e contro il qualunquismo. Ma il valore dominante era pur sempre la libertà politica, innanzitutto e soprattutto. Poi c'erano alcuni obiettivi sociali, per i quali noi della sinistra cristiana ci sentivamo molto impegnati»46. Nella seconda metà degli anni cinquanta il clima politico migliora sensibilmente consentendo anche la ripresa di contatti politici formali con i comunisti, per cui «la Resistenza cessa di essere arma politica del PCl».
Come si è già anticipato, l'universo valutativo in cui si muove Nuto Revelli è radicalmente opposto. Per lui il fascismo non è un fenomeno storico conchiuso: è una provocazione quotidiana. Mi racconta con sdegno e tristezza di episodi di persecuzione quotidiana, fatta di scritte ingiuriose, di vandalismi di cui è vittima in quanto «partigiano», in una città apparentemente civile come Cuneo, in cui si annidano gruppetti neofascisti arroganti e impuniti. Si tratta soltanto di qualche «cane arrabbiato» - aggiunge consapevole delle dimensioni oggettivamente modeste del fenomeeno. Ma è impossibile banalizzarne il significato, soprattutto in questi tempi.

La tristezza del presente sembra confermare Revelli nell'amara delusione dei mesi e degli anni immediatamente seguiti ai «venti mesi» di lotta partigiana, raccontati nelle splendide pagine introduttive alla Guerra partigiana di D. Livio Bianco. Precocemente Revelli constatava che «il nostro mondo contadino è incapace di scelta autonoma, è plagiato dal clero che teme il progresso, che serve alla conservazione». Il discorso riprende letteralmente con le stesse parole ne Il mondo dei vinti ampliato con ricordi personali e giudizi molto severi.
Risalivo le valli a parlare di monarchia e repubblica, a portare il discorso nuovo del Partito d'azione. Ma incontravo soltanto diffidenza e paura. [, .. ) La fiammata della Liberazione si era spenta troppo in fretta. Era di nuovo il potere che contava, il potere fine a se stesso, era il controllo delle masse contadine la grande risorsa della restaurazione. [ .. .) Il clero diseducava, ricattava le coscienze, speculava su tutto, anche sui «dispersi» di Russia, anche sui morti, pur di conservare intatto l'enorme serbatoio dei voti. Il clero era 1'arbitro di ogni scelta politica e la sua crociata era la conservazione.
Su questo sfondo il problema di un eventuale scontro armato con le forze della nuova reazione clerico-fascista acquista una prospettiva e una giustificazione diametralmente opposta a quella percepita da Gorrieri. Si tratta infatti di mantenere vive le attese e le speranze della Resistenza, se necessario ritirando fuori le armi conservate dopo il 25 apriile48. Chiedo a Revelli di illustrarmi questo clima e mi racconta come fatto esemplare l'episodio di Santa Libera, una località del cuneese dove nell' agosto 1946 si erano raccolti gruppi di partigiani delusi ed esasperati per una situazione sociale e politica che smentiva ogni loro attesa di miglioramento e rinnovamento. Alla fine toccherà ai dirigenti politici comunisti convincere, ancora una volta, gli ex partigiani a non fare imprudenze e ad investire la loro rabbia nella mobilitazione politica legale. L'episodio rientra così a pieno titolo in quella situazione di fermento partigiano che la strategia comunista riuscirà di fatto a controllare, secondo quelle linee che abbiamo visto sopra.
La battaglia personale di Revelli prosegue contro il fascismo indomato, che sintetizza in sé tutto l'arbitrio, l'autoritarismo, la corruzione politica dell'Italia «dei benpensanti, dei furbi, dei servi, dei mafiosi», contro cui era indirizzata la «rivoluzione democratica» sognata da Livio Bianc049.
13. Siamo tornati alle aspettative, alle utopie deluse della Resistenza. È noto che le prime e più forti voci di denuncia per il mancato rinnovamento etico-politico atteso dalla Resistenza si alzano dal campo azionista. Nell'ottobre 1946, uno dei più eminenti uomini politici dell'azionismo, Piero Calamandrei, lamenta il venir meno del «soprassalto dello spirito» legato alla Resistenza e parla di «desistenza». Questa diagnosi sarà in seguito ripresa da Norberto Bobbio in una serie di formulazioni che fisseranno per così dire la visione critica retrospettiva di sinistra: «la Resistenza era diventata ormai un'idea morale, un mito per rinascere - chi sa - come leggenda popolare (il che poi non è avvenuto). Non era più storia o, meglio, era storia conclusa».
Questa citazione ci riporta alle nostre riflessioni iniziali.
In che senso c'è stato un mito resistenziale? Quali sono i suoi contenuti? Perché oggi dovrebbero essere «smitizzati»? La Resistenza ha esaurito il suo ruolo di evento storico che dà «senso politico fondante» alla democrazia italiana di oggi? Oppure una sua rivisitazione può ancora svolgere questa funzione? In termini più generali: una democrazia ha bisogno di eventi o «miti fondanti»?
Per affrontare questi interrogativi occorre ricordare l' assunto (che guida la riflessione di questo libro) che una democrazia per essere vitale ha bisogno di una integrazione culturale che deriva anche dalla consapevolezza dei suoi cittadini di costituire una comunità con una storia e una identità comune, di fatto coincidente con l'appartenenza nazionale, per quanto sofferta, contrastata essa sia. Il quesito allora è se la creazione di questa identità comune e la definizione dei suoi contenuti ideali debbano essere necessariamente assegnate ad un evento «mitopoietico» politicamente originario che rappresenta una grande cesura storica e insieme un nuovo inizio. La Resistenza in quanto rottura netta con il fascismo e inizio della nuova fase democratica può assumere la qualifica di «mito», nel senso che stiamo illustrando?

Dobbiamo fare un po' di chiarezza sul concetto di mito politico. Per cominciare, non è semplice sinonimo di «senso politico fondante» che attinge ad un evento straordinario. Il mito è sempre anche «narrazione» che attualizza in continuazione l'evento originario, così da dare immediatamente senso compiuto e unificante ad azioni e intenzioni del presente che sono altrimenti confuse, frammentate, contraddittorie. Il presente ha bisogno di attingere senso al passato attraverso la memoria e la narrazione. Dal momento che questa narrazione avviene a vicenda conclusa, essa contiene anche razionalizzazioni ex post che danno (trovano o inventano) coerenze o connessioni che prima non erano percepite o erano addirittura inesistenti, ma che sono invece importanti oggi. Questa razionalizzazione può avvenire per motivi strumentali o come compensazione di frustrazioni. Breve è il passo verso la fabulazione, la manipolazione soggettiva e ideologica che confonde gli atteggiamenti e le aspettative di una parte con il significato del tutto, con il valore che l' evento assume per l'intera collettività.
Come si vede, in pochi passaggi il concetto di mito può perdere il significato neutro o positivo di produttore di «senso politico fondante» per una intera comunità nazionale e può assumere i caratteri di una operazione di parte. Si crea, sì, un mito ma in risposta a preoccupazioni di identità
particolari. E può succedere che il mito non riguardi quello che è effettivamente accaduto ma quello che sarebbe dovuto succedere. Nasce il mito di un evento mancato. Il quadro si complica ulteriormente se coesistono e competono più miti di questo tipo. Il risultato è una sorta di neutralizzazione e relativizzazione dello stesso evento originario.
Applichiamo queste considerazioni alla Resistenza italiana, alla dimensione «mitopoietica» che possono assumere i suoi contenuti di rottura-e-inizio, legati al binomio di rottura antifascista e di inizio della democrazia. Esiste un primo livello dove antifascismo e democrazia hanno un significato autoevidente e insieme molto generale: lotta armata al nazi-fascismo e istituzione della democrazia parlamentare, senza determinazioni più precise. È il livello-base su cui regge l'unanimità rituale delle forze politiche antifascista dal 1945 a oggi.
Ma la forza identificante di questo mito-rito è limitata.
Dal momento che si rifà ad un evento concluso (il fascismo come regime è dichiarato finito e la democrazia parlamentare è dichiarata instaurata) deve attingere la sua carica dalla narrazione e dalla memoria del sacrificio, dell' eroismo, del martirio di alcuni protagonisti. Si tratta di qualità morali e umane esemplari, sempre valide, ma deprivate dei connotati politici specifici che caratterizzavano i protagonisti - connotati molto spesso contrastanti. La visione politica del martire comunista è in contrasto con quella del martire democristiano; il contrasto può essere appianato soltanto se - a parte il comune riferimento patriottico - si mette in moto un processo di quasi sacralizzazione del loro comune sacrificio. Qui si innesta il tentativo di fare della Resistenza il nucleo di quella «religione civile», che in Italia non ha mai attecchito.
Ma con il passare del tempo il processo di quasi sacralizzazione allarga il suo orizzonte dalle gesta militarmente e politicamente attive della Resistenza a tutte le vittime dirette e indirette della guerra (dalle vittime degli eccidi ai deceduti nei lager tedeschi). Questa operazione è propiziata da quello che ho chiamato il patriottismo dell'espiazione. Con un effetto collettivo ulteriore: i riti di riconoscimento dei «martiri della libertà» funzionano implicitamente come autoassoluzione collettiva per chi è stato a guardare e ad aspettare.
In polemica contro queste ambiguità la sinistra ha cercaato di ricreare in altro modo la carica mitico-ideale della Resistenza. Questa - si dice - non può esaurirsi nella ritualità patriottica e/o espiativa perché il senso autentico della Resistenza sta in una somma di ideali che non sono ancora stati realizzati. Il fascismo è finito come regime storico, ma rinasce attraverso il neofascismo, il qualunquismo (anni quaranta), la fascistizzazione dell' apparato statale (anni cinquanta), i tentativi autoritari e golpisti di destra (anni cinquanta e sessanta), lo «stragismo» (anni settanta e ottanta), il «revisionismo» storico (anni ottanta), il razzismo (anni novanta) ecc. Sono poste così le premesse di una trasposizione della Resistenza a evento che contiene idealmente tutti gli antidoti contro le patologie sociali e politiche contemporanee, che a loro volta vengono sintetizzate in una accezione estremamente inclusiva di fascismo. La Resistenza si presenta allora come fonte originaria di un processo democratico in fieri: è la «Resistenza continua».
Questa operazione può essere legittima sul piano della pedagogia politica, ma è inficiata da ambiguità non meno presenti di quelle che si volevano combattere. Non a caso una visione, della Resistenza sublimata a pura moralità civile e democratica è insofferente verso ogni rivisitazione che le ricordi i suoi corposi tratti politico-partitici che si materializzano nelle competizioni e nei compromessi della Repubblica dei partiti.
Se oggi questa Repubblica è entrata in una crisi irreversibile la colpa non è imputabile né alla ripresa di una destra rinnegatrice dei valori resistenziali né ad una immoralità civica riconducibile allo «sporco ammasso di interessi reazionari» quale era inteso dal giovane azionista Agosti nel 1944. La natura della attuale crisi politica e morale va oltre l'orizzonte dello scontro storico fascismo-antifascismo.

14. A questo punto qualcuno si affretta a dire che allora l'eredità della Resistenza va considerata obsoleta insieme con il regime politico cui ha dato luogo. La sua «smitizzazione» dovrebbe cominciare dal ripudio della costruzione istituzionale che avrebbe favorito la logica degli accordi e dei compromessi costituzionali originari che anticipavano in nuce quelle pratiche consociative e di lottizzazione che alla lunga avrebbero portato alla paralisi della democrazia italiana.
Credo che questa visione sia semplicistica e antistorica, perché retrodata di decenni dinamiche partitiche che all'origine si spiegavano con ben altri moventi. In particolare è fuorviante l'affermazione che l'intesa originaria tra le forze del cosiddetto «arco costituzionale» sarebbe stata d'impedimento alla nascita in Italia dell' alternanza di governo tra partiti conservatori e partiti progressisti. Al contrario, proprio il consenso costituzionale di fondo avrebbe potuto rappresentare la premessa necessaria della alternanza tra destra e sinistra. Se questa non c'è stata non è una colpa da far risalire alla solidarietà nazionale dei CLN, ma piuttosto al suo deteriorarsi nel contesto di quella congiuntura internazionale che sinteticamente chiamiamo «guerra fredda», che ha bloccato e raggelato la maturazione democratica di élite politiche e di grandi elettorati.
Detto questo, non c'è dubbio che la crisi del sistema politico italiano e lo stallo attuale invitano ad una rivisitazione del nesso Resistenza-Repubblica, che sconta l'obsolescenza di alcuni contenuti dell' antifascismo storico. L'antifascismo è la premessa della democrazia, non il suo equivalente. La reticenza su questo punto, in particolare sulla autonomia della costruzione istituzionale della democrazia, ha creato per anni molti equivoci, soprattutto dentro al PC italiano che per troppo tempo ha lasciato intendere ai suoi aderenti che l'opposizione al comunismo, comunque motivata, fosse l'anticamera del fascismo.
Per il resto, l'apprendistato della democrazia è stato un processo lungo e faticoso. La Costituzione italiana - come è noto - non è il prodotto di pochi saggi ma il frutto del confronto di uomini «politici di parte» nel senso pieno termine. Da qui le genericità, i compromessi, gli aggiustamenti della Carta costituzionale sui quali si sono esercitate da subito le critiche. Esemplare è rimasto il giudizio di Calamandrei: «Per compensare le forze di sinistra di una rivoluzione mancata, le forze di destra non si opposero ad accogliere nella Costituzione una rivoluzione promessa».
In questa ottica si spiega l'atteggiamento costruttivo dei comunisti verso la Costituzione, elaborata e approvata proprio in coincidenza con la fase di tensione e di rottura
politica del governo tripartito di cui facevano parte. Questa coincidenza è tutt'altro che secondaria. Proprio nel momennto in cui si stanno disegnando e definendo le regole della democrazia parlamentare, le sinistre sono estromesse dal governo.
Togliatti accusa De Gasperi di rinnegare il «tacito patto» che aveva tenuto insieme sino ad allora le forze politiche resistenziali, per inseguire una mera maggioranza numerica parlamentare - che sola sarebbe legittima per il leader democristiano. Invece per Togliatti la vera legittimità democratica è quella espressa dai «lavoratori che avevano avuto il merito preminente della lotta antifascista» e quindi la legittimità dei partiti della sinistra che li rappresentava sino dalla comune esperienza del CLN. Lo statista democristiano replica al contrario che è tempo di uscire «dalle combinazioni extraparlamentari dei CLN e dei partiti», per ritornare alle forme parlamentari autentiche.
In questa contrapposizione emerge con tutta chiarezza il paradosso per cui nel momento stesso in cui gli esponenti delle due maggiori forze politiche popolari sono solidali nell' accettare senza riserve i fondamenti della Costituzione, rimangono profondamente divisi sui meccanismi che ne garantiscono legittimamente il funzionamento, sulle norme pratiche della sua realizzazione.
Come si sa, a dispetto delle alte proteste, 1'estromissione dal governo era percepita allora dalle sinistre come un episodio transitorio. In ogni caso non intaccava i fondamenti della Costituzione «nata dalla Resistenza», che ai loro occhi conteneva virtualmente gli strumenti per realizzare attraverso la fase della «democrazia progressiva» la transizione al socialismo.
In realtà una Costituzione così «aperta» scontava una serie di equivoci e difetti di funzionamento di cui si sarebbe preso coscienza solo lentamente - se non tardivamente. Come scrive Pietro Scoppola, «mentre fu relativamente facile l'intesa sulla promessa della rivoluzione futura, di uno Stato che assumeva tra i suoi compiti (in forza dell' art. 3 della Costituzione) quello di rimuovere le cause delle diseguaglianze sociali e fu facile altresì il riconoscimento comune del ruolo costituzionale dei partiti, fu impossibile invece il rinnovamento del sistema parlamentare ereditato dal prefascismo». Furono così sacrificate la chiara distinzione tra i ruoli della maggioranza e della minoranza e le esigenze di stabilità dell' esecutivo. «Le esigenze di divisione dei poteri, di garanzia, e di pluralismo istituzionale erano, inizialmente, del tutto ignorate e quelle di efficienza e stabilità dell' esecutivo rispetto al parlamento erano addirittura negate»52. Insomma la democrazia era vista più in termini di utopia sociale che insieme di regole e strumenti di governo. I sottoprodotti, non previsti e non voluti, saranno quelli noti ed etichettati nel gergo politico come governo spartitorio, lottizzazione, consociativismo, partitocrazia ecc. per culminare nell' attuale crisi dell'intero sistema partitico e istituzionale.
Naturalmente il fatto che oggi il problema cruciale in Italia sia 1'efficienza e il rendimento del suo sistema politico, non vuol dire che le necessarie misure correttive non esigano anche virtù civiche, che si richiamano alla «moralità» resistenziale. Ma queste stesse vanno identificate con maggiore precisione.
La più importante delle virtù civiche resistenziali è stata la capacità di apprendere e praticare di fatto la democrazia senza aggettivi da parte di uomini e partiti che avevano concezioni diverse e antagonistiche di democrazia (democrazia con tanti aggettivi contrapposti: formale, sostanziale, liberale, borghese, sociale, progressiva, socialista, proletaria e persino, polemicamente, fascista). Se la democrazia italiana ha retto nei suoi primi anni, evitando una virtuale guerra civile, ponendo le basi per il suo successivo sviluppo, a dispetto dei suoi difetti, lo si deve alla lealtà politica di uomini che si riconoscevano in una comunanza di storia e destino, capace di contenere le loro tensioni di parte attraverso regole democratiche liberamente tracciate nella Costituzione.
La formula «Costituzione nata dalla Resistenza» va dunque sottratta alla sua ritualità e riconosciuta come espressione concreta di un patriottismo costituzionale che, a sua volta, non va inteso surrogato della identificazione nazionale tradizionale, bensì come inveramento di quest'ultima nella norma democratica. Questo è il senso politico fondante che la Resistenza può consegnare, al di fuori di ogni mito, alla democrazia italiana di oggi.
15. Sul n. 6, 1992, della rivista «il Mulino» sono apparse due Lettere sull' azionismo rispettivamente di Norberto Bobbio e dello scrivente. Fanno riferimento ad un precedente saggio apparso sulla stessa rivista (n. 4, 1992) intitolato L'ultimo azionismo. In esso facevo alcune considerazioni sulle posizioni e sugli sviluppi di Bobbio in quanto intellettuale che interpreta un certo orientamento storico-politico, sinteticamente definito «azionismo». Bobbio ha ritenuto opportuno replicare, dando luogo ad alcune ulteriori precisazioni da parte mia. Di questo scambio di lettere sono riprodotti qui alcuni brani più attinenti alle questioni sollevate nel saggio che si conclude e che ha già in parte sviluppato gli argomenti presenti nelle lettere.

Caro Rusconi

[. .. ] Il problema cui il tuo intervento non mi pare dia una risposta chiara è: Revisione, si, ma in quale direzione, a che scopo, per ottenere quale risultato? [. .. ]
La demolizione dell'interpretazione comunista della Resistenza come guerra di popolo apre la strada ad un un'altra interpretazione, che sta serpeggiando nell' area del pensiero cattolico più riflessivo: la Resistenza è stata effettivamente un movimento popolare, ma non in quanto lotta armata, in cui i comunisti insieme con gli azionisti hanno svolto la parte, storicamente accertata, dei primi attori. La Resistenza è stata un movimento popolare non in quanto resistenza attiva, che anticipava una rivoluzione sociale che poi non c'è stata, ma in quanto resistenza passiva in cui la parte principale sarebbe stata svolta dai cattolici. Rocco Buttiglione, discepolo e continuatore sotto molti aspetti dell' opera di Del Noce, in un articolo su «il Tempo» (19 settembre 1992) discutendo dei «fini» e del «senso» della Resistenza, contrappone al mito della Resistenza che «esalta come suo protagonista il combattente armato politicamente cosciente che prepara nella lotta contro i fascisti la rivoluzione comunista», una ben diversa idea della Resistenza, che ne mette in rilievo un elemento di solito trascurato che gli sembra invece «particolarmente interessante». Ascoltiamolo: «È l'elemento del popolo italiano che vuol sopravvivere e riprendere la sua esistenza nazionale. Esso si esprime nello sforzo di moderare la violenza dello scontro che va distruggendo il paese, di garantire il rispetto, pur nella lotta, di alcune regole elementari di umanità e di onore, di salvaguardare beni culturali ed economici essenziali per la futura ricostruzione». Di una Resistenza cosÌ interpretata cambia radicalmente il protagonista. L'autore continua: «lo credo che il modello di questo tipo di resistenza sia il vescovo defensor pacis che impetra misericordia per gli ostaggi e difende i perseguitati (tutti i perseguitati e non quelli di una parte sola)>>. Lo stesso Buttiglione mostra alla fine qualche perplessità nell'uso di una parola-chiave nell'interpretazione dellla storia contemporanea, e non solo italiana, in un senso completamente diverso da quello in cui viene usata abitualmente. Ma per lo meno anche in questo caso l'intento è chiaro. Si tratta di una interpretazione dell' origine dell'Italia democratica, da cui si vuole cancellare l'ingombrante presenza dei comunisti e degli azioniisti loro alleati.
Mi domando se la interpretazione che traspare dal tuo articolo non vada nella stessa direzione. Mi riferisco in particolare a quella pagina in cui, dopo aver constatato che gli intellettuali ex azionisti, «i Bobbio», ritenevano di avere salvato l'autenticità della Resistenza nella dimensione meta-politica della moralità cultura e che questa delega alla cultura, mostrando oggi tutti i suoi limiti, appare come il congedo definitivo dalla Resistenza, sostieni che la lettura in questa chiave «ha prodotto una insufficiente attenzione e conoscenza del mondo democristiano, considerato avversario e ostacolo politico più che come soggetto culturale autonomo». Osservi che questa incapacità di venire a capo del fenomeno democristiano diventa particolarmente gravido di conseguenze, quando si deve valutare l'antifascismo che non ha fatto la scelta insurrezionale. O quando si devono analizzare gli atteggiamenti di ampi strati popolari «nella fase di passaggio dal fascismo al postfascismo», di quella che più oltre chiami la «zona grigia dell' attendismo afascista e apolitico».
La differenza tra te e Buttiglione sta nel fatto che lui chiama Resistenza quella che Resistenza non è stata; tu inviti a prendere atto che c'è stata in quegli anni un'altra storia che non ha niente a che fare con la Resistenza armata. Però tutte e due cercate di dare una spiegazione del fatto che, per capire quello che è veramente successo allora, bisogna allargare gli orizzonti della ricerca storica al di là della Resistenza armata, tanto esaltata nelle cerimonie ufficiali (anche .da parte - aggiungo io - di coloro che non vi avevano partecipato) quanto sconfitta nella realtà delle cose. Se non si compie questa operazione - tu dici - «si pongono le premesse per un gratificante o depresso "esilio interno"».
Proprio così. Non ho difficoltà ad ammettere che per molti di noi l'esilio interno è cominciato allora e dura tutt'ora, a maggior ragione di fronte allo sfacelo del nostro paese, di cui il maggior responsabile è il partito che, raccogliendo allora la massa grigia degli attendisti, degli apolitici e dei qualunquisti, di tutti coloro che non ebbero né il coraggio né l'impulso generoso di fare la grande scelta tra civiltà e barbarie, governa il paese da più di quarant'anni. Non ho nessuna intenzione di abbandonarmi ad una ritorsione polemica. Il discorso sulla Resistenza incompiuta come sai -l'ho chiuso da tempo. Tu stesso citi il brano finale del mio Profilo ideologico del Novecento, in cui dico: «La :Resistenza era diventata ormai un'idea morale, un mito per l'inascere - chi sa - come leggenda popolare (il che poi non è avvenuto). Non era più storia, o meglio era una storia conclusa». Era, questa conclusione, ancora una volta l'espressione di un sofferto contrasto, di cui ho parlato ne Il futuro della democrazia tra gli «ideali» e la «rozza materia». Un contrasto che io considero un po' come il tema dominante delle mie riflessioni sulla storia in genere e sulla vita, anche sulla mia stessa vita. Non ho capito se la tua constatazione di questo contrasto implichi anche una deplorazione. Una deplorazione perché? Senza l'illusione di un rinnovamento radicale, chi avrebbe accettato il rischio mortale di una guerra spietata?
Che la mia amara conclusione susciti in te «un'immagine dubbia» dal punto di vista storiografico è un giudizio che meriterebbe da parte tua un chiarimento. Parlando di storia conclusa intendo proprio dare, invece, un giudizio storico. Voglio proprio dire quello che gli apologeti della Resistenza non dicono. La guerra di liberazione l'hanno combattuta in prevalenza i comunisti ma le elezioni le hanno vinte i democristiani. Sic vos, non vobis. Abbiamo addirittura scoperto (confesso la mia ingenuità, non me ne ero mai accorto) che attraverso le iniziative varie di Edgardo Sogno e attraverso la successiva istituzione di Gladio, era cominciata un' altra guerra civile, se pure latente, non più tra fascisti e antifascisti, ma tra comunisti e democristiani, cioè tra gli antichi alleati nel Comitato di Liberazione. Il che sarebbe una conferma di quello che mi è venuto fatto di dire discutendo il pensiero di Del Noce che, se è vero che l'antifascismo era stato il principio di legittimazione della Repubblica fino al 1948, è altrettanto vero che dopo la strepitosa vittoria democristiana nelle elezioni del 18 aprile 1948 il principio di legittimazione era cambiato. Era diventato l'anticomunismo. Bisogna rendersi conto che una delle ragioni della gravissima crisi che attraversa ora il paese sta nell'essere venuto meno anche questo secondo principio di legittimazione in seguito alla scomparsa del comunismo storico. Probabilmente il ripensamento della Resistenza rispecchia questo disagio che deriva dalla difficoltà che ha la nostra democrazia di sopravvivere non solo in uno stato di convulsione permanente, ma anche priva di una forte legittimazione storica. [00.]
Resta comunque il fatto che che, per quanto si estenda il concetto di Resistenza tanto da comprendervi anche la cosiddetta resistenza passiva, per quanto si rivaluti la cosiddetta «zona grigia», non si può in alcun modo negare che la Resistenza armata, e non quella non armata, se pur si possa usare questa espressione, stia alla base del nuovo Stato. Per ristabilire le condizioni della democrazia in Italia occorreva vincere la guerra contro i tedeschi e i loro alleati italiani. Ma per vincere la guerra occorreva prima di tutto combattere. Senza la vittoria degli alleati, cui diedero il loro contributo di sangue e di sofferenza i partigiani, la «zona grigia» non avrebbe conquistato quella libertà da cui trasse vantaggio anche per il sacrificio dei combattenti. La stessa parola «liberazione» implica un preciso riferimento ai cittadini attivi, e non può essere estesa ai cittadini passivi che non fecero nulla per liberarsi ma attesero, pur in mezzo a mille disagi, che altri li liberassero.

Norberto Bobbio

Caro Bobbio

[00.] La mia ammirazione per gli uomini dell'azionismo coesiste con un giudizio politico più critico, che a te sembra non solo troppo severo ma ingiusto. E usi il termine di «revisionismo» per definire il mio modo di vedere. Lo so (e me lo hai ripetuto più volte) che non intendi dare a «revisionismo» una connota zio ne denigratoria. Ma è inutile negare che nel codice corrente di sinistra è un termine pregiudicato. Come tale filtra con il sospetto ogni discorso che si discosta da quella che si presume essere la visione storica e politica «corretta» di sinistra. Fortunatamente il «revisionismo», di cui parliamo, non si riferisce a temi terribili come quelli del revisionismo tedesco e neppure a problematiche storiografiche attorno al fascismo italiano. Più semplicemente (ma non meno significativamente) riguarda la questione cattolica e democristiana tra il 1943 e il 1948.
A questo proposito, ancora una volta, nella lettera ripeti la frase a te tanto cara, che riassume causticamente l'intera questione: «La guerra di liberazione l'hanno combattuta in prevalenza i comunisti, ma le elfolzioni le hanno vinte i democristiani». E conosci già la mia replica: questa tesi insinua (magari inconsciamente) che ci siano stati degli «abusivi» della democrazia, almeno di quella democrazia come la sognavano azionisti e comunisti. E che gli abusivi siano sostanzialmente i democristiani - o quanto meno il grosso dell' elettorato democristiano. Da qui l'irritazione e «l'esilio interno» di parecchi azionisti come se tutto (o quasi) fosse perduto a pochi mesi dal 25 aprile - mentre stava semplicemente nascendo una democrazia, che non poteva essere misurata soltanto ai criteri del radicalismo democratico. Occorreva fare pazientemente i conti con l'incultura politica della gente, diseducata politicamente dal ventennio fascista e culturalmente socializzata per buona parte attraverso la chiesa. Il ritiro sdegnoso di molti di fronte ad un presunto tradimento della Resistenza - con l'intento quindi di coltivarne !'integrità ideale - è stato un gesto psicologicamente comprensibile ma nel con tempo un errore di politica e di cultura. Vorrei fare questa affermazione senza sicumera, ma con l'ammanco.
Il mio presunto «revisionismo» non sta nel prendere le distanze dalla lettura azionista, comunista o genericamente di sinistra della Resistenza (che notoriamente ha molte versioni, di cui oggi la più seducente è quella di Claudio Pavone), per avvicinarmi alla interpretazione di chi, secondo le tue parole, mira ad emarginare il ruolo della Resistenza armata (comunista e azionista innanzitutto) a favore di una «resistenza passiva» e umanitaria attribuita in toto ai cattolici (con alcune specificazioni). Ancora un passo e saremmo alla trasformazione degli attendisti in veraci resistenti.
Questa non è affatto la mia posizione. Ma mi devi dare atto che per capire le origini della legittimazione della Repubblica occorre scandagliare più in profondità quel continente di atteggiamenti che comprende mille forme di resistenza passiva privata, di solidarismo senza clamore, oltre che il vero e proprio opportunismo dello stare ad aspettare il vincitore. Senza dimenticare chi, intrappolato nella macchina militare, ha rifiutato la collaborazione militare con il nazi-fascismo, pagando con la vita o l'internamento. È il continente da cui ha tratto la sua forza elettorale prevalentemente la DC.
Chiariamo una volta per tutte che non si tratta di ridimensionare il significato determinante e fondante - non solo simbolico della Resistenza armata con in testa i suoi protagonisti comunisti, azionisti e quindi in subordine cattolici, liberali, monarchici ecc. Ma per capire come nasce e si legittima la Repubblica non basta prendere come criterio di giudizio esclusivamente il punto di vista della Resistenza in armi - ammesso che in essa ci fosse un criterio univoco al di là della cacciata dei tedeschi e dei fascisti. Occorre introdurre insomma molti altri fattori, altre ottiche, altri soggetti sociali.
Alla tua domanda diretta - «revisione sì, ma in quale direzione? A che scopo?» - ho una duplice risposta. La prima viene incontro esattamente alla tua preoccupazione per la legittimazione storica di questa nostra Repubblica. Comunque riformata,· essa non può perdere il suo riferimento di legittimità con l'evento che l'ha fatta nascere, che le dà «senso fondante» (preferisco questo concetto a quello più discutibile di «mito»). Ma questo evento non è soltanto la Resistenza in sé (come episodio politico-militare complesso ma circoscritto) bensì anche il suo travaso istituzionale nella «repubblica dei partiti» (qui, sì, sono in sintonia con la ricostruzione storiografica del cattolico Pietro Scoppola).
Il fondamento o, se vogliamo, la pratica legittimante della Repubblica è allora l'apprendistato della democrazia senza aggettivi, da parte di uomini e partiti che nella Resistenza avevano concezioni diversamente aggettivate di democrazia: liberale, borghese, socialista, progressiva, cristiana, proletaria ecc. A questo si collega un secondo aspetto che non è di «revisione» ma piuttosto di «riscoperta»: gli uomini del 1943 -48 avevano un sentimento di reciproca appartenenza nazionale, che oggi abbiamo completamente smarrito. Chiamiamolo patriottismo. Ma «patriottismo costituzionale», cioè riconoscimento che soltanto nella norma costituzionale liberamente accettata e scritta si conferma il comune destino di cittadini riconquistato con la lotta armata (e subordinatamente con la resistenza passiva).
Certo: i contenuti concreti di questo progetto, costituzionale e nazionale ad un tempo, sono oggi cambiati. Ieri i valori propulsivi erano quelli dell' antifascismo storico, oggi sono quelli della ricerca di nuove regole per un nuovo solidarismo nazionale.
Memorie di parte divise ma radici comuni - ecco un altro modo per indicare l'ambito di una «revisione» che vorrebbe riportare alla memoria collettiva un patriottismo costituzionale più forte delle lealtà di parte o degli interessi legittimi. Parole grosse, certo, a confronto della miseria dei tempi. Ma non è questo un altro modo di tenere sveglia l'utopia?

IV.
La «guerra civile europea» e le sue conseguenze per l'idea di nazione e di Europa

1. «Non è vero che le due grandi guerre mondiali siano state determinate da cause economiche. Vero è invece che le due grandi guerre recenti furono guerre civili, anzi guerre di religione. [. .. ] Parvero guerre tra Stati e popoli, ma loro caratteristica fondamentale, quella che le distingue dalla più parte, non da tutte, delle guerre del passato sta in ciò che furono combattute dentro di noi». Così si esprimeva Luigi Einaudi il 29 luglio 1947, in. occasione della ratifica del trattato di pace. L'idea della guerra europea come «guerra civile» e/o di religione era frequente nel discorso eticopolitico, se non nell'analisi storica, dell'immediato dopoguerra!.
Lo stesso concetto era usato da tempo in una accezione più specifica da storici, scienziati politici e studiosi del diritto internazionale. Oggetto della loro riflessione era ed è la «guerra civile mondiale» (Weltbiirgerkrieg), nel significato sviluppato da Cari Schmitt, Roman Schnur e altri, come crisi dello jus publicum europaeum. In proposito scrive Norberto Bobbio:
Tutti gli storici sono concordi nel ritenere che la prima guerra mondiale ne rappresenta la rottura, la seconda la fine. La guerra in discriminata torna a fare la sua apparizione L .. ]; il sovrapporsi di una guerra di liberazione nazionale alla guerra tra Stati in tutti i territori occupati dalle truppe tedesche, cancella ogni differenza (come sa bene chiunque abbia partecipato alla Resistenza) tra nemico interno ed esterno: l' hostis è ridiventato rebellis e quindi può essere annientato. Ormai sulle basi su cui era stato posto, che erano le basi di un diritto paritario e convenzionale, il sistema del diritto pubblico europeo era definitivamente crollato, [00.] quando si riscopre che anche la guerra tra Stati può trasformarsi in guerra civile. Altri studiosi di competenza professionale diversa come Ralf Dahrendorf, François Furet e Bronislaw Geremek soostengono senza esitazione la natura civile delle guerre europe del ventesimo secol04• Ma l'espressione «guerra civile europea» ha acquistato una particolare popolarità nella pubblicistica, se non nella ricerca storica, grazie all'interpretazione datale da Ernst Nolte, che la riserva (almeno in un primo momento) al periodo 1917-19455.
Questi brevi cenni bastano per mostrare come siano possibili visioni diverse di «guerra civile», non solo per l'ampiezza geografica (europea versus mondiale) e l'estensione cronologica (l'inizio della guerra civile viene definito in modo significativamente discordante). Differenti sono soprattutto i modi di concettualizzare fenomeni apparentemente analoghi.
Di conseguenza anche le idee di nazione e di Europa sono coinvolte in maniere assai diverse. L'Europa in particolare non appare come un mero contenitore spaziorale di un lungo conflitto che ha come obiettivo il semplice controllo del suo territorio e delle sue risorse. Dietro al conflitto europeo c'è lo scontro di progetti di ristrutturazione del continente, non solo competitivi sul piano della potenza ma incompatibili su quello culturale. Gli eventi muteranno profondamente gli esiti effettivi di tali progetti a causa della mondializzazione della questione europea.
Non ho dubbi che l'inizio della guerra civile europea debba essere considerato il 1914 e non il 1917. Esso coincide con la rottura del famoso «concerto» o «equilibrio delle potenze», che era molto di più di un meccanismo di forze controbilanciate:era anche una certa idea di Europanazioni e di civiltà europea. In che senso si può dire che la sua rottura innesca - al di là delle intenzioni6 - un processo disgregativo che ha i tratti di una «guerra civile»?
La risposta non è semplice - come vedremo. In fondo Nolte, datando la sua «guerra civile europea» dall'ottobre 1917, dalla rivoluzione bolscevica, sceglie la strada facile di assumere come criterio una «dichiarazione di guerra ideologica». Essa culminerà nel secondo conflitto mondiale con il contrasto mortale tra le grandi ideologie transnazionali fascismo-antifascismo e gli Stati che le incarnano. Originariamente i protagonisti di questa lotta sono i «partiti della guerra civile» (i bolscevichi e i nazionalsocialisti) e soltanto indirettamente gli Stati-nazione in quanto tali, venendo essi coinvolti soltanto tramite la propria lacerazione interna civile-ideologica.
Questo approccio si discosta da quello sostenuto da altri storici che tendono a mantenere per il secolo XX un riferimento centrale dagli Stati-nazione e ai nazionalismi. Su queste posizioni si trovano ad esempio Andreas Hillgruber, come vedremo più avanti, o Rosario Romeo, per il quale il secondo conflitto mondiale rappresenta «l'ultimo e più tragico risultato dei principi e valori nazionali che erano stati al centro della vita europea nei centocinquant' anni seguiti alla Rivoluzione francese ed erano giunti ad un culmine di estrema esaltazione dopo il 1918»7. Questa constatazione non impedisce allo storico italiano di precisare che con il secondo conflitto mondiale si mettono in atto meccanismi di ideologizzazione, politicizzazione e criminalizzazione degli avversari, con una intensità tale da segnare una netta rottura con la precedente tradizione europea.
Come abbiamo anticipato, ciò che Romeo descrive come esasperazione e rottura di una tradizione storica secolare era stato interpretato più radicalmente da Carl Schmitt come la fine dello jus publicum europaeum e quindi la ricomparsa della «guerra civile» (analoga alle guerre di religione). «All'essenza della guerra civile è proprio l'assoggettamento alla giurisdizione del nemico. Ne viene che la guerra civile ha con il diritto un rapporto stretto, specificatamente dialettico. Essa non può essere altro che" giusta", nel senso di convinta delle proprie ragioni, e diviene in tal modo l'archetipo della guerra giusta».
La guerra civile ha la sua ragion d'essere dunque nella convinzione dei protagonisti di essere «nel giusto» e quindi di combattere un nemico che incarna l'ingiustizia e la malvagità (comunque queste vengano connotate). L'atteggiamento giudicatorio, moralizzante, criminalizzante ne è il corollario psicologico. Di conseguenza la guerra civile non può non dispiegarsi ideologicamente e tecnicamente che come come guerra totale.

2. L'inizio della «guerra civile europea» non può essere che il 1914 perché il conflitto che ne segue è contrassegnato da alcune delle caratteristiche appena ricordate. Se è vero infatti che la guerra incomincia come un conflitto apparentemente «convenzionale» tra Stati, da subito si autolegittima con argomenti tipici della guerra «civile/giusta» creando identificazioni collettive di una intensità ideologica sino ad allora inedita. Non si assiste genericamente alla rottura di una supposta e idealizzata «comunità delle nazioni civili» (ironia della sinonimia!) che potrebbe essere vista come latente «comunità europea». No. Lo straordinario coinvolgimento popolare e la mobilitazione del ceto intellettuale europeo, totalmente identificato con la nazione in guerra, trasformano quella del 1914 in una vera e propria guerra culturale, letteralmente in scontro di culture/civiltà, in un Kulturkrieg. Altrettanto radicale del resto sarà il contraccolpo di rigetto da parte di alcune minoranze, seguito poi, poco alla volta, dal distacco e dal ripudio della guerra da parte di consistenti strati popolari orientati verso i partiti radicali di sinistra. In questa ottica il 1914 può davvero considerarsi la «catastrofe originaria», the great seminai catastrophe del XX secolo, come l'ha chiamata George F. Kennan.
Non si toglie nulla al significato epocale della rivoluzione bolscevica se la si mette in stretto subordine alla guerra mondiale già in atto. Il nesso tra il 1914 e il 1917 non è accidentale. Il colpo di Stato bolscevico ha successo perché si mette alla testa di un processo di disgregazione sociale e politica della Russia, innescato dalla sconfitta militare, le cui conseguenze travolgono il fragile sistema politico liberale post-zarista perché l'Europa è interamente assorbita nel conflitto, in un momento di estrema difficoltà strategica e psicologica per tutti i belligeranti.

D'altra parte questa congiuntura consente alla rivoluzione bolscevica di trasformarsi in mito che reinterpreta la guerra in corso tra le nazioni come «guerra tra le classi» a dimensione mondiale. La guerra nazionale viene riformulata come «guerra civile mondiale».
Questa operazione interpretativa è in Europa politicamente minoritaria ma capace di sedurre (o viceversa di provocare selvagge contro reazioni) proprio perché la guerra in corso è già «civile» in un senso diverso, ma non meno sconvolgente: investe in profondità il senso di identità e di appartenenza nazionale di larghi strati di popolazione - come nessuna altra guerra precedente. Uno dei sintomi è l'eccezionale mobilitazione degli intellettuali, che portano all' estremo il processo di criminalizzazione ideologica del nemico con un impegno e una professionalità mai registrati prima (salvo, appunto, che nelle guerre di religione) .

3. Ad illustrazione si consenta di citare soltanto due brani, tolti da due celebri opere del tempo. Il primo riproduce alcuni passaggi di denuncia della guerra tolti da Audessus de la melée (1916) di Romain Rolland.
L'aspetto più impressionante di questa mostruosa epopea, il fatto senza precedenti, è l'unanimità per la guerra in tutti i paesi belligeranti. Su questa mischia di popoli - dalla quale, comunque l'esito volga, l'Europa uscirà mutilata - sembra librarsi un'ironia demoniaca. Non è soltanto la pass-ione di razza a lanciare ciecamente i milioni di uomini gli uni contro gli altri, come formicai, mentre gli stessi paesi neutrali ne risentono il fremito minaccioso; la ragione, la fede, la poesia, la scienza, tutte le forze dello spirito sono anch'esse irregimentate e si mettono in ogni Stato al seguito degli eserciti. Nelle aristocrazie intellettuali di ogni paese non c'è persona la quale non proclami e non sia convinta che la causa della sua nazione è la causa di Dio, la causa della libertà e del progresso umano. [. .. ] Tra i metafisici, i poeti, gli storici vediamo accendersi conflitti a due. Euken contro Bergson, Hauptmann contro Maeterlinck, Rolland contro Hauptmann, Wells contro Shaw, Kipling e D'Annunzio, Dehmel e Régnier cantano inni di guerra. Barrès e Maeterlinck intonano peana di odio. Tra una fuga di Bach e il Deutschland iiber Alles' eseguito all'organo, il filosofo Wundt, vecchio di ottantaquattro anni, chiama con voce rotta gli studenti di Lipsia alla «guerra santa». E tutti si rimbalzano l'un l'altro la qualifica di «barbari». L'Accademia di scienze morali di Parigi, per bocca del suo presidente Bergson, dichiara che «la lotta impegnata contro la Germania è la lotta della civiltà contro la barbarie». La storiografia tedesca, per bocca di Karl Lamprecht, risponde che «la guerra è tra germanesimo e la barbarie» e che «le odierne battaglie sono la logica continuazione di quella che la Germania ha sostenuto attraverso i secoli contro gli unni e i turchi». La scienza, scendendo a sua volta in lizza proclama - per bocca di Perrière, direttore del museo, membro dell' Accademia delle scienze -, che i prussiani non appartengono alla razza ariana ma discendono in linea retta dagli uomini della pietra chiamati allofili.
Sul fronte opposto della militanza intellettuale per la nazione-in-guerra tedesca non c'è forse testo più efficace e suggestivo delle Considerazioni di un impolitico di Thomas Mann (1918), che esplicitamente interpretano la lotta culturale contro il «letterato civile» francese. È l'apogeo della contrapposizione della Kultur alla Zivilisation. Leggiamo:
Illetterato civile non disapprova la guerra quando viene intrapresa a servizio della civilizzazione; segue in questo l'esempio di Voltaire che aborriva la guerra di Federico e invece incitava addirittura alle guerre di civilizzazione (contro i turchi con i quali Federico quasi avrebbe stretto alleanza). E come potrebbe mai il rampollo - per non dire l'epigono - della Rivoluzione condannare in linea di principio che sia sparso sangue per la giusta causa, per la verità e lo spirito? Il «risoluto amore per l'umanità» (1'espressione è dei letterati «civilizzati») non ha paura del sangue; rientrano sia tra i suoi strumenti sia il Verbo letterario che la ghigliottina, così come vi rientrava una volta il rogo. Non è dunque necessario che illetterato sia in linea di principio contrario alla guerra per un estetismo libidinoso alla D'Annunzio. Fa la fronda contro questa guerra perché riconosce in essa una guerra tedesca, un'impresa storica della Germania, un' esplosione della «protesta» tedesca; perché questa guerra ha il marchio tedesco, perché le grandi azioni sono dalla parte della Germania; ma non fa la fronda in quanto vede in essa la guerra civilizzatrice contro la renitenza della barbarie tedesca; in questo senso la considera una guerra giusta per quelli oltre confine. In poche parole, fa la fronda non tanto contro la guerra quanto contro la Germania. L.,] Se l'Intesa avesse conseguito una fulminea splendente vittoria, se il mondo fosse stato liberato dall' «incubo», dalla «protesta» tedesca, e quindi l'impero della civilizzazione, diventato spavaldo per l'assenza di ogni contrasto, fosse stato un fatto compiuto e completo, il risultato sarebbe stata un'Europa un po' buffa, di una piatta umanità, corrotta in forme triviali, un'Europa già un po' troppo «umana», da stampa corsara, da vociferante democrazia, un'Europa con la mentalità del tango e del two step, un'Europa affaristica e gaudente alla Edoardo VII, montecarlesca e letteraria come una cocotte parigina. L .. ] Ma che cos'è poi questo sviluppo, questo progresso? Si tratta della politicizzazione, della letterarizzazione della Germania, della sua intellettualizzazione e radicalizzazione, della sua «umanizzazione» in senso politico e latino e del suo disumanizzarsi nel senso tedesco. Si tratta - tanto per usare la parola - del grido di battaglia e dell'osanna del letterato civile, si tratta della democratizzazione della Germania o meglio, per riassumere il tutto e ridurlo ad un comune denominatore, di sgermanizzare la Germania.
È difficile trovare un testo che meglio testimoni il Kulturkrieg, di cui parliamo. È il tentativo in gran parte riuscito di mobilitare in senso aggressivo le identità nazionali, coagulatesi non senza fatica e resistenza di varia natura, lungo tutto il XIX secolo.
Traiamo una prima conseguenza. La retorica nazionalista si è compiaciuta nel proclamare la trincea del 1914-18 come luogo di nascita della nazione per molti strati sociali rimasti sino ad allora ai margini. Retorica a parte - è difficile contestare questa tesi. Ma non'si può dimenticare che la stessa esperienza di trincea diventerà per molti punto di svolta polemica nei confronti della nazione o quanto meno del nazionalismo. È la premessa della lotta «civile» che segnerà tutti i paesi europei del primo dopoguerra. Così la Grande Guerra segna ad un tempo l'apogeo della nazione Stato e l'avvio della sua delegittimazione, anche se il processo sarà molto lungo e contorto. Come è stato osservato da Ernesto Galli della Loggia, «è nella straordinaria temperie psicologica della guerra del 1914 che si forma quell'intreccio di nichilismo e misticismo, risolutezza e sradicamento, di credulità e cinismo che sarà la comune essenza del tipo fascista, del bolscevico, del nazionalsocialista che daranno scacco alla civiltà liberale»l1 - stravolgendo con essa (aggiungiamo) la realtà e l'idea stessa di nazione e covando in essa i germi della guerra civile.

4. Tutto questo è rimasto come un trauma nelle memorie collettive europee. Il tema della memoria della Grande Guerra ha notoriamente stimolato studi acuti come quelli di Paul Fussell, di Eric Leed e di Modris Eksteinl2 che sanzionano storiograficamente - sia pure con un tipo particolare di ricerca basata sulla documentazione pubblicistica e letteraria - una acquisizione che era da tempo depositata nel ricordo della gente. Su questa strada si era già mosso in Italia Mario Isnenghi13, nei cui lavori ha trovato positivamente spazio anche un: tipo di ricostruzione e di memorizzazione «contro». Controstorie in polemica più o meno diretta con una certa storiografia tradizionale ufficiale.
Si parla anche di «memorie dei vinti». A questo proposito tuttavia è opportuna un'avvertenza. Quando sotto questa rubrica si documentano le forme di resistenza passiva popolare al nazionalismo, può sorgere un margine di ambiguità. Infatti il meritevole lavoro di riscoperta di memorie popolari anticonformiste, non omologabili a quelle entrate nell'apoteosi nazional-fascista, non può ignorare il fatto che si tratta spesso di memorie e di atteggiamenti «perdenti e perduti» in un senso assai più drastico di quello inteso da' una certa loro odierna simpatetica riesumazione. Frequentemente infatti sono memorie di piccoli mondi antichi, contadini, violati dal nazionalismo modernizzante anche perché privi di autentiche alternative. Non sono mancati del resto adattamenti furbeschi e opportunistici, che soltanto in un secondo tempo - dopo la catastrofe - vengono razionalizzati come inganni perpetrati contro di loro.

A scanso di equivoci: In questo non è un giudizio svalutativo, ma la messa in guardia da una rievocazione acritica se non nostalgica di identità premoderne. Recriminando oggi rettrospettivamente, a colpo sicuro, contro il nazionalismo e i suoi disastri, senza riconoscerne la funzione di modernizzazione operata anche attraverso «l'invenzione» della identità nazionale, si dà credito a nuovi etnocentrismi localistici, antinazionali non meno regressivi del nazionalismo che si vuol criticare.
Le «memorie dei vinti» sono oggi risarcite nella loro rilevanza storica e morale soltanto se collocate all'interno di una matura rivisitazione del valore storico costitutivo che la nazione ha avuto nei processi della modernità.

5. Questa breve annotazione sul tema della memoria non è fuori luogo, se torniamo ad uno dei quesiti da cui siamo partiti: la plausibilità o meno del concetto di Nolte di «guerra civile europea». Lo studioso tedesco infatti più esplicitamente di altri si preoccupa del rapporto tra memoria storica, identità nazionale e ricostruzione storiografica. La sua polemica contro «il mito negativo del male assoluto» incarnato da Bitler e dal nazismo e quindi la sua perorazione per un «trattamento giudiziale» corretto del passato tedesco mirano a rimuovere quella che lui ritiene essere una ossessiva autocolpevolizzazione degli incolpevoli tedeschi di oggi. È noto che per Nolte il comportamento criminale di Bitler e dei nazisti va considerato una replica per eccesso al terrore praticato dai bolscevichi - terrore interiorizzato e memorizzato sin negli atti di umiliazione inflitti dai comunisti rivoluzionari tedeschi (nel 1918-19) agli ufficiali rientrati dal fronte. Qui nascerebbe - nella psicologia dei protagonisti - uno dei collegamenti più intimi tra le due guerre mondiali.
La «guerra civile europea» è determinata per Nolte dal rapporto di ostilità tra bolscevichi e nazisti che, al di là dei suoi contenuti ideologico-politici di merito, viene filtrato dai paradigmi cognitivi di Vorbild e Schreckbild. li bolscevismo è modello da imitare e insieme il modello terrorizzante da contrastare da parte dei nazisti. Non intendo qui riaprire il dibattito attorno a questa impostazione, in particolare alla tesi finale del «nesso causale» tra Gulag staliniani e Auschwitz che hanno dato luogo al cosiddetto Historikerstreit14• Mi preme solo ricordare che quella di Nolte più che un'analisi storico-politica è una ricostruzione dei processi di emozione, immaginazione, memoria degli attori storici. Meriti e vizi della sua analisi vanno pertanto collegati al suo approcccio tutto centrato sui processi ideologico-cognitivi.
La prima conseguenza di questa impostazione è che il significato autentico dell' aggettivo «civile», che qualifica la guerra come Birgerkrieg, in Nolte è di fatto quello di «borghese». La guerra è «civile» in quanto dichiarata dai comunisti contro il nemico di classe «borghese» e come tale percepita da quest'ultimo. Birgerkrieg è letteralmente guerra alla borghesia e quindi, per estensione, alla società che essa incarna e interpreta ideologicamente.
In questo senso «civile» sarà anche la guerra di autodifesa aggressiva che la borghesia mette in atto. E si tratta di guerra civile «europea» perché con la rivoluzione russa del 1917 la lotta sociale spietata condotta dai bolscevichi sul proprio territorio si proietta sull'Europa, cominciando dalla Germania. La reazione di difesa aggressiva della borghesia culminerà nel fascismo e soprattutto nel nazionalsocialismo creazione che solo alla fine degli anni trenta diventerà guerra tra Stati nazionali-e-ideologici contrapposti.
A ben vedere, in questa ottica, il concetto noltiano di «guerra civile» non è che il calco del concetto di «guerra di classe» (armata) tipico del comunismo del tempo. Su questa base lo storico tedesco ritiene di fondare il nesso causale diretto tra bolscevismo e nazionalsocialismo - quantomeno nella politica della violenza collettiva e del genocidio.
Al di là della plausibilità specifica di queste tesi, non c'è dubbio che la visione storica noltiana sottovaluta oltre misura il senso della battaglia che le destre tradizionali tedesche hanno condotto contro la democrazia liberale come tale e contro i valori dell'Occidente. Nemico della destra nazionalista e poi del nazionalsocialismo infatti è, in prima istanza, il sistema democratico repubblicano weimariano di cui il marxismo è considerato una sorta di sottoprodotto. Senza parlare dell'antisemitismo, le cui radici nella società tedesca vanno ben più in profondità della reazione provocata dalla improvvisa apparizione di ebrei nel gruppo dirigente rivoluzionario russo. Democrazia e ebraismo sono a pari titolo del bolscevismo i nemici del nazismo. Proprio per la miscela con cui questi elementi si fondono strumentalmente nell'ideologia e nel comportamento nazista, ha poco senso stabilirne una rigida graduatoria (assegnando ad esempio la priorità all'antimarxismo) cosi da dedurne imputazioni precise di causa-effetto.
A dispetto della centralità dello scenario europeo, in Nolte non c'è una specifica problematica dell'Europa. Questa è tutta assorbita nell' ottica della questione tedesca: i problemi specifici delle grandi democrazie europee negli anni venti e trenta rimangono sfocati o visti solo attraverso l'unilateralismo di Versailles. Manca insomma in Nolte un'analisi storica in grado di cogliere davvero la dinamica europea e mondiale, che porta alla seconda guerra mondiale; manca un quadro più complesso di fattori, comprensivo delle grandi tensioni geopolitiche che trascendono la logica di una «guerra civile» ridotta allo scontro bolscevismonazionalsocialismo. Naturalmente anche Nolte parla di «epoca delle guerre mondiali». Ma questa è semplicemente l'ambito entro cui agiscono i «partiti della guerra civile» (comunisti e fascisti) che sono i veri, unici protagonisti della vicenda storica.
In seguito Nolte preciserà che «la storia del XX secolo può essere descritta come l'intreccio di due guerre tra Stati e di una guerra civile mondiale». Anche se generica, questa precisazione vanifica di fatto implicitamente 1'ambizione di fare della «guerra civile europea» (nei termini presentati in Nazionalsocialismo e bolscevismo) la chiave di lettura della prima metà del nostro secolo, se non addirittura della vicenda che arriva sino ai nostri giorni. Ora infatti Nolte scrive che la «guerra civile europea» cessa di fatto soltanto con il tracollo del comunismo sovietico.
Questa incertezza di periodizzazione - solo apparentemente veniale - ci consente un;ultima considerazione. Se, sparito il comunismo, sparisce definitivamente anche la «guerra civile» à la Nolte, allora quest'ultima è una configurazione per così dire caduca e debole rispetto alla concettualizzazione schmittiana. Per Carl Schmitt infatti sono i partiti in quanto tali - a prescindere dal loro colore o radicalismo ideologico - ad essere attori della disgregazione epocale del monopolio della decisione politica statuale. Se la lunga lacerazione europea, iniziata nel 1914, è presentata come un intreccio di «due» conflitti statali a dimensione mondiale e di «una» guerra civile europea, condotta dal Partito comunista e dal Partito nazista, allora quest'ultima per quanto cruciale - non esaurisce il concetto di Weltburrgerkrieg inteso da Carl Schoitt e da altri. Per costoro infatti la «guerra civile mondiale» non è determinata da uno specifico conflitto ideologico, ma ben più drasticamente è la conseguenza e 1'espressione della disgregazione del centro della decisionalità politica, che da monopolio dello Stato diventa risorsa dei più svariati e imprevedibili soggetti soocia1i. Da questo punto di vista, la guerra civile mondiale continua selvaggia e incontrollabile a livello planetario.
Naturalmente non è detto che questa impostazione, che sembra riesumare il bellum omnium contra omnes, sia convincente nelle sue implicazioni teoriche e storico-politiche per la comprensione della situazione attuale. Ma qui ci serve soltanto per ridimensionare la formula noltiana della «guerra civile europea».

6. Comunque rivisitata, la grande guerra europea 1914-1945 e le sue conseguenze hanno colpito al cuore (quantomeno in Germania) l'idea tradizionale di nazione e con
essa una certa idea di Europa delle nazioni. Questa è la tesi di Andreas Hillgruber e della sua ultima opera La distruzione dell'Europa19•
Si tratta di un lavoro centrato sull' analisi dell' autodiistruzione dell'Europa come soggetto politico, che perde il suo ruolo di protagonista della politica mondiale in coincidenza con la dissoluzione del sistema europeo degli Stati nazionali. Fattore scatenante di questo processo dissolutivo, culminante nelle due guerre mondiali, è la «questione tedesca» vista in termini geopolitici tali da farne contemporaneamente baricentro della «questione europea».

L'analisi storica hillgruberiana prende le mosse dal sistema europeo di equilibrio ottocentesco, fondato sul predominio delle «potenze laterali», Inghilterra e Russia, rispetto alle due «potenze centrali», Austria e Prussia, predominio che assegna alla Germania residuale un ruolo di cuscinetto. Questo sistema di contrappesi geopolitici si indebolisce con la creazione dell'impero tedesco di Bismarck. Con esso infatti si crea un nuovo potente «centro» che entra in tensione con le potenze laterali. Questa tensione diventa esplosiva con la politica guglielmina che porta alla guerra del 1914. Ma, visto in prospettiva, questo è solo l'avvio di una dinamica distruttiva che, rimessasi in moto nel 1939, si esaurisce provvisoriamente nel 1945 con gli assestamenti e i compromessi di J alta. È «l'epoca delle guerre mondiali» che vede la mondializzazione dei conflitti di potenza innescati dagli Stati nazionali europei.
Ma «l'ordine nato nel 1945 non è un ineluttabile punto finale». Hillgruber ha fatto questa affermazione in tempi non sospetti, confermandosi uno dei pochissimi storici che non ha mai considerato «chiusa» la storia europea e tedesca con l'ordine di Jalta. Naturalmente non poteva né osava immaginare la dissoluzione dell'Unione sovietica. Ma la tesi della virtuale reversibilità dell'ordine di Jàlta, che fino a non molto tempo fa sembrava una fissazione anacronistica di uno studioso nazional-conservatore, è oggi un'evidenza.
Quale nuova luce getta oggi questa evidenza sulla storia di ieri? Proprio perché Hillgruber è prematuramente scomparso (nel 1989) senza poter rispondere al nostro quesito, le sue tesi meritano attenzione - a dispetto dei suoi limiti - non essendo facili costruzioni post festum.
La rivalutazione della dimensione geopolitica che percorre tutta l'analisi storica hillgruberiana traccia uno schema . di lettura molto plausibile per la vicenda europea di questo secolo, anche se è viziato da due assunti (o opzioni di valore) difficilmente sostenibili: la persistenza dello Statonazione tradizionale e quindi l'attesa ricostituzione di un'Europa delle nazioni su equilibri analoghi a quelli del passato. Sono due difetti che correggono errori di segno opposto assai più diffusi nella letteratura storico-politologica odierna: la dichiarazione di estinzione della nazione tradizionale e l'annuncio di un'Europa politicamente unita in un vuoto geopolitico, soprattutto verso est.
Riprendiamo il filo dell' analisi storica dopo la prima guerra mondiale. Hillgruber ricorda che l'obiettivo primario della Germania degli anni trenta, anche in divisa nazista, era innanzitutto la riconquista della propria autonomia di potenza, negatale a Versailles, anche a costo della rottura dell'ordine internazionale. In questa ottica l'esistenza del bolscevismo e dell'Unione sovietica è soltanto uno dei fattori in campo. O meglio lo «spazio orientale» diventa la preda in un gioco di potenza che deve essere condotta primariamente contro l'occidente democratico. Sono infatti sempre i paesi occidentali che stabiliscono le regole della potenza.
In questo contesto Hillgruber si chiede se c'erano alternative alla politica di potenza tedesca, già per l'età guglielmina20; se l'hitlerismo è stata una prosecuzione estremizzata ma pur sempre «coerente» della politica di potenza tradizionale o invece ne rappresenti una degenerazione qualitativa, addirittura un tradimento della nazione tedesca. Rispondendo a questi interrogativi, Hillgruber non nasconde affatto le linee di continuità tra la versione tradizionale della politica di potenza tedesca e quella nazista e quindi i suoi costi morali. Esse segnano un'intera classe dirigente e ampi strati di popolazione corresponsabili e compromessi con azioni criminali - di cui l'esecuzione dello sterminio degli ebrei è il culmine.
Questa condanna storica tuttavia non pregiudica per Hillgruber il valore ideale della nazione tedesca in quanto tale, il valore della sua integrità territoriale (quindi della sua riunificazione). Non pregiudica l'idea stessa di Statone. L'integrazione europea non sostituisce né la validità dell' appartenenza nazionale né soprattutto una forte coscienza e identità storica nazionale.
Occorre ammettere tuttavia che il tipo di argomentazione che Hillgruber porta per sostenere queste tesi fatica a prendere le distanze da un anacronistico attaccamento ideologico allo Stato nazionale. Questo in parte getta ombra sulla bontà di alcune sue analisi storiche.

7. Su linee d'analisi storica analoga si è mosso Rosario Romeo, anche se le conclusioni cui è arrivato sono di tono molto diverso e di sostanziale «congedo» dalla nazione. Lo storico italiano è stato tra i pochi che in questi anni si sono posti con intensità e continuità l'interrogativo sul destino della nazione in generale e sul destino della nazione tedesca in particolare. Questa sensibilità non può non aver influito sul modo in cui Romeo affronta l'intera tematica della naazione.
A conclusione di un'impegnata analisi storica che contiene anche il bilancio delle conseguenze nefaste del secondo conflitto mondiale; Romeo propone una definizione delle nazioni. Le nazioni - scrive - «sono aggregazioni dotate della coscienza di una propria specifica individualità nettamente delimitata verso l'esterno». «A seconda delle circostanze lo Stato, gli interessi economici, un comune retaggio linguistico o una tradizione culturale comune, almeno a livello dei ceti intellettuali e dirigenti, più di rado la religione, hanno svolto una funzione unificatrice delle minori colllettività locali nei più vasti nessi nazionali».
Come si vede, si tratta di una definizione ampia ed elastica. Al suo interno è mantenuta la distinzione «fra il concetto più politico di nazione prevalente nell'Europa occidentale e quello più culturale e linguistico che è proprio dell'Europa centrorientale». Questo semplice schema analitico consente infinite variazioni, gradazioni e combinazioni dei caratteri concrete delle nazioni storiche.
Detto questo, non si può sottovalutare la forza con cui Romeo critica l' artificiosità della contrapposizione tra un'idea di nazione alla francese (di matrice rousseauiana), basata sul primato della «volontà» e della «coscienza» politica, e un'idea germanica di nazione (di matrice herderiana), che affermerebbe il primato della «natura», del «suolo» e del «sangue».
Questa critica è tanto più significativa in quanto ha di mira uno studioso della statura di Federico Chabod.
Nella cultura italiana del secondo dopoguerra (che rivela su questo terreno una singolare arretratezza) - scrive Romeo - ha avuto molto e immeritata fortuna la contrapposizione tra la dottrina «francese» della nazionalità, fondata sulla libera manifestazione della volontà dei cittadini aderenti ad una determinata collettività politica, e la dottrina «germanica», che sarebbe invece di carattere pesantemente naturalistico e deterministico, con il suo richiamo alla lingua e alla storia comune come elementi nei quali soprattutto si verifica la realtà delle nazionj27.
Questa contrapposizione oscura, tra l'altro, la diversa funzione che le due concezioni hanno svolto storicamente. La prima risponde alla logica di «uno Stato e di una civiltà espansionistica, come quella francese, tendente all'assimilazione di gruppi etnici di origine diversa via via annessi alla sua crescente sfera di potere»; mentre la visione tedesca rispondeva essenzialmente (almeno nella originaria formulazione herderiana) alla preoccupazione di «garantire l'autonomia culturale di collettività prive di una efficace dimensione politica ed esposte dunque al rischio di perdere la propria identità nel contatto con gruppi etnici dotati di maggiore vigore culturale e politico».
In tema di nazione e nazionalità Romeo prende dunque le distanze dal quadro di valore che tradizionalmente metteva in sintonia la cultura liberale italiana con la cultura francese e che portava alla fine ad imputare alla concezione tedesca di nazione la fonte originaria stessa delle degenerazioni naziste. Romeo è insofferente verso quello che ritiene essere un fragile schema teorico di autori altrimenti di grande prestigio (non solo Chabod, ma anche Cròce), da cui è disceso un certo facile conformismo nel condannare la storia nazionale tedesca.
Ma c'è un altro motivo di insofferenza. Romeo è convinto che in Europa il principio della nazionalità sia sostanziale mente unitario al di qua e al di là dal Reno. Il percorso' del concetto di nazione da Herder e Rousseau fino a Mazzini, e oltre, rivela caratteri sostanzialmente unitari - comunque non così diversi da giustificare la contrapposizione di cui si parlava sopra. .
Per oltre un secolo nell'Europa postrivoluzionaria vi sarà posto solo per quegli Stati che potranno darsi una legittimazione in termini di nazionalità: e che essa avesse origine dall'azione unificatrice dello Stato, creatore di una salda comunità di spiriti e tradizioni o che lo Stato attingesse invece unità e consapevolezza di sé da una comunità culturale preesistente, sarà di fatto secondario.
Dal punto di vista storico quindi non ci sono nazionalismi di matrice buona o di matrice cattiva.

Più in generale, Romeo è scettico sulla possibilità di trovare un punto di equilibrio tra individualità nazionale e universalità giusnaturalistica, tra nazionalità e libertà, tra particolare e universale. E quando si persuade (come è stato osservato da Gennaro Sass0) che ' della nazionalità la seconda guerra mondiale aveva costituito innsieme tanto la suprema esaltazione quanto il grande rogo consumatore, l'equilibrio suo con la libertà gli apparve, non tanto inutile, quanto impossibile. E senza forse raggiungere il traguardo estremo della chiarezza e della consapevolezza, dolorosamente, ma con decisione e nettezza, a questa grande «potenza» degli ultimi decenni «disse addio».
Il «congedo» di Romeo dalla nazione è molto sofferto perché, se è indubbio che molti valori positivi (tolleranza, libertà, questione sociale) si fanno avanti a prendere il posto del valore-nazione, la grande costruzione politica entro cui quegli stessi valori dovrebbero organizzarsi - l'Europa tarda a prender forma e sostanza politica. I vecchi Stati nazionali europei appaiono «in larga misura ridotti a fossili privi di vero contenuto morale e politico»3!, ma quando si deve porre mano alla concreta realizzazione del progetto europeo «le organizzazioni tradizionali politiche e nazionali riassumono le loro funzioni e non v' è nessun serio discorso che si possa fare ai governi, soprattutto della Francia e dell'Inghilterra, che li induca a rinunciare alle loro prerogative».
Insomma in tema di unione politica europea, che prenda il posto delle nazioni storiche, il quadro che Romeo ci lascia (anche lui, per altro, prematuramente scomparso qualche anno prima del cruciale 1989) è quello di un'impresa largamente incompiuta e inferiore alle aspettative. La lunga
lacerazione europea, la sua lunga «guerra civile» non ha ancora trovato il suo atteso positivo compimento.

8. Si obietterà che in queste considerazioni sono totalmente ignorati il movimento fèderalista che, nelle sue diverse forme e fasi, ha avuto in Italia sin dalla prima ora e lungo l'intero arco del secolo straordinari rappresentanti - da Luigi Einaudi ad Altiero Spinelli. Non si tratta di trascurare i loro generosi sforzi teorici e pratici, ma di prendere atto con rammarico - della sproporzione tra il loro impegno e i risultati raggiunti. Per quanto riguarda Spinelli poi, non si può ignorare che la sua influenza sulla costruzione dell'Europa politica è stata tanto decisiva quanto sistematicamente rifunzionalizzata a traguardi che non erano esattamente i suo!.
Siamo così riportati alla problematica dell'Europa già affrontata nel secondo capitolo.
Ci manca una annotazione sull' altra Europa, quella orientale, postcomunista, del dopo-ottantanove. Qui in molte aree la riconquista della democrazia, o quanto meno delle sue premesse, a conclusione della «guerra civile europea» sembra coincidere con la rinascita di nazionalismi se non di «tribalismi» etnici. E come se il grande ciclo conflittuale secolare ci riportasse di nuovo al dato di partenza: ancora alla etnonazione, al suo potenziale negativo. Si tratta di una patologia tipica di queste regioni o di un problema di cui l'Europa occidentale è in qualche modo corresponsabile? È bene ricordare quanto scrive lo storico polacco Geremek:
Se si osserva il modo in cui all'inizio del secolo veniva decisa la sorte delle piccole nazioni europee - penso ad esempio al caso ungherese - non si può non rendersi conto che è l'Europa tutta ad essere colpevole di questa situazione. Nei paesi postcomunisti il sentimento nazionale era la risposta più naturale, più semplice, al regime totalitario. Non bisognerebbe perciò vedere nella caduta del comunismo l'origine del male nazionalista. Quando un impero sparisce si pone sempre il problema della successione. Questo problema non ha ancora trovato una soluzione adeguata. Ma voglio soprattutto sottolineare che nel misconoscimento del fenomeno nazionale io vedo una debolezza del processo di integrazione europea. Non si può integrare l'Europa contro le identità nazionaliJ4•
In altre parole, proprio assumendo quale periodizzazione decisiva del secolo ventesimo l'arco 1914-1989, cioè il ciclo della «guerra civile», la sua conclusione nel nome dell'Europa unita prevede anche la ridefinizione delle nazioni e del loro ruolo nell'incontro di due percorsi: il lento ma progressivo avanzamento dell' architettura politico- istituzionale occidentale e la improvvisa ma non meno innovativa riscoperta dei paesi orientali post-comunisti di essere parte delle «nazioni d'Europa».

Non si può integrare l'Europa contro le identità nazionali.


v.

Dal «patriottismo costituzionale» al risveglio etnico-nazionale. Un dibattito aperto
Il concetto di patriottismo della Costituzione

1. «Il primo serio tentativo nel dopoguerra di riaprire e portare avanti espressamente in Germania una discussione sul termine di "patriottismo" è di Dolf Sternberger. La questione è ben concettualizzata e in modo così pregnante che la risposta è già contenuta nel titolo: patriottismo della Costituzione». Così si è espresso il presidente della Repubblica federale tedesca, Richard von Weizsacker il6 novembre 1987, in occasione del Colloquio ad Heidelberg per l'ottantesimo compleanno di Dolf Sternberger. E proseguiva:

Patriottismo non è un concetto del nostro tempo. È un concetto vecchio che ha dovuto incassare colpi pesanti. Ma le questioni cui si riferisce il patriottismo non sono scomparse. Lo testimoniano bisogni elementari, interrogativi aperti e controversie appassionate. Il dibattito viene condotto spesso sotto altro nome: la questione tedesca, il rapporto tra Stato e nazione, l'identità dei tedeschi, l' Historikerstreit1.

È sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» del 16 settembre 1959 che Sternberger riapre il discorso sul tema «patria» con esplicito riferimento al repubblicanesimo francese. Trasposto alla situazione tedesca di allora tiene a precisare che:

Qui non si parla di province perdute, del paese diviso e sotto la dittatura (la Repubblica democratica tedesca), della incompletezza del territorio. Non della geografia né di altri doni o difetti o pretese della natura. Neppure dell'opportunismo o della leggerezza del detto latino ubi bene ibi patria. La patria è la Costituzione, che noi rendiamo vitale. La patria è la libertà di cui noi godiamo veramente quando la promoviamo, la pratichiamo, la difendiamo. Sarebbe per noi una vera liberazione, se potessimo usare la parola con serietà e senza paura. La parola patria è stata pronunciata. È un inizio.

Questo approccio non tiene conto del fatto che Verfassungspatriotismus può considerarsi una variante del Vertragspatriotismus, del «patriottismo del patto» sociale e politico, già presente nelle discussioni degli anni venti e trenta. In un periodo cioè nel quale si discuteva di patria e nazione nell' area liberaI-democratica nel tentativo di salvare questi concetti dall'irrazionalismo fidestico fascista e dal razzismo vOlkisch. Oggi quella letteratura ci appare uno strano miscuglio di tesi irrimediabilmente datate e frammenti di una seria riflessione interrotta. Tra questi c'è già la vera o presunta antinomia tra nazione come dato etnicooculturale e nazione come «contratto di cittadinanza». Da qui il concetto di «patriottismo del patto» costituzionale'.
Torniamo a Sternberger chè riprende il concetto di Verfassungspatriotismus (ancora sulla «Frankfurter Allgeemeine» il 23 maggio 1979) in occasione del trentesimo anniversario del Grundgesetz, della Legge fondamentale che per i tedeschi equivale alla Costituzione, alla Verfassung. Solo questa ha consentito alla Repubblica federale di diventare una democrazia funzionante, con alternanze di governo. Le stesse trattative tra lavoro e capitale sono diventati momenti costitutivi della vita democratica, mentre l'autonomia stessa delle controparti entra a far parte della nuova qualità dello Stato. Il Grundgesetz si è rivelato un insieme di prescrizioni vitali al punto da attivare un secondo patriottismo fondato sulla Costituzione. «Il sentimento nazionale continua ad essere ferito: non viviamo ancora in una Germania unita e completa/compiuta. Ma viviamo in una Costituzione compiuta, in un Stato costituzionale compiuto e questo è un modo di essere patria».

Di nuovo Verfassungspatriotismus è il titolo proogrammatico di un intervento apparso sullo stesso giornale il 31 agosto 1982. In esso Sternberger mette a fuoco e giustifica la separazione del concetto di patriottismo dal riferimento tradizionale alla nazione. I tedeschi hanno un acuto problema di identificazione nazionale dopo tante esperienze storiche negative: dall'uso politico di destra del lessico patriottico nella Repubblica di Weimar alla sua distorsione nel periodo hitleriano e quindi dopo la guerra alla divisione del popolo tedesco (in quanto Statsvolk) in due Stati ostili. La stretta associazione del concetto di patriottismo con quello di nazionalismo quale si è sviluppato nel XIX e XX secolo ha fatto dimenticare che nelle sue origini moderne il patriottismo ha che fare piuttosto con lo Stato e la Costituzione. «Il patriottismo è più antico del nazionalismo. Il patriottismo è più antico dell'intera organizzazione nazional-statuale europea».
Per illustrare i contenuti politico-costituzionali del concetto di patriottismo, in particolare il suo stretto rapporto con i valori della libertà, si attinge solitamente alla letteratuura e storiografia del periodo della rivoluzione francese. Ma Sternberger si rifà alla tradizione tedesca e cita un giovane scrittore del XVIII secolo, Thomas Abbt, che collega l'idea di patria a quella di libertà e di leggi liberamente assunte.
Detto questo, Sternberger tuttavia è subito preoccupato di prendere le distanze da quello che lui ritiene l'abuso del concetto di democrazia «di base», della «democrazia delle dimostrazioni» di strada. Si tratta di forme che si contrappongono di fatto alla legalità costituzionale, alle leggi stabilite dagli organi istituzionali. E non si esclude il caso che gli stessi «patrioti costituzionali» scendano sulla strada a contrastare i «democratici delle dimostrazioni di strada».
Sternberger si preoccupa di contrapporre alla democrazia come affermazione di principio astratta la Costituzione come garanzia concreta della democrazia. Anzi: «democrazia» e «oligarchia» si scontrano e si confrontano all'interno della stessa Costituzione. «La democrazia è un elemento della Costituzione [. .. ], è innanzitutto nelle elezioni che si attualizza l'elemento costituzionale democratico»6. Di fatto però la dinamica elettorale dipende strettamente dai meccanismi di influenza e dalle oligarchie di partito. Quello che per molti è un difetto di democrazia, appare in luce diversa se si assume l'ottica di una Costituzione intesa come gioco e contrappeso tra democrazia e oligarchia - con beneficio della libertà di tutti.
Lo Stato costituzionale con il complesso dei suoi organi di governo, i partiti, i gruppi di interessi, i Sistemi di informazione ecc. è una costruzione complicata. Può creare lealtà, suscitare sensi di appartenenza? Può produrre patriottismo?
Secondo Sternberger ci sono almeno due esempi di patriottismo prodotto dalla Costituzione: la Svizzera e gli Stati Uniti. Sono due esempi molto diversi eppure assimilabili dal fatto che i paesi citati non sono una nazione in senso tradizionale eppure generano un senso di identificazione patriottica.
Il concetto di Verjassungspatriotismus trova un'inattesa risonanza nel contesto dello HistorikerstreiF del 1986-87 grazie soprattutto alla versione che ne dà Jirgen Habermas - come vedremo.
Sternberger ne prende le distanze (in occasione del Colloquio di Heidelberg su ricordato), precisando che il suo concetto di patriottismo della Costituzione non intendeva offrire «un surrogato del patriottismo nazionale» inteso in senso tradizionale. Intendeva piuttosto ricordare che esso era originariamente. riferito alla costituzione dello Stato.
Anche se questa puntualizzazione di Sternberger è legittima, non si può ignorare che il suo concetto di patriottismo ignora di fatto ogni processo di identificazione nazionale che faccia riferimento a dimensioni etno-culturali.
Il suo sforzo di «de-nazionalizzare» il patriottismo non ha certo alcun carattere di surrogato del nazionalismo, rischia tuttavia la stessa astrattezza che viene imputata ad I-tabermas.
Sternberger affronta filosoficamente questa problematica anche nel saggio Die neue Politie. Vorschlà"ge zu einer Revision der Lehre vom Verjassungsstaat del 19858, dove viene contestata l'equivalenza tra democrazia e Stato costituzionale trattata alla stregua di una convenzione linguistica. La nuova Politie, ovvero la nuova idea di Stato costituzionale è una «mescolanza di democrazia e oligarchia, uno stretto collegamento e dipendenza reciproca di una classe politica e di una cittadinanza generale, particolarmente in forma di partiti politici ed elettorato»9.

2. Il concetto di patriottismo della Costituzione è rilanciato in un quadro valoriale completamente diverso da Jirgen Habermas innescando il dibattito tra gli storici (sulla «Die Zeit», 8 luglio 1986), attorno alla «unicità» dell'Olocausto e quindi al suo valore di cesura della storia e della identità nazionale tedesca. «L'unico patriottismo che non ci estranea dall' occidente - scrive - è un patriottismo della Costituzione. Purtroppo una convinta adesione ai principi universalistici della Costituzione si è potuta formare nella Kulturnation dei tedeschi soltanto dopo e attraverso Auschwitz».
Notiamo i tre punti-chiave dell' argomento habermasiano: la Costituzione come legame all'Occidente, il concetto positivo di Kulturnation e quindi l'evento-Auschwitz come cesura decisiva per la coscienza tedesca contemporanea.
Questi elementi ricompaiono declinati in modo un po' diverso in un successivo articolo (sempre sulla «Die Zeit», 30 marzo 1990) nel bel mezzo del frettoloso processo di riunificazione. Ora l'obiettivo di Habermas è che si arrivi alla unificazione della nazione attraverso un «discorso pubblico» in forma di Costituente, che eviti le scorciatoie «annessionistiche». In questo contesto il «patriottismo della costituzione» è strettamente legato all'idea di «nazione di cittadini» (Statbi.rgerschaft) contrapposta non soltanto allo Stato-nazione (fomentatore di nazionalismo) ma anche alla Kulturnation, tanto cara alla sinistra tedesca.
Per difendersi da quella che gli appare una insidiosa versione neonazionalistica del concetto di «nazionera», Habermas si infila in una serie di incongruenze che alla fine viziano il suo ragionamento. Per cominciare, nel momento in cui dà per acquisita la fine dello Stato nazionale, quantomeno nella versione tedesca tradizionale, conferma (senza motivazioni specifiche) la bontà del «tipo normale occidentale di identità nazionale». Ma allora non si capisce la contrapposizione di principio tra la cittadinanza politica e/o costituzionale e i «dati prepolitici» della nazione intesa come comunità di storia, cultura e destino. La preoccupazione di Habermas di prendere le distanze dallo specifico nazionalismo tedesco lo porta a trascurare che il cosiddetto «tipo occidentale normale di identità nazionale» (francese? inglese? americano? Sono molto diversi tra loro!) è basato su una sintesi di criteri universalistici di cittadinanza e «dati prepolitici» o «forme vitali» etnico-culturali.
Si delinea così una incertezza teorica di fondo nel ragionamento habermasiano, sempre sensibile alle forme della
Lebenswelt sociale. Non si capisce infatti perché la nazionalità o. il senso di appartenenza nazionale siano declassati a fatto etnico-culturale prepolitico o non vengano invece considerati una «forma vitale» a pieno titolo come le altre - se non più rilevantP2.
Come vedremo questa incertezza sarà in parte superata - almeno terminologicamente. Intanto - se volessimo confrontarci seriamente con i concetti habermasiani enunciati sin qui - dovremmo dire che la «cittadinanza costituzionale» non vive di negazione ma di tensione con i dati etnico-culturali. La nazione partecipa al «mondo della vita», è luogo storico di comunicazione e solidarismo spontaneo - per quanto esso sia deformabile e manipolabile. Il lavoro critico di correzione e auto correzione di queste deformazioni - affidato al «discorso» universalistico deemocratico dei cittadini - non può ignorare o negare le matrici storiche e materiali da cui quel discorso prende letteralmente le sue parole. È il suo ambiente e contesto comunicativo.
La nazione-dei-cittadini si articola dentro, non fuori o contro la nazione-cultura. Solo così, del resto, diventa plausibile l'accostamento del concetto formale-giuridico di Coostituzione alle parole tradizionali di «patria» e «patriottismo» cariche di pathos collegato ad un «mondo vitale» obsoleto (per Habermas).
In un Verjassungspatriotismus correttamente inteso invece - il solidarismo della cittadinanza non è più soltanto l'esito di uno «scambio di ragioni e di reciproci interessi», ma anche il risultato del riconoscimento di una comune appartenenza di cultura e storia, per quanto gravosa e carica di ambiguità da depurare criticamente.
Habermas amplia la sua tematica in un saggio tempestivamente tradotto in italiano su «MicroMega» con .il titolo Cittadinanza e identità nazionale. Al centro sta sempre il «conflitto tra i principi universalistici dello Stato democratico di diritto e le pretese particolaristiche per l'integrità di forme di vita vigenti»13. La nazione è dunque riconosciuta come una di queste «forme di vita» etnico-prepolitiche (vOlkisch) che tuttavia ostacola l'universalismo democratico. Il punto forte del ragionamento habermasiano vuol essere la disgiunzione concettuale tra cittadinanza democratica e la «forma di vita» storica che chiamiamo sinteticamente «nazione». Introduce concetti nuovi suggeriti da Rainer M. Lepsius e dalla problematica del Liberal-Communitarian Debate in corso da tempo nel mondo di lingua inglese.
Il filosofo francofortese descrive in poche proposizioni come il significato di «nazione» si trasformi con la rivoluzione francese e nel corso del XIX secolo da grandezza prepolitica a contrassegno costitutivo dell'identità politica dei cittadini di una collettività democratica. La nazionecittadini (Staatsburgernation) non ha la propria identità in comunanze etnico-culturali ma nell' esercizio dei diritti democratici di comunicazione e partecipazione politica. La citazione d'obbligo è quella di Ernest Renan: «l'esistenza di una nazione è un plebiscito di tutti i giorni». In realtà Habermas fa eco ad una lettura convenzionale del celebre passaggio renaniano; che è assai più sofisticato di quanto non ammetta chi lo usa solo in chiave politico-universalistica, perché - come vedremo - valorizza i dati etno-culturali.
Habermas prende atto dei processi che hanno storicamente portato da indicatori ascrittivi dell' origine (una sorta di etno-nazionalità) al nazionalismo politico; registra quindi la complementarità tra nazionalismo e repubblicanesimo. Ma la sua preoccupazione è vedere in questa complementarità non un «nesso concettuale» ma soltanto un rapporto sociopsicologico. «Lo Stato nazionale solo transitoriamente aveva fondato uno stretto nesso tra ethnos e demos. Concettualmente parlando, la cittadinanza era da sempre indipendente dall'identità nazionale».
Habermas separa dunque drasticamente il concetto di cittadinanza dal suo contesto genetico (che pure è colto nella idealizzata esperienza francese-illuministica). Questa operazione, astrattamente corretta, diventa molto dubbia nell'ottica del nostro problema. Ciò che interessa, infatti, nOn è l'astrazione del concetto di cittadinanza dalle sue condizioni e scorie storiche, ma la constatazione che oggi, in tutti i paesi del mondo, si diventa «cittadini» dentro e attraverso una storia e una cultura nazionali. Ciò che è importante non è congedarsene ma trovare con esse un rapporto critico positivo.
E questo rapporto varia da nazione a nazione, da storia a storia. Si badi: non si tratta di contrapporre nazionalità a cittadinanza ma di rendere concreta (nel senso di lebenssweltlich) la definizione stessa di cittadinanza.
Habermas considera la condizione giuridica del cittadino costituita da reti di rapporti egualitari basati sul reciproco riconoscimento. Per essa vale pertanto il principio comunicativo generale per cui ciascuno assume (dovrebbe assumere) la prospettiva del partecipante nella prima persona plurale e non invece la prospettiva di un attore o di un osservatore, preoccupati del proprio successo. Siamo davanti all'assunto normativo che prescrive la partecipazione paritetica al discorso e quindi alla interazione solidale dei cittadini. Bene. Ma ciò che questo approccio normativo non dice è perché mai i cittadini dovrebbero essere solidali. O meglio: Habermas dispone soltanto di ragioni universalistiche. Non ha argomenti che facciano riferimento ad una storia e origine comune - comunque rivisitate. È una perdita secca in termini di quella pedagogia civica, che pure è implicita quando parla di un «background consonante» allo status di cittadino, fatto di motivazioni e sentimenti, orientato al bene comune. È necessaria cioè una «abitudine» alla libertà politica e alla «prospettiva del noi». È a questo proposito che i «comunitaristi» insistono che il cittadino debba identificarsi «patriotticamente» con la propria «forma di vita» ovvero debba riappropriarsi consapevolmente delle tradizioni della sua comunità etnico-culturale. «Patriotism - scrive Charles Taylor - is a common identification with a historical community founded on certain values». Va da sé che il nucleo centrale di questi valori è la libertà.
Di fronte a questa impostazione Habermas, che ha sempre respinto formule analoghe avanzate da studiosi tedeschi, contrapponendo ad un inguaribile etnonazionalismo tedesco un presunto «tipo normale occidentale di identità nazionale», è costretto a modificare la sua posizione. Dichiara la necessità di dare ai principi universalistici un «qualche ancoramento politico-culturale», di stabilire un rapporto con «le motivazioni e i sentimenti dei cittadini». Per altro, ha di mira gli Usa e la Svizzera come esempi di società dove la cultura politica liberale costituisce semplicemente il «comune denominatore di un patriottismo costituzionale» che garantisce la molteplicità e la integrità di forme di vita differenti e coesistenti in una società multiculturale. Per analogia in Europa la riappropriazione della tradizione nazionale deve avvenire in una quadro costituzionale sopranazionale. In ogni caso «la cittadinanza democratica non ha bisogno di essere radicata nell'identità nazionale di un popolo, a prescindere dalla molteplicità delle diverse forme di vita culturali, essa richiede invece la socializzazione di tutti i cittadini entro una comune cultura politica».
In realtà non si capisce come si possa concepire una socializzazione della «cultura politica» dei cittadini senza che essa sia motivata e radicata nella tradizione e nella identità nazionale. Si ha il sospetto che la controversia si stia facendo nominalistica. Che cosa è la famosalfamigerata «comunità di destino», se non un modo di riproporre delle «abitudini e consuetudini»? Perché non ricuperare il concetto di ethos?.
Ma non è questa la prospettiva e quindi l'itinerario di Habermas. Si accontenta di ricorrere alla consueta coppia concettuale di integrazione sistemica (tramite potere amministrativo e denaro) e integrazione sociale (tramite valori, norme e intesa), di cui è ora dichiarata parte importante anche l'integrazione politica tramite la cittadinanza democratica. A ciò aggiunge il rilievo polemico che l'integrazione europea si sta sviluppando esclusivamente lungo la dimensione sistemica (mercati, moneta, regolamentazioni amministrative), mentre «la sfera pubblica politica» (luogo d'esercizio della cittadinanza) rimane sempre racchiusa nei confini dello Stato nazionale. Poiché il ruolo di cittadino è stato sinora istituzionalizzato soltanto nei termini dello Stato nazionale, i cittadini non sono in grado di mettere a fuoco in modo operativo e quindi di incidere effettivamente sulle decisioni presentate come europee. È minato lo status stesso di cittadino europeo. Di fronte alla autonomizzazione dei sistemi dell'economia e dell'amministrazione, che fanno saltare il modello di una comunità democratica che si autodetermina, nulla può la «comunità di destino, etnicamente omogenea, tenuta insieme da tradizioni comuni».
Se le cose stanno così, il ricupero della autonomia del cittadino deve, secondo Habermas, percorrere una strada completamente diversa - più astratta e razionale. È il «modello fondato su deliberazioni. Non si tratta più del macrosoggetto di un tutto comunitario, ma di discorsi concatenati in modo anonimo. Tale modello attribuisce alle procedure' democratiche e alla infrastruttura di una sfera pubblica politica, alimentata da fonti spontanee, l'onere principale delle aspettative normative»17.
Il linguaggio habermasiano si fa esoterico e contorto.
Esso vorrebbe fissare l'interazione tra volontà politiche istituzionalizzate e situazioni comunicative informali, esonerate dal dover esprimere meri interessi prepolitici. In questo modo si configurerebbe lentamente (sulla falsariga della istituzionalizzazione dei diritti civili all'interno dello Stato nazionale) una cittadinanza europea. Una cittadinanza comunque militante, agganciata a movimenti già presenti nazionalmente, che affrontano temi di rilevanza per «il mondo della vita» (movimenti ecologisti, pacifisti, femministi). L'obiettivo è quello di creare «situazioni comunicative» nell'ambito delle opinioni pubbliche europee, in grado di influire sugli organismi parlamentari in particolare su quello europeo.
Rimane il fatto che le opinioni pubbliche europee sono a tutt'oggi chiuse in dimensioni nazionali. Habermas raccomanda che si crei una comune cultura politica differenziata rispetto alle tradizioni nazionali. Ma quello che appare una sfida civica e culturale di urgente rilevanza, su cui esercitare lo sforzo intellettuale, per dare corpo al nuovo «patriottismo costituzionale europeo», non va oltre la soglia della perorazione.

Diversamente da quello americano, un patriottismo costituzionale europeo deve riuscire a far sviluppare, dalle diverse interpretazioni impregnate da diverse storie nazionali, i medesimi principi giuridici universalistici. La Svizzera è a questo proposito esemplare per il fatto che una tale comune autoconsapevolezza politico-culturale può differenziarsi dagli orientamenti culturali delle diverse nazionalità.

3. Anche il problema dei profughi e degli immigrati mette in luce la tensione latente tra cittadinanza e identità nazionale. L'idea normativa di una cittadinanza disgiunta dall'identità nazionale si oppone ad ogni politica restrittiva o dilatoria nella concessione dell' asilo e della naturalizzazione. Ciò non toglie che esista un problema di rapporto tra i «doveri speciali» legati alla nazionalità come forma estesa di «contiguità» e gli «obblighi universali».
Questo problema può essere teoricamente impostato da vari punti di vista. Il primo è dato dalla prospettiva della vicendevole utilità che i membri di una collettività traggono gli uni dagli altri. In questa ottica gli stessi Stati appaiono come mutual benefit societies. li limite di questa impostazione è l'impossibilità di fondare la reciprocità nei confronti di chi non è in grado di offrire prestazioni (disabili, ammalati, vecchi). La politica di accoglienza degli immigrati che si ispira a questo modello è strettamente dipendente dalla utilità economica da essi offerta o quantomeno dall' attesa che non sovraccarichino l'equilibrio socio-economico esistente.
Una seconda prospettiva è offerta dal modello della «divisione morale del lavoro, organizzata a livello centrale», per cui i confini sociali di una comunità di diritto hanno soltanto la funzione di regolare la condivisione delle responsabilità. Ma delegando ai governi la regolazione di queste corresponsabilità, non sappiamo ancora nulla sulla natura dei doveri connessi.
Assai più impegnativo infine è il punto di vista morale che ci obbliga a metterci dalla parte dell'immigrato o del rifugiato che è alla ricerca non solo di un asilo politico ma anche di una vita libera e dignitosa. Non potremmo escludere di considerare il diritto di emigrare una libertà fondamentale esattamente come il diritto alla libertà di religione. Ma si potrebbero considerare anche legittime le restrizioni di tale diritto per evitare conflitti sociali che compromettono l'ordine pubblico o la riproduzione economica della società.
Ma i comunitaristi fanno un passo in più. Per essi i confini sociali di una collettività politica non sono dati soltanto dalla logica funzionale della divisione morale del lavoro ma anche dal senso di appartenenza a destini comuni e a forme di vita costitutive dell'identità stessa. Secondo Habermas questo concetto comunitaristico di cittadinanza non è più adeguato alle relazioni di società complesse ma contiene una componente etica che non può essere eliminata. Essa è in qualche modo conservata attraverso il concetto di Lebensform in quanto contesto politico-culturale, in cui devono essere implementati i fondamenti costituzionali
universalistici. Ritorna l'idea di «abitudine alla Iibcnà» chc sola può mantenere in vita le istituzioni della libertà stessa. Da qui si può dedurre ad esempio (secondo Michacl Walzer) il diritto di una collettività politica a mantenere l'integrità della propria forma di vita. Ovvero la richiesta all'immigrato di comportarsi in quanto cittadino di una particolare comunità politica.
Habermas è disposto ad accettare questa impostazione purché non contraddica la logica universalistica dei fondamenti della Costituzione e quindi non imponga una particolare e privilegiata forma di vita culturale. «Nell'ambito della Costituzione di uno Stato democratico di diritto possono coesistere, con pari diritti, molteplici forme di vita. Queste in ogni caso devono sovrapporsi in una comune cultura politica che a sua volta è aperta agli stimoli di nuove forme di vita».
Di nuovo l'idea di nazione da dato «prepolitico» sembra avanzare a «forma di vita». Ma questa promozione di status teorico avviene in Habermas con riluttanza. È difficile immaginare quali argomenti e ragioni il Diskurs habermasiano avanzi a favore della nazione. Soprattutto davanti all'ostinazione con cui il nostro autore nega la natura «concettuale» del rapporto storico tra repubblicanesimo e nazionalismo che è la matrice del nesso tra cittadinanza e identità nazionaale. Alla fine il riferimento nazionale rimane sempre invischiato in datità psicologico-culturale inadeguate, anzi frenanti ogni progetto emancipativo.
Quando sono in gioco i valori del solidarismo e del civismo gli unici argomenti che contano sono quelli universalistici e costituzionali. Questa posizione ritorna esplicitamente nel contesto di un duro intervento polemico su «Die Zeit» intitolato La seconda menzogna vitale della Repubblica: siamo diventati di nuovo «normali». L'argomentazione (che prende spunto dalle polemiche sul diritto d'asilo in Germania) è tutta orientata alla critica di una presunta ritrovata «normalità» della Germania unificata che riporta in auge, aggiornati, molti tratti della cultura del nazionalismo tedesco (nazionalismo del marco, primato della politica estera, Realpolitik nel senso di Treitschke). Soltanto la protesta democratica di base, di sinistra e «liberale», è in grado di mobilitarsi contro questa involuzione, in continuità con la migliore tradizione della «vecchia» Reepubblica federale. È la lotta per la Zivilisierung della nuova Germania unita che compensi la mancata «rifondazione reepubblicana» e il «dibattito costituzionale» del nuovo Stato. Pensando alla ripresa socio-economica delle regioni ex comuniste e alloro adeguamento alle condizioni occidentali, Habermas contrappone il solidarismo basato sulla Costituzione a quello motivato da una «comune appartenenza» nazionale. «Dna realistica prospettiva di adeguamento dei rapporti di vita è molto meno sicura nei sentimenti di una comune appartenenza che non nella coscienza repubblicana di un imperativo costituzionale apertamente discusso nelle sue conseguenze»20.

4. Rainer M. Lepsius ha ripreso in modo stimolante i concetti di ethnos e demos, già a suo tempo proposti da Emerich K. Francis, collegati all'idea di gedachte Ordnung (letteralmente: ordinamento pensato) riferito alla nazione, intesa appunto come «una rappresentazione culturalmente definita, che determina come unità una collettività di uomiini». Questa rappresentazione, superando ogni concezione «sostanzialista» di nazione, offre una vasta gamma di criteri (etnici, culturali, politici) per definirsi e determinare così in modo differenziato i vincoli di solidarietà che impone. La nazione si presenta quindi non come un ordinamento naturale e univoco della vita sociale ma mutevole nel tempo e adattabile alle costellazioni del potere reale di volta in volta storicamente dominante.
Su questa base il sociologo tedesco riprende ancora una volta il tema «nazione e nazionalismo in Germania», rideclinando i concetti tradizionali. Così la classica Volksnation si ritrova nella forma contemporanea della etnonazione. È il principio che ha legittimato la dissoluzione dei grandi imperi austro-ungarico e turco, creando per altro una area eterogenea e caotica dal punto di vista etnico. «Il popolo è inteso come una entità prepolitica, che sussume i singoli sotto la sua equivalenza di indicatori. La nazione non nasce come un'unità solidale di cittadini, politicamente concepita, ma appare come una entità prepolitica di rango superiore rispetto all'individuo. La etnonazione è indifferente alla costituzione».
Essa assume anche la forma di democrazia plebiscitariocarismatica, una formula che ha chances crescenti nella misura in cui riesce a convincere che essa serve gli interessi del popolo. Di conseguenza gli oppositori sono dichiarati «antinazionali». I conflitti interni (politici e sociali) sono rifunzionalizzati in conflitti di lealtà nazionale. La discriminazione razziale è l'espressione estrema di questa disposizione. Il restringimento razzista del concetto di popolo è tanto più necessario e inevitabile quanto è meno visibile il divario di civiltà tra i popoli coinvolti. La Germania ne ha offerto l'esempio più impressionante.
Nella tradizione tedesca c'era anche !'idea di Kulturnation con una funzione compensativa e sostitutiva sia dello Stato territoriale che della Statsnation. «Nella sua intenzione Fluesta concezione era "transpolitica" cioè accettava la non realizzabilità di uno Stato nazionale generale e cercava di creare una identità nazionale attraverso l'uguaglianza culturale in presenza della diseguaglianza politica»22.

In linea di principio secondo Lepsius c'è compatibilità tra Kulturnation e Volksnation / etnonazione e nazionecittadini. Infatti il processo di democratizzazione si compie solo gradualmente e una nazione-dei-cittadini si basa per lo più ancora su socializzazioni politiche predemocratiche:

Ma la storia nazionale tedesca ha offerto esempi positivi e negativi di questo fatto. Inizialmente «lo Stato nazionale tedesco non si intese espressamente come "stato di cittadiini" ma come "una nazione etnica e culturale" statualmente unita. Sin nella fase fondativa l'idea democratico-liberale della nazione di cittadini rimase in ombra rispetto ad una coscienza nazionale sincretistica indeterminata dal punto di vista costituzionale»23. Durante la fase imperiale, il sentimento nazionale venne usato in funzione integrativa senza alcun intento liberale. Nella stessa fase repubblicana di Weimar il riferimento nazionale fu inteso e attivato nell'ottica della restaurazione dell' «onore della nazione» anziché come motivo di educazione liberale-democratica. Occorre attendere il secondo dopoguerra, con la Bundesrepublik, per registrare un'inversione di tendenza di carattere liberal democratico per il quale è stato coniato il concetto di Verassungspatriotismus.
Non so se sia una mera coincidenza che Lepsius usi questo concetto nel luglio 1986, a pochi giorni di distanza dal ricordato intervento di Habermas e apparentemente in sintonia con esso. «Da qualche tempo - osserva Lepsius - si levano voci che chiedono una identificazione nazionale stooricamente più corposa, che vada oltre il patriottismo costituzionale». Il Ver/assungspatriotismus cioè avrebbe bisogno di «un appoggio legittimatorio secondario, prepolitico, storico-culturale. In realtà per la legittimità interna dell' ordine politico della Bundesrepublik questo non sembra necessario».
Lepsius prosegue con una serie di considerazioni sulla situazione della Germania divisa che dopo gli eventi del 1989-91 appaiono datate. L'inattualità di talune osservazioni non sminuisce tuttavia la rilevanza di un ragionamento sui concetti e contrasti tra ethnos e demos nella storia nazionale tedesca soprattutto nel ventesimo secolo.
«La costituzione politica del demos è una Vorentscheidung in senso proprio, che non si lascia mai ricondurre ad uno specifico "destino" di un popolo»25. L'ethnos invece è interpretabile e reinterpretabile in modo manipolativo, in analogia al rifacimento che ogni epoca fa della propria storia. Ma quando ad esso è consentito di interferire altrettanto manipolatoriamente sul demos, allora le conseguenze sono catastrofiche. È quanto è accaduto nella storia tedesca.
La distinzione analitica tra ethnos e demos consente la chiarificazione di altri problemi importanti: ad esempio la differenza tra nazioni e nazionalità, su cui ha lavorato in particolare Emerich K. Francis. «Le nazioni sono secondo il loro stesso concetto sovrane nella determinazione del loro destino politico, mentre le nazionalità sono sottoposte in misura maggiore o minore ad un sistema di potere sovraordinato»26. Da qui seguono due presupposti per uno Stato-di-nazionalità: a) la pretesa/esigenza ad una compartecipazione «corporativa-consociativa» (korperscha/tliehe) alla formazione del potere sovranazionale; b) la pretesa/esigenza ad una relativa autonomia all'interno della comunità sopranazionale.
Questa osservazione vale anche per la costruzione europea. «L'elezione diretta del parlamento europeo si orienta, secondo la sua idea, alla creazione di uno Stato nazionale europeo, si legittima attraverso i cittadini, non attraverso le nazionalità. Il Consiglio europeo, cui spettano le competenze decisionali, si legittima invece attraverso i singoli Stati nazionali». Dietro questa differenza si cela il dualismo tra Stato nazionale e Stato di nazionalità.
Alla tematica della Comunità europea, in particolare ai «Criteri di razionalità della formazione di regime» Lepsius dedica un saggio a parte. «La separazione tra strutture di partecipazione e strutture di decisione conduce ad un nuovo singolare regime transnazionale di competenza pluralistica e di accessibilità quasi-professionalizzata relativamente chiusa. L'Europa occidentale si costituisce quindi attraverso un intreccio di regimi che è estraneo ai sistemi politici tradizionaali». La mediazione necessaria tra criteri di razionalità eterogenei, dispiegatasi sinora al livello degli Stati nazionali, e tipica dei parlamenti, dei partiti, della formazione degli interessi nei sindacati e nelle organizzazioni padronali e nell'opinione pubblica, dovrà ricostituirsi a livello europeo.

La nazione-plebiscito e la nazione-Stato

1. Da un secolo a questa parte, quando si discute di nazione e nazionalismo, prima o poi ci si imbatte nella celebre frase di Ernest Renan: «La nazione è un plebiscito di tutti i giorni». È una espressione fortunata ripetuta per sintetizzare la concezione squisitamente politica e civile (alla francese) della nazione, contrapposta alla concezione etnoculturale (alla tedesca).
Ma la frase citata si colloca in un testo di ampio respiro che merita di essere ripreso, in un disegno argomentativo che non ha perso la sua suggestione, nonostante il linguaggio un po' enfatico e la vena «spiritualistica» che lo contraddistinguono.
L'approccio di Renan alla questione della nazione è stoorico-politico - senza che con questo non possa essere qualificato anche come «culturale», purché non inteso in senso strettamente etnico-antropologico (o razziale). La «cultura» per Renan è un vissuto storico comune di cui si conserva un ricordo intenso - spesso motivo più di dolore che di gioia che si trasforma in coscienza morale collettiva.
Lo scritto di cui parliamo è una conferenza tenuta alla Sorbona 1'11 marzo 1882, dal titolo Que est-ce quJune nation. Ih essa è trasparente la polemica contro 1'annessione della Alsazia-Lorena da parte dell'Impero tedesco, avvenuta una decina d'anni prima. È evidente nella critica alle argomentazioni di ordine linguistico, che la legittimavano. Questo intento polemico e patriottico non disturba, per la verità, l'andamento complessivo del ragionamento, teso a dimostrare il fondamento elettivo (di libera scelta) della appartenenza nazionale. Il suggerimento di risolvere le questioni di frontiera non con l'uso della forza ma consultando la popolazione, può essere tagliato su misura sulla questione alsaziana, ma contiene un principio generale importante.
La data della conferenza ci suggerisce un'altra considerazione: l'Europa si stava avvicinando allo scatenamento delle pretese nazionali e dei nazionalismi che avrebbero portato a disastri insospettati. Lo stesso principio di autodeterminazione nazionale, che si cercherà di applicare parzialmente all'indomani del primo conflitto mondiale, non avrebbe sortito i risultati positivi e le pacificazioni attese. Tanto meno Renan poteva sospettare che, mezzo secolo dopo, il nazionalismo avrebbe assunto motivazioni apertamertte razziste, capovolgendo la sua tesi che «la storia umana differisce essenzialmente dalla zoologia».
In un lungo excursus storico che va dall'antichità ai tempi moderni, Renan ricorda la molteplicità delle forme statuali e nazionali che non si lasciano mai ricondurre ad un unico denominatore comune. Indicatori di razza, di lingua, di religione, di geografia isolatamente presi non possono qualificare la nazione. In particolare «la considerazione etnografica (oggi diremmo: etnica) non ha contato nulla nella costituzione delle nazioni moderne. La Francia è celtica, iberica, germanica. La Germania è germanica, celtica e slava. L'Italia è il paese dove 1'etnografia è più intricata che mai». «Lo studio della razza è capitale per chi si occupa della storia dell'umanità. Ma non ha applicazione in politica. La coscienza istintiva che ha presieduto alla costruzione della carta dell'Europa non ha tenuto in nessun conto la razza; le prime nazioni d'Europa sono nazioni di sangue essenzialmente misto».
Con la stessa sicu rezza Renan nega la lingua come uno degli indicatori certi della nazione. «Nell'uomo c'è qualcosa di superiore alla lingua: è la volontà. La volontà della Svizzera d'essere unita, malgrado la varietà degli idiomi, è un fatto assai più importante della somiglianza del linguaggio, spesso ottenuta con vessazioni>~30. In realtà qui il discorso si fa meno convincente perché è tutto basato sull' assunto del primato della volontà. In questo tipo di considerazione l'esemmpio della Svizzera è scontato ma è debole. Renan non ha argomenti forti per contestare la decisione di un gruppo o di una regione di sciogliere il vincolo nazionale esistente proprio in nome della differenza linguistica (come ad esempio fa il Quebec francese in Canada). Quella di Renan è una perorazione non una argomentazione a favore della nazione plurilinguistica. Scrive infatti: «Non abbandoniamo il principio fondamentale che l'uomo è un essere ragionevole e morale, prima d'essere inserito in questa o quella lingua, prima di essere membro di questa o quella razza o di aderire a questa o quella cultura»3!. D'altra parte lo studioso francese non si nasconde il pericolo che il principio volontaristico possa portare alla frammentazione delle nazioni. Di fronte a questa eventualità non gli resta che appellarsi alla ragionevolezza. (Non si dimentichi, dopotutto, che la conferenza di Renan è innanzitutto un «discorso pubblico» preoccupato di offrire buoni motivi per far identificare la gente con la propria nazione - fermo restando il presupposto che la nazione è un atto di volontà collettiva.)
Sul filo di questo ragionamento Renan non esclude la scomparsa delle nazioni in una «confederazione europea» anche se gli appare un'ipotesi remota. Il suo è ancora il tempo pieno delle nazioni e quindi della necessità di definire in termini corretti la loro identità.
Dopo aver scartato anche il criterio della religione e della geografia dei «confini naturali», Renan approda ad una serie di asserzioni «spiritualiste» sulla nazione, a partire da «quella cosa sacra che si chiama popolo». «Una nazione infatti è un'anima, un principio spirituale».
Se superiamo !'involucro di questa enfasi spiritualista, troviamo motivi non trascurabili. Infatti il principio spirituale è individuato in due elementi: «il possesso in comune di un ricco lascito di ricordi, e il consenso attuale, il desiderio di vivere insieme, la volontà di continuare a far valere l'eredità che si è ricevuta indivisa», soprattutto quando è fatta di dolori e sofferenze comuni. «Una nazione è dunque una grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici che si sono fatti e di quelli che si è disposti a fare ancora».
In questo contesto ci sono alcuni passaggi sull' «oblio anzi sull' errore storico» come «fattore storico essenziale della formazione di una nazione», che meritano attenzione. Quello che dice Renan a proposito della necessità dell' oblio (sino al paradosso che «il progresso degli studi storici è spesso un danno per la nazionalità»33) non è la negazione della nazione come somma di ricordi ma l'intuizione che l'elaborazione della memoria collettiva è un processo ricostruttivo complesso.
A questo punto compare la tesi della nazione-plebiscito.
Leggiamo il passaggio nella sua interezza: «La nazione presuppone un passato; essa tuttavia si ricapitola nel presente per un fatto tangibile: l'assenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare la vita comune. L'esistenza di una nazione è (mi si perdoni la metafora) un plebiscito di tutti i giorni, come l'individuo è una affermazione perpetua di vita».
In quanto metafora, il «plebiscito» di Renan non va inteso come una formula politica in senso tecniconale. Ciò non toglie che con essa venga espressamente sottolineato il suo carattere democratico, contrapposto ad altre forme non democratiche di appartenenza nazionale. Da qui . la polemica implicita per il carattere antidemocratico dell'annessione dell' Alsazia- Lorena alla Germania guglielmina. Ma come si vedrà più avanti, il concetto di «plebiscito» può essere letto anche in una chiave diversa.
Non traccerò in questa sede, neppure sommariamente, le linee del dibattito pubblicistico attorno alla nazione, a cavallo del XIX e XX secolo, esasperatosi poi attraverso le guerre mondiali, tra i due mortali contendenti culturali francese e tedesco. Basti qui l'avvertenza che nella pubblicistica nazionale/nazionalista tedesca non ci sono «zoologi razzisti» nemici dell'idea «spirituale» di nazione. Al contrario, anche in Germania l'affermazione nazionale è sotto il segno del più sfrenato spiritualismo.
Merita un cenno uno studioso di grandissimo rilievo intellettuale e morale. Ernst Troeltsch, autore di studi sociologici e storici sulle religioni (quindi ideale interlocutore di Renan, anche se di statura scientifica superiore). Non è una forzatura dire che in uno scritto troeltschiano steso durante la prima guerra mondiale, Die Idee11 von 1974, manca il termine ma non l'idea del «plebiscito che fa la nazione». Tale in effetti si può considerare il solidarismo spontaneo sociale e civico creato dall'evento bellico. L'entusiasmo popolare che accompagna lo scoppio della guerra del 1914 equivale per Troeltsch al plebiscito della nazione-comunità spirituale tedesca contrapposta al materialismo e all'individualismo delle nazioni occidentali.

Il testo di Troeltsch va ricordato in alcuni suoi passi proprio perché il suo autore non è un fanatico nazionalista ma un esponente di quella grande intellettualità liberale tedesca che annovera i Max Weber, i Walther Rathenau, i Thomas Mann.
«Quella che era una guerra tra potenze imperialistiche scrive - diventò una guerra dello spirito e del carattere». Fu la percezione che era in gioco l'esistenza stessa della nazione tedesca che mobilitò spontaneamente le più grandi energie del popolo, facendogli ritrovare una meravigliosa unità morale e spirituale al di là delle tradizionali divisioni sociali. Si è superata la frattura tra la sedicente cultura e il popolo, «la separazione tra la società astrattamente razionalizzata e soggettivizzata e la grande comunità unita nel sangue e nell'istinto, nel costume e nel simbolo».
Ne discendono due conseguenze: la ritrovata equivalenza tra nazione e spirito (<<La prima e più potente esperienza della nazione non è altro che la scoperta stessa dello spirito, presente nell' esperienza, il ritorno della nazione alla fede nell'idea e nello spirito») e la riscoperta della libertà nella sua accezione tedesca diversa da quella occidentale (<<sia dall'individualismo del dominatore inglese sia dall'entusiastica idea ugualitaria dei diritti dell'uomo»). È positivamente «la libertà di una dedizione volontaria al tutto, la libertà della solidarietà e della disciplina, fondate entrambe sulla devozione alle idee e quindi strettamente congiunte a tutta la nostra essenza etico-religiosa, tanto diversa da quella francese e inglese».
Troeltsch non manca di trarre le conseguenze politiche in modo significativo contrapponendo «le idee del 1914» alle «idee del 1789». Una contrapposizione - precisa - che non è negazione ma «forma totalmente diversa della tensione verso la libertà e la dignità, verso la profondità e il valore della persona»35.

2. Nella cultura tedesca l'idea della nazione-comunità non è in contrasto con la nazione-Stato. A chi volesse conoscere in modo sintetico l'opinione dominante della scienza sociale e politica tedesca del tempo su nazione e nazionalità, segnaliamo gli Atti del Secondo Congresso dei sociologi tedeschi (20-22 ottobre 1912).
Tra i partecipanti c'è anche Max Weber che in un breve intervento esprime il suo pensiero in un passaggio incisivo «Il significato di nazione e nazionale non è assolutamente univoco. Non possiamo trovarlo dal lato della qualità comune, prodotta dalle comunità ma solo dal lato del fine verso cui lo spinge quel qualcosa che noi connotiamo con il concetto collettivo di nazionalità: l'autonoma essenza statuale (das selbstindige Staatswesen)>>.
La tesi che la nazione/nazionalità trova il suo senso autentico soltanto nell' aspirazione e dell' ottenimento della potenza - è il motivo conduttore delle riflessioni weberiane nelle opere maggiori, a cominciare da Economia e società.

Il concetto di «nazione» rimanda sempre alla relazione con la «potenza» politica; ed evidentemente se «nazionale» deve significare qualcosa di unitario, allora «nazionale» sarà anche uno speeciale pathos che in un gruppo di uomini uniti dalla comunità di lingua, dalla confessione religiosa, dai costumi o dai destini, si ricollega all'idea di una propria organizzazione politica volta alla «potenza», esistente o auspicata.

È rilevante notare che la citazione ora riportata conclude il capitolo dedicato alle «relazioni di comunità etniche». Esso si apre con alcune considerazioni sulla «appartenenza di razza» che qualifica l'agire di comunità fondato su comunanza d'origine, di disposizioni naturali simili ereditate e trasmissibili ereditariamente. Passa quindi a considerare gli indicatori di comunanza di lingua e di culto religioso. Naturalmente è la credenza di tali comunanze e la percezione della loro opposizione e alterità rispetto ad altri gruppi che crea l'agire di comunità etnica. Weber insiste sul carattere
di credenza soggettiva dei legami etnici (<<La comunanza "etnica" si differenzia dalla "comunità di gruppo parentale" perché è appunto di per sé soltanto una "comunanza" (creduta) e non già un reale agire di comunità». Ciò non impedisce che passi in rassegna i fattori di lingua, di religione, di habitus nella quotidianità che creano senso di comunanza etnica. Il fatto che «il contenuto dell' agire di comunità possibile su base "etnica" rimanga indeterminato» non vuol dire che non contenga potenziali di agire che si dispiegano pienamente quando prendono forma «politica». Lo sprigionarsi di una volontà politica è una delle delle realtà latenti nella categorie etniche di «stirpe» e «popolo». Così il concetto «evanescente» di etnia diventa scientificamente più attendibile quando corrisponde a quello di nazione e nazionalità.
A sua volta però, «la "nazionalità" ha di regola in comune con il ~(popolo" (in senso "etnico" corrente) la vaga idea che ciò che viene sentito come "comune" debba avere come fondamento una comunità d'origine»40. Non ha alcuna importanza che ciò che unisce i connazionali sia di fatto (anche per discendenza) assai più remoto di quanto non unirebbe gruppi sociali che si ascrivono a nazionalità differenti e nemiche.
Al tempo in cui scrive (prima della guerra mondiale), Weber ritiene di constatare che il principale fattore di identificazione nazionale sia la comunanza linguistica, attorno a cui si costruiscono (o aspirano alla costruzione) gli Stati nazionali. Naturalmente non mancano esempi importanti in senso opposto. E in sorprendente sin toni a (certamente non vuluta) con Renan scrive che «gli al aziani di lingua tedesca si sentivano e si sentono ancora, in grande maggioranza, parte costitutiva della "nazione" francese» in forza anche delle loro «memorie politiche» che li legano alla grande nation. Naturalmente il discorso vale soprattutto per gli svizzeri che coltivano un forte senso di identità nazionale a dispetto della pluralità delle lingue e delle culture d'origine. Insomma «la casistica mostra come i sentimenti di comunanza indicati con la denominazione collettiva di sentimennto "nazionale" non rappresentano nulla di univoco ma possono essere alimentati da fonti molto diverse».
La conclusione cui Weber arriva non è la relativizzazione dell'idea di nazionalità/nazione ma la conferma che soltanto la presenza o l'aspirazione alla struttura statale autonoma danno univocità alle categorie etno-nazionali. La nazione o diventa Stato-nazione o non è.
Conosciamo la centralità di questa concezione della nazione nel pensiero politico weberiano. «La nazione, la potenza del proprio Stato nazionale è per lui un valore ultimo, al quale subordina con razionalistica consequenzialità tutti gli altri obiettivi politici» - scrive Wolfgang J. Mommsen nel suo classico lavoro Max Weber und die deutsche Politik 1890-192042• Non importa qui riaprire la questione della qualità del nazionalismo «tedesco» di Weber speculare a quello «francese» dell' altro Flassico della sociologia, Emile Durkheim43. Weber-Durkheim sono immancabilmente gemellati in ogni manuale di storia delle scienze sociali, senza che ci si interroghi seriamente sulla significatività (non meramente biografica) di questa specularità.
È importante invece sottolineare come la costruzione concettuale della nazione-Stato di Weber non si presta alla contrapposizione tradizionale tra l'idea di nazione-politica (francese) e l'idea (tedesca) di nazione-cultura. Il netto ripudio della rilevanza di ogni originalità etnica, l'insistenza sul carattere soggettivo della credenza nella «comunità d'origine etnica» porta Weber verso una concezione decisamente politica della nazione. Apparentemente la natura di questa politica non è determinata dalla forma costituzionale ma dal vincolo (anzi dal «destino») della politica di potenza di ogni Stato nazionale e dalle sue regole.
In realtà a partire dalla critica di merito che Weber fa alla Machtpolitik del governo tedesco si delinea, in particolare negli scritti del periodo bellico, l'idea di cittadinanza (che da «burocratica» diventa «democratica» attraverso il suffragio universale) come momento necessario di partecipazione/ codeterminazione della politica dello Stato nazionale di potenza. «Dinanzi all'inesorabile dominio livellatore della burocrazia', che ha fatto nascere il concetto moderno di «cittadino» [Statsburger], lo strumento di potere [Machtmittel] della scheda elettorale è ormai l'unica cosa che può dare a chi è soggetto alla burocrazia un minimo di diritti di codeterminazione sulle questioni di quella comunità per la quale essi devono andare a morire».
In forma compatta questa proposizione weberiana ribadisce che la «cittadinanza» nasce all'interno del processo di modernizzazione «burocratica» dello Stato, ma nel con tempo riconosce i limiti ormai intollerabili di questa forma, superabile soltanto con la formazione del cittadino-elettore. L'itinerario con cui Weber arriva al cittadino-elettore (al cittadino democratico) è più tortuoso di altri - ma proprio per questo più interessante perché non è mai tentato di contrapporvi appartenenza «etnonazionale» in funzione antidemocratica.

3. Anche per Eric J. Hobsbawm la nazione diventa identificabile, e quindi analiticamente significativa, soltanto quando interviene lo Stato. «L'idea di nazione, una volta estratta come un mollusco dal guscio apparentemente duro dello Stato-nazione, assume forme mutevoli» - scrive in Nazioni e nazionalismo dal 178045• Ma il successo in Italia di questo libro merita un appunto critico. Esso infatti non è dovuto tanto alle sue indubbie qualità di contenuto quanto alla particolare congiuntura in cui è apparso e al messaggio che trasmette. In un momento di inattesa risorgenza delle questioni nazionali e dei nazionalismi in Europa, la cultura corrente (di sinistra soprattutto che ha sempre ammirato lo storico inglese) si è trovata sprovvista di elementi di giudizio, al di là della generica diffidenza verso la loro «rinascita» ma con il sospetto che «dietro» ad essi ci siano dei problemi seri.
Ebbene il libro di Hobsbawm li rassicura che il tempo delle nazioni e dei nazionalismi non è tornato; che la storia di questi fenomeni non ha bisogno di essere rimessa in discussione o rivisitata. Le esperienze storiche offrono gli elementi di analisi e di giudizio anche su quanto accade inaspettatamente oggi, specialmente all'est. In fondo si tratta di malferme ripetizioni o di fenomeni regressivi.
Nazione e nazionalismo non sono più termini adeguati per descrivere, quindi men che meno per analizzare le entità politiche che si presentano come tali, e nemmeno lo sono per descrivere quei sentimenti che una volta erano associati a queste parole. Non è impossibile che il nazionalismo declini col declinare dello Statonazione, in assenza del quale, essere inglesi, irlandesi o ebrei, oppure una combinazione di tutt'i e tre, non è che uno dei tanti modi che la gente può utilizzare per indicare la propria identità a seconda delle circostanze.
Naturalmente questa non è ancora la realtà quotidiana, ma lo storico inglese rassicura i suoi lettori che è una prospettiva per il futuro fondata su solide basi analitiche. Insomma per Hobsbawm non è il caso di «ripensare» la nazione.
Ma vediamo più da vicino il lavoro citato. «Il presente libro non intende adottare una definizione di tipo aprioristico di ciò che costituirebbe una nazione». Per la verità, alcune righe sopra, poche osservazioni nette e apparentemente ragionevoli, che dichiarano «fuorvianti» definizioni sia di tipo soggettivo che di tipo oggettivo della nazione, indirizzano il lettore verso una visione ben precisa. Da un lato, infatti, viene dichiarato senz' altro «tautologico» ogni tentativo di definire la nazione «sulla scorta del sentimento di appartenenza degli individui che ne fanno parte». Dall'altro, l'impossibilità di ridurre la nazionalità ad un'unica dimensione (politica, culturale o altro) prevede una eccezione: «che non vi sia costretti dalla forza maggiore dello Stato».
Con lo Stato-nazione fa la sua comparsa anche il nazionalismo in senso moderno che è il vero interesse dello storico inglese. Ma non è ben chiaro se senza nazionalismo non esista neppure una nazione, oppure se si tratti di un problema di rilevanza e identificabilità della nazione stessa. Soltanto il nazionalismo cioè dà connotati univoci e precisi alla nazione, anche se questa ha anche caratteri di natura diversa. Di fatto nell' argomentazione i due concetti di nazione e nazionalismo ora si sovrappongono ora coesistono scomponendosi, in un processo non sempre lineare.
Hobsbawm dichiara espressamente di usare il concetto di nazionalismo nella accezione di Gellner cioè di «principio politico che tiene ben ferma, in primo luogo, la necessaria corrispondenza tra unità politica e nazionale». Da questo punto di vista, il suo lavoro si contrappone energicamente ad ogni concezione etno-culturale della nazione (lasciando intravvedere in questo atteggiamento la sua formazione marxista, che permea in modo impercettibile e discreto molti schemi di analisi).
La «questione nazionale» si colloca dunque all'incrocio di politica, tecnologia e trasformazione sociale. Soltanto in questo quadro trova posto il tema della «identità» cultura! della nazione che è sempre «combinata con altre e diverse identificazioni, anche quando sia percepita come preminente rispetto ad altre. L'identità nazionale e relative possibili implicazioni possono cambiare e modificarsi anche nel giro di breve tempo».

Come sappiamo, un punto cruciale nel dibattito sulla identità nazionale è quello della lingua: più esattamente la funzione strumentale e/o simbolica esercitata dalla lingua nella formazione della nazione. Hobsbawm contrappone alla presunta naturalità o originarietà della lingua nazionale il suo carattere costruito e artificiale: «Le lingue diventano dei veri e propri esercizi di ingegneria sociale». In particolare sono alcuni ceti (giornalisti di provincia, maestri di scuola elementare, aspiranti ad impieghi subalterni) che fanno del nazionalismo linguistico il loro cavallo di battaglia associando ad esso la propria mobilità e promozione sociale. Tensioni di questo tipo hanno caratterizzato le lotte delle nazionalità all'interno della vecchia Austria-Ungheria.
Naturalmente sarebbe superficiale imputare il nazionalismo popolare che precede e culmina nel 1914 a mere proiezioni di interessi sociali di strati borghesi e piccolo borghesi. Hobsbawm non può ignorare il patriottismo delle classi lavoratrici nei paesi liberaldemocratici, come Francia e Inghilterra, che si ispirano alla tradizione del giacobinismo e del cartismo. Qui è la stessa coscienza di classe che esige «una rivendicazione dei diritti dell'uomo e del cittadino e di conseguenza un potenziale patriottismo». Ma è un patriottismo estremamente vulnerabile per «la subalternità oggettiva e nel caso delle classi lavoratrici anche soggettiva di questi cittadini-massa» alle classi borghesi dominanti.
A questa problematica Hobsbawm dedica considerazioni attente ma insieme tortuose.
È importante distinguere tra nazionalismo esclusivo proprio degli Stati o dei movimenti politici destrorsi, che in quanto tale si sostituisce a qualsiasi altra forma di identificazione politica e sociale, (da quell'insieme di coscienza nazionale-cittadina-sociale che costituisce quel particolare terreno da cui nascono tutti gli altri sentimenti politici. E in questo senso «nazione» e «classe» sono difficilmente separabili.
È notevole come qui Hobsbawm accosti il termine di «classe» a quello di «nazione» senza farsene un problema. Sembra addirittura che la coscienza di classe diventi una sorta di rafforzativo della coscienza nazionale. Leggiamo infatti: «Se riteniamo che la coscienza di classe abbia in pratica una dimensione civico-nazionale e che, d'altra parte, questa coscienza civico-nazionale o etnica abbia dimensione di tipo sociale, allora non ci sembrerà impossibile che la radicalizzazione delle classi lavoratrici nell'Europa del primo dopoguerra abbia potuto rafforzare la loro potenziale coscienza nazionale»49. L'esempio più imponente di questo fenomeno tuttavia è la riappropriazione del sentimento nazionale e patriottico da parte delle classi lavoratrici nel periodo dell' antifascismo.
Dopo questa importante constatazione Hobsbawm viene preso dal dubbio: nell'antifascismo si produce una nuova coscienza nazionale della sinistra o è il riemergere del tradizionale patriottismo giacobino, soffocato dalle dottrine socialiste dell' antinazionalismo e dell' antimilitarismo? La risposta è elusiva: «il rinnovato matrimonio tra rivoluzione sociale e sentimento patriottico è un fenomeno estremamente complesso».
Il capitolo conclusivo (Il nazionalismo alla fine del XX secolo) è segnato dallo sforzo di tenere insieme fenomeni tra loro diversissimi e dislocati in aree geografiche difficilmente confrontabili (dal Quebec al Terzo mondo). L'unità del quadro è dato sostanzialmente dall' atteggiamento critico con cui l'autore registra l'espansione del nuovo nazionalismo. «I tipici movimenti nazionalisti della fine del secolo XX sono essenzialmente negativi o, piuttosto, volti alla divisione. Donde l'insistenza sull' etnia e sulla lingua in quanto differenza, talvolta combinate, singolarmente o assieme, con la religione»51. Nessun nazionalismo o movimento etniconazionale di questo tipo ha la capacità di aggregare interessi che non siano settoriali e di minoranza o interessi del tutto contingenti o fluttuanti. In altre parole, Hobsbawm contesta ai movimenti neonazionalisti di possedere capacità aggregative - innanzitutto politiche - paragonabili a quelle dei nazionalismi tradizionali che essi vorrebbero in qualche modo riprodurre. Anche nel caso si arrivasse alla creazione di nuovi Stati europei, dalla Lettonia alla Croazia, alla Catalogna «si può credere seriamente che una simile balcanizzazione, magari estesa su scala mondiale, avrebbe la possibilità di garantire una sistemazione politica stabile e funzionante?».

Quando lo storico inglese formulava questo interrogativo con il tono della incredulità, non si erano ancora realizzate le disgregazioni dell'URSS e della Jugoslavia così come le conosciamo oggi. Quindi l'interrogativo va aggiornato perché la balcanizzazione si è effettivamente realizzata e la politica deve darsi da fare. Non basta recriminare sugli etnonazionalismi.
Proprio di fronte a questa sgradevole situazione - imposta dalla realtà - si intravvedono i limiti dell' approccio di Hobsbawm. A cominciare dal curioso paradosso per cui il nazionalismo di ieri - oggetto infinito di critiche - esce in qualche modo riabilitato nelle sue funzioni storiche rispetto al nazionalismo di oggi. Quello di oggi infatti «non è più un programma politico di tipo globale, come invece è stato quello del XIX e dei primi decenni del XX secolo. Perché al massimo oggi sembra un elemento di complicazione oppure un catalizzatore di altri processi»52. A questo punto però, lo storico inglese, invece di interrogarsi su possibili nuove funzioni catalizzatrici dei nuovi nazionalismi, si limita a ribadire la loro mancanza di prospettive in un mondo che «non è più possibile contenere nei confini delle "nazioni" e degli "Stati-nazione" né dal punto di vista politico, né economico, né culturale, né linguistico».
In questa ottica è evidente che i nazionalismi contemporanei - visti come cattive imitazioni di quelli del passato non possono che apparire fenomeni di arretramento, di resistenza, di dislocazione della nuova ristrutturazione sovranazionale del globo terrestre. Se invece si tenta di vederli anche come virtuali depositari e prosecutori di alcuni di quei valori di identità, cultura e storia che proprio le vecchie nazioni e Stati-nazione non possono più gestire (o hanno gestito male), allora appariranno in una luce diversa.
La tesi del nazionalismo non come espressione di una preesistente nazione o nazionalità ma come operazione tutta politica è sostenuta con risolutezza anche da John Breuilly in Nationalismo and the State. Il nazionalismo cioè non è collegabile ad un particolare carattere culturale o struttura sociale; non è un attributo di una classe specifica o di una determinata struttura comunicativa o funzione sociale o stato psicologico o altro. «Il nazionalismo è una forma della politica» - in particolare di quella che ha di mira la conquista e l'uso dello Stato. Breuilly contesta quindi fortemente la letteratura che tende a vedere il nazionalismo come un dato prepolitico, quasi-irrazionale ignorando la sua funzionalità ,e razionalità politica. È ,quest'ultima invece il fattore qualificante dei «movimenti politici di opposizione che mirano a ottenere o ad esercitare il potere dello Stato e a giustificare i loro obiettivi nei termini della dottrina nazionalistica».
Con questi assunti l'autore intraprende una vastissima analisi storica che va dai movimenti nazionali/nazionalisti europei del secolo scorso alle molteplici varianti odierne dei paesi dell' Asia e dell' Africa. In questo panorama sono collocati anche i movimenti nazionalisti separatisti, le cui pretese «culturali» vengono per altro severamente ridimensionate. Ad esempio, sul Partito nazionale scozzese Breuilly scrive che soltanto pochi zeloti prendono sul serio la pretesa di preservare una «cultura nazionale scozzese», che non si sa che cosa sia. L'appeal del movimento separatista sta nella presunzione di poter applicare la vecchia formula della prosperità a livello regionale, in una regione che soltanto alcune sopravvissute consuetudini e istituzioni consentono di chiamare Scozia. «La sovranità non è un bene in sé ma una formula per avere controllo sul petrolio e sul governo dell'economia. Il nazionalismo è diventato un credo arbitrario e pragmatico». Siamo agli antipodi dell'impostazione di un altro studioso di lingua inglese, Anthony Smith, che vedremo nella prossima sezione.

Il risveglio etnico-nazionale

1. Nel linguaggio corrente la parola «etnia» da un' accezione originariamente etno-antropologica trapassa senza soluzione di continuità in quella più generica di «identità culturale». Ne diventa mero sinonimo, l'analogo. Si rende così immediatamente disponibile e appetibile alla pubblicistica che sta al confine tra le scienze sociali e la comunicazione mediale. Si produce anche un effetto di ritorno sul lessico delle scienze sociali: le diverse matrici originarie del concetto reagiscono mescolandosi, combinandosi.

Il concetto di etnia ha la capacità di evocare distanze o profondità spazio-temporali senza tuttavia farsene incapsuulare. Sembra addirittura avere la qualità di materializzare la «contemporaneità del non contemporaneo». Attraverso i connotati «etnici» viene identificato non solo il nero insediato nel suo tempo-spazio originario (che nel nostro immaginario rimane la «foresta»), ma anche il nero inserito nei ritmi della metropoli europea. E nel con tempo con lo stesso concetto si stabiliscono inattese affinità tra il basco, il curdo, il croato e il «lombardo». In queste contaminazioni e trasversalità il linguaggio - corrente e riflessivo - ha una sua logica e vitalità. L'uso diffuso del termine «etnia» infatti segnala il doppio processo di logoramento e rinnovamento del linguaggio pubblico. Si dice «etnia» là dove sino ad ieri si parlava di «popolo» o «nazionalità» o «razza». Persino la storia «antica» diventa «etnica».
Tutto questo richiede una riflessione critica. A prima vista nel linguaggio corrente, «etnico» vale come cifra del «diverso». Ma questa operazione di identificazione si ribalta su chi la compie. Etnico è anche chi etnicizza gli altri. Formulata così, l'etnicità sembra presentarsi come un attributo universalizzabile. Ma ciò che conta in questa attribuzione sono i contenuti e gli intenti differenzianti. Più esattamente, l'etnicità diventa un connotato di differenza elettivo, con diretta rilevanza pratica.
La natura di questa differenza non è immediatamente chiara, soprattutto da quando nel linguaggio pubblico «razza» è diventato un termine squalificato. Ma non si può neanche asserire che «etnico» sia un modo più decente e soft di dire «razziale». In realtà - come vedremo -la problematica della etnicità oggi investe indicatori e valori associati a nazione e nazionalità. O, se vogliamo, è un modo di riproblematizzare questi concetti.
Infatti l'imputazione etnica svolge in maniera, ora latente ora esplicita, una funzione polemica in senso forte. Diventa un «costrutto polemico» in quanto di volta in volta, nei diversi contesti in cui compare, organizza dati e significati in modo da accentuarne i momenti della differenziazione, della contrapposizione, dell'antagonismo, della discriminazione. In questo senso è direttamente politico. Esso serve a legittimare comportamenti pratici. In altre parole, l'imputazione etnica, riferita a sé o agli altri, diventa una risorsa strategica polemica per ottenere qualcosa o negare qualcosa a qualcun altro.
Dietro questo discorso, apparentemente astratto, sono in gioco realtà concretissime, spesso drammatiche. Si pensi alle controversie sul riconoscimento dei diritti di cittadinanza agli immigrati extracomunitari o alle lotte per la fondazione di nuovi Stati in Europa in nome della legittimità etnica (Croazia, Slovacchia ecc.). Mentre la stessa pretesa è negata ad altri «etnici» (i baschi o i corsi). Più in generale in Europa si legittimano da un lato enfatici richiami a «radici etniche» comuni che portano a sintomi di risorgenza neonazionalista; ma dall'altro lato proprio la riscoperta di «radici etniche» pre- o antinazionali premono verso una virtuale dissoluzione della stessa unità nazionale. In Francia e Germania sono evidenti spinte etno-nazionali del primo tipo. In Italia invece potrebbero affermarsi spinte etnoseparatiste. Le une e le altre possono, per altro, coesistere in un'Europa unita da una chiusura etnocentrica verso «etnie esterne». In tutti i casi il motivo etnico riapre direttamente la questione della nazione da una angolatura inattesa.
Si delineano così almeno quattro grandi aree su cui mettere alla prova la problematica etnica ora abbozzata. La prima, di carattere prevalentemente teorico e di lunga prospettiva storica, riguarda il risveglio o revival etnico e quindi l'identificazione del vero o presunto «nucleo etnico» originario che permane nelle grandi nazioni storiche europee. Ci si interroga sul ruolo della identità etnica nella formazione di tutte le nazioni, anche extraeuropee. È questo il tema suggerito soprattutto dai lavori di Anthony Smith.
La seconda area focalizza in modo precipuo gli etnonazionalismi intendendo con questo termine un vasto arco di fenomeni: il modo di formazione di alcuni Stati dell'Europa orientale e soprattutto della ex Unione sovietica; la persistenza di «nazioni senza Stato» nell' area europea e mediooorientale (baschi, curdi ecc.); i movimenti autonomisti a carattere regionale che già godono di forme di autogoverno a vario titolo (Catalogna, Sudtirolo) o vi aspirano con minore o maggiore intensità (corsi, bretoni, occitani ecc.).
La terza area riguarda i movimenti di autonomia e federalismo regionale dentro alle nazioni storiche apparentemente consolidate. Si tratta di movimenti con spiccati antagonismi politici tutti interni al sistema esistente, accompagnati ad appelli più o meno strumentali a «identità etniche locali». In Italia si tratta del fenomeno leghista.
La quarta area investe la dimensione specificamente «etnica» della più generale questione dell'immigrazione extracomunitaria in Europa e in Italia.

2. «Il non riuscire a capire ed ad apprezzare giustamente i significati intimi e la potenza di quei miti, memorie e simboli che sostengono l'identità etnica non può che impedirci di venire alle prese con gli antagonismi etnici che tormentano le relazioni tra gli Stati e tra gli individui nel mondo moderno». Così conclude Anthony D. Smith Le origini etniche delle nazioni.
È difficile trovare un autore che affronti con maggiore determinazione e convinzione di Smith il nesso storico e positivo tra «etnia» e «nazione». L'etnia infatti è per lui il nucleo portante (the core) della nazione, qualunque forma storica questa assuma. Quello di Smith non è soltanto un discorso tutto affermativo attorno al nesso etnia-nazione, collocato in una amplissima prospettiva macrostorica, che va dall' antichità ai nostri giorni. È anche una convinta argomentazione (ripresa soprattutto nel più recente National Identity del 1991) a favore della persistenza e della positività dei valori della nazione e del nazionalismo - al di là dei problemi sollevati dagli etno-nazionalismi e etno-regionalismi.
Si tratta di tesi controcorrente rispetto alla opinione largamente diffusa secondo cui la nazione ha perso di significanza culturale e sociale e quindi la ricomparsa dei nazionalismi e delle rivendicazioni «etniche» sarebbe da considerarsi un fenomeno sostanzialmente negativo. E di conseguenza il ricupero del concetto di «etnia» (fuori dal recinto strettamente specialistico dell' etno-antropologia) sarebbe antimoderno e carico di irrazionalità. Associare etnia a nazione suonerebbe come una indebita regressione analitica e di valore.
La posizione di Anthony Smith è diametralmente opposta. «Le nazioni hanno bisogno di nuclei etnici se vogliono sopravvivere». «Se non vi fosse alcun modello di passata etnicità e nessuna etnia preesistente, non potrebbero esserci nazioni né nazionalismi. Ci sarebbero soltanto Stati ed étatisme imposto dall' alto».
Quella che Smith definisce «etnia» è la fonte stessa di senso non soltanto per comunità «originarie», ancestrali, premoderne ma per gli organismi collettivi storicamente più recenti che chiamiamo «nazioni». È l'etnia infatti che determina l'insieme degli elementi simbolico-culturali che presiedono e accompagnano la nascita e lo sviluppo della nazione, in tutte le sue tipologie.
Ciò che qualifica l'etnia in modo precipuo è il «complesso mito-simbolo» e la memoria che lo accompagna. L'etnia allora altro non è che la comunità storica fondata su memorie condivise che assumono la forma del mito.
Non importa nulla che vi siano tanti miti e memorie pieni di illusioni e deformazioni. La natura «autoevidente» dell'identità nazionale francese o inglese è fatta di miti e memorie di questa natura; con essi gli inglesi e i francesi costituiscono una «nazione»; senza di essi non sono che popolazioni legate tra loro in uno spazio politico. Naturalmente nel concetto di nazione vi è molto di più che mito e memoria. Ma questi ne costituiscono una conditio sine qua non. Non vi può essere identità alcuna senza memoria (sia pure selettiva), nessun progetto collettivo senza mito. Identità e fine o destino sono elementi necessari del concetto vero e proprio di nazione. Ma questo vale anche per il concetto di comunità etnica. Anche in questo caso si deve dire che la comunità ha una identità e un destino, e quindi miti e memorie. La nazione è allora semplicemente una comunità etnica allargata?
La citazione meritava di essere ripresa per esteso perché rivela sia l'approccio risolutamente culturale/ culturalista dell' autore sia un suo vezzo espositivo iterativo. Quanto all'interrogativo se la nazione non sia in definitiva che una comunità etnica allargata, vedremo che la risposta non è ,così semplice. La dinamica delle nazioni storiche è assai più complicata. Ma tutta l'argomentazione smithiana - sia quella storico-ricostruttiva che quella tipologica - è tesa a valorizzare gli elementi di continuità e intimità tra etnia e nazione.
Se cerchiamo di afferrare con maggiore precisione il concetto di etnia introdotto da Anthony Smith, scopriamo in realtà due accezioni. Quando l'autore dichiara di descrivere analiticamente le dimensioni o componenti della etnia, elenca sei elementi: un nome collettivo, un mito della comune discendenza, una storia condivisa, una cultura distintiva condivisa, l'associazione con un territorio specifico, un senso di solidarietà.
Quello che non dice espressamente (ma è dato per sottinteso) è che tutte queste caratteristiche ineriscono necessariamente ad una popolazione. Che questa entità fisica non venga mai connotata da Smith con indicatori biogici (la parola «razza» è praticamente assente dal vocabolario) non vuol dire che questi non esistono. Ma l'etnia o l'etnicità sono tematizzate in termini simbolico-culturali così drastici che sembra venir meno la materialità, per così dire, del gruppo cui si riferiscono. Di più: l'etnia è presentata in un' ottica social-integrativa così pronunciata da essere l'equivalente funzionale della «identità culturale» di una qualunque comunità umana minimamente strutturata. Solo assumendo questa ottica culturale di etnia (sintetizzata nel «complesso mito-simbolo») è possibile mettere sullo stesso piano polacchi e irlandesi, ebrei e catalani ma anche inglesi e francesi. Le etnie, cioè, esistono, a prescindere dal fatto che diventino o no nazioni, anche se questo processo occupa buona parte dell'analisi del libro.

3. Nella ricostruzione storica del processo di formazione e sviluppo delle nazioni moderne Anthony Smith è preoccupato di correggere la concezione «modernista». Questa concezione tenderebbe a vedere le nazioni esclusivamente nell'ottica della modernizzazione economica, amministrativa e politica quindi a sottovalutarne i fattori etnici, considerati residui se non regressivi. Smith invece insiste nel trattare l'etnicità come somma di valori positivi, che si trasmette senza soluzione di continuità al nazionalismo. Questo, del resto, nel libro National Identity è definito senz' altro «l'equivalente moderno, secolare del mito sacro premoderno della elezione etnica»60.
Nell'intera opera di Smith nationalism è privo di connotazioni negative o sospette. Il termine «nazionalismo» non designa una qualche forma di esagerazione o esasperazione del sentimento nazionale. È semplicemente espressione (positiva) del senso di appartenenza ad una nazione. Da qui l'interscambio frequente tra identità nazionale e nazionalismo. Non è un dettaglio semantico secondario.
Due vie conducono secondo Smith alla formazione delle nazioni moderne e quindi a due concezioni di nazione. La prima è quella che coincide con la creazione dello Stato «territoriale» prodotto e produttore della modernizzazione amministrativa, economica e politica. È la strada «occidentale» tipica delle due grandi nazioni inglese e francese. Qui una etnia si impone gradualmente in una vicenda plurisecolare - con successo - alle altre, creando appunto lo Stato nazionale «territoriale». Una delle sue caratteristiche principali è la creazione della cittadinanza, intesa non solo come somma di diritti civili, ma come «senso di solidarietà e fraternità attraverso un'attiva partecipazione sociale e politica». Per raggiungere questo «nazionalismo civico» lo Stato nazionale ha dovuto attivare comunque meccanismi integrativi che sono propri dell' etnicità originaria.
Si realizza così una sorta di «nazionalizzazione delle etnie» nei contenuti e nelle tecniche di assimilazione. In particolare «la storia nazionale», cioè la narrazione e la «reinvenzione» della tradizione, diventa il punto focale della costruzione della nazione soltanto grazie al ricorso a «miti etnici unificanti».
La modernizzazione e le sue esigenze dunque non bastano - secondo Smith - a creare lo Stato nazionale moderno.
La «costruzione della nazione» non consiste semplicemente 'nello stabilire le istituzioni appropriate o nel generare una complessa struttura di classe attorno ad una infrastruttura di comunicazioni. La creazione di nazioni è un'attività culturale ricorrente che deve essere rinnovata periodicamente. Essa comporta incessanti reinterpretazioni, riscoperte e ricostruzioni; ogni generazione deve riplasmare le istituzioni e i sistemi di stratificazione nazionale alla luce dei miti, memorie, valori e simboli del passato.
Se questa è un'operazione indispensabile per le grandi nazioni «occidentali», il riferimento alla etnia diventa addirittura l' elemento quasi esclusivo della costituzione della «nazione etnica» tipica dell'Europa orientale e di molte altri parti del mondo. Questa è la seconda via alla nazione moderna.
Anthony Smith concede che i due modelli - nazione territoriale o civica e nazione etnica - nella realtà danno luogo a situazioni miste e conflittuali. L'esempio più drammatico è quello offerto dallo Stato tedesco e dalla sua storia in cui si sono trovati inconciliati nazionalismo etnico e nazionalismo civico. Questo non impedisce tuttavia che l'autore mantenga ferma la sua spiegazione della formazione dello Stato moderno attraverso la progressione etnianazione.

4. In realtà l'operazione interpretativa di Smith - per quanto suggestiva in molti passaggi - mi pare troppo forzata proprio per il suo schematismo di fondo. Da un lato sacrifica ad un concetto di etnia, sovraccaricato di funzione integrativa a senso unico, molti tratti creativi che noi imputeremmo alla «società civile» e al suo dinamismo conflittuale. Dall'altro lato tende- a ridurre lo Stato ad un mero apparato economico-amministrativo.
L'assenza della società civile porta a quello che Smith stesso chiama la «intrinseca instabilità» e inconsistenza del concetto di nazione. Ma la ragione sta nel fatto che la nazione smithiana è presa tra i due fuochi dello Stato-apparato e di una etnia sovrasollecitata di funzione simbolica. Proprio l'esempio della Terza Repubblica francese e del suo grande sforzo di nazionalizzazione civica (frequentemente usato da Smith) avrebbe dovuto indurlo ad adottare un modello concettuale più articolato nel definire la nazione.
Certo: oggi la rinascita dell'etnonazionalismo bretone, basco o corso sembra dargli ragione (<<La tensione tra una antica comunità etnica e un moderno Stato territoriale contribuisce a destabilizzare la "nazione" e la sua concezione di sé»62). Ma quello che vale per l'etnonazionalismo basco o croato di oggi non vale per la formazione dello Statone storico francese in quanto tale.
Questa debolezza nell'assumere una più complessa prospettiva storica verso la nazione si riflette alla fine anche nella incertezza di fronte all'interrogativo cruciale: «Ma le nazioni possono trascendere l'etnicità? Possono abbandonare i loro passati etnici ricostruiti una volta che essi hanno servito alloro scopo?». «È abbastanza plausibile» - risponde cautamente Smith63. Ma qualche pagina dopo rettifica:

«Le moderne nazioni "civiche" in pratica non hanno trasceso veramente l'etnicità o i sentimenti etnici».

A mio avviso, queste oscillazioni di giudizio dell'autore vanno imputate al fatto che, dopo un brillante excursus macrostorico sul premoderno (per la verità, difficilmente verificabile falsificabile in termini storiografici) si è trovato davanti ad una problematica storico-politica della modernità, non trattabile con lo stesso schema etnia versus nazione. Per questo il libro finisce con l'enunciazione di alcuni grandi dilemmi dai quali l'autore onestamente non sa districarsi: cittadinanza versus lealtà etnica, nazionalismo civico versus nazionalismo etnico, etnonazionalismo versus federalismo regionale.

5. Il volume National Identity del 1991 riprende alcuni dei motivi ora ricordati, in particolare il doppio modello della nazione occidentale (con prevalenti caratteri politicoterritoriali) e non occidentale (con prevalenti caratteri etnici). Il motivo «nazionale» viene comunque ripresentato come fattore decisivo di coesione e ordine sociale (<<l'appello alla identità nazionale è diventato la principale legittimazione per l'ordine e la solidarietà sociale oggi»64). La fonte ultima dell'identità nazionale, nella sua funzione integrativa, rimane l'etnia.

Il passaggio dalla etnia alla nazione viene ora presentato secondo due strade. Una è quella guidata da etnie «laterali» (identificabili nella storiografia tradizionali nelle stirpi regali vincenti), l'altra da etnie «verticali» o popolari. Le prime, che vanno a costituire «the care o/ an ethnic state», creano lo Stato dal centro, organizzando classi e regioni periferiche. Le seconde sono invece promotrici di comunità dal basso con processi di «vernacular mobilization».
Al di là di questa e altre distinzioni, il discorso di Smith si fa più prudente nel tracciare rapporti lineari tra etnia e nazione. «La relazione delle nazioni moderne verso un qualunque nucleo etnico è problematico e incerto»65. Ciò non toglie che il lettore rimanga perplesso quando - nonostante le precisazioni fatte sopra - ritrovi omologati sotto il concetto di «etnie europee» castigliani, irlandesi, scozzesi insieme a francesi, inglesi o tedeschi (perché non sassoni, bavaresi o p russi ani ? ).
Non si capisce cioè perché talvolta vengano privilegiate le etnie diventate dominanti dello Stato-nazione, addirittura dotate di un nome generale inclusivo non specifico (come Spagna o Italia) e talaltra le etnie inglobate nello Statonazione.
Gli accenni all'Italia sono molto vaghi; sulla base dell'analisi di Smith non è facile decidere se la nazione italiana può considerarsi risultato di una etnia dominante o un insieme di più etnie. Incidentalmente parla di regionalismo italiano, localmente forte, ma in nessun caso accompagnato «da una diminuzione del senso dell'identità nazionale»66. Il che notoriamente non risponde a verità. In realtà il caso italiano mette a dura prova il modello smithiano perché le «gloriose memorie del passato» non sembrano affatto essere coesive di una identità nazionale (come si attende Smith), senza che la virtuale disgregazione regionale (o macroregionale) della nazione possa davvero legittimarsi con autentiche etnie locali.
La cautela e l'incertezza di Smith nel definire i confini tra etnia e nazione, nel loro sviluppo storico, non gli impediscono tuttavia di ribadire ancora una volta che «il carattere distintivo etnico rimane un sine qua non della nazione, e questo significa miti ancestrali condivisi, memorie storiche comuni, tratti culturali unici e senso della differenza se non dell'elezione - tutti tratti che caratterizzano comunità etniche premoderne. Nella nazione moderna devono essere preeservati, anzi coltivati, se la nazione non vuole diventare invisibile»67.
Come sappiamo, Smith ha una speciale preferenza per quelli che si definiscono gli etnonazionalismi e le etnonazioni (non si dimentichi l'interscambio nel nostro autore tra identità nazionale e nazionalismo). Ne distingue vari tipi. Ci sono gli etnonazionalismi «classici» caratterizzanti gli imperi russo, asburgico e ottomano. Poi ci sono i nazionalismi prodotti dalla decolonizzazione. E quindi più recentemente l'ondata etnonazionalista legata alla crisi della ex URSS, della ex J ugoslavia: e i-9 generale dell'Europa orientale. Essi vanno a rafforzare per riflesso gli etnonazionalismi persistenti nell' area occidentale: dal Quebec alla Catalogna.
Verso gli etnonazionalismi Smith mostra molto di più di un interesse analitico. È una preferenza di valore. Ne sottolinea gli intenti autonomisti più che quelli separatisti. Ne segnala la doppia identità non antagonistica, cultura nazionale e politico-nazionale. Parla ad esempio di nazione (culturale) bretone entro la nazione (politica) francese, o di quella catalana entro la spagnola, sottolineandone i motivi integrativi anziché quelli disgregativi.
Mi chiedo se il nostro autore non si lasci prendere troppo la mano dagli assunti normativi del proprio modello a scapito di una più sobria analisi della realtà. La perdita analitica più seria è che viene trascurata la componente conflittuale, «polemica» (nel senso detto all' inizio) dell' azione delle etnie. I momenti di discriminazione, di autoaffermazione per differenza, che non possono essere ignorati nella descrizione storica delle etnie, rimangono in qualche modo lasciati in sordina nel modello complessivo.
Torniamo alla intimità e interscambiabilità tra etnicità e identità nazionale definita come l'identità collettiva «più fondamentale e inclusiva» anche se multidimensionale. All'identità nazionale infatti Smith attribuisce nientemeno che la funzione (davvero sacrale) del superamento dei limiti della morte personale. A questo punto non sorprende che il capitolo finale di National Identity sia intitolato Nazionalismo oltre le nazioni? E non - come ci si attenderebbe - Le nazioni oltre il nazionalismo? O che addirittura parli positivamente di «pan-nazionalismo» e di «nazionalismo panneuropeo». Naturalmente occorre intendere queste espressioni nel senso di Smith. Ovvero: il pan-nazionalismo è il correttivo della forza disgregante delle singole etnie-nazioni lasciate a se stesse. Ma si tratta pur sempre di «nazionalismo» dal momento che si deve creare «un movimento nazionalista pan-europeo che sia capace di forgiare comuni miti, simboli, valori e memorie da una comune eredità. Solo in questo modo un pan-nazionalismo può creare un nuovo t,i'po di identità collettiva, che sovrasta ma non abolisce le nazioni individuali».
La proposta finale di Smith prevede dunque per un vèrso la necessità di superare le dimensioni vetero-nazionali in una super (') pan-nazione europea; dall'altro però non sa indicate altra strategia che quella «mitopoietica» veteronazionale.
Questa proposta lascia piuttosto scettici. Dubito che sia sostenibile un ricupero (anche semantico) così positivo della tematica della nazione e del nazionalismo all'interno della cultura (e della retorica) che ha accompagnato sinora la creazione della Comunità europea. D'altro lato, le identità nazionali storiche europee sono ancora così tenacemente radicate nei miti-simboli-memorie di un passato diviso che è irrealistico pensare che si possa reinventare una nuova Europa con il medesimo materiale «mitopoietico» delle storie nazionali. Sotto altra forma ricompare la natura politicopolemica delle etnie-nazioni.
Detto questo, rimane suggestivo anzi importante l'invito a riprendere a ragionare in termini di memorie storiche comuni se si vuole costruire una autentica comunità politica. Quello che Smith non dice però è come debba essere condotto questo processo di rivisitazione, di rimeditazione se non di «reinvenzione» del passato europeo. Lascia intendere che si tratti in fondo di ripercorrere strade già battute dalle generazioni precedenti; che si tratti di ridec1inare ancora una volta il lascito etnico-nazionale tradizionale. Mi sembra una soluzione semplicistica, che non tiene conto delle terribili fratture del ventesimo secolo prodotte in nome del mito nazionale.
L'Europa non è e non sarà una «nazione più grande» nel senso tradizionale e convenzionale - anche se non sappiamo che cosa sarà esattamente. La sfida di «rinarrare» la storia in chiave europea - la stessa storia delle nazioni - come momento ineludibile per un'autentica integrazione europea mi sembra proibitiva. Ma possiamo negare che è la sfida per la nostra generazione?

VI.
L'impatto dell'immigrazione sui problemi della cittadinanza nazionale ed europea


1. Uno dei risultati più efficaci dello Stato-nazione storico è di avere inculcato nella cultura corrente, nel linguaggio pubblico (oltre che nel gergo burocratico) l'equivalenza tra «cittadinanza» e «nazionalità». È del tutto spontaneo infatti chiedere ad uno straniero indifferentemente a «quale nazionalità» appartenga o «quale cittadinanza» possieda. Occorre uri momento di riflessione supplementare per convincersi che i due concetti sono logicamente distinti.
Di fatto è lo Stato nazionale che, insieme con il riconoscimento della nazionalità (ovvero l'appartenenza ad una comunità di cultura e storia), elargisce ai suoi cittadini la titolarità dei diritti politici (dunque la cittadinanza in senso pieno). Ma la nazionalità stessa agisce come barriera contro l'estensione automatica dei diritti politici ai cittadini di un' altra nazione, magari confinante, amica e alleata, con la quale si intrattengono lunghi rapporti.
Due fenomeni nuovi ci impongono oggi una più accentuata disarticolazione tra i due concetti di cittadinanza e nazionalità. Innanzitutto l'approssimarsi di una «cittadinanza europea» coesisterà (non importa con quale formalità e codifica burocratica) con persistenti nazionalità tradizionali (italiana, francese, spagnola ecc.). Il secondo fenomeno la presenza di immigrati che godono o aspirano a godere alcuni diritti civili, sociali e persino politici di cittadinanza del paese di insediamento, pur mantenendo (volontariamente o coattivamente) una nazionalità straniera.

Le considerazioni che seguono toccano quest'ultima problematica. Non viene qui affrontata la questione dell'immigrazione in tutta la sua complessità ma soltanto nell' ottica del suo impatto 'Sul tema della cittadinanza, europea e nazionale.

2. Sono opportune alcune brevi premesse. Le differenze strutturali dell'immigrazione odierna in Europa rispetto a quella del passato sono due. Gli immigrati di ieri erano richiesti o comunque accolti nel processo lavorativo, che diventava così l'ambiente che strutturava la psicologia del loro inserimento con effetti non secondari sulla loro autopercezione identitaria. Oggi non è più così. L'immigrazione da «reclutamento di lavoro», anzi l'immigrazione tout court è stata interrotta ufficialmente in Europa dalla metà degli anni settanta. Proseguono - legalmente e in forme sempre più restrittive - immigrazioni per ricongiungimenti familiari, per asilo politico ecc. Continuano invece infiltrazioni illegali. Questi nuovi arrivati sono assorbiti a fatica in mercati di lavoro secondari, interstiziali, informali o semplicemente «neri». Per essi - e in generale per la maggior parte degli immigrati degli ultimi anni - l'ambiente strutturante non è più quello del lavoro, ma direttamente quello societario, il tessuto urbano in cui vivono quotidianamente faccia a faccia con la gente. È un aspetto decisivo per l'impatto culturale reciproco tra immigrati e autoctoni.
La seconda differenza riguarda le zone geo-culturali di provenienza. L'immigrazione tradizionale verso le aree forti d'Europa (Francia e Germania) era sostanzialmente intraeuropea, sia pure dalla periferia (italiani meridionali, spagnoli, greci, jugoslavi, polacchi ecc). Dalla seconda metà degli anni sessanta si ha un lento ma accelerato mutamento: oggi gli immigrati sono per definizione «extraeuroopei» o «extra comunitari», provenienti dall' area nordafricana e centroafricana, oltre che asiatica - con culture, stili di vita e «colore» palesemente «diversi». Poi più recentemente si è aperto il fronte dell'Europa orientale, dopo il crollo dei regimi comunisti. Questo fatto, drammatizzato anticipatoriamente dalla stampa e dai mass-media, al di là dei numeri reali, interessa soprattutto Germania, Austria e Italia.
A questo punto la percezione collettiva dell'intero fenomeno immigratorio non poteva non assumere in Europa toni di allarme sociale, con la mobilitazione di paure profonde che ha portato a veri e propri comportamenti xenofobi e violenze razziste. Si tratta notoriamente di fenomeni circoscritti, ma potenti nel creare un clima di intimidazione e nello svegliare silenziose complicità, anche per la grande confusione che regna circa la consistenza del fenomeno e le sue conseguenze.
La maggior parte della popolazione europea non ha le idee chiare sulle conseguenze economiche della immigrazione: gli immigrati creano disoccupazione oppure coprono posti abbandonati dagli autoctoni? Non ci sono dubbi che il primo argomento porta a legittimare l'intolleranza xenofoba. Ma c'è il sospetto che esso serva piuttosto a razionalizzare posizioni preconcette anziché a crearle. In generale su questo punto tra la gente c'è perplessità e reticenza.
Per la prima volta nella storia dell'Europea moderna, forse, ampi strati di popolazione sono a contatto quotidiano con popolazioni di altre culture ed etnie. Il razzismo di tipo tradizionale (che ancora negli anni trenta e quaranta trovava consenso culturale più o meno accentuato) viene oggi espressamente rifiutato. Ma permane grande incertezza e oscillazione tra i sentimenti di comprensione umana per le condizioni degli immigrati, la dichiarata accettazione delle diversità etnico-culturali e la convinzione che l'immigrazione sia comunque un fattore di degrado della società e dell'ambiente in cui si vive. Non è un caso che nell'immagine pubblica l'immigrazione è catalogata (e vissuta) come una nuova specie di patologia sociale, da accostare alla disoccupazione, alla criminalità organizzata o all'inquinamento (quando addirittura non è vista come somma di queste patologie).
Questa problematica diventa motivo di competizione tra i partiti: esplicitamente in Francia con il lepenismo e in Germania e Austria con movimenti xenofobi locali e regionali. In Italia il leghismo è sembrato deputato a diventare il principale «imprenditore politico» della xenofobia latente, ma le sue posizioni ufficiali sono attualmente molto caute.

Sta di fatto che in tutta Europa si è generalizzata la domanda di intervento regolativo in senso nettamente restrittiv03• Su questo punto c'è il consenso tacito di tutte le forze politiche. La questione. non è più se bloccare l'immigrazione, ma quali mezzi sono efficaci nel rendere ermetiche le frontiere; come trattare decentemente, al minimo costo sociale possibile, gli immigrati presenti, salvando nel contempo la propria buona coscienza.
I governi europei convengono nella ricerca di efficaci misure di blocco della immigrazione irregolare e clandestina. Ma su tutto il resto, in particolare sullo statuto dei diritti di chi risiede a vario titolo legale sul territorio comunitario e intende eventualmente muoversi (secondo il principio della libera circolazione delle persone nell'Europa in marcia verso l'Unione) la divisione è grande. Ciascun governo procede (o meglio si irrigidisce) per conto proprio. Di conseguenza non solo sono diversificate le legislazioni attinenti la cittadinanza e la naturalizzazione, ma anche quelle concernenti la concessione di altri diritti nel campo lavorativo, scolastico e religioso. In breve, su poche questioni l'Europa è così disunita e gelosamente attaccata alle prerogative nazionali come su quelle riguardanti la condizione giuridica, culturale e materiale della popolazione immigrata sul suo territorio. L'immigrazione potrebbe diventare addirittura uno dei freni più stridenti sulla strada dell'Unione politica.

3. Le differenti politiche nazionali di regolazione e trattamento giuridico riflettono tempi e modalità storiche diverse di accoglimento nei singoli paesi.
La Francia, tradizionale paese di immigrazione per mancanza di manodopera estasi demografica, ha sinora praticato ed esibito una politica immigratoria molto liberale, culminante nella facilità con cui i figli degli immigrati, nati in Francia, possono diventare francesi. A tale liberalità corrisponde _ come sappiamo - un concetto di cittadinanza squisitamente politico, basato sulla volontà di adesione alle regole di una comunità politica democratica. Naturalmente rimane sottinteso che la cultura francese sia la migliore garanzia dell'universalismo democratico ...
Questo meccanismo integrativo (o addirittura assimilazionista) non sembra funzionare più così bene per la popolazione maghrebina come ha funzionato, a suo tempo, per gli italiani, i polacchi, i greci ecc. Non è chiaro se questo meccanismo si sia effettivamente inceppato per l'irrigidirsi di nuove pretese etno-culturali e religiose, in particolare da parte di gruppi maghrebini mussulmani. Oppure se la presunta inaffidabilità politica e imperfetta integrabilità degli immigrati (islamici innanzitutto) sia una proiezione dell'ansia e del sospetto di un crescente numero di francesi.
Di fatto gesti di radicale contrapposizione identitaria di matrice integralista (intravisti o attesi durante le polemiche del chador4) appaiono marginali e artificiosamente politicizzati dall' esterno. li grave stato di anomia di molte periferie urbane ad alta concentrazione di immigrati o il fenomeno della delinquenza minorile con elevato tasso di presenza di giovani maghrebini (della seconda e terza generazione) in rivolta vanno fatti risalire più a cause economiche e sociali generali che non a specifici fattori di ostilità etno-culturale - anche se questi ultimi svolgono un importante ruolo di rafforzamento simbolico. È interessante invece notare che parecchie ricerche sociologiche segnalano elevati gradi di lealtà politica e integrazione civica di francesi di origine maghrebina che pur tuttavia desiderano mantenere alcuni vincoli religiosi e culturali d'origine.
Questo complesso panorama di atteggiamenti ha creato presso alcuni gruppi di francesi «nazionali» l'allarme per una ipotetica non integrabilità degli immigrati maghrebini, anche nel caso siano già formalmente cittadini francesi (<<cittadini di carta»). Si diffonde lo spettro di una minaccia alla cultura e alla identità francese.
La cronaca politica ci mostra che questa paura non è coltivata soltanto dalla destra lepenista ma coinvolge forze politicamente moderate. Escludiamo che la Francia muti drasticamente la sua impostazione ideale e politica sulla questione degli immigrati, ma non c'è dubbio che essa incontrerà crescenti difficoltà.
Diversa è la situazione della Germania. Anch' essa nei decenni scorsi ha conosciuto una massiccia immigrazione di carattere economico, che ha interessato, negli anni cinquanta e sessanta, milioni di italiani, yugoslavi, greci, portoghesi ecc. Quella dei Gastarbeiter è stata una esperienza dura e amara, anche e soprattutto come estraneità culturale, accompagnata da forme di emarginazione prossime alla xenofobia. Ma non si sono prodotti problemi analoghi a quelli sorti con l'insediamento della popolazione turca. Tantomeno si sono prodotte tensioni sociali legate alla questione degli Asylanten (i profughi di varie parti del mondo che richiedono «asilo» politico).
Anche qui ci si chiede se in questi ultimi anni sono mutati i termini oggettivi della questione o non sia semplicemente cambiata la loro percezione collettiva, in connessione con altre fonti di disagio economico e sociale (in particolare i costi della riunificazione e la mancata rapida ripresa economica delle regioni orientali ex comuniste).
La Germania ha una legislazione molto restrittiva in tema di concessione della cittadinanza, che si rifà ad una idea tradizionalistica di «popolo tedesco», che diventa, per altro, molto favorevole al rientro di vecchi gruppi di emigrazione tedesca nei territori orientali ed ex sovietici, anche se questi da anni avevano interrotto ogni relazione (persino linguistica). Nonostante dichiarazioni di intenti in senso contrario, anche da parte di fonti politico-costituzionali autorevoli, permane viva di fatto una concezione etnoculturale della cittadinanza. Essa rende estremamente difficile diventare cittadino tedesco ad esempio per un giovane di famiglia turca, nato in Germania e cresciuto nei quartieri e nelle scuole di una città tedesca, e verosimilmente ben integrato con i suoi compagni tedeschi. In compenso vige (almeno sino a tempi recenti) una clausola costituzionale estremamente liberale per l' accoglimento di chi chiede asilo politico.
È difficile negare che il contrasto tra questa disposizione costituzionale e la latente visione etnocentrica, recepita dalla legislazione sulla cittadinanza, abbia offerto pretesto agli episodi di violenza razzista che hanno profondamente turbato l'opinione pubblica tedesca e mondiale. A ciò si aggiungano le provocazioni e gli esibizionismi (dilatati a dismisura dai mass-media) dei cosiddetti naziskin e la ripresa di visibilità di gruppi neonazisti.
Questo insieme di fattori ci ricorda che tutta la problematica dell'immigrazione e della xenofobia in Germania evoca inevitabilmente l'ombra di un «passato che non passa», con il riaccendersi di motivi polemici, di carattere storico, che sono assenti o meno acuti in altre nazioni europee.
L'Italia è l'ultimo paese europeo in ordine di tempo ad essere interessato alla immigrazione extracomunitaria, anche se questa non è numericamente paragonabile a quella dei paesi ricordati. Eppure psicologicamente molta gente in Italia si sente «invasa» dagli immigrati non diversamente che altrove in Europa. Le indagini demoscopiche ci presentano una popolazione che protesta certamente i suoi buoni sentimenti di comprensione umana e sociale, ma che è molto insicura nei comportamenti pratici. Soprattutto non mostra alcuna sensibilità alle dimensioni culturali del fenomeno che viene banalizzato in senso folk1oristico. Rimane dominante l'antinomia razzismo/antirazzismo - a sua volta solitamente formulata in termini così semplicistici da essere scarsamente significativa (come dimostrano i periodici sondaggi giornalistici del tipo «gli italiani sono razzisti?»).
La disattenzione con cui in Italia si guarda alla dimensione culturale ed etnica del problema è dovuta anche al fatto che da noi è appena agli inizi la formazione di vere e proprie comunità e insediamenti organici che trasmettono le esigenze culturali più specifiche. (Per inciso: gli immigrati di religione islamica che generalmente avanzano in modo più netto domande culturali qualificate rappresentano soltanto un terzo degli immigrati e per di più sono disarticolati alloro interno.) L'atomizzazione e la grande disomogeneità della composizione della popolazione extracomunitaria, per provenienza geografica, matrice etnica, religione, rende difficile un efficace scambio culturale. In assenza di consistenti e autonomi interlocutori collettivi, l'enfasi sulla «cultura dei diversi», quale si sente fare in convegni o presso volonterosi gruppi di aiuto agli immigrati, corre il rischio di un approccio astrattamente idealizzato. È l'esatto speculare delle oscure apprensioni per un misterioso e minaccioso Islam, che sono coltivate in altri gruppi sociali, etnocentricamente ripiegati su se stessi.
Questo doppio pericolo può essere evitato soltanto da una cultura della cittadinanza che sappia cogliere e interagire in modo maturo con l'identità culturale autonoma degli immigrati.

4. Dopo quanto abbiamo detto nel corso di questo lavoro, non ci occorrono molte parole per affermare che l'identità collettiva è anche il prodotto mutevole e multiplo di interazioni tra più culture (o sistemi di valore). Al suo interno, l'identità personale combina, più meno creativamente, opzioni personali e dati di appartenenza etno-culturali, da cui non può strapparsi a piacimento. Ma sappiamo anche che nel processo identitario trovano posto strategie strumentali, opportunistiche. L'affermazione dell'identità non è sempre fine a se stessa. Può fungere da requisito per raggiungere vantaggi e benefici ben precisi. Insomma l'identità vale anche come riserva di risorse strategiche e quindi può essere opportunamente adattata a questa funzione.
Le donne e gli uomini che vengono in Europa spinti dalla necessità o da aspettative di un' esistenza migliore, cercano lavoro e benessere, non la «cultura» europea come valore in sé. Prendono quello che serve loro, senza con questo pensare di rinnegare l'identità di origine etnica. Appplicano strategie miste per un utilizzo ottimale delle opportunità offerte dal sistema sociale, politico, culturale che li circonda. Ma adottando nuovi stile di consumo e di comportamento intraprendono un complicato processo di aggiustamento identitario.
È pertanto uno pseudoproblema chiedersi se l'identità dell'immigrato sia determinata dal suo status di dipendenza e precarietà socio-economica oppure dal persistere dei tratti culturali, etnici, religiosi della sua provenienza. La risposta sta nella combinazione di tutti questi fattori in un originale innesto tra nuovi stimoli e vecchi riflessi. Questa combinazione muta a seconda delle variabili di sesso, età, scolarità, legami con la propria parentela e con l'ambiente di provenienza ecc.
Altrettanto dubbia è la pretesa di poter definire una volta per tutte lo scopo finale che l'immigrato si pone inserendosi nell' ambiente societario che lo circonda. Si rischia di fare delle classificazioni nominalistiche a proposito di «assimilazione», «integrazione» e/o «autonomia culturale», che presentano innumerevoli varianti e sfumature.

5. In questo quadro va collocato il tema della «cittadinanza» versus la «nazionalità», da cui siamo partiti. Finché permane la tradizionale omologazione tra i due concetti e i due status, c'è da attendersi che l'immigrato, soprattutto quello ben inserito nel tessuto sociale ed economico, aspiri ad acquisire la nazionalità del paese in cui si trova, per completare il godimento dei suoi diritti. Il suo obiettivo non è quello di identificarsi totalmente nella «nazione» ospitante, intesa nel senso forte e specifico di comunità di simili per storia e cultura. Come potrebbe farlo avendo una storia e una cultura diversa? Il suo scopo è quello di garantirsi sicurezza giuridica e sociale, dichiarando formalmente la propria lealtà civile e politica ad uno Stato retto da sicure regole democratiche. Questo è il senso della acquisizione di una nazionalità estranea alle sue origini, anche se da lui ben conosciuta e apprezzata. È un comportamento assolutamente razionale, che tuttavia apre una serie di interrogativi.
Che cosa accade ad una nazione tendenzialmente sempre più affidata alla lealtà politica di cittadini dall' origine e dalla cultura almeno in parte diversa da quella nazionale? Conosciamo la risposta e la reazione dei Le Pen e delle associazioni «nazionali» dei paesi di lingua tedesca che si limitano a cacciare a «casa loro» e quindi nella «loro cultura e ambiente» gli immigrati. Il contenuto xenofobo ed etnocentrico (quando non apertamente razzista) di questa reazione non può essere efficacemente controbattuto affermando che lo Stato democratico è per definizione universalistico e quindi «artificiale» (negatore di ogni primato o privilegio di «natura o sangue»). Di conseguenza la nazionalità tradizionale appare poco più che un «accidente» storico.
Questa è una risposta astratta, buona per filosofi e filantropi, ma pedagogicamente insufficiente. Qui occorre riprendere - su un piano diverso ma analogico - alcuni ragionamenti fatti nei capitoli precedenti tra nazione e democrazia, tra radici culturali e ragioni e diritti di cittadinanza.
Quando si parla di diritti degli immigrati ci si riferisce a contenuti molto diversi e varianti, anche se si assume la sequenza apparentemente lineare di diritti civili, sociali e politici.
I diritti civili sono quelli universalmente garantiti da uno Stato democratico per la integrità e la dignità della persona umana di qualunque razza e cultura. Ma - al di là della protezione della legge contro manifesti atti di violenza, criminalità e illegalità - è difficile determinare i contenuti concreti ad esempio del diritto alla «integrità della persona». È praticamente impossibile fissare criteri non controversi del diritto alla salute. Per tacere del fatto che notoriamente non sono previsti il diritto ad una abitazione decente, ad un lavoro, ad un reddito minimo per condurre una vita degna di essere vissuta. Di conseguenza è certo che migliaia di immigrati in Europa non godono di «diritti civili», degni di questo nome.
Naturalmente - si obietterà -lo stesso vale per un numero imprecisato di cittadini europei a titolo pieno. Il discorso cioè supera la condizione dell'immigrato perché investe la questione dei livelli di povertà sul continente europe05 e quindi le prestazioni, le funzioni, le competenze dello Stato sociale. Da questo punto di vista, non è casuale che uno dei moventi ricorrenti dell' ostilità della gente contro gli immigrati sia la convinzione (non importa se giustificata o meno) che la loro presenza peggiori comunque le già disastrate condizioni dello Stato sociale.
Siamo così nell' ambito dei diritti sociali - alcuni previsti in generale per i residenti legali, altri specificatamente connessi alle prestazioni di lavoro. Si apre qui il capitolo dell' effettiva parità di trattamento degli immigrati con gli autoctoni sul mercato del lavoro e nel godimento dei servizi sociali e pubblici di ogni ordine e grado.
La somma di questi diritti dà concretezza alla «cittadinanza di residenza», intesa come l'insieme organico di titolarità che diventa decisivo per la formazione di nuclei familiari stabili, per soddisfare i bisogni di scolarizzazione della prole e per la volontà di praticare il diritto di tenere viva la propria identità culturale d'origine.
In particolare quest'ultimo diritto implica riconoscimenti formali della validità di alcune prescrizioni religiose: esigenze particolari di alimentazione e abbigliamento, necessità di spazi e tempi separati di culto e preghiera, programmi specifici nella scuola. Ma ci sono aspetti ancora più impegnativi perché toccano il diritto familiare e privato, compreso l'istituto della poligamia e casi di infibulazione. (Si tratta di situazioni poco frequenti, ma di altissimo valore simbolico.)

6. Molti segnali indicano che la questione di questi «diritti di residenza», più che quella del pieno godimento dei diritti politici, sarà il punto qualificante della cittadinanza degli immigrati stabilizzati in Europa. Infatti come risultato combinato della libera scelta degli interessati e della opposiizione degli autoctoni/nazionali ad allargare la piena cittadinanza politica, avremo in Europa un numero sempre maggiore di stranieri con lo status di residenti.
Se questa è la prospettiva, tanto vale valorizzarne al massimo le caratteristiche. Parlare di «cittadinanza di residenza» suona un po' burocratico. Ma occorre pensare che dietro a questa formula c'è il vivere e convivere quotidiano per il quale è richiesta reciprocamente quella virtù che i francesi chiamano civilité o urbanité. È il civismo o la cittadinanza nel senso lato ma concreto del termine, del sentirsi membri della stessa città perché ci si vive insieme.
A questo punto non si può eludere lo snodo critico del godimento di alcuni diritti politici nella «città», senza i quali il civismo diventa una parola vuota. Perché chi abita, lavora, vive e contribuisce al mantenimento della comunità locale (eventualmente arricchendola con uno suo peculiare apporto culturale) non dovrebbe avere il diritto/dovere di contribuire anche alla formazione delle decisioni del governo locale - dunque di votare, eleggere ed essere eletto? Oppure la rinuncia ad identificarsi con la «nazione» come tutto (la rinuncia o l'impedimento alla nazionalità) investe anche la dimensione della comunità locale?
Forse non è un caso che soprattutto da noi, in Italia, la chiusura verso lo straniero (soprattutto nell'uso dei servizi sociali) trovi radici ed espressioni locali più che nazionali; che la xenofobia si legittimi per una presunta minaccia al tessuto identitario della comunità locale piuttosto che a quello nazionale. In questo caso il localismo surroga in pieno (nei suoi aspetti deteriori) l'inerte o estinto sentimento nazionale. Questo non impedisce, beninteso, che in mancanza di altri argomenti, molta gente giustifichi l'insofferenza verso gli immigrati con la semplice affermazione che «non sono italiani!». Naturalmente si tratta di un riferimento strumentale e opportunistico alla appartenenza nazionale, che conferma ancora una volta l'uso' strategico dell'identità, su cui abbiamo già insistito. Ma il risultato finale è lo stesso.

L'assenza in Italia di una forte cultura civica a dimensione nazionale non è compensata da un civismo di convivenza locale. Le appartenenze locali si confermano così terreno di coltura di un etnocentrismo che impedisce il formarsi di una cittadinanza di residenza aperta agli immigrati. Lo dimostrano le difficoltà che sorgono puntualmente quando in comuni grandi e piccoli è posta all' ordine del giorno la questione della partecipazione elettorale - magari solo consultiva - degli immigrati regolarmente residenti.

7. Siamo davanti ad un circolo vizioso: i locali/nazionali diffidano della capacità e della sincerità dell'integrazione civico-politica degli immigrati, mentre questi ultimi sono tentati di usare solo strumentalmente un'eventuale partecipazione alla vita pubblica locale per proteggere la loro diversità culturale. Questo circolo vizioso si rompe soltanto se entrambe le parti si ritrovano in una ridefinizione e pratica della cittadinanza che per i locali/nazionali è la prosecuzione della loro stessa storia democratica, mentre per gli immigrati è il terreno di verifica della loro disponibilità a comportarsi come cittadini leali.
Tutto questo non ha nulla a che vedere con un improbabile, anzi impossibile melting pat culturale o società multietnica. Il problema riguarda soltanto le condizioni di esistenza delle minoranze di origine e di matrice culturale diversa, che si trovano davanti all' alternativa di ghettizzarsi o di associarsi gradualmente ad una grande società aperta ma sempre guidata dal principio universalistico della cittadinanza.
In Europa si stanno delineando due situazioni culturali distinte, con un importante punto di incrocio. Da un lato c'è la pluralità delle storie/culture nazionali che non sono destinate a sparire d'incanto nella costruzione europea; dall'altro c'è l'emergere, in questa realtà già complessa, di culture extraeuropee con le loro pretese/esigenze di autonomia.
Soltanto un concetto innovativo di «cittadinanza europea» - con le premesse che abbiamo visto nel secondo capitolo - può essere il grande contenitore e regolato re delle due distinte situazioni. È necessario mettere a punto concettualmente e praticare una cittadinanza che eviti il doppio pericolo di contrapporre astrattamente il principio universalistico ai tratti identitari nazionali oppure viceversa che si inventi una presunta «nazione/cultura europea» omogenea, in funzione discriminatoria contro le altre culture.
La cittadinanza democratica - lo ripetiamo ancora una volta - non si definisce semplicemente come un catalogo di diritti ma come il vincolo di reciprocità che impegna alla lealtà e al solidarismo civico. Abbiamo mostrato come il senso d'appartenenza nazionale storica possa diventare una buona ragione per sostenere tale reciprocità. Questo argomento non viene meno dinanzi ad una cittadinanza separata dalla nazionalità ed estesa agli immigrati, che siano disposti ad un comportamento politico leale nel mantenimento di una loro autonomia etno-culturale.
A suo luogo abbiamo insistito sul fatto che l'appartenenza nazionale diventa una ragione di reciprocità e di lealtà politica soltanto se viene sganciata dai clichés imposti dallo Stato-nazione tradizionale, in particolare dal suo implicito o esplicito etnocentrismo. Il sentirsi nazione democratica deve al contrario far parte dei processi di integrazione simbolica, culturale, linguistica che rendono vitale la «società civile». Ebbene è proprio in questa società civile che ora fanno la loro comparsa e interagiscono i nuovi arrivati, gli immigrati con le loro richieste di cittadinanza.
L'unico modo di mettere alla prova il confronto e lo scambio tra le culture, lontano sia dalle retoriche della società multi etnica che dal ripiegamento etnocentrico, è quello di sperimentare regole di partecipazione alla vita pubblica locale per tutti coloro che si riconoscono lealmente «membri della stessa città», cives.

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