venerdì 13 gennaio 2012

libro giorgio ruffolo un paese troppo lungo

UN PAESE TROPPO LUNGO
Giorgio Ruffolo

Introduzione

Guardo la carta d'Europa, e sento lo sforzo di quell' ap­pendice geografica di staccarsi dal "corpaccione" asiatico pro­tendendosi verso l'Atlantico e il Mediterraneo, Un corpo centrale compatto, dalla Polonia alla Francia, lancia al Nord la penisola scandinava (un'Italia malriuscita) e un'esile pun­ta danese; al Sud, una Spagna tozza e una Grecia che va in frantumi.
Al Nordovest si è distaccata la forma piumata dell'Inghil­terra, e al centro del Mediterraneo quella di un'Italia chia­mata, che si distende restringendosi alla vita e articolandosi alle estremità. A quella figura elegante non si addice l'imma­gine sgraziata dello Stivale, ma piuttosto quella di una signo­ra, leggiadramente fluttuante sul mare. Una penisola lunga, un po' troppo lunga, dissero gli Arabi, che la tormentarono per tanto tempo senza riuscire a possederla tutta intera, co­me del resto tante altre nazioni dominatrici, tranne Roma, che però la immerse in un grande impero.
Di questa un po' eccessiva lunghezza si tratta in questo li­bro, e delle vicende che hanno reso, attraverso la storia, tan­to problematica e che tuttora, a distanza di centocinquant' an­ni, insidiano la sua definitiva unificazione.

Quella storia la ripercorro dal momento in cui di Italie se ne contrappongono due: una al Nord, l'altra al Sud. E, in ma­niera un poco inusuale, parto da quest'ultima, colta appena alla fine dell'alto Medioevo, quando ci appare frammentata tra ducati longobardi, colonie bizantine, repubbliche marina­re e scorrerie saracene, fissando l'immagine su un punto d'os­servazione privilegiato, la città di Amalfi, insieme con Vene­zia la più precoce tra le repubbliche marinare italiane. A quel tempo, se si eccettua appunto Venezia, tutto il Nord era com­preso in un'unità politica, il regno d'Italia, a sua volta inclu­so nell'impero germanico. Seguo la scena fin quando improv­visamente si ribalta, con un Sud che si compone in un regno potente, normanno e poi svevo, e un Nord che si decompo­ne tra i liberi Comuni e le ricche repubbliche del mare.
Ecco, quello era il momento: l'occasione che si offriva a li un grande sovrano di stringere queste due realtà in una gran­de unità federativa. Violando la norma che presiede alla ri­cerca storica (jactum infectum fieri nequi: alla buona, «ciò che è fatto è fatto») ho, allora, inserito nel racconto una varian­te impossibile, un "canone inverso", assegnando quel ruolo di unificatore d'Italia al grande Federico II che, in quei ter­mini, non l'avrebbe certo gradito. Chiudendo poi questa fan­tasia, che di certo non è storia, ma può servire a interrogarla criticamente, sono tornato alla realtà, e al modo catastrofico in cui !'Italia perdette la sua potenza e la sua indipendenza. La nota amara su cui si conclude questa parte è l'incapacità italiana di fondare sul suo primato economico e culturale uno Stato nazionale, come fecero altri grandi paesi europei. A quel punto, il destino dell'Italia era segnato. Il frate Savonarola, inascoltato, poteva annunciare l'invasione - resistibile - del re francese: «E' verrà, e' verrà».
Nella seconda sezione del libro, con un salto di cinque se­coli, ho rappresentato con rapidi tratti una vicenda non me­no inverosimile, ma stavolta vera: il modo avventuroso in cui l'Italia, dopo secoli di servitù, realizzò finalmente la sua li­bertà e la sua indipendenza, attraverso due fasi: quella di un Risorgimento caldo, animata dal sogno di un'Italia che fa da sé la sua unità, nazionale e popolare; e quella di un Risorgi­mento freddo, costruito sulla trama-capolavoro tessuta da un grande statista, Cavour, ma anche sulla paradossale intesa tra il moderatismo monarchico e il radicalismo repubblica­no: là dove il genio di Cavour incontra la malinconica sag­gezza del suo grande nemico, Giuseppe Mazzini, e la gran­de generosità di un inopinabile impetuoso alleato, Giuseppe Garibaldi.
Il 1860, anno dell'unificazione del regno, è l'anno in cui si compie il grande moto del Risorgimento. Ma è anche quel­lo in cui esso comincia a invischiarsi nella grande palude dell' «Antirisorgimento».
L'Antirisorgimento si sviluppa, successivamente, in tre forme storiche.
La prima è la corruzione del patriottismo risorgimentale nel nazionalismo aggressivo, che nasce dal gigantesco com­plesso d'inferiorità di una piccola borghesia frustrata da se­coli di servitù. Cavalcando la denuncia delle fragili istituzio­ni democratiche create dal nuovo Stato, esso precipiterà il paese nel massacro di una guerra mondiale e nell' avventura retorica e populista del fascismo. La nazione mussoliniana è l'antitesi della patria mazziniana. Là dove quella era conce­pita come parte di un generale affratellamento dei popoli eu­ropei e di un grande moto di solidarietà sociale, questa è l'e­spressione del primato militarmente aggressivo, e socialmen­te oppressivo, di un' élite violenta e dissennata.
La seconda consiste nel condizionamento dello Stato ita­liano da parte della Chiesa cattolica e della sua massiccia presenza a Roma. Che lo si voglia riconoscere o no, in Italia esistono due sovranità, non una: la sovranità nazionale è li­mitata da quella ecclesiastica. Si può fingere di non vedere. Nondimeno questa è la realtà che si esprime nei Concordati, e che tutti i discorsi sull' armonia tra le due istituzioni non rie­scono a dissimulare.
La terza è la questione meridionale. Il carattere antirisor­gimentale di conquista del Sud da parte della monarchia sa­bauda si rivela immediatamente dopo che le camicie rosse so­no scomparse, sostituite dalle uniformi blu dei soldati del re, nella cosiddetta «guerra del brigantaggio»: in realtà, una re­pressione violenta delle plebi contadine, schiacciate con la connivenza dei baroni. È proprio nella fase piti avventurosa del Risorgimento, quella rappresentata dall'unificazione con il Sud, che un'impresa nata sotto l'insegna della liberazione si corrompe in mera conquista, segnando tra le due parti del paese un solco fatale, che i tanti sforzi successivi non riusci­ranno a colmare.
Se, con un nuovo salto storico, approdiamo ai giorni no­stri, dobbiamo domandarci quanta parte di queste tre minac­ce insidi ancora il nostro paese, a centocinquant' anni dal com­pimento della sua unità.
Certo, la minaccia fascista è scomparsa; anche se non ne è affatto scomparsa la nostalgia, che si manifesta attraverso una continua campagna di denigrazione di quel secondo Risorgimento che è stato rappresentato dalla Resistenza. Al posto del fascismo, tuttavia, si è installata nel popolo italia­no un'altra forma di ripugnanza per le istituzioni della de­mocrazia, un «anti-antifascismo» che non fa appello alla re­torica nazionalista, ma a un' altra forma di populismo pri­vatistico, non più trascendente nel sentimento patriottico, ma nel tifo calcistico.
Tutt'altro che scomparsa è la seconda insidia, quella del protettorato cattolico, che trae dal neoguelfismo una tradi­zione illustre.
E infine, l'insidia più grave, conseguenza del fallito com­pimento dell'unità, è quella costituita dalla decomposizione, presente al Nord in forme tutto sommato pacifiche, anche se bizzarramente provocatorie, e incombente al Sud nella seces­sione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere del­la Repubblica.
Questa è la vendetta suprema dell' Antirisorgimento che il paese, a centocinquant' anni dall'unificazione, deve fron­teggiare. Sarebbe triste se le sue speranze di superarla fosse­ro tutte affidate a un'Unione Europea cui, anziché offrire l'esperienza di una ricca tradizione di diversità, si fosse costret­ti a chiedere di tirare la carretta di una penisola troppo lun­ga e sconquassata.
Ma una speranza, per quanto controversa, c'è.

I miei ringraziamenti vanno ad Alfredo Reichlin, che si è sobbarcato alla lettura di questo libro; a mia moglie che ha combattuto e vinto le mie esitazioni; e, una volta ancora, a Letizia Guerrieri, alla cui intelligenza e generosità devo il paziente lavoro di editing.

Parte Prima
L’UNITA’ MANCATA

Capitolo Primo
L’AVVENTURA AMALFITANA

I due golfi, di Napoli e di Salerno, sono divisi dalla peni­sola sorrentina, dominata dai monti Lattari. Sulla costa nord della penisola, Sorrento. Sulla costa sud, Amalfi, sul mare, aggrappata ai monti.
Diverse sono le condizioni delle città costiere, quanto al­le predisposizioni economiche. Città come Salerno e Napoli hanno alle spalle piane fertili che le spingono verso 1'agricol­tura. Città come Sorrento e Amalfi hanno terre avare e sco­scese, nelle quali occorre scavare terrazze ardue per ricavare raccolti strenui. È naturale che esse cerchino sfogo nei traf­fici del mare.
Ma in ciò hanno dimostrato diversa fortuna: Amalfi mol­tissima, Sorrento scarsissima. Dunque non è la geografia che basta a fare la storia.
Ma c'è cui piace ricordare la fanciulla, Amalfi, che Erco­le ha amato e che li ha trovato la morte. Forse, dietro il mito dei nobili fondatori c'è la realtà di una compagnia di navicu­lari, trasportatori di grano per conto dello Stato - e, all'oc­correnza, per conto loro - che fuggono di qua e di là bracca­ti dal fisco.
Amalfi è un piccolo borgo di contadini, pescatori e soprat­tutto mercanti di breve raggio. Delle ascendenze romane re­stano certe pretese, come quelle dei vicini ravellesi, che parla­no di un Quinto Fabrizio Rufo ex console romano, con relati­vo sarcofago conservato in una chiesa. Di certo, ricche famiglie romane, pare di liberti dei domini imperiali, avevano scelto di soggiornare nelle loro ville sontuose sulle rive di quel mare. Ma non ve n'era più traccia da quando, crollato l'Impero, i luoghi erano stati infestati dalla malaria, e percorsi dalle milizie goti­che e greche, e più tardi greche e longobarde, che se li conten­devano. Di quel borgo emerge notizia nel 596, in una lettera inviata da Gregorio I il Grande a un certo Antemio, suo ret­tore in Campania, nella quale il papa gli ordina di far tornare in sede il vescovo di Amalfi Pimenio, che pare se la fosse com­prensibilmente svignata per il terrore degli imminenti Longo­bardi. Dunque, già allora Amalfi aveva un vescovo.
Lasciatasi dietro la montagna per la costa, gli amalfitani non si erano accontentati di praticare quietamente la pesca. Quale sia la molla dell'ardimento che fin dall'inizio li sprona, è impossibile dire. Fatto sta che, ove altri guardano il mare come un orizzonte angoscioso, essi ne colgono l'invito all' av­ventura. Non al baratto fra due brevi sponde, ma al commer­cio con genti lontane di lingue ignote. Di quelle genti sarace­ne essi, certo, fanno esperienze dure, di violenza e di sopraf­fazione; ma anche d'intesa e di scambio.
Devono al tempo stesso fronteggiare la pressione germa­nica alle loro spalle e la minaccia saracena dal mare.
Salta agli occhi il raffronto con la condizione, al lato op­posto dell'Italia, di Venezia. L'analogia geografica, anzitut­to, di un territorio difficilmente accessibile e quindi ben di­fendibile: Venezia, grazie alla laguna nella quale è immersa, Amalfi, grazie alla catena dei monti cui è aggrappata. Analo­gia politica: la protezione offerta all'una e all'altra città dal­l'impero bizantino; e, insieme, l'ampio grado d'autonomia che esso, oggettivamente, accorda. Analogia caratteriale: le qualità d'intraprendenza, intelligenza, competenza e corag­gio che quei cittadini - per tanti altri aspetti cosi diversi - di­mostrano. Non ultime, certo, le analogie diplomatiche. È dif­ficile trovare nella storia altri casi cui si possa applicare con altrettanta precisione semantica il termine "barcamenare". E, infine, l'analogia statuale: ambedue non monarchie e non repubbliche comunali, ma "oligarchie assolute": un potere aristocratico radicato in un forte patriottismo cittadino.
Se queste sono le incontestabili analogie, il contesto po­litico generale è assai diverso.
Il Nord, se si eccettua proprio la Repubblica veneta, è uno Stato unitario, organizzato in un regno volta a volta posto sotto la sovranità gotica, longobarda, franca, e finalmente compreso nel più vasto ambito dell'impero germanico.
A sud della linea gotica il paesaggio politico resta, per cir­ca quattro secoli, frammentato. Lungo una fascia che scende da Ravenna a Roma, i Bizantini mantengono la sovranità del­l'impero, esercitata da un esarca. A Roma, in pratica, è il pa­pa che comanda. Nel resto dell'Italia centrale e nell'Italia me­ridionale interna si sono costituiti due ducati longobardi, in larga misura autonomi: quello di Spoleto e quello di Beneven­to, cosi che il dominio longobardo è interrotto. Calabria, Lu­cania, Puglia e Sicilia sono rimaste sotto sovranità bizantina.
T aIe quadro complesso è ben presto complicato da due nuovi attori. Il primo, l'Islam. I Saraceni non instaurano un dominio stabile, ma una stabile turbolenza che investe larghe zone della penisola. Il secondo, il nuovo impero germanico d'Occidente, costituito dai Franchi dopo avere sconfitto i Longobardi e averli sostituiti nel regno d'Italia: un impero ri­vale di quello bizantino e che pretende di esercitare su tutta l'Italia, al Nord e al Sud, la sua imperiale sovranità. C'è poi in Campania una breve fascia costiera costituita dal ducato di Napoli, formalmente sotto sovranità bizantina, ma sostan­zialmente sempre più autonoma (una Venezia del Sud): quel­la dov'è collocata Amalfi.
Con questa città abbiamo cominciato il racconto. E da essa tenteremo di seguire le vicende dell'Italia meridionale durante i secoli dell' alto Medioevo: dalla fine della guerra gotica al regno normanno e all'impero svevo. Ne anticipia­mo una caratteristica differenziale generale, rispetto al Nord d'Italia, con un flash. Mentre questi secoli segnano, nel Sud, il travaglio attraverso cui da una condizione anarchica di po­teri frammentati si giunge alla costituzione di un'unità politica, di un regno, al Nord si assiste a un processo inverso: dalla costituzione di un regno alla frammentazione di Comu­ni e di repubbliche. Ecco un tema peculiare che pesa sulla storia del nostro paese. Torniamo dunque ad Amalfi.

Amalfi bizantina.
Abbiamo già evocato la terribile morsa che minaccia di schiacciare Amalfi già dal suo nascere. Gli amalfitani devono fronteggiare sul mare l'incombente minaccia saracena e dalla parte di terra quella dei Longobardi del ducato di Benevento.
Bisogna però dire che essi non sono abbandonati a loro stessi. Amalfi, compresa nel ducato bizantino di Napoli co­me tutta la costiera campana, è stata preservata dall'invasio­ne longobarda dalle forze greche. L'impero d'Oriente, abbia­mo ricordato, è riuscito infatti a mantenere la sua sovranità su vaste regioni dell'Italia centrale e meridionale, esercitan­dola attraverso i suoi generali, i duces. Il ducato di Napoli è una di queste enclaves. E gli amalfitani ne sono fedeli suddi­ti. Alle origini della sua storia Amalfi si sviluppa dunque sot­to la protezione della flotta bizantina. Una protezione, però, necessariamente discontinua, data la distanza remota dalla capitale dell'impero e gli impegni molteplici cui gli eserciti e le navi greche devono assolvere su un ampio fronte. Per lar­ga parte del loro tempo gli amalfitani devono cavarsela da so­li, in una condizione di sostanziale autonomia.
C'è, nel rapporto tra Amalfi e Bisanzio, una saggia antica vena d'ipocrisia politica. Gli amalfitani sanno che non posso­no fare a meno, se non della potenza greca, che si manifesta in modo incerto e discontinuo, del "nome" imperiale, che di per sé costituisce un fattore legittimante e deterrente. Bisan­zio (i suoi grandi diplomatici, prima ancora che i suoi impe­ratori) sa di non disporre di un potere diretto su quella pic­cola città, che tuttavia comanda una grande flotta e costitui­sce un fattore potente d'intelligenza politica e di coraggio. Ai primi conviene recitare la parte dei sudditi fedeli. Agli altri quella dei sovrani indiscussi. È un fatto che nei momenti su­premi gli uni hanno potuto contare sugli altri.

Amalfi e i Longobardi.
I Longobardi erano originari della Scandinavia, che allora si pensava fosse un'isola. Era un paese decisamente povero e prolifico. Quando gli abitanti superavano le possibilità offer­te dalle risorse, si praticava una politica demografica radica­le. Si estraeva a sorte un terzo della popolazione, destinato a migrare verso il Sud. Cosi Diacono narra che avesse inizio la migrazione che, al comando di due giovani fratelli e della loro madre autoritaria, portò in cinquant' anni questo nuovo popolo alle soglie del grande Impero.
I Longobardi si chiamavano allora Winnili. Erano pagani, si dichiaravano protetti da Gutruna, la moglie del dio Wotan. Per renderli più numerosi e graditi al marito, contro i loro ri­vali, raccontavano che Gutruna avesse ordinato alle loro don­ne di sciogliersi i lunghi capelli, annodandoseli al collo in gui­sa di barbe. «Chi sono quelle lunghe barbe?»: aveva doman­dato, svegliandosi, il dio. E da quel momento il loro nome era cambiato.
La grande migrazione dei Longobardi del VI secolo aveva attraversato mezza Europa centrale, affrontato battaglie, su­bito sconfitte, ottenuto vittorie, sempre combattendo, aggre­gando nuove popolazioni, liberando schiavi per armarli, ac­cumulando bottini, e soprattutto esperienze; acquisendo in­formazioni e tecniche, raccogliendo racconti fantastici e mi­racolosi. Dalla serie dei loro re, una decina, per lo più eletti dai guerrieri, taluni imposti da congiure con la frode e la vio­lenza, era emerso alla metà del secolo VI un personaggio eccezionale per astuzia e immaginazione, che aveva osato con­cepire l'impensabile. Dopo avere massacrato il popolo dei Ge­pidi, sposato la figlia del loro re, la celebre Rosmunda costretta dallo sposo ubriaco a bere nel teschio del padre, e do­po essersi aggregato le schiere degli Unni-Avari, che si dice­va riuscissero a surclassare i Longobardi in ferocia, il giova­ne re Alboino decise di spingere la massa del suo popolo in armi - pare, fra due e trecentomila - attraverso il varco del­la pianura friulana, presidiata da un velo di truppe bizantine, subito travolte. Era il 568, e l'Italia era devastata dalla peste e stremata dalla micidiale guerra tra Goti e Greci. Una catti­va leggenda, diffusa probabilmente nell'harem del basileus da un'imperatrice gelosa, addossò al generale eunuco Narsete, vincitore dei Goti, l'accusa di avere invitato i Longobardi, molti dei quali avevano militato come mercenari nel suo eser­cito, a entrare in Italia per vendicarsi del suo richiamo. Ma Alboino non aveva bisogno di alcun invito: era di parecchi gradi più su dei suoi. Conosceva i mercenari e i loro raccon­ti sulle meraviglie dell'Italia. Sapeva che le forze capaci di re­sistenza vi erano esaurite. Che la popolazione odiava i Bizan­tini, per la rapacità fiscale e la condanna delle sacre immagi­ni. Che Bisanzio era lontana e divisa. E si era identificato con un'identità nazionale superiore, qualche cosa come una na­zione germanica ante litleram, che aveva osato aggregare an­che le orde asiatiche degli Unni, per piombare sull' antico Im­pero. Rispetto al quale non nutriva complessi.
Per qualche anno, dopo aver dilagato nella valle padana, sembrò che avesse veramente in mano l'Italia.
Il Sud d'Italia si trovò a dover fronteggiare anch'esso i Longobardi. Non è chiaro se quelli che l'occuparono fossero la coda della gente di Alboino o dei mercenari dell'esercito di Narsete, che già si trovavano sul posto. In ciascuno dei due casi si organizzarono in due grandi ducati, quello di Spoleto e quello di Benevento, largamente autonomi dal governo del re, che aveva stabilito la sua capitale a Pavia.
L'Italia meridionale è lunga e accidentata. Che fossero già là o vi fossero giunti attraverso una lunga marcia, i Longo­bardi del Sud non potevano essere tanto numerosi (forse cin­quantamila in tutto) da travolgere i Bizantini là dove, sulle coste, questi contavano sulla protezione delle loro flotte. Sul mare i Longobardi non erano a loro agio. Cosi si arrestarono di fronte alla punta estrema dello Stivale, Puglia e Calabria, e al limite della costa campana.
Nel Sud, come nel Nord, il primo impatto dell'invasione fu tremendo. Non si trattava di una devastante ma transito­ria scorreria, come nel caso degli Unni o di un semplice pro­nunciamento militare, come in quello dei Goti. Si trattava di un' occupazione stabile del territorio e di una violenta e sta­bile sottomissione della popolazione. Su quella che fu la sor­te dei Romani vinti ancora si discute fra gli storici: se furono ridotti alla condizione infima di schiavi, o a quella interme­dia di semiliberi (gli aldi). La loro classe dirigente, i grandi proprietari, nobili e no, furono semplicemente massacrati e le loro donne schiavizzate. Quando una classe dirigente è di­strutta, tutta una nazione scompare dalla storia.
Quando, dopo più di un secolo dall'invasione, gli italiani ricompaiono, è in una condizione socialmente subalterna e moralmente disprezzata. Quale fosse l'atteggiamento dei nuo­vi padroni nei confronti della popolazione italiana lo si può desumere da una risposta di Liutprando, vescovo di Cremo­na, all'imperatore Manuele, che gli rimproverava l'assenza di Romani nell' amministrazione del regno:

Noialtri Lombardi, come i Sassoni, i Franchi, i Lorenesi, i Bava­resi, gli Svevi e i Burgundi disprezziamo tanto il nome di Romani che, quando montiamo in collera non troviamo, per offendere i nostri ne­mici, un'ingiuria più forte della parola Romani, che per noi compren­de tutto ciò che c'è di ignobile, vile, avaro, lussurioso e bugiardo, tut­ti i vizi, insomma.

Dal loro canto, si può scommettere che i Romani non nu­trissero verso i loro padroni un'eccessiva simpatia.
La condizione dei dominatori nei riguardi delle popolazio­ni locali era del resto, in Italia, molto diversa da quella ,degli altri paesi europei. In quelli, gli invasori germanici - Franchi, Burgundi ecc. - avevano incontrato popoli romanizzati, si, ma non romani. Una volta eliminate le guarnigioni e le fami glie dei Romani non c'era motivo per cui non si stabilissero con le genti da essi sottomesse relazioni favorevoli a una reciproca integrazione.
In Italia era diverso. Vincitori e vinti erano, e restarono per molto tempo, oppressori e oppressi. Insomma, nemici. Per quanto tempo? Per molto tempo, fino e oltre la caduta del re­gno longobardo a opera dei Franchi. C'è da credere che, nel­la sostanza, l'amara sentenza manzoniana, che toglie agli i­taliani ogni illusione di approfittare della vittoria carolingia per recuperare la loro indipendenza, sia giusta: «l'un popolo e l'altro sul collo vi sta».
Le due aristocrazie, quella longobarda e quella franca, tro­vano facilmente la strada dell'intesa e della reciproca integra­zione, con il formarsi di quella che, alla fine, diventerà l'ari­stocrazia italiana, solo in minima parte erede diretta di quel­la latina, praticamente scomparsa. Perché si parli, riferendosi all'Italia, di italiani, di una nazione italiana, bisognerà aspet­tare l'inizio del nuovo millennio.
Le cose vanno in modo assai diverso per quanto riguarda la romanizzazione delle aristocrazie germaniche. Nella sua «teoria della classe agiata» Thorstein Veblen pone l'acquisi­zione, e soprattutto l'esibizione, di una cultura superiore co­me uno dei segni distintivi delle classi agiate, accanto alle .ca­riche onorifiche, all'agiatezza vistosa, agli sport esclusivi, co­me la caccia. I capi longobardi e le loro donne, fin dal loro insediamento al potere, s'impegnarono nel culto della civiltà classica, allo stesso modo con cui si usa indossare abiti prezio­si. Quanto più disprezzavano i sudditi romani, tanto più osten­tavano le loro forme culturali.
Possiamo seguire le vicende di questa romanizzazione ari­stocratica grazie all' opera di un longobardo, Paolo di Varne­frido, meglio conosciuto, romanamente, come Paolo Diaco­no. Personaggio versatile, questo Diacono, autore di una His­toria romana in sedici libri, e di una Historia Langobardorum in sei libri, narrazione appassionata del dominio longobardo dalla sua nascita (l'autore, nato a Cividale nel Friuli, era di scendente di un nobile che aveva affiancato Alboino nella sua marcia vittoriosa) alla sua rovina. Paolo era entrato poi a far parte della corte di Carlo Magno, che lo aveva nominato mae­stro di grammatica, per tornare infine a Montecassino, dove si era rifugiato per scrivere le sue grandi opere. Avendo otte­nuto da Carlo la liberazione del fratello aveva raccolto per l'imperatore le prediche pù celebri del suo tempo, 244 testi divisi in due «stagioni», l'estate e l'inverno. Se pure indiret­tamente, contribuì poi alla storia della musica con un suo in­no dedicato a san Giovanni Battista, dai cui versi si deriva­rono i nomi delle sette note (ut, re, mi, fa, sol, la, si).
Paolo Diacono non soltanto promosse l'acquisizione della "grande cultura" classica da parte dell' aristocrazia lombar­da con i suoi scritti, ma anche con la sua guida culturale dei principi longobardi. Adelperga, la figlia di Desiderio, l'ultimo sovrano, fu sua allieva, come pure il suo sposo Arichi, duca di Benevento. È per lei che Paolo compose un poema sulle età del mondo in eleganti esametri trocaici. Proprio alla corte di Benevento fiori una piccola scuola di cultura classica. Adel­perga ebbe una vita tumultuosa. Sorella di Ermengarda, spo­sa ripudiata di Carlo, fu, dopo la sconfitta longobarda, depor­tata in Francia da dove tornò in seguito a un armistizio nel ducato di Benevento; ma riprese li la lotta contro i Franchi, a fianco dello zio Adelchi. Fu però proprio il figlio, Grimoal­do III, nuovo duca di Benevento, a tradirla, alleandosi con Carlo contro lo zio. La sua vita riflette i due temi contraddit­tori che s'intrecciano nell' opera storica del suo precettore: il grande influsso esercitato sull' educazione dalla cultura classi­ca romana e la fedeltà al nazionalismo longobardo, con la for­te correlata avversione verso il mondo bizantino.
Non erano quindi sempre rozzi e ignoranti, i principi lon­gobardi. La raffinatezza culturale da alcuni di essi esibita co­me un vestito prezioso alla moda contrastava però - e questa contraddizione è segno specifico della barbarie - con perso­nalità scisse e disarmoniche, che sotto quel vestito alleavano ferocia e superstizione, caratteristiche diffuse del loro tempo.
Questi ultimi tratti possiamo riscontrarli proprio nell'im­patto dei Longobardi beneventani con i sudditi bizantini di Napoli e di Amalfi quando più volte, nel corso del VII e del­l'VIII secolo, essi tentarono di sopraffarli, realizzando l'anti­co sogno di affacciarsi da padroni sul mare.
Il primo tentativo lo fece Arechi I duca di Benevento, at­torno a1 615. Non è sicuro se, come si afferma in certe crona­che, riuscl a prendere e a saccheggiare Amalfi. Di sicuro non riuscì a prendere Napoli. Piti di un secolo dopo, quando il do­minio longobardo in Italia volgeva al termine, quell' Arechi II marito di Adelperga, amico e allievo di Paolo Diacono, che ,aveva fatto di Benevento una piccola corte di stampo regale, gemella di Pavia (la chiamavano Ticinum geminum) tentò in­vano di ottenere Amalfi e l'intero ducato di Napoli dall'im­pero bizantino, in cambio dell' alleanza contro i Franchi di Carlo. Fu invece proprio il loro figlio Grimoaldo ad allearsi con Carlo, e a passare alla storia come colui che, su ordine di Carlo, ingiunse ai Longobardi di Benevento nientemeno che di tagliarsi la barba: un primato di modernizzazione realizza­to dal Mezzogiorno. Ma i duchi di Benevento non avevano rinunciato a quel loro sogno. Fu un nobile longobardo di no­me Sicone, diventato duca in seguito a una congiura, a espu­gnare Napoli in un improvviso assalto, e a trafugare niente­meno che il corpo di san Gennaro. Ma i napoletani riusciro­no a conservarne la testa, e poi a respingere fuori della città il nemico con un inganno. Il figlio di Sicone, Sicardo, uomo, come riferiscono le cronache, «impudico, inquieto, petulan­te e superbo», tornò alla carica contro Napoli. I napoletani, messi alle strette, fecero qualche cosa d'inaudito. Chiesero aiuto ai Saraceni! Ed ecco presentarsi per la prima volta in forze, davanti alle coste d'Italia, le flotte dell'Islam. Sbarca­ti presso Napoli, i Saraceni sbaragliarono i Longobardi bene­ventani. A loro volta assediati, questi ultimi riuscirono a ra­dunare una forza tale da respingere gli Arabi verso il Sud, do­ve quelli presero e incendiarono Brindisi. Sicardo, intanto, aveva deciso di riprendere le ostilità contro il ducato napoletano, ma questa volta il suo obiettivo era Amalfi. Noi moder­ni facciamo fatica a crederlo, ma la vera spinta che lo muove­va era, come per il padre, il desiderio d'impossessarsi, oltre che di quello di san Gennaro, di altri corpi dei santi. Aveva tratto da Lipari il corpo di san Bartolomeo e anelava a posse­dere quello della vergine e martire santa Trofimena, custodi­to a Minori, in terra amalfitana. Aveva quindi organizzato u­na "quinta colonna" di seguaci amalfitani, promettendogli una ricca ospitalità in Salerno. Con l'aiuto di quelli, il 10 marzo dell'636 irruppe nella città, che fu posta a sacco. I beneven­tani frugarono dappertutto: beninteso, trafugarono la santa. Ma, convinti da qualcuno che nelle vesti del vescovo Pietro, morto da poco, fosse nascosto un tesoro, dissotterrarono il ca­davere jam fetidum) compage corporis et pene membris solutum.
La cosa più strana è che, compiute queste prodezze, Si­cardo e i suoi non occuparono la città, ma ne trasportarono via in massa gli abitanti, sia quelli che avevano accettato vo­lontariamente di trasferirsi a Salerno, sia gli altri. Cosi, com' e­ra avvenuto a suo tempo per le sabine, le amalfitane furono date in spose ai salernitani.
Quelle nozze, però, non durarono a lungo. A quanto nar­rano le cronache, Sicardo era venuto in odio non soltanto ai napoletani e agli amalfitani, ma agli stessi beneventani, vitti­me delle sue indecenti prepotenze. Si divertiva molto con le nobili signore. Le aveva anche fatte frustare perché, a detta della moglie, l'avevano fatta sorprendere nuda. Esasperati, un pugno di nobili, tra cui il marito di una delle matrone ol­traggiate, entrati nella tenda del principe, «con più colpi di pugnale lo privaron di vita».
Ucciso il tiranno, gli amalfitani prigionieri si avventarono su Salerno, semivuota nella stagione dei raccolti, e l'incendia­rono, dopo averla saccheggiata. Dopo di che tornarono trion­falmente, donne e uomini, nella loro bella città vuota. Era il 10 di agosto dell'639. E da questa data, «senza l'opera di un legislatore e senza alcuna rivoluzione interna, gli amalfitani incomiciarono a governarsi a forma di Repubblica». Era l'inizio di una nuova grande storia.

Amalfi e i Saraceni.
La processione si snoda lenta fra la piccola chiesa e le case del paese. Il manto azzurro del santo oscilla alto sul palco. Tutt' attorno, i boschi dei monti Lattari, irti sul grande ma­re. I fedeli procedono salmodiando. E d'improvviso il sangue gli si agghiaccia nelle vene. Eccoli, comparsi sul ciglio, i demò­ni. Urlando, si precipitano con le scimitarre sguainate sui pochi soldati della scorta. Li fanno a pezzi prima che riescano a impugnare le armi. Il sangue comincia a scorrere, il suo odore ubriaca gli assalitori. Comincia lo spettacolo orrendo. Il santo è calpestato, fracassato, sputato. Gli uomini, asserra· gliati invano a difesa, sono spinti a pugni e calci e poi deca­pitati o sgozzati a uno a uno. Le donne, quelle anziane, mas­sacrate anch'esse. Le giovani afferrate per i capelli tra grida di trionfo, gettate a terra, rovistate, spogliate, violate. I bam­bini strappati alle madri urlanti, e trucidati. I guerrieri sara­ceni proseguono per ore, indisturbati, la loro orgia di sesso e di sangue. Il loro capo accarezza lentamente, in silenzio, la criniera del suo piccolo cavallo. Gli trascinano davanti le donne più belle e ricche. Le guarda. Pili tardi.
Dopo qualche ora, quando la chiesa e le case sono state saccheggiate di ogni cosa di qualche valore, e devastate o da­te alle fiamme, il Saracino ordina la ritirata. Fra grida di fu­rore e grida di pianto, si forma la carovana. Saranno ormai per sempre schiavi e schiave, i cristiani della processione. Scendono la montagna legati l'uno all' altro con pesanti cate­ne, fino a riva, dove sono imbarcati sulle chelande saracene risospinte in mare. Saranno venduti sul mercato, gli uomini pili validi, per passare la vita inchiodati al remo, le donne pili belle riservate ai santuari - si chiamano così, harem - degli emiri.
Un'altra nave saracena è ancorata, lo stesso giorno, nella rada di Amalfi. Ma la scena è diversa. Sotto coperta, sdraia­to sui cuscini sparsi su un morbido tappeto, un capo saraceno, emissario dell'emiro di Sicilia, circondato da mercanti cri­stiani, esamina ricche stoffe colorate, rivolgendo di tanto in tanto ai suoi ospiti domande cortesi in latino. Non si fuma, perché il tabacco non è ancora conosciuto (lo sarà solo dopo la scoperta dell'America). Non si beve vino, perché il Profeta lo proibisce. Si beve succo d'arancia da grandi caraffe (le arance sono il dono degli Arabi alla Sicilia) servite su vassoi di vetro veneziano da schiave leggiadre, insieme con dolci odorosi: i lucumi.  
Non è difficile immaginare due scene come queste. Sap­piamo che, in quei tempi e da quelle parti, era possibile che si alternassero incursioni violente di predoni saraceni e pacifici incontri di scambio tra mercanti saraceni e cristiani. Una condizione, certo, eccezionale e scandalosa, dalla quale en­trambe le parti, le città campane e gli invasori saraceni, trae­vano vantaggi.
Si può avere talvolta l'impressione di un melodramma nel quale, dopo essersi scannati sul palcoscenico, gli attori si ritrovano a fraternizzare tra le quinte, ancora vestiti nei loro costumi di scena. Ma non era affatto cosi. Entrambe le scene erano autentiche. Ma la scena del doux commerce, avrebbe detto Montesquieu, costituiva una condizione ecceziona· le e locale, rispetto al vasto dramma dell'invasione islamica.
La turbolenza islamica che investi il Mediterraneo nel VII secolo, abbattendosi anche sull'Italia e sulle sue grandi isole, ha caratteristiche diverse da quelle delle precedenti invasioni germaniche. Queste ultime erano state precedute da una lun­ga pressione, esercitata per secoli da tribù barbare ai confini del grande impero di Roma. Era una rivalsa storica di popoli che avevano subito la dominazione diretta, o comunque l'in· discussa egemonia di una civiltà superiore. La VOlkerwander· ung germanica si era scatenata quando quella pressione era di ventata insostenibile a causa della spinta esercitata sulle genti germaniche da altri popoli, alle loro spalle, e della disgregazio­ne interna del potere imperiale, provocata da una crisi econo­mica, politica e morale che ne aveva fiaccato la resistenza. Al­la base di quelle invasioni, c'era certamente un sentimento di rivalsa e, soprattutto, una concreta prospettiva di ricchezza, ma non una passione ideologica e religiosa. Come dice Piren­ne, lo scopo degli invasori non era quello di annientare l'im­pero romano, ma di radicarvisi, per goderne a loro volta.
L'invasione islamica era invece l'esplosione improvvisa di un nuovo credo, di una fede indiscutibile che chiedeva di im­porsi con la violenza di una "guerra santa" a un mondo "in­fedele": soprattutto al mondo che si riconosceva in quelle al­tre due religioni monoteistiche, l'ebrea e la cristiana, sul cep­po delle quali la nuova religione era nata, e che perciò co­stituivano il bersaglio piu vicino, l'errore piu immediato da combattere. I Franchi, appena conquistata la Gallia, aveva­no abbracciato la religione cattolica. I Longobardi, piu restii all'integrazione culturale con i vinti, ne avevano adottato una variante meno impegnativa (l'arianesimo). Per i musulmani, era proprio il cristianesimo il piu mortale nemico della nuo­va incontestabile verità. Era infatti, a differenza di quelle pa­gane, una religione forte, sostenuta da una grande istituzio­ne. Doveva essere contestata e rifiutata. Le conquiste mate­riali della "guerra santa" non costituivano le motivazioni della guerra, ma il premio della vittoria.
L'invasione islamica fu piu rapida di quelle germaniche. In meno di un secolo gli eserciti dell'Islam, partendo dal piccolo nucleo delle tribu del deserto, ingigantirono grazie alle con­versioni, dilagando fino all'India e all'Indonesia a Oriente, fi­no al Marocco e alla Spagna a Occidente.
L'Italia non fu investita che in parte, e discontinuamente.
Solo la Sicilia, dopo cinquant' anni di continui combattimen­ti, fu occupata in modo stabile. Quanto alla penisola - quella che i Saraceni chiamavano la terra longa - rimase esposta per circa tre secoli, dall'VIII al X, a una turbolenza costante di scorrerie, incursioni, devastazioni, violenze di ogni genere: l'Ita­lia centrale e meridionale in particolare, ma anche il Nord non fu risparmiato.
Saraceni, è il nome che gli italiani davano più frequente­mente ai musulmani islamici: un nome la cui origine è incer­ta. In arabo, sharquyn significa orientale. Ma orientali rispet­to a chi? Oppure, biblicamente, figli di Sara, la moglie di Abramo? Saraceni erano considerati indifferentemente Ara­bi e Berberi (orientali e occidentali), anche se etnicamente di­versi e politicamente spesso in conflitto. Ed erano Saraceni anche molti cristiani rinnegati, come Uluch Ali, detto Occhia­li, e Muhamet Sorah, detto Scirocco. Erano talvolta i più spie­tati (restò famoso, secoli dopo, Kahir-ed-Din, detto il Barba­rossa). È certo che al nome «Saraceni» si associano piu facil­mente i saccheggiatori delle incursioni, quelli che hanno lasciato dietro di sé nient' altro che devastazioni e rovine, che gli Arabi e i Berberi stanziali che hanno lasciato, soprattutto in Sicilia, il segno di una raffinata civiltà. L'occupazione ara­ba in Sicilia durò un secolo e mezzo, e per metà di quel perio­do durò la resistenza bizantina. Le incursioni erano comincia­te molto prima, nel VI secolo, e si prolungarono in Italia fino al secolo XI (praticamente, fino all'instaurazione del regno nor­manno) dopo di che assunsero caratteristiche sporadiche di pirateria "normale" durate, in sostanza, fino al XIX secolo.
Piu volte i Saraceni tentarono di occupare la terra longa, stabilendo, anche per lungo tempo, teste di ponte, che ser­vivano di base alle incursioni e alle vere e proprie spedizio­ni militari. Solo in certi periodi relativamente brevi grandi regioni italiane, come la Puglia e la Calabria, e importanti città come Bari, furono stabilmente occupate. Insomma, l'I­talia peninsulare ebbe il peggio dell'invasione saracena: tre secoli di turbolenza e di terrore.
Non solo. Per gli Stati italiani del Sud le milizie e le flot­te islamiche costituirono un deposito di violenza cui gli stati cristiani attingevano per sopraffare altri stati cristiani, scate­nando una furia selvaggia che si ritorceva contro gli stessi irresponsabili provocatori. Quella riserva fu per l'Italia, e par­ticolarmente per il Mezzogiorno, una forza devastante che si sommava, intensificandoli, ai conflitti tra le grandi potenze, i ducati, le città.
Come abbiamo visto, furono i napoletani per primi a in­vocare l'intervento saraceno contro i beneventani: un esem­pio che sarà seguito decine di volte, con risultati devastanti. I Saraceni diventarono insomma una forza mercenaria auto­noma nella penisola. Neppure la Chiesa di Roma fu capace di realizzare un'intesa cristiana durevole contro di essi.
Qui non possiamo raccontare la storia di quei conflitti tra gli Stati dell'Italia meridionale, nel tempo che corre tra l'ar­rivo dei Longobardi e l'avvento dei Normanni, contraddi­stinto dalla continua interferenza saracena. È un intreccio caotico di alleanze composte e ricomposte, di ritorsioni, di vendette, di congiure, che si fa molta fatica a seguire.
Basterà presentare il quadro degli attori principali. Anzi­tutto, i due grandi imperi, quello bizantino d'Oriente, quello franco e poi germanico d'Occidente. Il primo conserva a lun­go la sovranità diretta sul tacco e sulla punta d'Italia (Puglia e Calabria), e quella indiretta sul ducato napoletano. Il secon­do rivendica una sovranità universale legittimata dalla Chie­sa, ma fortemente contestata dal primo, su tutto il resto del territorio, e interviene a tratti con spedizioni militari per ri­badirla. Quindi, i grandi ducati longobardi di Spoleto e di Be­nevento (quest'ultimo successivamente diviso in tre, Beneven­to, Salerno e Capua), che si estendono in tutta la parte inter­na centrale e meridionale della penisola. Infine, le città della costa campana, Napoli, Amalfi, Gaeta, poste formalmente sot­to la sovranità bizantina, ma praticamente autonome. Come se non bastasse, i Saraceni.
Abbiamo lasciato per ultima la potenza disarmata rispetto ai viventi, ma onnipotente sulla loro sorte dopo la loro morte: la Chiesa. Per capire il terrore che quella potenza disarmata e­sercitava bisogna capire il Medioevo come l'epoca in cui la mor­te è stata presente nella vita piti che in ogni altra. E come quel la nella quale la vita dopo la morte è stata la certezza piti indi­scutibile. Chi disponeva della morte, della salvezza e della pu­nizione, dei tormenti eterni e del perdono teneva in mano le chiavi della vita. Queste chiavi stavano nelle mani dei succes­sori di Pietro. I quali, quel potere sovrumano, sapevano e po­tevano gestirlo in modo umano, fin troppo umano, come face­vano gli altri principi con le normali carte del gioco.
Talvolta capitava che i pontefici romani, attratti dalle ten­tazioni del potere terreno, smarrissero il valore intrinseco su­premo della loro carta celeste, usandola solo per comprare le carte terrene. Allora, la Chiesa era trascinata nella banalità del potere terreno, degradandovisi. Così era avvenuto nei pri­mi secoli bui della Roma cristiana, caduta sotto il governo di papi ignominiosi.
Talvolta capitava che fossero i principi, di fronte alle loro cupidigie e ai loro interessi più immediati, a svalutare la po­tenza trascendente della Chiesa, chiedendosi, come tanto più tardi si chiese Stalin, dove fossero le divisioni del papa. Allo­ra la Chiesa si trovava improvvisamente sola a fronteggiare le più estreme minacce. Proprio questo capitò di fronte alla mi­naccia saracena. E fu un vero miracolo che in quei tragici fran­genti la Chiesa di Roma fosse capace di porre in campo pon­tefici capaci di giocare, al più alto livello di responsabilità, la carta decisiva.
Dunque, una volta passati in rassegna i principali perso­naggi del dramma, ci guarderemo dall'addentrarci nell'intri­co dei loro disegni. Le lotte mortali fra Benevento e Salerno, nelle quali i duchi longobardi si scambiano le parti, ricorren­do ciascuno a mercenari saraceni che devastano i loro territo­ri. Le congiure, i tradimenti e gli accecamenti che segnano il monotono rituale delle loro successioni. I soprassalti dell' or­goglio bizantino, che insegue nei secoli, attraverso costose controffensive, il sogno di riconquista di Giustiniano. I sim­metrici sogni degli imperatori romano-germanici di risuscita­re, a ogni "calata" in Italia, l'impero di Roma. I più modesti intrallazzi delle città campane, intente a "barcamenarsi" tra Saraceni e Longobardi, tra imperatori d'Oriente e d'Occiden­te, tra la deferenza alla Chiesa di Roma e i lucrosi traffici con gli "infedeli": come quando il prefetturio Pulcherio di Amal­fi, dopo essersi impegnato all'alleanza con il papa contro l'e­sborso di diecimila mancusi (moneta apparentata al bisante) nega clamorosamente la parola data, pretendendone dodi­cimila.
Ci limitiamo a condensare con le parole di uno storico l'a­spetto essenziale di questa principesca anarchia: «sei stati ag­guerriti e rabbiosi, ciascuno operante a danno dell' altro, so­spettosi tra di loro, dei potentati maggiori dell'Oriente e del­l'Occidente e del Papato, i quali anch'essi si sospettavano e si combattevano a vicenda» (R. Panetta, ISaraceni in Italia). Da questo pandemonio di tutti contro tutti emergono due caratteristiche piu o meno comuni: la bizzarria e la crudeltà.
La bizzarria, che sfida ogni logica razionale, è un aspet­to intrinseco della barbarie, che affonda, come la superstizio­ne, in una vasta disposizione alla credulità. Noi moderni sma­liziati faremmo fatica a credere alla storia di quel musulmano che, incontrando a Benevento il principe Ginulfo con in testa un cappello di foggia peculiare, glielo chiede senza complimen­ti in dono, e quello, senza esitazione, gliela regala. Un anno dopo il musulmano, rientrato in Africa, assiste alla mobilita­zione di una grande spedizione militare saracena verso l'Ita­lia, con obiettivo Benevento. Preso da parte un cristiano di Amalfi, lo scongiura di tornare subito in patria, per preveni­re il generoso principe dalla batosta che gli sta piovendo ad­dosso. C'è di che togliersi il cappello. E neppure presterem­mo molto credito alle lodi di bontà che riguardano il capo sa­raceno Abumassar, il quale non solo fece scudo del suo corpo ai monaci di Montecassino minacciati dai suoi guerrieri, ma scudisciò un cane che tentava di mordere un' oca dei frati.
L'altro aspetto tipico è la sadica fantasia dei tormenti. Co­me quella di un altro capo, quel Maagaid, detto il Muscetto, che, per vendicarsi dei cristiani che avevano spiccato la testa della moglie dal busto, ricomponendone poi la chioma con pettini e gemme per inviarla in dono all'imperatore Enrico, obbligò cinquanta prigionieri cristiani a costruirsi una gran­de tomba comune, nella quale li murò vivi nella calce, con le braccia in croce, come Cristo. O come quell'emiro Ibrahim, che gettava a mare i suoi nemici chiusi in un sacco insieme a una serpe a un gatto e a un gallo e che, ossessionato dal timo­re di successori che lo avrebbero potuto spodestare, faceva sventrare le mogli incinte e lasciava i feti in pasto ai cani.
Il Novecento, che ha massacrato milioni di uomini e di donne nei campi di concentramento nazisti e comunisti, non teme rivali sul piano della crudeltà all'ingrosso, ma solo qual­che difetto sul piano dell'immaginazione.
Rinunciando al racconto cronologico di quei secoli, dun­que, ci soffermeremo brevemente su alcuni momenti crucia­li che videro coinvolte quelle città campane, Napoli e Amal­fi soprattutto, sulle quali abbiamo concentrato la nostra at­tenzione.
Per rispondere alla prima grande invasione della Sicilia du­rante la quale, nel luglio dell'827, una grande armata al co­mando di Allah Asad aveva sgominato a Mazara l'esercito bi­zantino, il papa Gregorio IV concepì un'impresa arditissima, ispirandosi a quella, famosa, di Scipione l'Africano. Anziché affrontare con forze insufficienti gli Arabi in Sicilia, orga­nizzò una spedizione nella tana del nemico, proprio nei pres­si di Cartagine, con un piccolo contingente di volontari ro­mani, toscani, sardi e corsi al comando del conte Bonifacio della Gherardesca, capitano imperiale del Tirreno. L'impre­sa riuscì perfettamente. Eludendo le navi saracene, questi cro­ciati ante litteram sbarcarono sulla costa africana. Un corpo di armati, radunati in tutta fretta dai musulmani colti di sorpre­sa, fu sconfitto e inseguito fino alle mura di Al Quayram, se­de dell' emiro. Pago di questo vero e proprio colpo di scena, e nell'impossibilità di sostenere il costo di un lungo assedio, Bonifacio ritornò in Italia sperando in un ritiro degli Arabi dalla Sicilia, che non avvenne.
Avvenne invece che i Saraceni, sfidati nel loro orgoglio, or­ganizzarono la vendetta nella forma piti clamorosa: una mar­cia su Roma. Allestirono una flotta, che sbarcò a Civitavec­chia - allora si chiamava Centocelle - da dove Bonifacio era partito, saccheggiandola orrendamente. Di li puntarono sulla capitale della cristianità, incendiando e devastando le campa­gne e le basiliche di San Pietro e di San Paolo, che stavano fuo­ri delle mura, trasformandole in mangiatoie per i loro cavalli. Ma sulle mura aureliane si scontrarono con un'insuperabile re­sistenza. Pensavano di travolgerle d'impeto, e dovettero subi­re invece la pioggia di frecce infocate e dei verrettoni lanciati dal sommo di quelle mura ancora possenti. Non erano pronti a un lungo assedio, e si ritirarono verso Sud.
Ma l'impresa era soltanto rinviata. Sedici anni dopo, gli Arabi ritentarono il colpo grosso. Con ventisette bastimenti, trentamila uomini e cinquecento cavalli salparono da Tunisi, diretti alla foce del Tevere. A Roma c'era allora un Leone, di nome e di fatto: il papa Leone IV non era stato ad aspettare. Dall'imperatore Lotario aveva ricevuto il denaro necessario a rafforzare le mura aureliane, e aveva costruito due torri sul­le rive del Tevere, presso Porta Portese. Aveva apprestato macchine da guerra e steso attraverso il fiume grosse catene di ferro. Quindi aveva chiesto a tutti i principi italiani quan­ti piti uomini e mezzi potessero. Ne erano affluiti dalla Sar­degna, dalla Toscana e dal Lazio. Aveva anche risposto all'ap­pello il grosso contingente di una Lega campana, imbarcata sulle navi di Napoli, di Amalfi e di Gaeta, formata per l'oc­casione, con grande sorpresa dello stesso papa, che diffidava di quegli inattesi alleati, conoscendo la loro intelligenza ... con il nemico. Evidentemente le tre città si erano rese conto che, caduta Roma, sarebbe toccata a loro. Riuniti a palazzo Late­rano, i loro capi concordarono con il comandante nominato dal papa, Cesario, il piano di battaglia. Qualche giorno dopo, i confederati e la popolazione romana si radunarono davanti alla chiesa di Sant' Aura vergine e martire. Il papa recitò la preghiera (da Panetta):

Onnipotente Dio che con la tua mano facesti camminare l'aposto­lo Pietro sul mare, cosi che non affogasse e che salvasti l'apostolo Paolo nei suoi tre naufragi, sii a noi propizio e ascoltaci: per i meriti dei due stessi apostoli fortifica il braccio dei campioni cristiani che stanno per difendere una giusta e santa causa affinché per la vittoria navale sia il tuo nome glorificato in ogni tempo e presso tutte le genti. Per ime­riti di Gesù Cristo, Salvator Nostro.

Un possente «Amen» echeggiò sulla foce del Tevere. All' alba del giorno dopo, annunciata da navi inviate in perlustrazione, ecco apparire all' orizzonte la formidabile schiera delle navi saracene, con tutte le verdi bandiere del Profeta al vento.
Avanzano rapide, sospinte da un forte libeccio. Serrano al centro, dirette a forzare la foce del Tevere per risalire verso Roma, dopo avere sbarcato le truppe. Cesario ordina alle na­vi cristiane, che hanno issato la bandiera crociata, di mollare gli ormeggi e di precipitarsi a forza di remi sulla colonna sa­racena prima che possa giungere presso la riva, per lanciare l'arrembaggio. La manovra diretta da amalfitani e napoleta­ni è impeccabile. L'urto è tremendo. E mentre le macchine dei confederati sputano la pece greca sulle vele nemiche in­cendiandole, gli uomini saltano sulle tolde con spade, mazze, spiedi e stocchi. I Saraceni si difendono sciabolando con le loro scimitarre, o scagliando sottili canne di bambù con sulla punta cuspidi triangolari di ferro. Uomini precipitano come sacchi nelle acque che si tingono di rosso. La furia dei cristia­ni, i Rum, non era prevista. E molte navi saracene tentano di sganciarsi, alcune in fiamme, forzando le vele per metter­si in salvo. Ma il libeccio che le aveva spinte contro i cristia­ni si rifiuta di lasciarle allontanare. Era il vento di cui gli ita­liani conoscevano bene la forza tremenda, e che sapevano pa­droneggiare. Esso trascina le navi saracene con i fianchi squarciati verso la spiaggia, dove le truppe confederate mas­sacrano, o catturano, le ciurme imploranti pietà.
Tutta la flotta saracena fu distrutta sul lido di Ostia. Mi­gliaia furono i morti di parte musulmana. E migliaia i prigionieri condotti in catene per le strade di Roma, dove il popo­lo si ammassava per vederli. I prigionieri furono condannati a costruire la nuova cinta delle mura leonine. La battaglia di Ostia ha avuto un pittore d'eccezione: Raffaello Sanzio.
Terzo episodio. Nel 916 un altro papa energico, Giovan­ni X, esasperato per il succedersi implacabile delle incursioni saracene, si decide a bandire una spedizione contro il covo dei Saraceni alla foce del fiume Garigliano, che era diventa­ta la loro base principale. Fra le altre imprese, nell'8ss i pre­doni del Garigliano erano saliti a Montecassino, avevano sac­cheggiato i tesori della chiesa, trucidato i frati, svenato l'aba­te Bertario e dato alle fiamme il monastero.
Il papa si rivolge a Berengario re d'Italia, offrendogli la consacrazione imperiale se l'avesse aiutato a cacciare i Mori dal Garigliano. Berengario dà ordine al duca di Spoleto di mo­bilitare un esercito e scende a Roma, dov'è consacrato impe­ratore a San Pietro, nel giorno di Pasqua. Il corpo di spedizio­ne è imponente. Vi partecipano i duchi di Benevento, di Spo­leto, di Capua, di Gaeta e il duca di Napoli. È incerta la partecipazione di Amalfi, forse più preoccupata di non pregiu­dicare i suoi rapporti commerciali con il mondo arabo. Il fat­to nuovo e sorprendente (non sarà però l'ultimo nella storia dei papi) è che lo stesso papa cavalca alla testa delle truppe, su un destriero bianco. È la suprema garanzia della compattezza della spedizione, che procede alla sinistra e alla destra del fiu­me. Il 14 giugno ha inizio l'attacco al campo trincerato dei Mori, mentre un' armata navale blocca il nemico dalla parte del mare. Ma è solo !'inizio di un grande scontro che si pro­lunga per ben tre mesi, giorno dopo giorno. Alla fine, affama­ti, i Saraceni riescono, con una sortita in massa, ad aprirsi un varco tra gli assedianti. Ma, intercettati dalla retroguardia cri­stiana, e assaliti da grandi bande di contadini infuriati, ven­gono massacrati, o fatti prigionieri per essere incatenati ai re­mi delle galere. Secondo Gregorovius, nella Storia della città di Roma, «la distruzione della colonia del Garigliano è l'opera nazionale piu onoranda che abbiano compiuto gli italiani nel secolo x, come la vittoria di Ostia era stata il maggior loro de­coro nel secolo IX».
C'è infine, alle soglie del nuovo millennio, la grande impre­sa comune delle repubbliche italiane: Amalfi, Pisa e Genova. Manca Venezia, non è chiaro perché. Il pontefice Vittore III le aveva persuase a organizzare una spedizione punitiva con­tro i Mori nella loro tana in Tunisia, attaccando la fortezza di al-Mahdia, sede dell'emiro Tamin (detto dagli italiani Tami­no, come il personaggio di Mozart), dov'erano imprigionati migliaia di schiavi cristiani in condizioni disperate. Lo sbarco degli alleati avvenne il6 agosto del 1087. I Saraceni si erano preparati a impedirlo assalendo le navi, che pensavano non po­tessero accostarsi a causa dei bassi fondali. Invece gli italiani, come gli americani qualche secolo dopo in Normandia, calaro­no in mare una quantità di piccole imbarcazioni: piccole felu­che, battelli, lance, fruste, caicchi, stracariche di combatten­ti che si precipitarono a valanga sulla costa, costringendo i di­fensori a riparare entro le mura. Da quelle gli assediati fecero uscire un branco di leoni: i quali però, invece di scagliarsi con­tro gli invasori, sbranarono i loro padroni fuggendo poi per la campagna. Una sortita dei Saraceni fu respinta dai pisani, che giunsero presso le mura e cominciarono ad abbattere le porte, mentre il grosso delle truppe saettava i difensori schierati sulle mura. Le porte furono abbattute, gli italiani dilagarono per le vie della città, irrompendo nei sordidi "bagni", e libe­rando gli schiavi in catene. Tamino, asserragliato nel suo pa­lazzo, trattò infine la resa. Furono liberati tutti gli schiavi. Fu versato un tributo di centomila dinari al papa.
Cosa molto più importante: diventò chiaro che il rappor­to di forza tra le repubbliche italiane e i Saraceni, nel Me­diterraneo, si era invertito a favore delle prime. Ludovico Mu­ratori riferisce delle grandi feste, delle campane a stormo, del­le processioni di ringraziamento al ritorno dei vincitori. I pisani investirono il bottino nella costruzione della loro gran­de cattedrale.
Alla fine, ci si può chiedere un giudizio complessivo sul rapporto fra le città marinare e il mondo dell'Islam. Quanto ad Amalfi, in particolare, è generalmente negativo. Si sottolinea l'ambiguità di una politica che incoraggiava scambi, e talvol­ta persino sostegni militari, con i predoni saccheggiatori della penisola. Non è certo questione di solidarietà nazionale, che a quei tempi era impensabile, ma di fedeltà cristiana. Napole­tani e amalfitani dimostrarono già da allora una disinvoltura delle alleanze che sarebbe diventata, più tardi, peculiarità in­fida del carattere politico italiano. Bisogna considerare, tutta­via, due cose. La prima è che quelle città erano libere, ma ter­ribilmente isolate. Il primum vivere era il loro ovvio impegno. Secondo: tutto si può dire, tranne che quel comportamento fosse dettato da viltà. Lo dimostrano gli episodi che abbiamo evocato.
La loro posizione ricorda la raccomandazione che Polonio, il padre di Laerte, fa nell'Amleto al figlio che sta per partire: «guardati dall'entrare in questione; ma una volta impegnato portati in modo che il tuo avversario debba guardarsi da te».

Il miracolo amalfitano.

Quanti erano, e chi erano, gli amalfitani?
Quando per la prima volta se ne sente parlare, a metà del VI secolo, certo non piu di qualche migliaio. Verso la fine del secolo x, il secolo d'oro di Amalfi, la popolazione, secondo stime certamente esagerate, avrebbe raggiunto i quaranta-cin­quantamila abitanti (oggi ne ha poco piu di seimila). Quel pe­riodo, comunque, segnò uno sviluppo eccezionale, che ne fece una delle due piu grandi repubbliche marinare italiane (1'altra era Venezia), ben prima di Pisa e di Genova. Uno sviluppo tut­to dovuto al commercio.
Cerchiamo di collocarlo nel più vasto quadro dell'econo­mia italiana. Secondo alcuni, il crollo dell'impero romano e le invasioni germaniche avrebbero determinato una regressione a condizioni primitive, quasi totalmente prive di scam­bio. Questa tesi estrema è stata progressivamente abbando­nata, man mano che la ricerca storica evocava dal buio di quei secoli i tenui bagliori di una realtà più complessa. Molte città romane erano scomparse, ma molte avevano continuato a vi­vere, sia pure a ritmi e livelli molto più modesti. Le città non erano ridotte puramente a sedi territoriali del potere politico centrale. E non si trattava soltanto di quelle scelte dai re e dai duchi per insediarvisi (spesso sceglievano i castelli, più fa­cilmente difendibili), ma delle sedi dei vescovi, che raggrup­pavano intorno a sé le schiere dei fedeli, nucleo generativo di quello che sarebbe poi diventato il popolo minuto, e piu tar­di la borghesia guelfa. Ed erano anche centri economici. Per quanto povero fosse, il commercio, infatti, non fu mai com­pletamente interrotto, principalmente quanto ai beni essen­ziali, sale e grano; ma anche per quei beni di lusso, come le stoffe di seta, che le aristocrazie germaniche apprezzavano intensamente. Il vescovo di Pavia Liutprando, del quale ab­biamo ricordato il disprezzo per i Romani, apprezzava però molto le sete e le stoffe che i doganieri bizantini volevano se­questrargli, e ai quali egli sprezzantemente rese noto che ne avrebbe trovate di migliori in Italia, dove amalfitani e vene­ziani le vendevano liberamente in abbondanza, anche, dice­va lui, ai mimi e alle prostitute. E di un altro Liutprando, re dei Longobardi, e soprattutto dei suoi successori Rachi e Astolfo, abbiamo gli editti nei quali si fa menzione dei nego­tiatores, che erano ammessi anche nell'esercito, e dunque co­stituivano un ceto di liberi cittadini ufficialmente riconosciu­to, i cui diritti e obblighi erano determinati non piu dalla na­scita, ma dalla condizione economica.
Ma soprattutto, una corrente di scambi mai interrotta è quella che collega le città costiere italiane (Ravenna, Bari, N a­poli, Amalfi) rimaste sotto la sovranità bizantina con i grandi centri dell'impero d'Oriente, primo fra tutti Costantinopoli.
A questo proposito, bisogna parlare di una tesi di Henri Pirenne. Abbiamo visto come il grande storico belga abbia di- stinto - giustamente -l'invasione saracena da quelle germa­niche, quanto alla loro natura religiosa e politica. Non altret­tanto convincente sembra quando afferma la brusca e dure­vole interruzione dei traffici che l'irruzione degli Arabi a­vrebbe provocato nel commercio mediterraneo, quasi azzerandolo. Solo gli ebrei sarebbero rimasti a commerciare. È sorprendente il silenzio sul ruolo esercitato dalle città ita­liane, soprattutto da Venezia e da Amalfi, non soltanto nel tener vivi gli scambi con i mercati bizantini, ma nell'annoda­re quelli con il mondo arabo, nonostante le guerre e le incur­sioni continue. Fin dall'VIII secolo, in piena espansione araba, come afferma Gino Luzzatto, nella sua Breve storia economi­ca del!' Italia medievale, è confermato dalle fonti «il rinnova­mento di una, per quanto modesta, economia di scambio» e «il risorgere delle città come centri, non solo amministrativi ed ecclesiastici, ma anche commerciali», come pure «l'uso piti frequente della moneta».
La figura del mercante, insomma, comincia a profilarsi fin dall' alto Medioevo, soprattutto nelle città italiane. Una de­scrizione magistrale della strada percorsa da questo personag­gio nei secoli dall'XI al xv è quella tracciata da Aron Gurevic nel quadro dell' antologia curata da Jacques Le Goff sull'uo­mo medievale. Ci serve per guardare in prospettiva, con il senno di poi, a un processo che è cominciato, in Italia, anco­ra prima, nel secolo ottavo, soprattutto dove stiamo cercan­do di rintracciarne i segni precursori: le città della costa campana.
All'inizio, in quel processo non si distingue ancora la fi­gura del mercante da quella del pirata. «Commercio e rapina andavano di pari passo». Poi, a poco a poco, la coscienza di guadagnarsi una vita rispettabile, tra grandi rischi e afflizio­ni, emerge. Dice un mercante, in un colloquium riferito dal­l'abate Aelfric (tratto da Le Goff):

Sono utile al re, al nobile, al ricco e a tutto il popolo [ ... ] Salgo sulla nave con le mie merci e navigo fino ai paesi d'oltremare, vendo la mercanzia e acquisto le cose pregiate che non si trovano qui nel nostro paese. Le trasporto con grande rischio e faccio talvolta naufragio, perdendo ogni avere e salvando a stento la vita. L'interlocutore gli chiede: «vendi queste merci al prezzo al quale le hai comprate?» «No: che cosa altrimenti mi darebbe la mia fatica? Vendo piu caro di quan­to ho comprato proprio allo scopo di trame un profitto e mantenere casi moglie e figli».

Non potrebbe essere più chiaro e convincente. E tuttavia le attività commerciali restano a lungo dubbie e circospette per l'etica dominante. Incontrano la sfiducia sospettosa dei contadini e la boria dei nobili.
Il mestiere del mercante, suona la saggezza scolastica, vi aut numquam potest Deo piacere, raramente, o mai, piace a Dio. Il commercio (il vendere e il comprare) sono qualifica­te «attività disoneste».
Non parliamo del commercio di denaro, del prestito a in­teresse, condannato come uno dei peccati piti esecrabili. L'u­sura.
Gli exempla, i racconti edificanti sugli usurai, attestano il disprezzo da cui sono circondati. Uno di essi racconta di una scimmia che, durante un viaggio per mare, si arrampica sull'albero maestro, dopo essersi impossessata della borsa di un usuraio, annusa le monete e le scaraventa in mare.
Come finisce l'usuraio dopo la morte? Dante, stranamen­te, gli riserva un posto appartato nel suo Inferno, nel canto XVII, ove, come cani morsicati da mosche e vespe, i dannati si agitano, fissando come affascinati certe borse di segno e colo­re diversi, che gli pendono dal collo. La vulgata popolare è me­no raffinata. Quando l'usuraio muore, i diavoli lo trascinano subito all'inferno, cacciandogli in bocca monete roventi. In un altro exemplum bizzarro, l'usuraio in punto di morte ten­ta di persuadere la propria anima a non lasciarlo, prometten­dole oro e argento: ma, non essendoci riuscito, la manda lui stesso all'inferno.
L'odio popolare per gli usurai nel Medioevo è totale. Fuo­ri dell'Italia si scatena particolarmente contro gli italiani (i lombardi), con veri e propri pogrom, specie in Francia.
La condanna dell'usura raggiunge toni esasperati, per esempio nelle prediche di Bernardino da Siena: tutti i santi, i beati e gli angeli del paradiso si rivolgono all'usuraio gridan­do: «nell'inferno, vada nell'inferno; nel fuoco, vada nel fuo­co». Lo strano è che negli stessi anni i banchieri senesi fan­no affari d'oro prestando grosse somme con interessi mal dis­simulati alla Chiesa di Roma.
Si comincia però man mano a spiegare le buone ragioni dell'accumulazione. In Inghilterra, un poema anonimo rife­risce di una disputa fra l'Accumulatore e il Dissipatore, nel­la quale il primo fa l'elogio di chi contiene le sue spese, vive parcamente e fa affari, mentre 1'altro scialacqua banchettan­do, indossa pellicce rare senza avere i soldi per pagarle, si dà alla guerra e alla caccia. È il ritratto caricaturale dell' aristo­cratico, della sua sconsideratezza e della sua boria.
Nella descrizione dei sei ordini sociali di Bertoldo di Rati­sbona, i mercanti, che formano il terzo ordine, sono descritti con rispetto, come coloro che solcano i mari, «fanno venire una cosa dall'Ungheria, un'altra dalla Francia». Bertoldo par­la esplicitamente di «un commercio onesto», cosa che da al­tri predicatori sarebbe stata considerata un ossimoro. Nella sua predicazione si è inserita ormai una distinzione non tan­to sottile. La dottrina secondo cui chi ha due camicie deve re­galarne una a un povero è considerata erronea. Bisogna inve­ce conservare la propria, desiderando però che anche il pove­ro ne abbia una. Costa certo di meno. Come dire: alla rivolu­zione subentra la riforma (Le Goff).
La mentalità si evolve, insomma, anche in seno alla Chie­sa e nei vecchi otri comincia ad affluire nuovo vino. Fatto si­gnificativo è che proprio i frati degli ordini mendicanti ab­biano contribuito non poco alla giustificazione etico-religio­sa del commercio e dei mercanti.
Questo mutamento di mentalità si di spiega dunque soprat­tutto a partire dall'XI secolo, e tra forti resistenze. Ma, come abbiamo detto, fin dall'VIII se ne scorgono le tracce. Soprattutto, abbiamo visto, in certe città italiane, Venezia e Amal­fi in particolare.
Qui sono presenti circostanze eccezionali, restrittive e in­centivanti. Restrittive: sia Venezia che Amalfi mancano di retroterra agricoli. Incentivanti: l'isolamento dovuto alla la­guna e alle montagne genera una sicurezza che alimenta il sen­so d'indipendenza. Inoltre: le grandi disponibilità di sale per Venezia, di legname per Amalfi costituiscono incentivi pre­ziosi allo scambio, dalla parte dell' offerta. Dal lato della do­manda, l'appartenenza alla sfera della sovranità bizantina fa­cilita per entrambe le città un accesso privilegiato ai grandi mercati d'Oriente. Non si tratta tuttavia di risorse immedia­tamente disponibili. Si tratta di volerle e di saperle sfruttare. E qui interviene non la fortuna, ma la virtù. Come la capa­cità tecnica di armare una flotta. Come quella di organizzare una via del sale sfruttando la corrente del Po. Pili in genera­le, una vocazione al rischio che consenta di cogliere le occa­sioni di scambio che stanno ben oltre il raggio dell'immedia­to orizzonte geografico: oltre l'Adriatico, oltre il Tirreno. Nel Mediterraneo orientale. Nel Mediterraneo occidentale. Entrambe le città dimostrano, questa vocazione, di possederla in pieno.
Diventa subito evidente che il commercio non può limi­tarsi a un raggio breve che consente di ottenere scarsi guada­gni, giusto di che sfamare la moglie e i figli. Troppi sono i con­correnti. Bisogna guardare lontano. Bisogna andare oltre. Bi­sogna armare navi solide e preparare ciurme ben addestrate, per raggiungere i grandi porti, le grandi ricchezze.
È solo se ci si spinge lontano, oltre,il Tirreno, nel Mediter­raneo occidentale e orientale, che la varietà delle offerte pre­senta immense occasioni di guadagno. Altro che moglie e figli!
E gli amalfitani si spingono lontano, verso Costantinopo­li, Antiochia in territorio bizantino. Pili tardi, verso Alessan­dria, Tunisi, la Spagna, nei paesi occupati dagli Arabi.
Che cosa compravano in quei porti i mercanti amalfitani?
Merci ricche. Le spezie: cannella, garofano, pepe. Pelli, ambra, perle e profumi di Giava. Stoffe variamente colorate e ricamate, e ricchi tappeti che uscivano dalle mani esperte de­gli operai alessandrini, per ornare le ancora disadorne case dei signori occidentali. Porpore per i loro manti.
Che cosa vendevano? Legname, ferro e altre materie pri­me. E frutta. E olio. Ma com'era avvenuto in epoca romana, il valore delle merci esportate era molto inferiore a quello del­le merci importate. Per colmare il disavanzo, Roma aveva spe­so l'oro predato nelle province conquistate. Gli amalfitani, come del resto i veneziani, dovevano arrangiarsi altrimenti. Quell'altrimenti, furono gli schiavi.
Per molto tempo, quasi fino ai nostri giorni, gli storici han­no ignorato o fortemente sottovalutato la schiavitu medieva­le, accettando l'opinione comune che fosse scomparsa con la fine dell'impero romano, per riapparire molto dopo, con la trat­ta dei neri in America. Opinione errata, sia perché la tratta transatlantica, che coinvolse undici milioni di schiavi in cin­que secoli, era stata preceduta dalla tratta transahariana, che ne coinvolse diciassette milioni in tredici secoli, a partire dal secolo VII; sia perché anche nell'Europa, e in particolare nel­l'Europa mediterranea, il traffico degli schiavi continuò du­rante tutto il Medioevo, certo in proporzioni ridotte, ma nient'affatto trascurabili. Ciò che era finito, già dopo le ulti­me conquiste di Traiano, era il modo di produzione schiavisti­co di massa, che aveva caratterizzato l'agricoltura latifondi­stica romana, non certo la schiavitu, che fu largamente utiliz­zata nei lavori pesanti (le navi, le miniere) le attività dome­stiche e le relazioni sessuali. È probabile che quel pregiudizio sia stato alimentato dalla convinzione che l'avvento del cristia­nesimo avesse comportato una drastica contrazione della schia­vitù. Niente di ciò. La Chiesa ha pienamente accettato la schia­vitù (come del resto hanno fatto tutte le altre religioni), l'ha esplicitamente giustificata - basta citare l'opinione di Agosti­no e di Tommaso - e soprattutto l'ha ampiamente praticata nei suoi possedimenti agricoli. In quello di Saint-Germain-des­Près, per esempio, lavoravano ottomila schiavi. Un aspetto essenziale, in quell'epoca, è rappresentato dal­la schiavitù femminile. Se ne parla poco nelle cronache: for­se c'è una sorta di reticenza negli autori, per lo piu maschi. Si dice che le donne erano destinate agli harem. In parte, si: le piu belle, riservate ai sultani, agli emiri, ai dignitari. Che però non erano molto numerosi. Gli harem erano per le donne una destinazione particolarmente privilegiata. Somigliavano a col­legi, non mi spingo a dire conventi, bene approvvigionati, provvisti di comfort, regolati da una minuziosa disciplina af­fidata agli eunuchi. Talvolta, erano anche centri di trame po­litiche di alto livello. Per la maggior parte, però, le donne era­no vendute, o affittate a lenoni che le sfruttavano spietata­mente, che esercitavano su di loro le più sadiche violenze, passando a condizioni sempre più degradanti man mano che la bellezza sfioriva. Proprio come avviene oggi alle immigra­te clandestine nei nostri paesi civili.
Gli schiavi maschi, soprattutto quelli piu giovani e robu­sti, se non appetiti anch'essi sessualmente, erano incatenati ai banchi delle navi, o gettati sottoterra, nelle miniere. Prima, erano ammassati nei cosiddetti «bagni»: vere fosse di serpen­ti, inferni danteschi, dove spesso si moriva o si impazziva.
Anche Amalfi, come Venezia, partecipa attivamente al traf­fico degli schiavi. I principali centri internazionali di questo traffico sono, in Europa, Marsiglia e Verduno Verdun è spe­cializzata anche per la castrazione.
Sembra che i mercanti amalfitani gravitino su Marsiglia, o comunque sulla Liguria, dove comprano schiavi provenien­ti per lo più dai paesi slavi o dall'Inghilterra, per rivenderli a mercanti arabi. I profitti sono molto alti, anche se il merca­to è instabile, perché soggetto ad ampie oscillazioni della do­manda e dell' offerta.
Amalfi si serve, però, anche di un mezzo meno ignomi­nioso.
Per commerciare, c'è bisogno di una moneta. Nell'alto Medioevo si usava l'oro e l'argento. Il primo, nel mondo bi­zantino, dove aveva corso il bisante d'oro, e poi in quello arabo, dove gli emiri e i califfi coniavano il dinaro d'oro, detto mangon o mancusus. I centri commerciali d'importanza "internazionale", come Amalfi, dovevano disporre di una pro­pria moneta, che segnalava con la sua diffusione l'importan­za del loro commercio. Amalfi apri una sua zecca a metà del secolo x, all'epoca del suo splendore, coniando monete di ti­po arabo, i tareni o tari d'oro: il che dimostra la preponde­ranza dei rapporti con il mondo arabo nel commercio amal­fitano. Il tari, moneta di buona lega, si affermò come buona moneta internazionale (per il commercio interno Amalfi usa­va un soldo amalfitano, solidus amalphitanus) fino all'inizio del secolo XII, quando la zecca amalfitana fu abolita dai Nor­manni. Tari e solidus potavano l'effigie della croce di Amal­fi con la scritta Civitas Almalfa.
La moneta assicurava la diffusione e la circolazione del ca­pitale, della potenza commerciale amalfitana, il software. Gli arsenali e le navi, l'hardware. Gli arsenali giacevano ai due la­ti del porto. Erano imponenti: poggiavano su ventidue pila­stri, con volte ad arco acuto. Ne restano ancora, oggi, dieci; gli altri sono stati distrutti dalle grandi mareggiate. Come nel grande «arzanà dei viniziani» dantesco, la città risuonava del battere dei martelli sulle chiglie.
Ne uscivano le navi, la vera potenza della città. Erano le grosse galee da 112 o 122 remi, le cocche o navi tonde e le pe­santi teridi, navi di grande velatura; i galeoni larghi e alti, for­niti di remi e di vele; le galeazze, che navigavano anch'esse a vela e a remo, con i bordi piti alti; e i piccoli agili gozzi (i buc­ti), con un numero vario di remi e due o piti alberi.
La nave da guerra tipica della flotta amalfitana, come del resto di quella veneziana, era la galea: una nave in genere a uno o due alberi a vela latina, armata da venti o al massimo trenta vogatori per banco, e con un grande remo per timone. Nave snella, veloce, potente, una degna erede della trireme romana. Misurava fino a cinquanta metri di lunghezza. Era armata di catapulte e mangani, per il lancio delle pietre e dei proiettili incendiari. Fino all'XI secolo queste navi viaggiavano senza bussola, guidate dal sole e dalle stelle. Furono gli amalfitani a inventarla? O i Cinesi? Il famoso amalfitano Fla­vio Gioia, di cui ci è stato trasmesso anche il ritratto, è un personaggio inventato. Ma non lo era la tecnica di navigazio­ne con la bussola, che gli amalfitani seppero portare a un al­to livello tecnologico, secondo il sistema «a terzarolo» (cosi fu chiamato). Altrettanto perfezionati erano i portolani e le carte nautiche che essi usavano. Le galee scortavano talvolta le grosse navi mercantili, che viaggiavano di conserva in grup­pi da otto fino a venti unità, per reciproca sicurezza.
Quelle navi solcarono orgogliosamente il Mediterraneo, dal Tirreno all' Adriatico, dai porti d'Occidente a quelli d'O­riente, da Costantinopoli a Gibilterra e oltre, spingendosi anche nell' Atlantico, fino alle isole britanniche.
La prima direttrice dell' espansione commerciale amalfita­na fu ovviamente il Mezzogiorno d'Italia, anzitutto la Cam­pania, la Puglia e la Sicilia. In vari centri di quelle regioni fu­rono costituite basi e colonie. A Melfi, la piti antica colonia amalfitana, quella da cui era derivato, ricordiamo, il nome al­la città, i cittadini di Ravello costruirono un monastero bene­dettino, dove sostavano i mercanti diretti ai porti dell' Adria­tico. A Reggio, Palermo e Messina, queste ultime in mano mu­sulmana, erano state costituite basi commerciali con fondachi, case e magazzini. Uno dei mercati piti frequentati era quello di Roma ove, favorita da agevolazioni doganali, fioriva una cospicua domanda "ecclesiastica". Altre basi commerciali era­no state poste a Pisa e Genova, da cui le merci scaricate dalle navi proseguivano sulle carovane, verso Pavia e verso i paesi dell'Europa nordoccidentale. Oppure in Liguria, dove le mer­ei - come abbiamo visto, tra queste gli schiavi - erano instra­date verso i mercati dell'Egitto e della Spagna araba.
La seconda direttrice riguardava i mercati bizantini, so­prattutto Costantinopoli, dove gli amalfitani aprirono, prima dei veneziani, dei pisani e dei genovesi, una colonia con quar­tieri, fondachi e chiese, e che nel 992 fu esentata dal limite di permanenza fino allora prescritto. Il traffico piti importante che vi si svolgeva era quello delle importazioni di seta che, nel­l'impero d'Oriente, era monopolio di Stato, e che gli amalfi­tani monopolizzarono a loro volta in tutto il Tirreno. Di seta fu sontuosamente addobbata Amalfi per ricevere le reliquie di Santa Trofimena, e la persona, viva, del papa Callisto II
Ma l'ascesa del commercio amalfitano, a ulteriore smenti­ta della tesi di Pitenne, raggiunse il culmine quando i mercan­ti amalfitani si presentarono arditamente, e per primi, in Spa­gna, in Marocco, in Egitto e nelle isole tirreniche, dove gli Ara­bi si erano successivamente insediati, provocandovi un incre­mento demografico e quindi della domanda di consumi, che induceva i nuovi dominatori a incoraggiare le importazioni sen­Za limiti di sorta, in un regime di libera concorrenza.
Si capisce che, dopo questa prodigiosa espansione della re­te degli scambi, la città di Amalfi, che era in realtà un agglo­merato di piccoli centri sparsi tra la montagna e il mare, ap­parisse come la descrive un viaggiatore contemporaneo: «do­viziosa e popolosa, piena d'oro d'argento e di drappi, conve­gno famoso di naviganti arabi, siciliani, africani, emporio del­le mercanzie d'Egitto e di Siria». E un altro, Ibn Hawkal, mercante di Bagdad, come riporta Leopoldo Cassese, in Amal­fi e la sua costiera:

È la più prospera città della Longobardia, la più nobile, la più il­lustre per le sue condizioni, la piu ricca e opulenta. Il territorio di Amalfi è vicino a quello di Napoli, che è città bella, ma meno impor­tante di Amalfi.

Come si spiega questa profonda vitalità, e soprattutto, si domanda lo storico Cassese, che, nell' antico ducato sottopo­sto all' alto protettorato dell'impero bizantino, «si sviluppas­se nella medievale Amalfi e non nella greco-romana Napoli uno stato fondato sul commercio e sui traffici»? Risponde lo storico francese, grande amico dell'Italia, Yves Renouard, in Gli uomini dJ affari italiani del Medioevo:

Una potenza commerciale cosi nuova in questa insolita grandez­za, derivava evidentemente dall'abilità tecnica, dallo spirito d'intra- prendenza e dal senso politico, anch'esso eccezionale, dei capi dell'a­ristocrazia mercantile della piccola città arroccata sul fianco diruto della sua splendida ma infeconda costa. Essi seppero sfruttare appie­no le circostanze: ma proprio in questo si rivela il loro genio.

E allora: rivolgiamoci a loro, a questi «chefs de 1'aristo­cratie marchande» amalfitana. Anzitutto, per constatare una peculiarità di quest'aristocrazia: là dove, in altre città, i mercanti che hanno accumulato ricchezze le investono nel possesso di terre per ricavarne ricche rendite, in Amalfi i maiores natu, i signori, investono e reinvestono le loro magre rendite di terre ingrate nel commercio marittimo, che cresce e diventa la principale risorsa della città.
Altra caratteristica soggettiva. Gli amalfitani sono ben vi­sti sia dai califfi arabi al Cairo, che dagli imperatori bizanti­ni a Costantinopoli. I veneziani sono sottoposti di volta in volta, nella seconda di quelle due città, a improvvise aggres­sioni sanguinose. Non ne risultano, almeno di quella violen­za, nei riguardi degli amalfitani. Merito del loro opportuni­smo? Della loro doppiezza? Certo, ne abbiamo parlato e ne riparleremo. Ma i veneziani non ne mancavano. Si può azzar­dare !'ipotesi che in quella buona disposizione dimostrata nei loro confronti s'insinui un sentimento sottile e non facilmen­te spiegabile che si chiama simpatia?
Non sappiamo quanto fossero personalmente simpatici due personaggi, padre e figlio, Mauro e Pantaleone, che ap­partengono all'età del tramonto di Amalfi. Un tramonto, co­munque, fastoso. Sappiamo poco di loro, perché manchiamo di documenti della loro attività commerciale. Sappiamo però che non erano propriamente e solo mercanti, ma piuttosto principi mercanti, come se ne incontrano tanti più tardi in Italia, nel Rinascimento.
Il padre, Mauro, si era stabilito a Costantinopoli. Da li, non da Amalfi, dirigeva le sue attività commerciali, che con­sistevano, pare, nella vendita in Occidente di prodotti e og­getti rari d'Oriente. Era ricchissimo e molto influente alla cor­te di Costantinopoli. Fine diplomatico. La diplomazia, ad Amalfi, era una qualità obbligatoria. Quella della mediazione tra le potenze della cristianità e dell'Islam era infatti una fun­zione vitale per i dirigenti della piccola repubblica, stretta fra le grandi potenze medievali. Bisognava, per continuare a com­merciare alimentando la prosperità dello Stato, trattare con tutti. E fra tutti, erano comparsi negli ultimi tempi personag­gi particolarmente intrattabili come i Normanni: ne parlere­mo nel prossimo capitolo. Mauro occupava il primo posto nel­la colonia amalfitana di Costantinopoli, ed era stato insignito dall'imperatore della qualità di console (hypatos). La sua for­tuna era immensa. L'aveva investita con larghezza e genero­sità nell'abbellimento della sua città e nella fondazione di isti­tuzioni caritatevoli. Fa fondere a Costantinopoli e dona ad Amalfi le grandi porte di bronzo del palazzo arcivescovile. Ne fa dono anche al monastero di Montecassino. Fonda il mona­stero del monte Athos. Finanzia le colonie amalfitane di An­tiocrua e di Gerusalemme, fa edificare monasteri femminili e ospedali per ricchi e poveri senza distinzione, una forma an­ticipata di welfare. Termina la sua vita densa di attività nel silenzio di un monastero.
Il figlio, Pantaleone, segue la sua traccia. Accentua però fortemente il suo impegno politico rispetto alle sue attività commerciali. La pressione normanna si è fatta pesante e mi­nacciosa per la sua patria. Pantaleone tenta disperatamente di realizzare un accordo tra i due imperi, d'Oriente e d'Oc­cidente, contro questi nuovi intrusi. E al tempo stesso orga­nizza e finanzia quella che si può davvero definire la prima crociata, contro il nido saraceno di al-Mahdia, vittoriosa (ne abbiamo parlato nelle pagine precedenti), e non macchiata dal­le infamie, come quelle che seguiranno. La crociata, cui Pan­taleone partecipa combattendo valorosamente (<<et refulsit inter istos Pantaleo malphitanus», dice un cronista), ha suc­cesso. L'accordo antinormanno fallisce, segnando il destino di Amalfi, mentre i veneziani subentrano agli amalfitani nel­la loro posizione privilegiata a Costantinopoli.
Cosi, malinconicamente, finirà la gloria e la ricchezza di Amalfi.
E giustamente Yves Renouard, nell' opera citata, ne sottolinea la grandezza.

Commercianti avveduti e intraprendenti [ ... ] alla testa di un giro d'affari quasi mondiale per l'epoca, consiglieri politici della loro città, protagonisti nella diplomazia internazionale al livello delle maggiori potenze [ ... ] mecenati dotati del senso della grandezza, della magni­ficenza, della liberalità, protettori delle arti sia per vanità, sia per au­tentica pietà religiosa, profondamente cristiani,jilantropoi, COSI ci ap­paiono nella luce incerta delle testimonianze frammentarie questi pri­mi grandi uomini d'affari italiani del Medioevo. Essi impongono un prototipo che molti, ben più noti, riprodurranno con qualche varian­te nei secoli successivi: alcuni talvolta li eguaglieranno; ma non ve ne sono che li abbiano superati.

Capitolo secondo
L’AVVENTURA NORMANNA

Il Gargano è lo sperone dello Stivale. È una massa roccio­sa che sorge inattesa e fosca dai dolci campi di Puglia e si pro­tende per sessantacinque chilometri nell' Adriatico. Questa brusca rottura le conferisce un aspetto eccezionale, che spie­ga il clima di sacralità dal quale il massiccio è stato avvolto nella storia.
Nell'antichità greca e romana ha ospitato due templi, uno dei quali dedicato a Calcante, !'indovino dell' Iliade. Per con­sultare quell'oracolo, la gente doveva sacrificare un ariete ne­ro e dormire avvolgendosi nella sua pelle.
Nell' alto Medioevo quella sacralità fu rinnovata da un even­to miracoloso. Il 5 maggio del 492 un allevatore di bestiame smarrì il suo toro, che si era inopinatamente cacciato in una buia caverna. Contrariato, gli aveva scagliato contro una frec­cia, che però era inaspettatamente tornata indietro, dal fondo della caverna, ferendolo a una coscia. Informato del fatto, il vescovo vi scorse un presagio. Giunto sul posto, gli apparve l'arcangelo Michele, splendente nella sua armatura, che gli in­timò di dedicargli in quel luogo un santuario. Gli lasciò uno sperone della sua armatura: pro memoria. Uno sperone: come il Gargano che, una volta edificata la chiesa, diventò una me­ta di pellegrinaggi tra le più famose d'Europa. Una profonda scalinata affonda nella roccia, tra due pareti costellate degli ex voto. Due magnifiche porte di bronzo la chiudono: dono del­l'amalfitano Pantaleone, lo abbiamo già incontrato.
Pellegrini di ogni paese e ogni condizione hanno visitato quel luogo. Papi, re e imperatori. Tra i quali quel giovane un po' disturbato, Ottone IlI, che per raggiungere Monte Sant' An­gelo percorse l'Italia a piedi nudi.
Nel 1016 vi giunse un gruppo di quaranta pellegrini nor­manni. Racconta un certo Guglielmo di Puglia, in un suo poema in eleganti esametri latini sulle Cesta Roberti Wiscardi, scritto alla fine dell'XI secolo, che i pellegrini furono avvicina­ti da un tipo strano con una lunga veste di foggia greca e una berretta. Si chiamava Melo. Era, disse, un patriota longobar­do, perseguitato dai Bizantini per aver capeggiato un'insurre­zione. Melo diceva di disporre di un gran numero di militan­ti, pronti a tutto per liberare il loro paese da quelle piovre gre­che. Quel che mancava era un'organizzazione militare. Ora, Melo sapeva quanto valore dimostrassero e quanto terrore ispi­rassero i guerrieri normanni. Ne sarebbero bastate poche cen­tinaia per organizzare una forza poderosa. Domandò se ave­vano visto quelle terre pugliesi cariche di grano, di olio, di vi­no, di frutta; se avevano visitato quelle città piene di ricchezza e di bellezza, uniche al mondo. Se avevano voglia di conosce­re veramente l'Italia, non da turisti, ma da liberatori. Melo era certo un tipo strano. Ma aveva il dono, tutto greco, in ve­rità poco longobardo, dell' eloquenza. Fatto sta che riusci a en­tusiasmare quei pellegrini, già eccitati dalla magia di quel luo­go. Promisero di tornare, di li a un anno, con un numero suf­ficiente di compagni d'arme. E, dice il racconto, mantennero la promessa.
Ovviamente non si può giurare sugli esametri di Gugliel­mo tanto più che ci sono altre versioni. Come quella, forse più credibile, secondo cui i pellegrini normanni (sempre qua­ranta!) avrebbero, di ritorno da Gerusalemme, aiutato vali­damente il principe Guaimaro di Salerno a liberare la città da un assedio dei Saraceni; e in cambio avrebbero ricevuto un invito a tornare piu numerosi, con corredo di doni ricchi e al­lettanti.
Quel che è certo è che esisteva in Europa, e precisamente in Normandia, una ricca offerta di mercenari pronti a metter­si al servizio di chicchessia, senza tanti scrupoli. I Normanni, appunto. Discendevano da quei Vichinghi (guerrieri) che nel secolo x, contemporaneamente agli Ungari e ai Saraceni, ave­vano infestato l'Europa, terrorizzandola e devastandola con le loro scorrerie.
I Vichinghi erano una razza indomita. Carichi di una straordinaria energia, che manifestavano nei loro esuberanti appetiti sessuali, e in uno spirito d'avventura che animava una costante inquietudine. Erano pagani, ma avevano abbrac­ciato il cristianesimo con 1'estremismo che li caratterizzava, e lo praticavano con un'intensità commista a un'ingenua astu­zia, come quando si facevano battezzare dieci o dodici volte di seguito, per amore della veste bianca che veniva donata ai battezzandi.
Erano straordinariamente prolifici. E a un certo punto avevano abbandonato il loro paese sovrappopolato, per im­barcarsi sui loro lunghi e agili scafi, raffiguranti sulla prua dra­ghi e serpenti, in cerca, prima, di facili bottini, e poi di nuo­ve terre dove radicarsi. In Francia, dopo tante battaglie vin­te, battuti finalmente da un esercito guidato dal conte Eudo, un parente di Ugo Capeto, fondatore della grande dinastia omonima, avevano accettato di installarsi nella regione che porta ancora il loro nome. Ma, anche allora, il germe dell'in­quietudine gli era rimasto dentro. E aveva generato due gran­di migrazioni di conquista: una, verso l'Inghilterra, l'altra ver­so l'Italia meridionale. La prima si era risolta con una sola grande battaglia, vinta a Hastings da un Guglielmo conosciu­to, da allora, come il Conquistatore. La seconda, in un pro­cesso di lenta e complessa penetrazione, durato all'incirca un secolo e mezzo.
All'inizio, le incursioni normanne in Italia meridionale non si distinguono, per violenza e ferocia, da quelle saracene che abbiamo evocato nel capitolo precedente. Se ne distinguono però, con conseguenze decisive, per un dato che diventa pa­lese non immediatamente, ma nel corso del loro svolgimento. Anche i Saraceni si prestavano a combattere come mercena­ri per i generali bizantini, o per i duchi longobardi indifferentemente, secondo le convenienze, pronti a cambiare campo all'istante. Ciò che distingueva i Normanni dai Saraceni era la solidarietà verso i loro connazionali, che si manifestava quando, come spesso avveniva, essi si trovavano alla fine in tutti e due i campi: quello dei vincitori e quello dei vinti. Ac­cadeva allora che i Normanni vincitori si adoperassero a fa­vore di quelli vinti, per lasciarli andare liberi: cosa pressoché ignota ai Saraceni, divisi da etnie, paesi, appartenenze diver­se, talvolta ostili.
Di qui, una conseguenza degna di attenzione. I Norman­ni vincevano sempre. O meglio: non perdevano mai. Quan­do uscivano dal tavolo da gioco, per cosi dire, gli restituiva­no la posta. Non è un vantaggio da poco.
Ciò ha permesso, mantenendo intatta la loro forza com­plessiva, di dare continuità alle loro conquiste. Di collegare un episodio all'altro, come se appartenessero a un piano più determinato. In realtà, non c'era alcun piano. C'era la possibilità di mantenere intatto il capitale. Di mantenere COS[;lllll' l'accumulazione. Il che costituisce un piano di per se stesso.
Questi, dovremmo dire, sono i grandi vantaggi economici e politici del patriottismo. L'invasione normanna nel Mezzo­giorno d'Italia è un processo di radicamento ininterrotto, sen­za soste necessarie per pagare il costo delle inevitabili sconfit­te. Il flusso di Normanni verso l'Italia era continuo. Il deflus­so, le perdite erano minime.
Questo processo di radicamento inizia con la concessione di un feudo - Aversa - dal duca di Napoli Sergio IV a Rai­nulfo Drengot, che da mercenario diventa suo vassallo. Que­sto diventa un polo di espansione, che culmina con 1'acquisi­zione del ducato di Benevento, grazie ad accorte politiche di alleanza e all' arrivo di nuovi "immigrati".
L'altro polo della conquista è Melfi, in Puglia, dove un al­tro capobanda, Guglielmo (detto Braccio di Ferro) si stabili­sce, dopo avere rotto un rapporto di mercenariato con i Bi­zantini, attorno al 1030. Quarant' anni dopo vi giungono due fratelli, Roberto il Guiscardo (l'astuto) e Ruggero. Questi appartengono a una famiglia piuttosto numerosa, dodici maschi e tre femmine, che Tancredi d'Hauteville (Altavilla) aveva a­vuto da due mogli. La peculiarità non risiede però nel nume­ro, ma nel fatto che tutti siano diventati o principi e princi­pesse, o baroni, e anche re. Non erano certo stinchi di santo, ma erano, manco a dirlo, religiosissimi. Erano predoni molto arditi. I due fratelli, dopo aver saccheggiato e devastato città e campagne in Puglia come mercenari, assoldati da duchi lon­gobardi come quel Pandolfo di cui - pare - si evitava di pro­nunciare il nome, tale era la stima di cui godeva, cominciano a operare in proprio: il Guiscardo conquista Bari, e Ruggero si fa riconoscere dai suoi come duca di Puglia e di Calabria.
A questo punto il papa di Roma, un grande papa riforma­tore, Leone IX, accogliendo gli appelli delle popolazioni tor­mentate, dopo aver chiesto invano l'intervento armato del­l'imperatore d'Occidente, ottiene quello dell'imperatore d'O­riente, che invia in Italia un corpo di spedizione. Il papa stesso si mette alla testa di un' armata improvvisata e confusa d'ita­liani e Longobardi, affiancata da un formidabile corpo di mer­cenari svevi.
I Normanni, da parte loro, radunano tutte le loro forze pre­senti in Italia. Sono inferiori di numero, ma quale differenza di potenza e di genio militare! Fino all'ultimo tentano di evi­tare lo scontro, contro quello che essi pure riconoscono come il rappresentante di Dio in terra, e cercano un'intesa. Ma Leo­ne è irremovibile, e allora il Guiscardo, che guida i Norman­ni, decide di attaccare, prima che giunga l'armata bizantina. L'impeto dei suoi cavalieri sgomina l'ala sinistra dello schie­ramento papale: gli Italo-Iongobardi, travolti, fuggono disor­dinatamente. Al centro, Umfredo d'Altavilla, un altro dei fra­telli di quella famiglia numerosa, è invece sanguinosamente re­spinto dal poderoso muro degli Svevi, che si chiudono a quadrato nei loro scudi roteando le spade a doppia impugna­tura. Roberto il Guiscardo, che ha trattenuto a sinistra una forza di riserva destinata a un assalto finale, è costretto a in­tervenire subito, per sostenere il fratello in difficoltà. Ma è Riccardo d'Aversa che, frenando i suoi dall'inseguire i fuggia­schi, ritorna sul campo di battaglia a briglia sciolta, prenden­do gli Svevi alle spalle. Quei biondi altissimi (prima della bat­taglia avevano irriso i Normanni, di corta spanna, dicevano) si fanno massacrare fino all'ultimo uomo. Nel 1820 gli scavi effettuati nella zona hanno portato alla luce un grande ammas­so di scheletri che portavano i segni di terribili ferite. In gran­de maggioranza erano alti un metro e ottanta.
Ci siamo soffermati sulla battaglia di Civitate, perché se­gna un momento cruciale della conquista normanna. Dopo di questa, malgrado una lunga resistenza, il papa guerriero sarà costretto a riconoscere il ducato normanno, che intanto si è esteso, dopo la morte del grande duca Guaimaro, a Salerno e si è affacciato alla costa tirrenica, conquistando Napoli e mi­nacciando Amalfi. Morto Leone IX e succedutogli Niccolò II, quest'ultimo si recò solennemente a Melfi per una cerimonia di riconciliazione. Erano presenti in grande numero i baroni normanni, capeggiati da Riccardo di Capua e Roberto il Gui­scardo. Dopo la vittoria di Civitate, di fronte al papa che gli era stato vilmente consegnato dagli abitanti di quella città, lungi dall'imprigionarlo, si erano inginocchiati ad pedes, chie­dendo perdono, per poi scortarlo, il vinto pontefice romano, con tutti gli onori, a Benevento.
Il papa Niccolò II confermò Riccardo principe di Capua, e investi Roberto del ducato di Puglia, poi di Calabria e, fi­nalmente di Sicilia, benché non avesse ancora messo piede nel­l'isola. Nasceva nel Mezzogiorno una nuova storia. I Norman­ni diventavano, piti che gli alleati, i protettori del papa, di cui si riconoscevano vassalli. Sentite le parole del giuramento pro­nunciato dal Guiscardo, riportate da John Julius Norwich, nel­la sua grande narrazione del regno normanno, Il Regno del So­le: «io, per grazia di Dio e di san Pietro duca di Puglia e di Calabria e, con l'aiuto di essi, futuro duca di Sicilia, sarò d'o­ra in poi fedele alla Chiesa romana e a te, Papa Niccolò, mio signore». Segue una serie di impegni solenni, per finire cosi:

Osserverò fedelmente sia nei riguardi della Chiesa romana che tuoi, gli obblighi che ho ora assunto e farò altrettanto nei riguardi dei tuoi successori che assurgeranno agli onori del beato Pietro e che mi con­fermeranno nelle investiture da te concessemi. Lo giuro su Dio e sui suoi Evangeli.

La nuova storia si apriva non soltanto sulla costituzione di questo nuovo e del tutto imprevisto asse politico, ma sul­l'ingresso della potenza normanna, legittimata dalla massima autorità religiosa, sulla scena d'Europa. Mancavano però due cose essenziali: la grande Sicilia e la piccola ma ricchissima Amalfi.

La Sicilia regina d'Italia.
Dice Goethe, nel Viaggio in Italia: «L'Italia senza la Sicilia è inconcepibile [ ... ] qui sta la chiave di tutto». Pure, c'è stato un periodo nel quale Sicilia e Italia furono nettamente separa­te, e alla fine del quale l'isola fu ricondotta violentemente al­l'unità. Non però come suddita, com'era stata per tanto tem­po prima, e come sarebbe stata per tanto tempo dopo, ma co­me regina. Nel x secolo gli Arabi conquistarono la Sicilia e la tennero per due secoli, organizzando da li i loro raid contro la penisola. Ma nel XII secolo i Normanni misero fine al domi­nio musulmano, e fecero della Sicilia, recuperata al mondo cri­stiano, la regina del Regnum. «Rex Siciliae et Italiae»: cosi fu definito, dal principe di Capua che lo incoronava, nel giorno di Natale del II}O, Ruggero II.
Quei due secoli di dominio arabo sono stati descritti talo­ra come un' età dell' oro della Sicilia: con un' enfasi talvolta e­sagerata, come quella che è stata rimproverata allo splendido romanzo storico di Michele Amari, I Musulmani in Sicilia. Certo è che c'è un incredibile mutamento di scena tra gli an­ni della conquista e quei due secoli di governo dei Mori, fra il terrore dei primi e la pacifica prosperità degli altri.
Gli Arabi, sbarcati in Sicilia su invito di un traditore bizantino - per questioni di donne, dicono i siciliani - agli inizi del secolo IX, impiegarono quasi un secolo per strapparla com­pletamente ai Greci. Nell'827 cominciò l'invasione. Solo nel 902 i Bizantini furono definitivamente scacciati dall'isola. La conquista araba durò quindi settant' anni. Ma già dall'831, con la conquista di Palermo, un centro d'importanza secondaria di cui fecero la loro capitale, gli Arabi di Sicilia estesero il loro dominio su una vasta parte dell'isola.
Quel dominio durò pio di due secoli, fin dopo la metà del secolo XI, quando i Normanni, guidati da Ruggero d'Altavil­la, sbarcarono, nel 1064, sull'isola. Questa volta la conquista durò solo trent' anni. Nel 1091 cadde Noto, l'ultima roccafor­te della Sicilia musulmana.
Gli Arabi, in quei due secoli, lasciarono un'impronta in­delebile.
Fu grande la differenza tra la violenza selvaggia della con­quista e il governo, ferreo politicamente, ma tollerante quan­to alla religione, sostenibile quanto alla libertà, stimolante quanto all'economia, e aperto all'arte e alla cultura.
Gli abitanti non furono sottoposti a pressioni dirette alla conversione. I nuovi dominatori erano pio interessati a riscuo­tere il prezzo dell'infedeltà. E comunque la pressione fiscale era notevolmente minore di quella, intollerabile, esercitata dal governo bizantino.
Oltre che pio tolleranti di quanto lo fossero i cristiani e i Franchi sul continente in termini di religione, gli Arabi si di­mostrarono abbastanza accomodanti in termini politici. Al­cune città furono lasciate praticamente indipendenti e senza nemmeno una guarnigione. Le istituzioni locali furono pre­servate, e i cristiani continuarono a vivere secondo le proprie leggi. Certo, dovevano portare, come gli ebrei, dei segni di riconoscimento. Non potevano organizzare processioni e suo­nare le campane delle loro chiese, parte delle quali furono tra­sformate in moschee. Non potevano bere vino in pubblico, e dovevano alzarsi in piedi quando un musulmano entrava in un luogo chiuso e cedergli il passo per la strada; le loro don-ne non avevano accesso agli stessi bagni delle musulmane. Ma, sia pure con discrezione, furono liberi di continuare a praticare il loro culto. Gli ebrei non furono perseguitati, co­me avveniva spesso nelle città cristiane.
L'economia siciliana conobbe un periodo di prosperità e di apertura agli scambi, che fece di Palermo una città popo­losa e ricca. Gli Arabi portarono all'economia siciliana mol­to piu di quanto avevano preso nelle loro razzie.
Piantarono limoni e aranci amari. Insegnarono a coltiva­re la canna da zucchero e a spremerla. Introdussero il coto­ne, il riso, il gelso e i bachi da seta, la palma da dattero, il pa­piro, i meloni e il pistacchio.
Riaprirono al commercio l'accesso alle coste africane, là dove giungevano dall'interno le carovane, che trasportavano l'oro dal Senegal, dal Sudan e dal Niger. Dall'Africa giunge­vano anche le belle porcellane smaltate di Kairouan, e splen­didi tessuti e tappeti.
In un'isola arida costruirono, come avevano fatto nelle zo­ne deserte attorno a Bagdad, sistemi d'irrigazione.
Non può essere tutta esagerazione poetica il racconto di tanti testimoni menzionati nel lavoro di Salvatore Tramon­tana, IlRegno di Sicilia, come quello di Ugo Falcando, nel qua­le si descrive quella pianura

[ ... ] che racchiude nel suo grembo ogni specie di alberi da frutta, che da sola offre tutte le delizie presenti in ogni luogo e nella quale si co­glie la gradevolissima abbondanza delle sorgenti che zampillano ovun­que, degli alberi sempre verdeggianti, degli acquedotti che in gran nu­mero soddisfano i bisogni dei cittadini.

Il poeta Abd ar Rahman di Trapani esalta il castello di Favara: le acque che si diramano in ruscelli, i laghi, le palme, le limpide sorgenti, il parco, i verzieri. E in Pietro da Eboli, come in altri, si coglie il richiamo alle delizie del paradiso coranico, evocato nei giardini ricchi d’ombra, di verzura, d’acqua. Beniamino de Tutela, giunto in Sicilia dall’Oriente, è colpito, a Messina, dalla magnificenza e dall’opulenza di una terra ricca d’acqua, con verzieri e piantagioni, e a Palermo dallo splendore di «palazzi e giardini reali ovunque cosparsi di ori, di ar­genti, di marmi», collocati in uno spazio «che abbonda di sorgenti e di ruscelli». Al Idris, il geografo marocchino, rife­risce dei «bagni in gran copia» negli «alti palagi» di Palermo, e Ibn Gubayr della «dovizia delle acque», in quelle architet­ture eleganti che circondano la città «come i monili il collo di donzelle dal petto ricolmo» e nei quali i sovrani «senza uscir mai da siti ameni gustano ogni piacere del mondo».
Le grandi dimore degli emiri costruite dagli Arabi ed ere­ditate dai Normanni, la Zisa e la Cuba, esaltano il trionfo del­l'acqua, il suo uso, la sua voluttuosa freschezza, come scrive Tramontana, nel saggio citato. Certo, c'è dell'esagerazione in questi testi agiografici. Resta il fatto che ancora oggi gran par­te delle sorgenti d'acqua conservano nomi arabi.
Palermo araba è una grande città. I mercanti persiani sono colpiti dall'abbondanza di cereali, bestiame e schiavi. Ma ci sono anche gli uomini e le donne: sembra, più di centomila, che ne fanno una tra le piti popolose città del mondo. Certo, a parte le regge, è anche una città molto sporca e discretamente fetida, a causa soprattutto della nuvola d'aglio che l'avvolge.
Miasmi nauseabondi gravavano, del resto, a quei tempi su tutte le città, non solo siciliane. Lo stesso Ibn Gubayr, appe­na citato, riferisce che Messina era «piena di sudiciume e di fetore». Tale era il fetore collettivo che, durante le feste, si tentava di ridurlo con turiboli accesi. Una delle cause di que­sta puzza era la libera circolazione delle bestie: cavalli, muli, asini, cani, galline, capre, pecore e maiali che cospargevano le strade del loro letame. Non si parla dei topi, circondati da una certa benevolenza in quanto nemici del gatto, che era creatura del demonio. Senza parlare di pulci e cimici, delle quali anche due secoli dopo Francesco Petrarca parla come di tormenti dei quali era impossibile liberarsi. E, naturalmente, delle deiezioni umane, che erano liberamente svuotate dalle finestre nella strada sottostante.
Uno dei pochi principi che si preoccupò a quei tempi del­l'igiene pubblica fu Federico II. Ma la Chiesa considerò un suo imperdonabile peccato, fra i tanti, quello di aver fatto costruire latrine e non altari.
Era segno delle estreme antinomie di quei tempi, che alle sciagurate condizioni dell'igiene pubblica si contrapponessero le raffinatezze delle cure private del corpo, delle signore del­l'aristocrazia soprattutto. In ciò, la Palermo araba eccelleva.
L'uso degli ornamenti femminili, la cosmesi, era detta al­lora lisciatura. Alla Sicilia araba risale la coltivazione del­l' henné, pianta orientale della quale parla anche il Corano, le cui foglie contenevano una sostanza rossiccia usata a Paler­mo per rinforzare e tingere i capelli e, tra le donne berbere, per colorare le dita delle mani e le braccia. Anche le piante dei piedi, considerato che molte donne camminavano scalze, e l'henné induriva la pelle e disinfettava le escoriazioni. Il bi­stro agli occhi pare fosse adottato dalle signore musulmane per scongiurare le irritazioni provocate dalla sabbia. Si usa­va tingere gli occhi con un mirwad, un bastoncino intinto in un collirio, il kohl, per colorare ciglia, sopracciglia e palpe­bre. Si consultavano ricette preparate da medici specializza­ti, per preparare in casa creme per il viso, lozioni per le ma­ni, rossetti e profumi. Le foglie di nasturzio erano usate per rallentare la crescita dei peli, e la depilazione era praticata con pinzette, dopo molti bagni caldi. «Il loro maggior pen­siero è la lisciatura», si lamentava fra Giordano da Rivalta. E fra Gilberto da Tournai tuonava:

[ ... ] tu donna vai in giro col collo per aria, parli a segni e occhiate, cammini scompostamente, fissi in volto gli uomini, ti tingi i capelli, ti ungi la faccia, ti alzi le ciocche dei capelli, ti guardi allo specchio, ti cingi il vestito con ghirlande, ti sovraccarichi di collane [ ... ] tu, in que­sto modo (osservato con tanta precisione dall' esasperato frate) attrai e inganni l'incauta gioventù [ ... ] rendi la bellezza abominevole a Dio, agli angeli, agli uomini giusti con fetidi unguenti (Tramontana).

Quei fetidi unguenti, le signore occidentali li cercavano avi­damente, come la bella Eleonora d'Aquitania, nelle ricette del­le dame di Palermo, di Cordoba e di Bagdad. Forse, incuranti dei frati, imitavano inconsapevolmente gli uccelli, che - osserva Federico II nel De arte venandi cum avibus - nella stagione degli amori modificano il colore e il fasto del piumaggio. E "li­sciavano" cosi quel che faceva illanguidire il poeta siciliano Gia­como da Lentini: «lo bel viso e lo morbido sguardare».
Gli Arabi, dunque, promossero in Sicilia lo sviluppo di nuo­vi prodotti, la riaprirono al commercio mediterraneo, irrigaro­no l'isola, adornarono le città e le loro signore. Ma anche, e so­prattutto, colonizzarono l'isola spezzando i latifundia, e in­sediando almeno mezzo milione di coltivatori in proprietà di modeste dimensioni, che avrebbero potuto costituire la solida base di una grande potenza economica e commerciale. Ciò però non avvenne. E di ciò dobbiamo chiedere conto ai loro vinci­tori e successori normanni.
Abbiamo già seguito la vicenda, per molti versi straordi­naria, dell'avvento normanno in Italia. Volgiamo ancora una volta lo sguardo ai principali protagonisti di questa svolta sto­rica: gli Altavilla.
A casa loro, in Normandia, erano nobili di non eccelso li­gnaggio. Tancredi, il capostipite, aveva sposato successivamen­te Muriella, dalla quale aveva avuto cinque figli, e Frisenda, che ne aveva partoriti otto. Ambedue caste e prolifiche. Que­sti tredici, tra fratelli e fratellastri, diventarono quasi tutti principi e principesse. Fra loro, i tre che abbiamo incontrato: Roberto e i due Ruggeri, dei quali uno fu re.
Roberto il Guiscardo, l'astuto, è diventato una figura mitica.
Se tutti i suoi atti non fossero rigorosamente documenta­ti, apparterrebbe a quel genere di personaggi di cui gli stori­ci tendono a dire che non sono mai esistiti e costituiscono le allegorie di un mito nazionale. Diabolico come Annibale, si raccontano di lui tante imprese incredibili: come quella dei pezzetti di pane che fece gettare fuori delle mura di Palermo assediata, per attirare i Saraceni affamati, sempre più in qua, finché non venivano a tiro di cattura. Ma non è vero. Lui era molto più guiscardo, e i Saraceni molto meno grulli. Le pa-gnotte offerte agli assediati gli servivano per misurare la git­tata dei loro archi quando scagliavano frecce, per "coprire" i loro compagni che correvano a raccoglierle. Come tutti i fur­bi, era anche fortunato: come quando, raffreddato, si chinò sotto il tavolo per soffiarsi il naso, nel preciso momento in cui un sicario penetrato nella sua tenda gli tirava una freccia. Si è detto di lui che unisse saggezza e prodezza. Faceva le cose giuste al tempo giusto. Casi vinse il papa a Civitate. Casi gli si protestò vassallo, anziché imprigionarlo. Casi eluse l'impe­ratore d'Occidente, mentre circuiva quello d'Oriente. Un'ul­tima sua impresa fortunata fu di raggiungere i settant'anni, quando la gente si fermava di solito a trentacinque.
Il fratellino minore Ruggero era meno astuto, non meno prode. Amava e detestava il fratello. Litigarono spesso, e si unirono sempre nei momenti cruciali: come nella conquista della Sicilia. Ruggero ebbe la parte decisiva in quell'occasio­ne e nella repressione della rivolta pugliese. Stava anche con i Normanni che, con il pretesto di difendere il papa Grego­rio, straziarono Roma nel piti orrendo dei saccheggi che essa subì mai. Era crudele quanto si poteva a quei tempi, per na­tura e per incutere terrore. Non era un campione di buona creanza. A un dignitario franco che gli esponeva una propo­sta non convincente, levata una gamba «fece una grande per­nacchia», per casi dire, dicendo: «affè mia, questa vale di piti di codesto vostro discorso». Decisamente, non un gentleman. Dalla terza moglie, la contessa Adelaide, ebbe due figli, il se­condo dei quali, Ruggero anche lui, dopo la morte del primo, gli succedette che aveva diciassette anni. Seppe trarre dai frut­ti delle conquiste del padre e dello zio la capacità di consoli­darle, estendendole. Ed ebbe, lui, Ruggero II, la grande idea provocatoria, di cementarle nientemeno che in un regno che si estendeva dal Tronto al Mediterraneo comprendendo la fa­tidica Sicilia, che ne divenne la capitale.
Casi, nel 1130, ebbe fine nel Mezzogiorno d'Italia la fram­mentazione anarchica che aveva contraddistinto sei secoli di storia. Il Sud raggiungeva una sorprendente unità, mentre quella del Nord cominciava a incrinarsi.
Quale fu il ruolo di quel pugno di guerrieri normanni, nel destino del Mezzogiorno e dell'Italia? Ecco una domanda al­la quale gli storici hanno fatto fatica a dare una convincente risposta. Secondo me, la chiave di quella risposta sta nel mo­do in cui essi governarono la Sicilia "liberata" dai Saraceni, e nel modo in cui soggiogarono le repubbliche marinare del Sud, Napoli e Amalfi.
Fu dunque nella cattedrale di Palermo, nel giorno di Nata­le dell' anno 1130, che Ruggero d'Altavilla, a trentacinque an­ni, cinse la corona di re di Sicilia. Ne erano passati centotre­dici da quando i Normanni erano giunti, a cavallo, nell'Italia meridionale. Certo, la conquista normanna dell'Inghilterra durò molto di meno. Ma li si trattava di una struttura statale unitaria e compatta, quella anglosassone. Qui, di un territorio popolato da tre etnie e religioni diverse, e da almeno sei stati in costante conflitto. Più che della lentezza della conquista, c'è da stupirsi che essa sia stata possibile, in quella condizio­ne caotica.
È inutile seguire le vicende intricatissime dei dieci anni che seguirono l'incoronazione di Ruggero II. Come dice Norwich nel Regno del Sole:

[ ... ] la storia d'Italia durante il Medioevo [ ... ] è piena di racconti di guerre inconcludenti: una marea fluttuante di battaglie risaliva la pe­nisola e poi la ridiscendeva: città assediate e riconquistate, da libera­re e riconquistare nel corso di una lotta tetra che sembrava non do­vesse mai aver fine. Per lo storico tali racconti sono uggiosi, per altri possono essere addirittura insopportabili.

Qui basterà dire che in quei dieci anni Ruggero II, dopo quelle sue imprese, ebbe tutto il mondo contro: e passare in l'apidissima rassegna i vari scenari sui quali dovette misurar­:;i con valore, saggezza, abilità, clemenza e crudeltà.
La Chiesa, anzitutto. Dapprima favorevole, poi, come ab­biamo ricordato, nemica risoluta, poi, una volta sconfitto Leo­ne IX, costretta a riconoscere la dominazione normanna sul- la Sicilia e quella, nominalmente esercitata in nome dell' apo­stolo Pietro, sull'Italia meridionale. Aveva quindi subito uno scisma, con l'elezione contemporanea di due papi: uno, Ana­cleto II, della ricchissima famiglia ebraica Pierleoni, che go­deva del favore della maggior parte dei nobili e del popolo ro­mano, e che si era dichiarato deciso sostenitore di Ruggero; l'altro, Innocenzo II, appoggiato praticamente da tutta Eu­ropa, a cominciare dall'imperatore, e fortemente sostenuto dal piu ardente dei predicatori, san Bernardo di Chiaravalle, nemico acerrimo del «leone ruggente» figlio di ebrei, «che profanava la cattedra di Pietro e dell' abominevole tiranno di Sicilia». La disputa si prolungò per un intero decennio. Ab­bandonato dall'imperatore, che a un certo punto preferì tor­narsene in Germania, il papa Innocenzo fu sconfitto dai Nor­manni e fatto prigioniero. Dopo la sua morte, il successore fu costretto a riconoscere, praticamente senza condizioni, Rug­gero II re di Sicilia. Intanto, lo scisma si ricomponeva in un concilio, nel quale Bernardo di Chiaravalle si compiaceva di poggiare la sua mano sulla spalla dello sconfitto, ma coraggio­so, Anacleto.
Dell'imperatore germanico Lotario, abbiamo già detto. Sce­so in Italia, incoronato a Roma, se n'era tornato al paese suo dopo i soliti giuramenti di vassallaggio di tutti i vassalli italia­ni, felici di salutarlo con deferenza purché fosse di passaggio. Queste frequenti discese e risalite degli imperatori tedeschi co­stituiscono nel Medioevo un rito turistico peculiare.
Anche l'imperatore bizantino si preoccupò dell'intrusio­ne normanna e si rivolse a Venezia, che gli promise l'invio della sua flotta, come pisani e genovesi avevano promesso a Lotario l'intervento della loro contro la flotta siciliana. Ma, nonostante la fervida mediazione di un grande diplomatico come Pantaleone di Amalfi, quell'intesa singolare fra due im­peri e tre repubbliche non si realizzò. È probabile che Rug­gero II fosse riuscito a sventarla usando le risorse della sua diplomazia.
E infine, last not least, i baroni. L'ascesa folgorante di Ruggero non poteva lasciare indifferenti i suoi vassalli, soprattut­to quelli del "continente", che respingevano le sue pretese di despota orientale, di monarca assoluto. Rivolte scoppiarono ovunque. In Campania insorsero a più riprese, inframmezza­te da lacrime di riconciliazione presto dimenticate, Roberto di Capua e Rainolfo di Alife, il cui fratello respinse l'inviato del re con le solite buone maniere: cavandogli gli occhi e taglian­dogli il naso. In Puglia, Tancredi di Conversano e le città di Bari, Troia, Molfetta. Ruggero intervenne due volte. La pri­ma dovette subire un'umiliazione, quando fu sconfitto dai ri­belli nei pressi di Benevento. La seconda abbandonò ogni scru­polo e si presentò con un esercito tutto costituito da Sarace­ni, suoi fedelissimi, che si può capire quale considerazione potessero avere delle popolazioni cristiane. Espugnate le città ribelli, le sue vendette furono atroci. Era stato noto fino allora per una clemenza persino stravagante, rispetto ai (empi. Recuperò pienamente, incendiando le città, bruciando vivi gli abitanti, lasciando stuprare le donne; e, naturalmente, cavai! do occhi e tagliando nasi a volontà. Il ribelle Rainulfo, che nel frattempo era morto, lo fece dissotterrare, per gettarlo in un pantano, fuori delle mura. In quegli anni anche il Vesuvio si risvegliò, dopo più di un secolo di totale inattività, con un' e­ruzione magnifica quanto terribile.
Per una settimana il vulcano vomitò fiumi di lava sui villaggi cir­costanti e 1'aria si fece densa di cenere rossiccia che oscurò il cielo fin sopra Benevento, Salerno e Capua (Norwich).
Nel 1140 era finita sia l'eruzione del Vesuvio, sia quella di Ruggero II. Dopo dieci anni di strenua lotta, il regno era tutto suo.
Qui, nell'intelligente flessibilità con cui seppe governar­lo, si manifestò la sua vera grandezza.
L'esiguità delle forze di cui i Normanni potevano disporci, rispetto al numero e alla varietà della popolazione, non consentiva un esercizio dispotico e oppressivo del potere. Del resto, quello non era nelle corde di Ruggero, che preferiva alla brutalità normanna la sottigliezza orientale. Era preferi­bile di gran lunga governare con il consenso. Per questo, tut­tavia, era necessario realizzare l'integrazione di etnie cosi di­sparate. Questo fu il compito cui Ruggero si dedicò, e che in Sicilia gli riuscì.

Non vi sarebbero più dovuti essere siciliani di razza inferiore. Tut­ti, Normanni e Italiani, Longobardi, Greci, Saraceni, avrebbero avu­to un ruolo da svolgere nel nuovo Stato. L'arabo e il greco sarebbero state le lingue ufficiali alla pari con il latino e la lingua franco-norman­na. Un Normanno venne nominato emiro di Palermo, titolo bello e altisonante che Ruggero non ritenne per nulla necessario abolire; a un Greco invece venne affidato il comando della marina che andava ra­pidamente ingrossandosi. Al controllo del tesoro e delle zecche ven­nero posti alcuni Saraceni. Brigate speciali saracene vennero integra­te nell'esercito e acquistarono ben presto una fama particolare per la loro lealtà e la loro disciplina, fama che dovevano conservare per ol­tre un secolo. Le moschee rimasero affollate come prima, mentre chie­se e monasteri cristiani di rito latino come di rito greco, molti dei qua­li fondati dallo stesso Ruggero, sorsero ovunque, in numero sempre crescente, nel territorio dell'isola (Norwich).

La prima preoccupazione del nuovo re fu quella di dare al suo regno una costituzione. Non bastavano più i giuramenti di fedeltà, cosi spesso traditi, dei vassalli. Occorreva che tut­to il popolo fosse legato a un principio di ordine. Occorreva, insomma, un popolo. Non era più questione di tolleranza, com'era stata assicurata dagli Arabi. Era questione di giusti­zia, di diritti condivisi. E qui il modello non era, quali che fossero i gusti personali del re, l'Oriente. Era Roma. Rugge­ro dedicò molto tempo a stendere un vero e proprio sistema legislativo, anticipando la grande opera di Federico II: la Co­stituzione di Melfi. Non molto lontano da Melfi, ad Aviano in Abruzzo, fece approvare un testo da una specie di Parla­mento costituito da feudatari di ogni parte del Mezzogiorno.
Non è dunque vero quel che si dice dei Normanni, che ab­biano introdotto in Italia un sistema feudale, del tipo di quel­li vigenti nel Nordeuropa. Il sistema siciliano era un misto di assolutismo orientale e di diritto romano. Il potere dei baroni esisteva, certo. Ma Ruggero era stato capace di tenerlo a freno con le armi, e voleva ora governarlo con la legge.
Giusto e magnifico. Cosi Ruggero voleva passare alla storia. Il Glorioso e magnifico re di Sicilia»: cosi gli si rivolse, in quegli anni, un suo ex grande nemico, Pietro il Venerabile di Cluny (cito da Tramontana):

La Sicilia la Calabria e la Puglia, regioni che prima del vostro tem­po erano in balia dei Saraceni, oppure covi di briganti e di ladri, so­no ora trasformate, grazie al Signore che vi ha assistito nel vostro com­pito, in luogo di pace e in un asilo di tranquillità; un felice e pacifico regno governato, si direbbe, da un secondo Salomone. Dio volse che alcune contrade della povera e miserevole Toscana potessero essere unite, insieme ad altre regioni limitrofe, al vostro regno!

Parole altrettanto enfatiche delle precedenti ingiurie. Ma è un fatto che, dopo la fine delle guerre contro i baroni ribel­li, l'opulenza del regno si manifestava a tutti i contemporanei. Contribuiva a nutrire quest'ammirazione la grande Cura che il re e i suoi Normanni dimostrarono per la cultura e nell'arte. Nello spazio di pochi anni, furono creati monumenti di sobria magnificenza, come il duomo di Cefalù, edificato da Ruggero per adempiere un ex voto formulato durante una tempesta; come la Martorana, come San Giovanni degli Ere­miti, e finalmente quella Cappella Palatina considerata da Maupassant «le plus surprenant bijoux réligieux creé par la pensée humaine»: la cappella privata del re, edificata per un­dici anni sotto le sue dirette cure, dove possiamo incontrarlo ritratto in un mosaico d'oro, proteso sotto la mano del Cri­sto, con la dalmatica e la stola, la corona ingioiellata, le brac­cia sollevate nel gesto greco della preghiera.
Il re era noto per la sua insaziabile voracità intellettuale.
Non erano tanto le sue precisioni pignolesche a suscitare am­mirazione, come quando informò i napoletani che le loro mu­ra misuravano 2363 piedi, ma la consuetudine intensa che ave­va con i piu famosi scienziati, filosofi, geografi e matematici, da lui invitati a corte, con i quali passava molta parte del suo tempo. Si alzava quando entravano, per salutarli e invitarli a sedere, e conversava con loro su ogni argomento scientifico in francese, in latino, in greco e in arabo.
Per sua sollecitazione, il grande Edrisi compose la piti in­signe opera geografica del Medioevo. Titolo esteso: Opera di un uomo desideroso di giungere a completa conoscenza dei vari paesi del mondo, piti noto semplicemente come Il libro di Rug­gero, un'enciclopedia scientifica ma anche affascinante, pie­na di storie bizzarre: come quella della regina di Merida, i cui pasti venivano serviti galleggianti nell' acqua; o di quel pesce del Mar Nero che, impigliato nella rete, procurava ai pesca­tori «une érection d'une manière inaccoutumée».
Molto meno brillante fu la performance di Ruggero sul versante dell'economia. È vero che, specie all'inizio, i Nor­manni proseguirono lungo il solco tracciato dagli Arabi, d'in­tensificazione dei traffici mediterranei, soprattutto con l'am­pia fascia costiera nordafricana, spingendosi anche molto piti in giti, e impiantandovi colonie.
Ma è anche vero che il sistema dei feudi da essi introdot­to spezzò il processo di sviluppo intensivo dell' agricoltura si­ciliana, che aveva visto la fioritura di mezzo milione di col­tivatori, i quali furono dispersi dalle requisizioni dei baroni e dal conseguente ritorno dei latifundia.
C'è, poi, l'aspetto che a me sembra essenziale. Soffocando l'indipendenza delle città marinare, di Bari, di Napoli e soprattutto di Amalfi, il regno rinunciò alla straordinaria for­za propulsiva che aveva permesso di conquistare, alla pari con Venezia, una posizione egemonica nel Mediterraneo.
In un primo momento Ruggero aveva promesso ad Amal­fi, in cambio di una formale sottomissione, di mantenere il controllo delle sue mura e delle sue rocche. Nel febbraio del I 13 I, dopo un anno dall'incoronazione, egli ingiunse improv­visamente alla città di riconsegnare le chiavi delle sue rocche. Poiché gli amalfitani rifiutarono, inviò la flotta siciliana al co­mando dell'ammiraglio greco Giorgio di Antiochia a blocca­re il porto, impadronendosi di tutte le navi che si trovavano nella rada. Al tempo stesso un altro Greco, l'emiro Giovanni, muoveva contro Amalfi con un esercito dalla montagna sovrastante.
Le rocche, le fortezze che costituivano il sistema difensi­vo di Amalfi, Guallo, Capro, Ravello, Tramonti, Scala, Maio­ri e Poderale, capitolarono a una a una. Il 17 febbraio del I 131 la città si arrese. Una storia gloriosa si spegneva. Dopo altri quattro anni, il 4 agosto del II 35, la città ricevette il colpo mortale. Costretta da Ruggero a partecipare con la sua flotta all'assedio di Napoli, lasciò sguarnito il suo porto. I pisani, al­leati dei napoletani contro Ruggero, ne approfittarono, e piombarono con quarantasei galere nel porto della loro riva­le. Dopo aver distrutto le poche navi alla fonda, si precipita­rono sulla città, saccheggiandola orrendamente e traendone un'immensa preda.
Amalfi non si riprese piti da quel colpo, e da una tremenda mareggiata che, come se non bastasse, la investi, devastando­la. Quel grande suo impero commerciale, che poggiava su  piccolo centro, si disfece. Ne approfittarono i veneziani, che subentrarono nei privilegi degli amalfitani a Costantinopoli.
Il colpo inferto ad Amalfi, e subito dopo a Napoli, non fu soltanto la fine di una grande storia cittadina. Fu anche l'in­consapevole perdita di una grande occasione per il nuovo re­gno. Rinunciando al diretto dominio sulla città in cambio di una qualche alleanza assistita dalla forza militare, i Norman­ni avrebbero conservato una preziosa rete di relazioni econo­miche e d'influenza politica sulle altre potenze mediterranee. Quel destino fu precluso. La gloria delle repubbliche marina­re fiori tutta al Nord.

«Stupor mundi.
Il successivo periodo svevo segna una forte discontinuità ,con il regno di Sicilia. Esso è assorbito nell'impero germanico in forme violente, che contrastano vistosamente con le carat­teristiche artistiche di civiltà e di tolleranza del dominio normanno Il protagonista di questa svolta è un personaggio feroce che fonda il suo potere sul terrore, decimando l'aristocrazia siciliana. Enrico VI insegue il più vasto disegno di una restau­razione dell'impero in tutta Italia.
Questo disegno è interrotto dalla sua morte violenta, pro­vocata da una congiura cui non sembra estranea la moglie Costanza, figlia bistrattata di Ruggero Il.
Il successore è un fanciullo che stupirà il mondo. Abbandonato prima agli intrighi e alle prepotenze dei ba­roni, insidiato dagli altri principi tedeschi pretendenti alla successione, è finalmente posto sotto la protezione della Chie­sa di Roma che lo riconosce, con il papa Innocenzo III, co­me re di Sicilia e come imperatore del Sacro romano impero, a patto che le due entità politiche restino separate, pur sotto una stessa persona, che detiene il regno come una specie di feudo della Chiesa.
Dopo uno stupefacente viaggio in Germania, dove rice­ve l'omaggio di tutti i feudatari imperiali, il fanciullo Fede­rico Ruggero torna in Italia. Pili normanno che svevo, pili italiano che tedesco, incarna soprattutto la figura cosmopo­lita di un monarca universale, che pretende un'investitura divina, ma la esercita in forme moderne, precorritrici dello Stato nazionale. Premuto dai papi che si succedono a Roma, organizza una crociata sui generis attraverso un accordo con i sovrani del mondo musulmano, verso la cui civiltà non na­sconde le sue profonde simpatie. Scomunicato per questo, e per la sostanziale violazione del patto di separatezza fra il re­gno di Sicilia e l'impero, rompe clamorosamente e violente­mente con la Chiesa, mal dissimulando una sua intima mi­scredenza, e affronta al tempo stesso, seguendo le orme del nonno Barbarossa, quella ribellione anarchica dei Comuni e delle repubbliche italiane del Nord, raggruppate in gran nu­mero in una Lega, che considera intollerabile. Le vince in una battaglia campale a Cortenuova, vendicando l'onta di Legnano, e inviando il loro Carroccio come trofeo in Campidoglio. Ma fino all'ultimo deve subire la loro resistenza ar­mata, e la cattura del figlio Enzo, che finirà i suoi giorni me­lanconicamente poetando, prigioniero, in un palazzo di Bo­logna. Circondato da una corte fastosa e gioiosa, da donne bellissime (che i parmensi riusciranno a catturare durante un'incursione), da giuristi, filosofi e poeti, poeta egli stesso, fonda l'università di Napoli, e lascia ai posteri un trattato venatorio rimasto celebre (De arte venandi cum avibus). Ma anche un grande monumento giuridico, la Costituzione di Melfi, base del moderno diritto europeo. Fino all'ultimo combattuto, nonostante effimere riconciliazioni, dai papi, soprattutto dal pili aggressivo Gregorio VII, incontrerà il poverello di Assisi, e percorrendo l'Italia, si guarderà bene dal passare per Firenze, essendogli stata predetta una morte "fio­rentina". Morirà a Castel Fiorentino, in Puglia. Per sua vo­lontà, sarà sepolto nell' amata Palermo, nel suo duomo, av­volto, lui miscredente, nel saio severo dei cistercensi.
È difficile sottrarsi al fascino di questo personaggio as­solutamente eccezionale. L'eccezionalità è la sua cifra. E an­che la sua ambiguità. Nato in un'epoca di torbidi, cresciuto nel marasma di una Palermo risonante di tante lingue, fitta di tanti mercati, intrighi e violenze; cresciuto nel pieno dello scontro fra le potenze, fra Chiesa e impero, fra impero e repubbliche, fra Occidente cristiano e Oriente islamico, il suo 111010 politico sfugge a ogni precisa definizione. L'ultimo dei momarchi medievali? Il primo dei sovrani moderni? Gli stori­ci seguiteranno chissà per quanto tempo a disputare. E cosi controversa è la sua personalità. Crudele sino alla ferocia, come quando ficca la punta aguzza della scarpa nella pancia di ribelle; ironico, come quando all'imperatore mongolo che chiede quale posto sceglierebbe tra i suoi servi, risponde: potrei fare il falconiere». Tollerante di ogni religione, come quando cavalca accanto al califfo in Gerusalemme. Incurante delle buone maniere, come quando introduce un elefante in monastero. O come quando, compiaciuto dello spettacolo di leggiadre fanciulle danzanti, chiede allo scandalizzato messo del papa: «che male c'è?» Progettatore e costruttore di cen­to meravigliosi castelli, vi fa installare bagni e latrine, contnuando a scandalizzare il papa.
Tanto avanzato dal concepire una forma di Stato moder­no, basato sul diritto, e nel coltivare in pieno Medioevo una concezione della politica che non si può definire altrimenti che laica. E, d'altra parte, tanto legato al modello ormai desueto dell'impero, e incapace di scorgere altro, nel nascente capita­lismo delle repubbliche, se non il disordine e l'anarchia.
L'età di Federico segna un momento fatale per l'Italia.
Grande potenza politica, crescente sviluppo economico. Le due forze si contrappongono: prevalente la prima al Sud, la seconda al Nord. È comprensibile che ci si possa chiedere co­me sarebbe stata diversa la sua storia, se proprio Federico avesse svolto il ruolo del grande Federatore.

Canone inverso.
Prevedere il passato? Come diceva Federico: che male c'è?
Non si tratta solo di un divertimento: che è già cosa buona. Si tratta di riscoprire le sorgenti di fiumi che scorrono nel no­stro tempo. E quindi di capire la musica di oggi attraverso un canone inverso.
Il gioco è semplice. Si cambiano le mosse della partita, e il ruolo di certi pezzi. Si cambiano le strategie. Il segreto del gioco è di non discostarsi troppo dal percorso reale: anche se spesso è pili difficile accertare quello realmente accaduto che inventarne un altro.
Nella storia bastano piccoli spostamenti per produrre ri­sultati molto diversi, come insegna la teoria del caos. I cam­pioni di scacchi non fanno altro che rivisitare le grandi parti­te per proporre varianti. Factum infectum fieri nequi, ammo­nisce il saggio, ma in realtà il fascino della storia sta proprio in questo: nel riviverla, con tutta la suspense della sorpresa. E nel giudicare il senso delle mosse reali attraverso !'introdu­zione di varianti possibili. Possibili, però, non astruse.
Ai deterministi questo gioco è vietato. Coerenza vorreb­be che essi fossero in grado, oltre che di "blindare" il passa­to, di descrivere il futuro. Con il che la storia, veramente, avrebbe fine. Noi restiamo invece nell'incertezza dell'uno e dell' altro.
Ne ricaviamo non soltanto la nostra libertà critica di legge­re la storia in modi diversi. Ma anche il calcolo dei costi e dei vantaggi che sono stati pagati o acquisiti: se è vero che il valo­re di una scelta è rappresentato dal costo delle sue alternative.
In un altro libro, Il cavallo di Federico, ho tentato di im­maginare una variante della storia d'Italia nel XIII secolo, tut­ta centrata su un disegno rovesciato del grande Federico: un suo canone inverso. Qui ne ripropongo, molto brevemente, il senso.
In un racconto al doge di Venezia certi personaggi, presi dalla realtà e opportunamente modificati, testimoniano di una storia mai esistita.
Quella "variante" comincia proprio a Venezia, durante lo storico incontro del r r87 tra il papa, l'imperatore tedesco Fe­derico I (il Barbarossa) e i Comuni della Lega italica. Non c'e­ra stata riconciliazione, come fu riferito, ma totale rottura, e la Lega si estese a una vasta confederazione, affidandosi alla guida di un grande barone e guerriero piemontese, Corrado di Montefeltro, per combattere l'imperatore, con il sostegno del papa.
Nella Lega una corrente moderata, ispirata dai baroni pie­montesi, perseguiva un realistico compromesso tra gli italiani insorti e l'impero, mentre un forte movimento di popolo, i pa­larini (straccioni), sosteneva una riforma religiosa radicale, e insieme un riscatto nazionale nel nome dell'unità e dell'indi­pendenza italiana. Corrado era incerto. In quel tempo il regno normanno del Sud passò, per via matrimoniale, nelle mani di Enrico, figlio del Barbarossa morto in Terrasanta: persona fe­rocissima, che aveva soggiogato con barbarica violenza la civi­lissima Sicilia, e aveva dichiarato una guerra senza quartiere ; gli insorti delle repubbliche italiane del Nord. Ucciso Enrico da una congiura, dopo alterne vicende, l'impero era scivolato nelle mani di un fanciullo, protetto dal papa di Roma Innocen­zo. Si chiamava Federico Ruggero e aveva dapprima ripreso il disegno del nonno paterno e del padre, di ristabilire in Ger­mania e in Italia l'autorità imperiale, con la benedizione del papa. In una grande battaglia a Cortenuova aveva battuto l'e­sercito della Confederazione, vendicando la giornata di Legna­no. Ma presto le cose avevano preso tutt' altra piega. I baroni tedeschi, stanchi di piombare in Italia periodicamente e vana­mente per restaurarvi un impero ormai consunto, avevano pro­clamato il regno di Germania, affidandolo a Leone di Bruns­wick. Federico, rimasto re d'Italia, aveva rotto con il papa Gre­gorio sulla questione della crociata. Egli sosteneva l'opportu­nità di un'intesa pacifica e tollerante con i sovrani arabi per un governo comune di Gerusalemme, e per questo era stato sco­municato. In pili, si erano confermate in lui vocazioni laiche, anzi decisamente miscredenti. Le repubbliche del Nord d'Ita­lia, investite dal grande movimento patarino (il "risorgimen­to" italiano), guidato dal condottiero Ariovaldo, avevano affi­dato a un abile barone piemontese, Camillo figlio di Corrado di Montefeltro, il compito di stabilire un'intesa con Federico. E Federico, che aveva riorganizzato nel Mezzogiorno un re­gno fondato su una nuova costituzione, aveva concepito il di­segno arditissimo di riunire l'Italia in una confederazione tra le repubbliche del Nord e il regno del Sud: tra la ricchezza e la potenza. Questo disegno poteva comporsi solo richiaman­dosi alla maestà di Roma. Federico offri al papa, privato del potere temporale, le guarentigie necessarie per esercitare la sua missione spirituale. Essendo stata respinta quella proposta, l'e­sercito della Confederazione italiana entrò in Roma, che fu proclamata, nel settembre del 1249, capitale d'Italia.
Insomma, Federico avrebbe potuto realizzare contro la Chiesa, contro i Comuni e soprattutto contro se stesso, l'u­nità di un'Italia ricca e potente. Ho immaginato che egli aves­se avuto la rivelazione di quell'incredibile disegno all' alba del giorno della battaglia di Cortenuova.
Erano, di fronte a lui, i confederati.
Si sentivano nella notte, di contro al profondo silenzio del­l'esercito imperiale, i loro canti, le loro risa sguaiate. Uomini da niente, plebei, ma terribilmente presuntuosi e spavaldi. Al suo messaggero che gli aveva intimato di lasciarlo passare, com' era avvenuto un giorno con il Barbarossa, avevano man­dato a dire: «se l'imperatore ci vuole, venga a prenderei. Noi lo aspettiamo, non siamo canne di palude che tremano al ven­to». Sembravano proprio canne, quelle irte selve di lance, interrotte dai pennoni delle Città. E quel miserabile trabicco­lo che chiamano il Carroccio. Dopo la vittoria, lo avrebbe in­viato come un ridicolo trofeo in Campidoglio. Roma aveva vi­sto di meglio. Qui il vento diaccio dell'ultima notte gli attra­versò d'un tratto la fronte. Si ricordò di quel che il califfo gli aveva detto:
Attento, noi li conosciamo ormai da piti di due secoli. Nella gestione dei commerci, sono insuperabili. Nella battaglia, arditissimi. Portano dentro di loro una fonte nuova e sconosciuta di energia. Chi potesse aver li, non contro ma al suo fianco, avrebbe con sé il futuro. Il papa di Roma lo ha capito. E tu?

Sarà stata la fredda carezza della notte. Ma i suoi pensie­ri si erano drizzati in una rivelazione improvvisa. Era un pen­siero che sembrava venirgli dal futuro. Si, certo, bisognava vincerli, quei borghesi presuntuosi. Ma non umiliarli. Biso­gnava offrirgli una nuova alleanza, strapparli al papa, ma non nel nome di un impero che non aveva pili alcun senso, specie ,la che il regno di Germania se n'era staccato. In nome di un legno che poteva essere il loro. Non il regno dei baroni che  lo avrebbero aiutato a schiacciare, come avevano fatto a casa loro. Piuttosto, il regno delle repubbliche: una confederazione, certo, inedita nella storia. Ma tutto quel che lui faceva, non era inedito?
In quella combinazione egli avrebbe perso un impero che non esisteva pi, e le repubbliche un'indipendenza sterile ,  che avrebbe prima o poi, attraverso reciproci scannamenti, condotte alla servitù straniera e alla rovina. Entrambi avrebbero guadagnato la ricchezza di un impero commerciale e la forza di un esercito nazionale.
Il suo cavallo, improvvisamente, fremette. Dal ciglio lon­tano era spuntato il primo raggio di sole. Federico spronò il suo cavallo.
Il doge serenissimo era rimasto assai turbato da quello strampalato racconto. E nella sua saggezza aveva disposto che i tre personaggi che glielo avevano riferito fossero rinchiusi per sempre nelle segrete dei Piombi, e opportunamente am­mutoliti, per sempre: i mutoli dei Piombi. Faetum infeetum fieri nequi.

Parte seconda
L’UNITA’ INCOMPIUTA

Capitolo primo
QUEL GIORNO DI MARZO

Quel giorno di marzo del 1861 , in cui fu proclamato a To­rino il regno d'Italia, i cinquecentottanta deputati eletti qual­che mese prima, che rappresentavano, con il 2 % dei voti, ventisei milioni di italiani, non poterono riunirsi nell' aula che avrebbe dovuto ospitarli perché l'aula ... non c'era. Quel­la destinata nel bellissimo palazzo Carignano al Parlamento subalpino era troppo piccola. Se ne dovette improvvisare una nel cortile del palazzo, che ospitò l'assemblea fino al 1864, quando la capitale fu trasferita a Firenze. Non era l'ultima delle incapienze del nuovo regno. E non furono pochi, in Eu­ropa e in Italia, a pensare che non solo l'aula, ma il regno, fosse provvisorio.
Cavour usci dal palazzo al braccio di Alessandro Manzoni, tra le acclamazioni. Sarebbe morto improvvisamente, a soli cinquantuno anni, tre mesi dopo. E fu la prima grande disgra­zia del regno. Ai suoi successori, esponenti di quella che fu de­finita la «destra storica», toccava un'eredità da far tremare.
Anche solo due anni prima, nessuno avrebbe scommesso su quell'evento imprevisto, e in fondo da pochi desiderato. A produrlo fu l'intreccio di circostanze improbabili, nel qua­le gli stessi protagonisti erano stati coinvolti.
Ciò che si era immaginato era tutt' al più, come dice Lucia­no Cafagna in Nord e Sud, un «Belgio grasso» al Nord, affian­cato dallo Stato del papa al centro, e dal regno delle Due Sicilie al Sud: il tutto, in un'auspicabile confederazione. Tut­to, invece era precipitato in due anni. Forse, il Risorgimento riuscì proprio per questo: la sorpresa.
Su quest'evento improbabile si erano chiusi poco più di sessant' anni di storia tumultuosa, che sorvoleremo rapida­mente in due momenti: il «Risorgimento caldo» e il «Risor­gimento freddo».

Capitolo secondo
RISORGIMENTO CALDO

La tempesta napoleonica dilagò, alla fine del Settecento, in un'Italia già percorsa, alla fine di un lungo sonno, da fre­miti eversivi: logge massoniche, nuovi club giacobini. In qual­che modo, era attesa. Ma suscitò passioni opposte. Salutati all'inizio come liberatori, i Francesi si comportarono da con­quistatori.
Non era, quello di Bonaparte, l'esercito di ferro di Car­lo VIII. Era una masnada di «pidocchiosi» (secondo Alfieri), affamati e fanatici, pieni di voglia di saccheggio e di violenza; ma soldati intrepidi, guidati da un giovane genialissimo gene­rale. Del resto proprio da lui, dal ventisettenne Napoleone Bo­naparte, gli era stato rivolto un messaggio inequivocabile, «al­la gloria e alla preda». Irrompendo da Nizza, l'armata france­se sgominò l'uno dopo l'altro, con rapidi movimenti, i due eserciti che piemontesi e Austriaci le avevano opposto, e che, uniti, l'avrebbero probabilmente sopraffatta. Usciti di scena i primi, i Francesi inseguirono le truppe austriache in Lombar­dia e in Veneto, minacciando di là delle Alpi la stessa Vienna, finché anche l'imperatore fu indotto a chiedere un armistizio, che Bonaparte gesti direttamente, con la maltollerata acquie­scenza del Direttorio. Con un colpo di scena, liquidò dopo tre­dici secoli la decrepita Repubblica di Venezia, cedendola al­l'Austria in cambio della Lombardia, e umiliando con questa cinica mossa i patrioti italiani, cui però offriva di fondare una repubblica formalmente indipendente, di fatto satellite (di lui, più che della Francia): con il nome, prima di Cispadana, poi di Cisalpina. I liberatori, intanto, iniziavano un saccheggio, di ricchezze e di opere d'arte, apertamente reclamato dal Di­rettorio, che non aveva avuto l'eguale neppure durante le in­vasioni barbariche. Insieme con le esose pretese finanziarie dei nuovi padroni (il saccheggio ufficiale che si sommava a quello privato), e con il vincolo della coscrizione obbligato­ria, queste vessazioni alimentarono una corrente di odio po­polare che i vecchi ceti aristocratici e il clero sfruttarono facil­mente, sobillando dappertutto nel paese insurrezioni aperte, nel nome della patria, della Madonna e della Santa fede. Tut­to ciò sembrava fatto apposta per dissolvere le speranze e scre­ditare la causa della rivoluzione liberatrice, provocando fero­ci rappresaglie.
Non tutti i Francesi agirono, però, a questo modo. Molti di essi erano giunti in Italia con il sincero proposito di por­tarvi la libertà, e tra questi, il piti grande e sincero amico di Napoleone, il conterraneo Saliceti, che aveva stabilito rap­porti diretti con i patrioti giacobini, incorrendo nelle ire del Direttorio, che fini per richiamarlo in Francia.
Nello stesso Napoleone, del resto, si combattevano due tendenze: il disprezzo degli italiani contemporanei, e la sin­cera venerazione del passato glorioso d'Italia e di Roma. C' e­ra anche la non troppo celata ambizione di fare dell'Italia una specie di grande feudo personale, sempre comunque subordi­nato alla sovranità francese. Mai unita, però. Era bene che, confinata 1'Austria nel Nordest, ed esiliato il papa dai suoi possedimenti temporali, ristretto il Piemonte a protettorato francese, l'Italia restasse divisa tra repubbliche satelliti: la Ci­salpina a Nord, la romana e la partenopea a Sud, più un grup­po di granducati al Centro, da spartire fra i parenti prossimi.
Che posto occupavano gli italiani, in tutto questo? Molto è stato scritto in proposito: da una parte, per sotto­lineare la natura subalterna dell'Italia napoleonica, e in par­ticolare il carattere minoritario del patriottismo nazionale; dall' altra, per rilevare la sua natura autentica, la passione che l'animava, la fondatezza e saldezza delle sue idee.
Io penso che abbiano ragione coloro che, come Croce anzitutto, hanno rivendicato la dignità e l'etica del Risorgimen­to; o meglio di quella fase del Risorgimento, che io definirei la sua fase "calda", nazionale e popolare.
Che le élite risorgimentali italiane fossero minoritarie, è innegabile. Ma quale dei grandi movimenti storici è stato mai guidato da élite maggioritarie? Si può certo obiettare che ci sono minoranze trascinatrici e minoranze isolate. Ed è senz' al­tro vero che i patrioti italiani non esercitarono mai un ruolo egemone rispetto alle masse contadine, che essi temevano e cui erano invise.
Ma non è vero che non fossero capaci di una forza morale che trascendeva la realtà dei rapporti di forza materiali, an­ticipando un disegno futuro. Come dice Salvatorelli nel Som­mario della Storia d'Italia, il Risorgimento non fu un caso for­tuito e fortunato, e neppure «un fatto puramente politico-ter­ritoriale-statale», ma un processo di carattere spirituale, «una trasformazione intima e completa della vita italiana, un' affer­mazione di autonomia nazionale e individuale». Il fatto che la sua caratteristica essenziale fosse letterario-culturale, piti e pri­ma che politico-territoriale, non toglie niente alla sua grandez­za. Il fatto che nacque all' ombra della potenza francese non lo rese servile. I patrioti italiani non furono dei Quisling.

Quella minoranza fece sempre sentire 1'azione sua, non si disper­se, non si smarri, e si dimostrò salda e flessibile e ottenne infine vit­toria [ ... ] perché [ ... ] era assorta in un ideale e di contro le stava la realtà; ma quell'ideale, poiché possedeva forza etica, aveva vera realtà, e quella realtà era invece realtà bruta, incapace di mai dominare e go­vernare (B. Croce, Storia d'Italia nel secolo XIX).

Fu, storicamente, 1'elemento attivo che rappresentava au­tenticamente la nazione, non quello pesante, riottoso e «i­nertissimo» che si opponeva al suo sviluppo. Fu dunque esso a uscire vittorioso, segnando il destino d'Italia. Fu l'idea d'I­talia, non quella del papa, dei principi e della Santa Alleanza, a trionfare; e non come un dono francese, ché senza quella spinta ideale non ci sarebbe stata alcuna Francia, neppure a promuoverla, e neppure alcun Cavour a darle compimento. E tuttavia - questo SI che è vero - di quell'incapacità di trasci­namento attivo delle masse l'Italia pagò pesantemente il co­sto, quando finalmente il suo obiettivo essenziale, l'unifica­zione, fu realizzat~. Di questo diremo più avanti.
contesta che da quella i napoletani traggano «una invidiabile felicità».
Intanto, guardiamo un po' più da vicino quelle forze delle quali parliamo, perché furono forze reali, concrete e pratiche, non vuote perorazioni retoriche. Guardiamo alle repubbliche napoleoniche, alloro fallimento; e alla loro rapida rinascita quando, dopo la precaria restaurazione della Santa Alleanza, nel 1848 il moto risorgimentale esplose in tutta Italia; per poi resistere, impavido, dopo la sconfitta piemontese.
Lo facciamo seguendo a volo di rondine le vicende cronolo­giche, distintamente per ciascuna delle principali realtà terri­toriali cittadine: perché Napoli, Roma, Milano e Venezia sono certo Italia, ma ciascuna con le sue torri e cupole e guglie. E Torino, che emerse dal Risorgimento caldo per fondare la fase del Risorgimento freddo, non fu mai una realtà a esse esterna, ma con esse strettamente e drammaticamente intrecciata.
Nessuno stato d'Europa è in condizione peggiore della nostra non eccettuati nemmeno i Turchi i quali almeno sono barbari, sanno che non hanno leggi, son confortati dalla religione a sottomettersi a una cieca fatalità, e con tutto questo van migliorando ogni di; ma nel re­gno delle due Sicilie, nel paese che è detto giardino d'Europa la gente muore di vera fame [ ... ] sola legge è il capriccio, il progresso è indie­treggiare e imbarbarire. Nel nome sanissimo di Cristo è oppresso un popolo di cristiani.

La Repubblica partenopea.
L'antico regno di Napoli è vittima di una leggenda clima­tica: che vi sia sempre il caldo e il sole. «Più il viaggiatore si avvicina verso Napoli più la terra muta sotto i suoi occhi», af­ferma Giuseppe Galanti, nella sua Descrizione geografica e politica delle Sicilie, opera del 1787; il che è senz'altro vero, ma poi aggiunge: «è pur da notare che nella Toscana e nelle altre parti dell'Italia superiore, nella stagione d'inverno è sen­sibile nelle chiese il frastuono di tosse della gente di campa­gna. Quello non si osserva in Napoli». Sarà pur vero che a Napoli si tossiva di meno in inverno (ne dubito assai), ma non che se ne traesse più felicità. Luigi Settembrini, che pure ri­levava, nell'opera Protesta del popolo delle Sicilie, scrivendo sessant'anni più tardi, «la serena bellezza del nostro cielo»,
Dodici anni dopo il compiaciuto ritratto di Galanti, e qua­rant' anni dopo la denuncia di Settembrini, esplodeva a N a­poli la prima grande fiammata del Risorgimento italiano. La quale sarebbe oggi, e ingiustamente, meno nota agli italiani se il grande romanzo di Enzo Striano, Il resto di niente, non avesse fatto rivivere in quel tempo quella città, nella sua in­finita mutevolezza e nella sua stremata malinconia.
Napoli era allora la grande capitale di un grande regno. Al centro del suo arco splendido, una splendida corte. Splendida nello sfarzo vistoso, quanto corrotta e futile. La corte di Na­poli, dice Vincenzo Cuoco, era la corte delle irresoluzioni, del­le viltà e delle perfidie. Al centro della corte, la regina. Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d'Austria, sorella di Maria An­tonietta, giunse a Napoli in odore di massoneria progressista, e persino di simpatie per la Francia rivoluzionaria. Che muta­rono di colpo, ovviamente, quando la ghigliottina troncò la testa della regina di Francia. Dolore e odio strazianti la travol­sero allora, scalciante e urlante sul pavimento. L'odio non la lasciò mai, anzi l'attanagliò, fin quasi alla follia. Anche il re odiava, ma in lui prevaleva un'indolenza cialtrona che lo assi­milava ai lazzaroni, ai piaceri della caccia e di giochi grossola­ni, lasciando libero campo alla regina nelle cose della politica. Delle quali era ben sicura almeno rispetto a due obiettivi es­senziali: staccare il regno di Napoli dalla tutela della Spagna per agganciarlo a quella dell' Austria; concentrarsi a tempo pie­no e spietatamente nella persecuzione dei giacobini (il popolo li chiamava «li Giacobbe»), organizzando una vera inquisizio­ne, affollata di delatori e di spioni. Indispettita dall'impopo­larità che sentiva montare contro questo brulicare di vermi, dichiarò che un giorno avrebbe distrutto quell' antico pre­giudizio che rendeva infame il mestiere di denunciante.
Napoli ospitava allora un'élite d'intellettuali tra le piti bril­lanti d'Europa. Basta fare i nomi di Genovesi, di Filangeri, di Pagano, di Galiani, quest'ultimo follemente innamorato del­la regina. Ma ella preferiva gli stranieri e i peggiori. Non eb­be requie finché non riUScl a scacciare il primo ministro del re, il marchese Tanucci, per sostituirlo con il toscano Acton, pro­no alle sue volontà. Si immerse piti tardi nella combriccola de­gli Hamilton, l'ambasciatore britannico e la moglie Emma, amante di Nelson e complice orditrice di vendette.
Attorno alla corte si estendeva una città per quei tempi po­polosissima, la seconda in Europa dopo Londra, ma caotica e miserabile. Una massa di gente ignorante, superstiziosa, pe­rennemente affamata e disoccupata, dominata da una congre­ga di lazzaroni, pronti a ogni nequizia in nome del re (il nostro «Tata») e della Santa Fede; avida di saccheggio (lo chiamava­no l' «arricchimento di Napoli») e di violenza. All' occorrenza, eroica nel combattimento, come dimostrò contro i Francesi, battendosi allo stremo e destando la loro ammirazione.
All' esterno della capitale stava la grande estensione del re­gno e 1'indomita Sicilia: un immenso mondo contadino, sem­pre ai limiti tra la sopraffazione, la miseria e il brigantaggio, fonte di terrore e quindi di ulteriori soprusi.
Tra i contadini e i baroni, questi ultimi chiusi nei loro ca­stelli o nei loro palazzi napoletani, lo strato sottile di una bor­ghesia di artigiani e professionisti, per lo piti avvocati e me­dici, oltre che burocrati, galantuomini dediti a «farsi gli affa­ri propri» (come scriveva Croce), dai quali sortiva però una piccola schiera d'intellettuali di raffinata e cosmopolitica cul­tura. Spesso si trattava di giovani giunti a posizioni critiche e addirittura estremistiche, giacobine, in rottura con i loro stes­si parenti e con il loro ambiente familiare e sociale. L'educazione tradizionale era stata sostituita da letture per lo piti trat­te dalla letteratura filosofica e politica francese e inglese.
Da questa furono tratti i quadri del governo provvisorio formato all'entrata a Napoli dell'armata francese del genera­le Championnet, nel gennaio del 1799, e poi quelli della Re­pubblica partenopea, che durò lo spazio di un semestre e si spense combattendo. Ebbero piti tempo per scrivere e per combattere, i patrioti napoletani, che per legiferare e ammi­nistrare. Si resero responsabili di colpevoli ingenuità, di gof­fe delibere, di colossali errori, che Vincenzo Cuoco veemen­te denuncia, nel Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli:

Ma quei cento trenta giovani componenti la guarnigione del vetu­sto rudere di castel dell'Ovo, tutti educati alle lettere, che non mai ave­vano sentito parlare di assedi e di fortezze, pur vigilavano da sentinel­le, servivano i cannoni, eseguivano sortite, combattevano da soldati. Erano idealisti alla cui fantasia sorrideva come promessa la pura feli­cità del genere umano e che, mentre credevano di abbracciare questa cosmopolitica astrazione, si abbracciavano alla realtà dell'Italia.

Chi erano dunque i realisti? Esclama Benedetto Croce:

Quando io ripenso a quei calabresi e abruzzesi, basilicatesi e puglie­si e napoletani di Napoli che scrivevano e combattevano impavidi, di­co tra me: ecco la nascita dell'Italia moderna, della nuova Italia, dell'I­talia nostra [ ... ] Quei giacobini furono i primi che dettero il grido al­l'Italia sonnacchiosa. C'erano tra loro scienziati e letterati. C'era Leonora de Fonseca, 1'ardente Lenor, e Pagano, e Cirillo, il Lauberg e, tra i nomi illustri dell' aristocrazia napoletana, i Carafa e i Caracciolo, i Pignatelli e i Filomarino.

Gente pura e dura, che continuò a combattere senza piti alcuna speranza, mentre i Francesi erano costretti a uscire dal. la città, e il cardinale Ruffo vi entrava alla testa dei sanfedi­sti e dei lazzaroni. Ammirato del loro valore, egli volle rende­re a loro l'onore delle armi, impegnandosi sulla sua parola a Iasciarli partire. Ma quella parola fu disconosciuta dall'odio forsennato della regina, dalla viltà del re, dalla ferocia vendi­cativa di un Nelson geloso di Caracciolo. Cosi, tradendo la parola data, i "giacobini" della repubblica napoletana furono avviati al patibolo nella piazza del Mercato, in mezzo a una folla schiamazzante, tra ingiurie e sputi.

La prima Repubblica romana.
Tanto fu dignitosa la storia breve della Repubblica parte­nopea, quanto indecorosa quella, altrettanto breve, e contem­poranea, della prima Repubblica romana. Della prima, per­ché ce ne furono due, nel Risorgimento, e la seconda molto piu famosa e meritevole.
La prima delle due repubbliche nacque il28 dicembre 1797 da un fattaccio. Un gruppo di giacobini romani si era raccol­to davanti all'ambasciata di Francia. Al grido di «viva la Re­pubblica francese, viva il popolo romano», dichiararono di essere insorti contro la tirannia pontificia e chiesero l'appog­gio dell'ambasciatore di Francia, Giuseppe Bonaparte. Co­stui, infuriato per quest'indesiderabile compromissione, li mise alla porta. Ma intanto era sopraggiunto un drappello di soldati pontifici che, inseguendo gli insorti, aveva varcato i recinti dell' ambasciata. Un gruppo di ufficiali francesi li af­frontò e uno di loro, il focoso generale Duphot, fu colpito e ucciso da una fucilata. Convocato immediatamente, il segre­tario di Stato si sottrasse, con incredibile leggerezza. Infor­mato dall' ambasciatore, che intanto aveva lasciato Roma in­dignato, il Direttorio approfittò subito dell'incidente come pretesto di un intervento militare, diretto a realizzare un o­biettivo politico di grande portata: niente di meno che il ro­vesciamento dello Stato pontificio.
Una spedizione condotta dal generale Berthier, organizza­ta in grande segreto e con la massima celerità, calò dalle Mar­che a Roma, dove un governo confuso e un papa sbigottito si dichiararono pronti a dare ogni possibile soddisfazione, ac­compagnando le parole con quaranta bottiglie di vino, una vi­tella e uno storione. Ormai, però, il dado era tratto, e i Fran­cesi non si accontentavano di storioni. Entrando a Roma, occuparono Castel Sant' Angelo e i principali punti strategici della città, imposero pesanti tributi, razziarono opere d'arte in maniera sistematica, e infine diedero via libera ai giacobi­ni romani che, adunatisi nell'antico Foro, ora pascolo di vac­cine, proclamarono con solennità, alla presenza di un popolo indifferente e diffidente, la Repubblica romana.
Segui un' orgia di rappresentazioni piuttosto carnevalesche, con innalzamento di «alberi della libertà», sventolamento di un tricolore bianco, rosso e nero, e pomposi discorsi dei reto­ri romani e dei generali "gallici" inneggianti a Pompeo, a Bru­to, ma non, per comprensibile delicatezza verso i Francesi, a Cesare.
A Pio VI che, a differenza dei suoi cardinali, non era fug­gito, ma era rimasto dignitosamente al suo posto, fu comuni­cato che il suo potere temporale era finito, e che non aveva ragioni di temere per la sua incolumità. Ma, a quel punto, al povero papa non restava che scappare il piu presto possibile, travestito da semplice chierico, e cercare un'ospitalità che gli fu vergognosamente negata dalle potenze "amiche", e gli fu infine accordata dai suoi nemici, in Francia, dove un anno dopo mori.
La Repubblica giacobina ebbe vita breve e ingloriosa. Agli annunci assai solenni di libertà e di prosperità sempiterna, se­guirono le pretese fiscali esose e le soperchierie private dei padroni francesi, le manifestazioni di servilismo del sedicen­te governo repubblicano, e una serie di inutili angherie ai dan­ni dei riti e costumi popolari, come il Carnevale, il culto dei santi e della Madonna, sostituita da improbabili vergini gia­cobine e zoccole libertine. Riforme fondamentali, come la soppressione dei re nei giochi delle carte, furono introdotte, accanto a misure quanto mai utili, come l'illuminazione del­le strade, la rimozione dei rifiuti, il censimento della popola­zione. Forse la piu rilevante delle conquiste civili della Re­pubblica fu la soppressione del ghetto e la riabilitazione civi­le e sociale degli ebrei, che rimasero fino alla fine tra i suoi più fedeli sostenitori.
La costituzione, promulgata nel marzo del 1798, come co­pia conforme di quella francese, restò lettera morta. Di mol­te altre innovazioni liberali, che pure erano state annunciate da patrioti autentici e ragionevoli, non s'ebbe modo e tempo neppure di discutere, pressati dai fatti d'arme che da ogni parte assalivano la fragile Repubblica. Una sommossa popo­lare testimoniò, piti di ogni altra prova, l'attaccamento della maggior parte del popolo romano alle sue tradizioni. Settan­tamila napoletani comandati dall' austriaco von Mack entra­rono a Roma in soccorso del papa in novembre, e fuggirono in dicembre, sgominati da un vigoroso contrattacco francese. Il re Ferdinando, che era entrato trionfalmente a Roma ac­compagnato dal suo inetto generale in capo, «venne vide e fuggi», cosi commentò Pasquino.
Alla fine, tuttavia, i Francesi, richiamati a Nord a fronteg­giare l'esercito austriaco, abbandonarono Roma, che fu rioc­cupata dai napoletani nel settembre del 1799. Ben diversa­mente da quanto avvenne a Napoli un anno dopo, però, non vi fu alcuna resistenza. Fu posta fine pacificamente a una re­pubblica senza popolo e senza gloria.

La Repubblica romana quella vera.
Le cose andarono molto diversamente nella stessa Roma, mezzo secolo dopo. La scena era cambiata radicalmente.
La caduta di Napoleone aveva trascinato nella rovina le sue creature politiche: il regno Italico e il regno di Napoli, preceduti dalle repubbliche giacobine di Napoli e di Roma.
Aperta dal congresso di Vienna, era seguita, nel 18 15, la grande Restaurazione.
Quella Santa Alleanza avrebbe dovuto durare per secoli.
Invece, visse poco piti di trent'anni una vita tormentata.
Non è difficile capire le ragioni. Le grandi potenze che 1'a­vevano costituita seguivano progetti diversi: le une, come Au­stria e Russia, fortemente legate al mantenimento dello sta- tus qua; le altre, come l'Inghilterra, piti aperte al futuro, nel quadro di una visione mondiale moderna.
Inoltre, ed è l'aspetto piti rilevante, l'assetto politico-isti­tuzionale stabilito a Vienna era del tutto incompatibile con la nuova struttura della società emergente dalla rapida e­voluzione economica e sociale intervenuta dopo la Rivolu­zione francese.
In Italia, per esempio, si era creato un nuovo blocco socia­le contrapposto alla vecchia aristocrazia, formato da un pez­zo di quella stessa, coinvolta nelle nuove correnti ideali; dal­la borghesia ricca, dai ceti militari mobilitati nelle imprese na­poleoniche, da quelli burocratici impegnati nelle nuove am­ministrazioni. Di contro, si estendeva la massa dei contadi­ni, divisi in Italia dalle classi dirigenti da un profondo varco, in condizioni economiche miserabili, in promiscuità tra loro e con i loro animali. E già si profilava, sull' onda incipiente della Rivoluzione industriale, l'irrompere del proletariato o­peraio.
Si capisce che queste tensioni non potessero comporsi nel teatro politico settecentesco. L'ordine sociale, in tutta Euro­pa, era percorso da fremiti di rivolta, che sfociavano talora in aperte insurrezioni. Come quella provocata a Napoli nel 1820 dalla notizia della costituzione spagnola, con il conseguente pronunciamento degli ufficiali murattiani e con la rivendica­zione di una costituzione napoletana che il re Ferdinando, so­praffatto dagli eventi, aveva accordato (poi però, convocato dalle potenze dell' Alleanza, rinnegò l'impegno, invocando un intervento militare repressivo, prontamente concesso ed ese­guito dall' Austria).
Oppure, come nel 183 I, quando, infiammati dall'avvento di Luigi Filippo in Francia, Ciro Menotti e un gruppo di pa­trioti modenesi pensano di organizzare un movimento paral­lelo in Italia. Il duca di Modena, sul quale si erano illusi di poter contare, fugge a Mantova trascinandosi dietro Menot­ti in catene, che verrà giustiziato quando gli Austriaci, invo­cati dal duca, avranno ristabilito l'ordine.
Ma attraverso ammutinamenti, complotti, insorgenze, im­piccagioni, cresce in quegli anni un sentimento collettivo di odio e di solidarietà. Di odio verso l'Austria, e di solidarietà concreta fra italiani: liguri, romani, romagnoli, toscani, vene­ti e anche siciliani, calabresi; e attraverso tutti i fallimenti del­l'eterno ricorso allo straniero, la ferma convinzione matura­ta nelle delusioni, espressa da Ciro Menotti mentre sale sul patibolo: «italiani, ricordatelo, non dovete fidarvi che di voi stessi».
È proprio un anno dopo i moti del 1831, che Mazzini fon­da la Giovine Italia. E fino alla vigilia del fatale 1848, conti­nuerà la catena del martirio che, come in tutti i rivolgimen­ti nazionali, sembra inutile. Ma senza i fratelli Bandiera, sen­za Pisacane, senza tutti gli insorti traditi e fucilati, la sola attesa sarebbe stata un prezzo sufficiente?
Quegli anni della Restaurazione non restaurano proprio niente. Alimentano invece nel paese, accanto al sentimento della rivolta, un fiotto di vitalità che si rivela nel rinnovato fermento della cultura. Sono gli anni nei quali Alessandro Manzoni compone Fermo e Lucia, che diventeranno gli Sposi Promessi e quindi i Promessi Sposi. Sono gli anni delle tragedie di Vittorio Alfieri, il vero Tirteo del Risorgimento. Sono gli anni del melodramma italiano, che lo accompagnerà, quel Ri­sorgimento, per tutto il secolo, come la sua colonna sonora.
A Roma, nel 1846, nasce una grande speranza.
Dopo la morte dello sfortunato Pio VI, tre papi gli erano succeduti, e l'ultimo, Gregorio XVI, si era dimostrato il più ottusamente reazionario. Tornati a esercitare il potere tem­porale, i ministri avevano ripristinato d'un colpo solo le mi­gliaia di editti soppressi dalla Repubblica. Riaccolto con ar­dore filiale, il papa aveva avuto il tempo di disgustare nuova­mente il suo popolo. Al fanatismo patriottico era subentrata l'isteria clericale. Trasteverini, monticiani e regolieri aveva­no ricominciato a cantare versi di scherno al passaggio delle carrozze cardinalizie.
Alla morte di papa Gregorio, il conclave si era aperto in un clima di vivace partecipazione politica. Si scommetteva su due campioni: il cardinale Lambruschini, conservatore, e il cardinale Gizzi, liberale. Come spesso succede, ne venne fuo­ri un terzo, cui toccò di contare i voti, e mentre leggeva, e il suo nome ricorreva insistente, gli tremarono le mani, e do­vette smettere, lasciando ad altri le schede. Era il cardinale marchigiano Mastai Perretti. Di lui si sapeva che era gio­vane, che era amabile, che era bello e piaceva alle donne, ma ... niente più di questo.
L'attesa di novità era tale che ogni minimo accenno del nuo­vo papa era spiato e caricato di significati allusivi. Il papa, cui piaceva molto piacere, lo sapeva; e quest' attesa degli uni, e que­sta compiacenza di lui, furono causa del sorgere di un colossa­le equivoco. A Roma, uno cosi, lo chiamano un piacione. Ora, finché lo è un attore, o anche un personaggio politico, poco ma­le. Ma per un papa, può essere una grave insidia. Per Pio IX (questo è il nome che si era dato) lo fu. Un vero guaio per l'I­talia fu che il nuovo papa, diverso per tanti aspetti, somiglias­se a Carlo Alberto per due: la vanità e l'ostinazione.
Era però sincero nella convinzione che la Chiesa avesse bi­sogno di una "rinfrescata". E volle cominciare a dare una pro­va di cambiamento. Porse lui pensava che fosse un suono di campane. Invece fu una cannonata. Si trattava di un' amnistia per condannati di reati politici (detenuti, esuli, perseguitati). Suscitò un'ondata irrefrenabile di entusiasmo. Altro che «al­beri della libertà» e busti di Bruto. Tutta la città ballava e cantava davanti al Quirinale e a piazza del Popolo. Leader de­mocratici autentici, come quel popolano Angelo Brunetti, det­to Ciceruacchio, si presentavano come interpreti accreditati del suo pensiero. Quando poi nominò Gizzi segretario di Sta­to, e istitui una specie di governo e una consulta che teneva luogo di un Parlamento, si vide che non solo di gesti formali, ma di vere intenzioni riformistiche, si trattava. Perché, d'al­tronde, Giuseppe Mazzini gli avrebbe indirizzato una lettera deferente, nella quale lo pregava di ricordarsi della sua italia­Ilità? E perché lui stesso, in una pubblica allocuzione, avrebbe pronunciato quella frase famosa che scosse di un fremito profondo tutta la nazione: «benedite, gran Dio, l'Italia!»

Intanto, gli eventi precipitavano.
Nel marzo del fatale 1848, i milanesi insorgono: dopo cin­que giorni il maresciallo Radetzky è costretto a lasciare Mila­no, e Carlo Alberto dichiara guerra all' Austria. Da Roma par­te un contingente di volontari al comando del generale Du­rando, per affiancarsi ai piemontesi. Leopoldo di Toscana e Ferdinando II di Napoli dichiarano, riluttanti, guerra all' Au­stria. A Roma vengono abbattute le mura del ghetto. I pie­montesi battono gli Austriaci a Goito.
Ma, alla fine di luglio, la sorte si rovescia. I piemontesi, mal guidati e bloccati nel "quadrilatero", sono sconfitti a Custo­za. Radetzky entra a Milano. Carlo Alberto firma un armi­stizio. A Roma si forma un nuovo governo guidato da Pelle­grino Rossi, che attacca in un articolo la politica piemontese e viene ucciso sullo scalone della Cancelleria. Pio IX ordina ai volontari di ritirarsi, e quelli non obbediscono. La luna di mie­le dei romani con il papa è finita. La città insorge, e Pio IX fugge a Gaeta, raggiunto dal re di Napoli. A Roma il consiglio dei deputati si scioglie, si forma una giunta e si indice una Costituente. Il papa annuncia: coloro che la voteranno saran­no scomunicati. La votano in 250000. Sono eletti 179 depu­tati: 65 emiliani e romagnoli, 50 marchigiani, 25 umbri, 32 la­ziali. I moderati ottengono la maggioranza. La Costituente, riunita in Campidoglio nel febbraio r849, dichiara decaduto «di fatto e di diritto» il potere temporale del papato, e pro­clama la Repubblica romana. La Repubblica romana «avrà col resto d'Italia le relazioni che la nazionalità comune esige»: una formula non del tutto chiara. La bandiera sarà il tricolore, bianco rosso e verde. «lI pontefice avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà
spirituale» .
Giuseppe Garibaldi arruola una Legione italiana. Qualche mese dopo, arriva a Roma Giuseppe Mazzini.
Nel marzo del 1849 Carlo Alberto rompe la tregua con l'Austria, ma è sonoramente battuto a Novara, e abdica in fa­vore del figlio Vittorio Emanuele. La Costituente elegge triumviri Mazzini, Saffi e Armellini. La guerra con l'Austria è finita, ma Venezia resiste.
Il nuovo governo repubblicano di Roma abolisce la cen­sura, istituisce lo stato e il matrimonio civile.
L'ex carbonaro Luigi Napoleone, diventato imperatore dei Francesi, incalzato da una destra vittoriosa, invia in Ita­lia un corpo di spedizione comandato dal generale Oudinot, con il compito di riportare il papa a Roma e di restituirvi l'or­dine, sgominando la «masnada» dei ribelli. Su Roma conver­gono, per schiacciare la Repubblica, napoletani e spagnoli. Ma la masnada resiste, in armi.
Sbarcato a Civitavecchia, Oudinot pubblica un proclama untuoso, dichiarando di essere li a nome della Repubblica francese, non per ristabilire gli abusi per sempre distrutti dal­la generosità dell'illustre Pio IX, ma per facilitare il ristabili­mento di un regime che eviti l'anarchia di questi tempi.
Il triumvirato risponde, protestando «in nome di Dio e del popolo contro l'inattesa invasione e dichiarando il fermo proposito di resistere e rendere mallevadrice la Francia di tut­te le conseguenze».
In un nuovo proclama altrettanto ipocrita, Oudinot affer­ma che l'armata francese è li non per imporre un governo, ma «per preservarvi da pili gravi mali». Ricevendo due deputati della Repubblica, che gli chiedevano se fosse li per restaura­re il papa, si mise la mano sul cuore e dichiarò: <<nulla è più lontano dalle mie intenzioni e da quelle del mio governo».
Oudinot aveva settemila uomini. Si mise in marcia il 28 a­prile alle otto del mattino. A chi gli chiedeva se si aspettasse lilla resistenza, rispose con una frase rimasta famosa: «les  ta­rd ils ne se battent pas» (più tardi disse di non averla mai pro­nunciata: conosciamo questa abitudine).
Comunque la smentita venne subito, quando, sotto le mu­ra di Roma, tra porta San Pancrazio e porta Cavalleggeri, due colpi di cannone infilarono l'avanguardia, che dapprima si di­sperse per le vigne, poi piazzò due pezzi sparando contro le mura. Quindi i Francesi si lanciarono avanti, tentando per tre volte di scalarle. Attacco quanto mai stupido, come in fon­do lo era il bravo Oudinot, che mandava a morte certa i suoi soldati, costretti ad arrampicarsi conficcando nelle mura i pu­gnali come sostegni alla scalata, sotto il fuoco dei romani che sparavano a bruciapelo. Male informati da chi li aveva assi­curati che di là dalla porta il popolo, fedele al papa, era pron­to ad accoglierli, i Francesi della seconda brigata, correndo nel vallone che costeggiava le mura vaticane, furono investi­ti da una pioggia di proiettili. Mori crivellato di colpi il gene­rale Levaillant - nome appropriato -, e rischiò di morire lo stesso Oudinot, che si era avventurato. Un terzo assalto fu condotto dalle parti di porta San Pancrazio. Li c'era Garibal­di, e li si combatté per ore, all'arma bianca. Alle cinque del pomeriggio, Oudinot decise di dare un nuovo assalto alle mu­ra, quando, di là da quelle, udi un canto ben noto. Si, canta­vano proprio Allons enfants de la patrie. Oudinot, convinto che fossero i suoi, inviò alle porte un ufficiale che si trovò da­vanti Nino Bixio ... e fu fatto prigioniero.
Finalmente, dopo che dall'una e dall' altra parte erano ca­dute decine di morti e centinaia di feriti, Oudinot ordinò la ritirata. Si trattò di una tregua. Niente descrive meglio la gior­nata, delle parole asciutte di Giuseppe Garibaldi:

Era veramente disprezzante il modo di attaccare del generale ne­mico. Don Chisciotte all'assalto dei mulini a vento. Egli attaccò non in altra guisa che se non vi fossero stati baluardi, o se questi fossero stati guerniti con bimbi. Veramente per sbaragliare quattro brigands d'italiens il generale Oudinot, virgulto di un maresciallo del primo im­pero, non aveva creduto necessario procurarsi una carta di Roma.

I Francesi avevano lasciato a Roma cinquecento prigionie­ri. Ma Mazzini non si esaltò. Scrisse in inglese all'amica Emi­lie Hawkes: «i Francesi sono quasi a quattro miglia dalla città. I napoletani avanzano; la nostra posizione è abbastanza cat­tiva. Siamo condannati: ma faremo tutto il possibile».
Questa era la pura verità. La vera gloria della Repubblica romana risiede in questo combattere senza speranza. Non c'e­ra nessun Vittorio Emanuele all'orizzonte. E quanto a Napo­leone III, stava dall'altra parte. Questi inviò una missiva al suo generale, dicendosi addolorato dell' accoglienza cosi osti­le a un esercito «che veniva a compiere una missione bene­vola e disinteressata», e promettendo immediati rinforzi. Ga­ribaldi scrisse ad Anita: «il tuo bel poncio è stato bucato da tre palle e la mia pancia ha resistito a una regolare contusio­ne: che brutto, se morivo per la pancia!»
Nelle giornate che seguirono, i prigionieri francesi, che te­mevano di essere massacrati, furono festeggiati e liberati. La Repubblica era generosa. Ma disperata. I tentativi di un'in­tesa per un esito onorevole fallirono. Oudinot attaccò di sor­presa, ventiquattr'ore prima dello scadere della tregua. Sul coraggio e il valore dei difensori lasciamo la parola a Cesare Pascarella (dai Sonetti, Villa Gloria):

Ma ce rimase li fino alla fine
Finché il muro li sassi li mattoni
Finché le pietre de li cornicioni
Nun stavano già drento a le cantine
E li tra assalti mine c contromine
Tutti li reggimenti e li cannoni
Finché non volle lui non fumo boni
De fallo scenne giri da le rovine
Che dar principio che ce s'era messo
Più loro, li francesi ce provavano
A cacciallo e più lui sempre lo stesso
Imperterrito sempre e sempre in cima
A le macerie se lo ritrovavano
Gni giorno sempre li peggio de prima [ ... ]
Razzi e bombe fioccavano!
Ma pure Framezzo le rovine e li sfaceli
De li palazzi, in mezzo a le paure
Di quell'urtimi strazi piri crudeli
Nun se cedeva. E er Pincio e l'antre arture La Trinità de Monti [ ... ] e l'Areceli
S'empiveno de donne e de crature Che cantavano l'inno de Mameli.

Che differenza, tra questi versi che raccontavano l'eroismo di Medici del Vascello e la resistenza popolare di Roma, e le fanfaluche accademiche e le frasche retoriche che aveva­no agghindato il melodramma della Repubblica giacobina.

Il diavolezzo dei cinque giorni?
L'espressione è del loro principale protagonista, Carlo Cattaneo, che fu l'ultimo a crederei, ma il primo a governar­le, quelle fatali «Cinque giornate».
A metà dell'Ottocento Milano era già allora, diversamen­te da Roma, una grande città operosa, con un' aristocrazia or­gogliosa ma anche colta, una borghesia industriosa, anche se non ancora industriale, un vasto ceto di artigiani e mercanti, una fascia vivace d'intellettuali partecipi e protagonisti (ba­sta fare i nomi di Verri e di Beccaria) delle correnti culturali europee dell' epoca, radunati attorno a due giornali prestigio­si, il «Caffè», d'intonazione illuministica, e il «Conciliato­re», d'ispirazione romantica.
Pochi anni prima era morto uno dei più illustri patrioti ita­liani, tornato a Milano dopo la condanna, il carcere e l'esilio:
Federico Confalonieri.
Milano era anche una delle più ricche e progredite provin­ce dell'impero asburgico, che stentava a tenere a freno la sua incoercibile spinta all'autonomia, se non all'indipendenza tout court. Milano, insomma, non soffriva di alcun complesso di deferenza nei riguardi di Vienna e del suo governo. Morde­va il freno. Nessuno si aspettava, però, che quella condizio­ne sfociasse in un'insurrezione di popolo.
Quando, nel marzo del 1848, giunse nella città la notizia della caduta, a Vienna, di Metternich, i più autorevoli espo­nenti del liberalismo milanese (tra i quali Luciano Manara e 97 i fratelli Dandolo) si affrettarono a promuovere un'assem­blea popolare a San Babila. Probabilmente neanche loro si aspettavano un cosi imponente concorso di popolo. Fu pron­tamente votato un proclama, che avanzava le rivendicazioni ormai comuni a tanta parte del movimento: abolizione della censura, della tortura, istituzione della guardia civica, libertà di stampa.
Le richieste, furono i milanesi a portarle direttamente al vicegovernatore O'Donnell, invadendo i suoi uffici, condu­cendolo al balcone a guardare una folla inferocita, facendogli firmare le loro rivendicazioni li, sulla ringhiera. A questo pun­to Radetzky, che aveva criticato i tentennamenti di O'Don­nell, non ebbe più esitazioni. Convocò il podestà Casati. Gli disse che, se gli insorti non tornavano subito nelle loro case, egli avrebbe scatenato i suoi centomila uomini, e avrebbe bombardato Milano con i suoi seicento cannoni. In realtà, non poteva. L'insurrezione era stata cosi fulminea da irreti­re le poche migliaia di soldati austriaci (croati e italiani) nel­la trama delle barricate.
Radetzky amava Milano (e anche Giuditta Meregalli, mi­lanese, famosa per i suoi gnocchi di patate), e la scelse poi per vivere gli ultimi anni della sua vita. Era stato lui per primo sorpreso dalla violenza dell'insurrezione.
Scrisse a Vienna, come riporta Carlo Cattaneo, nell'ope­ra Dell' insurrezione di Milano:

Il carattere del popolo di Milano [ ... ] mi sembra trasformato per un colpo di bacchetta magica: il fanatismo ha preso persone di ogni età, di ogni rango, uomini e donne [ ... ] Le notizie delle province, seb­bene poche, sono affliggenti. L'intero paese è insorto, anche i conta­dini sono in armi. L'armistizio non è stato accettato e la battaglia con­tinua con furia inesausta [ ... ] I soldati isolati vengono fucilati o fatti prigionieri. Reparti piu grossi trovano nelle strade barricate e nei vil­laggi una resistenza invincibile.

Per cinque giorni tentò di piegare gli insorti. Riuscì an­che a penetrare nel Comune, arrestando gli assessori, ma non Il podestà. Ma che se ne faceva? Mentre Radetzky perdeva fiducia, gli insorti l'acquistava­no. Non avevano che poche armi, e soprattutto poco pane. Ma avevano trovato un capo.
Un grande intellettuale, freddo di mente e caldo di cuore, che all'inizio della rivolta, a chi gli chiedeva che cosa si do­vesse fare, aveva risposto: «quando i ragazzi scendono in stra­da gli uomini vanno a casa».
Cattaneo: chi era? Soprattutto un economista, un uomo di cultura vastissima, nutrita di storia, sorretta da un forte apparato scientifico e da una vasta conoscenza amministra­tiva. I suoi saggi, scritti sulla rivista «Politecnico», fornisco­no una ricca e profonda - modernissima analisi dei proble­mi del suo tempo, italiani ed europei.
Diffidava degli "ismi" ideologici, dell'Illuminismo come del Romanticismo, preferendo sempre un approccio pragma­tico. Della vita coglieva tutta la ricca potenzialità, rifiutan­dosi di comprimerla in uno sterile disegno unitario: «La va­rietà è la vita, l'impassibile unità è la morte».
Politicamente, non pensava che l'unità d'Italia fosse all' or­dine del giorno. Era un convinto federalista, ma pensava a un federalismo asburgico: la Lombardia, regione tra le più ric­che dell'impero, inserita in una confederazione imperiale. Certo, l'obiettivo era la confederazione italiana, che, però, si sarebbe potuta realizzare solo quando le altre regioni d'Italia avessero raggiunto il livello della Lombardia. Allora, in un grande quadro europeo pacifico, essa si sarebbe distaccata dal­l'impero, per prendere il suo posto in Italia.
Una visione tra complicata e irenica, che presto i fatti, che soprattutto contavano per lui, gli fecero abbandonare.
E fu soprattutto la visione del popolo in armi, di quell' ac­celerazione della storia che aveva fuso una nazione nell' ar­dore della lotta che trasformò un intellettuale critico, «il più serio, profondo e versatile di tutto il Risorgimento» (Storia d'Italia Einaudi), in un grande capo popolare.
Cambiò idea, realisticamente, sui ragazzi scesi in strada, e, più in generale, sulle ragioni e sulle passioni italiane.
Opponendosi alle proposte di un armistizio che avrebbe troncato lo slancio della lotta, aveva interpretato perfetta­mente la volontà popolare, salvando la vittoria dell'insurre­zione. Opponendosi all'invocazione dell'intervento piemon­tese, di un Carlo Alberto che aveva già una volta tradito gli italiani, scelse la strada del Risorgimento caldo, autentico, popolare: la più difficile, ma forse l'unica che avrebbe realizza­to una vera unità nazionale, sia pure in tempi più lunghi, e non "improvvisati".
La sua italianità si temprò nel vivo della battaglia, di quel­le Giornate milanesi che davano corpo e sangue alla causa i­taliana, riscattandone anche i miti. Molti di coloro che oggi si professano suoi seguaci leggerebbero con qualche smar­rimento le pagine che egli dedicò a Roma e al tricolore: «La madre della nazione, la madre dell'Italia una, fu Roma. E ciò che da lei venne, ora manifestamente ritorna a lei».
Leggerebbero anche con qualche divertimento del collo­quio tra il commissario Bossi, rappresentante italiano in abi­to di spada, e Radetzky, seduto sulle macerie del ponte di Ma­ngnano.
Quando le truppe di Radetzky, nelle loro bianche unifor­mi, lasciarono, sconfitte, Milano, si contarono le perdite. Mi­gliaia, si disse. Sembra in verità che i morti siano stati seicen­to per parte. In grande maggioranza, popolani. Era la prima volta. Ma non fu l'ultima. L'ultima fu Venezia. E a lei dedi­chiamo l'ultima scena del Risorgimento caldo.

Sul ponte sventola.
Dunque, Venezia era insorta scacciando i governanti austriaci, e decretando la fusione con il regno di Sardegna. Era 1111;1 vittoria degli unionisti moderati, non dei federalisti I repubblicani come Daniele Manin, ma quest'ultimo l'aveva approvata, come bene minore. Tuttavia, le cose erano andate subito a rovescio. Battuti a Custoza, i piemontesi avevano abbandonato Milano. E i veneziani, disgustati dal comporta­mento di Carlo Alberto, avevano disconosciuto i commissari inviati da Torino. Venezia si era orgogliosamente ripresa la sua autonomia, senza stringere altri accordi, come Mazzini avrebbe voluto, con la Repubblica romana e con il nuovo go­verno di Firenze. Manin aveva deciso di aspettare tempi più certi. Ma dopo la sconfitta di Novara, le cose precipitarono. E l'Austria, che ormai poteva rivolgere contro Venezia tutto il peso del suo esercito impegnato sul Ticino, le intimò la resa. La risposta, inviata al generale Hainau, il boia di Bre­scia», fu perentoria: d'assemblea dei rappresentanti dello Sta­to di Venezia (si noti, non della Repubblica, che non era stata ripristinata) in nome di Dio e del popolo unanimemen­te decreta: Venezia resisterà all'austriaco a qualunque costo. A tale scopo il presidente Manin è investito di poteri illimi­tati». Eroismo disperato o irresponsabilità? Ci sono momen­ti nei quali l'eroismo disperato è responsabile: verso la storia futura.
Venezia disponeva, tra i suoi cittadini e i volontari accor­si da altre parti d'Italia, di circa quindicimila combattenti, che fino a quel punto erano parsi sufficienti, tanto da considera­re con imbarazzata preoccupazione l'annunciato arrivo di Garibaldi. L'assedio, inoltre, era aperto dalla parte del mare, ove i piemontesi avevano inviato una piccola flotta. Presto o­gni varco fu chiuso dai battaglioni e dalla flotta austriaci. E cominciò l'assalto. La prima mossa fu però, a sorpresa, di Ma­nin, che lanciò i suoi contro Mestre cogliendo di sorpresa gli Austriaci, che lasciarono sul campo trecento morti e seicento prigionieri. Il seguito fu terrificante. A Marghera, dopo gior­ni di combattimento, gli Austriaci, penetrati nell' abitato, non vi trovarono che cadaveri, ai quali il vecchio maresciallo Ra­detzky rese 1'onore delle armi. Le truppe austriache marcia­rono poi in parallelo, una trincea mobile dietro l'altra, sul ponte ferroviario, una striscia stretta poche decine di metri, mentre i cannoni bombardavano il centro della città. Gli Au­striaci sperimentarono persino il primo bombardamento ae- reo della storia, legando le bombe a dei palloni, ma quelli, con grande allegria dei veneziani, furono sospinti dal vento sulle loro stesse teste. L'assalto finale durò ventiquattro giorni, ininterrottamente. Donne e ragazzi sostenevano i cittadini ar­mati. Non furono i fucili, ma la fame e il colera, a piegare la città. Il segreto della resistenza stava nella forza di un popo­lo che aveva trovato un capo che li rappresentasse e li guidas­se. Come Garibaldi a Roma, come Cattaneo a Milano, Danie­le Manin non era un retore pomposo, ma un combattente che si esprimeva, con qualche sgrammaticatura, in dialetto. Era seguito. Era amato. Quando fu chiaro che ogni resistenza era vana, e i negoziati erano falliti di fronte all'irremovibilità au­striaca, parlò al suo popolo dal balcone, annunciando la resa inevitabile. Lui, però, non si arrendeva. Lasciava la sua città. Gli Austriaci lasciarono partire indenni tutti i capi della resi­stenza, e garantirono l'incolumità della popolazione (non co­me a Brescia, dove l'altrettanto eroica città fu oggetto di vio­lenze e di massacri). Radetzky entrò a Venezia. Ma solo il pa­triarca lo accolse, con un Te Deum. Il popolo di Venezia, come scrisse uno straniero presente alla scena, Blaize de Bury:

[ ... ] rattristato c silenzioso assisteva allo spettacolo delle celebrazioni, e su quei volti smagriti dalle sofferenze di un lungo assedio, su quei tratti induriti e decomposti dalla febbre e dall' odio, si potevano legge­re le stesse cose che avevano ispirato una violenta apostrofe scritta or non è molto sulle mura di Pavia: «vattene, tedesco, perché l'uomo cui questa terra appartiene, ti odia dal profondo dell' anima. Ti odia oggi, ti odierà domani e sempre. Tu ridi e io piango, ma bada che le mie la­crime, bagnandoti, non ti avvelenino».

Cosi si chiudeva, nel 1849, il Quarantotto. Un tempo nel quale, finalmente, la passione del Risorgimento raggiunse 1'a­nima popolare. A prima vista, aveva vinto una volta ancora la ·'.lllla Alleanza, era stato restaurato l'ordine antico. Ma era l’illusione. Quello che era stato riedificato era uno scenario , I, t:lrtone, presto una nuova Europa delle nazioni lo avrebbe travolto. Quella sorgeva dall'intraprendenza dell'industria e dalla coscienza dei popoli. Anche in Italia lo scenario era cosi
fragile che crollò, dieci anni dopo, di colpo. Una nuova co­scienza di sé era sorta nel profondo del paese. Non avrebbe raggiunto mai più la temperatura che aveva infiammato le gior­nate di Napoli, di Roma, di Venezia, di tante altre città ita­liane. Si sarebbe misurata più realisticamente con le cose e con i fatti, riconoscendoli nella loro durezza. Avrebbe accettato compromissioni, alcune necessarie, altre inutili, altre ancora dannose. Avrebbe costruito progetti ambiziosi, e compiuto er­rori funesti. Ma sarebbe andata avanti, fino al compimento di un esito fino a poco tempo prima considerato impossibile. Il Risorgimento freddo fu meno esaltante. Ma ebbe la ventura di esistere.

Capitolo terzo
RISORGIMENTO FREDDO

Se il Risorgimento fosse un film, Mazzini sarebbe il sogget­tista, spesso tradito e misconosciuto dalla trama, Garibaldi l'e­roe protagonista e, senza alcun dubbio, Cavour il regista. Re­gista appassionato, ma freddo. Tutta la trama del Risorgimen­to, nella storia che si svolse tra la sconfitta del 1849 e la vittoria del 1861, è nelle sue mani.
Qui, ovviamente, non ne ripercorreremo gli eventi, ma cercheremo di rilevarne alcuni aspetti caratterizzanti. Un provvidenziale fiuto politico sconsigliò al giovane re Vittorio Emanuele, all'indomani della catastrofe di Novara, alla volta subito dall' Austria un pesante trattato di pace, di seguire la via della Restaurazione scelta dagli altri sovrani ita­li,mi, e gli fece preferire quella italiana e costituzionale, sug­gerita dall' aristocratico pittore e romanziere Massimo d'Azzeglio, «autore e padre della questione italiana», o addirittura «cavaliere d'Italia», come fu definito. Grazie a questa scelta il Piemonte, il meno italiano degli Stati della penisola, occupò il ruolo di campione d'Italia.
Stretto fra la pressione dei democratici, che si rifiutano di , sottoscrivere l'umiliante pace con l'Austria, e quella della destra reazionaria, che spinge per un colpo di Stato autoritario il governo del re resiste, scioglie due volte un Parlamen­to calcitrante, e ottiene finalmente, in elezioni svolte con metodi che apparirebbero oggi molto discutibili, la maggio­ranza della nuova assemblea.
Il Piemonte apre le porte ai fuoriusciti italiani. Li sostiene finanziariamente. Integra i loro esponenti più rappresentati­vi nelle file del ceto politico piemontese. Favorisce la fonda­zione, come alternativa alla rivoluzionaria Giovine Italia, del­la moderata Società nazionale, che ha per insegna: «Italia e Vittorio Emanuele».
Succede presto a d'Azeglio il giovane Cavour, aristocrati­co anche lui, di più recente data, di famiglia agiata, con una giovinezza vagamente repubblicana, poi sempre più convin­to liberale e «centrosinistro», come allora si diceva, agrono­mo, imprenditore moderno, economista e conoscitore atten­to delle realtà europee più avanzate. È stato adottato nell'in­fanzia da una madrina d'eccezione, Paolina Bonaparte, che gli ha trasmesso, con la sua tenerezza, una vocazione femmi­nilista che non perderà mai. Tutt'altro che tenero sarà inve­ce il suo rapporto con il re, che attraverserà fasi tempestose. «Fate attenzione a quello - mormora Vittorio Emanuele ­che vi sfila il portafoglio»: ma non può fare a meno della sua prodigiosa abilità.
Sotto il suo governo, il Piemonte diventa non soltanto il campione della causa italiana, ma lo Stato più moderno e avanzato d'Italia sulla via delle riforme. Della più ardita rifor­ma laica del clero, all'insegna del principio che non abbando­nerà mai (<<frate - sussurrerà in punto di morte - ricordate sempre: libera Chiesa in libero Stato»). Della riforma econo­mica, diretta a modernizzare tecnicamente le aziende, inse­rendole in un libero mercato che non tema la concorrenza piti aperta, secondo i principi liberali che condivide con il suo a­mico Cobden.
Suo costante riferimento sarà il Parlamento, la cui auto­rità saprà contrapporre a quella di un re che sarebbe ben fe­lice di liberarsene, se non fosse per il sostegno della causa che gli sta più fortemente a cuore: la rivincita contro l'Austria. Il Parlamento, Cavour lo sa trattare magistralmente, inaugurando quel metodo delle maggioranze variabili e manovrabili che più tardi si chiamerà «trasformismo», e che allora fu defini­to«connubio». Dunque, il regista del Risorgimento fu in que­gli anni tumultuosi, incontestabilmente lui, Camillo conte di Cavour.

L’ Italia in Europa.

Dopo la sconfitta di Novara, è diventata manifesta l'im­possibilità italiana di "fare da sé". Ben diversamente dalla Prussia, le forze militari di cui può disporre un'Italia a gui­da piemontese si sono dimostrate impari. Sola di fronte al­l'Austria, non è in grado di sostenere il confronto. È neces­sario, dunque, trovare alleanze in Europa.
Qui, è cambiata la scena. All' Austria non si riconosce più, da parte delle altre potenze, un ruolo dominante in Italia. C'è la riserva di un'Inghilterra la cui opinione pubblica manife­sta una viva simpatia alla causa italiana; e che considera con interesse l'emergere di una nuova potenza mediterranea, di fronte alle pretese continentali di Austria e Francia. C'è, soprattutto, la risorgente potenza della Francia del piccolo Napoleone.
È in questo nuovo gioco europeo che s'inserisce l'intelli­genza di Cavour. Gli giova la sua conoscenza diretta dell'Eu­ropa, della sua economia, delle sue costituzioni politiche, del­le sue lingue: una conoscenza superiore persino a quella dell'I­talia. La sua mossa geniale, cinica e arrischiata, è la decisione di coinvolgere il Piemonte nella guerra franco-britannico-tur­ca contro la Russia, la guerra di Crimea, alla quale non lo lega alcun interesse, tranne quello di conquistare un ruolo sulla ri­balta della scena europea e di ristabilire un prestigio militare compromesso a Novara.
Diciottomila bravi piemontesi inviati in Crimea, dove si battono valorosamente sulle sponde del fiume Cernaia, gli permettono, superando una comprensibile opposizione in patria, di realizzare entrambi gli obiettivi. Al congresso di Pa­rigi che chiude la guerra, Cavour è in grado di esporre, in mo­di non querimoniosi ma pragmatici, la causa italiana, che si riassume in questi termini. L'Italia è, a causa della domina­zione austriaca e dei regimi oppressivi di Napoli e di Roma, una polveriera insurrezionale, che minaccia l'intera Europa. Solo il Piemonte è in grado di evitarne l'esplosione, convo­gliandola verso un assetto che ne riconosca diritti di libertà e autonomia ormai imprescindibili. Il messaggio è abile e con­vincente.

La grande partita.
Il primo a raccoglierlo è l'esponente più vigoroso di quel revisionismo europeo che sta mettendo in crisi l'ancien régi­me e la Santa Alleanza: l'ex carbonaro "italiano" Luigi Na­poleone, che nel 1852 riprenderà, sulle orme del grande zio, il titolo di imperatore dei Francesi, con il nome di Napoleo­ne III (il secondo non c'è mai stato). In realtà, già due anni prima della Crimea, Napoleone aveva incontrato privatamen­te Cavour, rivelandogli (per assicurarsi il sostegno del Pie­monte) il suo progetto. Quel progetto apre al Piemonte e al­l'Italia una «grande partita» (come scrive Luciano Cafagna, in Nord e Sud), in cui il destino italiano è strettamente lega­to alla Francia. Si tratta dello scenario di una nuova Europa, nella quale Francia e Inghilterra si contrappongono ai due im­peri, asburgico e russo, la cui solidarietà è stata incrinata dal­le comuni pretese alla successione dei domini ottomani (la question d'Orient). In questo quadro si apre uno spazio per un ampliamento del Piemonte in un nuovo regno dell'alta Ita­lia. Per Cavour è un vero e proprio «coup de foudre» (Cafagna). Il Piemonte non è piu isolato. Il suo primato in Italia può saldarsi con una forte alleanza esterna. In tale prospet­tiva, si spiega meglio la decisione di partecipare alla guerra di Crimea.
Tra il 1852 e il 1859, quella conversazione a ruota libera è seguita da una serie di contatti segreti fra Torino e Parigi, con il coinvolgimento di Vittorio Emanuele.
Però, le cose non vanno cosi lisce. Per qualche tempo, Na­poleone pratica il doppio gioco tra piemontesi e Austriaci, con­fermando ai primi il suo progetto antiaustriaco, e rassicuran­do gli altri sul mantenimento dello status quo in Italia. Con chi è sincero? Con nessuno dei due. Come lui stesso dice, in po­litica bisogna saper aspettare. Non importa poi molto saper­lo. Importa invece che Cavour persegua tenacemente, per la parte che gli spetta, quel progetto. E la sua parte consiste nel­l'esercitare una serie di provocazioni dirette all' Austria, per ottenere una delle condizioni fissate da Napoleone: che sia l'Austria ad attaccare, per giustificare l'intervento francese.
All'inizio del 1858, comunque, Napoleone sembra deciso.
Il 10 gennaio annuncia bruscamente all' ambasciatore austria­co che i rapporti con il suo paese si sono guastati.
Tuttavia, un evento imprevedibile sembra possa mandare all'aria l'intesa franco-piemontese. Il 14 gennaio un ex maz­ziniano, Felice Orsini, attenta alla vita dell'imperatore: sca­glia tre bombe a forma di pera (entreranno poi nel folklore anarchico come «le bombe all'Orsini») contro la carrozza rea­le, provocando otto morti, ma lasciando incolumi Napoleone e la moglie Eugenia. Sono in molti a pensare che la vera vit­tima dell'attentato sarà Cavour. Ma l'imperatore non cambia idea. Anzi: una lettera indirizzatagli da Orsini, nella quale l'at­tentatore gli rivolgeva un appassionato appello a liberare l'Italia, lo indurrebbe, d'accordo con Eugenia, ad accordargli la grazia. Ma il consiglio della Corona è inflessibile. Orsini an­drà, dignitosamente pentito, alla ghigliottina. La grande par­tita franco-piemontese sarà confermata. Napoleone pretende però da Cavour l'esilio dei "democratici" più in vista, e alcu­ne misure severe di limitazione delle garanzie costituzionali. Dopo di che, riceve il primo ministro piemontese ai bagni di Plombières, dove s'intrattiene con lui per due giorni, a preci­sare i termini dell'alleanza. La scena di quell' evento è stata resa famosa in centinaia di libri, e in più di un film. Il più fedele resoconto è, comunque, quello che Cavour invia al re, dopo due giorni di fitti colloqui, su qualche foglietto rimediato alla meglio in albergo. Quel col­loquio, lo aveva preparato fin nei minimi dettagli. E, fra i det­tagli, ce n'era uno particolarmente piccante: la missione affi­data alla bella cugina, la contessa di Castiglione, di sedurre l'imperatore, accompagnata da una lettera inequivocabile. «Riuscitevi, cugina mia, con i mezzi che volete, ma riuscite­vi»
(Milza, Storia d'Italia).
Nella lettera di Cavour al re sono descritte accuratamen­te le intese raggiunte. La costituzione, dopo la vittoria, di un regno dell'alta Italia, comprendente Piemonte, Lombardia e Veneto, meno Nizza e Savoia, da cedere alla Francia quale compenso per il suo intervento. Sarebbe stato, inoltre, costi­tuito un regno dell'Italia centrale, comprendente Toscana ed Emilia, sotto la sovranità del cugino dell'imperatore Gerola­mo Bonaparte, lasciando le altre regioni centrali allo Stato pontificio, e Napoli e la Sicilia ai Borboni. Tutti gli Stati ita­liani avrebbero fatto parte di una confederazione presieduta dal papa. La sola delle clausole che Cavour sapeva che il re avrebbe dichiarato inaccettabile era il progetto di matrimo­nio del suddetto Gerolamo, cugino scapestrato, con la pia e riluttante Maria Clotilde, figlia del re. Cavour si permetteva di insistere su questo sacrificio per il bene della patria, e ag­giungeva con una punta di perfidia: «d'altra parte, Maestà, con tutto il rispetto, chi se la piglia?»
Alla fine, il re accetta. Tutto ciò che resta da fare a Cavour è di organizzare la provocazione. Nel r859 l'accordo è sigla­to, e tre mesi dopo si celebrano le nozze "patriottiche" di Ma­ria Clotilde. Ci siamo dunque? Purtroppo no. Inghilterra e Russia si mettono di mezzo. Si offrono come mediatori, pro­ponendo una conferenza internazionale che risolva pacifica­mente il conflitto. Cavour è disperato. Sembra deciso a sui­cidarsi, ma a questo punto l'Austria commette un colossale errore. Francesco Giuseppe è particolarmente offeso dall'ultima provocazione: la sottoscrizione dei fondi necessari a edi­ficare un monumento alle glorie sabaude da parte di un grup­po di milanesi, tutti sudditi dell'imperatore. Vienna decide che la misura è colma, e intima a Torino un ultimatum: o smo­bilita entro tre giorni le sue truppe ammassate al confine, o sarà guerra. Quei tre giorni, Cavour, che non si è suicidato, li passa nella più pura letizia. Il 26 aprile scade l'ultimatum. Il 27 giugno l'esercito imperiale austriaco varca il Ticino.

Solferino e Villafranca.
Gli Austriaci, comandati dall'ungherese Giulay, sono cen­toventimila, i piemontesi sessantamila e i Francesi, che, ono­rando l'impegno, hanno dichiarato guerra all'Austria, ci met­tono quattro settimane ad arrivare. Un Radetzky avrebbe si­curamente approfittato di quella temporanea superiorità. Ma Giulay non è Radetzky. Quando si decide, i Francesi sono ar­rivati dai varchi alpini e da Genova, dov'è sbarcato, alla loro testa, Napoleone in persona. Le forze sono pressappoco pari. La prima dura battaglia la vincono a Magenta i franco-piemon­tesi. Gli zuavi francesi, ammirati del coraggio del re Vittorio, lo nominano loro caporale. Napoleone e il re entrano trionfal­mente a Milano.
Francesco Giuseppe sostituisce al comando Giulay, e fa ripassare il Mincio ai suoi duecentomila uomini, per affron­tare il nemico che avanza.
I due eserciti si fronteggiano, attestati su due colline. È uno scontro micidiale, quello che segue. Gli Austriaci tenta­no l'aggiramento, sul fianco piemontese di San Martino. I piemontesi resistono. Dopo dieci ore di battaglia, i Francesi riescono a sfondare al centro. Gli Austriaci in ritirata lascia­no un campo sterminato di dolore e di morte. Non si era vi­sta mai una battaglia tanto sanguinosa. Decine di migliaia di morti, da una parte e dall' altra. Dalla pietà di Florence Nigh­tingale nasce, a Solferino, l'idea della Croce Rossa. 
Napoleone, impressionato dalla strage, è in difficoltà. Ha un esercito stremato e, davanti a sé, un poderoso quadrilate­ro di fortezze. Teme la reazione delle altre potenze europee, e soprattutto quella, la piti minacciosa, della Prussia, che sta mobilitando ai confini francesi. Decide di chiedere un armi­stizio, che viene prontamente accordato.
Ancora una volta, le speranze d'Italia sembrano svanire.
Venezia e il Veneto resteranno in mano austriache. Cavour, indignato, presenta al re le sue dimissioni. Ben felice di acco­glierle, il re Vittorio sottoscrive l'armistizio «per la parte che lo concerne». La parte restante prevede il reinsediamento dei sovrani "legittimi" nei regni e ducati dell'Italia centrale, che però, nel frattempo, sono insorti, cacciandoli. Tutto torna co­me prima? No, tutto cambia.

Crolla il castello della Restaurazione.
Fin dall'inizio della guerra d'Indipendenza, gli italiani del­la Toscana e dei ducati sono insorti, e si sono formati governi provvisori, con Ricasoli in Toscana e con Farini a Modena. Questi, ben sostenuti dalla popolazione, impediscono il ritor­no dei vecchi sovrani e chiedono l'annessione al Piemonte.
Intanto firmano una lega militare, e ne affidano il coman­do a Garibaldi, che lo assume con l'accordo del re (dopo tut­to, è un suo suddito).
Il re prende atto della domanda d'annessione e della deci­sione di sottoporla a plebiscito. Ci si potrebbe aspettare una reazione delle grandi potenze, che si sono accordate - impli­citamente o esplicitamente - sulla "Restaurazione". Ma le grandi potenze o non vogliono, o non possono. Non può l'Au­stria, sconfitta militarmente. Non vuole la Francia, per non sfidare ulteriormente i popoli d'Italia che si sentono traditi dall' armistizio. Non vuole l'Inghilterra, che vede di buon oc­chio la crescita di un nuovo Stato sottratto all'influenza au­striaca.
È in questa circostanza che riemerge Mazzini. Piomba a Firenze di nascosto, raccoglie dappertutto volontari e propo­ne a Garibaldi un piano rivoluzionario. Con i volontari che da ogni parte stanno accorrendo, invada Marche e Umbria e poi, attraverso l'Abruzzo, penetri in un Mezzogiorno che è al limite della sollevazione. Lasciando per ora in sospeso il de­stino di Roma, che è sotto la garanzia francese, sarà cosi rea­lizzata una quasi completa unità italiana. È uno dei tanti pa­radossi del Risorgimento: che il disegno di Mazzini si com­pirà, ma senza e contro Mazzini.
Garibaldi, che in un primo momento si è reso disponibile, è richiamato dal re, e dopo molte esitazioni accetta di ritirar­si dal comando della lega militare toscana, che nel frattempo è stato affidato al piemontese Fanti. E questo è un altro pa­radosso. Garibaldi è, incontestabilmente, l'unico che potreb­be mettersi a capo di una rivoluzione italiana. Il suo presti­gio e la sua popolarità sono immensi. Dovunque passa, è ac­colto da folle in delirio, e da ammiratori (e ammiratrici) ado­ranti. In Italia e fuori d'Italia. Come si spiega che esso de­ponga questo immenso capitale ai piedi di un Vittorio Ema­nuele che è cresciuto anch'egli di statura politica, ma in mi­sura incomparabilmente minore? Può essere che il suo inne­gabile avventurismo eroico sia, a differenza di Mazzini, anco­rato a un solido buon senso pratico, che gli fa misurare i ri­schi internazionali di un'impresa da tante parti avversata. O c’è anche un' altra ragione più intima: il bisogno di nobilitarla, quell'impresa, con una lealtà suprema il cui costo ne elevi il valore? Il valore dell' obbedisco che anticipa, nell'incontro che ha con il re a Teano, quello che rimarrà famoso, più tar­di, di Bezzecca. Il fatto è che c'è tra i due personaggi un rapporto complesso. Per entrambi, l'unità d'Italia è diventato un impegno irrinunciabile. Ma per Garibaldi è supremo, tanto da sacrificargli ogni altra fede di parte e ogni ambizione personale. Per Vittorio Emanuele è condizionato sia dalla fede di parte - piuttosto di classe, che comporta un' ostilità impla­cabile verso le istanze democratiche - sia dall'ambizione per- sonale, che fa dell'unità italiana non il suo ideale ma il suo piedistallo.
Comunque, le cose vanno per il loro verso. L'annessione della Toscana e dei ducati, che presto sarà seguita - per con­taminazione insurrezionale - da quella delle Marche, dell'Um­bria e delle legazioni dello Stato pontificio (Bologna e l'Emi­lia), crea nell' alta Italia un "grande Piemonte", non inferiore per portata a quello, lombardo-veneto, che era stato immagi­nato a Plombières. L'Europa non si è mossa. E, ciò che più conta, sulla rovina smossa a partire dalla Toscana nell'Italia centrale, stanno per rovinare a loro volta due altri grandi Sta­ti italiani finora protetti dalla tutela austriaca: lo Stato ponti­ficio e il regno delle Due Sicilie. Qui torna in campo Garibal­di. E qui si coglie anche un aspetto fondamentale del Risor­gimento italiano. Le vicende che stiamo rapidamente ripercor­rendo possono dare l'impressione di un bizzarro intreccio di occorrenze casuali, senza capo né coda. Ma non c'è bisogno di cercare, in quella storia, inesistenti disegni deterministici per constatare che, sotto i suoi strati successivi, c'è un fondo, che anch' esso si muove, e acquista man mano una sua direzio­ne. Accade che questo movimento di fondo coinvolga un tem­po e un popolo con potenza irresistibile. È quel fenomeno che ha trovato nella poesia popolare la sua espressione retorica. Quando un popolo si desta} Dio si mette alla sua testa e una fol­gore gli dà. Il verso è enfatico, ma coglie la realtà di una spin­ta irreversibile.
Il Risorgimento era dotato di questa spinta.

L’ impresa dei Mille.
Il piano mazziniano aveva due direttrici: l'invasione delle Marche e dell'Umbria, da Nord; !'insurrezione della Sicilia, da Sud. Quella che Garibaldi, dopo molte esitazioni, realizzò si concentrava su questo secondo punto. La seconda direttri­ce, fu Cavour a realizzarla. Garibaldi aveva accettato a malincuore di rinunciare al di­segno mazziniano. Era rimasto convinto che l'annessione del­le regioni centrali al Piemonte avesse prodotto una lacerazio­ne del sistema restaurato nel r848, tale da renderlo estrema­mente fragile. Tutto stava nel proporzionare l'impatto di un intervento esterno con quello di un'insurrezione interna, in modo da non ripetere la disastrosa avventura di Sapri. Que­sta fu la sua preoccupazione dominante, nei giorni che segui­rono la sua rinuncia; e la causa del suo esitare, di fronte alle tante sollecitazioni che da ogni parte gli venivano rivolte. Egli era persuaso, e non a torto, che anche il re, e molto più di Ca­vour, avvertisse, per un intuito che non gli mancava, il ma­turare di condizioni d'indebolimento e d'isolamento dell'an­tico regno di Napoli. E contava, forse eccessivamente, su una specie di delega politica, da parte di un sovrano che sapeva di poter contare sulla sua lealtà. Si era dunque stabilita una sorta di filo diretto fra Garibaldi e il re. Che divenne ancora più forte quando Garibaldi apprese della cessione alla Fran­cia della sua città natale: un colpo terribile, che non poté mai perdonare a Cavour, e che troncò per molto tempo le relazio­ni tra i due. È probabile che proprio il sentimento, cosi gra­vemente ferito, abbia indotto Garibaldi a riprendere nelle sue mani il disegno mazziniano.
Questa volta, le condizioni di un'insorgenza» c'erano, specialmente in una Sicilia più che mai ostile ai napoletani, cui si era ribellata nel 1848, con una sommossa finita in una sanguinosa repressione. In tutta Italia, e specialmente in Ro­magna, c'erano schiere di volontari disposti a partire per un'impresa di liberazione del Mezzogiorno: una terra che, nel­!'immaginazione popolare, appariva ubertosa e florida di mes­si, inondata di sole. Il siciliano mazziniano Francesco Crispi, inviato nell'isola per conto di Mazzini nel luglio-agosto r859, aveva assicurato che la rivoluzione sarebbe stata appoggiata praticamente da tutti. Ma poi le notizie si erano fatte più dub­bie. A un certo punto pareva, dai messaggi cifrati, che i mo­vimenti insurrezionali fossero stati duramente repressi. Garibaldi dichiarò di rinunciare alla partenza. Stava per reimbar­carsi per Caprera, quando Crispi, l'unico a possedere la chia­ve dei cifrati, annunciò che il messaggio era stato mal tradot­to. L'insurrezione, d1ceva, repressa a Palermo, fiammeggiava in tutta l'isola. Ci si può ancora domandare se Crispi, che vo­leva partire a ogni costo, avesse forzato la "chiave". Fatto sta che Garibaldi decise di partire, e l'avventura cominciò.

Una vittoria impossibile.
Cominciò nel porto di Genova, la notte del 5 maggio. Con un colpo di mano Nino Bixio, con un commando di una qua­rantina di uomini, irrompe su due piroscafi alla fonda, appar­tenenti alla ditta Rubattino: il Piemonte e il Lombardo. Dei marinai alcuni sono complici, altri no, e scendono, mentre i primi assicurano le manovre. Tutto è molto confuso: non si trovano le chiavi di alcune porte che occorre forzare, bisogna accendere le caldaie, farle andare in pressione, mettere in mo­to le macchine. Le macchine del Lombardo - maledizione! ­non si avviano. Il Piemonte lo prenderà a rimorchio. Il tem­po passa, e Garibaldi, che indossa una camicia rossa e il pon­cho americano, impaziente, balza in un canotto e va incontro alle navi. Che finalmente si muovono. È una splendida not­te di luna. Allargo di Quarto, i volontari, ammassati da ore sulle rive, si affollano con barche e chiatte, e s'imbarcano. S'imbarcano anche i fucili, i viveri e le munizioni. E anche novantamila lire, che Bertani consegna a Garibaldi. Dunque, mille uomini e novantamila lire: le due cifre dell'impresa.
Il generale invia un messaggio al re:

[ ... ] il grido di sofferenza che dalla Sicilia giunse alle mie orecchie ha commosso il mio cuore [ ... ] io non ho consigliato il moto insurrezio­nale [ ... ] ma dal momento che i fratelli di Sicilia si sono sollevati nel nome dell'unità italiana di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la piti infame tirannide dell'epoca nostra, non ho esitato a met­termi alla testa della spedizione.

E Cavour? È perfettamente al corrente dei movimenti di Garibaldi. Il 2 maggio, con una rapida corsa in treno, si è in­contrato a Bologna con il re, giunto in carrozza da Firenze. Non si sa che cosa si siano detti. È un fatto che Garibaldi sia stato lasciato libero di condurre i preparativi dell'impresa. L'unico vincolo è che la spedizione non tocchi il territorio piemontese.
La guerra dei Mille è una serie di colpi di scena sorpren­denti, talvolta bizzarri, al limite dell'impossibile.
Marsala. Lo sbarco avviene davanti ai cannoni di una na­ve borbonica. Ma i cannoni non sparano, perché il coman­dante vuole avere l' ok degli inglesi, data la presenza dei loro stabilimenti vinicoli. Quando finalmente sparano, i garibal­dini sono sbarcati.
Nell'isola l'esercito napoletano, che conta complessiva­mente sessanta-ottantamila uomini, ne ha almeno tredicimi­la, e bene armati. Ma, anziché attaccare, decide di "sbarra­re la strada" di Palermo.
Calatafimi. Borbonici e garibaldini si fronteggiano su due alture. I napoletani scendono dalla loro per attaccare, convin­ti di schiantare quella marmaglia. Sono respinti all' arma bian­ca. È il turno dei garibaldini, ma sulla collina a terrazze è qua­si impossibile avanzare. Le perdite sono elevate, e Bixio chie­de a Garibaldi se non è il caso di ritirarsi. La risposta storica è: «Bixio, qui si fa l'Italia o si muore». Quella vera sembra fosse diversa. «Bixio, qui non possiamo andare né avanti né indietro». Ma un contingente di un centinaio di cacciatori del­le Alpi, rimasti in retroguardia, irrompe sulla scena e scardi­na le linee nemiche. Il comandante dei napoletani che -lo di­ce Garibaldi - si sono battuti da leoni, ordina la ritirata.
Palermo. Garibaldi penetra con i suoi nella città dopo aver dirottato con una finta manovra Lanza, il comandante napo­letano. La città, centosessantamila abitanti, insorge, al suo­no delle campane. Si combatte aspramente per tre giorni, stra­da per strada. Lanza chiede di parlamentare. Si rivolge a Ga­ribaldi, il bandito, chiamandolo «Eccellenza». Lui sbuccia tranquillo un'arancia e ne porge uno spicchio al generale, sul­la punta di un pugnaletto. Finalmente i napoletani abbando­nano la città. Parla Garibaldi:

Se vi fu favore della Provvidenza per cui un uomo deve umiliarsi davanti a essa con gratitudine immensa, quello è certamente a me suc­cesso negli avvenimenti venturosi succeduti in questi ultimi giorni in Sicilia e nei quali ebbi la fortuna di partecipare.

Raggiunto lo Stretto, bisogna passarlo. Cavour preferireb­be di no. Ma chi può fermare Garibaldi? L'opinione pubbli­ca mondiale esulta. Il fabbricante d'armi che ha creato il fucile Enfield gli fa recapitare un cannone esente da dazio. Gli operai dell'arsenale di Glasgow e gli scaricatori di Liver­pool fanno gratis turni di lavoro straordinario per preparare munizioni e medicamenti. George Sand, come riferito da Alfonso Scirocco nella biografia sul generale, dice: «Garibal­di non somiglia a nessuno ed è in lui tal sorta di mistero che fa meditare». Engels, quello stesso che, a proposito dei maz­ziniani aveva parlato di «italiani pidocchio si», scrive sul «Daily Tribune» di New York che la conquista di Palermo è «una delle più stupefacenti imprese militari del nostro seco­lo». Garibaldi, dice, «ha provato in modo brillante di essere un generale non solo atto alla guerra partigiana, ma a opera­zioni ben più importanti».
Ma passare lo Stretto non è semplice. Un primo tentativo fallisce. Garibaldi si sposta verso Taormina, che ha davanti un mare meno sorvegliato dalle navi borboniche (chi può aspettarsi che un attacco alla Calabria possa muovere da Taor­mina?) Si fa raggiungere da Bixio e da una colonna di volon­tari, che imbarca. Ma in una delle navi c'è una falla, e il pi­lota si rifiuta di partire. Garibaldi fa raccogliere nella cam­pagna escrementi di vacca, con i quali tura la falla. Se arran­giarsi è arte italiana, Garibaldi è italianissimo. Cosi sbarca a Melito Porto Salvo, e comincia la marcia su Napoli.
Proprio dopo il suo trionfale ingresso in una Napoli lette­ralmente impazzita, Garibaldi dimostra che Engels aveva ragione. Non è soltanto un arditissimo partigiano. Possiede la mente strategica di un grande generale. L'esercito di France­sco II, schierato a difesa di Gaeta, dove il re si è rifugiato, è ancora una forza militare ben organizzata e ben armata, mol­to più numerosa (cinquantamila uomini) di quella dei vo­lontari, quasi la metà di numero, costretti ad assottigliarsi lun­go un arco che si estende da Santa Maria Capua Vetere a Maddaloni. Per di più, le popolazioni della zona stanno tut­te a difesa del loro re.
I reggimenti borbonici, guidati dallo svizzero von Mechel, escono da Capua all'attacco. Von Mechel vorrebbe sfondare le linee garibaldine sulla sua sinistra, tagliarle fuori dal resto delle truppe e aprirsi la strada verso Napoli. Ma il re, con­siderando la grandissima superiorità numerica, vuole farla fi­nita con quei banditi, travolgendoli frontalmente. In un pri­mo tempo, sembra proprio che vada cosi. I napoletani avan­zano, sospingendo indietro i garibaldini. Garibaldi si batte con la sua spada, esponendosi temerariamente. È salvato da un drappello di volontari, che si getta a corpo morto - è il ca­so di dirlo - sul nemico. Poi Garibaldi stesso guida un con­trattacco alla baionetta.
Quindi, il colpo di genio.

Garibaldi sguarnisce Caserta. Richiama 3000 uomini tenuti in ri­serva, che alle tre del pomeriggio raggiungono con la ferrovia il pun­to caldo del campo di battaglia. 1500 li lancia verso Sant' Angelo, pren­dendo alle spalle i Borboni che stanno avendo la meglio, gli altri 1500 li manda tra il fronte e Capua, minacciando di tagliare le comunica­zioni con la fortezza (Scirocco, Garibaldi).

Il comandante napoletano Ricucci, che non sa come con­trastare la manovra, fa rientrare le truppe, dopo ore di com­battimento.
Cosi finisce la grande battaglia del Volturno, l'unica vitto­ria che Garibaldi ha colto combattendo sulla difensiva, con­tro un nemico che aveva dalla sua tutto: la superiorità del numero e delle armi, il sostegno della popolazione, la dispera­ta motivazione della vendetta.
Ma fu freddo, tristemente freddo, per Garibaldi, per i suoi volontari, per l'Italia, l'epilogo di un'impresa gloriosa.
Gli esausti reparti dei volontari, che si erano misurati con un esercito bene armato e disciplinato, furono sostituiti dal­l'esercito regio comandato da Cialdini, che il governo di To­rino aveva, con rapida decisione, inviato nel Sud attraverso le terre del papa: allo scopo, come Cavour spiegò agli amba­sciatori dei governi europei, di assicurare l'ordine. Cialdini colse la sua prima vittoria sui napoletani, esausti anch' essi, aprendosi la via verso il Volturno, che le camicie rosse abban­donavano su un ponte di barche costruito dai volontari ingle­si. I due eserciti si incontrarono a Teano. Le bande militari non riuscivano a dissipare la mestizia del paesaggio autunna­le, attraversato dalle lunghe fila delle truppe regie.
Ricorda Alberto Mario:

Improvvisamente [ ... ] una botta di tamburo troncò le musiche e s'intese la marcia reale. Il re, disse Della Rocca (il comandante pie­montese). Il re, il re, ripeterono cento bocche [ ... ] Il re, con l'assisa di generale, in berretto, montava un cavallo arabo storno e lo seguiva un codazzo di generali, di ciambellani, di servitori [ ... ] Disotto al cappel­lino Garibaldi s'era acconciato il fazzoletto di seta, annodandoselo al mento per proteggere le orecchie e le tempia dalla mattutina umidità. All' arrivo del re, cavatosi il cappellino, rimase il fazzoletto. Il re gli stese la mano dicendo. Oh, vi saluto, mio caro Garibaldi: come state? E Garibaldi: Bene, Maestà, e Lei? E il re: Benone. Garibaldi, alzando la voce e girando gli occhi come chi parla alle turbe, gridò: Ecco il re d'Italia! E i circostanti: Viva il re!

L'Europa assiste alla nascita improvvisa di una nuova grande potenza europea. L'esercito garibaldino avanza indi­sturbato. C'è, finalmente, l'insurrezione siciliana. Palermo cade. Garibaldi giunge a Napoli in trionfo. Potrebbe essere il dittatore delle Sicilie. Ma è prevenuto da Cavour e dal re. Sono i piemontesi a invadere lo Stato pontificio, e a piomba­re a Napoli per farsi consegnare il regno. Garibaldi glielo con­segna. Sembra il finale di un melodramma. L'Italia, con l'ec­cezione di Roma e del Veneto, c'è, finalmente, unita. Ma quale Italia? A quel punto, ci si accorge che, di Italia, ce ne sono due.
La prima conosce l'estrema miseria e inciviltà della seconda. Questa, la frustrazione delle masse contadine, che per un istan­te avevano nutrito le loro speranze di terre, mentre subisco­no l'avvento di un regime esoso e straniero.

Capitolo quarto
BILANCIO DEL RISORGIMENTO

Il Risorgimento è per l'Italia un evento fondativo della sua storia, alla stessa stregua di quel che è per la Francia la grande Rivoluzione, e per la Germania la Riforma.
Il suo svolgimento sembra paradossale, nel senso che, na­to da certe istanze e con certi obiettivi prevalenti, si è con­cluso con esiti opposti. Nato repubblicano, è diventato mo­narchico. Nato come disegno confederale, si è concluso con uno Stato fortemente accentrato.
Inoltre, l'unificazione nella quale il Risorgimento culminò fu un esito sorprendente. Imprevisto, e persino indesiderato, anche da coloro che lo avevano più efficacemente promosso. Come Cattaneo, come Cavour, che ancora nel r856 giudica­va l'unità politica della penisola «una corbelleria». Forse pro­prio per questo, dice Luciano Cafagna, ebbe successo.
Quanto poi al suo significato per la storia dell'Italia mo­derna, c'è una storiografia controversa e sterminata. Senza entrare minimamente nel merito intricatissimo che essa pre­senta, possiamo porre la semplice domanda: il Risorgimento fu un successo o un fallimento? .
E possiamo collocare le risposte degli storici fra due in­terpretazioni estreme: quella di Croce e quella di Gramsci (L. Riall, Il Risorgimento).
Di quella di Benedetto Croce, che l'ha svolta soprattutto nella sua Storia d'Italia nel secolo XIX, abbiamo già parlato. Il Risorgimento è il prodotto dell' azione di una minoranza, cer­to, ma della più viva e vitale del paese, che trionfa su una mag­gioranza inerte. Ed è il trionfo dell'idea liberale, che un ceto politico di grande competenza e integrità saprà tradurre nel miracolo dello Stato nazionale italiano. Il successivo collasso dell'Italia liberale non dev'essere posto a carico del modo in cui il Risorgimento fu realizzato, ma del modo in cui fu successivamente tradito dal nazionalismo e dalla guerra, che aprirono la strada al fascismo. Insomma: non c'è nessuna con­nessione causale tra il liberalismo e il fascismo, che ne è l'an­titesi.
Si tratta di una tesi idealistica, nel senso che esalta la capa­cità di mobilitazione morale e culturale delle idee e delle pas­sioni e pone in secondo piano, se non trascura del tutto, l'im­maturità delle condizioni materiali e l'arretratezza delle con­dizioni sociali, rispetto a quelle dei paesi europei piti avanzati.
È, invece, proprio su queste ultime che si fonda la tesi gramsciana della «rivoluzione passiva»: un' espressione mu­tuata da Vicenzo Cuoco, e che esprime al tempo stesso il carattere non originario, ma "importato" dell'idea rivoluzio­naria e la sua incapacità di tradursi nella mobilitazione delle grandi masse popolari: soprattutto, di quelle contadine.
Secondo Gramsci, esisteva un potenziale rivoluzionario che il prevalere delle correnti moderate su quelle democra­tiche, nell' ambito del movimento risorgimentale, impedì di utilizzare. Ciò ebbe conseguenze economiche negative. L'im­mobilizzazione della struttura sociale nelle campagne, conse­guenza della mancata redistribuzione delle terre, ha posto li­miti all'espansione dell'industria, non sorretta dalla doman­da, e non alimentata da un'abbondante offerta di lavoro. Quando, poi, i processi di ristrutturazione agricola promossi dalla concorrenza internazionale hanno provocato l'espulsio­ne dei lavoratori dalle strutture agricole, questi non hanno trovato sufficienti sbocchi nello sviluppo industriale, deter­minando condizioni di disoccupazione strutturale e di ribel­lismo sociale endemico.
Invece di un'alleanza con il mondo contadino, che avreb­be dato impulso a un forte sviluppo economico, e offerto al­la classe dirigente un valido sostegno a politiche di modernizzazione, si è realizzata un'alleanza della borghesia industria­le del Nord con i residui feudali del Sud, i baroni, e con i lo­ro successori della borghesia terriera (i «galantuomini»). Si è formato dunque un blocco agrario-industriale, con due con­seguenze che hanno deviato la storia d'Italia dal percorso de­gli altri grandi paesi capitalistici. La prima, «il prezzo di que­sto compromesso: una permanente spaccatura tra lo Stato e la società civile, caratterizzata da una cronica instabilità po­litica e da un disordine sociale endemico» (Riall). La secon­da: l'esasperazione del già esistente dualismo territoriale tra il Nord e il Sud del paese.
Qui Gramsci innesta la sua diagnosi del più traumatico aspetto dell'unificazione: la questione meridionale. Il Mezzo­giorno è «una grande disgregazione sociale»: nel senso che la società meridionale è costituita da un grande blocco agrario, formato da quattro strati sociali che non stanno in equilibrio stabile: la grande massa contadina amorfa, la classe della pic­cola e media borghesia "intellettuale", i grandi proprietari ter­rieri e i grandi intellettuali. I contadini, in perpetuo fermen­to, nell' assenza di guida politica, sono incapaci di esprimere coerentemente le loro aspirazioni alla proprietà della terra, e diventano facile campo di coltura per i messaggi anarchici di Michail Bakunin, o, più tardi, per la grande insorgenza del brigantaggio. Gli intellettuali ricevono dalla base contadina impulsi che non sono capaci di tradurre positivamente in rifor­me, e che invece avvertono come perpetua minaccia. Sono i due ultimi strati: politicamente, i grandi proprietari; ideolo­gicamente, i grandi intellettuali, come Giustino Fortunato e Benedetto Croce, a dominare questo instabile blocco.
Secondo Croce, dunque, il Risorgimento ha raggiunto i suoi scopi: realizzare un'unità fondata su una salda coscien­za nazionale, e costruire uno Stato che, a confronto con pro­blemi drammatici, è riuscito a realizzare un regime politico liberale e un sistema economico aperto.
Secondo Gramsci, invece, il Risorgimento ha fallito il suo scopo essenziale, di fondare l'unità su una vasta base popolare, determinando un vuoto fra lo Stato e la società, nel qua­le, piu tardi, si è generato il fascismo.
Si può affermare che ambedue le tesi sono vere?

È certo che il Risorgimento ha contribuito decisamente al­la formazione di una coscienza nazionale. C'è una certa esa­gerazione nel presentare, come fa Sergio Romano in Storia d'I­talia dal Risorgimento ai nostri giorni, nell'ambito di un ragio­namento serio e rigoroso, tutto il Risorgimento come «effetto di circostanze impreviste e di opportunistiche adesioni». E quindi, nel sottolineare il bisogno delle classi dominanti che ne uscirono vittoriose, di raffigurare in una narrazione ideo­logica «un'opera nata per caso». Se è vero che le navi inglesi ebbero un ruolo determinante nel facilitare lo sbarco dei ga­ribaldini a Marsala (non solo quelle: anche le esitazioni del co­mandante borbonico che avrebbe dovuto aprire il fuoco!), non è men vero che i garibaldini non erano li per caso. Ciò che è senz' altro vero, è che la narrazione del Risorgimento è un costrutto ideologico (ma quale narrazione rivoluzionaria non lo è ?), che tuttavia nasce da slanci e sentimenti autentici.
Come anche Antonio Labriola ha affermato, in implicito dissenso con l'interpretazione marxista ortodossa, il moven­te degli interessi, ai fini dell'unitarismo, è stato meno forte, per l'Italia, del «culto letterario della propria storia». Il mi­to di una grandezza italiana da recuperare e da rivalutare ha generato una forza piu trascinante di quella dell'interesse eco­nomico. In questo senso, le "gloriose sconfitte" del Risorgi­mento caldo sono state altrettanto propulsive delle battaglie vinte: poche, in verità. In questo senso, è stata quella forza ideale generata dal Risorgimento, e non i carabinieri manda­ti da Cadorna a fucilare i disertori, che ha arginato la scon­fitta di Caporetto, scongiurando il disfacimento del paese e suscitando la grande riscossa del Piave. I miti possono essere altrettanto potenti degli interessi, nel promuovere la storia. Avrebbe mai potuto esserci il Piave, se alla sua fonte non ci fosse stato il Risorgimento? È un fatto che, in quei drammatici momenti, una sinistra che aveva nelle sue mani il paese sottovalutò quella fonte di energia nazionale che si era accu­mulata durante l'epoca creativa del Risorgimento. Ed è un fatto che più tardi, il fascismo l'ha deviata e tradita.
È altrettanto certo che l'esito "sorprendente" del Risorgi­mento, l'unificazione, ha prodotto un'unità debole, incom­pleta. Da più punti di vista: politico, sociale, territoriale.
Com'è stato detto mille volte, l'unificazione si è compiu­ta come conquista, molto più che come liberazione. Certo, anche in Germania, l'unità si è realizzata attorno alla Prus­sia, come in Italia attorno al Piemonte. Ma ben differenti era­no le condizioni dei due paesi: la forza politica e militare del­la Prussia, l'omogeneità culturale e sociale della Germania. È vero che la "piemontesizzazione" amministrativa che ne de­rivò non è imputabile al Risorgimento, ma al governo unita­rio immediatamente successivo. Ma è anche vero che nel Ri­sorgimento la spinta federalista fu debole, sia fra i moderati che fra i democratici. Non si spiega altrimenti la scarsa resi­stenza opposta dalle classi dirigenti degli Stati italiani pre­unitari alla pesante camicia di forza imposta dai primi gover­ni nazionali.
Dal punto di vista economico-sociale, le tesi gramsciane sono state oggetto di forti critiche.
Gramsci, come abbiamo visto, era partito dall' affermazio­ne che esistesse in Italia, nel movimento contadino, un po­tenziale rivoluzionario, e che la borghesia italiana avrebbe potuto giovarsi di quella spinta: economicamente, per effet­to di un aumento della domanda; politicamente, grazie al so­stegno nella lotta comune ai residui feudali, acquistando casi una vera egemonia nazionale. Ambedue le ipotesi sono state contestate. Quanto alla prima, si è sostenuto, da parte di Rosario Romeo, in Risorgimento e capitalismo, che una struttura di proprietà diffusa non avrebbe lasciato margini al­la necessaria accumulazione massiccia di capitali. Ma soprat­tutto, che un potenziale rivoluzionario contadino non esisteva. Il mondo contadino era incapsulato in una condizione di passività, della quale le frequenti rivolte erano piuttosto la conferma che il riscatto. La fame di terre era più forte negli strati della nuova borghesia terriera, i Sedara del Gattopardo, che tra i contadini. La borghesia meridionale era ben lonta­na dal porsi alla testa del movimento contadino, non per di­fetto di "coraggio", ma perché vedeva in quello non una ri­sorsa da egemonizzare, ma un nemico da combattere. I con­tadini facevano molto più paura alla nuova borghesia terriera dei galantuomini, che ai vecchi baroni. E - si può forse ag­giungere - ai contadini erano più intollerabili certe pose mo­derniste e dissacranti dei galantuomini, che quelle autorita­rie ma tradizionaliste dei vecchi aristocratici.
D'altra parte, gli industriali borghesi del Nord erano mol­to più interessati a mantenere saldi rapporti con i mercati este­ri ricchi, che gli assicuravano l'assorbimento delle loro produ­zioni di seta, che non a un ampliamento del mercato interno, comunque modesto. E infine, se anche ci fossero stati, nel Sud, contadini disponibili per la rivoluzione, sarebbe manca­ta «una borghesia compatibile con una siffatta mobilitazione contadina» (Cafagna).
C'è stato anche "a sinistra", qualcuno, come l'anarchico Saverio Merlino, che si è spinto in direzione opposta a quel­la gramsciana, affermando che la borghesia meridionale «en­trò in scena nelle varie fasi del moto risorgimentale essenzial­mente per difendersi o per cercare difesa dai contadini e per sopraffarli».
Queste critiche alla teoria gramsciana sono certamente convincenti.
Ma la verità inoppugnabile della rappresentazione gram­sciana sta comunque in questo: che il mondo contadino, non solo ma soprattutto nel Sud, fu indifferente, o apertamente ostile, al Risorgimento. E ciò contribui a compromettere non il suo esito finale, l'unificazione, ma il modo in cui essa fu realizzata.
 E soprattutto, è convincente l'impostazione che Gramsci dà della «questione meridionale», come parte fondamenta­le della «questione agraria».
Gramsci si pose anche il problema di quale fosse il grado di coscienza del dualismo territoriale, e della questione me­ridionale, nel Nord. Per le masse popolari del Nord, disse, la miseria del Mezzogiorno era inspiegabile. Era opinione lar­gamente diffusa che il Mezzogiorno fosse un paese natural­mente ricco, dotato di grandi risorse, oltre che caldo e radio­so: una specie, come più tardi si disse, di «paradiso abitato da diavoli». Se invece era povero, doveva essere per colpa dei meridionali. E qui fecero presa diretta le teorie "scientifi­che" dei positivisti sull'inferiorità biologica delle genti del Sud. Da Lombroso a Niceforo, da Ferri a Orano, si davano gran da fare a misurare crani e setti nasali, e altro. Le loro te­si influenzarono anche l'opinione, oggi si direbbe, "padana", dei socialisti. Non capivano, dice Gramsci, che l'unità non e­ra avvenuta su una base di eguaglianza, ma di egemonia del Nord sul Mezzogiorno. E qui aveva ragione. Ma aggiunse: ignoravano che «il Nord era concretamente una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che il suo incremento economi­co-industriale era in rapporto diretto con l'impoverimento dell'economia e dell'agricoltura meridionale». E qui sbaglia­va, ricopiando anche lui un pregiudizio. Quest'ultimo, che anche Salvemini a suo tempo sconfessò, è stato contestato in modo particolarmente efficace da Cafagna. Lo sviluppo del Nord fu un fenomeno interamente autonomo. Il Sud non è stata una sorta di aggiogata colonia di sfruttamento, sulle cui miserie il Nord avrebbe costruito la propria fortuna: uno "sga­bello". Al contrario. È stata proprio una "palla di piombo" per il Nord: almeno fino al secondo dopoguerra, quando il Mezzogiorno, rovesciando sul Nord la sua forza di lavoro, ali­mentò il "miracolo italiano".

Prima di concludere sulla domanda cruciale che ci siamo posta, se il Risorgimento sia stato un successo o un fallimento, dobbiamo chiederci se il Risorgimento ci sia veramente stato.
Alcuni valenti storici (vedi la brillante analisi storiografica di Lucy Rial1) contesterebbero le prime righe con le quali si apre questo capitolo: che il Risorgimento sia stato un evento fondativo della storia italiana. Altri, e più rilevanti, sarebbe­ro i momenti della modernizzazione italiana: come, ad esem­pio, la rapida industrializzazione della fine del secolo XIX, o i mutamenti intervenuti nella famiglia. Si obietta anche al qua­dro nazionale scelto per dare conto della storia italiana, che impedirebbe di cogliere prospettive più concretamente cen­trate sull' analisi comparativa delle aree regionali e municipa­li. E, inoltre, si critica il ricorso a categorie astratte, come «classe» e «nazione», sotto le quali si raggruppano, soprattut­to nella saggistica d'ispirazione marxista, fatti, fenomeni e concetti eterogenei.
Lo stesso concetto di Risorgimento si presta a qualche sa­piente operazione "decostruttiva" (come, del resto, ogni de­finizione di carattere generale). Ora, senza entrare nel meri­to dei concreti problemi suscitati da quest' approccio, penso che si debba apprezzare l'impegno di quei seri studiosi che si dedicano a operazioni di restauro storico. Dio solo sa se ce n'è bisogno. Ma c'è anche un rischio. Che il gusto della dis­sacrazione finisca per corrompere la ricerca della verità.
E allora, a furia di temperare la matita, si finisce per di­struggerla. Nel nostro caso, a furia di decostruire il Risorgi­mento come fattore fondativo dell'unità italiana, si finisce per lasciare senza risposta la domanda essenziale: di chi è me­rito, o colpa, l'unità d'Italia? Dopo tutto, quella esiste, e, fi­nora almeno, non è stata decostruita.
Il guaio è che spesso, dopo la demolizione, non restano che le macerie.
Il fatto è che la furia demolitrice, talvolta, nasce da pulsio­ni meno professionali e più ideologiche: da un'iconoclastia partigiana, che è presente spesso nei "vecchi credenti". Quan­do l'impegno revisionista è rivolto con tanta intensità contro gli idola tribus della nostra storia, che si tratti del Risorgimen­to o della Resistenza, sorge il dubbio che lo scopo reale sia quello di buttare la matita, non di temperarla.

Possiamo ora concludere sulla contrapposizione delle due tesi: quella positiva di Croce, quella negativa di Gramsci. An­zitutto, il Risorgimento c'è stato (ricordo la battuta di un gran­de storico, Arnaldo Momigliano, a proposito della disputa "re­visionistica" sulla caduta dell'impero romano: «possiamo fi­nalmente annunciarvi che l'impero romano, effettivamente, è caduto») Inoltre, il Risorgimento è stato un evento storico di grande importanza per questo nostro paese: una civiltà che ha attraversato secoli di grandezza e secoli di decadenza, ma sempre divisa, è stata ricomposta in un soggetto che occupa un posto di prima fila nell'economia mondiale e una posizio­ne politica ragguardevole.
Ma - e qui le considerazioni di Romano sono ineccepibili ­raggiunta, nei modi in cui fu raggiunta l'unificazione, fu evi­dente che non era stata realizzata l'unità. Fatta l'Italia, ci si accorse che non c'erano ancora gli italiani. E ci si diede un gran da fare a forgiarli, gli uni, attraverso l'educazione e le riforme (Spaventa, Sella, Minghetti, Depretis, Giolitti), gli altri (Cri­spi, Mussolini) con la guerra.
C'è bisogno di dire che entrambe le squadre fallirono? I due capitoli seguenti sono dedicati al fallimento, rispettiva­mente, dei liberali e dei nazionalisti. Soprattutto sul punto cruciale della saldatura tra il Nord e il Sud.

Capitolo quinto
LA GUERRA DI REPRESSIONE

Dopo il Risorgimento, al tempo dell'unificazione, negli an­ni Sessanta, l'Italia presentava «i tratti tipici di un'economia povera e sottosviluppata, non molto dissimile da quella di al­tri paesi del Sud e del Levante mediterraneo» (V. Castrono­vo, Storia economica d'Italia). Nel 1871 la popolazione aveva raggiunto i ventisei milioni, con un considerevole aumento rispetto ai diciassette milioni del 1770. Il reddito nazionale era meno di un terzo di quello francese e soltanto un quarto di quello inglese. Non piu del 20,3 % era fornito dall'indu­stria, contro il 57,8 dell'agricoltura. Nel 1861 nemmeno un quinto degli italiani risiedeva in centri superiori ai ventimila abitanti.
La carta moneta era considerata, come disse Cattaneo, uno «spauracchio »; le transazioni erano regolate dalle «buone va­lute d'oro e d'argento».
La rete ferroviaria sommava a poco più di 2000 chilome­tri, rispetto ai 17 000 chilometri dell'Inghilterra e ai 9300 della Francia.
Due terzi degli italiani erano analfabeti.
Segni percepibili d'intraprendenza industriale si manifesta­vano in Piemonte, Lombardia e Toscana, soprattutto nella fi­latura del cotone e della seta, affidate a lavoratori a domici­lio, o a poveri lavoranti ospiti di ricoveri pubblici e religiosi.
Non molto progredita risultava la cultura industriale, se si pensa che, accanto a presenze eccezionali d'imprenditori mo­derni, come quella del giovane conte di Cavour, figurava un Bettino Ricasoli, che considerava l'introduzione delle macchine nei processi produttivi come una buona occasione «di emanciparsi dalla più odiosa delle schiavitù, quella del popo­laccio».
I progressi piu significativi, dal punto di vista della produ­zione per il mercato, si manifestavano nell'industria della se­ta: allevamento dei bachi e trattura, ma anche nella produzio­ne di riso, dei foraggi, del bestiame. Accanto ai proprietari e ai fittavoli, si stava sviluppando un ceto nuovo di periti, sor­veglianti idraulici (<<compari d'acqua»), ingegneri; nonché di impiegati nelle attività consortili e nelle camere di commer­cio: insomma, un brulicare di laboriosa borghesia minuta.
Tutto ciò avveniva nel Nord, e prevalentemente in Lom­bardia. Ben diverse erano le condizioni dell'Italia meridiona­le, dove la sopravvivenza di estesi possessi della nobiltà e del clero, di oneri feudali, di contratti e di metodi produttivi a­nacronistici, come il periodico "riposo" del suolo, pregiudica­va lo sviluppo di un' agricoltura meno povera e più produttiva.
Insomma, il nuovo regno aveva alle spalle un'economia che stava appena uscendo dal torpore al Nord, e vi restava immersa nel Sud.
Politicamente, quella che stava di fronte al nuovo gover­no della destra storica, all'indomani della morte di Cavour, era un'eredità di problemi davvero schiacciante.
Anzitutto, quella che s'imponeva per coronare il Risorgi­mento: il compimento dell'unità, con la liberazione del Vene­to e di Roma. Bisogna dire che fu la più umiliante, per il nuo­vo regno che si presentò al mondo, con due vergognose scon­fitte, una di terra (Custoza, un nome fatale per l'Italia), e una di mare: quella battaglia di Lissa che in qualche modo fu co­munque una vittoria italiana, dal momento che, agli ordini dell'ammiraglio von Tegetthoff, un italofilo che li impartiva in dialetto veneto, erano marinai veneti, friulani, dalmati, co­mandati come si deve.
Il Veneto, l'Italia lo ebbe lo stesso, grazie, ancora, a Na­poleone IlI, che insistette con i prussiani, alleati dell'Italia contro l'Austria, ma vincitori, di mantenere la loro promessa: di costringere 1'Austria a cederlo, nelle mani dello stesso Napoleone, che lo porse all'Italia. Che brutta figura!
Lo stesso Napoleone, invece, fino all'ultimo, impedì ai pie­montesi di strappare Roma al papa, prima fermando Garibal­di a Mentana, con una spedizione armata dei famosi fucili Chassepots (<<les Chassepots ont fait des merveilles», fu il com­mento del comandante francese), e poi piegando gli italiani a garantire la sovranità del papa su Roma. Fu solo grazie a un' al­tra provvidenziale sconfitta, quella di Napoleone a Sedan, che i bersaglieri di Lamarmora entrarono nella città eterna, attraverso una breccia poco gloriosa.
Il secondo grande problema fu conseguenza del primo. Fu il conflitto con la Chiesa cattolica, che privò per decenni il nuovo Stato italiano della partecipazione politica attiva di un' ampia base di cittadini. Bisogna dire che questo fu gesti­to dal governo italiano con una fermezza e con una dignità che ce lo rendono, soprattutto di questi tempi, ammirevole.
Il terzo fu il problema cruciale della costruzione dello Sta­to. E qui, invece, la performance fu letteralmente funesta.
Gli uomini della destra storica, senza ombra di dubbio, era­no integerrimi. Erano anche competenti. Ed erano patrioti. Non gli mancava l'onestà. Gli mancava quel sale della fanta­sia che rendeva Cavour, anche se meno "onesto", più intelli­gentemente creativo. Quella creatività gli aveva permesso di trovare la via d'uscita da situazioni obiettivamente impossi­bili. I governi della destra erano di fronte a una di quelle si­tuazioni. Un'Italia profondamente eterogenea, trovatasi im­provvisamente inclusa in un medesimo destino, era sottopo­sta a fortissime tensioni, che minacciavano di decomporla da un momento all'altro. Essi diedero a quella condizione la ri­sposta più immediatamente disponibile, non la più intelligen­te: una costituzione rigidamente accentratrice, affidata a un gruppo di persone di estrazione etnica e culturale omogenea: un gruppo di piemontesi. Negli anni in cui l'ordinamento uni­tario fu costituito, anche esponenti "piemontesizzati" come Minghetti e Farini, uno toscano e l'altro bolognese, furono rigorosamente esclusi dal potere. Essi erano portatori di quel­le istanze di differenziazione, decentramento, autonomia che avrebbero permesso ai diversi popoli della penisola di costrui­re una convivenza, anziché essere costretti a una disciplina. Cosi, anziché realizzare il minimo comune multiplo, si prete­se d'istituire il massimo comune denominatore: istituzioni omogenee, li dove ciò comportava uno scadimento dell'effi­cienza e dei servizi. Una soluzione obiettivamente stupida.
Ciò che all'interno dell'Italia centrale e settentrionale era un problema divenne, per quanto riguarda i rapporti fra Ita­lia del Nord e Italia meridionale, una tragedia. Ecco la quar­ta sfida, di fronte alla quale il governo del nuovo regno falli clamorosamente.

Il divario originario.
Un comprensibile spirito polemico ha indotto il primo me­ridionalismo italiano, fiorito già alla fine del XIX secolo, ad at­tribuire il dualismo italiano tra Nord e Sud alle politiche se­guite dopo l'unificazione. Ora, per funeste che fossero quelle politiche, e lo constateremo nel seguito, non è dubbia la pre­esistenza del dualismo economico tra le due parti del paese. Senza svalutare i forti richiami dei primi meridionalisti, i Vil­lari, i Franchetti, i Sonnino, i Fortunato, bisogna ridimensio­nare certi giudizi polemici: come quello di Fortunato, secondo cui, seguendo un giudizio di Nitti, «noi (meridionali) eravamo in floridissime condizioni per un risveglio sano e profittevo­le». Lui stesso, però, riconobbe piu tardi che «l'Italia meridio­nale entrò disgraziatamente a far parte del nuovo Regno in con­dizioni assai diverse da quelle che Nitti lascia a credere».
La somma degli squilibri economici esistenti tra Nord e Sud al tempo dell'unificazione è stata valutata in un divario del 15-20% del reddito pro capite.
Quattro regioni del Nord, Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto, con un terzo della popolazione nazionale complessiva, contavano per tre quarti del reddito totale, e cinque se­sti di quello industriale.
L'inferiorità dell' agricoltura meridionale si manifestava attraverso sistemi di coltivazione antiquati, vaste distese pa­ludose e malariche, prevalenza di ordinamenti cerealicolo ­pastorali.
La maggiore densità di addetti all'industria nel Sud rispet­to al Nord si contrapponeva alla minore produttività, dovuta all'insufficiente dimensione e dotazione di capitali delle im­prese, nonché alla scarsa capacità di ricorso al credito.
Una struttura urbana debole e frammentaria si confronta­va con i centri del Nord che, specialmente nelle grandi pia­nure, disponevano di vasti entroterra, con reti di scambio fit­te e articolate.
Ben diverso, infine, era il grado d'inserimento delle due parti dell'economia italiana nella rete internazionale degli scambi, a tutto vantaggio del Nord.
Abbiamo già parlato dell' arretratezza dell' agricoltura me­ridionale, le cui caratteristiche tecniche (mancanza di capita­li, metodi produttivi obsoleti, sistemi gretti e anacronistici di conduzione dei patrimoni fondiari) erano profondamente le­gate a quelle sociali.
Queste ultime si aggravarono quando, con 1'eversione de­gli ordinamenti feudali disposta nel periodo murattiano, va­sti territori appartenenti al clero e alla nobiltà entrarono a far parte del demanio pubblico. Quella avrebbe dovuto esse­re la prima fase di una grande re distribuzione delle terre a vantaggio dei contadini. In effetti, sia pure in termini ridot­ti rispetto alle misure inizialmente predisposte, un' espropria­zione di terre ebbe luogo, ma in forme cosi clamorosamente inique da suscitare un' ondata possente di collera. In primo luogo, alle aste di aggiudicazione si ripresentavano, in forme appena dissimulate, gli stessi proprietari espropriati. Quan­do poi alle aste, svenandosi, i senza-terra riuscivano ad ag­giudicarsi i fondi, essi, mancando dei mezzi necessari alla ge­stione, erano costretti a ricorrere massicciamente all'usura.
Alle prime difficoltà economiche causate da qualche dissesto naturale, i nuovi proprietari, insolventi, erano costretti a ce­dere le loro terre, magari dopo averle dissodate e coltivate a vantaggio degli usurai, che erano o i vecchi proprietari, o ga­lantuomini arricchiti. Ogni cosa rientrava, cosi, nell' ordine sociale.
Siamo nel cuore della «questione agraria». La quale sta, a sua volta, nel cuore di quell'immane tragedia che prese il no­me di «guerra del brigantaggio».

La guerra del brigantaggio.
«Brigante» è concetto spesso associato a quello di «bandi­to». Mentre l'origine di quest'ultima parola è chiara - il de­stinatario di un bando, di un ordine di espulsione -, quello della prima è più indiretto. Certamente deriva da« briga», che a sua volta sembra collegata originariamente con un termine celtico che sta per «lotta», particolarmente vigorosa. Pare sia la stessa etimologia di «brio». Insomma: brigante è un com­battente particolarmente aggressivo, un guerrigliero.
Presente sia in inglese, brigaunt, sia in francese, brigand, in Italia si diffuse particolarmente durante il periodo napoleo­nico. Murat ne riferisce a Napoleone in una relazione: «sono sbarcati, sempre in Calabria, circa 300 briganti che hanno commesso e commettono tuttora indicibili orrori». I France­si usarono il termine in riferimento soprattutto alle bande ca­labresi.
Il brigantaggio si distingue dalla criminalità comune, "pri­vata", per la sua natura politica d'insurrezione collettiva con­tro le istituzioni.
È fenomeno costante della storia di tutti i paesi. A Roma, si distinguevano i latrones, che operavano sulla terraferma, dai praedones, che infestavano il mare; e contro di essi s'im­pegnarono i più famosi condottieri, da Silla a Cesare a Cras­so. Le rivolte assunsero, talvolta, le caratteristiche di vere e proprie rivoluzioni sociali, come quella legata al nome dello schiavo trace Spartaco, che minacciò di travolgere la repub­blica. Nella scia di Spartaco, troviamo nel Medioevo perso­naggi altrettanto famosi, come il toscano Chino di Tacco (XIII secolo), ricordato da Dante nel canto VI del Purgatorio, che concluse le sue audacissime gesta pacificamente, a Roma, sot­to la protezione del papa Bonifacio VIII; e il calabrese Mar­co Berardi, detto re Marcone, del XVI secolo, vero e proprio rivoluzionario comunista ante litteram, cui Filippo II offri il titolo di «re della Sila». Tra la storia e la leggenda sta il mi­tic o Robin Hood, descritto da Walter Scott in Ivanhoe come fedele compagno di Riccardo Cuor di Leone.
Ma il secolo classico del brigantaggio fu l'Ottocento: bri­gantaggio comune, sociale, politico, romantico e spesso tutte queste cose insieme, che esplose con particolare violenza in Italia, in Piemonte come in Romagna, in Sardegna come nel Lazio, e assunse poi, nel Mezzogiorno, le caratteristiche di una vera e propria guerra di repressione.

Il brigantaggio, nel Mezzogiorno, è condizione storicamen­te endemica. Se ne hanno tracce già nel reame di Napoli. Tal­volta, essa si colora di istanze politiche: la lotta contro i Fran­cesi di Murat, contro i Borboni, contro i piemontesi. Alla ba­se, c'è la violenza di un mondo contadino oppresso dalle classi possidenti, in condizioni economiche vicine alla soglia della mera sopravvivenza e in condizioni culturali di fanatica su­perstizione.
L'arrivo dei Mille, e il sorprendente crollo del regno delle Due Sicilie, piombò il Mezzogiorno in uno stato di marasma che ingigantì il fenomeno del brigantaggio, già esploso duran­te il periodo napoleonico. Dapprima 1'arrivo di Garibaldi su­scitò, con la leggenda di liberatore che lo accompagnava, e con certe misure sociali promettenti, le speranze della sola li­berazione che poteva commuovere i sentimenti delle masse contadine: la liberazione dallo stato di servi grazie alla pro­prietà della terra. Si ebbero arruolamenti nelle schiere garibaldine, non solo di giovani intellettuali, ma di braccianti, al­cuni dei quali già ribelli e "briganti", come il più famoso di loro, Carmine Crocco.
La profonda delusione sopravvenuta, prima a causa degli stessi garibaldini (come nel famoso episodio di Bronte, prota­gonista l'irruento Bixio, che massacrò gli insorti), e poi, soprat­tutto, del regime autoritario e vessatorio instaurato dai piemontesi dopo la "conquista", cambiò segno alla rivolta che, a­limentata dal governo borbonico in esilio, assunse in poco tempo impressionanti proporzioni.
La delusione contadina, che Gramsci tradusse nella que­stione agraria», fu accompagnata ed esacerbata da una serie di politiche disastrose da parte del governo piemontese, a par­tire dall'unificazione amministrativa, che comportava per il Sud l'avvento d'istituzioni del tutto estranee alla sua storia; e, per le grandi masse contadine, un netto peggioramento del­le loro condizioni materiali. Anzitutto quanto alle tasse, il cui peso, ingigantito dai bisogni, militari e civili, connessi con l'unificazione, gravò soprattutto sui ceti più poveri, essendo costituito per la massima parte da imposte indirette: sul sa­le, sui tabacchi, sul grano, quest'ultima soprattutto iniqua, la famosa imposta sul macinato, che suscitò rivolte in tutta la penisola.
Inoltre: la coscrizione militare obbligatoria, che in Sicilia non era mai esistita, e che nel resto del regno era realizzata per sorteggio, con la possibilità di farsi sostituire versando una somma di denaro. Essa depauperava le campagne di braccia, e decimava le famiglie per lunghi periodi di doloroso esilio.
Si deve aggiungere un rapporto arduo con i nuovi ammi­nistratori giunti dal Nord, a cominciare dall'incomprensibi­lità della lingua, e dalla diversità delle abitudini e dei com­portamenti.
L'insieme di questi aspetti accentuava il sentimento che prevalse fin dall'immediato domani dell'impresa dei Mille: di un paese non liberato, ma occupato. Questa era la scena che fu investita dalle masse smobilitate di un esercito frustrato. Questo il teatro di un dramma antico, quello del brigantag­gio, che esplose in modo particolarmente violento proprio nel momento storico dell'unificazione del paese.
Dramma antico. Non c'è forse paesaggio più congeniale al brigantaggio del Mezzogiorno interno. Dalle balze della Maiel­la alle foreste della Sila, dalle Dolomiti lucane alle rupi dell' A­spromonte, una terra tormentata comunica alla vista l'inquie­tudine e la tentazione del nascondimento.
È in quel teatro, che esclude le isole e le scarse pianure, che si è svolta la storia più intensa del brigantaggio nell'età moderna, a partire dall'irruzione napoleonica.
Dovette apparire paradossale, all'opinione convenzionale giacobina, che gli eserciti marcianti dietro le insegne della liberazione fossero accolti con tanto furore. Abbiamo ricor­dato quanto poco rassomigliasse alla retorica rivoluzionaria l'armata stracciona e cupida che invase allora l'Italia. Ma ciò che accadde nelle regioni del Sud fu una reazione mol­to più profonda di quella generata dalla dignità offesa e dal­l'indignazione per la roba rubata. Non era solo un regime politico dispotico a essere rovesciato. Era il sostrato cultu­rale con cui quello ancora si identificava, a essere improv­visamente investito.
Ai Francesi di Napoleone, e a Napoleone stesso, quella reazione apparve come una risposta criminale, dettata dall'i­gnoranza e dalla servitù. Furono proprio i Francesi, come ab­biamo detto, a introdurre, allora, la parola briganti.

Chi erano i briganti
Chi erano i briganti? Gente di ogni specie. Giovani impe­tuosi e ribelli scatenati alla rivolta da violenze e ingiustizie su­bite, personaggi stravaganti e lunatici, solitamente presenti fra la gente dei paesi, oppure delinquenti comuni, o anche ideali­sti fanatici. Come il prete brigante, l' «abate maledetto» Ciro Annichiarico, predicatore messianico, condannato per un assassinio motivato da rivalità amorose; evaso, autore di straor­dinarie efferatezze, come quella di dare un suo nemico in pa­sto ai cani, o di appendere il corpo del figlio di un duca alla por­ta della casa paterna. Decapitare, tagliare, squartare era pras­si normale. Anche sottoporre a sevizie le vittime, uomini e donne. Le cronache dei briganti rigurgitano delle loro effera­tezze e modalità di supplizio, come quella di recidere la testa a poco a poco, per prolungare al massimo l'orrore della morte.
La guerra del brigantaggio coinvolse oltre la metà dell'e­sercito italiano, fino a centoventimila uomini. Dalla parte dei "briganti", si mobilitarono quattrocento bande agguerritissi­me, per un numero totale di ottantamila uomini, cui bisogna aggiungere gli informatori, i forni tori di armi e munizioni, gli agenti di collegamento, i procacciatori di viveri, i simpa­tizzanti, le amanti: insomma, tutto il vasto acquario nel qua­le è immerso un esercito partigiano. Dunque, si trattò non di un' operazione di polizia, per quanto imponente, ma di una vera e propria guerra di repressione e di resistenza.
I morti di quella guerra si contano nell'ordine delle deci­ne di migliaia, da una parte e dall'altra. Enormi i danni: in­teri paesi incendiati e distrutti, raccolti dati alle fiamme, man­drie e greggi sterminate, la paralisi economica di vaste zone per lunghi tempi.
In una sola piccola zona, il Melfese, si contarono in un an­no 800 tra furti e rapine, 200 incendi, 350 ricatti, 150 assas­sinii, 130 ferimenti e mutilazioni, 81 stupri.
Le bande erano composte per un terzo almeno da militari borbonici sbandati (e fu letteralmente idiota la decisione di non procedere a una loro assimilazione controllata nel nuovo esercito del regno). In alcuni casi, gli ex militari borbonici si organizzarono in veri e propri reparti, comandati da ufficia­li, come quel Domenico Romano che diventò famoso come «il sergente romano», e che per oltre un anno occupò la zo­na di Gioia del Colle, con le sue truppe guidate da luogo­tenenti dai nomi bizzarri: Pizezicchio, il Capraio, Ciucciariel­lo, Nenna Nenna. C'erano, poi, un certo numero di nobili avventurieri più o meno romantici, accorsi da tutta l'Europa legittimista a so­stenere la causa della fede minacciata, del re di Napoli e del­la sua bella regina, l'intrepida Maria Sofia. Si distinguevano il catalano Josè Borges, il francese Olivier Marie Augustin de Langlais, il prussiano Theodor Klitsche de la Grange e lo spa­gnolo Rafael Tristany, alcuni dei quali ebbero parte impor­tante nei combattimenti e ci rimisero anche la pelle.
Ma soprattutto c'era la massa dei cafoni, dei poveracci, molti dei quali avevano fatto il tifo per Garibaldi e si erano arruolati tra i suoi volontari. Le speranze della terra deluse, il peso delle tasse, e soprattutto la coscrizione obbligatoria, che minacciava di separarli dalla loro terra per essere spediti su fronti e in guerre lontane, li avevano spinti nelle campa­gne, tra i boschi e le montagne, in questa "armata Brancaleo­ne" che si organizzava con l'assistenza degli ufficiali borbo­nici e con le armi e i fondi forniti da Roma, dove i reali di Na­poli si erano rifugiati, sotto la paterna protezione del papa.
I briganti erano, per la maggior parte, assassini feroci, ma circondati, come spesso avviene in questi casi, da un' aura di romanticismo che i più astuti tra loro sapevano animare, al­ternando imprese truculente a gesti cavallereschi. I grandi giornali italiani di Milano, di Torino, e la stampa internazio­nale alimentavano l'attenzione. «L'Illustration» di Parigi usci nel gennaio 1862 con un clamoroso servizio sul brigante Chia­vone. Un giornalista e un fotografo della rivista erano riusci­ti a entrare in contatto, attraverso una vivandiera, con Luigi Alonzi detto Chiavone, nei pressi di Sora, nel Lazio. Lui li aveva ricevuti in una catapecchia, con grande cortesia. A ve­va raccontato la sua vita e si era fatto fotografare in due po­sture: con le ciace e la camicia di flanella alla garibaldina (era un grande ammiratore del generale), e in alta uniforme bor­bonica. A sera, offri ai due invitati una cena principesca, nel corso della quale furono serviti maccheroni, pollo alla Maren­go, agnello all'uvetta, capretto e vitello, il tutto annaffiato da vino d'Abruzzo, Marsala, Moet e acquavite.

Il sostegno della Chiesa.
Bisogna dire che i briganti, oltre a essere sostenuti dalla maggioranza della popolazione, godevano di un manifesto "appoggio morale" da parte delle autorità ecclesiastiche. Sen­tite il caloroso ritratto che del suddetto brigante Chiavone faceva la «Civiltà Cattolica», nel 1864:

A Monteneta la sponda meridionale del Lago di Fucino era cam­po e quartiere di quel Luis Alonsi, per soprannome Chiavone, il qua­le a capo della banda di Realisti, da sé levati e da sé valentissimamen­te condotti, vi si era messo in fortezza; e l'occupava contro le squa­dre volanti dei piemontesi, che indarno gli davano rabbiosissimamente caccia e vi si tenea bravamente; e di continuo vi facea sventolare la bandiera di Napoli, e spesso rimbombare il fragore delle sue scaramuc­ce, e risonare altre si il gioioso grido della vittoria. La notte egli con il nerbo dei suoi, tutti fior di montanari destri gagliardi e animosissimi, ricoglievasi per su quei nidi di falco, insuperabili allo sforzo delle stra­niere soldatesche; e il giorno calavane per fiutarne le orme e tener lo­ro imboscate, e piombare alle spalle, alla coda e alla testa delle loro colonne, e senza posa romperle e tartassarle; o, non incontrandole, per fare vettovaglie nell' abitato; ricevuti sempre con feste e allegrez­ze di popoli che acclamavano, abbracciavano e provvedevano in ab­bondanza quale campione dei sacri diritti del re e della patria, concul­cati dall 'usurpatore.

Del resto, i vescovi delle città che ai briganti riusciva prov­visoriamente di occupare, andavano incontro alle loro schie­re in processione con santi e Madonne, e officiavano il Te Deum in loro onore. Nelle Istruzioni diramate dalla Sacra pe­nitenzieria ai confessori, nel novembre e dicembre 1860, s'in­vitavano apertamente i soldati dell'esercito sabaudo alla di­serzione, «qualora ciò si potesse fare senza pericolo di vita». L'arruolamento nella Guardia nazionale era consentito «so­lo in caso di necessità e a condizione di disertare appena pos­sibile».
Il Comune molisano di Isernia, alla fine di settembre r860, fu occupato da una colonna borbonica costituita da ex galeot- ti fatti uscire dai bagni penali di Ponza e di Ventotene, che si collegarono all'interno della città con gli insorti, guidati dal vescovo Saladino. Il terrore imperversò per giorni. Cittadini furono massacrati a colpi di scure. A uno di essi, sanguinan­te, fu strappato un occhio con un colpo di roncola. Il vesco­vo Saladino, celebrò con un solenne Te Deum l'onomastico di Francesco II. In giro, si vedevano scene raccapriccianti. Uomini impiccati ai lampioni, altri selvaggiamente evirati, ri­volto si che nel luogo ove adesso sorge la villa comunale face­vano ruzzolare le teste di cinque garibaldini, uno scalmanato che intingeva il dito nel sangue di una vittima e lo accostava alle labbra.
Non è il caso d'intrattenersi a narrare quelle gesta, ma so­lo di menzionare il nome di qualcuno di quelli, tra i più fa­mosi, di quest' epopea perversa.
Pietro Corea, calabrese, fucilato dopo una serie di mirabo­lanti imprese: gli furono tagliate la testa e le mani, consegna­te all'ospedale di Catanzaro per studiarne la conformazione anatomica, alla luce della nuova "scienza" dell' antropologia criminale.
I ferocissimi fratelli Cipriano e Giona La Gala, protagoni­sti di sevizie raccapriccianti, come l'uccisione a coltellate in tutte le parti del corpo, con successivo distacco della testa e sua esposizione con una pipa in bocca (10 scherno era parte integrante dello spettacolo).
Michele Caruso, pugliese, che si era presa per compagna la «pacchianella» Mariannina, famosa per la sua bellezza, cui aveva ammazzato il padre.
I paradisi selvaggi della Calabria erano, insieme alle terre lucane, i ripari più densi del brigantaggio. Non era tranquilla la convivenza, all'interno delle bande. Frequenti gli sgarbi, le liti rumorose, i drammi della gelosia e le vendette sanguinose.
Giuseppe Musolino era un calabrese condannato, quan­do aveva ventun anni, a ventun anni di carcere, per un de­litto che sembra non avesse commesso. Latitante, si caricò di delitti autentici, tanto numerosi da meritargli il titolo di «re dell'Aspromonte», con fama di vendicatore dei poveri e degli oppressi. Dopo aver impegnato formazioni dell'eser­cito vanamente, per anni, fu catturato inciampando occa­sionalmente in un cavo (<<pè chillu filo», come disse), e ri­conosciuto, malgrado i suoi dinieghi, per il suo accento ca­labrese, da un certo brigadiere Mattei, padre dell' a noi ben noto Enrico.
Il momento più alto dell'insurrezione fu il raduno a Lago­ pesole dei più illustri fra i briganti, Ninco Nanco, Chiavone, Malacarne, Sacchitiello, Ciucciariello, Coppolone e Crocco: sembrava un teatro dei pupi, ed era un raduno di ferocissimi e grotteschi bravacci. In quell' occasione, Crocco Donatelli fu riconosciuto generalissimo e pronunciò un fremente discor­so: «non si commuove ancora il cielo, non freme la terra, non straripa il mare al cospetto delle infamie commesse ogni gior­no dall'iniquo usurpatore piemontese».
Molti anni più tardi, l'ergastolano Crocco raccontò, in una stupefacente autobiografia, quei giorni di gloria:

Le armi erano fornite segretamente, i cavalli in parte requisiti, in parte avuti in dono. Comitati reazionari con arruolamenti segreti for­nivano l'elemento, onde in breve ebbi ai miei ordini un piccolo eser­cito, del quale n'ebbi regolarmente il comando, quale generale uffi­cialmente nominato e riconosciuto da tutti i centri dipendenti. Pro­mettevo a tutti mari e monti, onori e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza di impadronirsi degli armenti affidati alla loro cu­stodia; ai signorotti decaduti il recupero delle avite ricchezze e la glo­ria degli smantellati castelli, a tutti molto oro e cariche onorifiche. E cosi mentre io facevo servire da puntello al mio potere tutto l'elemen­to infimo ignorante e ambizioso, il clero e i nobili borbonici si servi­vano dell'opera mia per avvantaggiarsi nella reazione. A poco a poco io mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e m'in­golfai in essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria (T. Maiorino, Bri­ganti e brigantesse).

Le gesta della repressione.
Alle gesta dei briganti si contrappongono, specularmente, quelle dei soldati italiani inviati al Sud per schiacciarli. La pu­nizione degli inauditi delitti fu d'inaudita violenza. Ecco una sola breve citazione dal rapporto di Angiolo de Witt, un uf­ficiale incaricato della repressione, dopo la sommossa di Pon­telandolfo:
Fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fece­ro a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari dell' ieri, e quan­do dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scende­re per la via, ivi giunti vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.
Fu una guerra, come scrisse Aurelio Saffi, «sciagurata e in­gloriosa», «durante la quale italiani del Nord e del Sud si co­nobbero attraverso il mirino del fucile» (S. Scarpino, La guer­ra «cajona).».
«Prendeteli vivi o morti, preferibilmente morti»: questa fu la direttiva che il governo trasmise ai bersaglieri, ai lan­cieri, ai carabinieri, impegnati in una guerra spietata.
Circa dieci anni durò questa guerra, più sanguinosa di tut­te quelle dell'Indipendenza. Le bande, a loro completo agio nel loro territorio, si spostavano con rapidità fulminea, com­parivano e scomparivano a sorpresa. Con il minimo di baga­glio (si approvvigionavano sul posto, sostenuti dalla popola­zione), armati del fucile ad avancarica con la bocca a trom­boncino, in grado di sparare non con precisione, ma con effetti micidiali, le loro cariche. Il loro abbigliamento consi­steva il più delle volte in panni di velluto, con cinturone e car­tucciera, il classico cappello a pan di zucchero ornato di na­stri svolazzanti, quando non riuscivano a procurarsi unifor­mi militaresche del vecchio esercito borbonico. Erano in comparabilmente più mobili degli impacciati battaglioni sadogaribaldeschi, ingombrati da zaini grevi, con lenti carriaggi, uniformi sempre pesanti, cannoni difficilmente trasporta­bili tra balze e rupi. Disponevano anche, all'inizio della guer­ra, di un numero maggiore di cavalli. Per lo più analfabeti, comunicavano tra loro a fatica in dialetti reciprocamente incomprensibili, non sempre meridionali. C'erano infatti tra loro romagnoli, maremmani, persino piemontesi.
La loro estrema mobilità gli permise di cogliere nei primi tempi successi notevoli: l'occupazione per più giorni di pae­si, e persino di cittadine, con la minaccia portata a città im­portanti, come Potenza, e persino quella, temuta dall' alto co­mando di Napoli, d'interrompere le linee di comunicazione fra il Tirreno e l'Adriatico. Preferivano, ovviamente, le in­cursioni, ma si misurarono talvolta con i battaglioni regolari in campo aperto, in vere e proprie battaglie campali, grazie alla competenza tattica acquisita da alcuni dei loro capi.
Con il tempo, tuttavia, emersero i loro limiti. Gli aiuti in denaro non bastavano. Gli annunciati sbarchi di truppe au­striache rimasero un miraggio, quelli di volontari stranieri si limitarono ad avventurieri generosi e pittoreschi. L'insoffe­renza di disciplina dei capi, incapaci di sottoporsi a coman­di superiori, l'incostanza dei propositi, e soprattutto la cre­scente pressione dell' esercito italiano, le taglie, le delazioni e i tradimenti finirono per scomporre le bande, e per disper­derle a poco a poco.
L'esercito sabaudo, intanto, si era organizzato, dopo i pri­mi rovesci. Merito del colonnello Pallavicini, quello che af­frontò in quegli anni Garibaldi ad Aspromonte, e del genera­le in capo Cialdini, più efficiente con i briganti che, più tar­di, con gli Austriaci, e spietato al punto da suscitare, inu­tilmente, la reazione di Ricasoli. Furono ristrutturate le for­mazioni, razionalizzate le uniformi, velocizzati i movimenti, rafforzata la cavalleria. Ma soprattutto fu terrorizzata la po­polazione: minacciati, arrestati, spesso torturati, i congiunti, raddoppiate le taglie, grazie a una legge straordinaria, la leg­ge Pica, che sospese ogni garanzia costituzionale.
Alla fine, quando anche lo Stato pontificio smise di svolgere la funzione di sicuro rifugio delle bande, anche prima che Roma cadesse nelle mani dei piemontesi, e che Francesco e Maria Sofia abbandonassero definitivamente l'Italia, si spen­sero a una a una le bande. Ma non cadde la frustrazione.
Per un anno, il 1866, il moto insurrezionale rifiammeggiò in Sicilia, a Palermo, dove fu necessario mandare un corpo di spedizione, malgrado che l'esercito italiano fosse impegna­to sul fronte austriaco. Poi, i contadini meridionali impara­rono a «votare con i piedi», e la lunga guerra di repressione si snodò nella lunga processione degli emigranti da un paese che li rifiutava.
Quella guerra, che la storiografia italiana ha circondato di silenzio (è significativo che nella grande e bella Storia degli ita­liani di Rodolico non ve ne sia neppure un accenno) fu dimen­ticata. Ma lasciò una scia di rancore nel cuore del Mezzogior­no. Consolidò i pregiudizi e alimentò il disprezzo nei senti­menti del Nord verso il Sud.
Sentite q'uel che pensava Nino Bixio della gente del Mez­zogiorno (in Ch. Duggan, La forza del destino):

Che paesi - scriveva nel 1863 alla moglie - si potrebbe chiamar dei veri porcili [ ... ] Prima che questi paesi giungano allo stadio di civiltà in cui siamo noi [ ... ] abbisognano anni e lunghi anni. Non strade, non alberghi, non ospedali, nulla di quanto si vede oggi nella parte meno avanzata dell'Europa: poveri paesi! Quale governo Dio ha permesso s'avessero! Manca loro il senso del giusto e dell'onesto, bugiardi sem­pre, timidi come fanciulli [ ... ] poi inimicizie terribili, e in questo pae­se i nemici e gli avversari si uccidono ma non basta uccidere il nemico bisogna straziarlo [ ... ] Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o spopolare e mandarli in Africa a farsi civili.

Farini scrive a Cavour, nell'ottobre 1860: «Ma amico mio che paesi sono [ ... ] mai questi. Che barbarie. Altro che Ita­lia, questa è Africa».
E Massari, un pugliese che si era rifugiato a Torino dopo la rivoluzione napoletana del r848, invocava per il Mezzo­giorno «una grossa invasione di moralità piemontese per ri­pulire le stalle di Augia della corruzione meridionale».
Massimo d'Azeglio diceva che l'unificazione con Napoli era «come mettersi a letto con un vaioloso», mentre Farini te­meva che il Sud diventasse la cancrena del rimanente Stato, finendo per causare la disgregazione morale dell'Italia.
E Ippolito Nievo: «finora sul Napoletano non vidi che pae­si da far vomito al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari! Dal Tronto a qui ove sono (a Sessa) io farei abbru­ciare vivi tutti gli abitanti: che razza di briganti». E l'altra campana?
Napoleone Colajanni pubblicò nel 1906 questa lettera, che gli era giunta dal Veneto:

[ ... ] se sentisse quassu egregio Professore, le idee della maggioranza sul disgraziato Mezzogiorno! Quanti pregiudizi ci instillano sin dai primi anni di vita! Noi settentrionali, dicono, apparteniamo a una raz­za superiore, siamo onesti, siamo lavoratori, abbiamo in una parola tutte le buone qualità. I meridionali invece, appartenenti a una razza inferiore, ne sono completamente privi. Fu un grave errore, aggiun­gono, quello di Garibaldi di andare a conquistare il Regno delle Due Sicilie perché noi settentrionali dobbiamo pagare le tasse per quei di­sperati del Mezzogiorno che non vogliono lavorare. Laggiu tutto è ma­fia e camorra [ ... ] E creda, egregio Professore, che tali idee non le nu­trono solo i poveri contadini ma anche quasi tutti i rappresentanti del­le classi dette classi colte.

Solo Cavour, che dapprima condivideva opinioni molto si­mili a queste, si espresse sul suo letto di morte con queste pa­role: «io governerò (i popoli del Sud) con la libertà e dimo­strerò ciò che possono far di quel bel paese dieci anni di li­bertà. In venti anni saranno le più ricche province d'Italia. No - aggiungeva - niente stato d'assedio, ve lo raccomando». Proprio in quei giorni, il governo raccomandava alle truppe: «prendeteli vivi o morti: meglio morti che vivi».
Ci fu chi cominciò a dubitare che convenisse lasciar perde­re, rinunciare all'unità. E, tra questi, proprio quel Leopoldo Franchetti cui, insieme con l'amico Sonnino, si deve la prima severa ed esauriente indagine sulle condizioni della Sicilia:

[ ... ] la coesistenza della civiltà siciliana di quella media e superiore in una medesima nazione è incompatibile colla prosperità di questa nazione e, a lungo andare, anche colla sua esistenza, poiché produce de­bolezza tale da esporla ad andare a sfascio al minimo urto datole da fuori. Una di queste due civiltà deve dunque sparire in quelle sue par­ti che sono incompatibili con l'altra.

E, d'altro canto, suona addirittura disperata l'invettiva di Crispi (quando era ancora democratico), rivolta però tutta al Nord, contro l'azione del governo nel Mezzogiorno:

Che ha fatto il governo nazionale per portarvi la civiltà e farci ami­che le popolazioni? Nulla. Si è fatto un lavoro a controsenso [ ... ] Non ti dico le grida le maledizioni le lagrime. Ti dico soltanto che il gover­no italiano è maledetto e odiato. E se ripiglia il brigantaggio, chi avreb­be motivo di dolersene? E se mettono a soqquadro l'unità, oseremmo pure punirli? C'è da perdere la testa; e noi che due volte abbiam fat­to la rivoluzione, dobbiamo riconoscere che cosi tristi sono le opere del governo nato dalla rivoluzione.

Non si può dire che, dopo l'esperienza amarissima del bri­gantaggio, siano mancate in Italia voci, giudizi, indagini, in­chieste che facevano luce sulle condizioni sociali dei contadi­ni del Sud, e del Mezzogiorno in generale. Come accade spes­so in Italia, non mancano i moniti; mancano le conseguenze che se ne dovrebbero ricavare.
Dall' ampia relazione di Giuseppe Massari sul brigantaggio, «uno degli episodi piti tragici e cupi della nostra storia nazio­nale», si trae un giudizio preciso su quelle che il deputato na­poletano chiama le «cause predisponenti», e cioè le condizio­ni sociali delle popolazioni contadine. «Molta gente non sa come fare per lucrarsi la vita. I terrazzani e i cafoni hanno pan di tal qualità che non ne mangerebbero i cani».
T ali condizioni non erano state create certo dal nuovo go­verno piemontese. Erano il frutto di secoli di oppressione, di coltivazione consapevole dell'ignoranza e della superstizione, da parte dei governi napoletani e della Chiesa. Ciò che a pri­ma vista appare stupefacente è che la rabbia e la violenza che tali condizioni generavano esplodessero con la maggiore vio­lenza contro un governo che combatteva i Borboni e contra­stava la Chiesa. Era già avvenuto con l'arrivo dei Francesi, che. erano invasori e stranieri. Sembrava paradossale che av­venisse con gli italiani "liberatori".
In realtà, come abbiamo già visto, gli italiani in tutti i mo­di si comportarono, tranne che come "liberatori". Delusero le speranze delle plebi contadine, per le quali la parola «li­bertà» non aveva altro significato che 1'aspirazione alla terra e alla liberazione dalla fame. Introdussero nuove e più pesan­ti vessazioni fiscali, amministrative, militari. Assunsero fin dall'inizio modi di superiorità sprezzante. Non soltanto ver­so le plebi contadine. Anche verso quella classe di "galantuo­mini" subentrata in parte all'aristocrazia feudale e che, per parte sua, si comportò durante la repressione in modo più che ambiguo.

Capitolo sesto
IL PAESE SI ALLUNGA

Il liberismo sotto accusa.
Quale giudizio conclusivo possiamo dare di quella «tragi­ca e cupa» esperienza? Qualcuno potrebbe essere tentato di accostare la guerra di repressione italiana alla guerra di Seces­sione, che proprio negli stessi anni divampava in America. Ma, a parte le ben diverse dimensioni, si tratta di vicende a parti invertite.
I governi della destra avevano gestito la grande rivolta del Sud come una gigantesca jacquerie.
Nella guerra di Secessione americana, il Nord si era battu­to contro le classi dirigenti del Sud per la liberazione degli schiavi. In Italia, il Nord si era battuto per reprimere gli "schia­vi". Le classi dirigenti del Sud, i galantuomini, che stavano gradatamente sostituendo i baroni, avevano mantenuto, in quella guerra di repressione, un atteggiamento passivo e am­biguo. Alla fine della guerra, si trovavano formalmente dalla parte dei vincitori, anche se non si erano schierati alloro fian­co. Conservavano le loro proprietà e il loro incontrastato do­minio sulla massa dei contadini sconfitti. Ma non avevano al­cuna voce nel governo del paese: alcuna partecipazione al po­tere centrale, che era rigorosamente riservato a piemontesi e "piemontesizzati" .
Sembrava, almeno all'inizio, che le cose potessero andare diversamente sul piano economico. La destra liberale (ma an­che, sostanzialmente, la sinistra) aveva legato la sua politica economica a un modello rigorosamente libero-scambista. Sem­brava che quel tipo di politica favorisse le produzioni agrico­le specializzate: quelle fiorenti al Nord (riso, foraggi, bestia­me) ma anche quelle presenti al Sud: agrumi, vino. Insomma nel suo complesso 1'agricoltura italiana, sia al Nord che al Sud, se la cavava abbastanza bene.
Le cose andavano diversamente per l'industria. A mano a mano che la competizione internazionale si faceva più serra­ta cresceva l'esigenza di rafforzarla con investimenti di beni strumentali che dovevano essere importati. Diventava fon­damentale il ruolo delle banche e si affacciava la domanda di sostegni da parte dello Stato.
Quella domanda aveva già trovato risposta esplicita nel protezionismo americano, e si era già espressa anche nei pae­si europei (Germania soprattutto, ma anche Francia e Au­stria), che inseguivano i livelli di competitività del paese giun­to prima di tutti gli altri nella corsa all'industrializzazione, la Gran Bretagna. Anche in Italia le politiche di incondiziona­to liberismo furono poste in discussione. L'autorevole «Gior­nale degli Economisti» denunciò queste tendenze, ma anche un sostenitore del libero scambio come Luigi Luzzatti, mini­stro del Tesoro e dell'Agricoltura, dichiarò che un'adesione incondizionata alle politiche liberiste lasciava disarmata 1'Italia nei confronti dei paesi più industrializzati. Di ciò erano ben consapevoli gli industriali del Nord, che cominciarono a premere per una revisione di quelle politiche.
Uno dei personaggi più significativi di questo gruppo fu il senatore Alessandro Rossi, titolare a Schio della più grande impresa italiana per la lavorazione della lana pettinata. Criti­co feroce della mentalità conservatrice e paternalistica tipica della provincia veneta, aveva tratto, dalla tradizione cattoli­ca, un approccio moderno ai problemi dell' assistenza sociale, e dall' esperienza diretta americana una concezione innovati­va dello sviluppo industriale. Quell' esperienza, diceva profe­ticamente nel 1883, «pare destinata a tutto l'universo in ric­chezze in popolazione e in ardimento», come scrive Valerio Castronovo nella sua Storia economica d'Italia. Dunque, un misto di produttivismo americano e di solidarismo cattolico, che anticipava le linee di un modello sociale europeo.
Già prima della svolta protezionistica, comunque, una ba­se industriale si era già formata, sia pure in modo frammenta­rio, tra il 1881 e il 1887. L'indice complessivo della produzio­ne tessile segnò un aumento di 36 punti, e quello della produ­zione meccanica di 85 punti. Sempre in quegli anni, la produzione globale dell'industria metallurgica sali dall'indice 100 a 414, quello della chimica a 267, quello della meccanica a 185. Bisogna tuttavia dire che le politiche liberiste non ave­vano impresso all' economia nazionale quel vigore che i loro sostenitori si aspettavano: negli anni Sessanta, il prodotto in­terno lordo era cresciuto in media di non più dell' I % all' an­no, molto meno di quel che era necessario per reggere il pas­so della concorrenza internazionale.

La svolta protezionista.
Dopo un primo ritocco dei dazi nel 1876, si giunse, con la nuova tariffa del 1887, alla svolta protezionistica. Essa inter­venne, però, non tanto a causa delle pressioni industriali, ma soprattutto di una grave crisi dell' agricoltura. La drastica di­minuzione dei costi dei trasporti aveva rovesciato sull'Euro­pa quantità massicce di grano americano e russo, determinan­do il crollo dei prezzi e della produzione. In Italia, le impor­tazioni di grano aumentarono da 1,5 a IO milioni di quintali fra il 1880 e il 1886, i prezzi del grano calarono del 30% e la produzione scese da 51 a 43 milioni di quintali.
Questo tracollo precipitò il passaggio dallibero-scambismo al protezionismo, sempre più insistentemente invocato dagli industriali del Nord, e ora anche dagli agricoltori del Nord e del Sud.
La nuova tariffa elevava in misura notevole i dazi sul gra­no e sullo zucchero e introduceva dazi più o meno rilevanti a favore dell'industria siderurgica, di quella chimica e, in par­te, di quella meccanica. Non fu, però, un espediente tempo­raneo per uscire dalla crisi, ma una storica correzione di rot­ta. Anche se non espressione di un consapevole disegno, ma esito dell'incalzare dei problemi, essa sancì, dal punto di vi­sta economico, la trasformazione dello Stato da un ruolo eco­nomico neutrale a uno di protagonista.
È controverso che la tariffa abbia dato luogo alla costitu­zione di quel blocco agrario industriale che Gramsci denun­ciò definendolo «sciagurato», e che avrebbe saldato un'inte­sa fra imprenditori industriali del Nord e rentiers agrari del Sud: tesi ripresa soprattutto da Emilio Sereni.
In verità, gli industriali del Nord furono i soli e veri vin­citori della partita. I proprietari terrieri, sia al Nord che al Sud, dovettero subire il netto primato dell'industria; e il pro­tezionismo agricolo non fu sufficiente a riportare l'agricoltu­ra a quella posizione di assoluta preminenza nella vita econo­mica del paese che essa aveva detenuto fino ad allora.
Il protezionismo non suscitò però subito, come i suoi pro­motori avevano sperato, un balzo decisivo della produzione industriale, al contrario. La sua introduzione in Italia aveva coinciso con una grave recessione internazionale, cominciata verso la fine degli anni Settanta, che si sarebbe prolungata fin
quasi alla fine del secolo. L'Italia ne fu colpita in pieno. Il reddito nazionale diminuì nel 1892, e rimase sostanzialmen­te fermo fino al 1897. Gli investimenti precipitarono da 1552 a 546 milioni di lire.
Non per questo il protezionismo fu abbandonato.
Le aspre critiche degli economisti liberisti, come Panta­leoni e Pareto, più tardi Einaudi, non fecero breccia nel mon­do politico. Anzitutto, era il capitalismo internazionale a evolvere decisamente verso un' epoca imperialistica, di stret­to intreccio fra potere economico e potere politico, creando un clima del tutto ostile all'ideale del doux commerce di Montesquieu e della libera competizione degli eguali. Inol­tre, se il livello della produzione industriale aveva subito i colpi della recessione, la protezione aveva permesso di rea­lizzare importanti guadagni di produttività, attraverso una razionalizzazione dei metodi produttivi. Ancora, la stessa re­cessione, con la caduta dei noli marittimi, aveva determina­to una caduta del prezzo del carbone, eliminando una grave strozzatura allo sviluppo industriale di un paese importato­re come l'Italia. E infine, anche in Italia, se era discutibile la formazione di un "blocco agrario industriale", era diven­tata concreta quella di un intreccio fra lo Stato e la nascen­te grande industria del Nord. Il sostegno dello Stato a que­st'ultima non si limitava all'aumento delle tariffe doganali, ma si realizzava attraverso il cospicuo flusso delle commesse pubbliche. «Trivellatori» furono definiti ironicamente da Luigi Einaudi i beneficiari di aiuti pubblici: anziché le mi­niere, trivellavano le casse dello Stato. Non si trattava sol­tanto di finanziamenti, ma di vere e proprie imprese comu­ni, come la fondazione della Società altiforni di Terni, crea­ta con il concorso decisivo dello Stato, sotto forma di anti­cipazioni sui contratti stipulati con la Marina per la fornitu­ra di corazze e apparecchiature navali; o la realizzazione del progetto di Vincenzo Breda, di un'impresa metà pubblica e metà privata che trasformò un piccolo centro umbro, lonta­no dalle frontiere e dal mare, in una «città di ferro, acciaio e lignite, animata dalla forza di 6000 cavalli idraulici» (Ca­stronovo).
Si può dire che il protezionismo gettò le basi sia della "ri­voluzione industriale" italiana, sia della corruzione finan­ziaria.

Il salto dell' industrializzazione.
Anzitutto, quanto alla prima, il termine «rivoluzione in­dustriale», che alcuni usarono, è certamente esagerato. Ma il quindicennio "giolittiano" d'inizio del secolo segnò, indub­biamente, una netta cesura rispetto al passato.
Dopo la grande gelata della depressione di fine secolo, l'in­dustria italiana, irrobustita nelle sue strutture produttive, fece appena in tempo a non essere tagliata fuori dal second wind, il vento della nuova alta congiuntura internazionale, che segnò il passaggio a una nuova fase di organizzazione capitalistica.
I progressi furono sorprendenti. Da un saggio di aumento medio annuo di poco più dell' I % negli anni Ottanta, la pro­duzione industriale italiana balzò al 4,3 % nel quindicennio tra il 1896 e il 1910. La quota dell'industria manifatturiera sul prodotto interno lordo sali dal 19,6% del 1895 al 25% del 1910; la manodopera occupata nell'industria da 1275000 a 2 300 000, il 23,7% della popolazione attiva. Forse non era una rivoluzione, il distacco rispetto alle altre grandi econo­mie industriali restava ampio; ma era, nondimeno, una netta cesura rispetto al passato (Castronovo).
In quel quindicennio, emersero le leve del giovane capi­talismo italiano, una nuova classe d'imprenditori che diede vita a delle vere e proprie dinastie: il capitalismo delle gran­di famiglie.
C'erano i figli di ricche famiglie blasonate, che coglievano le nuove occasioni offerte dai dazi protettivi. C'erano i "figli del lavoro" , fattisi avanti dalle file dell' artigianato, dalla schie­ra anonima dei capi operai: i Borsalino, i Rivetti, gli Zegna, gente educata a un codice rigoroso non molto diverso da quel­lo che regolava i rapporti fra proprietari e contadini, fatto di obbedienza silenziosa e di sfruttamento brutale, del tipo descritto da Émile Zola. C'erano tecnici e dirigenti stranieri pro­venienti dalla Svizzera, dalla Germania, dalla Francia (dagli Abegg ai Flick). C'erano rampolli dell'aristocrazia lombarda, come i Visconti di Modrone, o della nobiltà subalpina come Giovanni Agnelli, figlio di un facoltoso possidente ed erede di una dimora signorile in Villar Perosa. Tutti questi segna­vano un marcato distacco dalle prime generazioni di signori, come gli Orlando e i Florio, che consideravano in fondo l'in­dustria come un optional e un arsenale per le ambizioni poli­tiche. Erano industriali professionali: Agnelli appunto, e Pio relli, Guido Donegani, Cesare Pesenti, Ettore Conti, Camil­lo Olivetti, cresciuti in sintonia con le innovazioni tecnolo­giche dell' automobile e della gomma, della chimica di base, del cemento, dell'elettricità e della meccanica di precisione. Gente "moderna", fredda, aliena sia dalle inclinazioni "sadi­che" dei padroni delle ferriere, sia dagli slanci solidaristici e paternalistici che avevano animato gli Alessandro Rossi, o i Crespi, o i Marzotto.
In quel nuovo capitalismo piemontese e lombardo-veneto si coltivavano, come disse Luigi Einaudi, «piti fresche e soli­de energie produttive».

Il risvolto speculativo.
Se questo era 1'aspetto dinamico e moderno del giovane capitalismo italiano, c'era quello torbido e speculativo che fioriva attorno alle banche, promosso dall' afflusso di capita­li esteri, e presto contaminato dall'intreccio con il mondo po­litico e parlamentare. Fu questo che, sempre alla fine del se­colo, minacciò addirittura non solo di sconquassare le gran­di banche, ma di porre in gioco lo stesso assetto politico del paese. Il capitale bancario italiano era restio a promuovere la na­scita di nuove imprese. Guardava con sospetto anche le ri­chieste di finanziamento di imprese solide e affermate. In­somma, era allergico a veri investimenti industriali. Fu inve­ce straordinariamente pronto a gettarsi nella speculazione edilizia. Roma fu la scena di un boom spettacoloso.
La Roma umbertina era «una capitale improvvisata e ba­belica», come scrisse Piero Chiara in Diario del Novecento. Era invasa dai politicanti, presa d'assalto da immigrati e im­piegati, da speculatori e avventurieri. La vecchia città paoli­na, sonnacchiosa e fatiscente, era stata colta da una febbre, da un'eccitazione frenetica. Era diventata la capitale di un paese di ventisei milioni di abitanti, il centro di un mondo al tempo stesso affaccendato e neghittoso: due qualità che solo a Roma convivono.
Mancava di tutte le caratteristiche della capitale di un grande Stato: infrastrutture, servizi pubblici. Niente di com­parabile con le due città italiane che hanno 1'inconfondibile impronta di una capitale: Napoli e Torino. Ma non mancava di traffici. «Affaristi, impresari e speculatori erano accorsi e le avevano conferito quel carattere di inesausta fonte di cor­ruzione che non ha ancora perso nel corso di più di un seco­lo» (Chiara). E soprattutto, non mancava di vita mondana, della quale ci sono state trasmesse le cronache fervide nelle corrispondenze di un fantasioso giovane che si faceva chia­mare Gabriele d'Annunzio: ricevimenti mondani, balli, con­certi, accademie di scherma, prime al teatro Apollo, opere al teatro Costanzi, aste pubbliche, fiere di beneficenza, cerimo­nie religiose, cacce alla volpe e, naturalmente, «fantasmi fem­minili che formavano il tessuto dell'ora gioconda» (G. Bor­ghese in Chiara).
Nel 1870 Roma contava 512 000 abitanti, addensati nel­l'ansa del Tevere. Monumenti e rovine, palazzi e chiese son­tuosi, vie strette e tortuose, una massa di case e casupole ad­densate disordinatamente attorno a rare piazze.
Un'umanità discretamente cenciosa: mendicanti, storpi e pitocchi dappertutto. Dal Rinascimento in poi la città non aveva conosciuto il piccone e la costruzione di opere nuove.
Non furono, però, i piemontesi a mettere le mani sulla città.
Solo pochi anni prima del loro arrivo, fu un prelato belga, Fran­cesco Saverio de Merode, figlio di un ministro ed ex soldato della legione straniera, protetto dal papa Pio IX, sostenuto dai gesuiti e rivale del cardinale Antonelli, a «sventrare» Roma, progettando e realizzando ambiziosi piani urbanistici. Fino al 1865 era stato ministro della Guerra dello Stato pontificio, guidando da Roma le imprese sanfediste dei briganti ciociari; poi, su pressione dei Francesi e con disappunto di Pio IX che lo aveva sempre protetto, abbandonò il governo e si diede alla speculazione immobiliare. Il suo piano era quello di «hau­smaniser Rome»: di ricostruire la città come il prefetto Haus­mann aveva fatto a Parigi, rivoltandola come un guanto. Pro­prio nei cinque anni che precedettero la breccia di porta Pia, aveva cominciato a realizzare i suoi vasti progetti. Acquistò villa Strozzi, sul cui terreno fu edificato il Costanzi, poi tea­tro dell'Opera. Sgombrata 1'area circostante le terme di Dio­cleziano, costruì la stazione di Roma. Svèntrò i quartieri che stavano fra la nuova stazione e il centro della città, aprendo la grande arteria di via Nazionale, che si chiamò, allora, via De Merode. Cominciò a realizzare il grande progetto dei Prati di Castello, portato avanti poi dal Comune di Roma. E continuò a operare come finanziere e imprenditore edile a Roma, sotto il governo italiano, fino al 1874, anno della sua morte. La ri­strutturazione di Roma cominciò, dunque, prima che vi giun­gesse 1'«orda degli speculatori».
Come realtà sociale, Roma era allora un popolo miserabi­le ma assistito, dominato da un' onnipotente gerarchia eccle­siastica. In mezzo, un ceto di «mercanti di campagna», es­senzialmente grandi affittuari dei latifondisti ecclesiastici e aristocratici. Erano noti come «il generone». Dal punto di vi­sta urbanistico, fino a De Merode Roma era ancora quella ri­disegnata da Sisto V. L'80% della proprietà era nelle mani del clero, nelle sue varie articolazioni: cardinali e alti prelati, conventi, congregazioni. Il resto era nelle mani della grande nobiltà.
I "piemontesi" soppressero o espropriarono 134 delle 221 case religiose esistenti, e procedettero all' assegnazione del 10­ro immenso patrimonio. Entro il 1877,1'80% del patrimo­nio era stato liquidato. Per la maggior parte, era stato acqui­stato dai mercanti di campagna, che se ne infischiarono del­la scomunica di Pio IX. I principali proprietari d'immobili nella città restarono comunque le grandi famiglie: gli Ode­scalchi, i Doria Pamphili, i Pallavicini.
Il primo sviluppo urbanistico postunitario fu fortemente condizionato dalle scelte di De Merode: stazione, via Nazio­nale e adiacenze, Prati di Castello. L'altra principale direttri­ce riguardò la sistemazione dei grandi ministeri, lungo 1'asse della "liberazione", da porta Pia al Quirinale (via XX Set­tembre): Finanze, Agricoltura, Guerra. Per tutti gli anni Ot­tanta, Roma divenne un cantiere. La speculazione edilizia as­sunse proporzioni colossali. Bastava comprare aree fabbrica­bili, contraendo prestiti anche ad alto tasso d'interesse, per realizzare in pochi mesi guadagni del 200 e del 300%.
Su questo mercato aureo si costruì la fortuna, e poi si con­sumò la rovina, delle prime grandi banche italiane. Erano pe­santemente coinvolte nella compravendita dei terreni la Ban­ca Tiberina e la Società dell'Esquilino, rispettivamente lega­te a grandi istituti di credito piemontesi. E, soprattutto, la Banca Romana, ex Banca Pontificia, che si era lanciata in una dissennata ridda speculativa.
Il governatore della Banca Romana si chiamava Bernardo Tanlongo. Da giovane era un garzone di fattoria, diventato una spia durante la Repubblica romana: semianalfabeta, ma un vero genio finanziario, salito in auge nella corte pontificia, an­che per certi svaghi non proprio leciti procurati ai monsigno­ri. Rimase al suo posto sotto il nuovo governo, che addirittu­ra lo nominò governatore nel 1881. Era un personaggio pit­toresco. Quando, a settantatre anni, nel gennaio 1893, alle sette del mattino vennero ad arrestarlo nella sua casa di via Gregoriana, non si scompose. «Assiste, in vestaglia, alla per­quisizione del suo appartamento e al sequestro di molte carte, poi si fa accompagnare (ha la gotta) a Regina Coeli nella sua carrozza scoperta, distribuendo sorrisi saluti e sigari al popo­lino che lo applaude» (dal «Corriere della Sera»).
Lo scandalo della Banca Romana, che fu a un passo da tra­volgere governo e Parlamento, nacque nel r889' I prezzi del­le case crollavano, e le banche più coinvolte entravano in crisi. Il ministro dell'Industria Miceli ordinò un'ispezione sul­la situazione delle banche di emissione (allora erano sei, e la Banca Romana era una di quelle). Ne affidò l'incarico a un se­natore e a un alto funzionario del Tesoro. I risultati dell'inda­gine, che era stata considerata di normale amministrazione, furono sconvolgenti. Risultò che il Tanlongo e il cassiere del­la Banca Lazzaroni (respondent saepe nomina... ) avevano fat­to stampare a Londra, da una ditta inglese, biglietti falsi: an­zi, verissimi (la Banca era autorizzata a farlo), ma con il nu­mero di vent' anni prima, felicemente regnante il papa. Si trattava di nove milioni di lire, che servivano sia per coprire ammanchi speculativi, sia per finanziare personaggi politici.
Questa bomba fu tenuta segreta (il ministro si giustificò poi con la motivazione del discredito internazionale che ne sareb­be risultato). Ma il senatore Alvisi, poco prima della sua mor­te, per sgravarsi la coscienza aveva consegnato una copia del­la relazione all' economista Leone Wollemborg, il quale la con­segnò a Maffeo Pantaleoni, che a sua volta la fece avere a Napoleone Colajanni, deputato dell'estrema sinistra. Il 20 di­cembre 1892 Colajanni, in una seduta della Camera, rese pub­blico il contenuto della relazione. L'emozione fu enorme. Ci si chiese subito chi fossero gli uomini politici, cui si alludeva.
Giolitti, allora presidente del Consiglio? Crispi, suo rivale? Tanlongo, arrestato subito dopo, disse ai giudici che tutti i pre­sidenti del Consiglio, dal 1865 in poi, avevano ricevuto soldi.
Giolitti, personalmente implicato, dovette dimettersi e fuggi in Germania, a casa della figlia, nel timore di essere arrestato. Ma prima consegnò alla Camera un dossier, che conteneva documenti compromettenti non solo per Crispi, che avrebbe ricevuto denaro dalla Banca, ma anche per sua moglie, quella Lina Barbagallo, avida di lusso, per la quale aveva abbandona­to la seconda moglie e affrontato l'accusa di bigamia, e che lo tradiva con il maggiordomo, cui erano indirizzate un centinaio di lettere infocate. Giolitti, in quell'occasione, non esitò ad affondare il Parlamento, il paese, e se stesso nella vergogna. Subito dopo il re, anche lui abbondantemente compromesso dallo scandalo (attraverso il ministro della Real Casa) sciolse il Parlamento, indicendo nuove elezioni. Lo scandalo si chiuse vergognosamente, com'era cominciato; con l'assoluzione di Tanlongo e di Lazzaroni dall' accusa di «circolazione abusiva di biglietti di banca». Evidentemente, non era abusiva!
L'Italia sembrò sprofondare sotto lo scandalo. Altre gran­di banche vennero coinvolte. Il direttore del Banco di Napoli Cuciniello fu arrestato, mentre scappava dalla casa dell'aman­te vestito da prete. E qualcuno collegò l'assassinio dell'ex di­rettore del Banco di Sicilia Notarbartolo, di cui parleremo tra poco.
Nonostante la crisi bancaria, l'industria italiana riuscì a reggere l'urto della recessione economica internazionale, che si prolungò fino alla fine del secolo. Ebbe invece effetti scon­volgenti all'interno del paese. «Lo sconquasso fu talmente forte da dare l'impressione che fosse in gioco la stessa sorte del Paese, il suo assetto politico insieme alla stabilità delle istituzioni parlamentari» (Castronovo). L'onda speculativa partita da Roma e da Napoli era stata gonfiata dall'afflusso di un'ingente massa di risparmi, convogliati dalle campagne verso l'investimento nei suoli urbani. Vi avevano contribuito gli uomini della finanza vaticana, le famiglie dell' aristo­crazia nera, le fondazioni e le Opere pie, e un flusso di capi­tali esteri, attratti dal giro della speculazione immobiliare. Tra il 1883 e il r 887, i crediti concessi dalle banche erano raddoppiati. Nel r885 gli investimenti nel settore edilizio avevano raggiunto il 25% del totale. La febbre edilizia calò bruscamente all'inizio degli anni Novanta, con il crollo dei prezzi delle case e dei titoli di società finanziarie e imprese costruttrici, investendo in pieno il sistema bancario. Dopo pochi mesi dalla liquidazione della Banca Romana, caddero i due massimi istituti di credito ordinario, la Banca Genera­le e la Società generale di Credito Ordinario, che pure ave­vano svolto una funzione economica propulsiva, impegnan­do finalmente il risparmio italiano nell'investimento indu­striale. Per fortuna, non tutte le risorse erano state bruciate dalla speculazione edilizia, il che spiega la relativa tenuta del­l'economia italiana. Pure, quelle furono sufficienti per tra­volgere il sistema creditizio, che dovette essere completamen­te ristrutturato. Nel 1893, la fusione di tre banche di emis­sione, la Banca Nazionale del Regno, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito diede vita alla Banca d'Italia, segnando una svolta nella storia della finanza italia­na, concentrando le emissioni, e quindi consentendo una ge­stione unitaria della circolazione monetaria.
Il triangolo industriale.
Mentre si risolveva la crisi bancaria il capitalismo industria­le italiano si concentrava nel Nord: nel triangolo industriale.
Lo sviluppo industriale è uno di quei misteriosi fenomeni cumulativi che crescono su se stessi, come le epidemie. Di quelle, si può stabilire di solito la causa prima. Di questo è molto più difficile, a causa del fitto gioco delle interdipen­denze: le contiguità territoriali (fra Milano e Torino), il livel­lo culturale (15% di analfabeti, contro il 59% nel Sud), ma soprattutto l'apertura di nuove grandi linee di comunicazio­ne. Per Milano fu l'apertura, nel 1882, della linea ferroviaria del Gottardo. Per Genova, quella dei traffici con gli altri por­ti mediterranei. Torino, invece, era cresciuta su se stessa: sul­l'espansione dell' industria automobilistica e metalmeccanica. Questi fattori propulsivi si collegavano tra loro determinan­do sinergie cumulative, che, a loro volta, presentavano impulsi all'espansione di altre attività. Tra i grandi centri mec­canici e siderurgici si stendeva una fascia di piccole e medie industrie tessili, s'infittivano le aziende artigiane e quelle agri­cole, si accumulavano risorse finanziarie che stimolavano la moltiplicazione delle casse di risparmio e delle banche popo­lari. Ai margini del triangolo, poi, si costruiva un' ossatura ro­busta di grossi centri urbani: da Bologna a Piacenza a Parma, da Padova a Verona a Venezia.
L'area del triangolo e le sue propaggini si differenziò rapi­damente da quella del resto del paese, assumendo caratteri­stiche non molto diverse da quelle delle zone più industrial­mente progredite di Francia e Germania, ancora lontane da quelle inglesi e belghe, ma superiori a quelle svizzere, dane­si, olandesi.
L'esplosione industriale si riversò in parte certamente mi­nore, ma significativa, sulle altre regioni del Nord e in To­scana. Non investi neppure marginalmente il Mezzogiorno.
Ne risultò un ampliamento del dualismo tra le due grandi aree del paese. E nacque, dalla constatazione dell' apertura di questa forbice, la convinzione, in alcuni tra i primi "meridio­nalisti", come Nitti e Fortunato, che le fortune del Nord fos­sero dovute allo sfruttamento del Sud. Gli stessi autori di questa tesi hanno in seguito rinunciato a sostenerla. Com'è stato da più parti osservato e documentato, le evoluzioni eco­nomiche delle due aree, fino, si può dire, alla fine dell'ultima guerra, risultano largamente indipendenti. Cafagna, in parti­colare, ha sottolineato la loro «separatezza».
La verità è che il Nord, una volta annesso il Sud politica­mente, ha proseguito per conto suo. Il Mezzogiorno non usu­fruiva dello stimolo fornito dalle più prossime zone industria­li europee. Il suo progresso economico risultava quindi debo­le. Le sue strutture sociali irrigidite. Le condizioni sociali mise­rabili. Queste ultime emersero molto presto con grande evi­denza di fronte al Parlamento italiano, che già nel 1875 dispo­neva la costituzione di una giunta d'inchiesta sulle condizioni sociali e sull' andamento dei pubblici servizi in Sicilia.

La miseria in Sicilia.
Da quella nacquero i due volumi di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino, l'Inchiesta in Sicilia, documentazione dram­matica di un'arretratezza che veniva da lontano. Nel 1812 i governi napoleonici avevano decretato la fine degli ordina­menti feudali, che non erano stati ripristinati dopo la Restau­razione. Ma

[ ... ] quella che era stata fino allora potenza legale, rimase come poten­za o prepotenza di fatto, e il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo e oppresso. Il latifondista restò sempre barone, e non sol­tanto di nome; e nel sentimento generale la posizione del proprietario di fronte al contadino restò quella del feudatario di fronte al vassallo.

Egli considerava ancora la proprietà come espressione in­separabile, quindi inalienabile, della sua dignità e della sua potenza. Anche i "galantuomini", la borghesia terriera subentrata in parte ai baroni, si erano rivestiti della loro supponen­za. Nei riguardi dei contadini, in massima parte braccianti giornatari, non c'era la minima solidarietà. Erano «un puro strumento di guadagno», da sfruttare all'estremo. E questi, a loro volta, non vedevano nel proprietario che qualcuno inteso a «smungere i loro miseri guadagni». Non era povera la terra, ma i metodi con i quali la si coltivava. Essa non da­va meno di otto semenze, più che in Toscana. Ma l'aratro non faceva che scalfirla malamente, con solchi della profondità di un palmo.
I contratti agricoli erano tali che, data la concorrenza reci­proca dei contadini, il loro guadagno non superava lo stretto necessario per vivere. Quanto ai proventi del raccolto, non era­no mai sufficienti a quadrare i conti, per cui bisognava ricor­rere all'usura. Si chiamavano soccorsi e bisognava umiliarsi, in­vocandoli. Con l'odio nel cuore. L'usura rendeva impossibile ogni risparmio: il contadino siciliano era costantemente inde­bitato, verso il padrone o verso estranei. Quelli che per qual- che improbabile caso riuscivano a raggranellare un gruzzolo, non lo investivano certo nel fondo, che era detestato, come il lavoro. Lo usavano per imitare i loro aguzzini, per oziare e pra­ticare l'usura. Anche gli amministratori delle Opere pie prati­cavano l'usura: 25% d'interesse per sette mesi.
Il contadino era tartassato in modo iniquo. Per le bestie che lui usava, muli e cavalli, pagava da 5 a 8 lire, mentre per bovi e vacche il gabellotto o il padrone non pagavano quasi niente. Nel 1874 l'imposta sulle bestie da tiro rendeva in Si­cilia 589 557 lire, quella sul bestiame 146493. Le tasse comu­nali sul consumo gravavano sui contadini per IO 3 3 2 000 lire, a fronte di 2 857 I IO lire della sovrimposta sui terreni.
Qualcuno potrebbe stupirsi. Come mai - ci si domanda­va nell'inchiesta - di fronte a uno sfruttamento cosi feroce, tollerato, talvolta praticato, dalle organizzazioni cattoliche, dalla Chiesa stessa,

[ ... ] il contadino restava ciecamente attaccato alle superstizioni che si ornavano del nome di religione? [ ... ] È che il prete è la sola persona che si occupa di lui con parole di affetto e di carità; che almeno, se non lo aiuta, lo compiange quando soffre; che lo tratta come un uomo e gli parla di una giustizia avvenire per compensarlo delle ingiustizie pre­senti. Nel cuore religioso sta tutta la parte ideale della vita del conta­dino: all'infuori di quella non conosce che fatica, sudori e miseria. Al­la festa religiosa egli deve la sua sola ricchezza: il riposo.
La moderna società laica, non sa che raccomandare a chi ha fame e a chi patisce, di studiare le opere degli economisti per impararvi che tutto quel che è doveva essere. Perciò la Chiesa dominerà sempre sul­le masse; e la fede cieca stupida e superstiziosa prevarrà sulla fede scien­tifica mettendo sempre in forse ogni progresso della civiltà umana.

Non ci si può stupire se in questa condizione disperata, dopo che la repressione aveva schiacciato la risorsa estrema, il brigantaggio, le masse contadine del Mezzogiorno, non potendo lavorare con le mani, abbiano deciso di muoversi con i piedi.

La risposta del Sud: l'emigrazione.
Tra il 1901 e il 1923 emigrarono in America 4 71 1 000 ita­liani. Di questi, 3 374000 provenivano dal Mezzogiorno. L'e­migrazione meridionale era passata dal 13 al 39% di quella italiana complessiva. Si trattava di gente povera e analfabe­ta. A differenza delle correnti migratorie provenienti dal Nord d'Italia, che si erano indirizzate prevalentemente ver­so l'America Latina, assumendo le caratteristiche di una ve­ra e propria colonizzazione, quelle meridionali, costituite in massima parte da contadini, erano destinate ai ranghi del pro­letariato urbano. Si ammassavano nei "bastimenti" per terre assai lontane, in viaggi transoceanici molto meno costosi di quelli ferroviari diretti verso i paesi europei (P. Milza, Storia d)Italia).
Le inchieste condotte dalla Direzione della statistica sulle cause dell' emigrazione distinguono fra i partenti per miseria, assolutamente prevalenti fra gli emigranti del Sud, e quelli «per desiderio di miglior fortuna», prevalenti fra quelli delle regio­ni settentrionali. Pure, nella generale motivazione economica, le cause specifiche dell' emigrazione variano da regione a regio­ne. In Abruzzo e nel Molise, l'indole ardita di pastori abitua­ti da secoli alle transumanze, in Campania l'esasperazione per i patti angarici, i bassi salari, la malaria, le zone sterili della montagna: «se non fosse avvenuta l'emigrazione, - dice un contadino -, si sarebbe fatto a coltellate per vivere». In Pu­glia, la regione a minore intensità migratoria del Mezzogior­no, sono presenti artigiani, contadini affittuari, anche piccoli proprietari, che tendono tutti a tornare, dopo aver raggranel­lato il reddito necessario per campare meglio. La Basilicata dà il piti alto contributo relativo all' emigrazione: nel 1911 la po­polazione si riduce del 3,58%. È soprattutto dalle zone mon­tuose ad alta densità demografica e a basso rendimento agri­colo, che provengono gli emigranti. Ci sono i suona tori ambulanti di Viggiano, che cantano: «l'arpa al collo son viggianese tutto il mondo è il mio paese». Ma il tono di un vecchio di La­gonegro è diverso: «qua non si può vivere. Il Signore non ci manda bene. I terreni sono arsi». E un altro: «qua è l'acer­ba montagna, gli uomini si stancano e la terra non dà niente. La gente va in America. Lasciateli andare». I calabresi, all'i­nizio, furono pio lenti a muoversi, erano pio diffidenti; ma poi cominciarono a partire in massa, a causa anche dei disastri che li colpivano: la fillossera, la mosca olearia, i terremoti. «Per­ché devo restar qui? - dice un giovane di Geracè Marina - qui ho due lire, in America 14. Sarebbe disonesto. - E i proprie­tari? - Sono mali». «Qui - dice un proprietario -, l'emigra­zione è nata come un bisogno, è cresciuta come un desiderio, è diventata un morbo infettivo».
Egli esprime una preoccupazione che non manca di diffondersi, tra le classi possidenti e nel governo stesso.
L'emigrazione, ovviamente, comportava tremendi disagi, materiali e morali. Il dolore profondo del distacco, l'incogni­ta dei rischi, i pericoli di una condizione indifesa, le minac­ce degli interessi stranieri offesi.
Questi innegabili costi furono invocati come motivi per contrastare, anzi per impedire l'emigrazione, ma la pietà c'en­trava poco o niente. La reazione che fin dal primo momento suscitò il moto spontaneo dell' emigrazione fu determinata - e lo si dichiarò con aperta impudicizia dal governo e in Parla­mento - dal fatto che essa «rompeva l'equilibrio esistente nel rapporto tra le classi agricole, provocando una diminuzione della massa di manodopera disponibile nelle campagne e, con­seguentemente, un aumento dei salari e un mutamento del re­gime contrattuale, sfavorevole ai proprietari». Si evidenziava­no anche gli aspetti psicosociali di quella «malaugurata feb­bre»: la svogliatezza del lavoro, l'irriverenza, l'insubordina­zione, oltre al pericolo, per i proprietari, d'insolvenza dei de­biti contratti nei loro confronti.
Di fatto, fin dal manifestarsi delle prime correnti migratorie, la posizione assunta dal governo fu sostanzialmente re­pressiva. Si tentò di contrastare l'attività degli agenti d'emi­grazione, come se essi fossero i principali responsabili del fe­nomeno. E, con circolari, si invitarono i prefetti a impedire 1'emigrazione clandestina e a ostacolare quella lecita.
Ciononostante, la spinta era troppo forte perché si potes­se pensare seriamente di contrastarla. Nell'opinione pubbli­ca, il bracciante disperato e analfabeta «diventò l'eroe di una nuova e pacifica rivoluzione sociale». Diceva Franchetti, in Mezzogiorno e colonie:

[ ... ] mentre si scrivevano libri, si pronunciavano discorsi, si compila­vano leggi per risolvere il problema del Mezzogiorno, i contadini me­ridionali ne iniziavano la soluzione da sé, silenziosamente. Andavano in America, a creare quei capitali che sono pur necessari per feconda­re la terra del loro paese.

Diceva Nitti, come riporta Christopher Duggan, in La forza del destino:

Quel capitale circolante che la borghesia ha vanamente richiesto al­lo Stato mercè sgravi tributari, opere pubbliche, diffusione del credi­to, oggi lo va formando il popolo mercè i risparmi sugli alti salari gua­dagnati all'estero e inviati in patria.

Nel corso di poco più di un secolo, dal 1861 all'inizio de­gli anni Settanta del Novecento, circa ventisette milioni di italiani si sono trasferiti all'estero: più di quelli (venticinque milioni) che hanno cambiato residenza all'interno del paese. Il flusso più forte si è gonfiato tra il 186 I e il 19 I 3, quando da una media di duecento mila l'anno nei due primi decenni, si è passati a trecento mila alla fine del secolo, raggiungendo seicentomila nel 1910, e il picco di ottocentosettantaduemi­la nel 1913, prima dell'interruzione dovuta alla guerra.
Poi l'emigrazione si è spostata verso l'Europa, soprattutto la Francia. Poi ancora, ostacolata negli anni del fascismo, che scoraggia ogni perdita demografica, si riduce negli anni Tren­ta a settantamila unità annue, per interrompersi nuovamente negli anni di guerra. In quegli anni, i movimenti di popolazione si svolgono all'interno del paese. Anche li sono ostaco­lati, ma procedono illegalmente, nella direzione campagna­città. Specie verso Roma e Milano, tra il 1923 e il 1939 si spo­starono in Italia diciotto milioni di persone, più di un milio­ne all'anno, in gran parte all'interno della stessa regione.
L'emigrazione riprende impetuosamente nel secondo do­poguerra, con il paese allo stremo e in condizioni di disoc­cupazione massiccia. La direzione prevalente non è più l'A­merica del Nord, ma i paesi dell' America Latina, e quelli eu­ropei bisognosi di manodopera: Francia, Belgio, Svizzera e Germania occidentale. Nel periodo 1945-50 si contano in me­dia 226000 emigranti all'anno, che nel decennio successivo salgono a poco meno di 300 000. Ma aumentano anche i rim­patri, 132000. Sono i lavoratori italiani che in quegli anni viaggiano per le strade d'Europa. E cominciano a incrociare gli italiani turisti. Il napoletano Troisi, in vacanza, fatica a spiegare di non essere un emigrante.
Si gonfia, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, il flusso dell'emigrazione interna, tutta rivolta dal Sud al Nord, prevalentemente verso il triangolo industriale: circa cinque milioni di italiani nei due decenni. Nel 1971 la quota d'italiani che risiede in un Comune diverso da quello di na­scita supera abbondantemente il 50% .
A poco a poco, il flusso con l'estero s'inverte. L'Italia di­venta meta di una corrente d'immigranti extraeuropei. Il Ve­neto, dimentico di essere stato fino a ieri regione tipica di e­migrazione riceve, non sempre di buon umore, un flusso con­sistente d'immigrati.
Intanto, natalità e mortalità calano. Il paese, rapidamente e mestamente, invecchia. Nelle chiacchiere da treno non si sen­te più la battuta convenzionale: «siamo in troppi». Non ci so­no più madri prolifiche che sfilano "di profilo" di fronte al duce.
Può sembrare inverosimile, ma oggi, in Italia, un ragazzo su tre non ha mai sentito parlare di emigrazione. Secondo un'indagine condotta su 890 giovani tra i r6 e i 24 anni, il32% degli intervistati non sa niente dell'emigrazione italiana. Il 37% che ne sa qualche cosa lo deve alla Tv. Il 22 % ne ha sen­tito parlare da parenti. Il 9% soltanto, a scuola.
Tra quelli che ne sanno qualche cosa, poi, i più credono che la causa dell'emigrazione sia stata la guerra, o il turismo. Qual­cuno pensa che sia stata l'apertura delle frontiere del calcio.

La risposta del Sud: la burocrazia.
La seconda risposta del Mezzogiorno all"'abbandono" fu la sua occupazione dello Stato nel solo modo che gli era pos­sibile: l'invasione burocratica.
Gli uomini della sinistra, giunti al governo, erano in larga parte meridionali. Per la borghesia meridionale costituivano una garanzia non soltanto dei suoi interessi agrari, ma di una consistente partecipazione alle commesse statali collegate ai lavori pubblici. La loro presenza a Roma, nel governo e nel Parlamento, apriva inoltre le porte dell' amministrazione cen­trale alla vasta disoccupazione degli intellettuali meridionali. In pochi anni, si compi una vera ricomposizione della buro­crazia statale. Una burocrazia sempre più numerosa fu larga­mente meridionalizzata. Il risultato fu un crescente distacco dell' amministrazione dal cuore dell'industria, che si svilup­pava soprattutto al Nord, e l'espansione di una burocrazia che era dotata di una prevalente formazione giuridica, ma mancava totalmente di esperienze economiche e industriali. Economia e amministrazione finirono per costituirsi in due mondi separati. La distanza psicologica tra Roma e Milano, tra la capitale politica e quella industriale, rappresentò un gra­ve handicap di rappresentanza e di efficienza rispetto agli al­tri paesi europei dotati di una grande capitale, espressione sintetica delle esperienze e delle competenze nazionali.
Questa meridionalizzazione burocratica ha aggravato il dualismo italiano. Da una parte, ha generato un fatale di sinteresse politico nel Nord. Dall'altra, ha indebolito nel Sud il rapporto fra lo Stato e la società, aprendo un pericoloso vuo­to, che è stato riempito da organizzazioni intermedie e spes­so criminose.
Tra queste si distingue la mafia, anzi, le mafie, centri di potere ramificati in buona parte del territorio meridionale e collegati con grandi reti criminose internazionali. È la terza risposta del Sud all'abbandono.

La risposta del Sud: la mafia.
La mafia è una realtà. Ma è anche un mito. Come tutti i miti, si nutre a un tempo di menzogne e di verità, in un gro­viglio inestricabile. Qui c'interessa non il suo mito storico, consegnato a una sterminata letteratura, narrativa e cinema­tografica, ma quel breve lasso di tempo che associa la mafia con la storia dell'Italia al momento dell'unificazione.
È proprio in quel tempo che le due storie s'incrociano. Am­bedue, ai loro primi passi. La mafia, come fenomeno storica­mente rilevante, non è infatti vicenda remota. È inutile di­sturbare Verre e Cicerone, nell' antichità, e gli Arabi, dai qua­li deriverebbe il suo nome, che starebbe per «protezione dei poveri», né i Vespri siciliani, epica della sicilitudine. Nel suo Saggio sulla pubblica sicurezza in Sicilia, che costituisce la pri­ma fredda indagine conoscitiva di cui disponiamo, Nicolò Turrisi Colonna barone di Buonvicino, di cui non sappiamo bene se fosse solo una vittima o anche un affiliato alla mafia, ne fa risalire l'origine a una ventina d'anni prima, e quindi al­l'epoca del Risorgimento caldo, nel quale in qualche modo sa­rebbe stata coinvolta. Nel confuso contesto dell'Italia preu­nitaria, la mafia sarebbe nata come una delle tante società se­grete costituite sul modello francese e carbonaro: quindi, decisamente antiborbonica (lo stesso barone Turrisi era sta­to uno dei Mille, sbarcato a Marsala per liberare l'isola).
Rapidamente, la nuova formazione sociale aveva abbandonato le suggestioni idealistiche per aderire alla scabra super­ficie di quella società nella quale nessuno può sopravvivere, se non a scapito degli altri. Si era trasformata in una setta ar­mata, provvista di tutti i rituali e i cerimoniali di una setta. Turrisi li aveva descritti, dunque li conosceva. E li tradiva, a suo rischio e pericolo. Aveva parlato del suo codice d'onore, delle sue formule d'iniziazione, e soprattutto del suo rigidis­simo silenzio: di quella legge dell'omertà (in siciliano umirtà, in italiano «umiltà») che, a infrangerla, si andava a morte cer­ta. «Questa setta diabolica - aveva spiegato - considera ogni cittadino che si avvicina a un carabiniere e scambia con lui due o tre parole come uno scellerato che merita la pena di mor­te». Aveva rivelato il rito dell'iniziazione. Il candidato è con­dotto con gli occhi chiusi in un luogo segreto, dove gli viene punto il dito con una spilla, e il suo sangue viene fatto colare sull'immagine di un santino. Egli deve allora giurare fedeltà alla famiglia, mentre l'immagine del santo è bruciata e le ce­neri vengono disperse, allo stesso modo in cui ci si libera di un traditore. Al nuovo accolito viene insegnato come si rico­nosce un suo pari incontrato casualmente. Si deve fingere di avere male ai denti. Il dialogo si svolge pressappoco cosi. «Per il sangue di Cristo, mi fa male un dente», dice uno. «Anche a me», risponde l'altro. E prosegue poi con frasi del tipo: «Quando ha cominciato a farti male? Dove ti trovavi? », ec­cetera. Cosi ci si riconosce e ci s'intende. Viene da ridere.
Ma non c'è niente da ridere. Ogni rito esige che ci si sotto­ponga a una prova di umiliazione, appunto, di omertà. Tutto sta nell' animus di chi lo affronta. C'è chi pensa al supremo rischio della morte e chi alla presidenza di un ente pubblico.
Ciò che conta, in definitiva, è la funzione sociale che la ma­fia si assegnava. E qui c'è stato un grosso fraintendimento. Molti hanno pensato che riti cosi grottescamente arcaici sot­tintendessero la rivalutazione d'istituzioni, di relazioni, di comportamenti sociali altrettanto arcaici: che la mafia fosse rivolta a un passato feudale da ripristinare. Non era e non è cosi. La mafia nasce, nell' età moderna, contemporaneamente allo sviluppo del capitalismo, e ne assume in pieno la logica su­prema dell' accumulazione. Il suo "specifico" è che pone al ser­vizio di quel fine autenticamente moderno metodi di una so­cietà primordiale e violenta. Ed è proprio questa la ragione del suo successo: inserire nel mercato e nel contratto la for­za della sopraffazione. Mettere al servizio del profitto la pau­ra e la violenza. In questo senso si coglie il significato di una definizione che le si addice particolarmente: l'industria della violenza. Altro che doux commerce!
Chi ha inteso la mafia come un rigurgito, una resurrezio­ne d'istituzioni e relazioni "feudalistiche" si è sonoramente sbagliato. Lo sviluppo industriale che, secondo quell'inter­pretazione, avrebbe dovuto travolgerla è stato il suo brodo nutriente.
È proprio negli anni di cui ci stiamo occupando, dell'ulti­mo scorcio del XIX secolo, che si compie in Sicilia quella che potremmo definire una rivoluzione capitalistica mafiosa. Le pendici incantevoli della Conca d'Oro di Palermo, quella «wo die Citronen bluen», dove fioriscono i limoni, e anche gli a­ranci e i cedri e i bergamotti, tutti introdotti all'inizio del se­condo millennio dagli Arabi, hanno visto fiorire proprio in quel tempo il capitalismo mafioso. La produzione intensiva di agrumi era alimentata da un'eccezionale domanda inglese e americana. La marina britannica utilizzava i limoni per com­battere lo scorbuto. Dal r840 erano arrivati nei frutteti di Palermo anche i produttori di tè, avidi di quell'olio di berga­motto che è essenziale per dare aroma alla famosa miscela Earl Grey. I proprietari di quei frutteti erano stati soverchia­ti dalla domanda di migliaia di casse destinate ai porti di Lon­dra o di New York. Ma non furono essi a beneficiarne. Tra loro e i consumatori si era inserita una nuova classe, quella dei gabellotti. I gabellotti avevano cominciato spesso come sorveglianti e custodi di tutta la complessa rete d'intermedia­ri che dovevano assicurare il difficile svolgimento delle fasi della coltivazione, la manutenzione e la raccolta di questa produzione specializzata e delicatissima: campieri, curatoli, fontanieri. L'interesse dei gabellotti consisteva, ovviamente, nel comprare al prezzo più basso possibile dai proprietari, per vendere al più alto agli importatori. Si valevano per questo delle pressioni più persuasive, la minaccia e la violenza, nei riguardi dei proprietari e degli intermediari subalterni, per imporre le loro condizioni e i loro prezzi. A questo scopo si servivano delle cosche mafiose, delle quali non di rado face­vano parte. Non erano pochi i "signori" che finivano per ce­dere le loro proprietà ai gabellotti, che diventavano cosi una nuova classe, una borghesia mafiosa. Non era sempre possi­bile stabilire chi, in questo rapporto, stesse sopra e chi sot­to. I gabellotti avevano bisogno dei mafiosi, e viceversa.
Ciò che è certo è che, in Sicilia e nelle altre zone del Mez­zogiorno, dove attecchirono in tempi diversi organizzazioni di tipo mafioso, come la camorra in Campania, la J ndrangheta in Calabria, la Sacra corona unita in Puglia, lo Stato centrale per­se la sua prerogativa essenziale: il monopolio della forza.
Esso fini, nelle zone nelle quali non era più monopolista, a venire a patti con i poteri rivali. Talvolta, le frequenti for­me di collusione e corruzione di esponenti del potere politi­co - deputati, magistrati, poliziotti - trascendono il malco­stume privato, rivelando una vera e propria "redistribuzio­ne" del potere, tra pubblico e privato.
Questa condizione, della quale abbiamo purtroppo espe­rienza recente e presente, si è manifestata già subito dopo l'u­nificazione, come uno degli episodi più drammatici dell'infil­trazione della mafia nello Stato dimostra: il caso Notarbarto­lo. Come vicenda esemplare dell'intreccio tra mafia e potere politico, abbiamo voluto evocarla rapidamente in un "riqua­dro". Un esempio, purtroppo, non un caso isolato.

Ingiustizia è fatta: il caso Notarbartolo.
Il I° febbraio 1893, Emanuele N otarbartolo marchese di San Giovanni, viene massacrato in treno, fra Termini Imerese e Trabia, da due sicari con ventisette pugnalate, e quindi gettato fuori, sui binari. Era un grande gentiluomo, perso­naggio illustre della destra storica, per tre anni sindaco di Pa­lermo, e per altri quattordici direttore del Banco di Sicilia. Ex garibaldino, godeva di una generale considerazione per la sua integrità morale e la sua competenza, che tuttavia gli erano val­se l'ostilità di affaristi e mafiosi di alto livello. Furono subito accusati il conduttore e il capotreno come complici di assassi­ni ignoti. Ma presto i carabinieri individuarono uno dei due assassini, Giuseppe Fontana, uomo di fiducia di illustri espo­nenti dell' alta società palermitana, tra i quali il principe di Sca­lea, e don Raffaele Palizzolo, autorevolissimo e influente par­lamentare, detto «u Cignu». Il Fontana fu accusato come ese­cutore materiale, e il Palizzolo come mandante. Era la prima volta che un personaggio eccellente veniva coinvolto in un de­litto di mafia. Ne segui una vicenda giudiziaria durata dieci an­ni (in seguito ricordata dal bel romanzo di Sebastiano Vassal­li, Il Cigno), attraverso quattro successivi processi, a Palermo a Milano a Bologna e a Firenze, che rivelò i profondi legami delle istituzioni dello Stato - magistratura, amministrazione, polizia, finanza - con la rete mafiosa e con i poteri economici.
I processi, portati avanti soprattutto dal figlio della vitti­ma, Leopoldo Notarbartolo, con tenace e coraggiosa determi­nazione, furono ritardati, ostacolati, invischiati con ogni mez­zo, a partire dalle eccezioni formali, che servivano, allora co­me oggi, per fare passare il tempo, da parte di giudici e di procuratori. L'indagine dell'ispettore Di Blasi durò sei anni. Il processo di Bologna condannò Palizzolo a trent' anni, ma fu invalidato dalla Corte di cassazione per vizio di forma, e rin­viato a Firenze. Le istanze presentate dalla parte civile - il fi­glio della vittima - ai ministri e ai presidenti del Consiglio, due siciliani, Crispi e Di Rudini, furono ignorate, cosi come le testimonianze dei carabinieri, per esempio quelle di un brin­disi svoltosi nella tenuta di Palizzolo, a Villabate, per celebra­re l'uccisione di Notarbartolo, con la partecipazione del Fon­tana; mentre quelle dei nobiluomini erano prontamente accolte. Per molto tempo don Raffaele, il maggiore sospettato, non fu né interrogato né iscritto nel registro degli indagati: come se non esistesse. Quando finalmente fu trascinato in giu­dizio, ebbe l'impudenza di affermare che tra lui e la vittima c'erano ottimi rapporti, quando tutto il mondo era al corren­te dei loro contrasti sull'amministrazione del Banco di Sici­lia, e delle accuse mosse a don Raffaele da Notarbartolo, di essersi intascato il denaro pubblico destinato ai poveri, dena­ro che era stato obbligato a restituire fino all'ultima lira. Uno degli ispettori di Palermo accusa pubblicamente Di Elasi, il ritardatario, notoriamente creatura di Palizzolo, di avere oc­cultato le prove e di aver spinto le indagini su una falsa pista. Il ministro della Guerra, Giuseppe Mirri, essendo stato capo della pubblica sicurezza di Palermo all' epoca dei fatti, si pre­sentò al processo, e accusò pubblicamente la magistratura cit­tadina «del più grande lassismo ... o addirittura di conniven­za». Si capisce che don Raffaele, appena arrestato, abbia di­chiarato di avere piena fiducia nella giustizia! Il Procurato­re capo di Palermo, il napoletano Vincenzo Cosenza, non esitò a scrivere al ministro dell'Interno che, nei suoi lunghi anni di servizio, «non aveva mai sentito parlare della mafia».
Attorno ai processi del caso Notarbartolo monta l'onda del negativismo più sfacciato e del patriottismo siciliano offeso. Decine di notabili si succedono alla sbarra per difendere il pregiudicato Antonio Giammona dalle accuse che gli sono ri­volte. Il padre della bambina Audrey Withaker, per il seque­stro della quale i Withaker, una delle più ricche famiglie si­ciliane, avevano dovuto sborsare una somma favolosa, nega addirittura che la figlia sia stata sequestrata. Si fonda a Pa­lermo una società che ha per scopo di rivendicare l'onore del­la Sicilia.
La migliore difesa è il diniego. La mafia non esiste. Questa è la convinzione, talvolta espressa in buona fede, da parte di siciliani per bene, com'è il caso del medico e studioso di tra­dizioni popolari Giuseppe Pitrè.
Meno candida è la difesa praticata dai potenti economici dell'isola, come la famiglia Florio. I Florio sono i principali azionisti della più importante compagnia navale italiana, la Navigazione Generale Italiana. Fanno di tutto perché Paliz­zolo non sia processato. Quando finalmente il Parlamento vo­ta la sua decadenza, sostengono la sua candidatura alle ele­zioni del giugno 1900, in modo che egli possa recuperare l'im­munità parlamentare. Il sostegno della Florio è una difesa formidabile. Ignazio Florio junior è un personaggio strava­gante, che si è fatto tatuare sull' avambraccio la sagoma di una donna giapponese, si veste solo a Londra e ha sposato u­na delle donne più eleganti d'Europa, FrancaJona di San Giu­liano: occhi verdi, pelle dorata, musa dannunziana, e, pare, una delle prime adepte della chirurgia estetica. In primavera, Palermo è la meta della nobiltà europea. I Florio la ospitano nella loro incantevole villa posta all'interno del parco dell'O­livuzza, nei giardini della Conca d'Oro. Re e principi, miliar­dari di tutto il mondo vi si ritrovano. Nel 1901 i Florio sono invitati ai funerali della regina Vittoria, insieme ai Withaker. Non però i loro amici Palizzolo e Giammona; o i loro schera­ni Fontana e Filippello. Quest'ultimo è il secondo dei massa­cratori del povero Notarbartolo, scovato proprio verso la fi­ne dell'ultimo processo dai carabinieri. Per un momento, sem­bra che la difesa di Palizzolo stia per crollare. Ma la macchina della mafia non si fa sorprendere. Una mattina trovano Filip­pello che pende da una forca. Sentenza immediata: suicidio.
Alla fine, la vicenda Notarbartolo si chiude. Il 23 luglio 1904 i giudici di Firenze assolvono lui e il suo complice Fon­tana, l'unico dei due assassini che è ancora in vita. A Palermo si celebra un trionfo. Viene addirittura rimandata la festa del Carmine perché Palizzolo, il nuovo eroe, abbia il tempo di tor­nare per partecipare alle celebrazioni. Al suo rientro trova la casa illuminata e inghirlandata, con scritte «viva Palizzolo». Un'altra scritta dice: «E trionfò, Raffaele Palizzolo, circonfu­so della smagliante aureola del suo dolore e della sua virtù». Il giovane Notarbartolo trovò pochi amici a riceverlo. Aveva combattuto con ostinazione e con coraggio. Per pagare gli enormi costi del processo dovette vendere la tenuta-modello trasmessagli dal padre, la Mendolilla. Lui, si, era un uomo d'onore.

Il Mezzogiorno si allontana.
Le "risposte" che abbiamo rapidamente esaminato non erano valse a ridurre il dualismo, avevano, anzi, contribuito ad accentuarlo. Nei decenni successivi all'unificazione, il pae­se lungo si allungò.
Le condizioni che determinano il ristagno economico so­no cumulative, come quelle che promuovono lo sviluppo. Si tratta di avvitamenti reciproci di fattori che generano una condizione bloccata.
È cosi che si presenta il Mezzogiorno alla fine del secolo scorso, in un vivido ritratto di Ettore Ciccotti (contenuto nel saggio di Rosario Villari, Il Sud nella storia d'Italia), dal qua­le emergono gli aspetti caratteristici di una società irrigidita.
La scarsità di zone irrigue, a causa delle lunghe secche, in­terrotte da piene devastanti. L'ipertrofia delle grandi città: poche e congestionate. L'inerte struttura del latifondo

[ ... ] che non solo perdura ma si fa più triste, più desolato; deserto de­gli stessi animali che lo brucavano, di quelli stessi animali umani che lo raspavano. Come in una rogna malvagia crescono e si spandono su di esso le ortiche e i cardi e il mostro, torpido come un idiota, inerte come un paralitico, si crogiola al sole aspettando qualche cosa che lo snodi, che lo faccia rinverdire e fiorire di orti, di piante.
L'assenza di stimoli alla conoscenza e quindi alla intrapresa e quin­di alla mancanza di nuove imprese e quindi il dirottamento dei rispar­mi verso l'usura e la speculazione, che inclina al parassitismo scorag­giando la conoscenza e l'azione e quindi [ ... ] l'assenza di cooperazio­ne che isola gli uomini gli uni dagli altri come i loro borghi rifugiatisi sulle cime dei monti, divisi da torrenti non guadabili. E l'estensione delle zone malariche che rende gli uomini torpidi alla bonifica.

Ciò che è misterioso è il perché certe difficoltà che in cer­ti tempi e luoghi agiscono come sfide, provocando una risposta vitale, in certi altri si stratificano, determinando una con­dizione irreversibile.
Il quadro che il Mezzogiorno presenta alla fine dell' Otto­cento è quello di una zona che ha superato la soglia del rista­gno. Ed è quasi sorprendente che l'autore concluda con una nota di speranza:

[ ... ] i bei seni lunati del mare sereno, gli aranceti, gli aridi declivi che, quasi esempio e rampogna, si andavano in qualche punto coprendo di ulivi, mi riconciliarono con propositi più lieti e mi dicevano che la na­tura non può aver fatto un paradiso perché gli uomini vi mantengano un inferno.

Quella speranza di riscatto non fu assente dalla consa­pevolezza dei politici contemporanei, e ispirò due tipi ben di­versi di politiche dirette ad affrontare il problema dell' arre­tratezza meridionale: la prima, economica e pacifica, la secon­da, politica e aggressiva. L'Italia liberale esitò fra queste due strategie: quella delle cosiddette leggi speciali e quella delle conquiste coloniali.
Tra il 1904 e il 1906 furono emanate successivamente leg­gi per la Basilicata, per Napoli e per la Calabria. Esse stan­ziavano fondi, per l'epoca rilevanti: e forse non meritavano le severe critiche, ricorrenti nella polemica politica italiana, alla sempiterna insegna del «ci vuoI altro». Su un punto quel­le critiche coglievano il segno: come alcuni autori (Fortuna­to, De Viti De Marco) rilevarono, era manifesta la "specia­lità" di quelle leggi, anzi la loro contraddittorietà, rispetto agli indirizzi generali della politica economica, specie in ma­teria fiscale e doganale, orientate in senso contrario rispetto agli interessi del Sud.
Un approccio tutt'affatto diverso era quello che propone­va, per un Mezzogiorno «sovrapopolato», la prospettiva del­la colonizzazione: come poi si disse, <<un posto al sole».
Conosciamo gli esiti infausti di questa strategia. L'avven­tura cominciata con la strage di Dogali, finita con il disastro di Adua, travolse il governo Crispi. La stessa avventura fu ripresa da Giolitti piu di dieci anni dopo, con la conquista li­bica, questa volta andata a segno militarmente, ma economi­camente in netto passivo. Fu fin dall'inizio manifesto quan­to fossero fondate le critiche alla rappresentazione bugiarda della ricchezza e della fertilità dello «scatolone di sabbia», e quale costo derivasse proprio al Mezzogiorno da quella scon­siderata avventura.
Come vedremo nel prossimo capitolo, la soluzione "impe­rialistica" al problema meridionale fu ripresa in grande stile, e con esiti ancora più catastrofici, dal fascismo; e nel capitolo successivo ci occuperemo del modo in cui la Repubblica fron­teggiò il problema, con la strategia dell'intervento straordina­rio; e delle ragioni per le quali questa grande strategia di svi­luppo si è degradata in un regime di "colonizzazione interna".

Parte terza
L’UNITA’ MINACCIATA

Capitolo primo
NAZIONALISMO E FASCISMO

Potremmo definire la storia dell'Europa nella prima metà dell'Ottocento come l' «età britannica». In quel periodo il ca­pitalismo ha investito solo la Gran Bretagna, oltre a certe zo­ne circoscritte dell'Europa continentale e dell' America del Nord. L'Inghilterra dominava nettamente l'economia mon­diale. Il quadro cambia in profondità nella seconda parte del secolo. Da un lato, il ritmo generale dell'economia rallenta. La crisi agricola apre una lunga fase di depressione mondia­le dei prezzi e della produzione, che durerà fino alla fine del secolo. Dall' altro, il capitalismo si estende a tutto lo spazio europeo, nonché agli Stati Uniti e al Giappone, in una prima globalizzazione caratterizzata da mutamenti strutturali: l'av­vento di un nuovo ciclo d'innovazioni tecnologiche (chimi­ca, elettricità, petrolio), rispetto al ciclo precedente del car­bone e del ferro; l'aumento delle dimensioni e della comples­sità delle imprese; l'integrazione fra industrie e banche e lo sviluppo di un capitalismo finanziario; il ruolo di protezio­ne e promozione del capitalismo nazionale assunto dagli Sta­ti, con il conseguente emergere delle grandi potenze; un rie­quilibrio tra le potenze originarie, Inghilterra e Francia, e le più recenti, Germania e Stati Uniti; una nuova ondata di co­lonizzazione, con una vera e propria spartizione del mondo fra le grandi potenze europee; l'affermazione del movimen­to operaio.
Trionfo della borghesia, imperialismo. Le due definizioni di questa nuova fase si riferiscono, rispettivamente, alla sua struttura sociale e a quella economico-politica. Nell'insieme essa segna in Europa un' attenuazione del conflitto sociale e un inasprimento del conflitto nazionale.

Il movimento operaio si afferma e si organizza dappertut­to nelle forme economiche del sindacato e in quelle politiche del partito. Prevalgono al suo interno, sulle spinte rivoluzio­narie, le politiche riformiste. Ciò si deve alla maturazione isti­tuzionale del movimento, che diventa capace di esprimere le sue rivendicazioni non in promesse remote, ma in riforme concrete; e alla capacità di un capitalismo sviluppato di offri­re spazio alle richieste operaie attraverso riforme sociali, per quanto ancora limitate, grazie all' aumento della produttività: ciò che Marx non aveva previsto. Questa via fu seguita con particolare lungimiranza dalla Germania, ove Bismarck rea­lizzò una forma antesignana di Stato sociale (Wohlfahrtstaat), introducendo assicurazioni contro la vecchiaia e !'invalidità. In Francia e in Inghilterra si preferi ricorrere alle risorse del­lo sfruttamento coloniale, coinvolgendovi in varie forme i la­voratori della madrepatria.
Né la prima né la seconda di queste strategie era disponi­bile in Italia: troppo limitato, ancora, lo sviluppo capitalisti­co, troppo esigue le economie di colonie povere che, anziché provvedere, esigevano risorse necessarie alla loro difesa.

Lo sfortunato ritardatario.
«Apparentemente, l'avvento di una nazione italiana uni­ta aveva introdotto un grande cambiamento nell' equilibrio europeo», come scrive Paul Kennedy in Ascesa e declino del­le grandi potenze. Invece di un'accozzaglia di piccoli Stati ri­vali, vi era ora un blocco di trenta milioni di persone, poco meno dei Francesi. Esercito e marina italiani, messi alla pro­va, non avevano certo brillato. Ma per numero il primo, per tonnellaggio la seconda, costituivano entità ragguardevoli: ri­spettivamente al sesto e al quinto posto della graduatoria mondiale. Diplomaticamente l'Italia, del resto, era riconosciuta come paese nella cui capitale bisognava mantenere un' amba­sciata permanente, come nelle altre sei: Londra, Parigi, Ber­lino, Pietroburgo, Vienna e Costantinopoli. Era dunque una potenza, anche se non delle più affidabili. Conveniva, comun­que, non averla contro.
Soffriva, però, di gravi ritardi. Alla sua grande storia let­teraria non corrispondeva un livello d'istruzione popolare sod­disfacente: per poco meno della metà, gli italiani erano anal­fabeti. E da questo punto di vista, come da tutti gli altri si­gnificativi del suo livello civile, il suo Mezzogiorno restava molto più indietro.
In particolare, per quanto riguarda l'economia, la produ­zione e la ricchezza nazionale pro capite erano paragonabili più alle società contadine iberiche e a quelle dell'Est europeo, che all'Olanda o alla Westfalia (Kennedy). Il confronto sareb­be stato molto più sfavorevole se centinaia di migliaia di ita­liani (di solito i più attivi e abili) non fossero ogni anno emi­grati dall' altra parte dell' Atlantico. Secondo la definizione da­ta da un economista, l'Italia era «uno sfortunato ritardatario». È vero che, come abbiamo visto, nel quindicennio giolittiano l'economia italiana aveva compiuto grandi passi avanti. Ma il livello da cui era partita era talmente basso, da rendere com­parativamente modesti i risultati. Tanto per fare un esempio, la sua produzione siderurgica, ancora nel 19 I 3, era un ottavo di quella britannica, e un diciassettesimo di quella tedesca. Il suo contributo alla produzione industriale mondiale era pari al 2,4%. Inghilterra e Germania la superavano di sei volte, gli Stati Uniti di tredici.
In tali condizioni l'Italia non disponeva di grandi margi­ni da offrire ai bisogni estremi dei suoi operai e dei suoi con­tadini. La sua arretratezza acuiva, pertanto, il conflitto so­ciale. Lo rendeva aspro ed elementare. Sia al Sud che al Nord.

I Fasci siciliani.
In Sicilia, le condizioni economiche dei contadini provo­carono, negli anni Novanta, un'esplosione. Il movimento dei Fasci siciliani, tuttavia, assunse forme molto diverse da quel­le del brigantaggio degli anni Settanta. Esso fu, sin dall'ini­zio, l'espressione di un' aperta e moderna opposizione socia­le e politica.
Abbiamo ricordato le condizioni miserabili degli operai e dei contadini al momento dell'unificazione. Negli anni No­vanta, esplosero in veri e propri movimenti rivoluzionari, in Lunigiana, in Romagna, e soprattutto in Sicilia.
Dall'unificazione in poi, le condizioni economiche dei con­tadini siciliani erano peggiorate, anche rispetto al resto del Mezzogiorno. La storia dell'isola ha ritmi e caratteristiche par­ticolari, diversi da quelli continentali. Cosi avvenne per quel­la che abbiamo definito la guerra di repressione, che infuriò con particolare violenza nel Mezzogiorno continentale, e con intensità minore nell'isola. Ai diversi tempi e modi di reazio­ne della Sicilia ha contribuito probabilmente la storica ostilità verso Napoli e il suo regno, che escludeva le nostalgie legitti­miste che erano invece legate al movimento del brigantaggio. I contadini siciliani, al contrario, avevano accolto l'irruzione garibaldina con grandi speranze, immediatamente e ama­ramente deluse. La delusione non si era, però, tradotta in for­me socialmente arretrate e politicamente reazionarie.
Il peggioramento della condizione contadina era dovuto, in Sicilia, alla prevalenza delle proprietà latifondiste. I latifon­di non erano stati intaccati dalle leggi murattiane di eversio­ne della feudalità. Quelle avevano abolito forme e vincoli giu­ridicamente vetusti, ma non avevano intaccato le strutture economiche e sociali. Non c'era stata alcuna redistribuzione di terre, e nessuna formazione di una nuova classe di piccoli proprietari di estrazione contadina. C'era stata una ristruttu­razione della classe dominante. Molti grandi proprietari di origine feudale avevano da tempo cessato di occuparsi diret­tamente delle loro terre, affidandole a intermediari, che pa­gavano ai proprietari assenteisti una gabella, una specie di fit­to: di qui il nome di «gabellotti». A loro volta, i gabellotti non lavoravano la terra direttamente, ma l'affidavano ai contadi­ni, quelli che lavoravano e sfacchinavano sul serio, in base a un rapporto contrattuale di mezzadria (si chiamava in Sicilia mesenteria) o di affitto (si chiamava testatico). Questi patti a­grari erano quasi sempre verbali, e si può capire quanto pe­sassero su di essi i concreti rapporti di forza tra i gabellotti "galantuomini" e i contadini: braccianti, affittuari, mezzadri. Una particolarità specifica della Sicilia -lo abbiamo visto nel capitolo precedente - era che, sia la determinazione delle ga­belle, che quella dei patti agrari, erano sottoposte al control­lo di una consorteria, la mafia, che traeva lucro dalle due par­ti, e le "garantiva", usando le intimidazioni e la violenza. In altri termini, in Sicilia, la mafia svolgeva le funzioni che so­no normalmente svolte dal mercato e dallo Stato.
Tale sistema gravava tutto sulle spalle del contadino, che era sottoposto a tre tipi di rendita: quella del proprietario, quella del gabellotto, e quella del mafioso.
A questo sistema di sopraffazione privata si sommava il peso pubblico delle tasse, che i piemontesi avevano notevol­mente aggravato, e quello della coscrizione obbligatoria che la Sicilia, storicamente, non aveva mai conosciuto.
Infine, proprio in quegli anni, l'agricoltura era stata colpi­ta dalla crisi internazionale, aggravata in Italia dall'adozione della tariffa protezionistica, e dalle conseguenze della guerra commerciale con la Francia, particolarmente disastrose nel­l'isola per le esportazioni dei vini da taglio.
Ce n'era abbastanza per accumulare un enorme potenzia­le di rabbia disperata. Queste tensioni esistevano anche in al­tre regioni d'Italia: la Romagna, la Lunigiana, dove esplosero negli anni Novanta, in una serie di rivolte violente e san­guinose. Ma in Sicilia assunsero aspetti di particolare esten­sione e intensità, non come manifestazioni sporadiche, ma come componenti di un grande movimento di massa: quello dei Fasci siciliani.
Non fu però nelle campagne, ma nelle città, che si forma­rono i primi Fasci, organizzazioni collettive militanti: a Mes­sina, a Catania, poi a Palermo. Essi assunsero subito conno­tati apertamente politici. Erano formati da operai e intellet­tuali che professavano esplicitamente idee socialiste. Ma la loro caratteristica specifica, rispetto al socialismo nordico, e­ra la loro attenzione e solidarietà verso i problemi del mondo contadino: lo stato miserevole dei braccianti, lo sfruttamen­to dei gabellotti, la prepotenza mafiosa. All'inizio, il movi­mento fu guidato e controllato da militanti socialisti, che l'or­ganizzarono nel quadro del nuovo Partito dei lavoratori ita­liani, quello fondato a Genova, nel r892, come Partito so­cialista, e al quale i rappresentanti dei Fasci siciliani inviaro­no i loro delegati.
Cominciarono agitazioni, manifestazioni, scioperi contro il carovita, che presto si trasmisero dalle città alle campagne. Un momento di svolta fu la strage di Caltavaturo. Alla sua origine vi era il mancato indennizzo dei contadini per la perdita degli usi civici (comuni) nel latifondo del duca di Fer­randina (seimila ettari). Il padrone si era deciso a concedere al Comune una parte delle sue terre, a compenso degli usi ci­vici di cui si era appropriato. Gli amministratori, invece di ri­partire queste terre fra i contadini espropriati, li concessero in "gabella" a dei prestanome di galantuomini. Cinquecento contadini, indignati per quest'usurpazione, all'alba del 20 gennaio r893, occuparono alcune terre di proprietà comuna­le, e cominciarono a lavorarle: uno sciopero bianco. Mentre stavano zappando, sopraggiunsero i soldati, e i contadini tor­narono al paese a manifestare sotto il municipio, chiedendo di parlare con il sindaco, che però si rese irreperibile. Torna­rono allora a rioccupare le terre, ma trovarono di nuovo la strada sbarrata dalle truppe. D'un tratto, senza alcun preav­viso (squilli di tromba o altro), si rovesciò sulla folla una sca­rica di fucileria, che uccise undici uomini e ne feri quaranta. La notizia percorse tutta l'isola, provocando dappertutto la formazione di nuovi Fasci. In un anno ne nacquero novanta, alcuni dei quali molto numerosi e, fatto davvero eccezionale, con una larga partecipazione femminile: a Piana dei Greci, per esempio, duemilacinquecento uomini e mille donne. E­sprimevano le loro rivendicazioni con grandi manifestazioni pubbliche, ma in forma pacifica. Chiedevano aumenti dei mi­seri salari per i braccianti, la divisione dei beni demaniali, l' af­fitto diretto, con l'eliminazione dei gabellotti.
Nel r894, secondo i socialisti che dappertutto avevano as­sunto un ruolo protagonista del movimento, i «fascianti» (si chiamavano cosi) avevano raggiunto le 300000 persone. Il governo, invece, aveva stimato in 70553 gli iscritti ai Fasci, uomini e donne. Gli scioperi si estesero, e con essi l'allarme nelle classi superiori, baroni e gabellotti, che cominciarono a reclutare" campieri" e a ricorrere alla mafia, per adeguate con­tromisure. Furono esercitate pressioni e minacce. A Bernar­dino Verro, uno dei maggiori capi, furono offerte r5 000 li­re e l'alternativa di una fucilata. Ma l'onda cresceva. E con essa, l'entusiasmo popolare. Nei cortei, che assumevano toni religiosi, apparivano le immagini e gli stendardi di santi e di Madonne. A Corleone, in un raduno di tutti i Fasci dell'iso­la, si formulò una specie di programma, che conteneva le principali rivendicazioni del movimento. C'erano i primi ca­si di cedimento di proprietari, o gabellotti che accettavano di venire a patti. Nell'insieme, però, questi, e soprattutto i sin­daci, che non erano eletti ma nominati, e di solito pienamen­te solidali con i padroni, esercitarono pressioni sul governo centrale, perché inviasse truppe con direttive perentorie di repressione violenta.
A questo punto, accadde qualche cosa d'inatteso. Il Parti­to socialista, che era stato non solo solidale, ma promotore del movimento (aveva tenuto due congressi a Palermo, e formato una delegazione dei Fasci al congresso nazionale di Genova), prese pubblicamente le distanze da un movimento che, secon­do gli osservanti dell'ortodossia marxista, riformisti o massimalisti indistintamente, aveva assunto tendenze anarchiche o piccolo-borghesi. Era giusto - diceva - sostenere le rivendica­zioni dei braccianti proletari, ma non bisognava condividere le istanze dei contadini che aspiravano alla proprietà privata (mezzo secolo piti tardi, Stalin li avrebbe definiti kulaki). Que­sta posizione, stupidamente intransigente e libresca (1'avesse condivisa Lenin, non ci sarebbe mai stata la Rivoluzione rus­sa), vibrò un duro colpo al movimento dei Fasci. Non lo ar­restò, ma lo privò di una guida, senza la quale esso subì la spin­ta delle tendenze estremistiche. Proprio ciò che i sostenitori della repressione denunciavano per giustificarla.
Finché a capo del governo ci fu Giolitti, egli, pur invian­do rinforzi e promettendo inflessibile severità, si astenne dal­l'uso della forza. Era convinto che l'incendio si sarebbe spen­to da solo.
Ma Giolitti, travolto dallo scandalo della Banca Romana, fu sostituito da Crispi. E questi, malgrado o forse in ragione della sua sicilianità, scelse subito le maniere forti. NelI' autun­no del r893, i «fascianti» avevano coinvolto in uno sciopero generale cinquantamila contadini. Erano passati dalle riven­dicazioni rivolte ai padroni a quelle rivolte allo Stato, mobi­litandosi per la riduzione delle tasse. Avevano cominciato ad attaccare i municipi. Crispi reagì, annunciando drammatica­mente alla Camera che era in corso un piano per la rivoluzio­ne sodalista in tutto il paese, proclamò in Sicilia lo stato d'as­sedio, e spedi nell'isola quarantamila soldati. Le truppe invia­te contro i manifestanti cominciarono a sparare, spalleggiate dai campieri dei proprietari e dai mafiosi. Migliaia furono gli uccisi, decine di migliaia i feriti. Ci furono arresti in massa in settanta paesi, sulla base di un proclama del generale Morra di Lavriano, che dispose l'arresto indiscriminato «degli am­moniti e della gente malfamata». Le accuse si basavano su semplici dichiarazioni di "galantuomini". Un sordomuto fu arrestato dai carabinieri per avere emesso «grida sediziose». Furono istituiti tre tribunali militari. Le sentenze di quello di Palermo provocarono l'indignazione degli studenti, che sfilarono davanti al teatro Bellini, cantando l'inno dei lavoratori. I capi dei Fasci furono deportati. Tra questi, Bernardino Ver­ro, che riuscì poi a fuggire in America, ma, tornato in Sicilia, fu subito ammazzato.
E poiché in questo nostro paese, proprio come nella sua grande tradizione musicale, il melodramma si alterna all'o­pera buffa, non mancò un episodio grottesco, del quale non si sa bene fino a che punto Crispi fosse vittima o colpevole.
Nel paese di Petralia Soprana c'era un tal Bonsignore Ac­cursio, vicecancelliere di Pretura, che, perdutamente innamo­rato della moglie di un pastaio, tale Alessi, aveva tentato in­vano di sedurla. Più volte respinto, si era vendicato con una lettera anonima indirizzata alla polizia, nella quale aveva de­nunziato che il giorno stesso sarebbe giunto per posta al pa­staio un manifesto rivoluzionario. Il manifesto, che lui stesso aveva scritto e spedito per posta al suo ignaro rivale, e che fu subito sequestrato, era un falso messaggio del Fascio, che an­nunciava un'imminente insurrezione. Il povero pastaio fu su­bito arrestato (il comandante dei carabinieri, comunicandolo al prefetto, dice testualmente: «depositato nelle locali carce­ri a disposizione della giustizia», come fosse una valigia). Più tardi l'onesta moglie, intervenuta a sua difesa, svelò la trama del vicecancelliere, che venne a sua volta "depositato". Ma, intanto, il supposto manifesto aveva raggiunto il Parlamento nazionale. Crispi ne aveva letto pubblicamente alcune frasi, tra l'altro deformandolo per sottolinearne la pericolosità, alla Camera, come una delle tante prove della sovversione dei Fasci.
La repressione dei Fasci siciliani avrebbe potuto tradursi in una più ampia e pericolosa avventura autoritaria, se Crispi non fosse stato costretto da tutt'altra causa, il disastro di A­dua, ad abbandonare il potere. Chissà che la democrazia ita­liana non debba qualche riconoscenza a Menelik.
Quello dei Fasci siciliani è, su un piano generale, un capi­tolo particolarmente perverso della politica di sopraffazione che i governi liberali, di destra e di sinistra, indifferentemente, hanno praticato nei riguardi del mondo contadino in ge­nerale, e di quello del Mezzogiorno in specie.
Sul piano della storia degli uomini, esso ci offre elementi importanti per un giudizio su un personaggio certamente com­plesso, non facile da decifrare. Francesco Crispi ha una sto­ria tumultuosa, ma anche a suo modo affascinante. È uno di quei personaggi cangianti, dei quali la storia d'Italia sembra particolarmente fertile: chiamiamoli «democratici autorita­ri», per cogliere un denominatore comune di caratteristiche peraltro tanto diverse: dai più tragici, ai più domestici - non c'è bisogno di fare nomi - che hanno saputo stregare i senti­menti di un popolo per tanti versi cosi scettico e diffidente, ma per altri cosi incline a subitanee infatuazioni. C'è nel suo istrionismo, e anche nelle sue nequizie, una carica di origina­ria passione che conservò fino alla morte, e che, sconfortato e quasi cieco, gli fece pronunciare queste parole terribili:

[ ... ] l'unità italiana fu l'effetto di una semplice aggregazione dei set­te Stati e non di una rivoluzione. Meno le guerre del 1859 e del 1866, fatte per espellere i principi nemici, nulla fuvvi di violento e di muta­to. I popoli rimasero quali erano prima della costituzione del nuovo Regno, con le loro abitudini, con i loro vizii, tenaci alle tradizioni lo­cali, senza alcuna fusione o incrociamento di razze, e in alcuni luoghi con le antiche antipatie, con gli antichi pregiudizi, senza speranza di quella nazionalizzazione di quegli elementi che per loro natura ten­gon divise le genti della penisola (Duggan).

È difficile trovare una dichiarazione d'amore per il pro­prio paese più disperata di questa.
Le donne delle filande.
Anche dai paron dalle belle braghe bianche della Padania, non c'era da aspettarsi che disprezzo, violenza e stupidità. Gettiamo uno sguardo su quel mondo di sofferenza e di do­lore che era il silenzioso rovescio dell'ubriacatura vitalistica dannunziana. E rivolgiamolo a quell'industria della seta, in particolare della trattura della seta, che costituiva una parte fondamen­tale del capitalismo industriale italiano. Era un vero esercito di donne. Di giovani donne e di bambine. Se ne contavano quarantamila in Piemonte, ottantamila in Lombardia.
La scena è quella della filanda, la prima fase di lavorazio­ne della seta. In enormi stanzoni, o più spesso all'aperto, sot­to i portici, i bozzoli vengono messi a macerare nell' acqua a 70-75 gradi, in bacinelle riscaldate dal fuoco a legna (<<fuoco diretto»), o, più tardi, dal vapore. La filatrice prende i boz­zoli immergendo le mani nell' acqua bollente, li libera dalle in­crostazioni e, afferrata un'estremità delle bave, ne svolge il filo e lo riavvolge sugli aspi, dandogli contemporaneamente un certo numero di torsioni. L'abilità del lavoro consiste nel dare al filo la sottigliezza che lo rende lucente, senza dimi­nuirne la resistenza. Una bambina fa girare la ruota che muo­ve gli aspi, e un' altra provvede a riscaldare l'acqua accenden­do il fuoco sotto la bacinella.
Il lavoro occupava, nei primi tempi, solo i mesi estivi, spin­gendosi fino a ottobre. Con l'introduzione del vapore, si ar­rivò a metà dicembre e, dopo un'interruzione di due mesi, fi­no a maggio, quando le operaie erano occupate al raccolto.
La durata del lavoro si aggirava attorno alle quindici ore.
Cominciava alle tre del mattino, e poteva durare fino alle ot­to e mezzo di sera, con due ore e mezza di sosta. Nelle dichia­razioni rese al Comune, gli industriali spesso mentivano, di­chiarando non più di undici ore.
L'età di ammissione al lavoro era tra gli otto e i dieci anni, ma per i lavori «1eggieri» si accettavano anche bambine di sei, o sette, e persino di cinque anni. «Quattro forni a legna - rac­conta un' operaia - e poi c'era la caldaia con l'acqua sopra, cal­da. Noi si doveva girare col piede l'asta che faceva girare la ruota e la donna coglieva la seta, ahi!, con le mani». Quel­1'« ahi» non è casuale. Nel lavoro di trattura le mani veniva­no immerse nude, direttamente, nell'acqua bollente, perché le incrostazioni potessero staccarsi più facilmente senza rovinare il filo di seta. Cosi, di tutte le malattie che affliggevano le operaie (reumatiche, dell'apparato digerente, e della vista), quella che più le tormentava era 1'escoriazione delle mani. Era il «mal della filandera»: dopo cinque o sei giorni dall'inizio del lavoro, da pelle era a brandelli, le dita e le palme delle ma­ni bruciate».
Alle operaie si davano due lire al giorno; alle bambine, che lavoravano dalle sei alle dodici e dall'una alle sei di sera, cin­quanta centesimi. Diceva una di loro:

Sai in filanda com'è [ ... ] Si fa la seta. I bossoli li si mette nell'ac­qua bollente e si fa la massa, poi quella massa la si prende su con una pentolina e poi la si dà a quella davanti che fa la seta. Se non lo si fa bene, quella davanti prende l'acqua bollente e te la tira addosso.

Un'altra:

[ ... ] nel pomeriggio toglievo già i cuchet (i bozzoli), mi sono bruciata le mani con l'acqua bollente. Dopo cinque o sei giorni avevo tutte le ma­ni che sanguinano. La pelle era a brandelli. Alla sera quando tornavo a casa non sapevo piti dove tenerle le mani. Al mattino quando mi lava­vo con l'acqua fredda, dolori che davano nel cuore, neh. Le dita resta­vano incollate l'una l'altra perché nella notte facevano crosta, allora uno allargava le mani e la crosta si staccava e le dita sanguinavano.

Il nazionalismo.
La logica conclusione di un conflitto sociale cosi aspro a­vrebbe potuto essere una rivoluzione. Questa risorsa estrema mancava alla sinistra italiana. Secoli di servitù avevano depo­sitato nel fondo della nostra società un'invincibile sudditanza al potere, che la sovranità della Chiesa cattolica aveva cemen­tato. Quella risorsa profonda dell'indignazione, sprigionata in Irtghilterra dalla rivendicazione nazionale anticattolica, in Germania dalla Riforma luterana, in Francia dalla grande Ri­voluzione, era stata anestetizzata e spenta in Italia da secoli di servitù. L'anticorpo del moderatismo aveva spento la for­za rivoluzionaria del Risorgimento. Essa privò la sinistra, nel momento supremo del conflitto sociale ottocentesco, del­l'energia organizzativa che non era mancata ai giacobini, e che non mancò ai bolscevichi. La sinistra mimò la rivoluzione co­me melodramma, ma non fu mai capace di concepirla realmen­te, non dico di realizzarla concretamente. Espressione di quest'impotenza storica fu il massimalismo, malattia infanti­le del socialismo.
Di fronte alla crisi dello Stato liberale, incapace di dare una risposta al conflitto sociale, poiché ogni vuoto storico esige una risposta, ce ne furono due. La prima fu il tentativo, so­stenuto dai generali e dalla corte, di regredire dal liberalismo parlamentare all'autoritarismo, «tornando allo Statuto»: a un regime il cui governo non rispondesse al Parlamento, ma al re. I moti sociali furono il pretesto per scatenare il fatale 1898, le cannonate del generale Bava Beccaris (74 morti), cui segui l'assassinio del re Umberto, che lo aveva insignito di un'alta onorificenza. Fu un momento drammatico per l'Italia libera­le. Il nuovo piccolo re avrebbe voluto abdicare in favore del figlio, e ritirarsi in pace nelle Baleari, ma non era proprio pos­sibile e, quella volta, si comportò bene, rifiutando pressioni reazionarie.
La seconda risposta mirava anch' essa a sostituire il regime liberale, ma nella direzione, completamente nuova, del nazio­nalismo popolare e aggressivo. Anch' essa comportava due ver­sioni. La prima consisteva nel trasferire la passione classista in una passione nazionale. «La grande proletaria si è mossa», gridò Giovanni Pascoli, esaltato dalla pagliacciata libica. Tra­sferire la lotta delle classi oppresse nella lotta delle nazioni mortificate era, indipendentemente dall' occasione ridicola, un'idea mobilitante. L'altra fu più geniale. Si rivolgeva al­l'immensa riserva di frustrazioni accumulata dai disinganni e dalle mortificazioni risorgimentali e coloniali, e le investiva in un sogno di riscatto e di grandezza, sostenuto da un' etica estetica. Un altro poeta, Gabriele d'Annunzio, ne fu l'incon­testabile "vate".
Questa passione si alimentava di uno sdegno autentico, suscitato dagli scandali del regime parlamentare, ma lo trasfigu­rava nella visione di un popolo eroico, che dalle antiche ge­sta traesse la forza per spazzare il grigiore della vita politica quotidiana. Visione melodrammatica, emotivamente italiana. Al materialismo socialista, tutto costruito su pretese «volga­ri», essa contrapponeva un idealismo trascendentale, un po­polo sublime e risplendente; e alla forza bruta dei sindacati, quella del desiderio maschile, depositata non negli interessi economici, ma nei germi impetuosi della natura. Quel tor­pido fondo piccolo-borghese italiano, che riluttava all' appel­lo della rivoluzione, si esaltava, invece, all'invito di un riscat­to sensuale, cui poteva aderire senza correre rischi, proprio come avviene al pubblico di un dramma teatrale.
Nutrito dalla frustrazione, questo messaggio affidava alla nazione il futuro del paese. Ma era una nazione ben diversa da quella risorgimentale mazziniana: democratica, pacifica, cosmopolitica. Era una nazione muscolosa e aggressiva, tut­ta protesa alla lotta e alla guerra.
Che cosa c'era di più seducente, per un piccolo-borghese in pigiama, di arruolarsi in una campagna marinettistica e ma­rionettistica contro la volgarità della borghesia? Al piacere del travestimento rivoluzionario, poi, si sposava perfettamente l'interesse: perché dietro a quelle intemperanze deliziosamen­te scandalizzanti, c'era la ripulsa delle odiose pretese operaie di egualitarismo, che minacciavano concretamente la nuova borghesia di "arrivati", ieri operai e manovali, oggi impren­ditori e industriali.
A differenza del socialismo, il nazionalismo fece breccia nei nuovi ceti borghesi: vi trovò, anzi, la sua base di massa. A un' emotività solidaristica - quella della giustizia sociale ­esso ne contrapponeva un' altra, quella della gloria nazionale.
Dice Fabio Cusin, nella sua Antistoria d'Italia:

Venendo al fatto pratico [ ... ] il nazionalismo era un reazionarismo creato allo scopo di fronteggiare il socialismo; reazionarismo militari­sta-monopolista-monarchico a base letteraria, adatto ai tempi nuovi, alla rinata industria italiana e al suo desiderio di espansione e di mercati, ma anche di spese militari che fossero fini a se stesse, specialmen­te in mano a politici di grassa ignoranza che, privi di ogni criterio di politica commerciale e di conquista coloniale, cercavano pretesti per forniture militari e, affare più grosso, per varare navi da guerra.

Il movimento nazionalista era alimentato da più fonti. I ce­ti reazionari schierati attorno alla Corona, certamente. Ma non era questa la più cospicua, né la più significativa. C'e­rano, inoltre, militari in cerca di riscatto e di gloria. Patrioti liberali che si richiamavano all'eredità del Risorgimento. Af­faristi interessati alle forniture militari. Ma la fonte più ricca era la sinistra anarchica e socialista. Gli estremisti trovavano nel nazionalismo un attivismo rivoluzionario che li compen­sava delle delusioni del riformismo e delle miserie del parla­mentarismo. Per molti socialisti contava la contrapposizione delle democrazie occidentali all' autoritarismo reazionario prussiano e al tradizionale nemico austriaco, che occupava an­cora le terre irredente.
Al nascente nazionalismo si contrapponeva, tuttavia, la maggioranza della sinistra, che rimaneva legata all'ideolo­gia marxista, e alle organizzazioni sindacali e politiche di clas­se. Il nazionalismo non trovò inoltre, almeno in un primo tem­po, adesioni significative nel mondo cattolico. La sua aggres­sività contrastava con il solidarismo sociale ribadito di recen­te nel messaggio di papa Leone XIII.

Giovanni Giolitti.
Il nazionalismo trovò, poi, un'inattesa resistenza nella ve­ra e propria riscossa liberale guidata da Giovanni Giolitti. Do­po una breve parentesi di capi di governo oscillanti fra tenta­zioni autoritarie e subitanei cedimenti, Giolitti, divenuto pri­ma ministro dell'Interno, poi, con la morte di Zanardelli, presidente del Consiglio, scelse risolutamente la via di un pru­dente, ma ardito riformismo.
Seppe, anzitutto, utilizzare la nuova felice congiuntura economica, indirizzandola verso riforme sociali avanzate, co­me quella che istituiva l'assicurazione sociale sulla vita, o quel­le che disciplinavano il lavoro dei fanciulli, o che affidavano compiti rilevanti alle cooperative operaie, oltre a sancire il riconoscimento, anche se circondato da cautele, del diritto di sciopero.
Chiese l'appoggio e la partecipazione al governo dei socia­listi, ottenendo il primo, ma non la seconda.
Usò tutta la sua consumata abilità nel gestire il potere am­ministrativo dei suoi prefetti, e quello elettorale dei suoi «ascari», i deputati meridionali che dirigeva con spregiudica­ta disinvoltura. Era, come Turati lo definì, un «empirico», definizione di cui si compiacque, scrivendo in una lettera al­la figlia di non ritenere che un sarto debba cucire una giacca dritta sulle spalle di un gobbo. Difese strenuamente il princi­pio della totale neutralità politica dello Stato in tema di reli­gione. Last, not least, ampliò le basi della fragilissima demo­crazia italiana, introducendo, «in un momento favorevole qualche riforma un po' ardita» -lo disse lui -, come l'esten­sione del suffragio elettorale.
Fu dunque, quello del «ministro della malavita», come lo aveva definito Salvemini, uno dei periodi di avanzamento della prosperità e della democrazia di questo nostro paese, i quali, in fondo, hanno costituito più le parentesi che il filo del discorso.
Tutto ciò non assolve affatto Giolitti dalle sue "gobbe".
E, soprattutto, da quella che contrastava palesemente con la sua natura, nient'affatto eroica - l'avventura libica -, e che contribuì a sommergere il paese nell' emozione nazionalistica. Stupisce assai che Giolitti la giustificasse con l' «ardente voto di tutte le province meridionali», nelle quali non aveva mai messo piede, come naturale sfogo della loro esuberanza demo­grafica. Di quel Mezzogiorno che - come disse De Viti De Marco (in R. Villari, Il Sud nella storia d'Italia), documentan­do rigorosamente le sue affermazioni -, era destinato «a fare le spese di quel parassitismo doganale, finanziario e burocra- tico che ha innalzata la bandiera tricolore sui minareti della Tripolitania e della Cirenaica». Molto piti che le ardenti ple­bi meridionali, lo «scatolone di sabbia» interessava i freddi conti del Banco di Roma.
Comunque, 1'avventura libica di Giolitti, come quella etio­pica e rovinosa di Crispi di vent'anni prima, si risolse finan­ziariamente in un disastro. Alimentarono, invece, la febbre nazionalistica.

L'Italia all'asta.
Il periodo che precede l'intervento italiano in guerra è uno dei più turbolenti della nostra storia. Turbolenti, e in qual­che misura indecifrabili.
Sul piano delle relazioni internazionali e diplomatiche, an­zitutto. Sciolti dagli obblighi della Triplice, a causa dell'uni­laterale decisione delle potenze centrali di entrare in guerra, i governanti italiani (Salandra e Sonnino) s'inseriscono in un gioco segreto discretamente cinico, nel quale l'intervento ita­liano, per non usare giri di parole, è messo all' asta. Vince l'In­tesa, e il governo italiano s'impegna segretamente a suo fa­vore.
Ma l'opinione pubblica, i partiti socialisti e cattolici, la Chiesa sono, in netta maggioranza, neutralisti. E neutralista è Giolitti, al quale più di trecento deputati si rivolgono diret­tamente, per manifestargli la loro solidarietà.
Intanto, il paese è squassato da grandi moti insurreziona­li. Durante uno sciopero generale proclamato dai socialisti in seguito all'uccisione di tre giovani dimostranti, la folla brucia edifici pubblici, erige barricate, distrugge i ruoli delle impo­ste, taglia i fili del telegrafo, occupa stazioni ferroviarie, sac­cheggia chiese. Più che la guerra, sembra che stia per scoppia­re, al culmine della «settimana rossa», la rivoluzione. Ed è "merito" dei capipopolo nazionalisti, tra i quali primeggia 1'ex socialista rivoluzionario Mussolini, quello di deviare parte di quella foga rivoluzionaria contro le istituzioni liberali, contro il Parlamento, perché nel Parlamento contano i numeri, nel­le piazze le emozioni. Ecco un campione di quell' offensiva, tratto dal giornale interventista «L'Idea nazionale»:
Il Parlamento è Giolitti. Giolitti è il Parlamento; il binomio della nostra vergogna. Questa è la vecchia Italia. L'Italia che ignora la ve­ra, la sacra Italia risorgente nella storia e nell' avvenire [ ... ] L'urto è mortale. O il Parlamento abbatterà la Nazione e riprenderà sul santo corpo palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla anco­ra allo straniero, o la Nazione rovescerà il Parlamento, spezzerà i ban­chi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffia­ni (Duggan).
La violenza politica si alimenta di eccitazione sessuale. C'è tutto: il santo corpo palpitante, la bella Italia prostituita, le alcove dei ruffiani ...
Alla fine, vinsero le emozioni. Il Parlamento capitolò. Fu cosi che una forza minoritaria, ma combattiva, nella quale confluivano monarchici reazionari, nazionalisti entusia­sti e uomini d'affari avidi, tenne in ostaggio il paese, trasci­nandolo in un' avventura della quale non era convinto, e alla quale non era preparato. La campana "eroica" di un d'Annun­zio, i messaggi trionfali di un Corradini, che annunciava una guerra breve e travolgente, si spensero nel frastuono di uno spaventoso e lunghissimo massacro.

La guerra di trincea.
Nella grande guerra mondiale l'Europa fu crocifissa nel solco delle trincee, scriveva Trotzky.
Il ricorso a trincee precede il secolo xx. Si tratta di una tecnica impiegata soprattutto durante gli assedi. Erano gli as­sedianti a predisporre trincee, in modo da portare artiglieria e truppe il più possibile a ridosso delle mura, in vista di un attacco, o per dar modo agli zappatori di scavare una galleria di mina. Gli eserciti erano molto piccoli, le battaglie aveva­no durata limitata, o si trasformavano in assedi. I grandi eserciti di leva, scesi in campo nella guerra di Se­cessione americana, rendevano più difficili le manovre di ag­giramento. Si impose, allora, l'attacco frontale in massa, ap­poggiato dall'artiglieria. Ma, con l'introduzione delle armi da fuoco, questi provocavano massacri. All'inizio della guerra mondiale, i due eserciti opposti, dopo le micidiali esperienze della guerra americana, tentarono di re introdurre la guerra di movimento, cercando sul fronte occidentale l' aggiramento sui fianchi. Questi aggiramenti furono tentati da entrambi gli eser­citi, determinando la "corsa al mare". Raggiunto il mare, però, non c'era più niente da aggirare. I fronti s'immobilizzarono allora nelle trincee, dalle quali si scagliavano nuovamente as­salti frontali. La guerra diventò vita miserabile nelle trincee, e morte in massa negli assalti. Era evidente che la mitraglia­trice aveva determinato un vantaggio decisivo per i difenso­ri, che lo rafforzavano cospargendo il terreno antistante le trin­cee con cavalli di Frisia, e rallentando cosi l'avanzata degli at­taccanti, esposti per un tempo maggiore al fuoco. Era evidente a tutti, tranne che ai generali. La scena si ripeteva ossessiva­mente. Al fischietto di un ufficiale o al suo grido (<< avanti, Sa­voia! »), i soldati andavano all' assalto all' arma bianca, con le baionette inastate sui fucili. Moltissimi venivano subito falci­diati dal fuoco delle mitragliatrici, altri rimanevano feriti o mutilati nella terra di nessuno, senza poter essere soccorsi. Era il destino peggiore. Chi tornava indietro veniva giustiziato in modo sommario, per vigliaccheria o ammutinamento. Migliaia di uomini erano uccisi per conquistare pochi metri, poi rego­larmente persi nel contrattacco nemico.
Si moriva anche nelle trincee, fra un assalto e l'altro: per i colpi dei cecchini, per le granate. Si viveva nella sporcizia, tra gli escrementi, in estate al caldo asfissiante, in inverno al freddo, alla pioggia e al fango. Unico conforto, l'alcool.
Le trincee contrapposte erano molto vicine tra loro (per abbreviare i tempi dell' assalto), e non mancavano episodi di tregua, in cui si fermavano le ostilità. Nel Natale del 1914, a Ypres, i soldati s'incontrarono per fraternizzare, scambiandosi sigari, cioccolata, alcool naturalmente. Si organizzò an­che una partita di calcio. Se ne approfittava per raccogliere i caduti e seppellirli.
Le truppe schierate in prima linea furono dotate di coraz­ze che le facevano assomigliare a guerrieri medievali. Ma cosi si era più esposti, e le corazze molto spesso furono abbando­nate.
La probabilità di morire, nella prima guerra mondiale, fu del 10% (nella seconda scese al 4,5%), Quella di restare fe­riti, del 56%. Nelle trincee era molto superiore. L'assisten­za medica era rudimentale. Non c'erano antibiotici, e anche ferite leggere provocavano spesso setticemie mortali. Nelle trincee infuriavano le malattie infettive: tifo, colera, dis­senteria. Senza parlare dei parassiti.
Ecco. Questa era la guerra «igiene del mondo», cantata da Marinetti. Ad altri poeti che per davvero la vissero, la guer­ra ispirò accenti meno imbecilli e più dolorosi.

Di che reggimento siete fratelli?
parola tremante nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
(G. Ungaretti)

Arrivano i fascisti.
Fra l'ottobre e il novembre del 19I7l'intero esercito italia­no rischiò di essere travolto. Lo sfondamento operato da tede­schi e austriaci a Caporetto aveva colto di sorpresa, e distrut­to, l'ala destra della seconda armata. Con una fulmine a avan­zata nel varco aperto le truppe austro-tedesche si gettarono alle spalle delle altre due armate italiane, minacciando di imbottigliarle in una gigantesca sacca. Fu per un ritardo minimo che non raggiunsero i ponti del Tagliamento in tempo utile.
C'era una tremenda sconfitta militare, dovuta in gran par­te all'inettitudine di un comandante in capo, Cadorna, il qua­le non esitò ad accusare di tradimento quei soldati che, per ventotto mesi, aveva scagliato nell'inutile massacro di undici successive battaglie inutili. C'era una sconfitta militare che si misurava negli undicimila morti e trecentomila prigionieri la­sciati sul campo. E c'era il collasso morale di quattrocentomi­la sbandati, che creavano il caos nelle retrovie. Si temette che quel collasso si comunicasse all'intero paese. La guerra, che secondo la retorica nazionalistica, avrebbe dovuto saldare l'u­nità nazionale sembrava provocare, come proprio in quei me­si avveniva in Russia, il suo disfacimento.
Le prime reazioni degli alti comandi e del governo furono dettate dal panico. Processi sommari, fucilazioni in massa. Persino la proibizione di inviare viveri ai prigionieri. Ne mo­rirono centomila.
Più tardi, subentrò la ragione. Le due armate che avevano rischiato l'aggiramento ripiegarono sulla linea del Piave. Il co­mandante in capo fu sostituito da un generale che, finalmen­te, si prendeva carico del morale dei suoi soldati. Il nuovo go­verno trovò le parole giuste per parlare al paese. Il quale trovò, nella minaccia del disfacimento, le ragioni profonde della sua unità.
L'esercito italiano, rafforzato da contingenti alleati, tenne saldamente la linea del Piave, respingendo due grandi assalti successivi. Nel novembre del 1918 passò all'offensiva, travol­gendo un esercito demoralizzato e in via di smobilitazione.
Alla fine della guerra, però, il paese ripiombò nel conflit­to sociale che la guerra aveva compresso, non certo risolto, e che fu inasprito dall'inflazione. I combattenti che tornavano dal fronte trovavano un paese diviso, una parte del quale, rap­presentata dai partiti della sinistra, gli dimostrava il suo ma­lanimo, se non un'aperta ostilità. Molti di loro reagirono con indignazione, ritorcendo sui partiti di sinistra accuse di sabo­taggio e di tradimento ..
La guerra aveva depositato nei loro comportamenti il ger­me della violenza. Essi trovarono nei ceti dei possidenti, agra­ri e industriali, spaventati dalla minaccia comunista, protezio­ni e finanziamenti. Le sinistre fecero il possibile per rendere quella minaccia credibile. Incapaci di promuovere una rivolu­zione, la rappresentarono, con iniziative sovversive ma steri­li, come l'occupazione delle fabbriche. L'iniziativa passò pre­sto all'estrema destra, e al biennio rosso degli anni 1919-20 segui il biennio nero degli anni 1921-22. La sinistra non ave­va fatto la rivoluzione. La destra fece la guerra civile. Aveva sulla sinistra un vantaggio decisivo. Aveva un capo.

Benito Mussolini.
Benito Mussolini fu il «Lenin del fascismo» (Lenin stesso lo riconobbe come tale). Diede al nazionalismo uno sbocco ri­voluzionario. Utilizzò le passioni dell'estrema sinistra, met­tendole al servizio dell' estrema destra.
Aveva un predecessore in Francesco Crispi, anche lui ex rivoluzionario passato al servizio della monarchia, e fautore di un governo autoritario, antiparlamentare, militarista e colonialista.
Mussolini era però, molto piti di Crispi, un personaggio scultoreo.
Si possono dare di lui decine di definizioni, com'è stato fatto migliaia di volte: megalomane e prepotente (me a voi co­mandé, in romagnolo, «io voglio comandare»: era, fin da gio­vane, il suo esplicito programma); manipolatore di folle, co­municatore di massa, sloganista lapidario; seduttore affamato di femmine; amorale e amoralista cinico; esibizionista vellei­tario e bugiardo; intellettuale intelligentissimo, superficiale e impaziente; carattere impressionante e impressionabile; tetra­gono all'umorismo. Una cosa è certa: che egli rimane come un pezzo della sto­ria d'Italia. Per il bene (poco), e per il male (molto).
Qui comunque non interessa il personaggio, descritto mi­gliaia di volte, ma un giudizio, necessariamente sintetico e sommario, sulle ragioni del suo successo e del suo fallimento.
La ragione fondamentale del suo successo è di avere dato al conflitto sociale una risposta, capace di reggere e di contro­battere la sfida comunista. Una risposta efficace non la pote­va dare un reazionario convenzionale, ma solo un rivoluzio­nario, cresciuto nello stesso clima e nutrito delle stesse pas­sioni che avevano agitato il mondo del socialismo. L'efficacia di questa risposta sta nella sua natura paradossale: vincere il comunismo usando le sue stesse armi. Né un generale sabau­do, né un economista liberale, avrebbero mai potuto mobili­tare le folle. Occorreva qualcuno che fosse nato in quel mon­do, ne condividesse le passioni, ne parlasse il linguaggio. È un fatto paradossale che comunisti e fascisti si "intendessero" perfettamente (e non furono pochi a pensare che, oltre che intendersi nel linguaggio, potessero farlo anche negli scopi). Un altro fatto paradossale è la facilità con la quale il fascismo, nato all'insegna della nazione, dilagò internazionalmente. Da questo punto di vista Mussolini può giustamente pretendere un brevetto. Che del resto gli fu riconosciuto, da Hitler, co­me da Franco, come da Salazar.
A questo successo internazionale si possono contrapporre gli insuccessi, che hanno contribuito al suo fallimento in Ita­lia. Certamente, il fascismo realizzò, negli anni Trenta e Qua­ranta, un vastissimo consenso nel paese. Agli inizi, esso poté contare sull'appoggio o sulla "comprensione" di grandi espo­nenti della cultura liberale, come Croce, Pareto, anche Einau­di, e persino sulla neutralità di alcuni irreprensibili socialisti come Anna Kulisciov, che raccomandava di lasciarlo fare. Piti tardi, egli perse il sostegno di singoli, ma acquistò quello del­le masse. E, tuttavia, c'erano almeno tre grandi faglie nella struttura del suo potere. La prima è la più paradossale. Il potere instaurato dal fa­scismo italiano, nonostante il gran parlare di totalitarismo, non era affatto totalitario. Per impadronirsene, Mussolini aveva accettato di venire a patti con la monarchia. Ciò si ri­velò fatale alla fine, ma, nonostante la somma viltà del re e della sua corte, costituì anche, durante tutto il periodo del re­gime, un impedimento e un limite, nelle sacche di potere ri­servate all'uno e all' altra.
Inoltre il fascismo, con il Concordato, era venuto a patti con la Chiesa. Certo, quei patti gli assicurarono la formida­bile sponsorizzazione che era mancata al regime liberale, ma costituirono anche un fattore limitativo rilevantissimo (lo si vide, anche qui, verso la fine del regime). Questo fattore non esisteva né in Germania, dove le Chiese mancavano sostan­zialmente di potere politico, né in Spagna, per la ragione op­posta: che il partito era nato nella, e con, la Chiesa.
La seconda faglia sta nel clamoroso fallimento di quello che avrebbe dovuto essere lo scopo fondamentale del regime: do­tare l'Italia di una grande forza militare. L'intrusione della monarchia nelle strutture dell' esercito e della marina (molto meno dell' aviazione) fu particolarmente vasta e determinan­te. Ma soprattutto in questo settore, si manifestò un male ita­liano che sembra incurabile: la superficialità e il pressap­pochismo dell' organizzazione e la corruzione che la minava. Superficialità e pressappochismo erano "qualità" tipicamen­te mussoliniane. Egli credeva «inflessibilmente» nelle sue stesse parole. Quanto alla corruzione, non fu mai capace di combatterla seriamente: si limitò a distribuirla nel tempo; si rubava tra un cambio della guardia e l'altro, ed era questa una delle ragioni dei frequenti avvicendamenti al governo.
Risultato: la fondamentale inefficienza e impreparazione delle forze armate italiane.
La terza faglia ha a che fare con il tema centrale di questo libro: il dualismo Nord-Sud. Il fascismo tentò di affrontarlo in due modi: nel modo giusto, ma solo parzialmente, dappri­ma; in un modo fallimentare, poi.
Il modo giusto era quello d'intervenire nel Mezzogiorno con vasti interventi di bonifica, e di vera e propria coloniz­zazione. Questa strategia fu praticata con successo, ma con esperimenti parziali e isolati. S'inventò la grande bonifica pontina, con la successiva colonizzazione, e l'acquedotto pu­gliese, ma non la Cassa del Mezzogiorno. Non si realizzò, quindi, un piano d'intervento integrato, capace di produrre uno sviluppo cumulativo. Mancò a Mussolini l’idea stategi­ca rooseveltiana della Tennessee Valley Authority o, per altro verso e con altri intendimenti, quella nazista della rete auto­stradale nazionale.
Il fatto è che Mussolini lo aveva, il suo grande disegno: quello del «Grande Impero». Ma anche qui, correva dietro alle sue parole. Già al tempo di Giolitti, si era favoleggiato di ricchezze libiche, per "vendere" agli italiani l'idea della conquista dello «scatolone di sabbia». Nel caso dell'Etiopia, si vendevano nelle edicole, oltre alle immagini di leggiadre e invitanti faccette nere, cartine del grande paese, con l'indi­cazione geografica di tutti quei beni che mancavano sulla ta­vola degli italiani: lo zucchero, il tè e il caffè (e il carcadè), ma anche quelle materie prime, ferro e carbone, che manca­vano alle nostre industrie, e anche quelle ricchezze, oro, dia­manti, che accendevano l'immaginazione dei lettori. Su quel­le carte, gli italiani erano invitati a spostare le bandierine tri­colori, man mano che le truppe vittoriose avanzavano. E anche qui, si rischiò una nuova catastrofe. Perché anche qui rifulsero l'impreparazione e l'incompetenza. Per avere ragio­ne degli "abissini", gli italiani dovettero ricorrere su larga scala all'uso dei gas asfissianti. Quando finalmente la con­quista fu portata a termine (ma neppure questo era vero: lar­ghe sacche di resistenza furono lasciate alla repressione del macellaio Graziani), non c'era neppure più il tempo per la colonizzazione. Mussolini stava per imbarcarsi nell'impresa più temeraria della sua vita: la guerra rapida accanto alla Ger­mania, che doveva costare solo qualche decina di migliaia di morti, per sedersi al tavolo della pace, e che cominciò subi­to con una serie di sconfitte. Una delle prime fu la perdita dell'impero.

Capitolo secondo
L’ETA’ DELLA REPUBBLICA

Era proprio la guerra di Mussolini. Diversamente da quan­to era avvenuto nel 1915, non ci fu nessun moto di popolo, nessuna emozione, solo acquiescenza e perplessità. Già nei pri­mi due anni, si potrebbe dire già fin dai primi giorni, una se­rie umiliante di sconfitte, dalla Francia all'Albania, dall'Etio­pia alla Libia. E alla Russia. Poi l'Italia fu investita da un ci­clone, che la squassò nei tre anni successivi. I bombardamenti devastarono le sue città: dappertutto morte, rovine, macerie.
L'invasione spaccò il paese in due parti. Nel Sud, conqui­stato dalle truppe alleate in pochi mesi, fu catastrofe dell' eco­nomia e sfacelo morale. Folle in preda a un servile entusiasmo, acclamanti i vincitori, fioritura di mercati neri, sciamare di prostitute e di sciuscià, trionfo della mafia; miseria materiale e scomparsa di vita civile. In quegli anni, Curzio Malaparte scrisse La pelle, il suo romanzo maledetto.
Una lenta morsa di ferro e di fuoco risali l'Italia da Sud a Nord per due lunghi anni: una serie di battaglie cruente che rinnovavano le stragi di trincea della prima guerra mondiale, decimando le truppe e le popolazioni.
Nel Nord si scatenò una guerra civile tra italiani, e una repressione spietata di tedeschi contro italiani.
Fu, certamente, anche rivolta antifascista e lotta di resi­stenza, da parte di minoranze combattive e assetate di li­bertà, contro l'invasore tedesco e contro le minoranze furen­ti d'indignazione vendicativa, con tutto l'orrendo corredo di violenze delle guerre civili, che si prolungò ben oltre la fine della guerra militare; con i massacri perpetrati da nemici inferociti. Tra le due minoranze combattenti che si affronta­vano, una maggioranza inerte, passiva, cercava soltanto di sottrarsi e di durare, aspettando la fine della tempesta.
Bisogna dire la verità. Non ci fu una resistenza di popolo.
A tutto suo onore, ci fu la Resistenza partigiana nel vero sen­so della parola: di quella parte di popolo che, per fatalità di cir­costanze, o per autentico moto dell'animo, si radunò per com­battere tedeschi e fascisti.
Le perdite di vite umane, se pur meno gravi di quelle del­la prima guerra mondiale, sono state pesanti: quattrocento­cinquantamila morti, cui vanno aggiunte quarantamila depor­tati e scomparsi. Questa volta, le vittime civili furono molto più numerose. Durante la guerra di Liberazione, poi, vi furo­no quarantaseimila morti, per la maggior parte partigiani e antifascisti, o vittime dei fascisti e dei tedeschi, e diecimila, invece, vittime dell'epurazione selvaggia seguita al 25 aprile. Dopo la fine della guerra, il paese è stato attraversato da tre milioni di emigranti. I danni materiali sono stati molto più gravi di quelli della prima guerra mondiale: 16% di edifici tra distrutti e danneggiati, un quarto della rete ferroviaria e un terzo della rete stradale fuori uso, il50% delle auto e il 90% dei camion; la produzione industriale ridotta a poco più di un quinto, quella agricola a poco più della metà. Il reddito na­zionale ridotto della metà, la ricchezza nazionale di un terzo.
Questi i risultati con i quali dobbiamo consegnare il ricor­do di Mussolini alla storia.
Eppure, questi immensi disastri non hanno schiacciato il paese. Come in un formicaio sconvolto, un' ondata di attività brulicanti ha scatenato un impeto di vitalità. Si è prodotto un miracolo. Anzi, due.

Due miracoli e un intoppo.
Un miracolo economico. Abbandonato il protezionismo al­le frontiere, liberalizzati i movimenti delle persone, affluiva sui mercati una massa di lavoro a basso costo e una schiera di nuo­vi imprenditori, che alimentavano una straordinaria ripresa.
Un miracolo politico. Mentre il mondo era attanagliato dal­la guerra fredda, si approvava in Italia una Costituzione de­mocratica, sulla base di un'intesa fra tutti i partiti antifasci­sti, fra i quali le due pili grandi forze politiche emerse alla fi­ne della guerra: democristiani e comunisti.
Quest'intesa è stata il vero fondamento della Repubblica democratica. Fondamento paradossale tra forze che si fron­teggiavano sul piano internazionale, ma non avevano alcuna possibilità di alternarsi al governo del paese; e che costituiva una formidabile garanzia contro il disastro di una nuova guer­ra civile.
Costituiva però, al tempo stesso, una condizione di demo­crazia bloccata, priva del necessario ricambio, incapace di co­struire sulle fondamenta costituzionali l'edificio di uno Sta­to nazionale moderno, di una democrazia dinamica, capace di affrontare i grandi problemi che il Risorgimento aveva la­sciato irrisolti, primo fra tutti quello, cruciale, del dualismo territoriale: la questione meridionale.
L'obbligatoria permanenza di un grande partito, e dei suoi alleati, al governo, e dell' altro all' opposizione, produceva inol­tre una condizione di ristagno del potere, fatale matrice di prepotenza e di corruzione da una parte, di pratiche sparti­torie dall' altra.
I tentativi, promossi soprattutto da parte comunista, di tra­sformare quell'intesa passiva in un'aperta alleanza ispirata a un grande disegno, l'incontro storico tra le due forze popola­ri, comunista e cattolica, erano condannati a scontrarsi con l'esistenza della "palla al piede" sovietica, dalla quale il par­tito comunista si stava sganciando, ma con esasperante, fata­le, lentezza.
D'altra parte, la prospettiva di un' alleanza cattocomunista non era certo affascinante per tutte quelle forze laiche consa­pevoli degli elementi di autoritarismo intrinseci alla natura di quei grandi partiti. Anzitutto per i socialisti, che tentarono a due riprese di inserirsi da protagonisti nel gioco politico ita­liano: una prima volta, come promotori dell'alleanza di cen­trosinistra, negli anni Sessanta, sostenitrice di un programma di grandi riforme economiche e sociali; e una seconda, sotto la spinta di un leader, Bettino Craxi, che intendeva sfruttare fino in fondo il suo vantaggio di posizione nell' alleanza di go­verno con la Democrazia cristiana.

L’ offensiva craxiana.
Vale la pena di soffermarsi brevemente sull' avventura craxiana, per l'influenza che ha esercitato sulle vicende tem­pestose della Repubblica, e per gli esiti che ne sono derivati.
Sottraendosi, dopo le grandi delusioni elettorali del suo partito, al protettorato comunista, Craxi perturbò subito l'in­tesa implicita fra i due grandi partiti, con un comportamento corsaro che, approfittando della sua posizione strategica, li te­neva in scacco, l'uno contrapponendoglisi all'interno del go­verno, l'altro sfidandolo dal governo.
C'era chi pensava che lo facesse per crescere, e formare poi, in condizioni meno squilibrate, un'alleanza con i comu­nisti, come aveva fatto Mitterrand in Francia. E c'era chi pensava che volesse soppiantare i democristiani, con una gra­duale scalata ai poteri: stampa, banche, grandi imprese pub­bliche. Oppure, che intendesse cambiare le regole del gioco con una "grande riforma". Questa era, del resto, la carta che lui stesso ogni tanto esibiva. L'idea non era sua: era del grup­po degli intellettuali riuniti attorno a «Mondoperaio». Con quel gruppo, di cui era autorevole esponente Giuliano Ama­to, egli aveva vinto il congresso di Torino del 1978, entran­do poi in collisione, soprattutto per «incompatibilità di ca­rattere». Pili tardi, si era riconciliato con Amato, divenuto uno dei suoi pili validi consiglieri.
lo credo che, fra quelle tre ipotesi, Craxi non avesse fatto una scelta alla quale legarsi, ma che le mantenesse tutte aperte, fin quando stimava opportuno. Era per natura un prag­matico, ed era convinto, avendo una smisurata fiducia in se stesso, di potersela cavare in tutte le situazioni.
Insomma, non aveva un progetto definito. Ma fu proprio questo il suo punto debole. Se non hai un progetto, i mezzi che accumuli, e che dovrebbero servire per realizzarlo, fini­scono per diventare essi il tuo progetto. I mezzi sovrastano i fini. Cosi fu per il denaro. Ne aveva bisogno per sfidare co­lossi che disponevano di risorse "proprie". Non per fini per­sonali. Aveva un tenore di vita disordinato, ma normalissi­mo. L'accumulazione di risorse per il potere, che egli inten­deva esercitare in prima persona, diventò un'ossessione. Come quella delle congiure e dei complotti da sventare. Chi voleva conquistarne la fiducia (e tanti erano i cortigiani che gli sta­vano attorno) aveva imparato a inventarseli. Era anche sen­sibile alle adulazioni. Accanto a persone d'indubbio valore, si circondò sempre più di personaggi servili, e di qualche ma­riuolo. Il combinato disposto di queste inclinazioni ridusse la sua dote più preziosa: la capacità di percepire le domande nuo­ve che si agitavano al fondo della società. Il suo invito di an­dare al mare, agli italiani che chiedevano un segno politico di cambiamento, è il tragico esempio del suo declino. Ma la pro­va più evidente, la causa vera della sua rovina sta nell' assen­za di un vero progetto politico. La storia perdona qualunque comportamento illecito, quando è messo al servizio di un gran­de progetto. È spietata quando le risorse illecitamente acqui­site le si spreca in imprese meschine: come quella di legarsi a una coalizione del tutto priva di futuro. Nel caso di Craxi, fu il cosiddetto Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), ch'egli tenne in piedi per non restare nel mare aperto dell'opposizione.
Da Gesù Cristo a De Gaulle, i grandi conoscono e accet­tano il rischio del ritiro, come inevitabile prezzo del ritorno. Non c'è investimento politico che non comporti rischi poli­tici. Craxi voleva restare al coperto. E li fu colpito.
In verità, gli eventi imprevisti gli avevano offerto una chance.
L'inopinato - e imprevedibile - crollo sovietico, nel 1989, sembrò spazzare via, di colpo, quel blocco paralizzante della democrazia senza alternanza nel quale Craxi si muoveva a fa­tica (malgrado ogni sforzo, la quota elettorale del partito so­cialista si spostava appena). Improvvisamente, il pericolo co­munista spariva. E, con esso, l'imprescindibilità del mono­polio democristiano, e l'impraticabilità dell' alternanza. Tutto sembrava rivolto, finalmente, a una normalizzazione europea della democrazia italiana, fondata sull' alternanza fra una si­nistra socialdemocratica e una destra liberaI o cristiano-de­mocratica.
Ma non fu affatto cosi. Il morto afferra il vivo. Il "bloc­co" sopravvisse alle sue ragioni. Da una parte, il duello a si­nistra aveva messo tali radici di ostilità fra i due partiti dello schieramento da rendere impensabile una conversione socia­lista dei comunisti, e una disponibilità all'alleanza (finché i rapporti di forza restavano cosi squilibrati) dei socialisti con i comunisti. Dall' altra, la Democrazia cristiana aveva perso il pelo, ma non il vizio della persistenza, comunque, al pote­re, il che le lasciava due possibilità opposte: continuare l'al­leanza di governo con i socialisti, concedendo a essi una quo­ta piu ampia di potere; o cercare di aggirarli con un'intesa aperta, un compromesso politico (non storico: i cattolici si af­fidano più volentieri alla provvidenza che alla storia) con i comunisti.
A tutte e tre le forze politiche in gioco, la continuazione dello stallo conveniva. Ai comunisti, si apriva finalmente una prospettiva di governo senza pagare il prezzo di un'intollera­bile resa ai loro rivali. Ai democristiani, di continuare il loro gioco preferito: mettersi all' asta fra socialisti e comunisti, con­servando comunque il potere. Ai socialisti, di disporre del margine di tempo necessario per mutare, finalmente, i rap­porti di forza fra i tre partiti a loro favore.
Ma di tempo, non ce n'era più. Nel 1992 scoppiò Tangen­topoli.

Tangentopoli.
La tempesta fu devastante. In pochi mesi, i partiti al go­verno furono travolti.
Tangentopoli fu un fenomeno complesso.
Non c'erano solo mariuoli, ma anche militanti in buona fede.
Non solo giudici imparziali e inflessibili, ma anche magi­strati politicizzati ed esibizionisti.
Passando in rassegna personaggi e interpreti, incontriamo anzitutto i principali colpevoli: democristiani e socialisti. Per i primi, si trattava di "imposte", che da lungo tempo essi per­cepivano, ritenendole il naturale corrispettivo dei servizi re­si al paese.
Ma come mai i socialisti, e Craxi anzitutto, vi furono coin­volti con tanto clamore e furore? Qui non si può che argo­mentare per ipotesi. Anzitutto, il partito socialista godeva di un'antica reputazione, che era stata scalfita si, ma in misura non grave, dalle precedenti esperienze di governo. E che ren­deva tanto più scandalosi i loro comportamenti illeciti. Ma soprattutto, era obiettivo di Craxi di ampliare il "territorio" occupato dai socialisti, liberandosi da ogni complesso di su­balternità nei riguardi del loro alleato. In tale sforzo, era ine­vitabile che essi offrissero largo spazio alla visibilità.
Craxi denunciò, in un discorso al Parlamento rimasto fa­moso, l'universalità del finanziamento illecito dei partiti. Ave­va indubbiamente ragione. Ma, a parte 1'improponibilità giu­ridica dell'argomento (un illecito non diventa lecito perché e­stesamente praticato), è un fatto che Craxi abbia assunto in quel sistema un ruolo di primo piano. Non ne era certo un pas­sivo fruitore, ne era un attivo organizzatore. Difficilmente può essere rappresentato come vittima di un complotto.
Quanto ai comunisti, essi parteciparono di certo al finan­ziamento illegale, indirettamente e marginalmente. Furono, dunque, marginalmente coinvolti. Ne approfittarono largamente, per accreditarsi presso 1'opinione pubblica come una forza capace di colmare il vuoto morale e politico lasciato dal­la scomparsa dei partiti di governo. Ebbero la fortuna, pro­prio nel momento in cui i socialisti avrebbero potuto celebra­re il loro trionfo, di vederli rotolare nella polvere. In verità, non avevano alcun diritto al compiacimento morale, in quan­to, sia pure marginalmente, erano coinvolti. E non ne colse­ro i frutti politici perché, mentre tentavano faticosamente di assumere una nuova identità (le identità non si inventano), una vera e gioiosa macchina da guerra entrava in campo, ma dal lato opposto.
Proseguendo nella rassegna, incontriamo i "punitori". Le­ghisti e neofascisti, anche se non del tutto immuni, poteva­no a buon titolo puntare il dito sulla corruzione di un "siste­ma" cui non avevano partecipato. Inizialmente entusiastici sostenitori della magistratura, finirono per partecipare atti­vamente alla formazione di una nuova forza politica che le si rivoltava contro.
Da Tangentopoli esce poi, smarrita, la massa degli elettori democristiani, che si sono visti improvvisamente privati di rappresentanza politica, e che temono che quel vuoto elet­torale sia colmato dagli eredi del Partito comunista. Una po­sizione particolare è assunta, finalmente, da quei socialisti che hanno visto in Tangentopoli soprattutto una manovra dei co­munisti, dominanti nella corporazione dei magistrati, per schiacciare i socialisti craxiani, rei di avere sfidato, in nome della loro autonomia, l'egemonia comunista.
I comunisti, dunque, contavano di riempire essi il vuoto lasciato dalla scomparsa dei partiti di governo. Era una pre­tesa che suscitava il panico in tutte le altre forze: eterogenee, ma decisamente anticomuniste.
Alcune di queste forze, leghisti e neofascisti, erano parti­te dalla denuncia della corruzione dei partiti della Repubbli­ca. Ma, dietro, c'era un più vasto attacco al sistema dei par­titi e, al di là di quello, ai valori e alle istituzioni fondanti del­la Repubblica.

Non si trattava, propriamente, di una riscossa fascista. Era però un rigetto dell' antifascismo, una rivolta "anti-antifasci­sta" sotto la forma qualunquista dell' antipolitica, e con una marcata impronta anticomunista. Per il resto, quelle forze esprimevano domande politiche eterogenee e incompatibili.
Ma c'era chi aveva capito che queste contraddizioni era­no un ostacolo superabile.
Il prodigio di Silvio Berlusconi fu di offrire a queste forze l'alleanza di una nuova formazione che raccogliesse in chia­ve nettamente anticomunista l'elettorato conservatore dei partiti di governo scomparsi, colmando quel vuoto minaccio­so. Ciò implicava un radicale riorientamento dei loro obiet­tivi (dal sostegno, alla contestazione della magistratura), e il superamento di alcune loro posizioni di principio (sull'unità nazionale, per esempio), in nome della comune contrapposi­zione alla sinistra.
Uno spregiudicato congegno elettorale permise di ottene­re la confluenza di due alleanze distinte.
Silvio Berlusconi.
Silvio Berlusconi era quello che, nell' antica Roma, si sa­rebbe detto un homo novus: ma mica tanto.
Era certamente del tutto estraneo al mondo politico pro­fessionale, pur avendovi agganci decisivi per la sua sopravvi­venza d'imprenditore. Non apparteneva all'establishment del mondo capitalistico, avendo sviluppato i suoi affari in setto­ri economicamente marginali ma in rapido sviluppo, come la speculazione edilizia e la produzione mediatica.
Non interessano qui le motivazioni personali della sua «di­scesa in campo» (la necessità di sottrarsi a gravi difficoltà fi­nanziarie? E / o a minacciose indagini giudizi arie ?)
Interessa la sua comprensione delle forze suscitate dalla tempesta di Tangentopoli, e della possibilità che si presenta­va di federarle in un unico grande movimento politico.
Questa comprensione gli è valsa, giustamente, la definizio­ne di «statista» (conferitagli da Massimo Giannini, nell'ope­ra omonima). Aveva capito per intuizione ciò che era sfuggi­to a Craxi: che a un ristagno e all'inconsistenza litigiosa della politica aveva corrisposto, negli ultimi decenni, una profonda mutazione del quadro sociale.
Nel mondo economico si era verificata la decomposizione della classe operaia, e l'avvento di una classe di piccoli im­prenditori e di lavoratori autonomi. E in misura corrispon­dente, nella cultura della società, l'affermazione di valori in­dividualistici, per meglio dire privatistici. La rivolta contro l'invadenza burocratica. La reazione al potere sindacale, re­spinto indietro dalla globalizzazione, dalle nuove tecniche produttive, dalle esigenze di mobilità. Inoltre, l'insofferen­za per i riti della democrazia parlamentare e per l'invadenza partitica. E la domanda potenziale di un "capo" decisionista, che già si era inizialmente manifestata nei riguardi di Craxi.
Insomma, l'emergere di un populismo privatistico.
Non è qui il caso di intervenire con una mia tesi, su quel­lo che negli ultimi decenni è diventato un tema trattato da politologi e sociologi in modo tanto più diffuso e capillare, quanto più indeterminato e sfuggente: il tema del nuovo po­pulismo (di populismo si parlava fin dall'Ottocento, a propo­sito degli antischiavisti americani e dei narodniki russi). Mi limito a seguire la traccia di alcuni tra gli studiosi più accre­ditati del fenomeno, individuando nel nuovo populismo quel­la zona politica assai frequentata, che si estende dalla sempli­ce demagogia all' autentico fascismo: dall' appello plebeo al po­polo contro le élite sociali e culturali, alla mobilitazione ple­biscitaria intollerante e violenta, suscitata attorno a un capo carismatico e autoritario.
Il populismo di marca italiana non era sensibile alle passio­ni nazionalistiche, come quello francese (di Le Pen), quello olandese (di Fortuyn: anche se Fortuyn aveva dichiarato di ispirarsi a Berlusconi, aggiungendo «purtroppo, con molti me­no soldi di lui»), e quello austriaco (di Haider), ma piuttosto a quelle economiche e privatistiche. Era quello sgranamento privatistico che Berlusconi seppe avvertire come il grande mo­to collettivo che aveva investito la società italiana: dunque, un populismo privatistico. Pili che una «liquefazione», come scri­veva Bauman, una polverizzazione della società in granelli di sabbia esposti al vento. A questo Berlusconi aveva offerto una risposta, con la promessa ottimistica dell' arricchimento. E, sul piano emotivo, ne aveva offerte due: la risposta alla pau­ra, spingendo il tasto della difesa dall'immigrazione; e la ri­sposta al bisogno di emozioni private, offerta dall'incantamen­to televisivo e dal tribalismo calcistico.
Sul piano strettamente politico, Silvio Berlusconi riuscì a riorientare e ad assemblare una coalizione eterogenea, rivol­gendola contro la magistratura, sdoganando il neofascismo, superando le reciproche incompatibilità con il leghismo, rin­cuorando gli elettori moderati della Democrazia cristiana, ri­vendicando quelli socialisti.
E soprattutto, si rivolse alle "emozioni" popolari: della paura, dello spettacolo, del successo.
Paura dell'immigrazione, che aveva investito negli ultimi decenni il paese.
Spettacolo, offerto dalle emozioni private di massa: anzi­tutto, il tribalismo calcistico e l'ubriacatura televisiva.
Successo, simbolicamente esemplificato dalle fortune del capo, come modello emblematico proposto alla "gente" come molla promozionale.
Populismo privatistico e ludico, dunque, con un pizzico di piccante e permissiva sessualità. Una formula di travolgente successo. Soprattutto se contrapposta alla noia dei discorsi di sinistra, ormai da tempo privi di ogni impatto emotivo.
Nel considerare le ragioni del suo successo, non si può pre­scindere da una banalità. Berlusconi è nato in Italia. In un al­tro paese quel successo, in quelle forme particolari, sarebbe probabilmente impensabile. Nelle sue rappresentazioni e nel­le sue azioni, egli attinge a piene mani a certi aspetti del ca- rattere italiano, che sono stati oggetto di particolare attenzio­ne critica del nostro costume da parte di osservatori stranie­ri, anche i pili simpatetici, come Goethe, Stahl, Byron, Sand. Aspetti che Antonio Gambino, in un suo libro particolarmen­te felice (Inventario italiano), ha ripercorso in rigorosa e im­placabile rassegna, cominciando con la famosa requisitoria di Leopardi, e rievocando le analisi di Turiello (la «società sciol­ta»), di Gobetti (la «società facile»), di Gramsci (la «società apolitica»).
I comportamenti di tipo apolitico, cosi spesso riscontrabi­li nella storia d'Italia, possono riassumersi in quella categoria del «particulare», che Guicciardini scelse come punto di vista privilegiato della sua analisi, e che si oppone all' altro, essen­zialmente politico, scelto da Machiavelli. È stato Francesco De Sanctis a considerare la storia d'Italia sotto 1'aspetto di questa contrapposizione fra Machiavelli e Guiccardini. Il pri­mo, spesso malinteso, investe nell' amar di patria una passio­ne politica che non si ritrae neppure di fronte alle nequizie; l'altro è tanto immerso nel proprio privatismo da diventare <<incapace di percepire altro movente di quello dei propri van­taggi immediati». Sviluppando questa contrapposizione, si potrebbero individuare nella storia d'Italia tempi machiavel­liani e tempi guicciardiniani. Non mi parrebbe dubbia la con­clusione sulla natura di quello che stiamo attraversando.
Noi ci troviamo, ora, nel pieno di una condizione di con­senso populista.
È giustificato chiedersi se questa condizione è stabile, o se evolve verso un qualche cosa di diverso. Se è vero che il po­pulismo è una forma intermedia tra la demagogia e il fasci­smo, hanno ragione coloro che indicano la concreta minaccia di una deriva fascista?
Non si può respingere questa domanda come improponibile" né accoglierla come probabile.
E vero quanto dice Biagio De Giovanni, in A destra tutta:

[ ... ] fascismo è autoritarismo con tendenza totalitaria; fascismo è raz­zismo, fascismo è censura e fine dell'informazione libera; è partito unico, è chiusura del Parlamento democratico [ ... ] fascismo è negazione della Costituzione, è nazionalismo chiuso e guerrafondaio [ ... ] Quale di questi tratti, almeno uno di essi, incombe su di noi?

Nessuno incombe, è la risposta; ma, se si eccettua il razzi­smo, il partito unico e il nazionalismo guerrafondaio, gli altri sono presenti, sotto forma di aspirazione generica, di tenta­zione specifica, e, talvolta, d'indicazione programmatica. Inol­tre, le tempeste possono essere assai diverse nella forma, spi­rare da venti diversi, ma abbattersi con la stessa violenza su­gli stessi oggetti. L'essenza del fascismo non è necessariamente il partito unico, o la chiusura del Parlamento, o l'abolizione della stampa, tanto meno la milizia, le colonie, la guerra. Può essere una condizione di asservimento e autoasservimento conformistico,di plebiscitarismo elettorale, di decisionismo autoritario, di ultrasemplificazione e addomesticazione isti­tuzionale, ottenuta attraverso il bombardamento mediatico o la distrazione ludica. Anche questo è regime. E questo non si può affatto escludere.
A me pare, tuttavia, che un passaggio di quel tipo, dal­la tentazione al regime, comporta un percorso disseminato di trincee e di argini inevitabili, sia all'esterno (l'inserimento del­l'Italia nell'Unione Europea e, oggi, nella stessa alleanza ame­ricana), sia all'interno (forze politiche sociali e culturali, in­cluse anche quelle presenti nella maggioranza). Non è che non vi siano predisposizioni e pulsioni, che di tanto in tanto si af­facciano. È che non sembra che, in assenza d'incidenti impre­vedibili, trovino il necessario concerto in un ambiente politi­co esterno ben diverso da quello degli anni Venti. Ma anche nell' ambiente politico interno, compreso quello dell' attuale maggioranza.
Pili concretamente probabili possono apparire le minacce di secessione, anche perché si sono, di fatto, proposte nel pas­sato. Si sono proposte pili volte, e sempre sotto la copertura di trame e di complotti orditi da servizi e da massonerie da sempre impunite, e tuttora presenti fra noi. Non sempre le minacce pili ostentate, come quelle della Lega, sono le pili se­rie e preoccupanti. Francamente, non si vede in quale canto­ne potrebbero rifluire i cittadini della val Brembana, quan­do abbandonassero la Lombardia per costituirsi in una Pada­nia sovrana. Ci sono secessioni drammatiche, e secessioni melodrammatiche.
Quelle siciliane o meridionali sarebbero, invece, drammati­camente possibili. Come vedremo tra poco, esse sono inscritte in una realtà già tragicamente presente, che insidia il paese nel­la miope e colpevole indifferenza di un nordismo provinciale, che abbandona il Mezzogiorno d'Italia nelle mani della crimi­nalità mondiale. E qui si incontra il pericolo meno avvertito e pili grave: quello della decomposizione nazionale.

La minaccia della decomposizione nazionale.
Dobbiamo, ora, tornare al tema centrale di questo libro: al fallimento dell'unificazione nazionale dell'Italia, della crea­zione di un autentico Stato nazionale nato dalla confluenza di storie diverse, su una larga base di consenso popolare. In particolare, dalla confluenza del Nord e del Sud di un paese troppo lungo, nelle grandi occasioni che si sono presentate alla sua storia: quando, ancora in pieno Medioevo, la poten­te monarchia sveva, muovendo dal Sud, avrebbe potuto con­globare le ricche repubbliche del Nord. O, molto pili tardi, quando il moto del Risorgimento avrebbe potuto risolversi in un incontro di storie ricche e diverse, nel nome di un'u­nità superiore.
La conquista regia delle due Sicilie, che congelò la venta­ta garibaldina, tracciò, fra le due Italie, un solco profondo, che non si è mai rimarginato.
La «questione meridionale», sollevata in modi diversi da Fortunato, Salvemini, Gramsci, Dorso non era una questio­ne regionale. Era l'impegno a colmare quel solco, realizzan­do davvero l'unità del paese. Era vista da grandi meridionalisti, da Nitti a Saraceno, come la via maestra al compimen­to dell'unificazione.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, superate le minacce secessioniste, parve finalmente che questo impegno fosse diventato un concreto programma di governo, che la più grande forza politica del paese, la Democrazia cristiana, era convinta di perseguire, attraverso lo sforzo dell'intervento straordinario.
Le successive involuzioni di quella grande strategia non pos­sono far dimenticare la sua portata storica: il trasferimento di ingenti risorse finanziarie dal Nord al Sud, e soprattutto il 10­ro investimento in un vasto programma d'interventi infra­strutturali, che creassero le basi di un processo di sviluppo. La Cassa per il Mezzogiorno fu quest'innovazione.
Non ci sono dubbi sul successo di quest'operazione. Per la prima volta, il Mezzogiorno veniva investito da una serie di grandi opere: bonifiche, dighe, acquedotti, autostrade, reti stradali, che ne mutavano il volto rompendo ne l'isolamento, attivando ne energie, suscitandone nuove potenzialità. A ciò si aggiungeva il proposito di un secondo tempo d'incentiva­zione diretta d'iniziative industriali, anche creando un siste­ma d'istituti di credito speciali.
Ma fu proprio in questa seconda fase, che emersero le patologie di finanziamenti dispersivi e sterili, con un flusso di trasferimenti che alimentavano redditi e consumi, ma non promuovevano investimenti capaci di attivare processi di svi­luppo autonomo. Le risorse destinate al finanziamento di in­vestimenti produttivi non furono gestite da un sistema ban­cario e finanziario dotato dell'autonomia e della competenza necessarie a vagliare rigorosamente, in termini economici, i singoli progetti, ma direttamente da politici e amministrato­ri locali, che li valutavano in termini di «acquisività politica» (l'espressione, ripresa da Cafagna nel suo saggio Nord e Sud, è di Weber).
Le risorse trasferite al Sud non erano lo strumento di una grande operazione di sviluppo economico, ma diventavano la base del potere di una classe politica.
Le dinamiche del potere interne a quella classe provocava­no una "balcanizzazione" del partito dominante, e poi dei suoi alleati, in correnti, ciascuna radicata prevalentemente in certe regioni.
Balcanizzazione del partito e disponibilità di risorse da tra­sferire promuovevano 1'acquisività politica: una condizione lontana dalla prima fase d'intervento nel Mezzogiorno, anco­ra guidata da un disegno "storico", e non ancora consegnata nelle mani di consorterie autarchiche.
Si formava cosi, nel Sud, un nuovo blocco storico. Non il vecchio blocco agrario, dissolto dallo svuotamento delle cam­pagne conseguente all'emigrazione e all'urbanizzazione, ma un blocco politico-burocratico, la cui funzione sociale essen­ziale era la gestione dei flussi finanziari trasferiti dal Nord al Sud. Smarrita la ragione progettuale di quel trasferimento, restava la sua potenza acquisitiva. E questa diventava il prez­zo che i governi nazionali pagavano, in cambio dei voti assi­curati alla loro maggioranza.
Emergevano, cosi, i due gravi guasti della nuova con­dizione parassitaria, di vera e propria "palla al piede", del Mezzogiorno: la «rivolta del nord», e la deriva criminale ma­fiosa del Sud.
All' origine della prima, c'era la crescente consapevolezza che il trasferimento di risorse preteso dai meridionalisti non serviva affatto a ridurre la dipendenza del Sud, grazie a uno sviluppo che quel trasferimento avrebbe attivato. Diventa­va sempre più evidente che quello sviluppo non si stava af­fatto verificando: la gente nel Sud consumava di più, ma non produceva di più.
Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. «N on è possibile accettare che il foraggio destinato all' alle­vamento di cavalli di razza venga versato direttamente, inve­ce, a ratti, zoccole e pantegane che si mangeranno poi anche i cavalli» (Cafagna).
Il guasto costituito dalla seconda, la deriva mafiosa, era ancor più grave e drammatico. Si trattava di un' accelerazio­ne della caduta del Mezzogiorno sotto il controllo territoria­le della mafia: peggio, delle mafie.
Dobbiamo rivolgerci, sia pur fugacemente, a un aspetto cen­trale del nostro tempo: lo sviluppo della globalizzazione cri­minale.
Un rapporto confidenziale, presentato nel 2000 al presi­dente Clinton, affermava: «nel 2010 il mondo assisterà pro­babilmente alla nascita di nazioni criminali». Sembra che que­ste previsioni si stiano realizzando. Molte zone del mondo so­no di fatto sfuggite alla sovranità degli Stati, per passare sotto il controllo di veri e propri governi privati. Il rapporto con­tava ben cinquanta aree del pianeta ormai sottratte a ogni ti­po di controllo statale, e passate nell' area di dominio di po­tenze criminali. In altre zone il processo è tutt' altro che com­piuto, ma si può dire che è bene avviato. E una di queste è certamente il Mezzogiorno d'Italia. Negli ultimi trent'anni, e con particolare vigore negli ultimi dieci, zone estese del ter­ritorio meridionale e popolosi quartieri delle grandi città so­no stati sottoposti alla sovranità privata di organizzazioni ma­fiose, che nel frattempo si sono differenziate, radicandosi nei territori di quattro grandi regioni: Cosa Nostra in Sicilia, la 'ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania, la Sacra co­rona unita in Puglia. Un'idea della portata di queste organiz­zazioni la può dare la scheda tecnica della pagina seguente, che traiamo da uno studio sulle grandi mafie italiane (J. de Saint-Victor, Mafia. L'industria della paura).
L'emergere di queste grandi organizzazioni ha profonda­mente modificato la struttura del blocco sociale dominante nel Mezzogiorno. La classe politico-burocratica locale ha stret­to con le organizzazioni mafiose forti rapporti collusivi, ac­cettando di spartire con esse la gestione dei finanzia menti provenienti al Sud dall'esterno, quella degli appalti, e quella dei grandi servizi "pubblici", come la sanità. C'è chi pensa che la collusione sia giunta al di là di un compromesso fra po-
Cosa Nostra (Sicilia): 120 "famiglie" (oltre metà delle quali in provin­cia di Palermo); 3000 membri e decine di migliaia di affiliati. L'orga­nizzazione ha una marcata struttura piramidale che vede, partendo dal basso, gli uomini d'onore, i soldati, i sottocapi e i capi. Ogni manda­mento è comandato da una cupola ed esiste, a livello regionale, un'ul­tetiore cupola (la Commissione), diretta in passato da Totò Riina e poi da Bernardo Provenzano. Va sottolineata l'esistenza, fino al 1995, di una mafia dissidente nel Sud dell'isola (Agrigento), la stidda, compo­sta da mafiosi esclusi da Cosa Nostra. Secondo 1'Eutispes, il giro d'af­fari dell'organizzazione ammontava, nel 2004, a 30 miliardi di euro.
Camorra (Campania): I IO "famiglie", 6500 membri. La struttura è orizzontale e ogni gang è estremamente autonoma, il che spiega le nu­merose lotte intestine. La camorra ha cercato di ispirarsi al modello siciliano all'inizio degli anni Novanta, ma senza successo. Si parla or­mai, soprattutto a Napoli, di "sistema". «'0 guaglione di che sistema è ?», si sente chiedere in città. Del sistema di Secondigliano o del si­stema di Scampia (quartieri a nord di Napoli). Nel 2004, il giro d'af­fari della camorra sarebbe arrivato a 28,4 miliardi di euro, oltre la metà dei quali dipendono dal traffico di droga.
'Ndrangheta (Calabtia): 132 "famiglie", o 'ndrine, e IO 000 affiliati. La struttura è piuttosto simile a quella della camorra, ma le 'ndrine hanno un vantaggio: sono essenzialmente composte da famiglie biolo­giche, un aspetto che limita il tischio di tradimenti. I figli dei mafiosi (<<giovani d'onore») sono avvantaggiati nella cartiera criminale. V a sot­tolineata l'esistenza di una potente appendice in Basilicata (i basi li­schi): le inchieste della procura di Potenza ne hanno messo in eviden­za gli importanti legami al Nord e con il mondo della politica e del jet­set. Il giro d'affari della 'ndrangheta si è attestato, nel 2004, a 35 miliardi di euro. Secondo un rapporto della Direzione nazionale anti­mafia, nel 2007 sarebbe balzato a 180 miliardi.
Sacra corona unita (Puglia): 45 "famiglie", per un totale di 1560 mem­bri. Strutturata orizzontalmente come la camorra (le donne rivestono un ruolo importante), è tuttavia divisa in diverse "società", la società minore (picciotto e camorrista), la società maggiore (sgarrista e santista) e la società segreta, con titoli bizzarri (evangelista, crimine o diritto al­la medaglia, crimine distaccato o diritto alla medaglia con catenina ... )

teri distinti, per configurare un nuovo amalgama sociale, una nuova classe, una borghesia mafiosa. Sta di fatto che il grado d'inquinamento delle amministrazioni locali ha raggiunto li­velli elevatissimi, testimoniati dalle centinaia di casi di scio­glimento delle amministrazioni stesse da parte del governo nazionale, e dagli intralci, resistenze, veri e propri sabotaggi, opposti in sede locale all' azione repressiva della magistratura e delle forze dell'ordine.
La distinzione emerge, se mai, nel rapporto fra la classe politica nazionale e le borghesie mafiose.
Questo rapporto è di natura ambigua e contraddittoria. Da una parte, c'è la risoluta, tenace, eroica battaglia condotta a tutto campo contro la mafia dalla magistratura e dalle forze dell' ordine, appoggiate da forze politiche democratiche e da gruppi sempre piti consistenti di cittadini, esasperati dalla pre­potenza e dal soffocamento mafiosi. Dall'altra, c'è la costan­te e possente inclinazione di un ceto politico cinico a «vivere con la mafia», sulla base del tradizionale scambio tra voti e favori: tra il sostegno elettorale assicurato alle maggioranze, e il flusso di risorse e le garanzie d'impunità.
Si può stabilire un confronto con il vecchio blocco agrario.
Allora, la supremazia incontrastata della classe dominante era esercitata brutalmente e direttamente. Ora, la rendita della mafia è riscossa sotto forma di "pizzo" sull'intera società.
Naturalmente, sorgono conflitti interni al "blocco", anche violenti, anche sanguinosi. A un certo punto, dopo la sfida a­perta allo Stato da parte dell' ala estremista della mafia, sem­brò che fosse venuta l'ora di una resa dei conti e di una scon­fitta storica della mafia. Ma anche quell' ora è passata, i nuo­vi padrini sono tornati alle buone maniere: la mafia si è temporaneamente inabissata, e le antiche consuetudini di scambio politico hanno ripreso vigore.
Torniamo, ora, a considerare le due evoluzioni: la rivolta nordista e la deriva mafiosa sudista.
La prima, dopo una fase dimostrativa di separatismo, si è radicata al Nord nel leghismo: espressione di un'estrema de­stra gelosamente conservativa, decisa a contrastare la conti­nuazione di politiche sistematiche di trasferimento di risor­se al Sud. La pressione leghista, nella nuova maggioranza di governo, ha determinato l'abbandono di fatto dell'impegno meridionalista come priorità politica nazionale. La nuova «questione settentrionale» ripropone in pratica la visione che, prima dell'avventura garibaldina, il moderatismo risor­gimentale aveva dell'Italia, quella di «un grasso Belgio»: un Nord profondamente inserito in Europa; un Sud abb~ndo­nato a se stesso. Nonostante ogni protesta virtuosa, questa è la filosofia che sta al fondo dell'attuale disegno di federali­smo fiscale.
Il fatto è che, abbandonato a se stesso, il Sud rischia di es­sere travolto da un' ondata di criminalità mafiosa che, forte di collegamenti internazionali sempre più intensi, minaccia di tracimare al Nord.
Un giorno, Giuseppe Mazzini pronunciò queste parole: d'Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Dovevano esse­re intese nel bene e nel male. Nel bene le aveva intese Cavour, che sul letto di morte, contrastando i giudizi già allora assai delusi e pessimisti che gli circolavano intorno, espresse un con­fidente ottimismo sul futuro luminoso del Mezzogiorno d'I­talia. Ma la profezia mazziniana aveva anche un risvolto ama­ro. Ed è proprio questo che si profila oggi, dietro la miope vi­sione del «grasso Belgio», che sembra dominare la filosofia politica del nordismo moderno. È una filosofia che sembra ab­bia influenzato anche autorevoli e valorosi meridionalisti del­la sinistra, sedotti dal "tremontismo": penso soprattutto alla diagnosi "capitolarda" di uno dei più intelligenti, Biagio de Giovanni, e mi domando se talvolta delusioni e rancori non finiscano per annebbiare la lucidità dell' analisi.
Ebbene, questo nordismo provinciale è miope rispetto al­la tremenda minaccia che grava su tutto il paese: di diventa­re un "Mezzogiorno d'Europa", centro nevralgico della gran­de rete della criminalità mondiale.
Non si tratta di minacce futuribili.
Pensare che il sistema mafioso resti confinato al Sud del paese è pu­ra ipocrisia: il cancro sta pericolosamente risalendo verso il Nord. Si è impiantato stabilmente a Mil'\no e in Veneto e deborda dallo stesso quadro italiano (De Saint-Vietar).
Una delle pili coraggiose denunce della profondità dell'in­filtrazione mafiosa in alcuni grandi settori dell'industria è sta­ta quella dell' allora leader di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, nel 2007; cui fanno penosamente riscontro le parole dell' ex ministro dei Lavori pubblici Lunardi, secondo le quali è necessario convivere con la mafia.
Del resto, già parecchi decenni fa, Milano è stata sede di banche gravemente indiziate di riciclaggio di fondi mafiosi, e teatro delle gesta di personaggi celebri per le loro intricate collusioni con la finanza mafiosa. Negli anni Novanta Mila­no è stata sede di dieci maxiprocessi di natura mafiosa, con centinaia d'imputati.
Torno alle osservazioni precedenti, relative ai pericoli d'in­voluzione autoritaria che gravano su questo paese. Ho già e­spresso le mie riserve, dovute non certo all'inesistenza di pro­positi e di pulsioni autoritarie, quanto all'esistenza di forti difese, esterne e interne. Altrettanto dicasi quanto ai rischi di secessione, del Nord o del Sud. Ma i rischi di decomposizio­ne del tessuto sociale sono, invece, già in condizione avanza­ta: presenti e manifesti.
Il populismo privatistico che ha investito in pieno questo paese ha caratteristiche e prospettive che vanno al di là delle vicende dell'attuale sorprendente leader, per quanto queste possano riservare sorprese. Esso non presenta un'ideologia (non raggiunge questo livello), ma comporta un clima. E que­sto clima di lassismo morale, per tutto ciò che è res publica, è quello che meglio si adatta a coltivare le predisposizioni alla criminalità organizzata. Pulsioni di ricchezza e baldoria, di­sprezzo della politica, tribalismo calcistico, insofferenza per la critica, impazienza della discussione; ma, soprattutto, on­nipotenza della cura dei propri affari, su ogni altra preoccu­pazione sociale.
Prese ciascuna per suo conto, queste pulsioni sono di cer­to relativamente innocue. Calate insieme in un messaggio po­litico, possono essere devastanti.
Quel che sgomenta, per una persona ormai inguaribilmen­te plasmata dai valori del 1789 (libertà, eguaglianza, frater­nità), è l'assenza totale di un messaggio contrapposto, di egua­le intensità e potenza, dalla parte sinistra.
All'invocazione di questo messaggio, limitata al caso ita­liano, sono dedicate le ultime pagine di questo libro.

Capitolo sesto
SENZA CONCLUSIONI

L'era berlusconiana è una parentesi effimera? Ci sono buo­ne ragioni per pensare che la sua spinta propulsiva sia esauri­ta (cosi la pensa, per esempio, Aldo Schiavone). Ce ne sono altrettante per valutare i rischi che essa presenta: quelli di una deriva autoritaria, di una polverizzazione sociale e, soprattut­to, quello di una decomposizione territoriale del paese.
Per «decomposizione territoriale» intendo, per l'Italia, una condizione nella quale il Nord somigli a un «Belgio grasso» (secondo la definizione di Omodeo), e il Sud a una colonia mafiosa.
Una condizione a dir poco spiacevole, a centocinquant'an­ni dall'unificazione. Questo pericolo non è avvertito da una sinistra che ha cessato di rappresentare un' alternativa di go­verno credibile, per non dire un progetto di società diversa. E che si limita al "controcanto". Anche la sinistra, non solo la destra, ha da tempo abbandonato la «questione meridionale».
E invece, è proprio su questo terreno che essa potrebbe riacquistare l'iniziativa politica perduta: come forza capace di arrestare il processo di decomposizione, e di realizzare fi­nalmente il compito storico "mancato" dell'unità, dopo quel­lo conseguito dell'unificazione.
Riprendere in mano la questione meridionale non signifi­ca, ovviamente, riproporla nei termini "gramsciani". È pas­sato quasi un secolo, e la depressione politica del Mezzogior­no non s'identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa, e nello scambio tra il voto elettorale che essa garantisce al governo centrale, e le risorse finanziarie che riceve tramite quello, e che gestisce at­traverso i governi locali.
Questa borghesia "politica" è legata alla mafia militare, quella dei Provenzano e dei Riina, in un rapporto dialettico che comporta tensioni e conflitti, ma che resta indissolubile: il che spiega l'eterna risorgenza delle mafie dopo i colpi, anche durissimi, che esse subiscono dall'apparato giudiziario e mili­tare dello Stato.
D'altra parte, la mafia militare s'intreccia sempre più con le grandi reti della criminalità internazionale, acquistando sempre maggiore autonomia, e radicandosi profondamente non solo in Sicilia, ma in altre grandi regioni e città del Mez­zogiorno, dove si trasforma in quartier generale del crimine internazionale.
Questo è il doppio nodo che bisogna spezzare: tra la clas­se politica meridionale e la mafia; tra la mafia e le reti inter­nazionali del crimine.
Queste due battaglie non hanno alcuna probabilità di es­sere vinte, nell' attuale stato di frammentazione politica e am­ministrativa del Mezzogiorno, lasciato nelle mani di governi regionali contaminati, e spesso sopraffatti, dai legami clien­telari e dalle pressioni mafiose.
Bisogna mettere in campo un nuovo soggetto: un vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno. L'idea non è nuova. Essa riprende in circostanze nuove il grande progetto della ri­voluzione meridionale di Guido Dorso, e della costituzione meridionale federalista di Gaetano Salvemini: un governo au­tonomo del Mezzogiorno, saldamente ancorato a una costitu­zione nazionale autenticamente federalista.
Ricordiamo le parole di Guido Dorso, mai cosi attuali:
La soluzione del problema meridionale non potrà avvenire se non sul terreno dell'autonomismo. Ogni altro tentativo o ci riconduce nel vecchio schema della carità statale o minaccia di sbalzarci nel separa­tismo reazionario (Villari).
Si tratta, nel solco di quella proposta "rivoluzionaria", di trascendere il regionalismo, che ha frammentato la questione meridionale, favorendo la formazione di clientele locali e per­dendo di vista l'unità del problema, per costituire un gover­no del Mezzogiorno come soggetto politico unitario.
Questo disegno non ha niente a che fare con la boutade di un "partito del Sud", e cioè di una formazione leghista del Sud che si contrapponga a quella leghista del Nord: un vec­chio progetto, ricalcato su precedenti, e ben note, insorgen­ze di carattere separatista, secessionista e mafios,9.
La visione cui si ispira è quella del federalismo unitario: di un grande patto fra il Nord e il Sud del paese, posti stillo stes­so piano autonomista, e volto a superare finalmente il distac­co fra le due parti del paese, ricongiungendole in un'unità su­periore. Proprio la visione di quei grandi meridionalisti che avevano concepito la questione meridionale come la chiave dell'unificazione nazionale.
Bisogna, però, distaccarsi decisamente dalle forme paras­sitarie e corrotte nelle quali l'intervento straordinario è cadu­to, e riproporre il problema antico nella nuova configurazio­ne europea. Esiste, dunque, un problema di recupero e un pro­blema d'integrazione.
Quanto al primo, l'obiettivo del superamento del divario dovrebbe essere realizzato non contando soltanto sui trasfe­rimenti finanziari dall'esterno, ma anche e soprattutto su una mobilitazione delle risorse del Mezzogiorno stesso. A tal fi­ne, i trasferimenti dovrebbero essere convogliati, nell' arco di una generazione, in un unico grande piano di risanamento e di sviluppo urbano.
Il problema fondamentale del Mezzogiorno, oggi, è co­stituito infatti dalle sue città degradate e congestionate, so­prattutto da quelle più grandi e popolose, come Napoli, una vera e propria emergenza sociale: sporcizia dei rifiuti, abban­dono scolastico, illegalità sistematica, racket, e soprattutto acquiescenza passiva, che talvolta si muta in attivo consen­so, che queste avvilenti pratiche riscuotono nel fondo della coscienza popolare. Strutture urbane fatiscenti costituiscono lo scenario connaturato di questa degradazione.
Il segno più evidente della degradazione, afferma il Cen­sis, è la fuga dei giovani dalle città. Negli ultimi cinque anni, diversamente da Milano, Torino e Firenze, la popolazione di Palermo, di Napoli e di Catania è diminuita. E sono giovani, quelli che abbandonano i loro coetanei all'influenza e alla mi­litarizzazione delle cosche.
Il "territorio" è stato abbandonato a se stesso, il suo con­trollo è passato nelle mani dei governi criminali, in costante conflitto tra loro.
È, dunque, partendo da una riorganizzazione urbanistica che si può liberare il territorio dalle incrostazioni criminali. Un ambiente urbano provvisto dei servizi civili fondamenta­li, soprattutto di quelli relativi alla sicurezza, è la condizione per l'insediamento di nuove imprese. E soprattutto, è la con­dizione essenziale per sradicare dal Mezzogiorno l'escrescen­za tumorale della mafia.
La guida politica del piano dovrebbe essere compito fon­damentale e centrale del governo federale del Sud, sotto il con­trollo di un' assemblea democratica che costituisca la matrice di una nuova classe dirigente meridionale. La sua gestione ope­rativa dovrebbe essere affidata a una Banca del Risanamento e dello Sviluppo, che la sottragga a ogni pressione tangenti­zia e clientelare.
L'obiettivo del recupero, che realizzi finalmente le promes­se del Risorgimento, fondando su un patto federativo l'unità del paese, non può, però, prescindere dal contesto internazio­nale nel quale si svolge la vicenda politica italiana: in primo luogo, da quello europeo.
Il Sud d'Italia non è soltanto un problema italiano. È par­te integrante della questione mediterranea, a sua volta parte determinante del progetto europeo. Quest'aspetto è stato ri­conosciuto dall'Unione Europea quando, nel 1995, essa fon­dò, insieme con i dodici paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, il Partenariato euromediterraneo, meglio no- to come Processo di Barcellona, che aveva per obiettivo pros­simo la costituzione di un'area di libero scambio; e, al di là di quella, un impegno transnazionale dei paesi della sponda nord e di quella sud del Mediterraneo al perseguimento di tre obiet­tivi principali: la cooperazione politica, la prosperità econo­mica, l'intesa sociale e culturale. Non è questo il luogo per spiegare le ragioni di un deludente seguito di quell'impegno esaltante (a tutt'oggi, il commercio intermediterraneo è fer­mo a meno del 15% delle esportazioni totali della zona).
Ci si può limitare a richiamare la ragione più ovvia: il for­midabile handicap che il conflitto arabo-israeliano costitui­sce per l'avanzamento di un processo cosi ambizioso. Ma è certo che, indipendentemente da questo colossale ostacolo, nessuno dei paesi partecipanti si è impegnato seriamente e concretamente, nella promozione di una serie di progetti ri­spondenti ai tre obiettivi del processo.
Ecco un' occasione per un nuovo soggetto politico, posto al centro del Mediterraneo, per misurarsi con questa sfida. Romano Prodi si era fortemente impegnato in questa direzio­ne, ma i suoi successori hanno preferito la politica degli in­contri mediatici a quella degli impegni concreti.
L'occasione è, per l'Italia, e in particolare per un eventua­le governo federale del Mezzogiorno italiano, quella di impe­gnarsi decisamente in una politica di europeizzazione medi­terranea, equilibrando la spinta che l'Unione riceve dai paesi dell'Europa orientale. La storia del nostro paese, che nella pri­ma parte di questo libro abbiamo evocato, lo pone in una con­dizione di primato storico, oltre che di posizione geografica.
Queste considerazioni, che non possono essere conclusive, non giustificano affatto la speranza che ciò che è mancato ie­ri, la saldatura storica tra le due metà del paese troppo lungo, possa realizzarsi domani. Al contrario. Nei giorni in cui scri­viamo, molte nubi si addensano, al Nord come al Sud, che gettano una luce sinistra sulle imminenti celebrazioni del cen­tocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. lo per primo mi rendo conto di quanto una proposta di re­cupero storico di quell' obiettivo, in grande parte mancato, co­me quella che ho avventurosamente avanzato, possa apparire impraticabile. Dalla mia parte c'è soltanto il ricordo, cosi in­sistentemente evocato nel libro, di quanto sia apparsa sorpren­dente l'unità d'Italia.
Prima di chiudere, vorrei, però, difender mi da due obie­zioni possibili, e formulare un'istanza improbabile.
La prima obiezione è che la proposta qui enunciata ha tut­te le probabilità di scontrarsi frontalmente con il grosso del­la classe politica dirigente del Sud, a destra ma anche a sini­stra: una classe dirigente incardinata nelle strutture regiona­li dalle quali deriva il suo potere, a sinistra e a destra.
Ma è proprio questo lo scopo della proposta: di demolire il potere delle attuali classi dirigenti; di spezzare i legami che si sono intrecciati fra reti politiche clientelari e reti mafiose territoriali; di fondare su base democratica una nuova classe politica meridionale, in grado di rappresentare e di gestire pro­blemi che, per loro natura, investono !'intera area meridiona­le. Verranno alla luce conflitti interregionali; io direi, più che altro, interclientelari? Oportet ut scandala eveniant. Qui si mi­sura la capacità di un grande partito di rappresentare gli inte­ressi generali, anziché le tribù locali, dalle quali esso stesso fi­nisce per essere condizionato e corrotto.
La seconda obiezione potrebbe essere mossa da quanti pensano che ormai il problema dell'unità nazionale è alle no­stre spalle. Quella sarebbe, dicono, un' occasione perduta, una volta per tutte. Oggi non bisognerebbe perdere altro tempo, inseguendo ombre fugaci. Nel tempo in cui si edifica l'Euro­pa, bisogna calarsi in questa nuova impresa storica, nella qua­le investire tradizioni, inclinazioni e contributi più ricchi di quelli di altri paesi, senza attardarci su linee che sono state da tempo travalicate. Questa posizione che, fra altri, è stata argomentata, con la consueta finezza culturale, da Aldo Schiavone, devo dire, non mi convince affatto. Una delle ra­gioni per le quali l'europeismo italiano non è mai stato preso troppo sul serio è la sua gratuità. È facile rinunciare a sovra­nità deboli. Quelle che contano, sono le rinunce "forti". Su quelle si trasferiscono e si edificano poteri reali. Una voce fle­bile in Italia non acquista forza in Europa.
Abbiamo dato in altri tempi all'Europa ingegni finissimi che, o sono diventati efficaci e potenti, a patto di convertirsi agli interessi nazionali dei paesi che li avevano "adottati" (si pensi a un Mazzarino), o hanno svolto una funzione di brillante cor­nice, di un quadro dal quale il loro paese mancava totalmente.
È un'illusione, quella di colmare il vuoto di una persona­lità nazionale con quello di un' avanguardia europea. Il mi­glior europeismo è quello che si nutre pienamente delle realtà nazionali: dei loro caratteri, delle loro richieste, persino dei loro pregiudizi, per arricchirlo. L'europeismo ha tanto pili valore quando è il contributo di un azionista che conferisce parte del suo capitale. Si rischia altrimenti, ancora una volta, d'incorniciare un quadro cui fa difetto una presenza effetti­va. Di fare la parte dei cantori, non dei costruttori dell'Eu­ropa. Il solo modo di essere seriamente europeisti è di poter contare su un'indiscutibile identità nazionale.
Infine: l'istanza è rivolta alla sinistra democratica e rifor­mista. Essa sta attraversando un momento di oscuramento dei suoi obiettivi, di spaesamento dei suoi propositi. Sembra incapace di riconoscer si in una realtà sociale che esprima sin­teticamente i suoi ideali e le sue aspirazioni. Una volta que­sta realtà sociale era la classe operaia. Oggi quella si è amal­gamata in una struttura sociale complessa e differenziata. C'è, però, una forma superiore della solidarietà sociale, che la de­stra ha da tempo abbandonato, sciogliendola in un populismo privatistico disgregante. Ed è la forza ideale della nazione.
Realizzare attorno a un progetto nuovo di unità naziona­le una vasta rete di solidarietà è la risposta pili efficace al mes­saggio populista e privatista. È il segno che la "gente", oggi abbandonata all' autoritratto sterile dei sondaggi, può ancora trasformarsi, riconoscendosi nel suo passato, impegnandosi nella costruzione del suo futuro, in "popolo".


















































































































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