venerdì 13 gennaio 2012

libro ginzborg salviamo l'italia

SALVIAMO L’ITALIA
Paul Ginsborg

PROLOGO

Nel gennaio 2009 sono diventato cittadino italiano. Faccio parte di un flusso costante di stranieri, circa 40000, che ogni anno assumono la cittadinanza italiana. Non basta per fare dell'Italia un paese multiculturale, ma certo è un inizio'. Alla cerimonia di conferimento della cittadinanza l'allora presidente del Consiglio comunale fiorentino, Eros Cruccolini, mi invitò a leggere ad alta voce due articoli della Costituzione e mi consegnò una bandiera italiana, la bandiera arcobaleno della pace e una copia della Costituzione italiana.
I miei amici in gran parte rimasero stupiti all' annuncio della mia naturalizzazione. «Ma chi te lo ha fatto fare, - mi dicevano, - e proprio ora, poi». Uno o due si affrettarono a sincerarsi che avessi avuto il buon senso di mantenere anche la cittadinanza britannica. Il commento più caustico è stato: «Beh Paul, almeno potrai dire assieme a tutti noi altri: "Mi vergogno di essere italiano" ».
Mentirei se dicessi che queste reazioni mi hanno sorpreso. Vivo in Italia da quasi diciotto anni ormai, e da quaranta circa ne studio la storia, abbastanza per saper cogliere lo stato d'animo della sua gente. Ma la coralità dei commenti - provenienti da persone spesso socialmente impegnate - senza dubbio mi ha fatto riflettere. In quale altro paese al mondo i cittadini reagirebbero con altrettanto spregio di sé? Certo non i greci o i francesi, né gli americani o i britannici. Quali consuetudini culturali profondamente radicate stanno alla base di questa reazione? Carlo Cattaneo, con la sua tipica lucidità e sottigliezza, propose una risposta a questo interrogativo scrivendo, nel 1839, di «quel vizio tutto italiano di dir male del suo paese quasi per una escandescenza di amar patrio [corsivi d'autore»2. Ma è difficile accettare che sia il troppo amore per la patria il motivo della reazione all'unisono dei miei amici. A me pare piuttosto di leggervi una gran tristezza sulla condizione attuale del paese, accompagnata da una profonda rassegnazione.
Il titolo del libro, e il contenuto, sono pensati come un antidoto a questo tipo di atteggiamenti, per quanto comprensibili essi siano. Non si tratta in primo luogo di un programma politico, benché contenga forti elementi propositivi, ma di una riflessione storica. L'Italia si avvia a celebrare i 150 anni di vita. Credo sia interessante, addirittura rivelatore, guardare ad alcuni problemi di oggi non solo con i nostri occhi ma attraverso quelli delle generazioni del Risorgimento. In genere la storia del Risorgimento, per come si impara a scuola in Italia, non piace. Viene troppo spesso insegnata in forma arida, nozionistica - non più in toni trionfalistici, come sotto il fascismo, ma semplicemente in maniera noiosa. Eppuure i protagonisti del Risorgimento danno vita a una galleria di personaggi straordinari e i loro scritti hanno grande eco ancora oggi. Nelle pagine che seguono intendo porre a confronto le risposte loro e nostre ad alcuni dei principali problemi che affliggono l'Italia come nazione.
Le opinioni e le soluzioni che giungono a noi dal XVIII e XIX secolo sono tutt'altro che esaustive e omogenee: certo alcuni problemi di oggi erano inconcepibili per gli intellettuali del Risorgimento. Ma mi colpisce 1'attualità sorprendente delle loro riflessioni, l'analogia tra le loro angosce e le nostre, anche se molti decenni di tumultuosa storia nazionale ormai ci separano. Il mio intento non è, per ovvie ragioni, quello di narrare la storia del Risorgimento né di stabilire quale sia stato il contributo delle diverse componenti del passato italiano alla realtà della nazione oggi. Piuttosto vorrei che le voci del Risorgimento si mescolassero - quasi in presa diretta - alle nostre.
Ho strutturato questo libro attorno al concetto di salvezza, suddividendo lo in brevi capitoli dedicati ciascuno a diversi aspetti del medesimo problema. Il primo capitolo pone la domanda "eretica": vale la pena di salvare l'Italia? Se si, segue il secondo, qual è il posto che il Bel Paese dovrebbe occupare nel mondo moderno? Il terzo capitolo si domanda da chi e da che cosa si debba salvare l'Italia. Il quarto e ultimo tratta del fattore umano: chi salverà l'Italia e con che mezzi? In ciascun capitolo ho voluto indicare alcune risposte del Risorgimento paragonandole con le nostre. Non so se questo servirà a risollevare qualche amico dalla sua disperazione. Me lo auguro di cuore.

Per introdurre 1'argomento parto dal declino e dalla decadenza, condizioni che nelle storie nazionali spesso precedono i salvataggi e le iniziative di rinnovamento. Il declino nazionale è un tema di grande attualità oggi. Lo era anche nei primi anni del Risorgimento. Che percezione avevano del declino, come lo quantificavano, i contemporanei nel primo XIX secolo, 1810-1830 circa, in un'Italia ancora da farsi; e nel periodo 1990-2010, in un'Italia già fatta, ma fatta male?
Nella Basilica di Santa Croce a Firenze, trasformatasi col tempo nel Pantheon della grandezza italiana, fra la tomba di Machiavelli e quella di Dante, si trova il sepolcro del drammaturgo e poeta Vittorio Alfieri, oggi certo molto meno noto dei suoi due illustri compatrioti. La sua tomba neoclassica, realizzata da Antonio Canova tra il 1806 e il 1810, spicca per magnificenza. E dominata dalla figura imponente e maestosa di una donna, in lunghe vesti. Ella piange, ma con compostezza, asciugandosi le lacrime con un fazzoletto. Ai suoi piedi giace, abbandonata, una cornucopia, simbolo di abbondanza. Sul capo porta una corona di mura turrite, segno del suo simbolico incarnare una città o uno stato. In effetti la donna è !'Italia. Questa raffigurazione, né materna né protettiva, né giovinetta né virginea, non Marianne col seno scoperto, né Britannia con la lancia in resta, affascinò tutti i contemporanei, Ugo Foscolo incluso: «Ed è pur bella l'Italia! Bella! Ma sta a ogni modo sopra un sepolcro ».
La famosa statua di Canova piangeva per l'Alfieri, ma anche sul destino del paese che simboleggiava. Sono trascorsi circa trecento anni dalla "grande catastrofe", il breve periodo compreso tra il r494 e il r 530 quando l'Italia divisa aprile porte delle sue città al dominio delle dinastie straniere. Da quel periodo in poi la decadenza e il declino dell'Italia sono palesi agli occhi di tutti. Nella sua famosa ode del r8r8, All' Italia, Leopardi rimpiange 1'età lontana della grandezza italiana:

O patria mia, vedo le mura e gli archi,
E le colonne e i simulacri e 1'erme
Torri degli avi nostri,
Ma la gloria non vedo,
Non vedo il lauro e il ferro ond'eran carchi
I nostri padri antichi'.

In ambito storiografico non v'è descrizione migliore della perduta autonomia e della passata grandezza civica dell'Italia di quella fornita dallo storico svizzero Simonde de Sismondi, ginevrino di origine ma toscano d'elezione, nei volumi della sua celebre storia delle repubbliche italiane (1807-18). Il nocciolo del problema italiano era la perdita della più preziosa delle libertà, la libertà dalla dipendenza. A forza di aver padroni, l'Italia come nazione era diventata «corrotta e snervata»; e i suoi dominatori stranieri, dopo averla soggiogata, la disprezzavano per la viltà della sua sottomissione. Gli italiani non avevano pili una storia propria: «le loro sventure non sono altro che episodi nella storia delle altre nazioni».
I patrioti italiani all' alba della Restaurazione non vedevano altro che questo vuoto, questo declino morale ovunque, nella sfera privata come in quella pubblica. Nel 1826 il «London Magazine» pubblicò un articolo corrosivo dal titolo The Women ofltaly. L'autore era anonimo, ma si trattava in realtà di Foscol09. Con tutta la buona volontà non si può certo definire Foscolo un modello di virtli maschile, ma la sua critica degli usi e costumi vigenti in seno alle famiglie della classe dominante suona veritiera. Le giovanette venivano educate dalla tenera età nei conventi, in cui non imparavano nulla della vita ma molto «fanatismo, ipocrisia e cupidigia». Una volta sposate, assieme al coniuge godevano di scarsa indipendenza o libertà dai loro genitori. Le donne d'Italia conducevano vite vuoote e frivole, pensando pili agli amanti che alle proprie famiglie. Agli occhi di Foscolo, i cicisbei o cavalieri serventi, che accompagnavano le donne sposate in pubblico e molto spesso ne condividevano il letto in privato, erano epitome del declino morale italiano. Sconsolato, Foscolo rifletteva sull' entità del danno che questo tipo di rapporti infliggeva alle prospettive di una rinascita patriottica dell'Italia:

Cosi in un paese dove la natura ha dotato le sue figlie, forse più generosamente che in qualunque altro, di tesori della mente e del cuore tali da fame madri di liberi cittadini e nutrici di patrioti [ ... ] il cattivo governo e, di conseguenza, i cattivi costumi le hanno rese cosi degeneri che la loro vita domestica corrompe nei loro figlioli ogni germe di virtù

L'inadeguatezza delle élite si manifestava non solo in seno alle famiglie ma anche in campo culturale. Nel 1816 Madame de Stael, formidabile dame de lettres, figlia del barone Necker, ex ministro dell'Economia di Luigi XVI, apri un aspro dibattito nei circoli letterari milanesi sostenendo che la tradizione letteraria italiana, basata sui testi classici, si era completamente fossilizzata. Ella spronava invece gli italiani a «tradurre diligentemente assai delle recenti poesie inglesi e tedesche», al fine di familiarizzare l'opinione pubblica italiana con le migliori produzioni del romanticismo nordeuropeo. Il carapace di convenzioni e conformismo doveva essere infranto. Come poteva l'Italia smettere di piangere sul proprio destino se non aprendo le frontiere intellettuali e accogliendo il nuovo presente nella cultura europea?
I letterati italiani reagirono con indignazione. Perché mai, si chiedevano, avrebbero dovuto sacrificare la mitologia greca e latina a un flusso letterario tumultuoso e indisciplinato di matrice nordica; perché abbandonare Omero per Ossian12? La difesa della De Stael fu assunta innanzitutto da tre "manifesti" del primo romanticismo italiano, tutti pubblicati nel r8r6. Quello di Giovanni Berchet si rivela oggi il più attuale. Fu il Berchet a propugnare la letteratura «popolare», in cui i «romanzi», fondati su idee e sentimenti romantici arrivassero a un più ampio pubblico di lettori e diventassero infine base di un progetto politico nazionale. Nella sua Lettera semiseria di Grisostomo al suo figliuolo, scrisse: «mille e mille famiglie pensano, leggono, scrivono, piangono, fremono e sentono le passioni tutte, senza pure avere un nome ne' teatri». La cultura del romanticismo focalizzata sull'abbandono delle routine quotidiane, sull'apprendimento autodidatta, sulla passione e sulla cultura popolare, poteva aprire «un altro orizzonte» ai poeti in particolare e ai lettori italiani in generale, abituandoli «ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni».
«Insomma siate uomini e non cicale, - diceva Berchet esortando i suoi colleghi letterati italiani, - e i vostri paesani vi benediranno, e lo straniero ripiglierà modestia e parlerà di voi coll' antico rispetto». Riguadagnare rispetto all'estero è uno dei temi dominanti di quegli anni. L'Italia e gli italiani non dovevano più essere acqua stagnante, la periferia della cultura europea.
Storico, famigliare, culturale: sono questi i tre ambiti cruciali in cui si percepiva e denunciava il declino italiano. Ma furono soprattutto le idee e le azioni politiche il campo in cui i patrioti si misurarono e spesero le loro energie. Le rivoluzioni del r820-2r scossero l'intera penisola. Nel Nord alcuni aristocratici piemontesi cercarono di convincere il giovane Carlo Alberto, allora principe di Carignano, a sposare la causa liberale e nazionale. Egli li deluse e molti, tra i quali Santorre di Santarosa, furono costretti all'esilio per salvarsi la vita. Al Sud Napoli, Avellino e parte della Campania si erano sollevate molti mesi prima. Sulla costa adriatica i carbonari locali reclutarono in aiuto lord Byron, che viveva all' epoca a Ravenna, la città del suo ultimo grande amore, la contessa Teresa Guiccioli. La Guiccioli era sposata con un uomo assai piti anziano di lei, e Byron si calò con gioia e autoironia nel ruolo del cavalier servente. Appoggiò inoltre la cospirazione dei patrioti locali. Essi furono sconfitti, come i loro pari in tutta la penisola. Una mattina del r 821, a fine aprile, Byron e Teresa, lei seduta al clavicembalo e il poeta intento a coprire a larghi passi la stanza, espressero la comune disperazione per il destino dell'Italia: «"Ahimè, - esclamò la donna con le lacrime agli occhi, - ora gli italiani devono tornare a darsi all' opera lirica". "Temo, - commentò Byron, - che quella e i maccheroni siano il loro forte". Ma Byron aggiunse anche, individuando una costante della storia contemporanea italiana: "esistono ancora tra loro degli spiriti vivace ».
In Italia oggi il tema del declino e della decadenza è presente nel dibattito pubblico in forma altrettanto penetrante. Esistono molte coincidenze con i primi anni del XIX secolo, soprattutto quanto alla decadenza dei costumi. Ma esistono anche importanti differenze. Una è la sensazione attuale di declino cosmico, nel senso di un mondo invecchiato a rischio di imminente distruzione. Si tratta di un'ansia molto contemporanea, ben lungi dalle preoccupazioni delle generazioni del Risorgimento. Un' altra differenza riguarda il declino economico, che è un'ossessione contemporanea come vedremo tra breve. Una terza differenza riguarda la questione religiosa, cosi presente nell' aspra critica mossa dal Risorgimento alla Chiesa cattolica, ma quasi assente nella critica odierna. Il potere ecclesiastico - economico, politico, mediatico - rimane molto forte in Italia ma bassa è la frequenza ai sacramenti e quella domenicale.
Complessivamente, esiste oggi un senso di insoddisfazione profondo quanto quello di duecento anni fa e forse più insidioso, poiché apparentemente induce passività più che protesta.
Partiamo dalle famiglie. Nessun grande letterato chiama in causa, come fece Foscolo, i modelli di vita famigliare prevalenti. I cicisbei non esistono più da tempo, e altrettanto vale per l'educazione in convento delle ragazze, ma permane un profondo disagio. La vita famigliare contemporanea equivale a una vera e propria educazione a diventare «liberi cittadini», per dirla con Foscolo? Non credo. Sotto un certo profilo oggi i membri delle famiglie sono più liberi e godono di maggiori diritti rispetto al passato - di fare scelte riguardanti la propria vita, di viaggiare, di votare alle elezioni. Sotto un profilo diverso sono intrappolati dai modelli di consumo e di egoismo imperanti che rischiano di essere più perniciosi di quelli del primo Ottocento. Le famiglie italiane hanno molte virtù -la vicinanza emotiva, le forti solidarietà tra generazioni, la capacità profondamente radicata di godersi la vita -, tutte caratteristiche che chi viene dal Nord individualista e più freddo invidia. Ma hanno poche virtù civiche e il modello su cui oggi si basa la vita famigliare, quello del mercato globale, non contribuisce a rendere le famiglie italiane piu consapevoli delle loro responsabilità complessive.
In tutto questo i meccanismi di trasmissione della cultura moderna hanno un ruolo cruciale. Le battaglie culturali decisive non sono più quelle degli inizi del XIX secolo, quando piccoli gruppi di letterati polemizzavano aspramente sui meriti del romanticismo e del classicismo. Esse si collocano invece nella cultura popolare e su scala di massa. La televisione, come è noto, è lo strumento culturale predominante in circa 1'80 per cento delle case italiane. Non è un mezzo, bensì un soggetto, il più potente protagonista culturale della scena contemporanea. La televisione non è un male assoluto, come tentò di teorizzare Karl Popper negli ultimi anni della sua vita. Nella storia italiana essa ha avuto un ruolo essenziale nella diffusione di un'unica lingua nazionale e un senso di comunità nazionale. Ma quando il controllo della televisione è concentrato in pochissime mani e nel caso italiano quasi esclusivamente in due sole mani ben curate, allora è uno strumento profondamente insidioso. Scodella un pasto infinito di soap opera, calcio, varietà e reality show inesorabilmente condito da quantità industriali di spot pubblicitari, tutti orientati a rafforzare il modello «lavora e spendi» della vita quotidiana nel capitalismo consumista. La televisione nella sua forma attuale ci seduce e anestetizza tutti. Nulla in essa, per tornare a Berchet, ci incoraggia «ad altri pensieri ed a più vaste intenzioni»!'.
In termini storici la Repubblica italiana, fondata nel 1948, sotto molti aspetti è stata un successo - la sua costituzione è una delle migliori del mondo, la sua popolazione è uscita dalla miseria, il livello di partecipazione politica resta tuttora fra i più alti d'Europa. La storia italiana, detto altrimenti, è stata caratterizzata da un pluralismo e un progresso reali20• E sebbene la pubblica istruzione lasci molto a desiderare, l'Italia repubblicana, nei suoi più di sessant' anni di storia, è stata in grado di creare cerchie sempre più ampie di cittadini dotati di istruzione superiore.
Eppure la Repubblica 11;0n è rispettata e le sue istiiLuzioni non sono amate. E nel vivere lo stato che le nostre esperienze divergono da quelle del primo XIX secolo. I patrioti ottocenteschi avevano un forte senso di identità nazionale, intesa come unità geografica, linguistica e culturale, ma non avevano uno stato. Fu proprio nell'incapacità storica di costruire uno stato unitario che essi identificarono una delle maggiori carenze degli italiani. Oggi l'Italia ha uno stato, ma scarso senso della nazione. I due concetti _ stato e nazione - sono intimamente correlati in termini sia teorici sia pratici. Nel caso italiano il senso di identità nazionale è stato profondamente minato da uno stato che si è rivelato spesso inadempiente, dotato di leggi complesse e incerte, di una pubblica amministrazione zoppicante e corrotta, di un sistema giudiziario dalla lentezza esasperante. Il dodicesimo rapporto annuale Gli italiani e lo stato (dicembre 2009) indica un livello straordinariamente basso di fiducia nelle istituzioni dello stato repubblicano; mentre il presidente della Repubblica gode della fiducia del 70,3 per cento della popolazione adulta, e il sistema scolastico di un sorprendente 57,5 per cento, la fiducia nel parlamento è crollata al 18,3% e quella nei partiti politici a un misero 8,621.
Da questa inadeguatezza istituzionale di fondo è nata una vita politica caratterizzata in superficie da polemiche di forte intensità, addirittura melodrammatiche, ma da una scarsa efficacia riformatrice. La destra ha scelto una versione personalistica e populista - ad alto rischio - della politica moderna. La sinistra pare totalmente disorientata dagli eventi degli ultimi vent' anni, incapace di reagire alla fine del comunismo, priva in gran parte di idee o di coraggio intellettuale. I tentacoli della partitocrazia, creazione collettiva della classe politica italiana, si spingono fin nelle viscere della società, controllando ne le risorse e distribuendole in maniera assai discutibile.
La reazione a questo stato di cose negli anni 1992-1994 assunse la forma non di una rivoluzione - ormai evenienza sempre più rara - ma di una campagna, combattuta in primo luogo dalla magistratura, per ripulire la vita pubblica italiana. Per un breve lasso di tempo !'Italia fu in prima linea in Europa con una magistratura relativamente indipendente in guerra contro la corruzione di politici, imprenditori e amministratori. Gli avvenimenti del 1820-21 e quelli del 1992-94, ovviamente diversi sotto molti aspetti, presentano nondimeno interessanti analogie. I rispettivi protagonisti volevano porre la vita pubblica italiana su basi completamente diverse, costituzionali nel primo caso, legaliste nel secondo. Ma in entrambi i casi essi erano troppo isolati in seno alla società italiana perché le vittorie iniziali si consolidassero. Nel caso degli anni 1992-94, l'isolamento ebbe carattere politico, con il partito ex comunista incapace di cogliere il momento e porsi con chiarezza alla guida della coalizione riformatrice. Soprattutto mancò la partecipazione di una cospicua parte del paese. I magistrati invocavano un ritorno generale alla legalità, ma questo avrebbe costretto molte famiglie a porsi una serie di domande decisamente scomode sul proprio comportamento, su quanto la cultura politica dominante fosse anche la loro stessa cultura.
Il fallimento del 1992-94 indica che 1'efficace definizione del Sismondi di un'Italia «corrotta e snervata» è pertinente oggi come nel 1833, A dire il vero, se allora si avvertiva uno stato più o meno costante di decadenza dell'Italia, oggi è quanto mai reale la sensazione di rapido declino, Nelle statistiche annuali riguardanti la percezione della corruzione a livello globale pubblicati da una Ong berlinese, Transparency International, l'Italia continua a perdere terreno: (i,t1 31° posto nel 2002 è passata al41° nel 2007, al 2000 nel 2008 e addirittura al 63° nel 2009, Ormai è preceduta da paesi come Turchia, Cuba, Namibia, SaIlloa, Giordania e Bahrain, per citarne solo alcunj22, I governi di Silvio Berlusconi, che hanno detenuto il potere per la maggior parte dell'ultimo decennio (2.001-6, 2008-10), non hanno mai dato l'impressione di preoccuparsi di questo drammatico deteriorarsi della morale pubblica. Al contrario, gran parte della legislazione approvata, come ad esempio la parziale depenalizzazione del falso in bilancio, i frequenti condoni edilizi, la nuova normativa sulle grandi opere e sulle infrastrutture, lo scudo fiscale che consente il rientro in patria dei capitali illegalmente esportati su pagamento di una ridotta ammenda, ha agito contro la trasparenza, la concorrenza e il controllo, e in favore di un capitalismo rampante e clientelare).
È in questo contesto di declino della morale pubblica che va collocata la continua espansione delle organizzazioni criminali in tutta la penisola. Un tempo era la mafia siciliana a catalizzare l'attenzione mondiale e gli studi accademici. Non è piu COs1. Il diffondersi dell'illegalità in alcune parti della Puglia, della Campania e della Calabria, in precedenza relativamente immuni, le sempre più numerose connessioni tra i gruppi criminali e l'economia del Centro e del Nord del paese, la corruzione che pervade i rapporti sociali descritta da Roberto Saviano nel suo famoso Gomorra, sono prova dell'avanzare di un cancro che non trova paralleli nell'Italia dei primi decenni dell'Ottocento.
Data la drammaticità di questa situazione sociomorale - che invoca una radicale azione riformatrice - lo storico può solo osservare con stupore che il dibattito prevalente sul declino della nazione, che assorbe le energie e le risorse delle élite alla guida del paese, ha per oggetto quasi interamente l'economia. Siamo sommersi da parametri sia effimeri, come i dati quotidiani sull'andamento della borsa, sia più durevoli, come la crescita annuale del Pil, misurata sia in volume totale sia pro capite. Complessivamente i dati economici di questo tipo indicano un lento ma inesorabile declino dell'Italia e quelli del commercio mondiale mostrano un deciso calo per l'Italia in termini percentuali di attività di vendita di merci e di servizi commerciali negli ultimi dieci anni.
La prosperità economica conta - è effettivamente uno dei principali pilastri su cui le nazioni costruiscono la loro storia. Ma non può essere l'unico metro di comparazione del benessere. Adam Smith fu un grande economista ma era anche professore di filosofia morale all'Università di Glasgow. Scrisse La ricchezza delle nazioni (1776) ma anche La teoria dei sentimenti morali (1790). La necessità di ravvivare il legame tra economia e morale - usandolo come metro per valutare l'operato del governo - è oggi un imperativo assoluto.
Inoltre non è solo la mole di ricchezza che conta - l'Italia, pur in relativo declino, resta tra le dieci maggiori economie del mondo -, ma come viene distribuita. L'Italia, come vedremo, è uno dei più diseguali tra i paesi capitalisti avanzati. Anche se il divario reddituale tra i ricchi e i poveri in Italia non è cresciuto drammaticamente negli ultimi trent'anni come in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, resta assai ampio. Per qualunque repubblica degna di questo nome si tratta di un criterio di valutazione ufficiale. Tanto più dal momento che studi recenti hanno dimostrato che il Pil pro capite è un indicatore assai meno significativo del generale benessere di una nazione rispetto alla forbice tra il 20 per cennto piti ricco e piti povero della popolazione. Il disagio interno alla nazione è proporzionale all'entità del divario. Entrerò nel dettaglio di questa tesi nel mio secondo capitolo.
Torniamo all' Italia di Canova, in lacrime sulla tomba dell' Alfieri. Nessuna raffigurazione della nazione è a mio giudizio più distante dai modelli di genere prevalenti nell'Italia contemporanea. Benché le donne italiane siano più istruite, più libere e godano di maggiori diritti rispetto a qualunque altra epoca nella storia dell'Italia unita, esse soffrono ancora ai margini di una sfera pubblica prevalentemente maschile. Il problema va oltre l'urgente bisogno di parità di genere. Sin dalla sua nascita, la televisione commerciale italiana ha proiettato sul piccolo schermo un'immagine talmente riduttiva della donna da guadagnarsi un dubbio primato in tutta Europa; I rapporti di genere nella cosiddetta tv "generalista" sono caratterizzati dall' onnipresenza di presentatori e comici maschi di mezza età che hanno voce e potere, accompagnati da soubrette semivestite il cui ruolo è di sorridere, danzare e applaudire, senza parlare. La telecamera le inquadra dal basso e di schiena evidenziandone in ogni possibile occasione i dettagli anatomici. Raramente lo sguardo erotico maschile è stato costruito in maniera cosi cruda e infantile, e le donne cosi palesemente ridotte a oggett028. Ad alcuni lettori questo aspetto potrà forse apparire di relativa importanza, ma non esiste miglior indicatore della salute o del malessere di una nazione della sua autorappresentazione in termini di genere.
Il 19 novembre 1810, lo storico svizzero Sismonn, scrisse alla contessa di Albany per manifestarle apprezzamento per il monumento in Santa Croce di cui la nobildonna era committente. Trovava la personificazione dell'Italia di «rara beltà, toccante e nobile» come una «regina in lutto». Ma osservò anche come ella non fosse parte integrante del sepolcro, bensì separata, una «spettatrice» nella «folla raccolta a piangere il trapasso del grand'uomo»29. In termini metaforici dobbiamo puntare su,questa immagine di un'Italia staccata dalla tomba. E tempo che smetta ti i piangere, riponga il fazzoletto, raccolga la cornucopia e inceda maestosa tra la folla di piazza Santa Croce. Nel bene e nel male il suo paese la aspetta.

Capitolo primo
Vale la pena di salvare l'Italia?

Il primo interrogativo a cui rispondere è quello che dà il titolo al capitolo. Ponendolo in termini così netti si rischia di esser guardati con sospetto da tutti coloro che si considerano buoni patrioti, a cominciare dal presidente della Repubblica. Ma si tratta di un dubbio storico del tutto legittimo, difficile da sciogliere, che spalanca ampi orizzonti di discussione. Forse urterò meno suscettibilità formulandolo in modo più generico: vale la pena di salvare le nazioni? La storia non dà al quesito una risposta univoca.

1. La consolante dottrina del progresso.

Partiamo dagli intellettuali del Risorgimento, le voci che riempiranno questo libro. Come è prevedibile non ebbero esitazione a rispondere affermativamente. Salvare l'Italia facendo l'Italia era proprio la raison d'etre del loro impegno civico, l'ideale a cui molti erano pronti a sacrificare la vita. Della validità di tale sacrificio era convinto Luigi Settembrini, patriota napoletano, condannato al carcere a vita per la parte avuta nella rivoluzione del 1848. Trascorse otto anni nell' ergastolo dell'isola di Santo Stefano e, deportato in America assieme ad altri prigionieri politici, fu salvato in modo romanzesco dal figlio, che dirottò la nave su cui viaggiava, convincendo il capitano a sbarcare i prigionieri a Cork nell'Irlanda del Sud. Settembrini, che nel 1873 fu nominato senatore del novello regno d'Italia, non aveva dubbi sulla validità dei sacrifici suoi e dei suoi compagni patrioti. Parlando nel 1861 a un pubblico di giovanette napoletane osservò che gli appartenenti alla sua generazione avevano compiuto un'impresa reputata impossibile: ottenere l'unità e l'indipendenza italiana in meno di mezzo secolo. Durante il lungo periodo buio di oppressione e di carcere, privati dell'opportunità di seguire la crescita dei propri figli, «patimmo tutte le ingiurie e tutti gli oltraggi». Molti patrio- I ti erano caduti, tra loro «due illustri donne napoletane, che ebbero nobile cuore e beata vena di poesia, Eleonora Fonseca, morta sul patibolo il 1799, e Giuseppina Guacci, morta di crepacuore nel 1848». Ma molti riuscirono infine a vedere «la nuova alba», ad accogliere la «sacra fiaccola della libertà» e a «diventare italiani». Settembrini narra questo processo in termini che richiamano la sequenza cristiana della sofferenza, del martirio e della salvezza finale!.
Il costituirsi della nazione e il progresso umano andavano dunque di pari passo. Questa tesi travalicò i confini politici del Risorgimento e fu condivisa, pur in maniera diversa, da Camillo Cavour e Carlo Cattaneo, da Giuseppe Mazzini e Daniele Manin. A sostenerla con maggior eloquenza fu indubbiamente Cattaneo, il docente universitario che aveva guidato, suo malgrado, i moti milanesi del marzo 1848 e fu costretto all' esilio a Lugano dopo il fallimento di questi ultimi. In una lettera al «Times» del 12 gennaio 1859, nel momento in cui la crisi italiana toccava l'apice su quella europea, accenna al concetto di nazionalità come al «massimo dato morale della nostra epoca»2. Per Cattaneo, come per molti intellettuali dell'Ottocento, la storia era in marcia, avviata in direzione positiva. La formazione delle nazioni costituiva un elemento intrinsecamente benigno di tale processo.
La teoria della storia di Cattaneo, che assume notevole rilevanza per il nostro argomento, andava conn11'0 la tradizionale convinzione (sostenuta da Campanella e Machiavelli fino a Vico) che la dinamica storica fosse un «circolo fatale», cui l'umanità non poteva sottrarsi. Alla grandezza degli imperi e al progresso dell'umanità seguivano inevitabilmente il declino e la decadenza; la storia si configurava come una sequenza di spirali che elevavano l'umanità solo per farla poi riprecipitare. Cattaneo invece si appellava a una dinamica che definì, in modo accattivante, «la consolante dottrina del progresso»'. Dall'epoca della Rivoluzione francese in avanti, sosteneva, l'umanità aveva compiuto progressi straordinari, eppure 110n mostrava segni di regressione, non esisteva proova che il «circolo fatale» della storia si fosse inesorabilmente rimesso in moto, che l'umanità fosse sul punto di entrare in un'altra epoca buia. Al contrario. Il XIX secolo vide gli albori di una nuova èra tecnica e civica, in cui il progresso era evidente ovunque si posasse lo sguardo, «fra tanto incremento di luce e tanto trionfo delle idee».
Ma la «consolante dottrina del progresso», quanto meno nella versione di Cattaneo, non era affatto lineare, autocelebrativa o semplicistica. In uno splendido e complesso passaggio egli sostiene che il progresso prese «le indirette e tortuose vie» e che l'umanità passò da un errore all'altro, da un eccesso all'altro «verso la meta della scienza e della civiltà». Queste terribili fluttuazioni della storia e i loro esiti inattesi erano nondimeno parte integrante di una dinamica di complessivo avanzamento:

Quante volte le violenze del fanatismo prepararono inaspettate le transazioni della tolleranza, li oppressori crearono la forza morale che produsse l'emancipazione, le repubbliche municipali fondarono la potenza e lo splendore delle monarchie, e il concentramento del potere dispose il campo alla libertà popolare".

Questa visione della storia era realmente "consolatoria" nel 1839 - quando Cattaneo scriveva - e lo è per noi oggi.
Altri leader del Risorgimento sposarono la causa del progresso, benché non in maniera analoga né con la stessa forza intellettuale. Camillo Cavour ne è un esempio calzante. In un famoso discorso al parlamento piemontese il9 febbraio 1859, tenuto a poche settimane di distanza dalla lettera di Cattaneo al «Times», Cavour sostenne la stessa tesi in altra forma6• I due uomini erano assai distanti come credo politico e potere di influenza: il monarchico Cavour al centro di una vasta rete di rapporti diplomatici su scala europea, il repubblicano Cattaneo poco ascoltato dal suo esilio in Svizzera, non più di una pedina nella saga del Risorgimento. Ma entrambi eraa110 anglofili - Cattaneo aveva sposato una donna anglo-irlandese, Anna Woodcock, e Cavour era stato spesso accusato di essere, parole sue, un uomo soverchiamente anglomano. Nel suo discorso parlamentare del febbraio 1859 Cavour espresse, con un impatto straordinario, idee simili a quelle di Cattaneo soltanto all'ineluttabile progresso della storia, ma assegnò un ruolo decisivo di motore di questa evoluzioo11e all' opinione pubblica inglese progressista. Essa aveva lottato per l'emancipazione dell'Irlanda e la liberazione degli schiavi neri e si sarebbe mobilitata anche per la causa dell'indipendenza italiana:

lo so, e so per esperienza che davanti al pubblico inglese la causa della giustizia e della verità finisce sempre per trionfare; io so che i principi di libertà, le cause nobili e giuste trovano in quel popolo generoso ardenti ed eloquenti difensori [ ... ] I contrasti possono essere lunghi, ma la riuscita è certa. lo mi ricordo la gran lotta alla quale diede luogo l'emancipazione dell'Irlanda, e me ne ricordo altresi il trionfo; rammento ancora la lotta più lunga, più ostinata a cui diede luogo l'emancipazione della razza dei neri, questa gran causa, la quale era oppugnata da potentissimi interessi dei coloni e dai pregiudizi di quasi tutte le classi commerciali dell'Inghilterra. La causa dell'Italia, o signori, non è meno valevole a scuotere gli animi generosi, di quella degli Irlandesi, di quella della razza nera (con calore). Trionferà anch'essa al cospetto del tribunale dell'opinione pubblica inglese (sensazione)'.

La visione del Risorgimento era quindi chiarissima: l'unificazione italiana, la rinascita del paese dopo secoli di schiavi tu, declino e decadenza, era uno degli eventi straordinari che segnarono il progresso dell'umanità nell' era moderna.

2. Le figure profonde.

Purtroppo la storia non finisce qui. Il nazionalismo presenta lati oscuri da cui certo l'Italia non è esente. Il discorso nazionalista - di ogni tipo di nazionalismo - divide il mondo tra "noi" e "loro", creando continuamente "l'altro" da temere, da odiare e da combattere. Considera l'identità nazionale un sistema di valori assoluti a cui subordinare necessariamente il resto. Il discorso nazionalista inoltre "naturalizza" il nazionalismo nel senso che lo fa apparire naturale come l'aria che respiriamo. Come osservava il socialdemocratico austriaco Otto Bauer già nel 1924, se pensiamo alla nostra nazione, ci vengono alla mente la patria, la casa paterna, i giochi dell'infanzia, il maestro di scuola, i baci che ci hanno emozionato, e un senso di piacere ci pervade. Ma il processo non si ferma all'innocente celebrazione dell' appartenenza. Alla fin fine identificando la nazione con il proprio io le persone (soprattutto gli uomini) sono spinti a uccidere o a morire per essa. In un recente e agghiacciante saggio sul nazionalismo americano gli autori si domandano quale sia il collante della nazione. La risposta è inequivocabile: il sacrificio di sangue. «La creazione di sentimenti tanto forti da tener unito il gruppo esige periodicamente la morte volontaria di una significativa quota dei suoi membri [ ... ] questo rituale trova la sua massima espressione nella guerra».

Nei suoi innovativi studi sul discorso nazionalista in Italia e in Europa nel XIX secolo, Alberto Mario Banti ha esaminato molte delle ombre del nazionalismo, quelle che vorremmo dimenticare ma che sono onnipresenti. Nello «spazio delle figure profonde», casi lo definisce Banti, la nazione è rappresentata in vari modi. Innanzitutto come un'unica famiglia allargata che affonda le radici neJla storia remota e si proietta nel lontano futuro. E una comunità di discendenza, unita da vincoli di sangue, che condivide caratteristiche etniche comuni, la stessa lingua e le stesse memorie storiche. Essa occupa un territorio specifico i confini del quale possono essere (e mollo spesso sono) oggetto di aspre contese e infine di guerre con i vicini trasformati in nemici.
La seconda figura profonda è quella che assomma amore, onore e virtù. Il compito degli uomini della nazione, guerrieri maschi, è di difendere l'onore delle persone amate, soprattutto di sesso femminile. La necessità di proteggere la purezza e l'onore delle donne della nazione e di vendicare la violenza sessuale perpetrata su di loro dai nemici diventa una narrazione ricorrente.
La terza e ultima figura si incentra sul duplice tema della sacralità e del sacrificio, che ci conduce nel regno della sofferenza, del lutto e della morte. Il nazionalismo diventa esperienza sacra e la salvezza del paese si ottiene necessariamente per il tramite di una lunga serie di martiri. E questo il senso delle parole di Settembrini citate all'inizio del presente capitolo. Nell'Europa cristiana il discorso della sofferenza e della morte finalizzate alla redenzione altrui gode naturalmente di enorme risonanza. Il nazionalismo è un credo molto meno laico di quanto parecchi di noi vorrebbero crederei'.
Guardare alle nazioni con questi occhi, riconoscerne il lato oscuro, esaminarne le figure profonde, è un processo salutare, l'antidoto necessario ad atteggiamenti sconsiderati di appartenenza ed esaltazione. Tuttavia gli storici manifestano una giusta cautela nei confronti di ogni tentativo di fissare un unico modello statico e immutabile di discorso e di prassi nazionale. Le nazioni e il nazionalismo, pur vantando importanti elementi di continuità, mutano nel tempo.
Assumendo come campo di indagine la storia italiana ed europea dell'Ottocento, possiamo identificare intorno alla metà del secolo uno spartiacque decisivo in questo senso. Il momento utopico della «primavera dei popoli» del 1848 fece pensare che ogni nazione puntasse a un futuro autonomo e pacifico. Nel Lombardo- Veneto si verificarono insurrezioni spontanee antiaustriache. A Venezia il 22 marzo 1848 l’avvocato di origine ebraica Daniele Manin, ritrovatosi a capo della rivoluzione cittadina, ritto sul tavolo di un caffè in piazza San Marco, circondato da arsenali di giovani borghesi cinti di fasce tricolori, proclamò la nuova Repubblica. Il suo era un messaggio di fraternità, non violenza, federalismo e moderazione:

Noi siamo liberi, e possiamo doppiamente gloriarci di esserlo, giacché lo siamo senza aver versato goccia né del nostro sangue né di quello dei nostri fratelli; perché io considero come tali tutti gli uomini. Ma non basta aver abbattuto l'antico governo; bisogna altresì sostituirne con Lino nuovo, e il più adatto ci sembra quello della Repubblica, che rammenti le glorie passate, migliorato dalle libertà presenti. Con questo non intendiamo già di separarci dai nostri fratelli italiani, ma anzi formeremo uno di que' centri, che dovranno servire alla fusione successiva a poco a poco di questa Italia in un sol tutto. Viva dunque la Repubblica! Viva la libertà! Viva San Marco! ".

Un volantino del 9 aprile 1848 diretto ai «Tedeschi dell' Austria» da parte de «gl'italiani della Lombardia e della Venezia» esprimeva un simile nazionalismo, pervaso dalla convinzione dell'imminente riconciliazione di tutta l'umanità:
Voi, Tedeschi, rientrate gloriosi nella grande famiglia germanica; noi, Italiani, rientriamo nella nostra cara famiglia italiana. Non più si parli di oppressori e di oppressi, non più odi, non più rancori; noi siamo tutti liberi; saremo amici e fratelli".
Cattaneo sintetizzò in modo inimitabile le convinzioni di quel momento: ogni nazione scrisse, «vide che la libertà delle altre era condizione necessaria alla sua».
Ma solo in rare e fuggevoli occasioni il linguaggio del nazionalismo assunse questi toni. Anche nell'esperienza del 1848-49, troviamo movimenti nazionali in lotta per l'egemonia sullo stesso territorio - magiari contro rumeni e altre minoranze in Ungheria, tedeschi contro cechi ecc. I decenni successivi alla sconfitta delle rivoluzioni del 1848-49 (Venezia fu l'ultima città europea a cadere nell' agosto 1849), videro mutamenti cruciali nel carattere del nazionalismo. Non solo i nazionalismi si moltiplicarono in tutto il continente, con una scia di grande instabilità, ma vennero alla ribalta nuove dottrine di superiorità e inferiorità razziale. Al contempo il darwinismo sociale, l'applicazione alla storia umana delle teorie di Darwin sulla sopravvivenza del più forte, forni altre frecce velenose all' arco del discorso nazionale. Le nazioni come l'Italia passarono rapidamente da una fase di liberazione nazionale a una di competitività internazionale. L'antagonismo assunse forma non solo di dispute su territori di confine, ma sempre più di aspre tensioni su scala mondiale, nel momento in cui le nazioni più potenti rivendicavano ciascuna per sé una parte dei territori ancora oggetto di conquista. Lo storico Peter Gay ha giustamente titolato il terzo volume della sua grande opera sulla cultura borghese dell'Ottocento The Cultivation o/ Hatred, poiché gli imperialismi rivali si prepararono per un bagno di sangue senza precedenti, tragico e spaventoso: la Prima guerra mondiale.
Gran parte della storia del xx secolo, invece di rompere con questo terribile passato, lo confermò e lo rafforzò - con l'aggravante che i nemici erano identificati tanto all'interno che all' esterno dei confini nazionali, e lo stato-nazione era dotato quanto mai prima di risorse di controllo e repressione. "L'altro" veniva definito soprattutto in termini di razza, ma anche politici e di comportamento sessuale. Il nemico divenne kulako, ebreo, armeno, omosessuale, zingaro e cosi via. Nella lotta per la sopravvivenza il territorio nazionale doveva essere ripulito di ogni elemento estraneo, a prezzo di milioni di vite. Ci vollero altri sei anni di guerra mondiale per difendere l'umanità dai progetti micidiali del nazifascismo. E nel frattempo si svilupparono armi capaci di sterminare l'intera umanità. Oggi, all'inizio del XXI secolo, la «consolante dottrina di progresso» di Cattaneo ha perso fascino e veridicità. E neppure la teoria circolare della storia umana di Vico risulta adeguata. Nonostante i progressi in campo medico e scientifico, nell'istruzione e nella comunicazione, l'umanità pale avviata su un pendio che porta all' autodistruzione. Il contributo del nazionalismo a questo processo è stato tutt' altro che secondario. Quasi sempre gli interessi dei singoli stati-nazione hanno prevalso sulla più ampia adesione all'obiettivo del bene complessivo dell'umanità.

3. Patriottismo e nazionalismo.

Se storicamente le nazioni si sono comportate quasi sempre in questa maniera - e persino la progressista Gran Bretagna, cara, al Cavour, si lordò più volte le mani di sangue durante la sua lunga storia imperialista - come è possibile sostenere che vadano salvate e appoggiate?
Bisogna tener conto che le generazioni del Risorgimento non portavano sulle spalle il fardello di siffatte storie nazionali negative. Superare il loro passato - concepito come secoli di umiliazione, divisione e schiavisti - era senza dubbio un'impresa formidabile ma relativamente più semplice sotto il profilo morale e politico. Bisognava restituire dignità alla nazione, liberare il patrio suolo dal dominio straniero e dare agli italiani la possibilità di decidere del proprio destino. Il nostro passato esige invece soluzioni ben più complesse e a poco serve sperare che basti sventolare bandierine tricolori di plastica e intonare in qualche modo la mediocre melodia di un uomo molto amabile, Goffredo Mameli.
Esiste tutta una letteratura internazionale che affronta il problema della storia negativa delle nazioni ponendo una fondamentale distinzione tra nazionalismo e patriottismo1s. Essa trova i suoi più illustri rappresentanti in un piccolo gruppo di autori degli anni Trenta e Quaranta del Novecento, cui toccò il compito di rimettere in discussione l'idea di nazione durante gli sventurati anni Trenta e la successiva guerra mondiale. Nel maggio 1945 George Orwell, nell'articolo Notes on nationalismo, tracciò una prima importante distinzione tra i due termini. Per «patriottismo» egli intende la devozione a un particolare luogo e stile di vita «che si reputa il migliore del mondo ma che non si vuole imporre ad altri». Esso ha una connotazione essenzialmente difensiva, sotto il profilo sia militare sia culturale. Il nazionalismo, invece, «è inscindibile dal desiderio di potere». È per sua stesssa natura aggressivo ed espansionista, esige che i suoi adepti dissolvano in esso la propria individualità sospendendo la capacità di giudizio. Il patriottismo per Orwell è espressione di un affetto intimo, mentre il nazionalismo è espressione, a sua volta, di un odio a stento trattenuto, proiettato all' esterno.
Il patriottismo di Orwell stesso assume la forma di un amore esasperato per l'Inghilterra, vista come «una famiglia con a capo i membri sbagliati», governata da «zii irresponsabili e zie inferme »20. Nel 1937, di ritorno dalla Spagna dove aveva combattuto a fianco dei repubblicani nella guerra civile, diede sfogo a tutta la sua gioia per esser tornato vivo nel suo paese, avendo rischiato di morire per un altro. Il patriottismo che si esprime al termine di Omaggio alla Catalogna è commovente per come collega patria e paesaggio, l'Orwell bambino di campagna e 1'Orwell adulto cittadino, il socialista repubblicano inquieto e 1'amante delle tradizioni e della stabilità della sua terra natia:

Qui si era ancora nell'Inghilterra che ho conosciuto nella mia infanzia: le scarpate lungo la ferrovia ricoperte di fiori selvatici, i prati dall'erba alta dove grandi cavalli lustri brucano e meditano, i lenti ruscelli in mezzo ai salici, le verdi distese di olmi, la speronella nei giardini delle casette di campagna; e poi il grande deserto tranquillo della periferia londinese, le chiatte sul fiume fangoso, le strade familiari, i manifesti che annunciano gli incontri di cricket e i matrimoni della famiglia reale, i signori in bombetta, i piccioni in Trafalgar Square, gli autobus rossi, i poliziotti in blu - tutti addormentati nel profondo, profondissimo sonno dell'Inghilterra, da cui a volte temo non ci sveglieremo mai finché non ne saremo strappati di colpo dal boato delle bombe",

Il patriottismo di Simone Weil ha molti punti di contatto con quello di Orwell. Spinta dalla Resistenza francese nel 1943 a scrivere sul tema delle radici nazionali, questa giovane filosofa ebrea destinata a morire tragicamente di tubercolosi (la stessa malattia che uccise Orwell) condivise con lui sia il profondo amore per la patria sia la forte criticità verso la nazione. Nella sua ultima opera, La prima radice (pubblicata postuma nel 1949), ella sintetizza in maniera mirabile il radicato senso di appartenenza dei francesi, la sua natura viscerale, tangibile e intangibile al contempo. I francesi, scrisse,

sanno che una parte della loro anima è talmente legata alla Francia che se la Francia le viene tolta quella parte vi rimane aderente, come la pelle a un oggetto bruciato, fino a lacerarsi. C'è quindi qualcosa cui è unita una parte dell'anima di ogni francese, la medesima per tutti, unica, reale benché impalpabile, e reale come le cose che si toccano".

Tutto questo non coincideva affatto, sosteneva, con il nazionalismo francese, che trovava la propria espressione nella sete di potere, nella mania di "grandezza" e nella smania dell'impero.
La tesi della Weil si spinge oltre quella di Orwell ed è tanto più suggestiva in quanto non principalmente descrittiva, come quella orwelliana, bensi utopica. Nel 1937 ad Assisi la Weil si avvicinò fortemente al cristianesimo in chiave mistica e ciò era destinato ad avere profondo impatto su tutto il suo pensiero successivo. Nel 1940 le menzogne e la pusillanimità delle élite francesi, la precipitosa resa ai nazisti e la nascita del regime collaborazionista di Vichy condussero la Weil, assieme a molti altri, a esprimere profonda vergogna per il loro paese. La coscienza della nazione era andata perduta. Era tempo, cosi scrisse in La prima radice, di un radicale ripensamento: «Se gli avvenimenti attraverso i quali siamo passati recentemente non sono sufficienti ad avvertirci di dover cambiare il nostro modo di amare la patria, quale lezione ci potrà mai istruire ?»2J.
La risposta che diede poggiava su basi assai diverse da quelle della "grandeur". Ella invitò i suoi compatrioti a essere compassionevoli nei confronti del loro paese, come si farebbe con un bambino piccolo o i genitori anziani, oppure la donna amata. La Francia non era una forza permanente, potente, nel mondo, bensì «una cosa bella, preziosa, fragile e peritura». La compassione per la fragilità, sosteneva la Weil, è «sempre legata all'amore per la vera bellezza» e di conseguenza è vicinanza a Dio.
In tal modo ella collegava l'amor patrio ai valori cristiani di umiltà e compassione, aggiungendo inoltre elementi fondamentali quali la necessità di rispettare la diversità - diversità regionale in primo luogo -, di combattere la xenofobia, di garantire il pluralismo di opinioni (<<A un paese come il nostro la varietà e il ribollimento delle idee non può mai fare del male »); infine di aiutare il patriottismo a trovare espressione nella quotidianità, «ininterrotta, in qualsiasi occasione, persino in quelle pili banali».
La Weil era ben consapevole di chiedere l'impossibile, ma non aveva difficoltà a teorizzare l'utilità di tale impossibilità:

II metodo di azione politica qui accennato supera le possibilità dell'intelligenza umana, almeno per quanto se ne sa. Ma proprio questo ne fonda il valore. Non bisogna chiedersi se si è capaci o no di applicarlo. La risposta sarebbe sempre negativa. Bisogna concepirlo in modo assolutamente chiaro; affissarlo a lungo e spesso; affondarlo per sempre in quella parte dell'anima dove i pensieri si radicano; e tenerlo presente in ogni decisione. E forse possibile, in questo caso, che le decisioni, benché imperfette siano buone.

Chiude la triade l'antifascista italiano Carlo Rosselli, che affrontò pili volte questi temi prima di essere assassinato in Francia nel 1937, a Bagnolesl'Orne, per mano di una squadraccia della destra locale, probabilmente agli ordini della polizia segreta fascista. Rosselli non giunse alla fama di Orwell, né toccò la profondità della Weil, ma la sua, al pari delle altre, è una voce coraggiosa, pronta ad andare controcorrente. Egli aveva a cuore l'ideale del patriottismo e voleva salvarlo da due diversi, pericolosi nemici. Uno era il nazionalismo fascista, che aveva trasformato l'amore per la patria in espansionismo aggressivo, e gli eroi del Risorgimento in protofascistio L'altro era l'internazionalismo marxista, che puntava a minimizzare l'importanza dell'amor patrio in nome di pili vaste lealtà. Non era un bene, sosteneva Rosselli nel 1935, accettare un internazionalismo che significava solo «asservimento alla politica russa». L'internazionalismo era un obiettivo prezioso, ma «per esistere deve salire dal basso verso l'alto, farsi positivo, vivere prima nella personalità singola, nella classe, nella patria». La rivoluzione antifascista italiana cui Rosselli dedicò i propri sforzi avrebbe guadagnato rispetto grazie alla «validità universale dei suoi motivi e della concretezza europea della sua politica». Parole sagge e lungimiranti queste, che furono quasi del tutto dimenticate nei successivi dibattiti sull'identità nazionale italiana.
Cosi, nella visione del socialismo liberale di Rosselli, «l'attaccamento alla patria» meritava onore.
Era il fondamento, non l'antitesi, dell'internazionalismo, nonché la preziosa base della futura Europa democratica costruita dal basso.

Da questa breve analisi dei tre autori, tutti in forte contrasto con le ortodossie politiche del loro tempo, emerge chiaramente la distinzione fra patriottismo e nazionalismo. Il patriottismo era un sentimento semi-inconsapevole, «reale benché impalpabile», come scriveva la Wei1. Era l'amore per un luogo, la sensazione di appartenervi, la celebrazione di storie, sia personali sia pubbliche. Era fatto di memorie e tradizioni, paesaggi e itinerari, poemi e dipinti, canti, sia laici sia religiosi, cibo e bevande. L'assommarsi di tutti questi elementi rendeva la patria straordinariamente preziosa, ma anche fragile, facilmente dirottabile ad altri propositi. Il patriottismo aveva carattere difensivo, non aggressivo, benché la Weil avesse idee diverse rispetto agli altri due autori su come difendere la patria. Il suo era un patriottismo cristiano e pacifista, mentre Orwell e Rosselli credevano di più nelle virtù e nel coraggio civico nati dalla guerra di popolo.
Tuttavia la distinzione fra patriottismo e nazionalismo è potenzialmente più valida come strumento per leggere il futuro piuttosto che il passato. Certo non può essere assurta a distinzione storica, perché i concetti di nazionalismo e patriottismo si intrecciano ripetutamente e vengono usati in forma congiunta piuttosto che separata. Né si può sperare di enucleare precisi periodi storici in cui il patriottismo trionfi sul nazionalismo. Ci furono sprazzi di luce, come nella primavera del 1848, si levarono voci isolate, ma nulla più. Il patriottismo che vogliamo deve essere ancora costruito.

4. Il posto del!' Italia nel mondo moderno.

Alla luce del dibattito precedente possiamo tornare all'impegnativa domanda di partenza: vale la pena di salvare l'Italia? Ovviamente da neocittadino italiano la mia risposta è un entusiastico «si», anche se bisogna diffidare dei neofiti: hanno spesso la tendenza a entusiasmarsi troppo. Il mio «si» è strettamente legato all'idea di «patria» che ho cercato di delineare in precedenza. Tuttavia l'Italia non è solo una patria, ma anche uno stato nazionale e qui la risposta si fa più complessa e condizionata. Le nazioni sono brutte bestie. Spesso si sono ben poco distinte per servigi resi all'umanità; in loro nome è stato compiuto ogni tipo di nefandezza. La lealtà acritica e incondizionata alla nazione - «il mio paese nel bene e nel male» - è un approccio letale per tutte le parti in causa, chiaramente per i destinatari ma a lungo termine anche per chi propaga tali ideali. Basti pensare alle sofferenze patite da innumerevoli famiglie tedesche dopo la Seconda guerra mondiale, alle memorie di atrocità commesse in nome della nazione taciute dai padri e alle aspre recriminazioni dei figli nell' apprenderle da adulti. La lealtà a una nazione non si può fondare sulla cieca obbedienza, deve essere legata alla questione del fine.
L'Italia esiste, la sua esistenza va difesa, ma quale è la sua finalità? Che tipo di patria-nazione intende essere l'Italia? Giulio Bollati pose un interrogativo simile nell'ultima parte del suo saggio, giustamente famoso, L'italiano, pubblicato per la prima volta nel 1972.

L'imitazione ci è tanto più interdetta, che il legnaggio pelasgico è la stirpe regia della gran famiglia giaipetica del ramo indogermanico; onde la nostra linea, sovrastando per l'antichità dell'incivilimento e per gli altri privilegi ricevuti dal cielo alle altre schiatte di Europa, non può essere moralmente ligia a nessuna".

L'opera di Gioberti, nonostante gli eccessi, sostiene una tesi che godeva di vasti consensi nell'Italia degli anni Quaranta dell'Ottocento. Il papa, oltre a conferire all'Italia un primato, doveva porsi a capo di una confederazione di principi che avrebbe guidato il paese nella lotta per l'indipendenza. Tuttavia questo sogno neoguelfo non sopravvisse più di cinque anni, fino al momento in cui Pio IX nella sua allocuzione dell' aprile 1848 dichiarò di non essere il papa della nazione italiana, ma dell'umanità intera, austriaci inclusi. Il primato dell'Italia soccombette rapidamente ai più ampi timori e ambizioni del suo principale protagonista religioso.

Circa 170 anni dopo, l'interrogativo continua a porsi, urgente e irrisolto: che posto, se non quello proposto da Gioberti, deve occupare l'Italia nel mondo moderno? Davvero deve limitarsi a eccellere nei melodrammi e nei maccheroni, come prospettavano Byron e Teresa Guiccioli, quella mattina dell' aprile 182 I a Ravenna? Le vecchie iperboli del primato italiano, dure a morire, o la rievocazione dei fasti imperiali o ecclesiastici di Roma, risultano oggi pericolose quanto obsolete. Un approccio più equilibrato mirerebbe piuttosto a mettere in luce certe caratteristiche della storia d'Italia che hanno attinenza con un nuovo paradigma di modernità, certi aspetti che hanno connotato l'Italia in passato e che formerebbero una solida base per il suo futuro. Naturalmente la scelta fra le molteplici particolarità italiane non può che essere soggettiva. Da parte mia posso solo avanzare alcune proposte, sperando che altri facciano lo stesso e si apra un dibattito. E proprio questo l'intento del prossimo capitolo.

Capitolo secondo
La nazione mite

In risposta al pregnante interrogativo posto da Giulio Bollati direi che la via italiana alla modernità passa oggi attraverso quattro elementi fra di loro correlati, tutti presenti in misura diversa nel passato italiano. Due hanno carattere politico, uno di appartenenza geografica, l'ultimo è una virtù. sociale. Il primo elemento risiede nella lunga tradizione di autogoverno urbano presente in Italia, che durante il Risorgimento tocca l'apice nel patriottismo difensivo delle repubbliche democratiche di Venezia e di Roma nel 1848-49. Il secondo è l'intrinseca vocazione europea dell'Italia, in questo così diversa dalla Gran Bretagna. Il terzo elemento è la ricerca dell' eguaglianza, perseguita solo da piccole minoranze nel Risorgimento, ma essenziale per arrivare a dar vita a una repubblica degna di questo nome. L'ultimo elemento della costruzione di un paradigma moderno della nazione è il più. inusuale ma anche potenzialmente il più. efficace: la presenza nella storia italiana della mitezza come virtù sociale!.
Descriverò per sommi capi tali caratteri nell’ambito di questo capitolo, per ritornarvi brevemente alla fine del libro. A scanso di equivoci sottolineo che non mi accingo a sostenere la tesi che questi quattro elementi siano predominanti nella storia d'Italia. Così non è. Né intendo imbarcarmi in un esercizio teologico a indicare l'ineluttabile procedere della storia italiana verso esiti prestabiliti. Nulla garantisce trionfo del modello alternativo che propongo. Mi preme piuttosto rinvenire tracce storiche spesso dimenticate, soprattutto quelle presenti nel Risorgimento, e sostenerne la validità come punti di riferimento per il futuro. Gli elementi individuati non hanno la forza storica delle figure profonde» di Banti. Ma sono 11ondimeno presenze significative nella storia d'Italia, fattori degni di essere identificati e coltivati perché contribuiscono a una visione della nazione moderna assai diversa, che si distacca dal terribile nazionalismo del secolo scorso. Nel ricercarli mi propongo di seguire l'esortazione già ricordata di Simone Weil: «Concepirle in modo assolutamente chiaro ... affondarle per sempre in quella parte dell' anima dove i pensieri si radicano; e tenerle presenti in ogni decisione. E forse possibile, in questo caso, che le decisioni, benché imperfette, siano buone ».

1. L' autogoverno.

All'inizio di questo capitolo è la voce di Carlo Cattaneo a risuonare forte e chiara, come già nel primo.
Cattaneo, e con lui Giuseppe Ferrari, sono a buona ragione considerati i due paladini risorgimentali del federalismo. Nel marzo 2010 la Lega, convinta delle strette analogie tra il pensiero di Cattaneo e il proprio programma, ha istituito la Fondazione Carlo Cattaneo a Besozzo, in provincia di Varese. Che il patriota fosse un eloquente fautore del federalismo è indubbio, ma non è necessariamente vero, come mi accingo a dimostrare, che ne sostenesse la versione propugnata da Umberto Bossi. Né va dimenticato che, pur andando fiero delle sue origini lombarde, Cattaneo era esplicito sul fatto che la virtù non fosse esclusiva prerogativa di un'unica nazione o di un singolo gruppo etnico. Riflettendo sugli accadimenti degli anni 1848-49 egli scrisse: «barbaro può suonare quanto tedesco, quanto francese, quanto italiano; e che dei barbari ogni nazione ha i suoi [corsivo suo]») .
La base su cui Cattaneo fondava la propria tesi politica è l'autogoverno comunale. Nella sua opera più completa sull'argomento, Sulla legge comunale e provinciale (1864), egli chiedeva ai suoi lettori come mai a partire dalla metà del XVIII secolo la Lombardia, benché oggetto di «tante irruzioni straniere», avesse goduto ininterrottamente di una notevole prosperità. La Lombardia, sosteneva fiero Cattaneo, era la regione italiana con il maggior numero di strade, scuole, medici condotti e «ogni altra comunale provvidenza». Era anche la regione che contava il maggior numero di piccoli e piccolissimi comuni. Era plausibile l'esistenza di una connessione tra benessere e autogoverno? Cattaneo era convinto di si. A suo avviso i meriti dei comuni lombardi, di «codesti plessi nervei della vita vicinale»S, per usare la sua memorabile definizione, divennero ancor piu evidenti nel paragone tra Lombardia e Sicilia. Nell'Italia del 1860 era la Sicilia la regione che vantava il maggior numero di abitanti per comune - una media di 668 l. Ma in Sicilia la desolazione regnava sovrana - assenti le strade, pochi i cimiteri, mancanza di istruzione e nessun senso della comunità. In un brano di grande efficacia Cattaneo denunciava questo stato di cose deefinendolo una ruberia ai danni della nazione:

Se le famiglie hanno più d'una mezz'ora o di un'ora di cammino dalle case alla scuola, alla levatrice, al mortario o a qualunque altra parte di necessario servizio vicinale [ ... ] il concetto del comune svanisce; e chi deve contribuire alle sue spese, è frodato [ ... ] Mi valgo di questo vocabolo scortese, per dire ben chiaramente che, quando parlo di diritto comunale, non intendo fare una vana frase; ma parlare del mio e del tuo. E aggiungo per ultimo che anco la nazione è frodata; perché i suoi figli crescono nell'ignoranza [corsivo mio]'.

Per Cattaneo, quindi, la spina dorsale della nazione erano i piccoli comuni ben funzionanti. Essi costituivano «la nazione nel più intimo asilo della sua libertà».

Non erano solo le esperienze recenti della sua regione, bensì la totalità della storia urbana del Centro e del Nord della penisola, la gloria delle sue cento città, a rafforzare la convinzione di Cattaneo che la miglior organizzazione del potere politico partisse dal basso, a opera dei comuni e successivamente delle regioni, e non dall'alto, a opera dello stato-nazione centralizzato. I grandi successi delle repubbliche municipali italiane del Medio Evo ne erano ulteriore conferma. La loro storia, che - come abbiamo visto - era stata narrata da Sismondi e divorata dai giovani patrioti italiani del periodo della Restaurazione (nonché da Shelley e Byron), a giudizio di Cattaneo trasmetteva un messaggio molto chiaro, ossia che l'autogoverno municipale era l'essenza della particolare arte di governo italiana: «pare anzi che fuori di codesto modo di governo la nostra nazione non sappia operare cose grandi»8.
Per Cattaneo autogoverno e presa di coscienza da parte dei cittadini andavano di pari passo. L'autogoverno non poteva esser valido se basato sull'ignoranza e l'interesse personale, oppure se veniva delegato a figure carismatiche di livello locale o nazionale - il moderno equivalente dei principi e dei condottieri. Doveva essere invece un apprendistato, un confronto basato sulle opinioni e gli interessi di ciascuno. Le rivoluzioni degli anni 1848-49 portarono altra acqua al mulino di Cattaneo. L'intera Europa si entusiasmò nel vedere due città italiane, Venezia e Roma, costituirsi in repubbliche democratiche fondate sul suffragio universale maschile e impegnarsi per molti mesi nell' eroica difesa della libertà, municipale e nazionale. Purtroppo per Cattaneo e per il destino del Risorgimento tutto, l'insurrezione milanese del marzo 1848, la più straordinaria di tutte le rivoluzioni europee dell'epoca - a composizione popolare e a guida repubblicana -, non diede vita a un analogo esperimento di autogoverno repubblicano.
All'unità d'Italia, nel 1861, si giunse in maniera del tutto diversa da quanto auspicato da Cattaneo e indicato dalle esperienze di Venezia e Milano. La monarchia piemontese trionfò nell'intera penisola, introdusse un governo fortemente centralizzato e fondò il sistema parlamentare su un suffragio molto ristretto, in base a criteri censitari. Lungi dal salvaguardare le libertà locali e incoraggiare l'autogoverno, il nuovo regno assegnò ampi poteri ai prefetti e ai sindaci.
Tutto ciò era un controsenso per Cattaneo ma nei suoi scritti posteriori al 1860 non v'è traccia apparente di un approccio secessionista. Benché l'Italia fosse stata fondata come stato monarchico e centralizzato, contrariamente ai principi profondamente repubblicani e federalisti di Cattaneo, egli non si dedicò a minarne le basi, bensì a tentare di migliorarla. I suoi modelli erano la confederazione elvetica e gli Stati Uniti d'America. Cattaneo inseguiva il sogno di un equivalente italiano, gli «Stati Uniti d'Italia» li definiva, in cui venisse garantito pieno riconoscimento a culture, sistemi giuridici e tradizioni diverse, e da questa eterogeneità l'Italia unita attingesse forza.
L'ultima considerazione riguarda il nazionalismo consapevolmente attenuato di Cattaneo. Egli trascorse gli ultimi vent'anni della sua vita nel Ticino cui riconobbe una doppia identità: essere insieme parte integrante dell' economia e cultura lombarda ma anche elemento costitutivo della confederazione elvetica. Queste due identità non erano antitetiche. Al contrario, si sovrapponevano senza offuscarsi a vicenda. Lo stesso valeva per l'individuo. Si poteva essere lombardi, ma anche italiani o svizzeri. Le identità individuali potevano benissimo essere composite, limitando cosi il rischio di trasformare in nemico "1' altro".
Sette anni dopo la pubblicazione delle lettere di Cattaneo con il titolo Sulla legge comunale e provinciale, fu realizzato a Parigi il massimo esperimento di autogoverno del XIX secolo. La Comune di Parigi del 1871 nacque in tempo di guerra e fu soffocata dopo soli 71 giorni, i suoi fautori massacrati a migliaia dall'esercito nazionale di Thiers. La Comune era rivoluzionaria quanto a ordinamento interno - era previsto che i delegati fossero eletti a suffragio universale e ricevessero un compenso pari solo al salario di un operaio, i giudici dovevano essere eletti in base agli stessi principì, la burocrazia doveva sottostare al controllo del popolo e 1'esercito essere una milizia popolare. Nei rapporti esterni l'approccio era ancor più radicale, la Comune auspicava la Francia libera federazione di comuni autonomi.

Cattaneo era morto nel febbraio 1869. Sarebbe stato affascinato dalla Comune di Parigi, cosi vicina alle sue idee, e soprattutto dalla proposta di una nuova Francia federale, ma non l'avrebbe approvata. Egli era un liberale e un borghese sino in fondo, uno degli intellettuali più lungimiranti di quella rivoluzione borghese italiana che stentava ad affermarsi nel corso dell'Ottocento. Ma era anche un radicale, anticonformista, che aveva ben chiara in mente la necessità di costruire la democrazia come processo di educazione e presa di coscienza.

L'idea dell'autogoverno è rimasta un filo rosso della storia nazionale, riaffiorando di tanto in tanto con grande intensità. La vediamo in azione nelle pagine di «Ordine Nuovo» di Gramsci, nei progetti di autogoverno sostenuti dal Partito d'Azione nel 194441945, nell'utopia radicale degli studenti sessantottini, nella grande diffusione dei consigli di fabbrica negli anni Settanta, e persino oggi, in chiave minore, nei tentativi di iniettare nel sistema di democrazia rappresentativa in grave crisi una dose di esperimenti partecipativi. Il governo locale italiano continua a essere molto più vivace e partecipato rispetto a quello britannico. In Italia negli anni Novanta l' affluenza media alle urne in occasione delle elezioni amministrative era di poco inferiore all'80 per cento, mentre in Gran Bretagna toccava appena il 35.
Ma bisogna aggiungere che finora nella storia nazionale italiana l'autogoverno, nell' accezione di Cattaneo, non ha mai trovato una forma soddisfacente né piena realizzazione - ha avuto vita breve, sempre soffocato dai politici e dagli interessi personali. Questo non significa però che sia da scartare.

2. Dentro e fuori Europa.
La storia della presenza dell'Italia in Europa negli ultimi due secoli è storia di un potenziale ampiamente irrealizzato. Ciò risulta tanto più strano considerando che il paese, simbolo di bellezza e di libertà, ha ispirato l'immaginario europeo forse più di ogni altro. Nel dicembre r786,Johann Wolfgang von Goethe, a Roma per la prima volta, espresse ammirazione per gli alberi di arancio dei frutteti romani, lasciati crescere spontaneamente: «I frutti pendono a centinaia da ciascun albero, che non è potato e messo in un mastello come da noi, ma vive libero e felice nella terra, in fila con i propri fratelli. Non si può immaginare nulla di più allegro della loro vita>F E qualche giorno prima aveva annotato sul suo diario: «lo conto d'esser nato una seconda volta, d'essere davvero risorto, il giorno in cui ho messo piede in Roma». E straordinario come questo modo nord europeo di vivere l'Italia come una resa perenne di fronte alla storia, alla luce e all' armonia del Bel Paese rimanga costante nel tempo. Spesso si accompagna a un apprezzamento della libertà della sua gente, al pari di quella dei suoi aranci; una libertà non tanto politica quanto di costumi, un modo di vivere essenzialmente libertario in cui gioia e armonia trovano il 1001'0 legittimo spazio.
Esiste però un altro tipo di libertà degli italiani che faremmo bene a tener presente. La "libertà negativa" è divenuta un Leitmotiv della storia d'Italia, e si esprime nel rifuggire da regole e norme, dall' ordine e dalla precisione, dalla legge. Questa "libertà da" ha trovato storicamente espressione anche nell' evadere le tasse ed evitare in generale ogni interferenza da parte dello stato. Si tratta di un retaggio pesante che ha dovuto misurarsi con le diverse tradizioni'europee di definire il rapporto tra cittadino e stato.


L'unità d'Italia, nel r86r, fu celebrata in tutta Europa, eccetto, è ovvio, in Austria. Va detto subito che la componente europeista non ebbe grande sviluppo nel pensiero risorgimentale. Mazzini, è vero, già nel r847, aveva profetizzato «un ampio mercato comune» e i popoli d'Europa in marcia «verso una nuova era di unità, di più intima associazione»15. Anche Cattaneo, proprio in calce alla sua storia Dell' insurrezione di Milano nel r848, scritta nella prima versione in non più di un mese a Parigi nel settembre 1848, annunciò l'avvento imminente di <un'Europa tutta libera e tutta amica», ricostruita «sul puro modello americano [ ... ] Avremo pace vera, quando avremo li Stati Uniti d'Europa».
Spinelli e Rossi propugnaarono la creazione di un partito rivoluzionario, forte, dotato di un'organizzazione centrale, intenzionato a non perdere tempo in chiacchiere. Doveva chiamarsi «Il Movimento per l'Europa libera ed unita» e si poneva l'obiettivo generale di costituire un saldo stato federale, il quale disponga di una forza armata europea al posto degli eserciti nazionali; spezzi decisamente le autarchie economiche, spina dorsale dei regimi totalitari; abbia gli organi e i mezzi sufficienti per far eseguire nei singoli stati federali le sue deliberazioni dirette a mantenere un ordine comune, pur lasciando agli stati stessi 1'autonomia che consenta una plastica articolazione e lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli".
Perry Anderson ha definito, a ragione, il Manifeesto di Ventotene «la più efficace visione di unione del continente emersa dalla resistenza europea».
Tali idee certo non trovarono un pubblico aperto o attento nell'Italia della neonata Repubblica. Ciò nonostante furono oggetto di una di quelle traduzioni indirette e parziali che spesso contraddistinguono il rapporto tra il pensiero radicale e le più prosaiche possibilità della politica. Unico tra i grandi paesi mediterranei, l'Italia divenne membro fondatore del Mercato comune europeo nel 1957. Sia Alcide De Gasperi sia Ugo La Malfa avevano perseguito questo obiettivo con grande determinazione, in barba all' aperta ostilità del Pci e al profondo scetticismo di gran parte delle élite economiche italiane.
Tuttavia, una volta in Europa, l'Italia non diede vita a una particolare visione del proprio ruolo, né a una strategia specifica. Essa non si distinse nella fase ascendente della politica europea - ossia l'identificazione ed evoluzione delle politiche e degli interessi nazionali e la loro introduzione nell' arena europea - né nella fase discendente - l'inclusione della legislazione europea in quella nazionale e il rispetto delle norme comunitarie. Per 10 più l'Italia fu semplicemente reattiva alle strategie dominanti francese e tedesca, invece che propositiva, anche quando erano in gioco i suoi prodotti agricoli mediterranei. Spesso, come osservarono numerosi commentatori, era semplicemente assente. L'Italia era "inaffidabile". Pretendeva di sedere a ogni tavolo intorno al quale si dovevano prendere delle decisioni, ma una volta ottenuto il posto stesso spesso non inviava nessuno a occuparlo. Profondamente europeista a parole, non riusciva a esserlo nei fatti. Alla fine degli anni Settanta era ormai ai margini dell'Europa.
Tommaso Padoa-Schioppa, l'esimio banchiere che fu il primo italiano designato come membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea, ha difeso l'operato dell'Italia in Europa attribuendole la «voce che teneva ferma, spesso imponendola, la rotta verso l'Unione»2J. Ciò poteva effettivamente corrispondere a verità negli anni Ottanta e Novanta, quando un qualificatissimo gruppo di tecnici e politici, incluso lo stesso Padoa-Schioppa, furono tra i più accesi fautori della moneta unica e dell'ingresso dell'Italia nell'eurozona. Ma non lo si può presentare come giudizio storico complessivo sull' operato dell'Italia in Europa. L'Italia sotto molti aspetti è stata «salvata dall'europa», come ha indicato più di un osservatore. E stata inoltre «europeizzata» nel suo interesse. Ma il modo in cui si distingue e si propone come nazione nel contesto europeo rimane ancora troppo limitato. Non si può eludere la realtà, di grande importanza simbolica, che a tutt'oggi i parlamentari europei italiani sono al contempo i meglio retribuiti di tutta l'Unione e i meno presenti in aula.
I limiti della performance italiana in Europa diventano ancor più evidenti se prendiamo in esame la questione della democrazia. Fin dall'inizio il progetto europeo distinse le esigenze della politica economica da quelle della democrazia liberale affidando le decisioni a élite amministrative e governative in assenza di qualsiasi debita procedura democratica. Questa impronta originale è rimasta. A dispetto dei cambiamenti intervenuti negli equilibri di potere fra le tre maggiori istituzioni - il Consiglio, la Commissione, il Parlamento -, quest'ultimo rimane tuttora l'elemento più debole. Non esiste una valida devoluzione dei poteri, solo il principio di "sussidiarietà", vago e talvolta farsesco, che presuppone che le decisioni possano essere delegate dagli organismi superiori a organismi inferiori nel caso in cui questi ultimi siano in grado di farsene carico. Combattere contro il "deficit democratico" che sta al cuore dell'Europa sarebbe una battaglia giusta e caratterizzante per l'Italia, tenendo a mente le sue profonde tradizioni di autogoverno urbano nonché le riflessioni lungimiranti di Carlo Cattaneo. Invece i cittadini italiani non hanno mai avuto notizia che il loro paese abbia preso delle forti iniziative in questo senso. La loro fiducia nelle istituzioni dell'Unione, un tempo la più alta in Europa, è andata inesorabilmente scemando.
Nel complesso la performance italiana in Europa andò più spesso peggiorando che migliorando a vari livelli. Nel 1972 il democristiano Franco Maria Malfatti si dimise da presidente della Commissione europea dopo soli due anni di mandato motivando la sua decisione con la volontà di tornare a dedicarsi alla propria carriera politica a Roma. L'Italia, in particolare il Meridione, è storicamente il paese meno capace di utilizzare i fondi regionali e sociali dell'Unioone. Da ultimo, nel 2003 Silvio Berlusconi tenne al parlamento europeo il discorso inaugurale della presidenza a turno del Consiglio d'Europa, ricoperta dall'Italia dal luglio al dicembre di quell' anno. In risposta alle critiche espresse nei suoi confronti dal social democratico tedesco Martin Schulz, Berlusconi disse: «'Signor Schulz, so che in Italia c'è un produttore che sta montando un film sui campi di concentramento nazisti. La suggerirò per il ruolo di kapò». L'inviato del «Corriere della Sera» riportò che le parole di Berlusconi, tradotte in simultanea, furono accolte dall' assemblea con un «incredulo oohhh», «proteste e un battito ritmato delle mani»2? Quanto siamo lontani dall'invito del Berchet agli italiani nel 1816 ad agire cosi che «10 straniero ripiglierà modestia e parlerà di voi coll' antico rispetto »!

3. Eguaglianza.

A metà Ottocento le piane e le paludi del Polesine erano popolate da lavoratori agricoli che vivevano in condizioni di estrema miseria. Circa la metà di loro, i cosiddetti obbligati, erano legati da contratti annuali ai proprietari terrieri, l'altra metà, gli avventizi" la "classe pericolosa" del Veneto rurale, erano braccianti in cerca di lavoro ovunque potessero trovarlo. Abitavano in tuguri dal tetto di paglia, senza finestre né pavimento veri e propri, l'interno annerito e impregnato dal fumo del focolare. Un medico locale dell'epoca osservò che gli alloggi emanavano un «puzzo disgustoso» che li rendeva pressoché inavvicinabili. In simili condizioni igieniche ogni famiglia si ammalava, di malaria nelle paludi, di pellagra nelle piane.
Invece i grandi proprietari terrieri della zona, pur risiedendo per la maggior parte dell' anno in città, possedevano monumentali ville, molte di notevole bellezza. Talvolta costituivano l'edificio centrale della fattoria, più spesso erano isolate dalla produzione, immerse in parchi e giardini privati. Il contrasto fra ricchi e poveri non poteva essere più stridente. Montesquieu aveva scritto: «Le ricchezze sono un torto che deve essere riparato, e si potrebbe dire: "Scusatemi se sono cosi ricco! "»JI. Non era questo 1'atteggiamento che si ritrovava fra i ricchi dell'Ottocento in Italia. Ed è ancor più raro oggi. Ma essere ricco, e soprattutto troppo ricco, significa esprimersi in relazione agli altri, specialmente in una società fortemente disuguale, in termini tutt' altro che etici.
Dopo la rivoluzione del 1848-49, le campagne del Polesine furono teatro di un'ondata di furti, che ebbero come bersaglio le case isolate dei contadini benestanti più che le ville dei proprietari terrieri. Talvolta i "banditi", se cosi si potevano definire, usavano violenza alle loro vittime, ma più spesso si accontentavano di pochi soldi e di un po' di cibo o di qualche capo di Bistiame. Le autorità austriache reagirono con grande ferocia. La Commissione d'Este, il tribunale militare itinerante istituito nel giugno 1850, cessò la sua attività solo quattro anni dopo. In quel lasso di tempo processò 1204 persone per atti di "banditismo". Solo nove furono assolte. Degli imputati rimanenti 414 furono condannati a morte e fucilati, 781 ricevettero pesanti condanne ai lavori forzati, che date le condizioni delle carceri di Mantova e Padova all'epoca corrispondevano alla pena capitale. Questa "strage" austriaca, difficile definirla diversamente, è uno degli episodi dimenticati del Risorgimento. Era sufficiente aver rubato un pezzo di lardo, di salame o una forma di formaggio per rischiare di finire davanti al plotone d'esecuzione.
Nel 1866 gli austriaci infine se ne andarono ma il problema del divario tra ricchi e poveri restò. In genere le élite di metà Ottocento risposero a questa problematica sociale, la più grave in assoluto, in termini di pia moderazione sociale e di speranzoso gradualismo: istruzione delle classi popolari, beneficenza, incoraggiamento al mutuo soccorso e al risparmio, educazione religiosa, denuncia delle forme più esasperate di sfruttamento33. Tuttavia alcune isolate voci -risorgimentali si espressero diversamente. Tra queste Carlo Pisacane. Ex ufficiale dell'esercito napoletano, esperto organizzatore della difesa di Roma nel 1849, fu a capo della sfortunata spedizione a Sapri nel giugno 1857, che avrebbe dovuto dare il via all'insurrezione tra i poveri braccianti del Sud, ma che terminò in tragedia, con la morte dello stesso Pisacane. Nella sua opera postuma, La rivoluzione, egli evidenziò come l'ineguaglianza minasse la nazione:

La "miseria" è la principale cagione, la sorgente inesauribile di tutti i mali della società; voragine spalancata che ne inghiottisce ogni virtù. La "miseria" aguzza il pugnale dell' assassino; prostituisce la donna, corrompe il cittadino; trova satelliti al despotismo".

Per Pisacane, miseria e ignoranza andavano di pari passo; erano «gli angeli tutelari» della moderna società da rovesciare. A differenza di Cattaneo, egli era convinto che i grandi progressi scientifici del XIX secolo aggravassero il problema dell'ineguaglianza sociale, invece di risolverlo. Nel suo Testamento politico, dettato il 25 giugno 1857 sul molo di Genova all'amica inglese Jessie White, Pisacane dichiarava che la società moderna era governata da «una legge economica e fatale», che non avrebbe reso la società più paritaria ma avrebbe invece accumulato tutte le ricchezze «in ristrettissime mani»35. Per riparare a questi torti fondamentali era necessaria una rivoluzione, non solo nazionalista, bensi socialista di contenuto. Eguaglianza e libertà dovevano essere i suoi pilastri. In un passaggio di forte impronta utopica all'inizio de La rivoluzione, Pisacane spiegò la relazione esistente tra questi due concetti:

Quale sarebbe il tipo ideale d'una società perfetta?
Quella in cui ciascuno fosse nel pieno godimento de' propri diritti, che potesse raggiungere il massimo sviluppo di cui sono suscettibili le proprie facoltà fisiche e morali, e giovarsi di esse senza la necessità o d'umiliarsi innanzi al suo simile, o di sopraffarlo; quella società, insomma, in cui la libertà non turbasse l'uguaglianza".

Pisacane falli ma le idee egualitarie sono rimaste forti nel corso di tutta la storia d'Italia. Se torniamo un momento al Veneto meridionale e ci spostiamo avanti di trent' anni rispetto alla repressione attuata dalla Commissione d'Este, troviamo nel 1884 il primo sciopero di massa dei lavoratori agricoli italiani, La Boie. Questa parziale mobilitazione dei lavoratori fu dovuta in gran parte a quel felice incontro «tra il caffè e l'osteria», descritto dallo storico Tiziano Merlin37. Era la prima volta che professionisti e piccoli borghesi delle cittadine della Pianura padana, influenzati dalle idee socialiste e anarchiche, prestarono il proprio sostegno e le proprie conoscenze al movimento dei lavoratori. Tornerò su queste alleanze nell'ultimo capitolo.
La questione dell' eguaglianza e dell' equità può essere analizzata sotto vari aspetti: eguaglianza di opportunità, parità di genere, parità di diritti, eguaglianza geografica e cosi via. A differenza della libertà che può benissimo essere una qualità o una proprietà dell'individuo o della persona, l'eguaglianza trae significato dalla propria natura relazionale: eguaglianza tra donne e uomini, tra bambini relativamente alle opportunità scolastiche, tra Nord e Sud. Mi concentrerò su quest'ultimo aspetto, dato l'acceso dibattito al riguardo esistente ai nostri giorni.
Uno degli episodi politici chiave del Risorgimento ebbe luogo a Napoli nell'autunno del 1860, dopo che Garibaldi e le sue camicie rosse avevano concluso la straordinaria impresa di conquistare l'intero Sud d'IItalia. Giuseppe Mazzini e Carlo Cattaneo, il primo fautore dell'unità a ogni costo, il secondo convinto federalista, insieme ad altri democratici cercarono di convincere Garibaldi a convocare delle assemblee regionali che avrebbero difeso gli interessi del Sud. Avevano in mente un processo che avrebbe infine avuto luogo con la fondazione della Repubblica nel 194661948: la stesura di una Costituzione al fine di stabilire principi e garanzie validi per l'intera nazione. Garibaldi, fedele e ubbidiente a Vittorio Emanuele II, preferì invece assecondare l'idea piemontese dei plebisciti, una soluzione che facilitò la rapida creazione del governo centrale ma che trascurò del tutto la questione delle autonomie locali e dell'autogoverno.
Nei successivi 150 anni il divario tra Nord e Sud è cresciuto in modi diversi e in tempi diversi, fino a costituire la più grave disparità regionale interna a un paese nell'Europa intera. Solo negli anni del "miracolo economico" (1958-63) sembrò orientato a ridurrsi3'. Ma, alla fine del secolo, benché in alcune aree del Sud si sia registrato un progresso dinamico e civico, i dati generali testimoniano una triste realtà. Nel 1990 la mortalità infantile restava del 30 per cento superiore a quella del Centro-Nord; il 67 per cento della rete ferroviaria meridionale non era elettrificata; la disoccupazione giovanile tra i quattordici e i ventinove anni d'età ammontava al 44,1 per cento, contro il 14,6 del Centro-Nord; le donne laureate nel Meridione trovavano scarse possibilità di impiego e cosi via40• Si era venuto a creare nel Sud un circolo vizioso che ancora oggi sembra impossibile spezzare: il settore privato dell'economia è debole; la spesa pubblica, al contrario, è forte ma non in buone mani. I politici che la controllano a livello regionale e locale privilegiano i trasferimenti di denaro alle famiglie in cambio di fedeltà elettorale e clientelare, invece di fornire alla collettività i necessari servizi pubblici, come ospedali efficienti, scuole, acqua corrente. La connivenza tra classe politica e organizzazioni criminali dura nel tempo e si reinventa continuamente. In tali condizioni l'emorragia di giovani dal Sud è inevitabile; e altrettanto vale per la riluttanza delle imprese private a investire nel Meridione. Cosi il circolo si chiude.
A dispetto di tutto ciò non è una voce propositiva, proveniente dal Sud stesso, a levarsi con maggior forza, bensi una voce profondamente negativa, dal Nord, quella della Lega, che chiede il federalismo fiscale come preludio alla possibile secessione della "Padania" dallo stato nazionale. A un progetto del genere, è tempo di contrapporre una proposta diversa, nel Nord come nel Sud, che tragga forza da un rinnovato patriottismo egualitario. Essa non può limitarsi a un bisbigliare nei corridoi del vecchio stato centralizzato, con la disponibilità a ignorarne le numerose negligenze. Dovrebbe piuttosto sposare il federalismo, che appartiene intimamente alla storia italiana, al fine di diffonderlo nelle forme di autogoverno descritte all'inizio di questo capitolo. Al contempo localismo e autonomia devono trarre forza da un patto nazionale, come quello che i democratici avevano in programma a Napoli nel 1860, che custodisca il fondamentale elemento della solidarietà tra le diverse parti del paese. Per dirla con Cattaneo, le piccole repubbliche autonome e il «Repubblicone» devono essere intimamente collegati. Vale la pena ricordare il punto di partenza di questa discussione: che ruolo potrebbe avere l'Italia nella modernità? Certamente non quello in cui la parte più ricca del paese si stacca dal resto per diventare ancor più ricca.
Questa tesi guadagna ulteriore validità alla luce di alcuni studi recenti riguardanti le nazioni e l'eguaglianza. Richard Wilkinson e Kate Pickett hanno messo a confronto la disparità di reddito all'interno dei paesi sviluppati, misurando il divario tra la percentuale più povera e la percentuale più ricca della popolazione. Primi nella classifica "egualitaria" si collocano il Giappone e i paesi scandinavi, dove il reddito del 20 per cento più ricco della popolazione è inferiore al quadruplo del reddito del 20 per cento più povero. Agli ultimi posti, invece, risultano la Gran Bretagna, il Portogallo, gli Usa e Singapore. In questi paesi il divario è molto più ampio, essendo il quinto superiore della popolazione da sette a dieci volte più ricco del quinto inferiore. L'Italia si colloca vicino a quest'ultimo gruppo di paesi, con i più ricchi distanziati dai più poveri da un reddito circa sette volte superiore.
Si tratta di differenze ben note agli esperti del setttore43, ma i dati di Wilkinson e Pickett rappresentano una grande novità nel momento in cui vengono presi in esame gli stretti rapporti tra le società diseguali e tutta una serie di fattori sociali negativi. In moltissimi ambiti - basso livello di fiducia, scarsa parità di genere, malattie mentali, obesità, risultati scolastici dei bambini, percentuale di carcerati ecc. - le società diseguali nel complesso hanno risultati assai peggiori di quelle più paritarie. Esse sono, in altri termini, luoghi in cui si vive molto peggio, e questo vale non solo per il 20% più povero della popolazione, ma per tutti. Gli autori dello studio riassumono il 100ro argomento con grande lucidità:

I problemi nei paesi ricchi non dipendono dal fatto che la società non abbia un reddito abbastanza elevato (né troppo elevato) ma dal fatto che la portata delle differenze tra le persone all'interno di ogni singola società è tropppo grande. Conta la nostra posizione in relazione ad altri nella nostra società".

Nel gran numero di tabelle che affollano le pagine successive, l'Italia registra solo una volta un primato, ma ben diverso da quello auspicato da Gioberti. Esso riguarda, in negativo, la condizione delle donne. L'indice della condizione femminile è costruito qui combinando i valori della percentuale di donne presenti in parlamento, il divario di reddito fra maschi e femmine, la percentuale di donne laureate. Su queste basi l'Italia risulta, sotto il profilo del genere, all'ultimo posto fra tutti i paesi sviluppati, un paese molto ricco e profondamente disuguale.
Torniamo al Veneto per chiudere questa sezione.
Oggi vi si costruisce (e lo stesso vale per la Lombardia) una società profondamente diseguale, quanto quella degli anni Cinquanta dell'Ottocento nel Polesine. Il posto degli avventizi è stato preso dagli immigrati. Al pari dei loro predecessori, essi vivono spesso in condizioni spaventose. Godono di pochi diritti e non sono benaccetti nel centro città. Il loro compito è lavorare sodo e a lungo in piccole fabbriche durante il giorno, e quindi sparire la notte. I loro figli vanno istruiti, se è possibile, in scuole segregate, come accadeva un tempo il). Sud Africa. Ma la loro miseria e il divario tra ricchi e poveri si ritorcono contro l'intera società della regione. La creazione dell' "altro" ,disprezzato e temuto, porta ad avere comunità blindate, alle telecamere di sorveglianza fuori dalle ville, alla sfiducia, ai disturbi mentali, a una più vasta popolazione carceraria - una società non troppo accattivante in cui neppure le famiglie ricche vivono bene.
Non mi sembra che sia quello che Cattaneo aveva in mente. Il suo era un progetto civico, come diceva, basato sulla diffusione del «valor sociale »46. Quello della Lega è un progetto populista, basato sull'ineguaglianza e la discriminazione - elementi che finiranno per danneggiare sia i fautori sia le vittime.

4. Mitezza.

Nel febbraio 1937 ad Addis Abeba, capitale dell'Abissinia, due giovani eritrei tentarono di assassinare il maresciallo Rodolfo Graziani, comandante delle truppe italiane che avevano invaso il paese. Le bombe lanciate dagli attentatori uccisero sette persone ma Graziani, benché ferito, sopravvisse. Segui una tragica rappresaglia che sfociò in un massacro, attuato non solo dalle forze armate, ma dai civili italiani, commercianti, autisti ecc., residenti nella capitale. Abitazioni vennero date alle fiamme, la popolazione locale fu uccisa a colpi di baionetta, furono ordinate fucilazioni di massa. Come sempre accade, le stime dei morti sono assai discrepanti, tra i 1400 e i 6000 nella sola capitale. Si tratta di violazioni dei diritti umani di cui nessuno fu mai chiamato a render conto. Fuori dalla capitale il clero cristiano-copto della città conventuale di Debrà Libanòs, risalente al XIII secolo, fu sospettato di aver dato asilo ai due giovani attentatori. Il21 maggio 1937 i monaci, circa 297 in tutto, furono fucilati su ordine di Graziani. Cinque giorni dopo, non ancora soddisfatto, egli ordinò che fossero giustiziati anche i 129 giovani diaconi del monastero. Tutto ciò con la piena approvazione di Mussolini, che aveva già fissato le linee generali del comportamento italiano in Abissinia in un telegramma segreto dell'8luglio 1936: «Autorizzo ancora una volta Vostra Eccellenza a iniziare e condurre sistematicamente la politica del terrore e dello sterminio contro i ribelli e le popolazioni complici».
Angelo Del Boca, che più di ogni altro storico si è adoperato per rivelare la vera natura di questi e altri vergognosi episodi della storia coloniale e imperialista italiana, ha addotto queste prove per infrangere il mito degli "italiani brava gente", l'idea cioè che gli italiani, individui di buon cuore e di innata umanità, fossero in qualche modo estranei al fascismo ed essi stessi vittime della guerra48. Del Boca ha ragione, ma l'analisi non può fermarsi qui. Non esiste un singolo atteggiamento o comportamento "italiano" che possa essere generalizzato in tutta la storia dello stato-nazione. Esistono piuttosto varie tradizioni di comportamento, alcune ovviamente più dominanti o addirittura più egemoni di altre, ma sempre nel contesto di una pluralità di opinioni, convinzioni e azioni. In questa sede mi propongo di isoolare l'atteggiamento diametralmente opposto a quello denunciato da Del Boca, un modo di comportarsi che risale a molto addietro nel tempo e che faremmo benissimo a coltivare.
Per introdurre l'argomento faccio brevemente un passo indietro al momento in cui ho ottenuto la cittadinanza italiana nel gennaio 2009. Perché mi è stata consegnata .una bandiera della pace assieme al tricolore? Era solo retorica, un gesto simbolico in una città di sinistra? Credo di no. Uno degli articoli della Costituzione che mi è stato chiesto di leggere ad alta voce in quell'occasione era l'undicesimo, in cui si afferma in modo inequivocabile che l'Italia «ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli». Esso trae origine dal dibattito in seno all'assemblea costituente, dal compromesso tra forze e idee cattoliche, socialiste e comuniste.
Nel corso della storia repubblicana il tema della pace ha avuto costante rappresentazione. Lo ritroviamo con Giorgio La Pira, sindaco cattolico di Firenze e i suoi Convegni per la pace e la civiltà cristiana, tenuti a cadenza annuale dal 1952 al 1956. Lo ritroviamo più recentemente nelle massicce mobilitazioni internazionali del 1993 contro la guerra in Iraq, in cui i movimenti italiano e spagnolo sono stati tra i più forti numericamente.
Tuttavia 1'elemento che intendo isolare non è il pacifismo, nelle sue varie componenti, ma piuttosto la mitezza, una qualità che senza dubbio sposa la non violenza, ma è più complessa e più estesa allo stesso tempo. In un famoso articolo del 1994, intitolato Elogio della mitezza, Norberto Bobbio ne analizzava con grande finezza la collocazione nella fenomenologia delle virtù. Per Bobbio la mitezza è una virtù debole, non forte, nel senso che appartiene alla componente della società che non esercita il potere, agli <<umiliati e gli offesi, i sudditi che non saranno mai sovrani»50. D'altro canto la mitezza è ben diversa dalla sottomissione. È una virtù sociale, una pacata ma diversa visione del mondo: «il mite - scrive Bobbio - è l'uomo di cui l'altro ha bisogno per vincere il male dentro di sé»51. In termini analogici la mitezza è prossima sia alla modestia sia all'umiltà, ma è più ambiziosa di entrambe, in quanto nelle sue espressioni quotidiane preconizza un mondo diverso e migliore, che ancora non esiste e forse mai esisterà. Le virtù complementari alla mitezza sono molteplici: semplicità e misericordia, limpidità e chiarezza; compassione. Al termine del suo saggio Bobbio ammette di amare le persone miti «perché sono quelle che rendono più abitabile questa "aiuola"». In effetti la loro Utopia non è quella «fantasticata dagli utopisti, dove regna una giustizia tanto rigida e severa da diventare insopportabile». E piuttosto un mondo, secondo Bobbio, in cui la gentilezza dei costumi è diventata una pratica universale, più simile alla versione idealizzata della Cina narrata dagli scrittori europei del Settecento. Può ben essere, conclude Bobbio, che la mitezza che descrive sia una virtù femminile. «Non ho difficoltà ad ammetterlo».
Esiste tuttavia un passaggio di questo illuminanti e articolo con il quale è difficile concordare. Si tratt1;1 del brano in cui Bobbio afferma che la mitezza non l' una virtù politica: «anzi è la più impolitica delle virtù »53. Questo giudizio poggia sulla scelta di una particolarissima e molto ristretta definizione della politica che Bobbio non esita a rendere esplicita. Egli l'i chiede di tenere a mente che nel capitolo XVIII de // Principe di Machiavelli i due animali simbolo dell'uomo politico sono il leone e la volpe. Non v'è spazio, scrive, per il «mite» agnello, che è più verosimilmente la vittima predestinata. Ma la visione machiavelliana della politica non è l'unica esistente né la più adatta alla democrazia. Cattaneo, così amato da Bobbio, definiva invece la politica «la scienza de' rapporti sociali», sostenendo che più era ampio il terreno sociale considerato, tanto più «completo e perspicuo» diveniva il concetto stesso di politica. La mitezza, essendo una virtù sociale, vi rientra pienamente.
Non si tratta di distinzioni inutili. Guardando a un personaggio come Gandhi, la quintessenza della mitezza, notiamo immediatamente che è difficilissimo ricondurlo alle categorie machiavelliane55. Il leone imperiale britannico non riuscì a divorarlo, nonostante gli sforzi considerevoli. In realtà la storia di Gandhi ci incoraggia a non scindere tra virtù forti e deboli, ben SI a identificarne una combinazione particolarmente audace: quella di mitezza e fermezza. Vorrei suggerire che questo connubio non è solo propositivo in termini di politica moderna, ma ha anche una particolare risonanza nella storia italiana, aspetto che qui più ci preme.

La connessione tra mitezza e cristianesimo nella storia d'Italia ha radici profonde ed è ovunque palese. A livello testuale si ritrova nei Vangeli, specialmente in quello di Matteo I I ,28-30: «Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, perché sono mite e umile di cuore e troverete riposo per la vostra vita». E ancor più evidente nelle Omelie su Davide e Saul di san Giovanni Crisostomo, ove il sostantivo praòtes (mitezza) è utilizzato nella sua doppia accezione, non solo di moderazione dell'ira, ma anche di arma potentissima che innesca cambiamento. In realtà è a questo secondo significato "sociale" di praòtes - convincere con pazienza e determinazione un nemico violento (in questo caso SauI) che il suo modo di agire è sbagliato - che Crisostomo attribuisce un valore profondo.
A livello di culto, la figura della Vergine Maria è sempre legata, più che alla mitezza in sé, alle virtù di dolcezza, paziente sopportazione della sofferenza e profonda bontà, qualità forse a essa complementari. Grande peso è anche attribuito all' accessibilità della Vergine, come figura che si presta al culto informale e intimo. Soprattutto è il mondo di immagini e rappresentazioni dell' arte cristiana e, in particolare, dell'arte rinascimentale che ci presenta una determinata visione della natura divina e una interpretazione inusuale del maschile e del femminile in cui la mitezza può essere letta come il valore spesso predominante. Ne sono esempio il Cristo di Giotto che entra a
Gerusalemme, le varie Annunciazioni del Beato Angelico, Il sogno del cavaliere di Raffaello, per citarne solo alcuni.
Passando dal campo religioso a quello giuridico e facendo un salto nel tempo all'Italia della seconda metà del Settecento, troviamo nel celebre Dei delitti e delle pene (1764) di Cesare Beccaria un paragrafo intitolato «Dolcezza delle pene»57. Beccaria era convinto che al fine dell' efficacia della punizione sia sufficiente che il male della pena ecceda il bene che nasce dal delitto: «tutto il di più è superfluo e perciò tirannico». Beccaria era allibito dallo spettacolo offerto dalla storia, dai «barbari ed inutili tormenti che da uomini, che si chiamavano savi, furono con freddo animo inventati ed eseguiti». Era anche allibito, e qui il collegamento alla precedente analisi dell' eguaglianza è immediato, dall'eccesso di accuse e pene dispensate ai poveri:

Chi non può sentirsi fremere tutta la parte la più sensibile nel vedere migliaia d'infelici che la miseria, o voluta o tollerata dalle leggi, che hanno sempre favorito i pochi ed oltraggiato i molti, trasse ad un disperato ritorno nel primo stato di natura, o accusati di delitti impossibili e fabbricati dalla timida ignoranza, o rei non d'altro che di esser fedeli ai propri principi [ ... ] con lente torture lacerati, giocondo spettacolo di una fanatica moltitudine ?".

Il paragrafo successivo a quello dedicato alla «Dolcezza delle pene» ha come oggetto «La pena di morte» e contiene le tesi di Beccaria a favore dell'abolizione della pena capitale. Come sa ogni alunno della scuola italiana, il Granducato di Toscana fu il primo stato nel mondo ad abolire la pena di morte nel 1786. La normativa toscana, come ha scritto Franco Venturi, «segna un momento essenziale nella storia del nostro paese»5? In essa riecheggiano costantemente 1'opera di Beccaria, nonché gli ostacoli e le obiezioni sollevate contro le sue posizioni.
In chiusura di questo capitolo vorrei prendere in esame alcune manifestazioni delle virtù di mitezza e fermezza in rapporto alla storia del Risorgimento. Gli eroi del Risorgimento sono senza dubbio figure romantiche, ma non facilmente riconducibili alla tipologia classica dell'eroe romantico. Quest'ultimo, ha osservato Lilian Furst60, esprime un' ambiguità intrinseca, perennemente oscillante fra eroe e antieroe, capace di grandi atti di generosità ma anche di distruzione, nei confronti di se stesso e di chi lo circonda. Nonostante la nobiltà del contegno e la sensualità gli conquistino simpatie, il suo codice di condotta è spesso più luciferino che rispettoso della moralità convenzionale. Il suo arche tipo è, ovviamente, lord Byron.
Solo alcuni di questi elementi trovano riscontro nel gruppo di attivisti che misero a rischio le loro vite durante il Risorgimento. Se esaminiamo le descrizioni che ne vengono date, colpisce la frequenza con cui ricorre la parola «dolcezza». Mazzini si riferisce a Goffredo Mameli, morto all'età di 21 anni nella difesa di Roma del 1849, attribuendogli una «dolcezza quasi fanciullesca»62. Lo stesso termine è utilizzato più volte nelle narrazioni della vita di Giuseppe Garibaldi. Augusto Vecchi, che nel 1861 si trovava sull'isola di Caprera a seguito di Garibaldi, racconta che una volta il generale dedicò una notte intera a cercare e quindi ad accudire un agnelli no che si era smarrito. «Ambedue stettero insieme sullo stesso letto. E l'uno diè all'altro a sugger latte per una spugna». Quando Garibaldi si recò in visita a casa di Manzoni a Milano nel marzo 1862, scendendo dalla carrrozza gli donò un mazzo di fiori. Tutto ciò, ovviamente, era mirato alla costruzione del proprio mito, ma la scelta dei simboli, 1'agnello e il fiore, assume grande valenza per la nostra tesi64.

Le lettere ai familiari di Settembrini o di Santorrre di Santarosa, l'uno dal carcere, 1'altro dall' esilio, denotano amorevolezza e grande gentilezza d'animo. Le origini di questa "dolcezza" sono ovviamente sepolte nella storia più profonda delle famiglie italiane. Certo il modello iconico dei martiri cristiani avrà avuto un suo peso, per quanto anticlericali fossero molti di questi personaggi risorgimentali. Forse si può anche sostenere, senza azzardare troppo, che la particolare intensità del rapporto madre-figlio, spesso criticata come causa di carenze in ambito privato e pubblico, fosse all'origine della femminizzazione, intesa non in senso negativo, dell'eroe italiano del XIX secolo. Il rapporto strettissimo, di cui abbondano gli esempi, tra le madri e i loro figli attivisti nel Risorgimento, potrebbe essere uno dei pilastri nella costruzione di questa affascinante caratteristica.
La "dolcezza" si associava alla disponibilità all'autosacrificio e alla fermezza in battaglia. Nessuno di questi protagonisti del Risorgimento, benché spesso d'animo gentile, disdegnava la violenza. Spesso però mostravano compassione in battaglia e, deposte le armi, la dolcezza poteva tornare in campo, nella vita come nella morte. E mentre il tipico eroe romantico vedeva il proprio annientamento fisico come conclusione naturale della spirale discendente della sua vita, per l'eroe del Risorgimento la spirale era ascendente, e la morte vista come atto di redenzione e realizzazione. È questo sentimento che accomuna Santorre di Santarosa a Sfacteria, i fratelli Bandiera presso Crotone e Pisacane a Sapri.
Nelle cronache contemporanee della spedizione dei Mille in Sicilia nel r860, troviamo una molteplicità di atteggiamenti e personalità contrastanti. Un personaggio negativo fu senza ombra di dubbio Nino Bixio, noto per l'uso gratuito della violenza. Giuseppe Bandi nel suo I Mille, affascinante testimonianza della spedizione, narra di un terribile incidente avvenuto nel porto di Paola, quando la divisione di Bixio si stava imbarcando sui piroscafi pronti a salpare per Napoli. Bixio aveva proibito ai soldati di sdraiarsi sul ponte; vedendo che alcuni volontari stranieri disobbedivano, saltò a bordo e cominciò a colpire i soldati distesi con la canna della prima carabina su cui poté mettere le mani. Bixio colpi con tale violenza che «un povero trombettiere ungherese aveva offeso così crudelmente il cranio, da lasciar poca o punta speranza di sopravvivere sino al di venturo ».
Ma molti altri episodi vanno in direzione opposta e sono spia di atteggiamenti profondamente radicati. Uno ebbe come protagonista lo stesso Bandi. Ferito nella battaglia di Calatafimi, che vide il primo e decisivo scontro in Sicilia dei garibaldini con l'esercito borbonico, Bandi si ritrovò a giacere accanto a un soldato napoletano, anch'egli ferito, con il quale avviò una straordinaria conversazione. Nel suo racconto le virtù della mitezza e della fermezza sono preponderanti, ma anche la compassione, cosi cara a Simone Weil, e la profonda convinzione di appartenere a una civiltà superiore, scevra da bigottismo e superstizione:

Pensai che anche costui era di carne e di ossa, e, per di più italiano come me; e, pieno di compassione, gli dissi: «Fratello non gridar tanto, che ti farà male; abbi pazienza come io l'ho». Il napoletano, udendo la mia voce, cominciò a strillare più forte che mai. Quando poi m'ebbe visto, si diè a raccomandarsi per tutte le sue Madonne [ ... ] «O bue, - soggiunsi, - non vedi che sono ferito anch'io, e tribolo forse più assai di te? Credi tu d'aver vicina una
bestia feroce? [ ... ] Credi che noi siam gente, ghiotta del sangue delle povere creature, come t'avran detto quegli asini de' tuoi ufficiali?» A queste parole, il mio napoletano si confortò alquanto, e ripigliò a dire: «Signor piemontese, salvatemi, mi raccomando a voi [ ... ] avevo paura che foste siciliano e mi facevo morto»".

A un certo punto della sua storia ogni nazione si interroga sulla propria natura e sulle proprie ambizioni. Per alcune è un esercizio continuo, mentre altre, più sicure di sé o per autocompiacimento, lo fanno raramente. Talvolta serve una grande catastrofe nazionale per scuotere una nazione e portada a rivedere drasticamente i propri presupposti, come accadde alla Francia nel 1940. Altre volte le nazioni fanno tutto il possibile per non confrontarsi con il passato. E il caso della Turchia e della responsabilità per il genocidio armeno del 1915 o del Giappone e delle stragi e altre atrocità commesse durante l'occupazione della Cina (1937-45). Anche l'Italia, come abbiamo visto all'inizio di questo capitolo, non ha mai riparato alle atrocità commesse in suo nome e in nome del fascismo. Il fatto che fossero su scala minore rispetto alla barbarie nazista o ad altri casi sopracitati non vale certo come giustificazione al silenzio ufficiale, alla cecità o alla cattiva memoria.
Negli anni 1992-94, l'Italia visse una grave crisi politica e i vecchi partiti di governo furono travolti da accuse di mal affare e corruzione. Ma alla tempesta non segui un nuovo modo di governare, bensì un regime che concentrava potere politico e comunicazione culturale sempre più nelle mani di un unico individuo. Contemporaneamente tutta una serie di leggi ad personam pose quell'individuo al di sopra della giustizia. Entrerò nei dettagli della natura del regime di Silvio Berlusconi nel prossimo capitolo. Basti dire qui che la politica delle istituzioni democratiche italiane è rimasta formalmente intatta, ma intrappolata in un contesto sempre più populista.
A fronte di una crisi nazionale di tali dimensioni è tempo di procedere con urgenza a un riesame. In risposta all'interrogativo sul posto dell'Italia nella modernità ho proposto un modello basato su quattro elementi - autogoverno inteso come presa di coscienza; un europeismo che non sia passivo, bensì propositivo; l'eguaglianza concepita non come abolizione della proprietà privata o dell' eliminazione di ogni individualismo, ma come solida base su cui costruire società migliori, piti armoniose e meno lacerate; da ultimo la mitezza coniugata con la fermezza, virtù "deboli" e "forti" associate per dare nuovo fondamento alla politica.
Quando sopraggiunsero altri volontari, Bandi ordinò loro di sollevare il soldato e di portado accanto a lui per meglio proteggerlo dai contadini siciliani entrati in battaglia a fianco di Garibaldi. Il napoletano «mi afferrò subito la mano e vi fisse sopra le labbra, e pare me volesse mangiare [ ... ] E io dicevo, staccando dalla mia mano quella mignatta: "Via sciocco, m'hai preso per il tuo curato e pel vescovo di Nola? Stà su, e succhia questo mezzo limone che ti do, e non aver paura" ».

Capitolo terzo
Salvare l'Italia da che cosa?

In questo capitolo procederò a un'analisi più approfondita di quei fattori che considero di ostacolo al tipo di rinascita che ho delineato. Molti sono stati menzionati, ma solo en passant, nel Prologo. Naturalmente la lista potrebbe allungarsi notevolmente, ma lo spazio concesso da questo libro mi costringe a scelte radicali.
Misurarsi sul campo della causalità storica è sempre un'impresa ardua. Richiede un costante esercizio di equilibrio tra cause a lungo e a breve termine; tra agency e struttura, valutando l'interdipendenza (o il peso rispettivo) della scelta consapevole da un lato e delle strutture impersonali dall' altro; tra visibilità e invisibilità, controbilanciando il primato frequentemente attribuito alla sfera politica con altre sfere, spesso meno evidenti. In considerazione di ciò ho individuato quattro grandi pericoli da cui l'Italia moderna deve essere tutelata: una Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole; l'ubiquità del clientelismo; la ricorrenza della forma dittatura; e infine la povertà delle sinistre. I primi due sono di carattere strutturale e di lungo termine, gli altri due più immediati, di carattere congiunturale, individuale e politico. Naturalmente non attribuisco a nessuno di essi valore di tara, non li tratto cioè come componenti irremovibili, "antropologiche" o permanenti.

I. Una Chiesa troppo forte in uno stato troppo debole.

Era opinione comune della grande maggioranza dei protagonisti del Risorgimento che la Chiesa cattolica come istituzione e potere temporale fosse uno dei principali ostacoli al costituirsi dell'Italia come nazione. Né avrebbe potuto essere altrimenti. Le drammatiche condizioni degli abitanti degli stati pontifici e la repressione del regime papale erano note in tutta Europa. Quando Shelley visitò Roma nell'aprile 1819 fu sconvolto nel vedere trecento prigionieri in catene ai lavori forzati in piazza San Pietro:

Lo stridore di quelle innumerevoli catene di ferro fa risuonare 1'aria di un rumore metallico, e stona coi melodiosi spruzzi delle fontane, la profonda, azzurra bellezza del cielo e la magnificenza dell'architettura, producendo un contrasto di emozioni simile alla sensazione della follia. Ecco il simbolo dell'Italia: una degradazione morale in contrasto con la gloria della natura e delle arti'.

Appena un anno prima il Sismondi, che abbiamo già incontrato in più di un'occasione, aveva pubblicato il sedicesimo e ultimo volume della sua storia delle repubbliche italiane nel Medio Evo. Il capitolo CXXVII era intitolato: «Quali sono le cause che cambiarono il carattere degli italiani dopo che furono assoggettate le loro Repubbliche?» Nella sua risposta occupava un posto di grande rilievo la Chiesa cattolica. In effetti egli compose un elenco di ventidue deleterie «realtà» concernenti la storia della Chiesa. Tra di esse comparivano la centralizzazione smisurata e l'ortodossia imposte dopo la Controriforma, l'abbandono da parte dei papi, terrorizzati dalla Riforma protestante, «della causa dei popoli per quella dei Re», e l'influenza abnorme esercitata dalla religione cattolica in Spagna e in Italia rispetto ad altri paesi europei. Per Sismondi, cresciuto nella calvinista Ginevra, la morale cattolica era «cagione di corruttela e di superstizione». Insegnava l'autoinganno, COS1 che in nessun altro paese del mondo si trovava un popolo tanto osservante dei precetti religiosi eppure cooS1 poco incline a rispettare i doveri e le virtù predicati dal cristianesimo.
Alessandro Manzoni, ardente cattolico e futuro autore de I Promessi Sposi, fu profondamente colpito da queste critiche, tanto da pubblicare, nel r8r9, le sue Osservazioni sulla morale cattolica. Ancora una volta, come avvenne per Madame de Stad e il romanticismo, ci ritroviamo al centro di un vivace scambio di opinioni del primo Ottocento. Manzoni dichiarò che se non poteva controbattere Sismondi sul terreno storico, poteva certamente farlo sul terreno morale. La Chiesa cattolica, sosteneva con passione e devozione, aveva un concetto chiaro ed esclusivo dei doveri dei suoi membri. Il suo messaggio non era affatto ambiguo; si basava al contrario su una serie di particolari virtù, tra le quali fraternità, abnegazione, commiserazione e carità:

La Chiesa vuole i suoi figli severi per loro; ma per il dolore de' loro fratelli li vuole misericordiosi e delicati; e per renderli tali, presenta loro lo stesso esemplare, quell'Uomo-Dio che pianse al pensiero de' mali che sarebbero piombati sulla città dove aveva a soffrire la morte più crudele. Ah I Certo, non lascia ozioso il sentimento della commiserazione quella Chiesa, che nella parola divina di carità, mantiene sempre unito c, per dir cosi, confuso l'amore di Dio e degli uomini'.

Se l'umanità non era poi in grado di adeguarsi a questo modello, a questo dettame cosi esplicito e straordinario, non si poteva attribuire la responsabilità alla Chiesa. Era colpa dell'Uomo.
Qualche anno più tardi, Sismondi, nella lettera a un'amica del dicembre 1829, osservava quant'era difficile discutere con Manzoni. Si trovavano su due piani diversi e inconciliabili:

Noi, io e Manzoni, sembriamo due spadaccini che vogliono battersi in una notte oscura e che non si vedono, mentre egli crede di assestare dei colpi sopra di me in un angolo della camera, io sono nell' altro e non ci raggiungiamo mai. Noi non diamo alle parole il medesimo senso, non abbiamo in vista le medesime idee.

Cosi già prima dei drammatici eventi del 1848-49, certi fronti di battaglia erano tracciati. Dal 1846 al 1848, con l'elezione del nuovo papa, Pio IX, tra il movimento patriottico e il papato intercorse un breve idillio, che diede qualche effimera ragion d'essere alle speranze di Gioberti. L'apertura di Pio IX incoraggiò una pluralità di manifestazioni e iniziative in tutta la penisola, risvegliando all'improvviso una società civile dormiente. Ma tutto ciò si trasformò e si radicalizzò nello spazio di pochi mesi rivoluzionari, culminati con la fuga di Pio IX da Roma e la proclamazione della Repubblica romana nel 1849. Da Gaeta Pio emanò l'enciclica Nostis et nobiscum (1849) in cui accennava a una «scelleratissima macchinazione» ordita per far crollare il papato. Undici anni dopo, quando il Cavour invase gli Stati Pontifici sulla scia della spedizione di Garibaldi in Sicilia, Pio IX scomunicò tutti i patrioti coinvolti nell' azione. Infine, nel 1864, pubblicò il Sillabo degli errori. L'intransigenza regnò suprema. Non vi era spazio per la libertà di culto, di pensiero o di stampa. Non era consentita vita associata se non in conformità ai principi della suprema autorità ecclesiastica. Conciliare il papato con il progresso, il liberalismo e «la moderna civiltà» era diventato impossibile. Cosi l'interrogativo circa il ruolo dell'Italia nella modernità socccombette alla radicale negazione da parte della Chiesa di entrambi i termini: né !'Italia né la modernità avevano alcun diritto di esistere.
A fronte di posizioni cosi estreme non può sorprendere che le generazioni del Risorgimento avessero sviluppato un forte atteggiamento critico nei confronti della Chiesa. Lo abbiamo già visto nella generazione precedente, quella di Foscolo e Sismondi. Dopo il 1849l'anticlericalismo divenne all'ordine del giorno e non solo tra i repubblicani e i democratici. Garibaldi, ovviamente, non aveva che disprezzo per il papato. Dopo essersi temporaneamente ritirato a Caprera nel 1860, battezzò i suoi quattro asinelli Napoleone III, Oudinot (il generale francese che aveva soppresso la Repubblica romana), Pio IX e Immacolata Concezione. Cattaneo, a sua volta, si espresse in termini forti:

Perché il clero ticinese quasi tutto si palesa nemico della libertà? Perché insidia la repubblica? Perché semina la discordia a piene mani nelle chiese e nei circoli? Perché implora dal potentato straniero, come segnalati favori alla Chiesa, il blocco dei confini, la ruina del commercio, l'espulsione degli innocenti a migliaia? [ ... ] La Chiesa vera, quale la istituì Cristo, quale la vediamo descritta negli Atti degli Apostoli, era una Repubblica [ ... ] Preti ticinesi, poveri e corrotti schiavi, invece d'insidiare la nostra libertà, fatevi aiutare a rompere le vostre catene'.

Ma è dal moderato Cavour che viene la critica più. ragionata al comportamento e alle scelte della Chiesa nella prima metà dell'Ottocento, destinata ad avere nel tempo la massima influenza.
Nel marzo-aprile 1861, in tre memorabili discorsi parlamentari, Cavour delineò la dottrina della «libera Chiesa in libero stato», destinata a diventare il fondamento della politica ecclesiastica del nuovo stato italiano'. La tesi del Cavour era sottile e convincente. Gli italiani erano profondamente cattolici, l'intento quindi non era quello di distruggere la Chiesa. Si pretendeva solo che essa rinunciasse al potere temporale, dal quale non le veniva che danno per la sua reputazione. Il connubio tra potere spirituale e temporale aveva sempre prodotto risultati nefasti. A sostegno di questa tesi Cavour citò un caso analogo - quello dell'Impero ottomano. Il paragone era azzeccato, benché certo non gradito al papato;

lo ho avuto 1'onore di conoscere parecchi de' più distinti uomini di Stato di quel paese, i quali mi hanno tutti meravigliato per la larghezza delle loro vedute, pe liberalismo de' loro principii; eppure finora 1'opera loro è rimasta quasi sterile; e perché, o Signori? Perché a Costantinopoli, come a Roma, il potere spirituale e temporale sono confusi nelle stesse mani'.

Era tempo di separare i due poteri. La Chiesa sarebbe stata soggetta al diritto comune dello stato, sarebbe stata garantita la libertà di culto senza concedere al cattolicesimo alcun particolare privilegio. Soprattutto la Chiesa non doveva interferire nella gestione dello stato. In cambio avrebbe goduto di maggior libertà di azione in termini pastorali e spirituali di quanto avrebbe potuto garantire qualsiasi concordato. In un passaggio fondamentale Cavour spiegava che la soluzione della questione romana debba essere prodotta dalla convinzione, che andrà sempre pio crescendo nella società moderna, ed anche nella società cattolica, essere la libertà altamente favorevole allo sviluppo del vero sentimento religioso [corsivo mio]'.
Pio IX, e bisogna dirlo, molti dei suoi successori, ebbero del problema una visione diametralmente opposta, giudicando la libertà il più pericoloso dei numerosi strumenti malefici della modernità.
Quanta strada è stata fatta dal tempo dei discorsi pionieristici di Cavour? Se esaminiamo la Chiesa sulla base dell'insieme di valori identificati da Manzoni nella sua risposta a Sismondi - compassione, fraternità, umiltà e carità -, è più che palese, sotto il profilo storico, l'opera di carità portata avanti con impegno e costanza dalla Chiesa in seno alla società italiana. Solo prendendo in considerazione gli anni più recenti della Repubblica si constata la presenza di un piccolo esercito di volontari cattolici che si è dedicato agli individui più disperati dell' opulenta società italiana - i vagabondi e i senza tetto, (secondo le stime erano 2000 solo a Milano nel 1990), gli anziani e gli abbandonati, le vittime dell' Aids, i tossicodipendenti e gli immigrati in genere. A questi ultimi, la Chiesa non ha fornito solo aiuto materiale ma anche protezione morale e dignità umana.
La Chiesa è anche molto cambiata rispetto al Sillabo degli errori .- nelle sue istanze ecumeniche, nella cauta apertura alla democrazia, nel suo predicare con forza la pace. Ma nei confronti della modernità ha ancora un atteggiamento di sospetto e addirittura terrore. Incontra gravi difficoltà nello stabilire la connessione, indicata dal Cavour, tra libertà e religiosità profonda, preferendo invece bollare la maggior parte delle manifestazioni di libertà come espressione di sregolatezza o addirittura licenziosità. Nonostante gli impulsi riformatori del papato di Giovanni XXIII e del Concilio Vaticano secondo, la Chiesa ha mancato di apertura nelle battaglie fondamentali per la libertà individuale nella società italiana alla fine del Novecento.
In nessun caso la distanza tra il cattolicesimo e la modernità è stata pio evidente che riguardo alla questione del genere. In un' epoca in cui la Chiesa d'Inghilterra si è impegnata a trasformare con considerevole difficoltà alcune delle sue strutture chiave, la chiesa cattolica resta irremovibile su molte fondamentali questioni di genere, tutte intimamente legate alla libertà: no al sacerdozio femminile, no al matrimonio dei preti, no alla celebrazione della sessualità l'omosessualità viene considerata una malattia e un peccato. Ma soprattutto essa mantiene una struttura organizzativa, gerarchica e di fede che è l'essenza stessa del patriarcato. E in questo contesto che vengono inseriti i molteplici casi di pedofilia interni alla Chiesa l'abuso dell'autorità intima conferita a figure paterne rispetto ai giovani loro affidati. Questo scandalo ha rivelato inoltre, una volta di pio, la see)',retezza che caratterizza la Chiesa, la mancanza di trasparenza e di apertura.
Nella ricerca di un nuovo paradigma della modernità  italiana ne ho identificato in precedenza due determinanti fondamentali nell'autogoverno e nell’uguaglianza. La Chiesa di oggi è lontanissima da entrambi.
La vera regressione tuttavia riguarda la classe politica italiana, che appare incapace di esprimere una cultura politica laica degna del nome e della memoria di Cavour. Nella Repubblica postbellica lo spartiacque si colloca nel marzo 1947, quando l'assemblea costituente dovette scegliere se inserire i Patti lateranensi di Mussolini e Pio XI (1929) nella nuova Costituzione. Col senno di poi gli storici, sia cattolici che comunisti, concordarono sulla necessità di questo inserimento per evitare, come ha scritto Giorgio Candeloro, che la situazione politica «degenerasse in forme di tale asprezza da rendere impossibile il permanere del regime democratico »12. E vero però che cosi facendo (democristiani, comunisti, qualunquisti, monarchici e gran parte dei liberali votarono a favore dell' articolo 7, mentre socialisti, azionisti, repubblicani, demolaburisti e alcuni liberali votarono contro) il vecchio programma risorgimentale della «libera Chiesa in libero stato» fu definitivamente sepolto1J.
Da allora in poi la classe politica italiana nel complesso ha mostrato un atteggiamento sostanzialmente subalterno alla Chiesa, nel timore di alienarsi il Vaticano e di perdere voti. E fortemente sintomatico della natura titubante dei grandi partiti di sinistra che le battaglie fondamentali per le libertà individuali portate avanti negli anni Settanta e Ottanta nacquero non per loro iniziativa bensì a opera di piccoli gruppi attivi all'interno e all' esterno del parlamento. Fili recentemente i contrasti maggiori si sono verificati tra il coraggioso programma di riforme realizzato con successo dai governi Zapatero in Spagna e la paralisi dei governi di centrosinistra in Italia. Sismondi aveva lamentato il fatto che la Chiesa esercitasse pili ingerenza in Spagna e in Italia rispetto ad altri paesi europei, ma ultimamente la Spagna ne ha preso le distanze in maniera fermissima_ L'Italia è rimasta sola e arretrata, e le ingerenze della Chiesa, soprattutto negli ultimi anni, sono un fenomeno costante e inquietante_

2. L'ubiquità del clientelismo.

Nel 1972 James C. Scott, analizzando il cambiamento politico nel Sud-Est asiatico, diede del clientelismo una definizione che risulta tuttora convincente. II rapporto patrono-cliente, scriveva Scott,

può essere definito come un caso speciale di rapporto diadico (fra due persone) che implica un'amicizia largamente strumentale e in virtù del quale un individuo di status socioeconomico più elevato (patrono) usa la sua influenza e le sue risorse per procurare protezione e benefici, o entrambe le cose, a una persona di status inferiore (cliente); questi, da parte sua, ricambia offrendo al patrono appoggio generale e assistenza, ivi Compresi servizi personali".

I rapporti di questo tipo assumono forme svariate e complesse, ma rivestono un'importanza predominante in molte parti del mondo, dal Medio Oriente al Mediterraneo, dall'America Latina al Sud-Est asiatico, dal Giappone all'India.
Nel caso dell'Italia il clientelismo risale ai tempi dell' antica Roma, quando fra patrono e cliente veniva stabilito un patto formale in cui il secondo giurava fedeltà al primo ricevendone in cambio una serie di garanzie giuridiche riguardanti il comportamento del patrono. Col passare del tempo la società italiana divenne più complessa, il semplice rapporto diadico verticale tra patrono e cliente si ampliò in un sistema diffuso caratterizzato da reti clientelari alternative, crescente flessibilità e una molteplicità di clienti e patroni in competizione tra loro. Al contempo il potere discrezionale del patrono, in genere il notabile del luogo, aumentava e lo status del cliente, in genere un contadino o un bracciante, diminuiva in maniera corrispondente.
Una delle sfide più importanti che l'Italia si trovò ad affrontare quando infine divenne uno stato unico, nel 1861, fu quella di separare abbastanza nettamente il modo di operare dello stato da quello della società che quest'ultimo era chiamato a governare. In questa lunga e difficile battaglia, le varie nazioni europee seguirono diverse traiettorie. La creazione di un moderno servizio civile in Gran Bretagna e la lotta corrispondente contro la «vecchia corruzione» del Settecento fu un'impresa ardua e infine vittoriosa, che copri più di un secolo, dal 1880 al 1895. Non più tardi del 1855 la Camera dei Comuni discusse una mozione che affermava:

Questa Camera guarda con profonda e crescente preoccupazione allo stato della nazione, e sostiene l'opinione che 1'aver sacrificato nelle nomine pubbliche il merito e 1'efficienza agli influssi di partito e di parentela e ad una cieca aderenza alla consuetudine, abbia dato origine a grandi sciagure e minacci di portar discredito all'identità nazionale".

Che il nuovo stato italiano non abbia condotto alcuna battaglia di tal genere è stato uno dei maggiori fallimenti del Risorgimento. Sotto le molteplici regole formali dell'Italia liberale continuava a esistere la realtà dei vecchi rapporti patrono-cliente e dei forti legami di parentela. Ovviamente i rapporti informali sono presenti in tutte le burocrazie e i sistemi politici; spesso servono a oliare la macchina dello stato. Nel caso italiano, però, l'hanno ingolfata. Lungi dall'esercitare un ruolo pedagogico in termini di creazione nel tempo di etiche e prassi pubbliche, lo stato stesso era plasmato dai rapporti sociali e dalla cultura politica del passato. Le ambiguità dell'operato di uno statista come Giolitti ne sono riprova.
Nel lungo periodo l'Italia ha patito pesantemente le conseguenze di questo fallimento. Come ha scritto l' antropologa Amalia Signorelli, la cultura del clientelismo è giunta a configurarsi come «una socializzazione di massa alla pratica dell'illegalità ». Dopo l'unità d'Italia questa illegalità si è manifestata in chiave e minore e maggiore. La "raccomandazione", la "spintarella", la richiesta di velocizzare una pratica erano tutti esempi della forma minore, quasi quotidiana del clientelismo; l'assegnazione di appalti e i concorsi truccati, la corruzione sistemica, la connivenza con le organizzazioni criminali appartenevano alla forma più grave. Molto spesso le due varianti si fondevano in modo impercettibile. Non a caso Leopoldo Franchetti, nella sua famosa indagine sulla Sicilia postunitaria, pubblicata per la prima volta nel I876, indicò le origini della mafia in un genere particolarmente perverso di rapporti patrono-cliente. Il tutto era complicato, a suo giudizio, dal fatto che questi rapporti erano spesso governati da «una devozione da inferiore a superiore, che non conosce limiti, scrupoli o rimorsi»18. In queste condizioni lo stato aveva scarse opportunità di prosperare: «E qui, l'amministrazione governativa è come accampata in mezzo a una società che ha tutti i suoi ordinamenti fondati sulla presunzione che non esista attività pubblica »19. Ovviamente la realtà osservata da Franchetti in Sicilia non si applicava all'intero paese e, da toscano, egli rimase sconvolto dalle condizioni estreme della Sicilia. Ma il substrato della prassi clientelare era presente ovunque, in misura maggiore o minore'·.
Esiste un forte legame tra il clientelismo e le prassi sociali a lungo termine della Chiesa, che ha sempre incoraggiato una cultura di sottomissione e docilità nei confronti delle gerarchie sociali, accompagnata da complesse strutture di mediazione, sia spirituali sia mondane, individuali e collettive. Tutta la tradizione delle invocazioni propiziatrici alla Madonna e ai santi si fonda su queste premesse. E non a caso permane il detto popolare «Non ho santi in paradiso», pronunciato con rassegnazione o amarezza quando non si riesce a ottenere un lavoro, una licenza o un altro beneficio.
Sotto il fascismo questa base fondamentale dei rapporti sociali italiani non venne seriamente posta in discussione. In realtà i Patti lateranensi del I929 incoraggiarono una sostanziale simbiosi fra le strutture di mediazione della Chiesa e quelle dello stato fascista.
Purtroppo durante la Resistenza e negli anni che seguirono ancora una volta non si sviluppò nessuna forte critica del clientelismo né si procedette a una riforma della pubblica amministrazione. Il risultato fu che lo stato italiano del dopoguerra, infinitamente più ricco di risorse rispetto ai suoi predecessori, vide lo sviluppo di un nuovo modello di clientelismo, dominato questa volta da nuovi partiti politici di masssa. In questo paradigma il patrono pubblico, uomo politico o funzionario che fosse, si comporta come una sorta di dispensiere, in grado di distribuire risorse pubbliche (posti di lavoro, pensioni, licenze, apppalti ecc.) a clienti, amici, parenti, in cambio di fedeltà, sia personale sia elettorale. I valori sociali che vengono coltivati non sono quelli civici, di cittadinanza e di trasparenza ma quelli della sottomissione, della riconoscenza, al massimo dello scambio di favori.
Né le famiglie italiane furono mai incoraggiate a sviluppare un rapporto equilibrato tra di esse, la società civile e lo stato. In una intervista del I990 Norberto Bobbio osservò che in Italia «per la famiglia si sprecano impegno, energie e coraggio, ma ne rimane poco per la società e per lo Stato ». Bobbio non tornò mai su questo giudizio nei suoi scritti, ma esso evoca un'immagine ricorrente in molta evidenza storica di provenienze diverse ~ l'immagine di una sfera famigliare dominante e onnicomprensiva, che tende a sminuire altri momenti associativi. Non a caso la sociologia italiana, unica in Europa, ha portato avanti un dibattito serio sul «familismo», termine coniato dall'americano Edward Banfield nel 1958. Clientelismo e familismo sono strettamente collegati, benché il rapporto tra i due non sia stato oggetto finora di una dettagliata analisi storica. Ciò che è chiaro è che non si tratta di categorie residuali, retaggi di una società tradizionale. Piuttosto sono elementi che si reinventano continuamente come caratteristiche negative delle moderne relazioni sociali.
Per un breve periodo durante gli anni Settanta e primi anni Ottanta, gli studi sul clientelismo, in particolare nel Sud, ebbero una fioritura senza precedenti, entrando momentaneamente nel dibattito politico Enrico Berlinguer fu uno dei pochi politici ad affrontare il tema, senza però riuscire ad approfondirlo prima della sua morte, avvenuta nel 1984. Invece gli anni Ottanta e Novanta videro un ulteriore mutamento nella forma del clientelismo. Nel clima esasperato del neoliberismo economico, in cui il mercato del lavoro divenne ancor più flessibile (vale a dire precario) e i diritti delle nuove generazioni ancor più incerti, il clientelismo, fatto di favori, conoscenze e gerarchie, ha vissuto una nuova epoca d'oro. I giovani rischiano di rimanere incatenati ai vecchi in un rapporto di dipendenza "informale"; le giovani donne sono particolarmente vulnerabili in queste circostanze.
Il nuovo clima economico che condusse al rafforzamento del clientelismo fu senza dubbio uno dei maggiori motivi del fallimento della campagna "mani pulite" degli anni 1992-94. Della Porta e Vanuccci, le due principali autorità sulla corruzione italiana, ne sottolineano le conseguenze per l'intero paese:

Se permane l'aspettativa diffusa, la convinzione generalizzata che per ottenere un appalto, una licenza, una concessione, addomesticare un controllo o affrontare con relativa tranquillità i laboriosi contatti con l'amministrazione pubblica occorra un "aggancio", un "amico", un "referente", cioè una tangente da pagare, allora questa regola di comportamento diventa il reale modello di orientamento che indirizza le decisioni di tutti gli attori coinvolti".

Il sistema di rapporti sociali e politici clientelari, capace di trasformarsi e reinventarsi continuamente, rappresenta quindi una struttura sociale e culturale a lungo termine profondamente invasiva del rapporto tra cittadino e stato democratico.

3. La ricorrenza delle dittature.

È diventato ormai quasi un luogo comune della stampa internazionale individuare un ruolo politico molto particolare per l'Italia nel mondo moderno: quello di inventare periodicamente nuovi modelli dittatoriali. Negli anni Venti del Novecento il fascismo fu il primo esempio di una tirannia contemporanea di massa, ampiamente imitata ed evolutasi nel successivo ventennio. Oggi si riconosce sempre più, seppur tardivamente, che gli anni di Silvio Berlusconi al potere non sono semplicemente uno spettacolo passeggero, ma si fondano sulla creazione di un nuovo tipo di regime, formalmente democratico ma in realtà fortemente controllato dall' altd5.
Questo regime è molto distante da quello di Benito Mussolini nell'uso della forza fisica - poco manganello e niente olio di ricino - ma è piuttosto simile nella straordinaria manipolazione dell'opinione pubblica. Fino a pochissimo tempo fa qualunque tentativo di paragonare i due regimi - quello di Mussolini e quello di Berlusconi - veniva accolto in Italia, ma non all'estero, da cori di protesta, addirittura irriso, dagli accademici e dai giornalisti dell' establishhment Lo consideravano un esercizio improprio e fuorviante. Ma fuori luogo erano piuttosto i loro silenzi, i loro ammiccamenti.
Prima di procedere oltre in questa comparazione voglio ancora una volta introdurre una dimensione risorgimentale. Nel dicembre 1869, ormai prossimo alla fine di una vita lunga e densa di esperienze, Giuseppe Garibaldi scrisse al suo giovane amico francese Marcel Lallemand una lettera in cui esprimeva, cosa rara per lui, alcuni giudizi politici di fondo. In essa si dichiarava a favore della dittatura, sottolineandone l'utilità e addirittura la necessità in certi momenti storici decisivi. Garibaldi però intendeva il termine nelll'accezione che aveva nell'antica Roma, non come sinonimo di tirannia:

Ho riflettuto spesso sulla breve durata dei regimi repubblicani, soprattutto in Francia. E avendo trascorso la parte migliore della mia vita in compagnia dei repubblicani del Nuovo Mondo [ ... ] torno sempre alla stessa convinzione, ovvero che le repubbliche sbagliano sempre a non concentrare il potere in tempi di emergenza, e che il concetto romano di dittatura era un'idea felice. L'antica Roma, predatrice del mondo, deve la sua grandezza alla Dittatura [ ... ] La Dittatura ha condiviso il destino del machiavellismo; è diventata sinonimo di astuzia, gesuitismo e tradimento. E poiché un tempo è esistito un Cesare, la dittatura è diventata sinonimo di tirannia, senza riconoscere il fatto che sono esistiti un centinaio di dittatori onesti e fedeli servi tori della libertà e della patria" .

Qual era dunque il concetto romano di dittatura?
A partire dal 500 a.c. circa (e nei successivi duecento anni), in casi di eccezionale gravità - una rivolta, una guerra o simili - uno dei consoli poteva nominare un magistrato straordinario per un periodo di tempo determinato. Come ha scritto Bobbio, «proprio questo carattere della temporaneità ha fatto si che dell'istituto della dittatura sia stato dato generalmente dai grandi scrittori politici un giudizio positivo »27. Era senza dubbio questa l'accezione di Garibaldi. Nella lettera a Lallemand egli lamentava che nella reecente esperienza della rivoluzione spagnola del 1868, la mancata presenza di un potere dittatoriale era stata fatale. Garibaldi concludeva in maniera inequivocabile:

La società europea è troppo corrotta e troppo egoista per essere in grado, una volta liberatasi di un despota, di sostituirlo immediatamente con un regime repubblicano. Vi sarà grande necessità di una dittatura onesta e temporanea per sconfiggere dapprima i nemici della repubblica e correggere quindi le brutture della società".

Oggi come oggi l'idea di correggere le «brutture della società» attraverso una dittatura suona inevitabilmente sinistra, soprattutto perché i tempi di un simile processo non sono affatto definiti. Non fu facile convincere i dittatori, individuali o collettivi che fossero a lasciare il potere una volta abituati a detenerlo. Lo stesso Garibaldi fu un'eccezione, nel momento in cui depose la sua dittatura nelle mani di Vittorio Emanuele II e si ritirò a Caprera.
In termini generali il paragone tra Garibaldi dittatore e gli altri nostri due personaggi regge solo fino a un certo punto. L'eroe dei due mondi odiava le gerarchie, considerava la guerra un evento necessario ma terribile su cui doveva prevalere la pace, era capace di badare a se stesso, amava l'isolamento di Caprera, in treno viaggiava in terza classe, non firmò concordati con il papato. Regalò la sua uniforme da generale ai contadini di Caprera, non si truccava ed era antiplutocratico. Senza dubbio curava la propria immagine, e l'ammirazione spontanea del resto del mondo lo incoraggiava in questo.
Tra Mussolini e Berlusconi i punti in comune sono maggiori. Nessuno dei due ha mai avuto intenzione di abbandonare il potere dopo un certo limitato periodo di tempo. E profondo il coinvolgimento di entrambi nel sistema patrono-cliente e i loro partiti - il Pnf e Forza Italia - poggiano su quella base. Berlusconi, in particolare, esprime col linguaggio del corpo - il braccio destro quasi sempre posto paternalisticamente attorno alle spalle della persona seduta accanto a lui - la sua vera natura di patrono mediterraneo su vasta scala, che offre protezione e promozione in cambio di lealtà e obbedienza. Berlusconi, come Mussolini, è inoltre maestro nella comunicazione, costruendo narrazioni sulla propria storia che, incessantemente reiterate, hanno assunto il carattere di un nuovo lessico e di morality stor)! nazionale. I magistrati fanatici che mirano a screditarlo, i giornalisti stranieri tutti comunisti, lo stato che mette le mani in tasca ai cittadini, l'equilibrio dei poteri che impedisce un governo forte, sono tutti elementi "in negativo" di una narrazione attentamente costruita. In positivo nella stessa narrazione troviamo il miglior presidente del Consiglio degli ultimi 150 anni, il leader «unto dal Signore», l'abile mediatore tra i leader mondiali, l'imprenditore che sa bene come va il mondo, come f;u felice la gente e ricca la nazione.
Le differenze tra Berlusconi e Mussolini fondamentalmente si incentrano sulla questione della libertà. Come abbiamo visto, Berlusconi pone l'accento sulla libertà "negativa", la libertà dalle interferenze; «meglio il Fascismo della tirannia burocratica della magistratura» ha gridato nel gennaio 2004, nel decimo anniversario del suo ingresso in politica. La libertà dell'individuo è l'elemento fondamentale del suo credo. Al contrario, nel 1932, Gentile e Mussolini nella voce Fascismo dell' Enciclopedia italiana, scrissero: «Antindividualistica, la concezione fascista è per lo Stato; ed è per l'individuo in quanto esso coincide con lo Stato»'o. Si tratta ovviamente di due modi assai diversi di concepire le basi del potere politico nello stato moderno.
Soprattutto il regime di Berlusconi opera in un contesto di ampie libertà, mentre quello di Mussolini era basato in ultima analisi su un brutale dominio. Tutte le libertà civili e politiche negate sotto il regime fascista sono concesse da Berlusconi. Si tratta di una libertà reale ma al con tempo illusoria. È illusoria su due livelli, il primo più evidente del secondo.
Il primo livello riguarda la libertà delle elezioni, apparentemente garantita. In realtà però non esistono regole efficaci per far SI che esse si svolgano su un terreno uniforme. Berlusconi è il massimo rappresentante su scala mondiale di un ristretto gruppo di nuovi attori politici emergenti dal terziario e in particolare dal settore delle comunicazioni, che hanno utilizzato le loro cospicue risorse economiche e mediatiche per distorcere e pilotare il processo democratico. A guidarli sono un forte impulso al guadagno, ambizioni famigliari e lealtà di gruppo, un'inossidabile convinzione del proprio valore. Sono moderne figure patrimoniali.
Nel caso di Berlusconi l'intervento patrimoniale assume numerose forme, tra cui la massiccia iniezione di fondi in periodo elettorale e il controllo sempre più smaccato dei notiziari televisivi e radiofonici, non solo delle emittenti di sua proprietà ma anche della Rai. In un qualsiasi altro paese democratico se il primo ministro fosse sorpreso a telefonare furibondo al garante per le telecomunicazioni ordinando l'immediata sospensione di un talk-show di sinistra trasmesso regolarmente su una rete televisiva dello stato sarebbe costretto alle dimissioni nel giro di ventiquattr'ore.
Il secondo livello è più profondo. Berlusconi gode di un consenso considerevole (benché in nessun caso della maggioranza degli italiani) non solo a causa del suo potere mediatico e politico ma perché offre una risposta apparentemente convincente all'interrogativo circa il ruolo dell'Italia nel mondo moderno. E una risposta che si basa sulle pratiche e sulla cultura del neoliberismo, dedite all' accumulazione della ricchezza e alla celebrazione di strategie individuali e famigliari, lontane da un senso di responsabilità collettiva. Le tante casalinghe che votano per lui, spettatrici fedeli delle sue reti televisive, si identificano con le famiglie fittizie dei programmi e degli spot televisivi: linde e ben vestite, grosso modo fedeli ai valori cattolici, sportive, allegre, informatizzate, pro-americane (più Bush che Obama), giramondo, business-oriented, privatizzate. Il cavaliere ne è il rappresentante organico, sia nella sua mente sia in quella dei suoi elettori. Ma questa visione della modernità è entrata in gravissima crisi dopo il crack finanziario del 2008. Riflette tendenze vecchie e non offre risposte ai problemi che oggi tutti noi siamo chiamati ad affrontare.

4. La povertà delle sinistre.

Ci sarebbe da attendersi che a fronte di un antagonista cosi formidabile e persistente, che propone una forte, seppur limitata, visione neoliberale della modernità, 1'opposizione sviluppi una chiara linea di risposta, una profonda riflessione su quelle che potrebbero essere le basi della sua politica. Ma nulla di tutto ciò si è realizzato.
Partiamo dalla principale compagine di opposizione, che negli anni di Berlusconi ha preso varie forme e denominazioni sfociando ne12008, tra non poche tensioni, nel Partito democratico. Attorno a questo nucleo centrale dell' opposizione si sono raccolte varie coalizioni elettorali, con risultati alterni. Solo nel 1996 il centrosinistra ottenne una maggioranza efficace in entrambi i rami del parlamento. Fin dall'inizio l'opposizione "moderata" ha oscillato fra la tendenza a far finta che non stesse accadendo nulla di particolare e l'evidenza innegabile del contrario. Questo atteggiamento diffuso ha portato la sinistra moderata a minimizzare il fenomeno Berlusconi in innumerevoli occasioni. L'esempio più tristemente famoso risale al 1996, quando, dopo la sconfitta di Berlusconi alle elezioni, Massimo D'Alema dichiarò di averlo «in pugno» e indicò come strategia una riforma della politica democratica da portare avanti assieme al centrodestra (la cosiddetta Commissione bilaterale), con risultati disastrosi. Nel 2007, dopo la sconfitta del centrodestra alle regionali, tra i politici e i giornalisti progressisti prevalse un analogo ottimismo prematuro e infondato. Alle politiche dell'anno successivo Berlusconi, lungi dal cadere nel dimenticatoio, portò avanti un' agguerrita campagna elettorale sui media e altrove, arrivando vicinissimo alla vittoria.
Il comportamento dei partiti di centro sinistra richiama alla memoria l'analisi impietosa che il politologo spagnolo Juan Linz fece delle forze democratiche che, nei primi decenni del Novecento, non riuscirono a impedire la distruzione della democrazia in molte parti d'Europa. Linz le definisce «semileali» alla democrazia. Un'espressione del genere avrebbe irritato moltissimo questi partiti ma col loro agire confermavano ciò che smentivano a parole. Molto spesso non videro il pericolo affacciarsi all' orizzonte, furono pronti a negoziati segreti, disponibili a «incoraggiare, tollerare, coprire, trattare con indulgenza, scusare o giustificare» azioni che esigevano reazioni del tutto diverse}l. La situazione in Italia oggi, come ho premesso, non è quella di ottant'anni fa. E però possibile individuare numerosi analoghi paradigmi di incertezza, opportunismo e compromesso.
Altrettanto grave fu dare per scontato, secondo un' abitudine radicata fra i partiti italiani del centrosinistra, che le strutture e le prassi fondamentali della politica - controllo politico delle televisioni e di altre strutture pubbliche, lottizzazione, assenza di trasparenza e controlli, sfacciato clientelismo - potessero restare immutate finché nella "stanza dei bottoni" c'era il centrosinistra e non il centrodestra. È stato un errore fatale. Una volta dissolte le vecchie lealtà dei tempi della guerra fredda gli elettori divennero sempre più consapevoli che entrambe le parti usavano fondamentalmente gli stessi metodi.
Il livello di disillusione, come ho scritto nel Prologo, ha raggiunto livelli altissimi.
L'offerta politica delle altre componenti dell'opposizione non ha compensato le pecche del principale raggruppamento. L'Italia dei Valori di Antonio Di Pietro propone una posizione intransigente e meritoria sul tema Berlusconi, che è stata recentemente premiata da un considerevole successo elettorale, ma il partito è controllato da un leader carismatico e la sua democrazia interna è molto limitata. Inoltre si presenta troppo come partito di denuncia più che di proposta. La sinistra radicale, come testimonia la pessima performance alle elezioni del 2008 in cui non riuscì a conquistare neppure un seggio in palamento, ha permesso che i dissidi tra le correnti e personali avessero la meglio su ogni altra riflessione. Si tratta di un difetto antico e apparentemente insanabile.

Vorrei concludere questo capitolo, concentrato inizialmente su alcuni degli elementi strutturali e di lungo termine che ostacolano il rinnovamento italiano e, in seconda battuta, sulle responsabilità individuali e collettive a breve termine, con un rapido paragone che ha come oggetto i deficit delle forze democratiche in due momenti chiave della storia italiana: il Risorgimento e la situazione attuale. Antonio Gramsci diede del Risorgimento la famosa definizione di «rivoluzione passiva», incapace cioè di coinvolgere e rappresentare le masse popolari delle campagne e delle città. Egli procedette a un' analisi impietosa degli insuccessi del Partito d'Azione e di come esso fosse subordinato alla strategia di Cavour e dei moderati, lasciandosene assorbire "molecolarmente". Lo stesso Garibaldi nel 1861, in un famoso scontro con Cavour in seno al nuovo parlamento italiano, criticò aspramente gli esiti del Risorgimento. Ma bisogna sempre tener presente che a livello internazionale all' epoca si plaudiva alle imprese eroiche del Risorgimento, e Garibaldi veniva osannato per l'incomparabile ruolo svoltovi.
Oggi invece l'opinione pubblica internazionale è attonita e costernata nel vedere le forze democratiche italiane incapaci di liberare se stesse e il proprio paese da un regime così insolito e insidioso. Gli italiani hanno fatto l'abitudine a essere "salvati dall'Europa", come abbiamo visto. Ma in casi come quello di Berlusconi l'Europa è di scarsissimo aiuto. Come ha dimostrato il caso Haider in Austria, l'Ue manca della volontà politica unitaria e dei necessari strumenti per intervenire nelle vicende interne dei singoli paesi, anche se rappresentano palesi violazioni qei principi fondamentali dell'Unione.
E encomiabile che il centrosinistra italiano voglia evitare di spaccare in due il paese con esiti pericolosi e potenzialmente violenti. Ma devono esserci dei limiti, e chiari, a questa apparentemente infinita arrendevolezza. L'ultimo interrogativo di questo libro è quindi: chi salverà l'Italia, ammesso che qualcuno voglia farlo, e con che mezzi?

Capitolo quarto
Chi salverà !'Italia?

La seconda forza, sulla quale intendo concentrare la mia analisi, erano i volontari. Contrariamente a una convinzione diffusa non si trattava di qualche centinaio di teste calde concentrate nella Giovine Italia di Mazzini o a seguito di Garibaldi a Marsala nel 1860, vestiti di rosso per l'occasione ma armati solo di fucili difettosi.
Nel contesto di una società largamente analfabeta e predominantemente contadina, che appena inizia a comunicare nelle città con i giornali e col telegrafo, il numero dei fautori delle repubbliche giacobine alla fine del Settecento, degli affiliati alle sette, dei rivolto si del' 20-' 2 r, degli iscritti alla Giovine Italia, di coloro che scendono in piazza nel 1848 o partono volontari o organizzano ospedali o servizi di collegamento o contribuiscono alla difesa di Venezia, di Brescia, di Roma e di altre città nel r849, che tessono trame insurrezionali nei primi anni Cinquanta, che si arruolano volontari nel r859, nel r860 e nel r866, che si affollano ai funerali di Mazzini, di Vittorio Emanuele, di Garibaldi e di altri ancora, è assolutamente imponente, quantificabile con ogni probabilità in decine e decine di migliaia di persone. E una dimensione che va presa sul serio.

Nell'unificazione d'Italia ebbero ruoli predominanti due forze armate autoctone. La prima era l'esercito regolare piemontese, che condusse una serie di sanguinose battaglie contro gli austriaci, perdendone più di quante ne vinse, ma fornendo non di meno l'indispensabile contributo dinastico alla causa nazionale. I grandi sacrifici umani che questa strategia comportò non debbono in alcun caso venir dimenticati.
Nella battaglia di Novara del marzo r849, Cesare Balbo perse il figlio diciottenne, Ferdinando, tenente di batteria. Una palla di cannone lo decapitò. Massimo d'Azeglio scrisse a Balbo il3 o marzo 8491:

Lo sai che mi sei più che fratello, e sai se lo piango con te quel bravo quel nobile quel virtuoso Ferdinando, l'ho pianto ieri quando lo seppi, e lo piango oggi, ora mentre ti scrivo [ ... ] E tu mio bravo Cesare, ti guardo con venerazione; chi ha sofferto e soffre quanto te per la nostra disgraziata patria? Tu ne sei vero martire, e ti conosco, e so che porti questo colpo crudele con fortezza, ma il tuo povero cuore anche quello lo so come sta.

. I volontari del Risorgimento.

Ma chi sono tutte queste persone3? Se ci concentriamo sul nucleo centrale dei volontari possiamo distinguere tre fondamentali caratteristiche: sono giovani, di sesso maschile, appartenenti ai ceti medi. Ciascuna di queste definizioni necessita di ulteriori distinguo. Sono si giovani, ma la loro non è una rivolta prettamente generazionale. Al contrario; soprattutto negli anni 1848-49 i giovani volontari si affiancano spesso ai veterani napoleonici. Spesso, va detto, la fiducia dei primi nei secondi si rivela mal riposta. Esistono anche forti connessioni di carattere famigliare, risalenti alle generazioni precedenti - un nonno che prese parte alle repubbliche giacobine, un padre imprigionato salvato dal figlio intrepido, come nel caso di Settembrini, e soprattutto madri e sorelle che appoggiano le passioni dei loro figli e fratelli condividendole con trepidazione, costrette a prepararsi all'idea di ricevere notizia della loro morte in battaglia.
I volontari sono maschi e prendere le armi spetta a loro. Ma anche questa è una affermazione di carattere generale che va specificata meglio di quanto sia stato fatto in passato. Nelle insurrezioni urbane del 1848-49, ad esempio, le donne si ritrovano spesso sulle barricate. Durante le Cinque Giornate di Milano delle 409 persone uccise durante i combattimenti, 39 erano donne, in gran parte di estrazione popolare. All'estremo opposto della scala sociale, donne come Cristina di Belgioioso assumono un ruolo fondamentale per la pubblicazione di materiale politico, la raccolta di fondi, i loro salotti diventano punti di aggregazione. Benché le donne siano state semplicemente ignorate, "nascoste dalla storia" nelle cronache ufficiali, il loro contributo al Risorgimento è costante a vari livelli che solo oggi sono oggetto per la prima volta di analisi sistematica.
I volontari appartengono alla classe media. È senz' altro vero e ancor più sorprendente in un paese in cui i ceti medi restano una piccola percentuale della popolazione. Si tratta spesso di professionisti - medici, avvocati e casi via -; oppure sono universitari che studiano a Pisa, Padova e Pavia, ma anche giovani che frequentano il seminario di Mantova, o, in Calabria, il collegio italo-greco di Sant' Adriano in San Demetrio Corone, che fu straordinario luogo di apprendistato per i giovani patrioti del Meridione. Non mancano artigiani e lavoratori autonomi, soprattutto nel Centro-Nord, che sanno leggere e sono fortemente recettivi agli ideali del Risorgimento. Nella spedizione dei Mille circa la metà dei volontari erano di estrazione borghese e 1'altra metà era formata da artigiani e operai delle città. Per più di tre quarti provenivano dalla Lombardia (434 su 1089), dal Veneto e dalla Liguria, ma questo non deve farci dimenticare che 1'esercito meridionale di Garibaldi contava circa 60000 uomini quando raggiunse Napoli. Circa un centinaio dei volontari che partirono con Garibaldi erano artisti o scrittori, o entrambe le cose.
La decisione di giocare un ruolo attivo nel Risorgimento, di mettersi a rischio, ha radici culturali molto specifiche. È l'energia romantica, il «bottom wind» per usare la meravigliosa espressione di Samuel Coleridge, il «vento dal profondo» che si riversa nei movimenti nazional-patriottici dei decenni centrali dell'Ottocent07• Ovviamente il legame tra romanticismo e Risorgimento è un legame complesso, non automatico. L'intensa autoreferenzialità tipica della cultura romantica viene inizialmente indirizzata verso quell' amour-passion che tanto consuma l'energia dei romantici e ampio spazio trova nei loro epistolari e diari. Ma la forza propulsiva del movimento non si ferma a questo. Il romanticismo non è solo un movimento introspettivo ed emotivo, che procede dall'esperienza interna a quella esterna, ma si muove anche in senso inverso. In altre parole, l'interiorità fortemente arricchita, appassionata e inquieta, è alla costante ricerca di espressioni esterne degne di essa. Episodi come le spedizioni di Garibaldi risposero perfettamente a queste necessità emotive e culturali.
Le lettere scritte dal ventinovenne Ippolito Nievo durante la spedizione dei Mille ai familiari illustrano bene nella loro sequenza l'evolversi del suo stato d'animo, dapprima espresso in toni drammatici, in seguito sempre più scanzonati e autoironici man mano che l'impresa riusciva vittoriosa contro ogni pronostico.
Al fratello Carlo, 5 maggio I860, Genova:

Avverto te solo che al punto che leggerai queste righe io avrò già fatto vela verso il Mezzogiorno d'Italia - Usa con prudenza verso la Mamma di questa notizia, per tutto quello che potesse nascere - Appena potessi mi affretterò a darti le mie novelle, come pure a mandarne a casa. Ma quando? - Dio solo lo sa - Speriamo peraltro nella Provvidenza e ricordiamoci ed amiamoci sempre che la nostra vita o lunga o breve sarà stata abbastanza felice.

Alla Mamma, 5 maggio I860 da Milano (in realtà scriveva da Genova. Il tentativo di tacere alla madre la realtà delle cose ha vita breve):

Oh Mamma mia, è una cosa ben diversa veder le cose da lontano e il provarle da vicino! È una gran disgrazia comune a tutti di guardar le cose traverso il prisma della passione! Lo so, lo sento; ma nessuno ci ha trovato il rimedio e neppur io. Le necessità bisogna subirle; ecco tutto [ ... ] Mamma, ti voglio molto bene: questo posso dirtelo. Sono dunque ben potenti le ragioni che mi inducono a far cose che non sono forse di tuo pieno aggradimento! Perdonami te ne prego, ed amami lo stesso, amami di più.

Alla cugina Bice Melzi Gobio, Palermo, 24 giugno I860:

Non siamo morti in mare, ma perdendo quell'incertezza, abbiamo acquistato la certezza di morire in terra. Palla o capestro sono per noi [corsivo suo] [ ... ] E noi soli, ottocento al più, sparsi in uno spazio grande quanto Milano, occupati senz'ordine, senza direzione (come ordinare e dirigere il niente?) alla conquista d'una città ... lo era vestito come quando partii da Milano; mostrava fuori dei calzoni quello che comunemente non si osa mostrar mai al pubblico, e portava addosso uno schioppettone che consumava quattro capsule per tirare un colpo [ ... ] Il Generale era stupendo anch'esso. - Egli restò sempre in maniche di camicia: aveva sopra di me il solo vantaggio che i suoi calzoni invece che rotti erano rappezzati.

2. Sulla potenzialità politica dei ceti medi oggi.

È possibile distinguere nella società italiana di oggi degli elementi che ricordino i garibaldini di ISO anni fa? Oppure siamo tutti semplicemente ipnotizzati e rassegnati, privi della capacità di coordinarci o di esprimere un pensiero diverso? Per rispondere a questo interrogativo concentrerò la mia attenzione sulla componente della società italiana che mi è più familiare - i ceti medi.
La prima osservazione è che, a ISO anni da Garibaldi, sono cresciuti moltissimo. In base ai dati forniti da Paolo Sylos Labini, i ceti medi urbani italiani, in cui l'autore raggruppa le quattro principali categorie degli impiegati pubblici e privati, degli artigiani e dei commercianti, nel 1881 rappresentavano il23A per cento della popolazione mentre nel 1993 toccavano. Oggi secondo le stime sono il 60 per cento e la loro crescita è specchio della sempre maggior complessità della divisione del lavoro e del predominio del terziario in economia. Anche il loro livello di istruzione è piti elevato che mai. Nel I9SI gli italiani analfabeti, senza titolo scolastico o con il diploma solo della scuola primaria costituivano 1'89,8 per cento della popolazione. Cinquant'anni dopo gli italiani in possesso di un titolo di studio medio, superiore o universitario erano diventati i163A per cento della popolazione1°. Questa rivoluzione scolastica lascia l'Italia ancora ben lontana da Germania, Francia e Gran Bretagna, ma è innegabile che il paese può vantare un ceto medio sempre piti esteso e istruito.
Storicamente i ceti medi sono stati spesso oggetto di aspre critiche. In termini marxisti furono sempre considerati un elemento residuale della società, una "piccola borghesia" instabile e inattendibile, destinata in ogni caso a scomparire con l'avanzare del capitalismo. Invece i ceti medi urbani, vasto agglomerato di forze sociali fortemente differenziate al proprio interno, non hanno mai cessato di crescere, numericamente e in complessità.
Altre analisi, più specificamente focalizzate sulla società italiana degli ultimi cinquant' anni, hanno portato alla ribalta quelle componenti dei ceti medi che hanno vissuto in modo parissatario a spese dello stato, i topi nel formaggio, come li definisce Sylos Labini, strettamente dipendenti dagli appoggi clientelari offerti dalla classe politica, in particolare dai democristiani.
Io invece intendo concentrarmi su una componente significativa dei ceti medi, poco studiata ma in apparenza dotata di notevole potenziale civico In tutta Europa si è sviluppato un ceto medio attivo nelle professioni socialmente utili, tra gli insegnanti, gli assistenti sociali, gli amministratori e gli impiegati del settore pubblico, nel terzo settore, tra gli studenti, i lavoratori del settore dell'informazione e quella della cultura, che hanno maturato una prospettiva diversa da quella tradizionale rispetto al proprio ruolo e alla propria responsabilità sociale. A ingrossarne le file è stato un numero sempre crescente di donne molto istruite, alla ricerca di un impiego adeguato alla loro professionalità, ma in forte difficoltà nel trovarlo, soprattutto al Sud. Alcuni studiosi, tra cui io stesso, hanno scelto di definire questa componente «un ceto medio riflessivo», non perché i suoi membri assumano la posa del Pensatore di Rodin, chino in perenne contemplazione, ma nel senso che volge un occhio critico allo sviluppo stesso della modernità, alle sue stesse radici e attività. Anziché essere acriticamente dedita ai ritmi intensi e al consumo materiale del mondo moderno, questa classe media ha maturato una maggior consapevolezza dei pericoli globali, del danno provocato da un consumo irresponsabile alla qualità della vita quotidiana, dei nessi tra scelte private e conseguenze pubbliche.
Naturalmente le ampie generalizzazioni sociologiche che hanno per oggetto le classi o i ceti (o entrambi) danno adito a numerose obiezioni. Alto è il rischio nell' attribuire a un particolare gruppo sociale una serie di atteggiamenti e ruoli, sia privati sia pubblici. Non vi è garanzia (e come potrebbe esistere, date le molteplici sottili distinzioni di formazione individuale e di tradizione famigliare ?) che un insegnante o un operatore del settore informatico sia un "soggetto riflessivo". La pubblica virtù, comunque venga definita, non è determinata dall'occupazione. Al limite, quest'ultima può rappresentarne un fattore costitutivo, ma in nessun caso un fattore determinante.
Detto questo, colpisce non di meno come l'opposizione ai governi di Berlusconi provenga in parte considerevole da questi settori dei ceti medi. A partire dalle grandi manifestazioni della primavera e dell'autunno 2002, fino alla dimostrazione organizzata attraverso Internet dal "Popolo Viola" del dicembre 2009, numerosi appartenenti a questi strati sociali si sono mobilitati contro il regime. Ovviamente nel corso di questi dieci anni si sono evidenziate differenze di composizione sociale. L'anima della prima tornata di proteste, i cosiddetti Girotondini, cresciuti culturalmente con il '68 e occupati soprattutto nel settore pubblico, godevano in gran parte di un lavoro stabile e avevano in media più di quarant'anni. I giovani delle manifestazioni più recenti fanno invece parte di una generazione che per la prima volta nella storia della Repubblica è costretta a subire in modo massiccio la mobilità sociale discendente. Spesso i membri di questa generazione possono vantare a loro volta un capitale culturale alto, ma accompagnato da un capitale economico pressappoco inesistente. La loro voce, quella di "san Precario"per intenderci, è un grido di angoscia ma anche, straordinariamente, di rispetto della legge e della Costituzione.
La mobilitazione di questo decennio, che ha visto un numero altissimo di partecipanti, non si è limitata alle manifestazioni di piazza. In barba al tentativo del governo Berlusconi di modificare la Costituzione, un coordinamento nazionale, composto dalle associazioni della società civile, dai partiti di opposizione (alcuni più entusiasti di altri) e dai cittadini comuni, stravinse nel giugno 2006 un referendum abrogativo delle modifiche avanzate da Berlusconi. Nel complesso queste forme di resistenza, insieme a freni più istituzionali, come i poteri limitati, ma significativi, del presidente della Repubblica, e la caparbia tenacia della magistratura, hanno rallentato (quantomeno finora) il precipitoso corso delle ambizioni autoritarie di Berlusconi. Antonio Gibelli ha ben sintetizzato la portata storica di queste resistenze:

Se volessimo tenere aperta la comparazione tra il berlusconismo e il fascismo storico, si potrebbe dire che il progetto di modificare alla radice e in maniera irreversibile 1'assetto costituzionale del potere, realizzato da Mussolini alla metà degli anni Venti, e di rompere gli argini nella conquista del consenso, riducendo la società a un piatto conformismo e gli oppositori a una sparuta minoranza, in questo caso non ha per ora avuto successo".

Tutto questo costituisce un antidoto necessario e salutare alle frequenti osservazioni dei commentatori stranieri quanto alla mancanza di un' opposizione a Berlusconi. Ma non basta. Se consideriamo con maggiore attenzione la componente della società italiana che si è mobilitata, e i ceti medi riflessivi in particolare, notiamo che il quadro è più complesso e meno confortante di quanto appaia a un primo sguardo. Il movimento di questi anni è stato spesso descritto come un fiume carsico, che scorre sotterraneo per gran parte del tempo ma occasionalmente spumeggia in superficie con grande forza. E una metafora troppo facile e consolatoria. Più fedele alla realtà sarebbe un'immagine che evochi instabilità e incostanza, in cui a brevi periodi di impegno nella sfera pubblica seguono lunghi periodi di distacco e di silenzio. Molti dei ceti medi "garantiti" hanno seguito questo tipo di percorso. Essi hanno sempre possibilità di scelta e, di fronte alla ripetitività delle manifestazioni e allo scarso incoraggiamento proveniente da gran parte del ceto politico di sinistra - «1' anti- Berlusconismo è controproducente» è una delle sue trovate più ragguardevoli - scelgono di ritirarsi nel privato, e di continuare a lagnarsi senza fare più nulla. Questo ultimo atteggiamento è, purtroppo, tipico della grande maggioranza degli intellettuali italiani di oggi.
Per l'altra componente di questo ceto, la più precaria, che si è tinta di viola nel 2009, le cose si complicano ulteriormente. Può darsi che in futuro siano costretti in misura maggiore all' azione collettiva dall'andamento disastroso del mercato del lavoro. Senza dubbio dovranno affrontare scelte difficili. Quasi trent' anni fa in un classico studio antropologico sulla provincia di Salerno, intitolato Chi può e chi aspetta Amalia Signorelli anticipava molti dei dilemmi odierni. Osservando gli atteggiamenti e le aspettative di un insieme di giovani, spesso di istruzione superiore, provenienti da una realtà italiana periferica, 1'autrice individuava un costante conflitto interno, quasi una schizofrenia culturale, una sorta di tiro alla fune tra «particolarismo e universalismo, convenienza propria e giustizia, clientelismo e legalismo»15. Lo stesso genere di conflitti interiori e di incertezze sono fortemente presenti ancora oggi.
In termini culturali bisogna soprattutto domandarsi fino a che punto esista ora una visione alternativa del mondo moderno, condivisa da tanti appartenenti ai ceti medi, sia anziani sia giovani. In altre parole chiedersi in che misura sia presente un "bottom wind" che accarezza e sospinge gli individui, come fece il romanticismo nella prima metà dell'Ottocento. Le critiche al capitalismo globale, venute alla ribalta per la prima volta con le proteste in occasione del summit della Wto a Seattle nel 1999, hanno senza dubbio agito da potente catalizzatore all' azione in molti settori - cambiamento climatico, povertà mondiale, strapotere delle grandi corporazioni globali e cosi via. Si sono tradotte anche nella vita quotidiana grazie a una vasta serie di attività e associazioni. Ma siamo ancora lontani da quella grande forza appassionata e inquieta che era il romanticismo e che condusse un numero molto considerevole di giovani dei ceti medi a mettersi in gioco con grande serietà.
Infine occorre considerare il possibile impatto che la crisi finanziaria scoppiata nel 2008 avrà sui ceti medi italiani. Secondo gli economisti più perspicaci è destinata a protrarsi nel tempo, assumendo la forma prolungata delle precedenti crisi e depressioni globali. Già prima della crisi veniva tributata una notevole attenzione al deterioramento delle condizioni dei ceti medi, alla loro "paura di cadere".

Fino a che punto i ceti medi dell'Europa meridionale "cadranno" all'introduzione di nuove drastiche misure di austerità e quali conseguenze avrà la loro caduta? Esiste senz' altro il timore giustificato che il razzismo e il populismo crescano di importanza con il protrarsi della crisi, diffondendosi dalle loro basi originarie fino a permeare la società in generale. Ma molto dipenderà dall'offerta politica di ciascun paese, in Italia come in Spagna, in Grecia e in Portogallo.

3. Alleanze e leadership.

Mi sono concentrato su un'unica componente della società italiana, ma è ovvio che l'Italia dev' essere condotta fuori dalla situazione attuale da un' ampia alleanza di forze sociali, delle quali i "ceti medi riflessivi" sono solo una parte, pur significativa.
Vorrei tornare indietro per un momento al Risorgimento e citare Carlo Cattaneo per l'ultima volta. E sua la magnifica descrizione di come varie forze sociali trovarono un terreno comune nella lotta contro gli austriaci nel periodo antecedente al marzo 1848. In alcuni punti è di sorprendente attualità. Per Cattaneo il processo di costruire un fronte comune fu lento ma continuo, una componente della società dopo l'altra acquisirono «la coscienza nazionale», dando vita lentamente a una spinta inarrestabile:

Ella [la coscienza nazionale] si svolse prima in coloro che avevano più bisogno di libertà negli studi nei commerci, nei viaggi [ ... ] Poi si destò mano mano, anche nei

In un suo lavoro recente Arnaldo Bagnasco torna all' esperienza dei distretti industriali, che è stata oggetto di tanta attenzione nel passato. Qui identifica, pur con tutte le difficoltà e limiti, un processo positivo di lungo termine: «La crescita è stata attivata da classi medie che hanno coinvolto le società locali in un processo di mobilitazione di mercato, assai diversa dalla mobilitazione individualistica nei meccanismi di consenso [ ... ] I ceti medi hanno esercitato una specie di egemonia culturale nel dare forma alla nuova società, ottenendo in complesso livelli elevati di integrazione e coesione sociale,>; ARNALDO BAAGNASCO, Società fuori squadra. Come cambia l'organizzazione sociale, il Mulino, Bologna 2003, pp. 134-35. Viene da chiedersi quanto questo quadro sia ancora valido a fronte della crescita della Lega, soprattutto in Lombardia e nel Veneto. E sarebbe interessante discutere, sotto il profilo della sociologia politica, ma non solo, i rapporti tra queste diverse componenti dei ceti medi. magistrati, ch'erano pure accuratamente spiati e trascelti a essere arnesi di obbedienza: nei sacerdoti, benché domati dall' episcopale superbia a tradurre anche 1'evangefio in dottrina di servi tu: nei contadini, benché tenuti dagli avari e gelosi padroni quanto più vicino si potesse alla natura di bestiami: per ultimo nei cortigiani medesimi, a cui le dovizie e la nobiltà non sembravano presidio alla dignità del vivere, ma diritto ad andare inanzi a tutti nella viltà. Questa mutazione degli animi era lenta, ma continua, universale; irreparabile a qualsiasi scaltrimennto di polizia 17.

Il processo descritto da Cattaneo trova paralleli in altre situazioni in cui la tirannia, variamente definita e praticata, ha permeato profondamente la nazione. Nel costruire un ampio fronte di opposizione a essa gli autori della grande tradizione marxista del Novecento hanno sempre posto l'accento su una necessaria gerarchia delle forze sociali. Nei Quaderni dal carcere Gramsci ricorre all'immagine del treno. Naturalmente il proletariato è la locomotiva e le altre forze sociali sono i vagoni, disposti in base al rispettivo potenziale politico. Come scriveva Gramsci, «restando ferma la funzione di "locomotiva" della prima forza, occorre esaminare le diverse combinazioni "più utili", atte a costruire un "treno" che avanzi il più speditamente nella storia»18. La storia non è stata benevola nei confronti di questi schemi. Oggi in Italia la classe operaia, un tempo concentrata nelle grandi fabbriche, consapevole del proprio potere e dotata di abilissimi leader sindacali, ha subito un consistente processo di smembramento e atomizzazione. Sarebbe difficile sostenere che occupi una posizione di primo piano nella critica della società moderna o del moderno consumo. Significative percentuali dei suoi appartenenti votano per una o l'altra parte della coalizione di Berlusconi, soprattutto per la Lega Nord. Con l'inasprirsi della crisi è terreno sempre più ricettivo per discorsi razzisti e populisti.
Tuttavia bisogna badare a non esagerare, come fanno molti commentatori, che annunciano la «morte della classe operaia» fondamentalmente assoggettata a una visione neoliberale globale del mondo. Negli ultimi dieci anni anche settori significativi dei lavoratori sindacalizzati si sono messi in movimento. Il 73,6 per cento del lavoro in Italia resta dipendente e vede retribuzioni in calo, diritti in rapida e precariato in aumento.
In queste condizioni è necessario evidenziare le possibilità di un'ampia alleanza sociale e politica tra significative porzioni delle classi popolari e dei ceti medi. Non è necessario identificare un'unica classe che si ponga alla guida di un simile movimento. L'alleanza sarebbe contro il governo Berlusconi, contro il consenso neoliberale che egli rappresenta, contro il "sado-monetarismo", secondo la definizione che si è rapidamente diffusa - il tentativo cioè di far pagare alle classi lavoratrici e ai ceti medi la crisi mondiale nata dalla cupidigia dei ricchissimi.
Un'alleanza del genere richiede idealmente una leadership politica di tipo particolare - non settaria, disinteressata al potere personale, capace di unire più che di dividere, fortemente critica nei confronti delle prassi politiche e dei rapporti patrono-cliente cosi tipici di ogni settore della politica e della società italiana. Una leadership collettiva di questo genere - di leader carismatici ne abbiamo forse già abbastanza in Italia - servirebbe a promuovere al contempo la giustificata difesa di interessi materiali e un profondo rinnovamento culturale.

4. Con che mezzi?

Il 12 gennaio 1848, data scelta appositamente in quanto genetliaco di Ferdinando II di Borbone, lo studente Giuseppe La Masa assieme ad altri giovani rivoluzionari e patrioti siciliani decise di innalzare il tricolore e proclamare la rivoluzione a Palermo. Nel Proclama che preannunciava l'evento, i rivoluzionari siciliani dichiaravano: «il tempo delle preghiere inutilmente passò. Inutili le proteste, le suppliche, le pacifiche dimostrazioni [ ... ] Il giorno 12 gennaio 1848, all'alba, segnerà l'epoca gloriosa della universale rigenerazione. Palermo accoglierà con trasporto quanti Siciliani armati presenteranno a sostegno della causa comune»!? Il programma perseguito era l'indipendenza da Napoli e la costruzione di un'Italia federale e democratica.
Tuttavia quel mattino fatale non si vide nessuno.
Un anonimo partecipante scrisse in seguito che in piazza della Fieravecchia, uno dei punti di raccolta dei rivoluzionari,

non più di 20 cittadini muniti di arme bianche e chi da fuoco, col nastro tricolore nel petto e sul capo, smisurato ardire, stanno ansiosi aspettando che altri venisse a far massa più imponente e compatta. Fu tremenda quell'ora di aspettativa e di dubbio; ma si aggiungevano altri volonterosi di aumentarci e senza armi. Alcuni di questi ne vanno in cerca nelle case delle prossime vie, pregando i timiidi a darle o invogliando gli animosi a seguirli.


Pili tardi quella stessa mattina fecero la loro comparsa altri gruppi di patrioti, ma giunsero anche i soldati borbonici, presenti all'epoca in città secondo le stime in 5000 unità. Aprirono il fuoco e i patrioti fuggirono lasciando morti a terra. La sera La Masa e i suoi compagni ritentarono, sempre nel quartiere popolare di Fieravecchia, in cui la piazza la mattina era rimasta deserta. Stavolta però spuntarono una Lrentina di barricate e gli artigiani e i pescatori del quartiere si unirono ai giovani borghesi. Nei giorni successivi in città giunsero altri 5000 soldati di rinforzo e Ferdinando II decise di bombardare la città dal mare, sperando in tal modo di forzare i ribelli alla resa. Ma così non fu e il 27 gennaio fu costretto a lasciare la città saldamente in mano alle forze rivoluzionarie.
L'intero Risorgimento è pervaso di violenza - e a dire il vero non poteva essere altrimenti, perché tutto il nazionalismo romantico dell'Ottocento si basa sulla celebrazione della prodezza dei suoi guerrieri, del passato come nel presente. Pochi sono i grandi scrittori romantici europei - Shelley è uno di questi che si dichiararono per principio contrari all'uso della forza.
Raramente nel Risorgimento troviamo violenze gratuite ma ovunque entrano in azione le "virtù forti" di Bobbio: determinazione, prodezza, ardimento ecc. La famosa cronaca della spedizione dei Mille di Abba è un lungo elenco di queste virtù essenzialmente maschili, intimamente legate alla ineluttabile violenza. Il leone e la volpe del Machiavelli avrebbero trovato nella spedizione pane per i loro denti.
Il giovane Mazzini andò addirittura oltre. Era convinto che il fine (l'unità e l'indipendenza dell'Italia) non solo giustificasse i mezzi, ma in realtà conferisse loro una diversa statura morale. «L'odio e la vendetta, - scrisse, - turpi in sé, si convertono in santissimi affetti, quando la vittima è il depredatore straniero e l'altare quello della libertà e della patria. E senza quell' odio e quella vendetta non acquisteremo mai la patria e la libertà».

Che alternativa resta a chi oggi vorrebbe salvare l'Italia ma con mezzi diversi? Certo se una delle aspirazioni principali è creare una nazione mite, per come ho cercato di delinearla nel secondo capitolo, allora i metodi del Risorgimento e, a dire il vero, della massima parte della storia nazionale, sono totalmente fuori luogo. Le strategie di azione politica che ripudiano la violenza considerandola solo un'estrema risorsa - un fallimento in partenza - si prefiggono un ben arduo compito. La misura della difficoltà è data dall'andamento dei movimenti anti-Berlusconi di questi anni. Essenzialmente pacifici, hanno dovuto sempre fare i conti con un paradosso di fondo: sono proprio la loro moderazione e il senso di responsabilità a condannarli all'impotenza. Questo vale soprattutto in una società dominata dai media, che misura l'importanza di un evento non tanto dalla sua valenza civica, quanto in termini di spettacolarità. «Ci risentiamo solo se c'è qualche episodio di violenza», ci dicevano i giornalisti quando, da studenti a Cambridge nei primi anni Settanta, manifestavamo contro il regime dei colonnelli greci. La violenza ci fu e ci ritelefonarono, ma un'esperienza del genere non è esattamente educativa.
Idealmente, le "riforme mobili" sono quelle che, strada facendo, portano la gente a interessarsi alla politica, ad autorganizzarsi, a prendere parte continuativa nel processo riformatore. In questo schema gli individui non sono solo i destinatari passivi delle politiche che discendono dall' alto, ma diventano rapidamente cittadini attivi, critici e dissenzienti. Un'idea simile porterebbe al capovolgimento della politica come la conosciamo ora, perché imporrerebbe ai politici di diffondere il potere, invece di concentrarlo. Il concetto delle "riforme mobili" può essere applicato a molte sfere diverse - all' ambiente con la raccolta differenziata, il risparmio energetico e altre misure che partono dalle famiglie stesse, alle politiche partecipative con la creazione di veri forum dei cittadini (non quelli fasulli della "consultazione"). In questa dinamica, assimilabile forse a una palla di neve che, in movimento, guadagna sempre più volume, il fine non giustifica i mezzi. Piuttosto i mezzi diventano essi stessi parte del fine.
Ho lasciato l'Italia di Canova mentre usciva al sole di Piazza Santa Croce. Ha riposto decisa il fazzoletto e se ne va maestosa e sorridente con la cornucopia in mano. Il paese sta cambiando sotto i suoi occhi. Dall' altra parte della piazza le viene incontro un gruppo di donne, portandole dei fiori per la sua cornucopia, come Garibaldi li aveva portati a Manzoni nel marzo del r862. Sono le rappresentanti di una nazione profondamente rinnovata nelle istituzioni pubbliche e nella cultura democratica, rivitalizzata dall'Europa ed essa stessa diventata elemento vitalizzante, pervasa da un'idea dell'eguaglianza che accompagna fiera la libertà invece di distruggerla. Le donne della piazza e gli uomini a loro fianco non lamentano pio la mancanza di una forte identità nazionale italiana ma trovano invece la loro ispirazione in L1na virto sociale solo apparentemente debole, quella della mitezza. Il loro è un patriottismo difensivo e compassionevole. La forza del loro esempio si propaga a una cittadinanza ormai stufa di essere passiva e rinunciataria, diluisce e contrasta le tossine che hanno caratterizzato in chiave cosi catastrofica la storia del Novecento. Questa nuova Italia esprime insieme con la mitezza anche la fermezza, sia all'interno del paese sia in campo internazionale. In patria cerca di capovolgere la lunga tradizione di clientelismo che costituisce l'anticamera delle organizzazioni criminali, offrendo in cambio regole chiare e trasparenti, rispettate da tutti. All' estero predica la cultura della pace e invita altri paesi a condividerne le ambizioni. Questi intenti, queste azioni indicano a tutti qual è il posto che l'Italia desidera occupare nel mondo moderno.


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