UN PAESE TROPPO LUNGO
Giorgio Ruffolo
Introduzione
Guardo la carta d'Europa, e sento lo sforzo di quell' appendice geografica di staccarsi dal "corpaccione" asiatico protendendosi verso l'Atlantico e il Mediterraneo, Un corpo centrale compatto, dalla Polonia alla Francia, lancia al Nord la penisola scandinava (un'Italia malriuscita) e un'esile punta danese; al Sud, una Spagna tozza e una Grecia che va in frantumi.
Al Nordovest si è distaccata la forma piumata dell'Inghilterra, e al centro del Mediterraneo quella di un'Italia chiamata, che si distende restringendosi alla vita e articolandosi alle estremità. A quella figura elegante non si addice l'immagine sgraziata dello Stivale, ma piuttosto quella di una signora, leggiadramente fluttuante sul mare. Una penisola lunga, un po' troppo lunga, dissero gli Arabi, che la tormentarono per tanto tempo senza riuscire a possederla tutta intera, come del resto tante altre nazioni dominatrici, tranne Roma, che però la immerse in un grande impero.
Di questa un po' eccessiva lunghezza si tratta in questo libro, e delle vicende che hanno reso, attraverso la storia, tanto problematica e che tuttora, a distanza di centocinquant' anni, insidiano la sua definitiva unificazione.
Quella storia la ripercorro dal momento in cui di Italie se ne contrappongono due: una al Nord, l'altra al Sud. E, in maniera un poco inusuale, parto da quest'ultima, colta appena alla fine dell'alto Medioevo, quando ci appare frammentata tra ducati longobardi, colonie bizantine, repubbliche marinare e scorrerie saracene, fissando l'immagine su un punto d'osservazione privilegiato, la città di Amalfi, insieme con Venezia la più precoce tra le repubbliche marinare italiane. A quel tempo, se si eccettua appunto Venezia, tutto il Nord era compreso in un'unità politica, il regno d'Italia, a sua volta incluso nell'impero germanico. Seguo la scena fin quando improvvisamente si ribalta, con un Sud che si compone in un regno potente, normanno e poi svevo, e un Nord che si decompone tra i liberi Comuni e le ricche repubbliche del mare.
Ecco, quello era il momento: l'occasione che si offriva a li un grande sovrano di stringere queste due realtà in una grande unità federativa. Violando la norma che presiede alla ricerca storica (jactum infectum fieri nequi: alla buona, «ciò che è fatto è fatto») ho, allora, inserito nel racconto una variante impossibile, un "canone inverso", assegnando quel ruolo di unificatore d'Italia al grande Federico II che, in quei termini, non l'avrebbe certo gradito. Chiudendo poi questa fantasia, che di certo non è storia, ma può servire a interrogarla criticamente, sono tornato alla realtà, e al modo catastrofico in cui !'Italia perdette la sua potenza e la sua indipendenza. La nota amara su cui si conclude questa parte è l'incapacità italiana di fondare sul suo primato economico e culturale uno Stato nazionale, come fecero altri grandi paesi europei. A quel punto, il destino dell'Italia era segnato. Il frate Savonarola, inascoltato, poteva annunciare l'invasione - resistibile - del re francese: «E' verrà, e' verrà».
Nella seconda sezione del libro, con un salto di cinque secoli, ho rappresentato con rapidi tratti una vicenda non meno inverosimile, ma stavolta vera: il modo avventuroso in cui l'Italia, dopo secoli di servitù, realizzò finalmente la sua libertà e la sua indipendenza, attraverso due fasi: quella di un Risorgimento caldo, animata dal sogno di un'Italia che fa da sé la sua unità, nazionale e popolare; e quella di un Risorgimento freddo, costruito sulla trama-capolavoro tessuta da un grande statista, Cavour, ma anche sulla paradossale intesa tra il moderatismo monarchico e il radicalismo repubblicano: là dove il genio di Cavour incontra la malinconica saggezza del suo grande nemico, Giuseppe Mazzini, e la grande generosità di un inopinabile impetuoso alleato, Giuseppe Garibaldi.
Il 1860, anno dell'unificazione del regno, è l'anno in cui si compie il grande moto del Risorgimento. Ma è anche quello in cui esso comincia a invischiarsi nella grande palude dell' «Antirisorgimento».
L'Antirisorgimento si sviluppa, successivamente, in tre forme storiche.
La prima è la corruzione del patriottismo risorgimentale nel nazionalismo aggressivo, che nasce dal gigantesco complesso d'inferiorità di una piccola borghesia frustrata da secoli di servitù. Cavalcando la denuncia delle fragili istituzioni democratiche create dal nuovo Stato, esso precipiterà il paese nel massacro di una guerra mondiale e nell' avventura retorica e populista del fascismo. La nazione mussoliniana è l'antitesi della patria mazziniana. Là dove quella era concepita come parte di un generale affratellamento dei popoli europei e di un grande moto di solidarietà sociale, questa è l'espressione del primato militarmente aggressivo, e socialmente oppressivo, di un' élite violenta e dissennata.
La seconda consiste nel condizionamento dello Stato italiano da parte della Chiesa cattolica e della sua massiccia presenza a Roma. Che lo si voglia riconoscere o no, in Italia esistono due sovranità, non una: la sovranità nazionale è limitata da quella ecclesiastica. Si può fingere di non vedere. Nondimeno questa è la realtà che si esprime nei Concordati, e che tutti i discorsi sull' armonia tra le due istituzioni non riescono a dissimulare.
La terza è la questione meridionale. Il carattere antirisorgimentale di conquista del Sud da parte della monarchia sabauda si rivela immediatamente dopo che le camicie rosse sono scomparse, sostituite dalle uniformi blu dei soldati del re, nella cosiddetta «guerra del brigantaggio»: in realtà, una repressione violenta delle plebi contadine, schiacciate con la connivenza dei baroni. È proprio nella fase piti avventurosa del Risorgimento, quella rappresentata dall'unificazione con il Sud, che un'impresa nata sotto l'insegna della liberazione si corrompe in mera conquista, segnando tra le due parti del paese un solco fatale, che i tanti sforzi successivi non riusciranno a colmare.
Se, con un nuovo salto storico, approdiamo ai giorni nostri, dobbiamo domandarci quanta parte di queste tre minacce insidi ancora il nostro paese, a centocinquant' anni dal compimento della sua unità.
Certo, la minaccia fascista è scomparsa; anche se non ne è affatto scomparsa la nostalgia, che si manifesta attraverso una continua campagna di denigrazione di quel secondo Risorgimento che è stato rappresentato dalla Resistenza. Al posto del fascismo, tuttavia, si è installata nel popolo italiano un'altra forma di ripugnanza per le istituzioni della democrazia, un «anti-antifascismo» che non fa appello alla retorica nazionalista, ma a un' altra forma di populismo privatistico, non più trascendente nel sentimento patriottico, ma nel tifo calcistico.
Tutt'altro che scomparsa è la seconda insidia, quella del protettorato cattolico, che trae dal neoguelfismo una tradizione illustre.
E infine, l'insidia più grave, conseguenza del fallito compimento dell'unità, è quella costituita dalla decomposizione, presente al Nord in forme tutto sommato pacifiche, anche se bizzarramente provocatorie, e incombente al Sud nella secessione criminale delle mafie, che sequestrano zone intere della Repubblica.
Questa è la vendetta suprema dell' Antirisorgimento che il paese, a centocinquant' anni dall'unificazione, deve fronteggiare. Sarebbe triste se le sue speranze di superarla fossero tutte affidate a un'Unione Europea cui, anziché offrire l'esperienza di una ricca tradizione di diversità, si fosse costretti a chiedere di tirare la carretta di una penisola troppo lunga e sconquassata.
Ma una speranza, per quanto controversa, c'è.
I miei ringraziamenti vanno ad Alfredo Reichlin, che si è sobbarcato alla lettura di questo libro; a mia moglie che ha combattuto e vinto le mie esitazioni; e, una volta ancora, a Letizia Guerrieri, alla cui intelligenza e generosità devo il paziente lavoro di editing.
Parte Prima
L’UNITA’ MANCATA
Capitolo Primo
L’AVVENTURA AMALFITANA
I due golfi, di Napoli e di Salerno, sono divisi dalla penisola sorrentina, dominata dai monti Lattari. Sulla costa nord della penisola, Sorrento. Sulla costa sud, Amalfi, sul mare, aggrappata ai monti.
Diverse sono le condizioni delle città costiere, quanto alle predisposizioni economiche. Città come Salerno e Napoli hanno alle spalle piane fertili che le spingono verso 1'agricoltura. Città come Sorrento e Amalfi hanno terre avare e scoscese, nelle quali occorre scavare terrazze ardue per ricavare raccolti strenui. È naturale che esse cerchino sfogo nei traffici del mare.
Ma in ciò hanno dimostrato diversa fortuna: Amalfi moltissima, Sorrento scarsissima. Dunque non è la geografia che basta a fare la storia.
Ma c'è cui piace ricordare la fanciulla, Amalfi, che Ercole ha amato e che li ha trovato la morte. Forse, dietro il mito dei nobili fondatori c'è la realtà di una compagnia di naviculari, trasportatori di grano per conto dello Stato - e, all'occorrenza, per conto loro - che fuggono di qua e di là braccati dal fisco.
Amalfi è un piccolo borgo di contadini, pescatori e soprattutto mercanti di breve raggio. Delle ascendenze romane restano certe pretese, come quelle dei vicini ravellesi, che parlano di un Quinto Fabrizio Rufo ex console romano, con relativo sarcofago conservato in una chiesa. Di certo, ricche famiglie romane, pare di liberti dei domini imperiali, avevano scelto di soggiornare nelle loro ville sontuose sulle rive di quel mare. Ma non ve n'era più traccia da quando, crollato l'Impero, i luoghi erano stati infestati dalla malaria, e percorsi dalle milizie gotiche e greche, e più tardi greche e longobarde, che se li contendevano. Di quel borgo emerge notizia nel 596, in una lettera inviata da Gregorio I il Grande a un certo Antemio, suo rettore in Campania, nella quale il papa gli ordina di far tornare in sede il vescovo di Amalfi Pimenio, che pare se la fosse comprensibilmente svignata per il terrore degli imminenti Longobardi. Dunque, già allora Amalfi aveva un vescovo.
Lasciatasi dietro la montagna per la costa, gli amalfitani non si erano accontentati di praticare quietamente la pesca. Quale sia la molla dell'ardimento che fin dall'inizio li sprona, è impossibile dire. Fatto sta che, ove altri guardano il mare come un orizzonte angoscioso, essi ne colgono l'invito all' avventura. Non al baratto fra due brevi sponde, ma al commercio con genti lontane di lingue ignote. Di quelle genti saracene essi, certo, fanno esperienze dure, di violenza e di sopraffazione; ma anche d'intesa e di scambio.
Devono al tempo stesso fronteggiare la pressione germanica alle loro spalle e la minaccia saracena dal mare.
Salta agli occhi il raffronto con la condizione, al lato opposto dell'Italia, di Venezia. L'analogia geografica, anzitutto, di un territorio difficilmente accessibile e quindi ben difendibile: Venezia, grazie alla laguna nella quale è immersa, Amalfi, grazie alla catena dei monti cui è aggrappata. Analogia politica: la protezione offerta all'una e all'altra città dall'impero bizantino; e, insieme, l'ampio grado d'autonomia che esso, oggettivamente, accorda. Analogia caratteriale: le qualità d'intraprendenza, intelligenza, competenza e coraggio che quei cittadini - per tanti altri aspetti cosi diversi - dimostrano. Non ultime, certo, le analogie diplomatiche. È difficile trovare nella storia altri casi cui si possa applicare con altrettanta precisione semantica il termine "barcamenare". E, infine, l'analogia statuale: ambedue non monarchie e non repubbliche comunali, ma "oligarchie assolute": un potere aristocratico radicato in un forte patriottismo cittadino.
Se queste sono le incontestabili analogie, il contesto politico generale è assai diverso.
Il Nord, se si eccettua proprio la Repubblica veneta, è uno Stato unitario, organizzato in un regno volta a volta posto sotto la sovranità gotica, longobarda, franca, e finalmente compreso nel più vasto ambito dell'impero germanico.
A sud della linea gotica il paesaggio politico resta, per circa quattro secoli, frammentato. Lungo una fascia che scende da Ravenna a Roma, i Bizantini mantengono la sovranità dell'impero, esercitata da un esarca. A Roma, in pratica, è il papa che comanda. Nel resto dell'Italia centrale e nell'Italia meridionale interna si sono costituiti due ducati longobardi, in larga misura autonomi: quello di Spoleto e quello di Benevento, cosi che il dominio longobardo è interrotto. Calabria, Lucania, Puglia e Sicilia sono rimaste sotto sovranità bizantina.
T aIe quadro complesso è ben presto complicato da due nuovi attori. Il primo, l'Islam. I Saraceni non instaurano un dominio stabile, ma una stabile turbolenza che investe larghe zone della penisola. Il secondo, il nuovo impero germanico d'Occidente, costituito dai Franchi dopo avere sconfitto i Longobardi e averli sostituiti nel regno d'Italia: un impero rivale di quello bizantino e che pretende di esercitare su tutta l'Italia, al Nord e al Sud, la sua imperiale sovranità. C'è poi in Campania una breve fascia costiera costituita dal ducato di Napoli, formalmente sotto sovranità bizantina, ma sostanzialmente sempre più autonoma (una Venezia del Sud): quella dov'è collocata Amalfi.
Con questa città abbiamo cominciato il racconto. E da essa tenteremo di seguire le vicende dell'Italia meridionale durante i secoli dell' alto Medioevo: dalla fine della guerra gotica al regno normanno e all'impero svevo. Ne anticipiamo una caratteristica differenziale generale, rispetto al Nord d'Italia, con un flash. Mentre questi secoli segnano, nel Sud, il travaglio attraverso cui da una condizione anarchica di poteri frammentati si giunge alla costituzione di un'unità politica, di un regno, al Nord si assiste a un processo inverso: dalla costituzione di un regno alla frammentazione di Comuni e di repubbliche. Ecco un tema peculiare che pesa sulla storia del nostro paese. Torniamo dunque ad Amalfi.
Amalfi bizantina.
Abbiamo già evocato la terribile morsa che minaccia di schiacciare Amalfi già dal suo nascere. Gli amalfitani devono fronteggiare sul mare l'incombente minaccia saracena e dalla parte di terra quella dei Longobardi del ducato di Benevento.
Bisogna però dire che essi non sono abbandonati a loro stessi. Amalfi, compresa nel ducato bizantino di Napoli come tutta la costiera campana, è stata preservata dall'invasione longobarda dalle forze greche. L'impero d'Oriente, abbiamo ricordato, è riuscito infatti a mantenere la sua sovranità su vaste regioni dell'Italia centrale e meridionale, esercitandola attraverso i suoi generali, i duces. Il ducato di Napoli è una di queste enclaves. E gli amalfitani ne sono fedeli sudditi. Alle origini della sua storia Amalfi si sviluppa dunque sotto la protezione della flotta bizantina. Una protezione, però, necessariamente discontinua, data la distanza remota dalla capitale dell'impero e gli impegni molteplici cui gli eserciti e le navi greche devono assolvere su un ampio fronte. Per larga parte del loro tempo gli amalfitani devono cavarsela da soli, in una condizione di sostanziale autonomia.
C'è, nel rapporto tra Amalfi e Bisanzio, una saggia antica vena d'ipocrisia politica. Gli amalfitani sanno che non possono fare a meno, se non della potenza greca, che si manifesta in modo incerto e discontinuo, del "nome" imperiale, che di per sé costituisce un fattore legittimante e deterrente. Bisanzio (i suoi grandi diplomatici, prima ancora che i suoi imperatori) sa di non disporre di un potere diretto su quella piccola città, che tuttavia comanda una grande flotta e costituisce un fattore potente d'intelligenza politica e di coraggio. Ai primi conviene recitare la parte dei sudditi fedeli. Agli altri quella dei sovrani indiscussi. È un fatto che nei momenti supremi gli uni hanno potuto contare sugli altri.
Amalfi e i Longobardi.
I Longobardi erano originari della Scandinavia, che allora si pensava fosse un'isola. Era un paese decisamente povero e prolifico. Quando gli abitanti superavano le possibilità offerte dalle risorse, si praticava una politica demografica radicale. Si estraeva a sorte un terzo della popolazione, destinato a migrare verso il Sud. Cosi Diacono narra che avesse inizio la migrazione che, al comando di due giovani fratelli e della loro madre autoritaria, portò in cinquant' anni questo nuovo popolo alle soglie del grande Impero.
I Longobardi si chiamavano allora Winnili. Erano pagani, si dichiaravano protetti da Gutruna, la moglie del dio Wotan. Per renderli più numerosi e graditi al marito, contro i loro rivali, raccontavano che Gutruna avesse ordinato alle loro donne di sciogliersi i lunghi capelli, annodandoseli al collo in guisa di barbe. «Chi sono quelle lunghe barbe?»: aveva domandato, svegliandosi, il dio. E da quel momento il loro nome era cambiato.
La grande migrazione dei Longobardi del VI secolo aveva attraversato mezza Europa centrale, affrontato battaglie, subito sconfitte, ottenuto vittorie, sempre combattendo, aggregando nuove popolazioni, liberando schiavi per armarli, accumulando bottini, e soprattutto esperienze; acquisendo informazioni e tecniche, raccogliendo racconti fantastici e miracolosi. Dalla serie dei loro re, una decina, per lo più eletti dai guerrieri, taluni imposti da congiure con la frode e la violenza, era emerso alla metà del secolo VI un personaggio eccezionale per astuzia e immaginazione, che aveva osato concepire l'impensabile. Dopo avere massacrato il popolo dei Gepidi, sposato la figlia del loro re, la celebre Rosmunda costretta dallo sposo ubriaco a bere nel teschio del padre, e dopo essersi aggregato le schiere degli Unni-Avari, che si diceva riuscissero a surclassare i Longobardi in ferocia, il giovane re Alboino decise di spingere la massa del suo popolo in armi - pare, fra due e trecentomila - attraverso il varco della pianura friulana, presidiata da un velo di truppe bizantine, subito travolte. Era il 568, e l'Italia era devastata dalla peste e stremata dalla micidiale guerra tra Goti e Greci. Una cattiva leggenda, diffusa probabilmente nell'harem del basileus da un'imperatrice gelosa, addossò al generale eunuco Narsete, vincitore dei Goti, l'accusa di avere invitato i Longobardi, molti dei quali avevano militato come mercenari nel suo esercito, a entrare in Italia per vendicarsi del suo richiamo. Ma Alboino non aveva bisogno di alcun invito: era di parecchi gradi più su dei suoi. Conosceva i mercenari e i loro racconti sulle meraviglie dell'Italia. Sapeva che le forze capaci di resistenza vi erano esaurite. Che la popolazione odiava i Bizantini, per la rapacità fiscale e la condanna delle sacre immagini. Che Bisanzio era lontana e divisa. E si era identificato con un'identità nazionale superiore, qualche cosa come una nazione germanica ante litleram, che aveva osato aggregare anche le orde asiatiche degli Unni, per piombare sull' antico Impero. Rispetto al quale non nutriva complessi.
Per qualche anno, dopo aver dilagato nella valle padana, sembrò che avesse veramente in mano l'Italia.
Il Sud d'Italia si trovò a dover fronteggiare anch'esso i Longobardi. Non è chiaro se quelli che l'occuparono fossero la coda della gente di Alboino o dei mercenari dell'esercito di Narsete, che già si trovavano sul posto. In ciascuno dei due casi si organizzarono in due grandi ducati, quello di Spoleto e quello di Benevento, largamente autonomi dal governo del re, che aveva stabilito la sua capitale a Pavia.
L'Italia meridionale è lunga e accidentata. Che fossero già là o vi fossero giunti attraverso una lunga marcia, i Longobardi del Sud non potevano essere tanto numerosi (forse cinquantamila in tutto) da travolgere i Bizantini là dove, sulle coste, questi contavano sulla protezione delle loro flotte. Sul mare i Longobardi non erano a loro agio. Cosi si arrestarono di fronte alla punta estrema dello Stivale, Puglia e Calabria, e al limite della costa campana.
Nel Sud, come nel Nord, il primo impatto dell'invasione fu tremendo. Non si trattava di una devastante ma transitoria scorreria, come nel caso degli Unni o di un semplice pronunciamento militare, come in quello dei Goti. Si trattava di un' occupazione stabile del territorio e di una violenta e stabile sottomissione della popolazione. Su quella che fu la sorte dei Romani vinti ancora si discute fra gli storici: se furono ridotti alla condizione infima di schiavi, o a quella intermedia di semiliberi (gli aldi). La loro classe dirigente, i grandi proprietari, nobili e no, furono semplicemente massacrati e le loro donne schiavizzate. Quando una classe dirigente è distrutta, tutta una nazione scompare dalla storia.
Quando, dopo più di un secolo dall'invasione, gli italiani ricompaiono, è in una condizione socialmente subalterna e moralmente disprezzata. Quale fosse l'atteggiamento dei nuovi padroni nei confronti della popolazione italiana lo si può desumere da una risposta di Liutprando, vescovo di Cremona, all'imperatore Manuele, che gli rimproverava l'assenza di Romani nell' amministrazione del regno:
Noialtri Lombardi, come i Sassoni, i Franchi, i Lorenesi, i Bavaresi, gli Svevi e i Burgundi disprezziamo tanto il nome di Romani che, quando montiamo in collera non troviamo, per offendere i nostri nemici, un'ingiuria più forte della parola Romani, che per noi comprende tutto ciò che c'è di ignobile, vile, avaro, lussurioso e bugiardo, tutti i vizi, insomma.
Dal loro canto, si può scommettere che i Romani non nutrissero verso i loro padroni un'eccessiva simpatia.
La condizione dei dominatori nei riguardi delle popolazioni locali era del resto, in Italia, molto diversa da quella ,degli altri paesi europei. In quelli, gli invasori germanici - Franchi, Burgundi ecc. - avevano incontrato popoli romanizzati, si, ma non romani. Una volta eliminate le guarnigioni e le fami glie dei Romani non c'era motivo per cui non si stabilissero con le genti da essi sottomesse relazioni favorevoli a una reciproca integrazione.
In Italia era diverso. Vincitori e vinti erano, e restarono per molto tempo, oppressori e oppressi. Insomma, nemici. Per quanto tempo? Per molto tempo, fino e oltre la caduta del regno longobardo a opera dei Franchi. C'è da credere che, nella sostanza, l'amara sentenza manzoniana, che toglie agli italiani ogni illusione di approfittare della vittoria carolingia per recuperare la loro indipendenza, sia giusta: «l'un popolo e l'altro sul collo vi sta».
Le due aristocrazie, quella longobarda e quella franca, trovano facilmente la strada dell'intesa e della reciproca integrazione, con il formarsi di quella che, alla fine, diventerà l'aristocrazia italiana, solo in minima parte erede diretta di quella latina, praticamente scomparsa. Perché si parli, riferendosi all'Italia, di italiani, di una nazione italiana, bisognerà aspettare l'inizio del nuovo millennio.
Le cose vanno in modo assai diverso per quanto riguarda la romanizzazione delle aristocrazie germaniche. Nella sua «teoria della classe agiata» Thorstein Veblen pone l'acquisizione, e soprattutto l'esibizione, di una cultura superiore come uno dei segni distintivi delle classi agiate, accanto alle .cariche onorifiche, all'agiatezza vistosa, agli sport esclusivi, come la caccia. I capi longobardi e le loro donne, fin dal loro insediamento al potere, s'impegnarono nel culto della civiltà classica, allo stesso modo con cui si usa indossare abiti preziosi. Quanto più disprezzavano i sudditi romani, tanto più ostentavano le loro forme culturali.
Possiamo seguire le vicende di questa romanizzazione aristocratica grazie all' opera di un longobardo, Paolo di Varnefrido, meglio conosciuto, romanamente, come Paolo Diacono. Personaggio versatile, questo Diacono, autore di una Historia romana in sedici libri, e di una Historia Langobardorum in sei libri, narrazione appassionata del dominio longobardo dalla sua nascita (l'autore, nato a Cividale nel Friuli, era di scendente di un nobile che aveva affiancato Alboino nella sua marcia vittoriosa) alla sua rovina. Paolo era entrato poi a far parte della corte di Carlo Magno, che lo aveva nominato maestro di grammatica, per tornare infine a Montecassino, dove si era rifugiato per scrivere le sue grandi opere. Avendo ottenuto da Carlo la liberazione del fratello aveva raccolto per l'imperatore le prediche pù celebri del suo tempo, 244 testi divisi in due «stagioni», l'estate e l'inverno. Se pure indirettamente, contribuì poi alla storia della musica con un suo inno dedicato a san Giovanni Battista, dai cui versi si derivarono i nomi delle sette note (ut, re, mi, fa, sol, la, si).
Paolo Diacono non soltanto promosse l'acquisizione della "grande cultura" classica da parte dell' aristocrazia lombarda con i suoi scritti, ma anche con la sua guida culturale dei principi longobardi. Adelperga, la figlia di Desiderio, l'ultimo sovrano, fu sua allieva, come pure il suo sposo Arichi, duca di Benevento. È per lei che Paolo compose un poema sulle età del mondo in eleganti esametri trocaici. Proprio alla corte di Benevento fiori una piccola scuola di cultura classica. Adelperga ebbe una vita tumultuosa. Sorella di Ermengarda, sposa ripudiata di Carlo, fu, dopo la sconfitta longobarda, deportata in Francia da dove tornò in seguito a un armistizio nel ducato di Benevento; ma riprese li la lotta contro i Franchi, a fianco dello zio Adelchi. Fu però proprio il figlio, Grimoaldo III, nuovo duca di Benevento, a tradirla, alleandosi con Carlo contro lo zio. La sua vita riflette i due temi contraddittori che s'intrecciano nell' opera storica del suo precettore: il grande influsso esercitato sull' educazione dalla cultura classica romana e la fedeltà al nazionalismo longobardo, con la forte correlata avversione verso il mondo bizantino.
Non erano quindi sempre rozzi e ignoranti, i principi longobardi. La raffinatezza culturale da alcuni di essi esibita come un vestito prezioso alla moda contrastava però - e questa contraddizione è segno specifico della barbarie - con personalità scisse e disarmoniche, che sotto quel vestito alleavano ferocia e superstizione, caratteristiche diffuse del loro tempo.
Questi ultimi tratti possiamo riscontrarli proprio nell'impatto dei Longobardi beneventani con i sudditi bizantini di Napoli e di Amalfi quando più volte, nel corso del VII e dell'VIII secolo, essi tentarono di sopraffarli, realizzando l'antico sogno di affacciarsi da padroni sul mare.
Il primo tentativo lo fece Arechi I duca di Benevento, attorno a1 615. Non è sicuro se, come si afferma in certe cronache, riuscl a prendere e a saccheggiare Amalfi. Di sicuro non riuscì a prendere Napoli. Piti di un secolo dopo, quando il dominio longobardo in Italia volgeva al termine, quell' Arechi II marito di Adelperga, amico e allievo di Paolo Diacono, che ,aveva fatto di Benevento una piccola corte di stampo regale, gemella di Pavia (la chiamavano Ticinum geminum) tentò invano di ottenere Amalfi e l'intero ducato di Napoli dall'impero bizantino, in cambio dell' alleanza contro i Franchi di Carlo. Fu invece proprio il loro figlio Grimoaldo ad allearsi con Carlo, e a passare alla storia come colui che, su ordine di Carlo, ingiunse ai Longobardi di Benevento nientemeno che di tagliarsi la barba: un primato di modernizzazione realizzato dal Mezzogiorno. Ma i duchi di Benevento non avevano rinunciato a quel loro sogno. Fu un nobile longobardo di nome Sicone, diventato duca in seguito a una congiura, a espugnare Napoli in un improvviso assalto, e a trafugare nientemeno che il corpo di san Gennaro. Ma i napoletani riuscirono a conservarne la testa, e poi a respingere fuori della città il nemico con un inganno. Il figlio di Sicone, Sicardo, uomo, come riferiscono le cronache, «impudico, inquieto, petulante e superbo», tornò alla carica contro Napoli. I napoletani, messi alle strette, fecero qualche cosa d'inaudito. Chiesero aiuto ai Saraceni! Ed ecco presentarsi per la prima volta in forze, davanti alle coste d'Italia, le flotte dell'Islam. Sbarcati presso Napoli, i Saraceni sbaragliarono i Longobardi beneventani. A loro volta assediati, questi ultimi riuscirono a radunare una forza tale da respingere gli Arabi verso il Sud, dove quelli presero e incendiarono Brindisi. Sicardo, intanto, aveva deciso di riprendere le ostilità contro il ducato napoletano, ma questa volta il suo obiettivo era Amalfi. Noi moderni facciamo fatica a crederlo, ma la vera spinta che lo muoveva era, come per il padre, il desiderio d'impossessarsi, oltre che di quello di san Gennaro, di altri corpi dei santi. Aveva tratto da Lipari il corpo di san Bartolomeo e anelava a possedere quello della vergine e martire santa Trofimena, custodito a Minori, in terra amalfitana. Aveva quindi organizzato una "quinta colonna" di seguaci amalfitani, promettendogli una ricca ospitalità in Salerno. Con l'aiuto di quelli, il 10 marzo dell'636 irruppe nella città, che fu posta a sacco. I beneventani frugarono dappertutto: beninteso, trafugarono la santa. Ma, convinti da qualcuno che nelle vesti del vescovo Pietro, morto da poco, fosse nascosto un tesoro, dissotterrarono il cadavere jam fetidum) compage corporis et pene membris solutum.
La cosa più strana è che, compiute queste prodezze, Sicardo e i suoi non occuparono la città, ma ne trasportarono via in massa gli abitanti, sia quelli che avevano accettato volontariamente di trasferirsi a Salerno, sia gli altri. Cosi, com' era avvenuto a suo tempo per le sabine, le amalfitane furono date in spose ai salernitani.
Quelle nozze, però, non durarono a lungo. A quanto narrano le cronache, Sicardo era venuto in odio non soltanto ai napoletani e agli amalfitani, ma agli stessi beneventani, vittime delle sue indecenti prepotenze. Si divertiva molto con le nobili signore. Le aveva anche fatte frustare perché, a detta della moglie, l'avevano fatta sorprendere nuda. Esasperati, un pugno di nobili, tra cui il marito di una delle matrone oltraggiate, entrati nella tenda del principe, «con più colpi di pugnale lo privaron di vita».
Ucciso il tiranno, gli amalfitani prigionieri si avventarono su Salerno, semivuota nella stagione dei raccolti, e l'incendiarono, dopo averla saccheggiata. Dopo di che tornarono trionfalmente, donne e uomini, nella loro bella città vuota. Era il 10 di agosto dell'639. E da questa data, «senza l'opera di un legislatore e senza alcuna rivoluzione interna, gli amalfitani incomiciarono a governarsi a forma di Repubblica». Era l'inizio di una nuova grande storia.
Amalfi e i Saraceni.
La processione si snoda lenta fra la piccola chiesa e le case del paese. Il manto azzurro del santo oscilla alto sul palco. Tutt' attorno, i boschi dei monti Lattari, irti sul grande mare. I fedeli procedono salmodiando. E d'improvviso il sangue gli si agghiaccia nelle vene. Eccoli, comparsi sul ciglio, i demòni. Urlando, si precipitano con le scimitarre sguainate sui pochi soldati della scorta. Li fanno a pezzi prima che riescano a impugnare le armi. Il sangue comincia a scorrere, il suo odore ubriaca gli assalitori. Comincia lo spettacolo orrendo. Il santo è calpestato, fracassato, sputato. Gli uomini, asserra· gliati invano a difesa, sono spinti a pugni e calci e poi decapitati o sgozzati a uno a uno. Le donne, quelle anziane, massacrate anch'esse. Le giovani afferrate per i capelli tra grida di trionfo, gettate a terra, rovistate, spogliate, violate. I bambini strappati alle madri urlanti, e trucidati. I guerrieri saraceni proseguono per ore, indisturbati, la loro orgia di sesso e di sangue. Il loro capo accarezza lentamente, in silenzio, la criniera del suo piccolo cavallo. Gli trascinano davanti le donne più belle e ricche. Le guarda. Pili tardi.
Dopo qualche ora, quando la chiesa e le case sono state saccheggiate di ogni cosa di qualche valore, e devastate o date alle fiamme, il Saracino ordina la ritirata. Fra grida di furore e grida di pianto, si forma la carovana. Saranno ormai per sempre schiavi e schiave, i cristiani della processione. Scendono la montagna legati l'uno all' altro con pesanti catene, fino a riva, dove sono imbarcati sulle chelande saracene risospinte in mare. Saranno venduti sul mercato, gli uomini pili validi, per passare la vita inchiodati al remo, le donne pili belle riservate ai santuari - si chiamano così, harem - degli emiri.
Un'altra nave saracena è ancorata, lo stesso giorno, nella rada di Amalfi. Ma la scena è diversa. Sotto coperta, sdraiato sui cuscini sparsi su un morbido tappeto, un capo saraceno, emissario dell'emiro di Sicilia, circondato da mercanti cristiani, esamina ricche stoffe colorate, rivolgendo di tanto in tanto ai suoi ospiti domande cortesi in latino. Non si fuma, perché il tabacco non è ancora conosciuto (lo sarà solo dopo la scoperta dell'America). Non si beve vino, perché il Profeta lo proibisce. Si beve succo d'arancia da grandi caraffe (le arance sono il dono degli Arabi alla Sicilia) servite su vassoi di vetro veneziano da schiave leggiadre, insieme con dolci odorosi: i lucumi.
Non è difficile immaginare due scene come queste. Sappiamo che, in quei tempi e da quelle parti, era possibile che si alternassero incursioni violente di predoni saraceni e pacifici incontri di scambio tra mercanti saraceni e cristiani. Una condizione, certo, eccezionale e scandalosa, dalla quale entrambe le parti, le città campane e gli invasori saraceni, traevano vantaggi.
Si può avere talvolta l'impressione di un melodramma nel quale, dopo essersi scannati sul palcoscenico, gli attori si ritrovano a fraternizzare tra le quinte, ancora vestiti nei loro costumi di scena. Ma non era affatto cosi. Entrambe le scene erano autentiche. Ma la scena del doux commerce, avrebbe detto Montesquieu, costituiva una condizione ecceziona· le e locale, rispetto al vasto dramma dell'invasione islamica.
La turbolenza islamica che investi il Mediterraneo nel VII secolo, abbattendosi anche sull'Italia e sulle sue grandi isole, ha caratteristiche diverse da quelle delle precedenti invasioni germaniche. Queste ultime erano state precedute da una lunga pressione, esercitata per secoli da tribù barbare ai confini del grande impero di Roma. Era una rivalsa storica di popoli che avevano subito la dominazione diretta, o comunque l'in· discussa egemonia di una civiltà superiore. La VOlkerwander· ung germanica si era scatenata quando quella pressione era di ventata insostenibile a causa della spinta esercitata sulle genti germaniche da altri popoli, alle loro spalle, e della disgregazione interna del potere imperiale, provocata da una crisi economica, politica e morale che ne aveva fiaccato la resistenza. Alla base di quelle invasioni, c'era certamente un sentimento di rivalsa e, soprattutto, una concreta prospettiva di ricchezza, ma non una passione ideologica e religiosa. Come dice Pirenne, lo scopo degli invasori non era quello di annientare l'impero romano, ma di radicarvisi, per goderne a loro volta.
L'invasione islamica era invece l'esplosione improvvisa di un nuovo credo, di una fede indiscutibile che chiedeva di imporsi con la violenza di una "guerra santa" a un mondo "infedele": soprattutto al mondo che si riconosceva in quelle altre due religioni monoteistiche, l'ebrea e la cristiana, sul ceppo delle quali la nuova religione era nata, e che perciò costituivano il bersaglio piu vicino, l'errore piu immediato da combattere. I Franchi, appena conquistata la Gallia, avevano abbracciato la religione cattolica. I Longobardi, piu restii all'integrazione culturale con i vinti, ne avevano adottato una variante meno impegnativa (l'arianesimo). Per i musulmani, era proprio il cristianesimo il piu mortale nemico della nuova incontestabile verità. Era infatti, a differenza di quelle pagane, una religione forte, sostenuta da una grande istituzione. Doveva essere contestata e rifiutata. Le conquiste materiali della "guerra santa" non costituivano le motivazioni della guerra, ma il premio della vittoria.
L'invasione islamica fu piu rapida di quelle germaniche. In meno di un secolo gli eserciti dell'Islam, partendo dal piccolo nucleo delle tribu del deserto, ingigantirono grazie alle conversioni, dilagando fino all'India e all'Indonesia a Oriente, fino al Marocco e alla Spagna a Occidente.
L'Italia non fu investita che in parte, e discontinuamente.
Solo la Sicilia, dopo cinquant' anni di continui combattimenti, fu occupata in modo stabile. Quanto alla penisola - quella che i Saraceni chiamavano la terra longa - rimase esposta per circa tre secoli, dall'VIII al X, a una turbolenza costante di scorrerie, incursioni, devastazioni, violenze di ogni genere: l'Italia centrale e meridionale in particolare, ma anche il Nord non fu risparmiato.
Saraceni, è il nome che gli italiani davano più frequentemente ai musulmani islamici: un nome la cui origine è incerta. In arabo, sharquyn significa orientale. Ma orientali rispetto a chi? Oppure, biblicamente, figli di Sara, la moglie di Abramo? Saraceni erano considerati indifferentemente Arabi e Berberi (orientali e occidentali), anche se etnicamente diversi e politicamente spesso in conflitto. Ed erano Saraceni anche molti cristiani rinnegati, come Uluch Ali, detto Occhiali, e Muhamet Sorah, detto Scirocco. Erano talvolta i più spietati (restò famoso, secoli dopo, Kahir-ed-Din, detto il Barbarossa). È certo che al nome «Saraceni» si associano piu facilmente i saccheggiatori delle incursioni, quelli che hanno lasciato dietro di sé nient' altro che devastazioni e rovine, che gli Arabi e i Berberi stanziali che hanno lasciato, soprattutto in Sicilia, il segno di una raffinata civiltà. L'occupazione araba in Sicilia durò un secolo e mezzo, e per metà di quel periodo durò la resistenza bizantina. Le incursioni erano cominciate molto prima, nel VI secolo, e si prolungarono in Italia fino al secolo XI (praticamente, fino all'instaurazione del regno normanno) dopo di che assunsero caratteristiche sporadiche di pirateria "normale" durate, in sostanza, fino al XIX secolo.
Piu volte i Saraceni tentarono di occupare la terra longa, stabilendo, anche per lungo tempo, teste di ponte, che servivano di base alle incursioni e alle vere e proprie spedizioni militari. Solo in certi periodi relativamente brevi grandi regioni italiane, come la Puglia e la Calabria, e importanti città come Bari, furono stabilmente occupate. Insomma, l'Italia peninsulare ebbe il peggio dell'invasione saracena: tre secoli di turbolenza e di terrore.
Non solo. Per gli Stati italiani del Sud le milizie e le flotte islamiche costituirono un deposito di violenza cui gli stati cristiani attingevano per sopraffare altri stati cristiani, scatenando una furia selvaggia che si ritorceva contro gli stessi irresponsabili provocatori. Quella riserva fu per l'Italia, e particolarmente per il Mezzogiorno, una forza devastante che si sommava, intensificandoli, ai conflitti tra le grandi potenze, i ducati, le città.
Come abbiamo visto, furono i napoletani per primi a invocare l'intervento saraceno contro i beneventani: un esempio che sarà seguito decine di volte, con risultati devastanti. I Saraceni diventarono insomma una forza mercenaria autonoma nella penisola. Neppure la Chiesa di Roma fu capace di realizzare un'intesa cristiana durevole contro di essi.
Qui non possiamo raccontare la storia di quei conflitti tra gli Stati dell'Italia meridionale, nel tempo che corre tra l'arrivo dei Longobardi e l'avvento dei Normanni, contraddistinto dalla continua interferenza saracena. È un intreccio caotico di alleanze composte e ricomposte, di ritorsioni, di vendette, di congiure, che si fa molta fatica a seguire.
Basterà presentare il quadro degli attori principali. Anzitutto, i due grandi imperi, quello bizantino d'Oriente, quello franco e poi germanico d'Occidente. Il primo conserva a lungo la sovranità diretta sul tacco e sulla punta d'Italia (Puglia e Calabria), e quella indiretta sul ducato napoletano. Il secondo rivendica una sovranità universale legittimata dalla Chiesa, ma fortemente contestata dal primo, su tutto il resto del territorio, e interviene a tratti con spedizioni militari per ribadirla. Quindi, i grandi ducati longobardi di Spoleto e di Benevento (quest'ultimo successivamente diviso in tre, Benevento, Salerno e Capua), che si estendono in tutta la parte interna centrale e meridionale della penisola. Infine, le città della costa campana, Napoli, Amalfi, Gaeta, poste formalmente sotto la sovranità bizantina, ma praticamente autonome. Come se non bastasse, i Saraceni.
Abbiamo lasciato per ultima la potenza disarmata rispetto ai viventi, ma onnipotente sulla loro sorte dopo la loro morte: la Chiesa. Per capire il terrore che quella potenza disarmata esercitava bisogna capire il Medioevo come l'epoca in cui la morte è stata presente nella vita piti che in ogni altra. E come quel la nella quale la vita dopo la morte è stata la certezza piti indiscutibile. Chi disponeva della morte, della salvezza e della punizione, dei tormenti eterni e del perdono teneva in mano le chiavi della vita. Queste chiavi stavano nelle mani dei successori di Pietro. I quali, quel potere sovrumano, sapevano e potevano gestirlo in modo umano, fin troppo umano, come facevano gli altri principi con le normali carte del gioco.
Talvolta capitava che i pontefici romani, attratti dalle tentazioni del potere terreno, smarrissero il valore intrinseco supremo della loro carta celeste, usandola solo per comprare le carte terrene. Allora, la Chiesa era trascinata nella banalità del potere terreno, degradandovisi. Così era avvenuto nei primi secoli bui della Roma cristiana, caduta sotto il governo di papi ignominiosi.
Talvolta capitava che fossero i principi, di fronte alle loro cupidigie e ai loro interessi più immediati, a svalutare la potenza trascendente della Chiesa, chiedendosi, come tanto più tardi si chiese Stalin, dove fossero le divisioni del papa. Allora la Chiesa si trovava improvvisamente sola a fronteggiare le più estreme minacce. Proprio questo capitò di fronte alla minaccia saracena. E fu un vero miracolo che in quei tragici frangenti la Chiesa di Roma fosse capace di porre in campo pontefici capaci di giocare, al più alto livello di responsabilità, la carta decisiva.
Dunque, una volta passati in rassegna i principali personaggi del dramma, ci guarderemo dall'addentrarci nell'intrico dei loro disegni. Le lotte mortali fra Benevento e Salerno, nelle quali i duchi longobardi si scambiano le parti, ricorrendo ciascuno a mercenari saraceni che devastano i loro territori. Le congiure, i tradimenti e gli accecamenti che segnano il monotono rituale delle loro successioni. I soprassalti dell' orgoglio bizantino, che insegue nei secoli, attraverso costose controffensive, il sogno di riconquista di Giustiniano. I simmetrici sogni degli imperatori romano-germanici di risuscitare, a ogni "calata" in Italia, l'impero di Roma. I più modesti intrallazzi delle città campane, intente a "barcamenarsi" tra Saraceni e Longobardi, tra imperatori d'Oriente e d'Occidente, tra la deferenza alla Chiesa di Roma e i lucrosi traffici con gli "infedeli": come quando il prefetturio Pulcherio di Amalfi, dopo essersi impegnato all'alleanza con il papa contro l'esborso di diecimila mancusi (moneta apparentata al bisante) nega clamorosamente la parola data, pretendendone dodicimila.
Ci limitiamo a condensare con le parole di uno storico l'aspetto essenziale di questa principesca anarchia: «sei stati agguerriti e rabbiosi, ciascuno operante a danno dell' altro, sospettosi tra di loro, dei potentati maggiori dell'Oriente e dell'Occidente e del Papato, i quali anch'essi si sospettavano e si combattevano a vicenda» (R. Panetta, ISaraceni in Italia). Da questo pandemonio di tutti contro tutti emergono due caratteristiche piu o meno comuni: la bizzarria e la crudeltà.
La bizzarria, che sfida ogni logica razionale, è un aspetto intrinseco della barbarie, che affonda, come la superstizione, in una vasta disposizione alla credulità. Noi moderni smaliziati faremmo fatica a credere alla storia di quel musulmano che, incontrando a Benevento il principe Ginulfo con in testa un cappello di foggia peculiare, glielo chiede senza complimenti in dono, e quello, senza esitazione, gliela regala. Un anno dopo il musulmano, rientrato in Africa, assiste alla mobilitazione di una grande spedizione militare saracena verso l'Italia, con obiettivo Benevento. Preso da parte un cristiano di Amalfi, lo scongiura di tornare subito in patria, per prevenire il generoso principe dalla batosta che gli sta piovendo addosso. C'è di che togliersi il cappello. E neppure presteremmo molto credito alle lodi di bontà che riguardano il capo saraceno Abumassar, il quale non solo fece scudo del suo corpo ai monaci di Montecassino minacciati dai suoi guerrieri, ma scudisciò un cane che tentava di mordere un' oca dei frati.
L'altro aspetto tipico è la sadica fantasia dei tormenti. Come quella di un altro capo, quel Maagaid, detto il Muscetto, che, per vendicarsi dei cristiani che avevano spiccato la testa della moglie dal busto, ricomponendone poi la chioma con pettini e gemme per inviarla in dono all'imperatore Enrico, obbligò cinquanta prigionieri cristiani a costruirsi una grande tomba comune, nella quale li murò vivi nella calce, con le braccia in croce, come Cristo. O come quell'emiro Ibrahim, che gettava a mare i suoi nemici chiusi in un sacco insieme a una serpe a un gatto e a un gallo e che, ossessionato dal timore di successori che lo avrebbero potuto spodestare, faceva sventrare le mogli incinte e lasciava i feti in pasto ai cani.
Il Novecento, che ha massacrato milioni di uomini e di donne nei campi di concentramento nazisti e comunisti, non teme rivali sul piano della crudeltà all'ingrosso, ma solo qualche difetto sul piano dell'immaginazione.
Rinunciando al racconto cronologico di quei secoli, dunque, ci soffermeremo brevemente su alcuni momenti cruciali che videro coinvolte quelle città campane, Napoli e Amalfi soprattutto, sulle quali abbiamo concentrato la nostra attenzione.
Per rispondere alla prima grande invasione della Sicilia durante la quale, nel luglio dell'827, una grande armata al comando di Allah Asad aveva sgominato a Mazara l'esercito bizantino, il papa Gregorio IV concepì un'impresa arditissima, ispirandosi a quella, famosa, di Scipione l'Africano. Anziché affrontare con forze insufficienti gli Arabi in Sicilia, organizzò una spedizione nella tana del nemico, proprio nei pressi di Cartagine, con un piccolo contingente di volontari romani, toscani, sardi e corsi al comando del conte Bonifacio della Gherardesca, capitano imperiale del Tirreno. L'impresa riuscì perfettamente. Eludendo le navi saracene, questi crociati ante litteram sbarcarono sulla costa africana. Un corpo di armati, radunati in tutta fretta dai musulmani colti di sorpresa, fu sconfitto e inseguito fino alle mura di Al Quayram, sede dell' emiro. Pago di questo vero e proprio colpo di scena, e nell'impossibilità di sostenere il costo di un lungo assedio, Bonifacio ritornò in Italia sperando in un ritiro degli Arabi dalla Sicilia, che non avvenne.
Avvenne invece che i Saraceni, sfidati nel loro orgoglio, organizzarono la vendetta nella forma piti clamorosa: una marcia su Roma. Allestirono una flotta, che sbarcò a Civitavecchia - allora si chiamava Centocelle - da dove Bonifacio era partito, saccheggiandola orrendamente. Di li puntarono sulla capitale della cristianità, incendiando e devastando le campagne e le basiliche di San Pietro e di San Paolo, che stavano fuori delle mura, trasformandole in mangiatoie per i loro cavalli. Ma sulle mura aureliane si scontrarono con un'insuperabile resistenza. Pensavano di travolgerle d'impeto, e dovettero subire invece la pioggia di frecce infocate e dei verrettoni lanciati dal sommo di quelle mura ancora possenti. Non erano pronti a un lungo assedio, e si ritirarono verso Sud.
Ma l'impresa era soltanto rinviata. Sedici anni dopo, gli Arabi ritentarono il colpo grosso. Con ventisette bastimenti, trentamila uomini e cinquecento cavalli salparono da Tunisi, diretti alla foce del Tevere. A Roma c'era allora un Leone, di nome e di fatto: il papa Leone IV non era stato ad aspettare. Dall'imperatore Lotario aveva ricevuto il denaro necessario a rafforzare le mura aureliane, e aveva costruito due torri sulle rive del Tevere, presso Porta Portese. Aveva apprestato macchine da guerra e steso attraverso il fiume grosse catene di ferro. Quindi aveva chiesto a tutti i principi italiani quanti piti uomini e mezzi potessero. Ne erano affluiti dalla Sardegna, dalla Toscana e dal Lazio. Aveva anche risposto all'appello il grosso contingente di una Lega campana, imbarcata sulle navi di Napoli, di Amalfi e di Gaeta, formata per l'occasione, con grande sorpresa dello stesso papa, che diffidava di quegli inattesi alleati, conoscendo la loro intelligenza ... con il nemico. Evidentemente le tre città si erano rese conto che, caduta Roma, sarebbe toccata a loro. Riuniti a palazzo Laterano, i loro capi concordarono con il comandante nominato dal papa, Cesario, il piano di battaglia. Qualche giorno dopo, i confederati e la popolazione romana si radunarono davanti alla chiesa di Sant' Aura vergine e martire. Il papa recitò la preghiera (da Panetta):
Onnipotente Dio che con la tua mano facesti camminare l'apostolo Pietro sul mare, cosi che non affogasse e che salvasti l'apostolo Paolo nei suoi tre naufragi, sii a noi propizio e ascoltaci: per i meriti dei due stessi apostoli fortifica il braccio dei campioni cristiani che stanno per difendere una giusta e santa causa affinché per la vittoria navale sia il tuo nome glorificato in ogni tempo e presso tutte le genti. Per imeriti di Gesù Cristo, Salvator Nostro.
Un possente «Amen» echeggiò sulla foce del Tevere. All' alba del giorno dopo, annunciata da navi inviate in perlustrazione, ecco apparire all' orizzonte la formidabile schiera delle navi saracene, con tutte le verdi bandiere del Profeta al vento.
Avanzano rapide, sospinte da un forte libeccio. Serrano al centro, dirette a forzare la foce del Tevere per risalire verso Roma, dopo avere sbarcato le truppe. Cesario ordina alle navi cristiane, che hanno issato la bandiera crociata, di mollare gli ormeggi e di precipitarsi a forza di remi sulla colonna saracena prima che possa giungere presso la riva, per lanciare l'arrembaggio. La manovra diretta da amalfitani e napoletani è impeccabile. L'urto è tremendo. E mentre le macchine dei confederati sputano la pece greca sulle vele nemiche incendiandole, gli uomini saltano sulle tolde con spade, mazze, spiedi e stocchi. I Saraceni si difendono sciabolando con le loro scimitarre, o scagliando sottili canne di bambù con sulla punta cuspidi triangolari di ferro. Uomini precipitano come sacchi nelle acque che si tingono di rosso. La furia dei cristiani, i Rum, non era prevista. E molte navi saracene tentano di sganciarsi, alcune in fiamme, forzando le vele per mettersi in salvo. Ma il libeccio che le aveva spinte contro i cristiani si rifiuta di lasciarle allontanare. Era il vento di cui gli italiani conoscevano bene la forza tremenda, e che sapevano padroneggiare. Esso trascina le navi saracene con i fianchi squarciati verso la spiaggia, dove le truppe confederate massacrano, o catturano, le ciurme imploranti pietà.
Tutta la flotta saracena fu distrutta sul lido di Ostia. Migliaia furono i morti di parte musulmana. E migliaia i prigionieri condotti in catene per le strade di Roma, dove il popolo si ammassava per vederli. I prigionieri furono condannati a costruire la nuova cinta delle mura leonine. La battaglia di Ostia ha avuto un pittore d'eccezione: Raffaello Sanzio.
Terzo episodio. Nel 916 un altro papa energico, Giovanni X, esasperato per il succedersi implacabile delle incursioni saracene, si decide a bandire una spedizione contro il covo dei Saraceni alla foce del fiume Garigliano, che era diventata la loro base principale. Fra le altre imprese, nell'8ss i predoni del Garigliano erano saliti a Montecassino, avevano saccheggiato i tesori della chiesa, trucidato i frati, svenato l'abate Bertario e dato alle fiamme il monastero.
Il papa si rivolge a Berengario re d'Italia, offrendogli la consacrazione imperiale se l'avesse aiutato a cacciare i Mori dal Garigliano. Berengario dà ordine al duca di Spoleto di mobilitare un esercito e scende a Roma, dov'è consacrato imperatore a San Pietro, nel giorno di Pasqua. Il corpo di spedizione è imponente. Vi partecipano i duchi di Benevento, di Spoleto, di Capua, di Gaeta e il duca di Napoli. È incerta la partecipazione di Amalfi, forse più preoccupata di non pregiudicare i suoi rapporti commerciali con il mondo arabo. Il fatto nuovo e sorprendente (non sarà però l'ultimo nella storia dei papi) è che lo stesso papa cavalca alla testa delle truppe, su un destriero bianco. È la suprema garanzia della compattezza della spedizione, che procede alla sinistra e alla destra del fiume. Il 14 giugno ha inizio l'attacco al campo trincerato dei Mori, mentre un' armata navale blocca il nemico dalla parte del mare. Ma è solo !'inizio di un grande scontro che si prolunga per ben tre mesi, giorno dopo giorno. Alla fine, affamati, i Saraceni riescono, con una sortita in massa, ad aprirsi un varco tra gli assedianti. Ma, intercettati dalla retroguardia cristiana, e assaliti da grandi bande di contadini infuriati, vengono massacrati, o fatti prigionieri per essere incatenati ai remi delle galere. Secondo Gregorovius, nella Storia della città di Roma, «la distruzione della colonia del Garigliano è l'opera nazionale piu onoranda che abbiano compiuto gli italiani nel secolo x, come la vittoria di Ostia era stata il maggior loro decoro nel secolo IX».
C'è infine, alle soglie del nuovo millennio, la grande impresa comune delle repubbliche italiane: Amalfi, Pisa e Genova. Manca Venezia, non è chiaro perché. Il pontefice Vittore III le aveva persuase a organizzare una spedizione punitiva contro i Mori nella loro tana in Tunisia, attaccando la fortezza di al-Mahdia, sede dell'emiro Tamin (detto dagli italiani Tamino, come il personaggio di Mozart), dov'erano imprigionati migliaia di schiavi cristiani in condizioni disperate. Lo sbarco degli alleati avvenne il6 agosto del 1087. I Saraceni si erano preparati a impedirlo assalendo le navi, che pensavano non potessero accostarsi a causa dei bassi fondali. Invece gli italiani, come gli americani qualche secolo dopo in Normandia, calarono in mare una quantità di piccole imbarcazioni: piccole feluche, battelli, lance, fruste, caicchi, stracariche di combattenti che si precipitarono a valanga sulla costa, costringendo i difensori a riparare entro le mura. Da quelle gli assediati fecero uscire un branco di leoni: i quali però, invece di scagliarsi contro gli invasori, sbranarono i loro padroni fuggendo poi per la campagna. Una sortita dei Saraceni fu respinta dai pisani, che giunsero presso le mura e cominciarono ad abbattere le porte, mentre il grosso delle truppe saettava i difensori schierati sulle mura. Le porte furono abbattute, gli italiani dilagarono per le vie della città, irrompendo nei sordidi "bagni", e liberando gli schiavi in catene. Tamino, asserragliato nel suo palazzo, trattò infine la resa. Furono liberati tutti gli schiavi. Fu versato un tributo di centomila dinari al papa.
Cosa molto più importante: diventò chiaro che il rapporto di forza tra le repubbliche italiane e i Saraceni, nel Mediterraneo, si era invertito a favore delle prime. Ludovico Muratori riferisce delle grandi feste, delle campane a stormo, delle processioni di ringraziamento al ritorno dei vincitori. I pisani investirono il bottino nella costruzione della loro grande cattedrale.
Alla fine, ci si può chiedere un giudizio complessivo sul rapporto fra le città marinare e il mondo dell'Islam. Quanto ad Amalfi, in particolare, è generalmente negativo. Si sottolinea l'ambiguità di una politica che incoraggiava scambi, e talvolta persino sostegni militari, con i predoni saccheggiatori della penisola. Non è certo questione di solidarietà nazionale, che a quei tempi era impensabile, ma di fedeltà cristiana. Napoletani e amalfitani dimostrarono già da allora una disinvoltura delle alleanze che sarebbe diventata, più tardi, peculiarità infida del carattere politico italiano. Bisogna considerare, tuttavia, due cose. La prima è che quelle città erano libere, ma terribilmente isolate. Il primum vivere era il loro ovvio impegno. Secondo: tutto si può dire, tranne che quel comportamento fosse dettato da viltà. Lo dimostrano gli episodi che abbiamo evocato.
La loro posizione ricorda la raccomandazione che Polonio, il padre di Laerte, fa nell'Amleto al figlio che sta per partire: «guardati dall'entrare in questione; ma una volta impegnato portati in modo che il tuo avversario debba guardarsi da te».
Il miracolo amalfitano.
Quanti erano, e chi erano, gli amalfitani?
Quando per la prima volta se ne sente parlare, a metà del VI secolo, certo non piu di qualche migliaio. Verso la fine del secolo x, il secolo d'oro di Amalfi, la popolazione, secondo stime certamente esagerate, avrebbe raggiunto i quaranta-cinquantamila abitanti (oggi ne ha poco piu di seimila). Quel periodo, comunque, segnò uno sviluppo eccezionale, che ne fece una delle due piu grandi repubbliche marinare italiane (1'altra era Venezia), ben prima di Pisa e di Genova. Uno sviluppo tutto dovuto al commercio.
Cerchiamo di collocarlo nel più vasto quadro dell'economia italiana. Secondo alcuni, il crollo dell'impero romano e le invasioni germaniche avrebbero determinato una regressione a condizioni primitive, quasi totalmente prive di scambio. Questa tesi estrema è stata progressivamente abbandonata, man mano che la ricerca storica evocava dal buio di quei secoli i tenui bagliori di una realtà più complessa. Molte città romane erano scomparse, ma molte avevano continuato a vivere, sia pure a ritmi e livelli molto più modesti. Le città non erano ridotte puramente a sedi territoriali del potere politico centrale. E non si trattava soltanto di quelle scelte dai re e dai duchi per insediarvisi (spesso sceglievano i castelli, più facilmente difendibili), ma delle sedi dei vescovi, che raggruppavano intorno a sé le schiere dei fedeli, nucleo generativo di quello che sarebbe poi diventato il popolo minuto, e piu tardi la borghesia guelfa. Ed erano anche centri economici. Per quanto povero fosse, il commercio, infatti, non fu mai completamente interrotto, principalmente quanto ai beni essenziali, sale e grano; ma anche per quei beni di lusso, come le stoffe di seta, che le aristocrazie germaniche apprezzavano intensamente. Il vescovo di Pavia Liutprando, del quale abbiamo ricordato il disprezzo per i Romani, apprezzava però molto le sete e le stoffe che i doganieri bizantini volevano sequestrargli, e ai quali egli sprezzantemente rese noto che ne avrebbe trovate di migliori in Italia, dove amalfitani e veneziani le vendevano liberamente in abbondanza, anche, diceva lui, ai mimi e alle prostitute. E di un altro Liutprando, re dei Longobardi, e soprattutto dei suoi successori Rachi e Astolfo, abbiamo gli editti nei quali si fa menzione dei negotiatores, che erano ammessi anche nell'esercito, e dunque costituivano un ceto di liberi cittadini ufficialmente riconosciuto, i cui diritti e obblighi erano determinati non piu dalla nascita, ma dalla condizione economica.
Ma soprattutto, una corrente di scambi mai interrotta è quella che collega le città costiere italiane (Ravenna, Bari, N apoli, Amalfi) rimaste sotto la sovranità bizantina con i grandi centri dell'impero d'Oriente, primo fra tutti Costantinopoli.
A questo proposito, bisogna parlare di una tesi di Henri Pirenne. Abbiamo visto come il grande storico belga abbia di- stinto - giustamente -l'invasione saracena da quelle germaniche, quanto alla loro natura religiosa e politica. Non altrettanto convincente sembra quando afferma la brusca e durevole interruzione dei traffici che l'irruzione degli Arabi avrebbe provocato nel commercio mediterraneo, quasi azzerandolo. Solo gli ebrei sarebbero rimasti a commerciare. È sorprendente il silenzio sul ruolo esercitato dalle città italiane, soprattutto da Venezia e da Amalfi, non soltanto nel tener vivi gli scambi con i mercati bizantini, ma nell'annodare quelli con il mondo arabo, nonostante le guerre e le incursioni continue. Fin dall'VIII secolo, in piena espansione araba, come afferma Gino Luzzatto, nella sua Breve storia economica del!' Italia medievale, è confermato dalle fonti «il rinnovamento di una, per quanto modesta, economia di scambio» e «il risorgere delle città come centri, non solo amministrativi ed ecclesiastici, ma anche commerciali», come pure «l'uso piti frequente della moneta».
La figura del mercante, insomma, comincia a profilarsi fin dall' alto Medioevo, soprattutto nelle città italiane. Una descrizione magistrale della strada percorsa da questo personaggio nei secoli dall'XI al xv è quella tracciata da Aron Gurevic nel quadro dell' antologia curata da Jacques Le Goff sull'uomo medievale. Ci serve per guardare in prospettiva, con il senno di poi, a un processo che è cominciato, in Italia, ancora prima, nel secolo ottavo, soprattutto dove stiamo cercando di rintracciarne i segni precursori: le città della costa campana.
All'inizio, in quel processo non si distingue ancora la figura del mercante da quella del pirata. «Commercio e rapina andavano di pari passo». Poi, a poco a poco, la coscienza di guadagnarsi una vita rispettabile, tra grandi rischi e afflizioni, emerge. Dice un mercante, in un colloquium riferito dall'abate Aelfric (tratto da Le Goff):
Sono utile al re, al nobile, al ricco e a tutto il popolo [ ... ] Salgo sulla nave con le mie merci e navigo fino ai paesi d'oltremare, vendo la mercanzia e acquisto le cose pregiate che non si trovano qui nel nostro paese. Le trasporto con grande rischio e faccio talvolta naufragio, perdendo ogni avere e salvando a stento la vita. L'interlocutore gli chiede: «vendi queste merci al prezzo al quale le hai comprate?» «No: che cosa altrimenti mi darebbe la mia fatica? Vendo piu caro di quanto ho comprato proprio allo scopo di trame un profitto e mantenere casi moglie e figli».
Non potrebbe essere più chiaro e convincente. E tuttavia le attività commerciali restano a lungo dubbie e circospette per l'etica dominante. Incontrano la sfiducia sospettosa dei contadini e la boria dei nobili.
Il mestiere del mercante, suona la saggezza scolastica, vi aut numquam potest Deo piacere, raramente, o mai, piace a Dio. Il commercio (il vendere e il comprare) sono qualificate «attività disoneste».
Non parliamo del commercio di denaro, del prestito a interesse, condannato come uno dei peccati piti esecrabili. L'usura.
Gli exempla, i racconti edificanti sugli usurai, attestano il disprezzo da cui sono circondati. Uno di essi racconta di una scimmia che, durante un viaggio per mare, si arrampica sull'albero maestro, dopo essersi impossessata della borsa di un usuraio, annusa le monete e le scaraventa in mare.
Come finisce l'usuraio dopo la morte? Dante, stranamente, gli riserva un posto appartato nel suo Inferno, nel canto XVII, ove, come cani morsicati da mosche e vespe, i dannati si agitano, fissando come affascinati certe borse di segno e colore diversi, che gli pendono dal collo. La vulgata popolare è meno raffinata. Quando l'usuraio muore, i diavoli lo trascinano subito all'inferno, cacciandogli in bocca monete roventi. In un altro exemplum bizzarro, l'usuraio in punto di morte tenta di persuadere la propria anima a non lasciarlo, promettendole oro e argento: ma, non essendoci riuscito, la manda lui stesso all'inferno.
L'odio popolare per gli usurai nel Medioevo è totale. Fuori dell'Italia si scatena particolarmente contro gli italiani (i lombardi), con veri e propri pogrom, specie in Francia.
La condanna dell'usura raggiunge toni esasperati, per esempio nelle prediche di Bernardino da Siena: tutti i santi, i beati e gli angeli del paradiso si rivolgono all'usuraio gridando: «nell'inferno, vada nell'inferno; nel fuoco, vada nel fuoco». Lo strano è che negli stessi anni i banchieri senesi fanno affari d'oro prestando grosse somme con interessi mal dissimulati alla Chiesa di Roma.
Si comincia però man mano a spiegare le buone ragioni dell'accumulazione. In Inghilterra, un poema anonimo riferisce di una disputa fra l'Accumulatore e il Dissipatore, nella quale il primo fa l'elogio di chi contiene le sue spese, vive parcamente e fa affari, mentre 1'altro scialacqua banchettando, indossa pellicce rare senza avere i soldi per pagarle, si dà alla guerra e alla caccia. È il ritratto caricaturale dell' aristocratico, della sua sconsideratezza e della sua boria.
Nella descrizione dei sei ordini sociali di Bertoldo di Ratisbona, i mercanti, che formano il terzo ordine, sono descritti con rispetto, come coloro che solcano i mari, «fanno venire una cosa dall'Ungheria, un'altra dalla Francia». Bertoldo parla esplicitamente di «un commercio onesto», cosa che da altri predicatori sarebbe stata considerata un ossimoro. Nella sua predicazione si è inserita ormai una distinzione non tanto sottile. La dottrina secondo cui chi ha due camicie deve regalarne una a un povero è considerata erronea. Bisogna invece conservare la propria, desiderando però che anche il povero ne abbia una. Costa certo di meno. Come dire: alla rivoluzione subentra la riforma (Le Goff).
La mentalità si evolve, insomma, anche in seno alla Chiesa e nei vecchi otri comincia ad affluire nuovo vino. Fatto significativo è che proprio i frati degli ordini mendicanti abbiano contribuito non poco alla giustificazione etico-religiosa del commercio e dei mercanti.
Questo mutamento di mentalità si di spiega dunque soprattutto a partire dall'XI secolo, e tra forti resistenze. Ma, come abbiamo detto, fin dall'VIII se ne scorgono le tracce. Soprattutto, abbiamo visto, in certe città italiane, Venezia e Amalfi in particolare.
Qui sono presenti circostanze eccezionali, restrittive e incentivanti. Restrittive: sia Venezia che Amalfi mancano di retroterra agricoli. Incentivanti: l'isolamento dovuto alla laguna e alle montagne genera una sicurezza che alimenta il senso d'indipendenza. Inoltre: le grandi disponibilità di sale per Venezia, di legname per Amalfi costituiscono incentivi preziosi allo scambio, dalla parte dell' offerta. Dal lato della domanda, l'appartenenza alla sfera della sovranità bizantina facilita per entrambe le città un accesso privilegiato ai grandi mercati d'Oriente. Non si tratta tuttavia di risorse immediatamente disponibili. Si tratta di volerle e di saperle sfruttare. E qui interviene non la fortuna, ma la virtù. Come la capacità tecnica di armare una flotta. Come quella di organizzare una via del sale sfruttando la corrente del Po. Pili in generale, una vocazione al rischio che consenta di cogliere le occasioni di scambio che stanno ben oltre il raggio dell'immediato orizzonte geografico: oltre l'Adriatico, oltre il Tirreno. Nel Mediterraneo orientale. Nel Mediterraneo occidentale. Entrambe le città dimostrano, questa vocazione, di possederla in pieno.
Diventa subito evidente che il commercio non può limitarsi a un raggio breve che consente di ottenere scarsi guadagni, giusto di che sfamare la moglie e i figli. Troppi sono i concorrenti. Bisogna guardare lontano. Bisogna andare oltre. Bisogna armare navi solide e preparare ciurme ben addestrate, per raggiungere i grandi porti, le grandi ricchezze.
È solo se ci si spinge lontano, oltre,il Tirreno, nel Mediterraneo occidentale e orientale, che la varietà delle offerte presenta immense occasioni di guadagno. Altro che moglie e figli!
E gli amalfitani si spingono lontano, verso Costantinopoli, Antiochia in territorio bizantino. Pili tardi, verso Alessandria, Tunisi, la Spagna, nei paesi occupati dagli Arabi.
Che cosa compravano in quei porti i mercanti amalfitani?
Merci ricche. Le spezie: cannella, garofano, pepe. Pelli, ambra, perle e profumi di Giava. Stoffe variamente colorate e ricamate, e ricchi tappeti che uscivano dalle mani esperte degli operai alessandrini, per ornare le ancora disadorne case dei signori occidentali. Porpore per i loro manti.
Che cosa vendevano? Legname, ferro e altre materie prime. E frutta. E olio. Ma com'era avvenuto in epoca romana, il valore delle merci esportate era molto inferiore a quello delle merci importate. Per colmare il disavanzo, Roma aveva speso l'oro predato nelle province conquistate. Gli amalfitani, come del resto i veneziani, dovevano arrangiarsi altrimenti. Quell'altrimenti, furono gli schiavi.
Per molto tempo, quasi fino ai nostri giorni, gli storici hanno ignorato o fortemente sottovalutato la schiavitu medievale, accettando l'opinione comune che fosse scomparsa con la fine dell'impero romano, per riapparire molto dopo, con la tratta dei neri in America. Opinione errata, sia perché la tratta transatlantica, che coinvolse undici milioni di schiavi in cinque secoli, era stata preceduta dalla tratta transahariana, che ne coinvolse diciassette milioni in tredici secoli, a partire dal secolo VII; sia perché anche nell'Europa, e in particolare nell'Europa mediterranea, il traffico degli schiavi continuò durante tutto il Medioevo, certo in proporzioni ridotte, ma nient'affatto trascurabili. Ciò che era finito, già dopo le ultime conquiste di Traiano, era il modo di produzione schiavistico di massa, che aveva caratterizzato l'agricoltura latifondistica romana, non certo la schiavitu, che fu largamente utilizzata nei lavori pesanti (le navi, le miniere) le attività domestiche e le relazioni sessuali. È probabile che quel pregiudizio sia stato alimentato dalla convinzione che l'avvento del cristianesimo avesse comportato una drastica contrazione della schiavitù. Niente di ciò. La Chiesa ha pienamente accettato la schiavitù (come del resto hanno fatto tutte le altre religioni), l'ha esplicitamente giustificata - basta citare l'opinione di Agostino e di Tommaso - e soprattutto l'ha ampiamente praticata nei suoi possedimenti agricoli. In quello di Saint-Germain-desPrès, per esempio, lavoravano ottomila schiavi. Un aspetto essenziale, in quell'epoca, è rappresentato dalla schiavitù femminile. Se ne parla poco nelle cronache: forse c'è una sorta di reticenza negli autori, per lo piu maschi. Si dice che le donne erano destinate agli harem. In parte, si: le piu belle, riservate ai sultani, agli emiri, ai dignitari. Che però non erano molto numerosi. Gli harem erano per le donne una destinazione particolarmente privilegiata. Somigliavano a collegi, non mi spingo a dire conventi, bene approvvigionati, provvisti di comfort, regolati da una minuziosa disciplina affidata agli eunuchi. Talvolta, erano anche centri di trame politiche di alto livello. Per la maggior parte, però, le donne erano vendute, o affittate a lenoni che le sfruttavano spietatamente, che esercitavano su di loro le più sadiche violenze, passando a condizioni sempre più degradanti man mano che la bellezza sfioriva. Proprio come avviene oggi alle immigrate clandestine nei nostri paesi civili.
Gli schiavi maschi, soprattutto quelli piu giovani e robusti, se non appetiti anch'essi sessualmente, erano incatenati ai banchi delle navi, o gettati sottoterra, nelle miniere. Prima, erano ammassati nei cosiddetti «bagni»: vere fosse di serpenti, inferni danteschi, dove spesso si moriva o si impazziva.
Anche Amalfi, come Venezia, partecipa attivamente al traffico degli schiavi. I principali centri internazionali di questo traffico sono, in Europa, Marsiglia e Verduno Verdun è specializzata anche per la castrazione.
Sembra che i mercanti amalfitani gravitino su Marsiglia, o comunque sulla Liguria, dove comprano schiavi provenienti per lo più dai paesi slavi o dall'Inghilterra, per rivenderli a mercanti arabi. I profitti sono molto alti, anche se il mercato è instabile, perché soggetto ad ampie oscillazioni della domanda e dell' offerta.
Amalfi si serve, però, anche di un mezzo meno ignominioso.
Per commerciare, c'è bisogno di una moneta. Nell'alto Medioevo si usava l'oro e l'argento. Il primo, nel mondo bizantino, dove aveva corso il bisante d'oro, e poi in quello arabo, dove gli emiri e i califfi coniavano il dinaro d'oro, detto mangon o mancusus. I centri commerciali d'importanza "internazionale", come Amalfi, dovevano disporre di una propria moneta, che segnalava con la sua diffusione l'importanza del loro commercio. Amalfi apri una sua zecca a metà del secolo x, all'epoca del suo splendore, coniando monete di tipo arabo, i tareni o tari d'oro: il che dimostra la preponderanza dei rapporti con il mondo arabo nel commercio amalfitano. Il tari, moneta di buona lega, si affermò come buona moneta internazionale (per il commercio interno Amalfi usava un soldo amalfitano, solidus amalphitanus) fino all'inizio del secolo XII, quando la zecca amalfitana fu abolita dai Normanni. Tari e solidus potavano l'effigie della croce di Amalfi con la scritta Civitas Almalfa.
La moneta assicurava la diffusione e la circolazione del capitale, della potenza commerciale amalfitana, il software. Gli arsenali e le navi, l'hardware. Gli arsenali giacevano ai due lati del porto. Erano imponenti: poggiavano su ventidue pilastri, con volte ad arco acuto. Ne restano ancora, oggi, dieci; gli altri sono stati distrutti dalle grandi mareggiate. Come nel grande «arzanà dei viniziani» dantesco, la città risuonava del battere dei martelli sulle chiglie.
Ne uscivano le navi, la vera potenza della città. Erano le grosse galee da 112 o 122 remi, le cocche o navi tonde e le pesanti teridi, navi di grande velatura; i galeoni larghi e alti, forniti di remi e di vele; le galeazze, che navigavano anch'esse a vela e a remo, con i bordi piti alti; e i piccoli agili gozzi (i bucti), con un numero vario di remi e due o piti alberi.
La nave da guerra tipica della flotta amalfitana, come del resto di quella veneziana, era la galea: una nave in genere a uno o due alberi a vela latina, armata da venti o al massimo trenta vogatori per banco, e con un grande remo per timone. Nave snella, veloce, potente, una degna erede della trireme romana. Misurava fino a cinquanta metri di lunghezza. Era armata di catapulte e mangani, per il lancio delle pietre e dei proiettili incendiari. Fino all'XI secolo queste navi viaggiavano senza bussola, guidate dal sole e dalle stelle. Furono gli amalfitani a inventarla? O i Cinesi? Il famoso amalfitano Flavio Gioia, di cui ci è stato trasmesso anche il ritratto, è un personaggio inventato. Ma non lo era la tecnica di navigazione con la bussola, che gli amalfitani seppero portare a un alto livello tecnologico, secondo il sistema «a terzarolo» (cosi fu chiamato). Altrettanto perfezionati erano i portolani e le carte nautiche che essi usavano. Le galee scortavano talvolta le grosse navi mercantili, che viaggiavano di conserva in gruppi da otto fino a venti unità, per reciproca sicurezza.
Quelle navi solcarono orgogliosamente il Mediterraneo, dal Tirreno all' Adriatico, dai porti d'Occidente a quelli d'Oriente, da Costantinopoli a Gibilterra e oltre, spingendosi anche nell' Atlantico, fino alle isole britanniche.
La prima direttrice dell' espansione commerciale amalfitana fu ovviamente il Mezzogiorno d'Italia, anzitutto la Campania, la Puglia e la Sicilia. In vari centri di quelle regioni furono costituite basi e colonie. A Melfi, la piti antica colonia amalfitana, quella da cui era derivato, ricordiamo, il nome alla città, i cittadini di Ravello costruirono un monastero benedettino, dove sostavano i mercanti diretti ai porti dell' Adriatico. A Reggio, Palermo e Messina, queste ultime in mano musulmana, erano state costituite basi commerciali con fondachi, case e magazzini. Uno dei mercati piti frequentati era quello di Roma ove, favorita da agevolazioni doganali, fioriva una cospicua domanda "ecclesiastica". Altre basi commerciali erano state poste a Pisa e Genova, da cui le merci scaricate dalle navi proseguivano sulle carovane, verso Pavia e verso i paesi dell'Europa nordoccidentale. Oppure in Liguria, dove le merei - come abbiamo visto, tra queste gli schiavi - erano instradate verso i mercati dell'Egitto e della Spagna araba.
La seconda direttrice riguardava i mercati bizantini, soprattutto Costantinopoli, dove gli amalfitani aprirono, prima dei veneziani, dei pisani e dei genovesi, una colonia con quartieri, fondachi e chiese, e che nel 992 fu esentata dal limite di permanenza fino allora prescritto. Il traffico piti importante che vi si svolgeva era quello delle importazioni di seta che, nell'impero d'Oriente, era monopolio di Stato, e che gli amalfitani monopolizzarono a loro volta in tutto il Tirreno. Di seta fu sontuosamente addobbata Amalfi per ricevere le reliquie di Santa Trofimena, e la persona, viva, del papa Callisto II
Ma l'ascesa del commercio amalfitano, a ulteriore smentita della tesi di Pitenne, raggiunse il culmine quando i mercanti amalfitani si presentarono arditamente, e per primi, in Spagna, in Marocco, in Egitto e nelle isole tirreniche, dove gli Arabi si erano successivamente insediati, provocandovi un incremento demografico e quindi della domanda di consumi, che induceva i nuovi dominatori a incoraggiare le importazioni senZa limiti di sorta, in un regime di libera concorrenza.
Si capisce che, dopo questa prodigiosa espansione della rete degli scambi, la città di Amalfi, che era in realtà un agglomerato di piccoli centri sparsi tra la montagna e il mare, apparisse come la descrive un viaggiatore contemporaneo: «doviziosa e popolosa, piena d'oro d'argento e di drappi, convegno famoso di naviganti arabi, siciliani, africani, emporio delle mercanzie d'Egitto e di Siria». E un altro, Ibn Hawkal, mercante di Bagdad, come riporta Leopoldo Cassese, in Amalfi e la sua costiera:
È la più prospera città della Longobardia, la più nobile, la più illustre per le sue condizioni, la piu ricca e opulenta. Il territorio di Amalfi è vicino a quello di Napoli, che è città bella, ma meno importante di Amalfi.
Come si spiega questa profonda vitalità, e soprattutto, si domanda lo storico Cassese, che, nell' antico ducato sottoposto all' alto protettorato dell'impero bizantino, «si sviluppasse nella medievale Amalfi e non nella greco-romana Napoli uno stato fondato sul commercio e sui traffici»? Risponde lo storico francese, grande amico dell'Italia, Yves Renouard, in Gli uomini dJ affari italiani del Medioevo:
Una potenza commerciale cosi nuova in questa insolita grandezza, derivava evidentemente dall'abilità tecnica, dallo spirito d'intra- prendenza e dal senso politico, anch'esso eccezionale, dei capi dell'aristocrazia mercantile della piccola città arroccata sul fianco diruto della sua splendida ma infeconda costa. Essi seppero sfruttare appieno le circostanze: ma proprio in questo si rivela il loro genio.
E allora: rivolgiamoci a loro, a questi «chefs de 1'aristocratie marchande» amalfitana. Anzitutto, per constatare una peculiarità di quest'aristocrazia: là dove, in altre città, i mercanti che hanno accumulato ricchezze le investono nel possesso di terre per ricavarne ricche rendite, in Amalfi i maiores natu, i signori, investono e reinvestono le loro magre rendite di terre ingrate nel commercio marittimo, che cresce e diventa la principale risorsa della città.
Altra caratteristica soggettiva. Gli amalfitani sono ben visti sia dai califfi arabi al Cairo, che dagli imperatori bizantini a Costantinopoli. I veneziani sono sottoposti di volta in volta, nella seconda di quelle due città, a improvvise aggressioni sanguinose. Non ne risultano, almeno di quella violenza, nei riguardi degli amalfitani. Merito del loro opportunismo? Della loro doppiezza? Certo, ne abbiamo parlato e ne riparleremo. Ma i veneziani non ne mancavano. Si può azzardare !'ipotesi che in quella buona disposizione dimostrata nei loro confronti s'insinui un sentimento sottile e non facilmente spiegabile che si chiama simpatia?
Non sappiamo quanto fossero personalmente simpatici due personaggi, padre e figlio, Mauro e Pantaleone, che appartengono all'età del tramonto di Amalfi. Un tramonto, comunque, fastoso. Sappiamo poco di loro, perché manchiamo di documenti della loro attività commerciale. Sappiamo però che non erano propriamente e solo mercanti, ma piuttosto principi mercanti, come se ne incontrano tanti più tardi in Italia, nel Rinascimento.
Il padre, Mauro, si era stabilito a Costantinopoli. Da li, non da Amalfi, dirigeva le sue attività commerciali, che consistevano, pare, nella vendita in Occidente di prodotti e oggetti rari d'Oriente. Era ricchissimo e molto influente alla corte di Costantinopoli. Fine diplomatico. La diplomazia, ad Amalfi, era una qualità obbligatoria. Quella della mediazione tra le potenze della cristianità e dell'Islam era infatti una funzione vitale per i dirigenti della piccola repubblica, stretta fra le grandi potenze medievali. Bisognava, per continuare a commerciare alimentando la prosperità dello Stato, trattare con tutti. E fra tutti, erano comparsi negli ultimi tempi personaggi particolarmente intrattabili come i Normanni: ne parleremo nel prossimo capitolo. Mauro occupava il primo posto nella colonia amalfitana di Costantinopoli, ed era stato insignito dall'imperatore della qualità di console (hypatos). La sua fortuna era immensa. L'aveva investita con larghezza e generosità nell'abbellimento della sua città e nella fondazione di istituzioni caritatevoli. Fa fondere a Costantinopoli e dona ad Amalfi le grandi porte di bronzo del palazzo arcivescovile. Ne fa dono anche al monastero di Montecassino. Fonda il monastero del monte Athos. Finanzia le colonie amalfitane di Antiocrua e di Gerusalemme, fa edificare monasteri femminili e ospedali per ricchi e poveri senza distinzione, una forma anticipata di welfare. Termina la sua vita densa di attività nel silenzio di un monastero.
Il figlio, Pantaleone, segue la sua traccia. Accentua però fortemente il suo impegno politico rispetto alle sue attività commerciali. La pressione normanna si è fatta pesante e minacciosa per la sua patria. Pantaleone tenta disperatamente di realizzare un accordo tra i due imperi, d'Oriente e d'Occidente, contro questi nuovi intrusi. E al tempo stesso organizza e finanzia quella che si può davvero definire la prima crociata, contro il nido saraceno di al-Mahdia, vittoriosa (ne abbiamo parlato nelle pagine precedenti), e non macchiata dalle infamie, come quelle che seguiranno. La crociata, cui Pantaleone partecipa combattendo valorosamente (<<et refulsit inter istos Pantaleo malphitanus», dice un cronista), ha successo. L'accordo antinormanno fallisce, segnando il destino di Amalfi, mentre i veneziani subentrano agli amalfitani nella loro posizione privilegiata a Costantinopoli.
Cosi, malinconicamente, finirà la gloria e la ricchezza di Amalfi.
E giustamente Yves Renouard, nell' opera citata, ne sottolinea la grandezza.
Commercianti avveduti e intraprendenti [ ... ] alla testa di un giro d'affari quasi mondiale per l'epoca, consiglieri politici della loro città, protagonisti nella diplomazia internazionale al livello delle maggiori potenze [ ... ] mecenati dotati del senso della grandezza, della magnificenza, della liberalità, protettori delle arti sia per vanità, sia per autentica pietà religiosa, profondamente cristiani,jilantropoi, COSI ci appaiono nella luce incerta delle testimonianze frammentarie questi primi grandi uomini d'affari italiani del Medioevo. Essi impongono un prototipo che molti, ben più noti, riprodurranno con qualche variante nei secoli successivi: alcuni talvolta li eguaglieranno; ma non ve ne sono che li abbiano superati.
Capitolo secondo
L’AVVENTURA NORMANNA
Il Gargano è lo sperone dello Stivale. È una massa rocciosa che sorge inattesa e fosca dai dolci campi di Puglia e si protende per sessantacinque chilometri nell' Adriatico. Questa brusca rottura le conferisce un aspetto eccezionale, che spiega il clima di sacralità dal quale il massiccio è stato avvolto nella storia.
Nell'antichità greca e romana ha ospitato due templi, uno dei quali dedicato a Calcante, !'indovino dell' Iliade. Per consultare quell'oracolo, la gente doveva sacrificare un ariete nero e dormire avvolgendosi nella sua pelle.
Nell' alto Medioevo quella sacralità fu rinnovata da un evento miracoloso. Il 5 maggio del 492 un allevatore di bestiame smarrì il suo toro, che si era inopinatamente cacciato in una buia caverna. Contrariato, gli aveva scagliato contro una freccia, che però era inaspettatamente tornata indietro, dal fondo della caverna, ferendolo a una coscia. Informato del fatto, il vescovo vi scorse un presagio. Giunto sul posto, gli apparve l'arcangelo Michele, splendente nella sua armatura, che gli intimò di dedicargli in quel luogo un santuario. Gli lasciò uno sperone della sua armatura: pro memoria. Uno sperone: come il Gargano che, una volta edificata la chiesa, diventò una meta di pellegrinaggi tra le più famose d'Europa. Una profonda scalinata affonda nella roccia, tra due pareti costellate degli ex voto. Due magnifiche porte di bronzo la chiudono: dono dell'amalfitano Pantaleone, lo abbiamo già incontrato.
Pellegrini di ogni paese e ogni condizione hanno visitato quel luogo. Papi, re e imperatori. Tra i quali quel giovane un po' disturbato, Ottone IlI, che per raggiungere Monte Sant' Angelo percorse l'Italia a piedi nudi.
Nel 1016 vi giunse un gruppo di quaranta pellegrini normanni. Racconta un certo Guglielmo di Puglia, in un suo poema in eleganti esametri latini sulle Cesta Roberti Wiscardi, scritto alla fine dell'XI secolo, che i pellegrini furono avvicinati da un tipo strano con una lunga veste di foggia greca e una berretta. Si chiamava Melo. Era, disse, un patriota longobardo, perseguitato dai Bizantini per aver capeggiato un'insurrezione. Melo diceva di disporre di un gran numero di militanti, pronti a tutto per liberare il loro paese da quelle piovre greche. Quel che mancava era un'organizzazione militare. Ora, Melo sapeva quanto valore dimostrassero e quanto terrore ispirassero i guerrieri normanni. Ne sarebbero bastate poche centinaia per organizzare una forza poderosa. Domandò se avevano visto quelle terre pugliesi cariche di grano, di olio, di vino, di frutta; se avevano visitato quelle città piene di ricchezza e di bellezza, uniche al mondo. Se avevano voglia di conoscere veramente l'Italia, non da turisti, ma da liberatori. Melo era certo un tipo strano. Ma aveva il dono, tutto greco, in verità poco longobardo, dell' eloquenza. Fatto sta che riusci a entusiasmare quei pellegrini, già eccitati dalla magia di quel luogo. Promisero di tornare, di li a un anno, con un numero sufficiente di compagni d'arme. E, dice il racconto, mantennero la promessa.
Ovviamente non si può giurare sugli esametri di Guglielmo tanto più che ci sono altre versioni. Come quella, forse più credibile, secondo cui i pellegrini normanni (sempre quaranta!) avrebbero, di ritorno da Gerusalemme, aiutato validamente il principe Guaimaro di Salerno a liberare la città da un assedio dei Saraceni; e in cambio avrebbero ricevuto un invito a tornare piu numerosi, con corredo di doni ricchi e allettanti.
Quel che è certo è che esisteva in Europa, e precisamente in Normandia, una ricca offerta di mercenari pronti a mettersi al servizio di chicchessia, senza tanti scrupoli. I Normanni, appunto. Discendevano da quei Vichinghi (guerrieri) che nel secolo x, contemporaneamente agli Ungari e ai Saraceni, avevano infestato l'Europa, terrorizzandola e devastandola con le loro scorrerie.
I Vichinghi erano una razza indomita. Carichi di una straordinaria energia, che manifestavano nei loro esuberanti appetiti sessuali, e in uno spirito d'avventura che animava una costante inquietudine. Erano pagani, ma avevano abbracciato il cristianesimo con 1'estremismo che li caratterizzava, e lo praticavano con un'intensità commista a un'ingenua astuzia, come quando si facevano battezzare dieci o dodici volte di seguito, per amore della veste bianca che veniva donata ai battezzandi.
Erano straordinariamente prolifici. E a un certo punto avevano abbandonato il loro paese sovrappopolato, per imbarcarsi sui loro lunghi e agili scafi, raffiguranti sulla prua draghi e serpenti, in cerca, prima, di facili bottini, e poi di nuove terre dove radicarsi. In Francia, dopo tante battaglie vinte, battuti finalmente da un esercito guidato dal conte Eudo, un parente di Ugo Capeto, fondatore della grande dinastia omonima, avevano accettato di installarsi nella regione che porta ancora il loro nome. Ma, anche allora, il germe dell'inquietudine gli era rimasto dentro. E aveva generato due grandi migrazioni di conquista: una, verso l'Inghilterra, l'altra verso l'Italia meridionale. La prima si era risolta con una sola grande battaglia, vinta a Hastings da un Guglielmo conosciuto, da allora, come il Conquistatore. La seconda, in un processo di lenta e complessa penetrazione, durato all'incirca un secolo e mezzo.
All'inizio, le incursioni normanne in Italia meridionale non si distinguono, per violenza e ferocia, da quelle saracene che abbiamo evocato nel capitolo precedente. Se ne distinguono però, con conseguenze decisive, per un dato che diventa palese non immediatamente, ma nel corso del loro svolgimento. Anche i Saraceni si prestavano a combattere come mercenari per i generali bizantini, o per i duchi longobardi indifferentemente, secondo le convenienze, pronti a cambiare campo all'istante. Ciò che distingueva i Normanni dai Saraceni era la solidarietà verso i loro connazionali, che si manifestava quando, come spesso avveniva, essi si trovavano alla fine in tutti e due i campi: quello dei vincitori e quello dei vinti. Accadeva allora che i Normanni vincitori si adoperassero a favore di quelli vinti, per lasciarli andare liberi: cosa pressoché ignota ai Saraceni, divisi da etnie, paesi, appartenenze diverse, talvolta ostili.
Di qui, una conseguenza degna di attenzione. I Normanni vincevano sempre. O meglio: non perdevano mai. Quando uscivano dal tavolo da gioco, per cosi dire, gli restituivano la posta. Non è un vantaggio da poco.
Ciò ha permesso, mantenendo intatta la loro forza complessiva, di dare continuità alle loro conquiste. Di collegare un episodio all'altro, come se appartenessero a un piano più determinato. In realtà, non c'era alcun piano. C'era la possibilità di mantenere intatto il capitale. Di mantenere COS[;lllll' l'accumulazione. Il che costituisce un piano di per se stesso.
Questi, dovremmo dire, sono i grandi vantaggi economici e politici del patriottismo. L'invasione normanna nel Mezzogiorno d'Italia è un processo di radicamento ininterrotto, senza soste necessarie per pagare il costo delle inevitabili sconfitte. Il flusso di Normanni verso l'Italia era continuo. Il deflusso, le perdite erano minime.
Questo processo di radicamento inizia con la concessione di un feudo - Aversa - dal duca di Napoli Sergio IV a Rainulfo Drengot, che da mercenario diventa suo vassallo. Questo diventa un polo di espansione, che culmina con 1'acquisizione del ducato di Benevento, grazie ad accorte politiche di alleanza e all' arrivo di nuovi "immigrati".
L'altro polo della conquista è Melfi, in Puglia, dove un altro capobanda, Guglielmo (detto Braccio di Ferro) si stabilisce, dopo avere rotto un rapporto di mercenariato con i Bizantini, attorno al 1030. Quarant' anni dopo vi giungono due fratelli, Roberto il Guiscardo (l'astuto) e Ruggero. Questi appartengono a una famiglia piuttosto numerosa, dodici maschi e tre femmine, che Tancredi d'Hauteville (Altavilla) aveva avuto da due mogli. La peculiarità non risiede però nel numero, ma nel fatto che tutti siano diventati o principi e principesse, o baroni, e anche re. Non erano certo stinchi di santo, ma erano, manco a dirlo, religiosissimi. Erano predoni molto arditi. I due fratelli, dopo aver saccheggiato e devastato città e campagne in Puglia come mercenari, assoldati da duchi longobardi come quel Pandolfo di cui - pare - si evitava di pronunciare il nome, tale era la stima di cui godeva, cominciano a operare in proprio: il Guiscardo conquista Bari, e Ruggero si fa riconoscere dai suoi come duca di Puglia e di Calabria.
A questo punto il papa di Roma, un grande papa riformatore, Leone IX, accogliendo gli appelli delle popolazioni tormentate, dopo aver chiesto invano l'intervento armato dell'imperatore d'Occidente, ottiene quello dell'imperatore d'Oriente, che invia in Italia un corpo di spedizione. Il papa stesso si mette alla testa di un' armata improvvisata e confusa d'italiani e Longobardi, affiancata da un formidabile corpo di mercenari svevi.
I Normanni, da parte loro, radunano tutte le loro forze presenti in Italia. Sono inferiori di numero, ma quale differenza di potenza e di genio militare! Fino all'ultimo tentano di evitare lo scontro, contro quello che essi pure riconoscono come il rappresentante di Dio in terra, e cercano un'intesa. Ma Leone è irremovibile, e allora il Guiscardo, che guida i Normanni, decide di attaccare, prima che giunga l'armata bizantina. L'impeto dei suoi cavalieri sgomina l'ala sinistra dello schieramento papale: gli Italo-Iongobardi, travolti, fuggono disordinatamente. Al centro, Umfredo d'Altavilla, un altro dei fratelli di quella famiglia numerosa, è invece sanguinosamente respinto dal poderoso muro degli Svevi, che si chiudono a quadrato nei loro scudi roteando le spade a doppia impugnatura. Roberto il Guiscardo, che ha trattenuto a sinistra una forza di riserva destinata a un assalto finale, è costretto a intervenire subito, per sostenere il fratello in difficoltà. Ma è Riccardo d'Aversa che, frenando i suoi dall'inseguire i fuggiaschi, ritorna sul campo di battaglia a briglia sciolta, prendendo gli Svevi alle spalle. Quei biondi altissimi (prima della battaglia avevano irriso i Normanni, di corta spanna, dicevano) si fanno massacrare fino all'ultimo uomo. Nel 1820 gli scavi effettuati nella zona hanno portato alla luce un grande ammasso di scheletri che portavano i segni di terribili ferite. In grande maggioranza erano alti un metro e ottanta.
Ci siamo soffermati sulla battaglia di Civitate, perché segna un momento cruciale della conquista normanna. Dopo di questa, malgrado una lunga resistenza, il papa guerriero sarà costretto a riconoscere il ducato normanno, che intanto si è esteso, dopo la morte del grande duca Guaimaro, a Salerno e si è affacciato alla costa tirrenica, conquistando Napoli e minacciando Amalfi. Morto Leone IX e succedutogli Niccolò II, quest'ultimo si recò solennemente a Melfi per una cerimonia di riconciliazione. Erano presenti in grande numero i baroni normanni, capeggiati da Riccardo di Capua e Roberto il Guiscardo. Dopo la vittoria di Civitate, di fronte al papa che gli era stato vilmente consegnato dagli abitanti di quella città, lungi dall'imprigionarlo, si erano inginocchiati ad pedes, chiedendo perdono, per poi scortarlo, il vinto pontefice romano, con tutti gli onori, a Benevento.
Il papa Niccolò II confermò Riccardo principe di Capua, e investi Roberto del ducato di Puglia, poi di Calabria e, finalmente di Sicilia, benché non avesse ancora messo piede nell'isola. Nasceva nel Mezzogiorno una nuova storia. I Normanni diventavano, piti che gli alleati, i protettori del papa, di cui si riconoscevano vassalli. Sentite le parole del giuramento pronunciato dal Guiscardo, riportate da John Julius Norwich, nella sua grande narrazione del regno normanno, Il Regno del Sole: «io, per grazia di Dio e di san Pietro duca di Puglia e di Calabria e, con l'aiuto di essi, futuro duca di Sicilia, sarò d'ora in poi fedele alla Chiesa romana e a te, Papa Niccolò, mio signore». Segue una serie di impegni solenni, per finire cosi:
Osserverò fedelmente sia nei riguardi della Chiesa romana che tuoi, gli obblighi che ho ora assunto e farò altrettanto nei riguardi dei tuoi successori che assurgeranno agli onori del beato Pietro e che mi confermeranno nelle investiture da te concessemi. Lo giuro su Dio e sui suoi Evangeli.
La nuova storia si apriva non soltanto sulla costituzione di questo nuovo e del tutto imprevisto asse politico, ma sull'ingresso della potenza normanna, legittimata dalla massima autorità religiosa, sulla scena d'Europa. Mancavano però due cose essenziali: la grande Sicilia e la piccola ma ricchissima Amalfi.
La Sicilia regina d'Italia.
Dice Goethe, nel Viaggio in Italia: «L'Italia senza la Sicilia è inconcepibile [ ... ] qui sta la chiave di tutto». Pure, c'è stato un periodo nel quale Sicilia e Italia furono nettamente separate, e alla fine del quale l'isola fu ricondotta violentemente all'unità. Non però come suddita, com'era stata per tanto tempo prima, e come sarebbe stata per tanto tempo dopo, ma come regina. Nel x secolo gli Arabi conquistarono la Sicilia e la tennero per due secoli, organizzando da li i loro raid contro la penisola. Ma nel XII secolo i Normanni misero fine al dominio musulmano, e fecero della Sicilia, recuperata al mondo cristiano, la regina del Regnum. «Rex Siciliae et Italiae»: cosi fu definito, dal principe di Capua che lo incoronava, nel giorno di Natale del II}O, Ruggero II.
Quei due secoli di dominio arabo sono stati descritti talora come un' età dell' oro della Sicilia: con un' enfasi talvolta esagerata, come quella che è stata rimproverata allo splendido romanzo storico di Michele Amari, I Musulmani in Sicilia. Certo è che c'è un incredibile mutamento di scena tra gli anni della conquista e quei due secoli di governo dei Mori, fra il terrore dei primi e la pacifica prosperità degli altri.
Gli Arabi, sbarcati in Sicilia su invito di un traditore bizantino - per questioni di donne, dicono i siciliani - agli inizi del secolo IX, impiegarono quasi un secolo per strapparla completamente ai Greci. Nell'827 cominciò l'invasione. Solo nel 902 i Bizantini furono definitivamente scacciati dall'isola. La conquista araba durò quindi settant' anni. Ma già dall'831, con la conquista di Palermo, un centro d'importanza secondaria di cui fecero la loro capitale, gli Arabi di Sicilia estesero il loro dominio su una vasta parte dell'isola.
Quel dominio durò pio di due secoli, fin dopo la metà del secolo XI, quando i Normanni, guidati da Ruggero d'Altavilla, sbarcarono, nel 1064, sull'isola. Questa volta la conquista durò solo trent' anni. Nel 1091 cadde Noto, l'ultima roccaforte della Sicilia musulmana.
Gli Arabi, in quei due secoli, lasciarono un'impronta indelebile.
Fu grande la differenza tra la violenza selvaggia della conquista e il governo, ferreo politicamente, ma tollerante quanto alla religione, sostenibile quanto alla libertà, stimolante quanto all'economia, e aperto all'arte e alla cultura.
Gli abitanti non furono sottoposti a pressioni dirette alla conversione. I nuovi dominatori erano pio interessati a riscuotere il prezzo dell'infedeltà. E comunque la pressione fiscale era notevolmente minore di quella, intollerabile, esercitata dal governo bizantino.
Oltre che pio tolleranti di quanto lo fossero i cristiani e i Franchi sul continente in termini di religione, gli Arabi si dimostrarono abbastanza accomodanti in termini politici. Alcune città furono lasciate praticamente indipendenti e senza nemmeno una guarnigione. Le istituzioni locali furono preservate, e i cristiani continuarono a vivere secondo le proprie leggi. Certo, dovevano portare, come gli ebrei, dei segni di riconoscimento. Non potevano organizzare processioni e suonare le campane delle loro chiese, parte delle quali furono trasformate in moschee. Non potevano bere vino in pubblico, e dovevano alzarsi in piedi quando un musulmano entrava in un luogo chiuso e cedergli il passo per la strada; le loro don-ne non avevano accesso agli stessi bagni delle musulmane. Ma, sia pure con discrezione, furono liberi di continuare a praticare il loro culto. Gli ebrei non furono perseguitati, come avveniva spesso nelle città cristiane.
L'economia siciliana conobbe un periodo di prosperità e di apertura agli scambi, che fece di Palermo una città popolosa e ricca. Gli Arabi portarono all'economia siciliana molto piu di quanto avevano preso nelle loro razzie.
Piantarono limoni e aranci amari. Insegnarono a coltivare la canna da zucchero e a spremerla. Introdussero il cotone, il riso, il gelso e i bachi da seta, la palma da dattero, il papiro, i meloni e il pistacchio.
Riaprirono al commercio l'accesso alle coste africane, là dove giungevano dall'interno le carovane, che trasportavano l'oro dal Senegal, dal Sudan e dal Niger. Dall'Africa giungevano anche le belle porcellane smaltate di Kairouan, e splendidi tessuti e tappeti.
In un'isola arida costruirono, come avevano fatto nelle zone deserte attorno a Bagdad, sistemi d'irrigazione.
Non può essere tutta esagerazione poetica il racconto di tanti testimoni menzionati nel lavoro di Salvatore Tramontana, IlRegno di Sicilia, come quello di Ugo Falcando, nel quale si descrive quella pianura
[ ... ] che racchiude nel suo grembo ogni specie di alberi da frutta, che da sola offre tutte le delizie presenti in ogni luogo e nella quale si coglie la gradevolissima abbondanza delle sorgenti che zampillano ovunque, degli alberi sempre verdeggianti, degli acquedotti che in gran numero soddisfano i bisogni dei cittadini.
Il poeta Abd ar Rahman di Trapani esalta il castello di Favara: le acque che si diramano in ruscelli, i laghi, le palme, le limpide sorgenti, il parco, i verzieri. E in Pietro da Eboli, come in altri, si coglie il richiamo alle delizie del paradiso coranico, evocato nei giardini ricchi d’ombra, di verzura, d’acqua. Beniamino de Tutela, giunto in Sicilia dall’Oriente, è colpito, a Messina, dalla magnificenza e dall’opulenza di una terra ricca d’acqua, con verzieri e piantagioni, e a Palermo dallo splendore di «palazzi e giardini reali ovunque cosparsi di ori, di argenti, di marmi», collocati in uno spazio «che abbonda di sorgenti e di ruscelli». Al Idris, il geografo marocchino, riferisce dei «bagni in gran copia» negli «alti palagi» di Palermo, e Ibn Gubayr della «dovizia delle acque», in quelle architetture eleganti che circondano la città «come i monili il collo di donzelle dal petto ricolmo» e nei quali i sovrani «senza uscir mai da siti ameni gustano ogni piacere del mondo».
Le grandi dimore degli emiri costruite dagli Arabi ed ereditate dai Normanni, la Zisa e la Cuba, esaltano il trionfo dell'acqua, il suo uso, la sua voluttuosa freschezza, come scrive Tramontana, nel saggio citato. Certo, c'è dell'esagerazione in questi testi agiografici. Resta il fatto che ancora oggi gran parte delle sorgenti d'acqua conservano nomi arabi.
Palermo araba è una grande città. I mercanti persiani sono colpiti dall'abbondanza di cereali, bestiame e schiavi. Ma ci sono anche gli uomini e le donne: sembra, più di centomila, che ne fanno una tra le piti popolose città del mondo. Certo, a parte le regge, è anche una città molto sporca e discretamente fetida, a causa soprattutto della nuvola d'aglio che l'avvolge.
Miasmi nauseabondi gravavano, del resto, a quei tempi su tutte le città, non solo siciliane. Lo stesso Ibn Gubayr, appena citato, riferisce che Messina era «piena di sudiciume e di fetore». Tale era il fetore collettivo che, durante le feste, si tentava di ridurlo con turiboli accesi. Una delle cause di questa puzza era la libera circolazione delle bestie: cavalli, muli, asini, cani, galline, capre, pecore e maiali che cospargevano le strade del loro letame. Non si parla dei topi, circondati da una certa benevolenza in quanto nemici del gatto, che era creatura del demonio. Senza parlare di pulci e cimici, delle quali anche due secoli dopo Francesco Petrarca parla come di tormenti dei quali era impossibile liberarsi. E, naturalmente, delle deiezioni umane, che erano liberamente svuotate dalle finestre nella strada sottostante.
Uno dei pochi principi che si preoccupò a quei tempi dell'igiene pubblica fu Federico II. Ma la Chiesa considerò un suo imperdonabile peccato, fra i tanti, quello di aver fatto costruire latrine e non altari.
Era segno delle estreme antinomie di quei tempi, che alle sciagurate condizioni dell'igiene pubblica si contrapponessero le raffinatezze delle cure private del corpo, delle signore dell'aristocrazia soprattutto. In ciò, la Palermo araba eccelleva.
L'uso degli ornamenti femminili, la cosmesi, era detta allora lisciatura. Alla Sicilia araba risale la coltivazione dell' henné, pianta orientale della quale parla anche il Corano, le cui foglie contenevano una sostanza rossiccia usata a Palermo per rinforzare e tingere i capelli e, tra le donne berbere, per colorare le dita delle mani e le braccia. Anche le piante dei piedi, considerato che molte donne camminavano scalze, e l'henné induriva la pelle e disinfettava le escoriazioni. Il bistro agli occhi pare fosse adottato dalle signore musulmane per scongiurare le irritazioni provocate dalla sabbia. Si usava tingere gli occhi con un mirwad, un bastoncino intinto in un collirio, il kohl, per colorare ciglia, sopracciglia e palpebre. Si consultavano ricette preparate da medici specializzati, per preparare in casa creme per il viso, lozioni per le mani, rossetti e profumi. Le foglie di nasturzio erano usate per rallentare la crescita dei peli, e la depilazione era praticata con pinzette, dopo molti bagni caldi. «Il loro maggior pensiero è la lisciatura», si lamentava fra Giordano da Rivalta. E fra Gilberto da Tournai tuonava:
[ ... ] tu donna vai in giro col collo per aria, parli a segni e occhiate, cammini scompostamente, fissi in volto gli uomini, ti tingi i capelli, ti ungi la faccia, ti alzi le ciocche dei capelli, ti guardi allo specchio, ti cingi il vestito con ghirlande, ti sovraccarichi di collane [ ... ] tu, in questo modo (osservato con tanta precisione dall' esasperato frate) attrai e inganni l'incauta gioventù [ ... ] rendi la bellezza abominevole a Dio, agli angeli, agli uomini giusti con fetidi unguenti (Tramontana).
Quei fetidi unguenti, le signore occidentali li cercavano avidamente, come la bella Eleonora d'Aquitania, nelle ricette delle dame di Palermo, di Cordoba e di Bagdad. Forse, incuranti dei frati, imitavano inconsapevolmente gli uccelli, che - osserva Federico II nel De arte venandi cum avibus - nella stagione degli amori modificano il colore e il fasto del piumaggio. E "lisciavano" cosi quel che faceva illanguidire il poeta siciliano Giacomo da Lentini: «lo bel viso e lo morbido sguardare».
Gli Arabi, dunque, promossero in Sicilia lo sviluppo di nuovi prodotti, la riaprirono al commercio mediterraneo, irrigarono l'isola, adornarono le città e le loro signore. Ma anche, e soprattutto, colonizzarono l'isola spezzando i latifundia, e insediando almeno mezzo milione di coltivatori in proprietà di modeste dimensioni, che avrebbero potuto costituire la solida base di una grande potenza economica e commerciale. Ciò però non avvenne. E di ciò dobbiamo chiedere conto ai loro vincitori e successori normanni.
Abbiamo già seguito la vicenda, per molti versi straordinaria, dell'avvento normanno in Italia. Volgiamo ancora una volta lo sguardo ai principali protagonisti di questa svolta storica: gli Altavilla.
A casa loro, in Normandia, erano nobili di non eccelso lignaggio. Tancredi, il capostipite, aveva sposato successivamente Muriella, dalla quale aveva avuto cinque figli, e Frisenda, che ne aveva partoriti otto. Ambedue caste e prolifiche. Questi tredici, tra fratelli e fratellastri, diventarono quasi tutti principi e principesse. Fra loro, i tre che abbiamo incontrato: Roberto e i due Ruggeri, dei quali uno fu re.
Roberto il Guiscardo, l'astuto, è diventato una figura mitica.
Se tutti i suoi atti non fossero rigorosamente documentati, apparterrebbe a quel genere di personaggi di cui gli storici tendono a dire che non sono mai esistiti e costituiscono le allegorie di un mito nazionale. Diabolico come Annibale, si raccontano di lui tante imprese incredibili: come quella dei pezzetti di pane che fece gettare fuori delle mura di Palermo assediata, per attirare i Saraceni affamati, sempre più in qua, finché non venivano a tiro di cattura. Ma non è vero. Lui era molto più guiscardo, e i Saraceni molto meno grulli. Le pa-gnotte offerte agli assediati gli servivano per misurare la gittata dei loro archi quando scagliavano frecce, per "coprire" i loro compagni che correvano a raccoglierle. Come tutti i furbi, era anche fortunato: come quando, raffreddato, si chinò sotto il tavolo per soffiarsi il naso, nel preciso momento in cui un sicario penetrato nella sua tenda gli tirava una freccia. Si è detto di lui che unisse saggezza e prodezza. Faceva le cose giuste al tempo giusto. Casi vinse il papa a Civitate. Casi gli si protestò vassallo, anziché imprigionarlo. Casi eluse l'imperatore d'Occidente, mentre circuiva quello d'Oriente. Un'ultima sua impresa fortunata fu di raggiungere i settant'anni, quando la gente si fermava di solito a trentacinque.
Il fratellino minore Ruggero era meno astuto, non meno prode. Amava e detestava il fratello. Litigarono spesso, e si unirono sempre nei momenti cruciali: come nella conquista della Sicilia. Ruggero ebbe la parte decisiva in quell'occasione e nella repressione della rivolta pugliese. Stava anche con i Normanni che, con il pretesto di difendere il papa Gregorio, straziarono Roma nel piti orrendo dei saccheggi che essa subì mai. Era crudele quanto si poteva a quei tempi, per natura e per incutere terrore. Non era un campione di buona creanza. A un dignitario franco che gli esponeva una proposta non convincente, levata una gamba «fece una grande pernacchia», per casi dire, dicendo: «affè mia, questa vale di piti di codesto vostro discorso». Decisamente, non un gentleman. Dalla terza moglie, la contessa Adelaide, ebbe due figli, il secondo dei quali, Ruggero anche lui, dopo la morte del primo, gli succedette che aveva diciassette anni. Seppe trarre dai frutti delle conquiste del padre e dello zio la capacità di consolidarle, estendendole. Ed ebbe, lui, Ruggero II, la grande idea provocatoria, di cementarle nientemeno che in un regno che si estendeva dal Tronto al Mediterraneo comprendendo la fatidica Sicilia, che ne divenne la capitale.
Casi, nel 1130, ebbe fine nel Mezzogiorno d'Italia la frammentazione anarchica che aveva contraddistinto sei secoli di storia. Il Sud raggiungeva una sorprendente unità, mentre quella del Nord cominciava a incrinarsi.
Quale fu il ruolo di quel pugno di guerrieri normanni, nel destino del Mezzogiorno e dell'Italia? Ecco una domanda alla quale gli storici hanno fatto fatica a dare una convincente risposta. Secondo me, la chiave di quella risposta sta nel modo in cui essi governarono la Sicilia "liberata" dai Saraceni, e nel modo in cui soggiogarono le repubbliche marinare del Sud, Napoli e Amalfi.
Fu dunque nella cattedrale di Palermo, nel giorno di Natale dell' anno 1130, che Ruggero d'Altavilla, a trentacinque anni, cinse la corona di re di Sicilia. Ne erano passati centotredici da quando i Normanni erano giunti, a cavallo, nell'Italia meridionale. Certo, la conquista normanna dell'Inghilterra durò molto di meno. Ma li si trattava di una struttura statale unitaria e compatta, quella anglosassone. Qui, di un territorio popolato da tre etnie e religioni diverse, e da almeno sei stati in costante conflitto. Più che della lentezza della conquista, c'è da stupirsi che essa sia stata possibile, in quella condizione caotica.
È inutile seguire le vicende intricatissime dei dieci anni che seguirono l'incoronazione di Ruggero II. Come dice Norwich nel Regno del Sole:
[ ... ] la storia d'Italia durante il Medioevo [ ... ] è piena di racconti di guerre inconcludenti: una marea fluttuante di battaglie risaliva la penisola e poi la ridiscendeva: città assediate e riconquistate, da liberare e riconquistare nel corso di una lotta tetra che sembrava non dovesse mai aver fine. Per lo storico tali racconti sono uggiosi, per altri possono essere addirittura insopportabili.
Qui basterà dire che in quei dieci anni Ruggero II, dopo quelle sue imprese, ebbe tutto il mondo contro: e passare in l'apidissima rassegna i vari scenari sui quali dovette misurar:;i con valore, saggezza, abilità, clemenza e crudeltà.
La Chiesa, anzitutto. Dapprima favorevole, poi, come abbiamo ricordato, nemica risoluta, poi, una volta sconfitto Leone IX, costretta a riconoscere la dominazione normanna sul- la Sicilia e quella, nominalmente esercitata in nome dell' apostolo Pietro, sull'Italia meridionale. Aveva quindi subito uno scisma, con l'elezione contemporanea di due papi: uno, Anacleto II, della ricchissima famiglia ebraica Pierleoni, che godeva del favore della maggior parte dei nobili e del popolo romano, e che si era dichiarato deciso sostenitore di Ruggero; l'altro, Innocenzo II, appoggiato praticamente da tutta Europa, a cominciare dall'imperatore, e fortemente sostenuto dal piu ardente dei predicatori, san Bernardo di Chiaravalle, nemico acerrimo del «leone ruggente» figlio di ebrei, «che profanava la cattedra di Pietro e dell' abominevole tiranno di Sicilia». La disputa si prolungò per un intero decennio. Abbandonato dall'imperatore, che a un certo punto preferì tornarsene in Germania, il papa Innocenzo fu sconfitto dai Normanni e fatto prigioniero. Dopo la sua morte, il successore fu costretto a riconoscere, praticamente senza condizioni, Ruggero II re di Sicilia. Intanto, lo scisma si ricomponeva in un concilio, nel quale Bernardo di Chiaravalle si compiaceva di poggiare la sua mano sulla spalla dello sconfitto, ma coraggioso, Anacleto.
Dell'imperatore germanico Lotario, abbiamo già detto. Sceso in Italia, incoronato a Roma, se n'era tornato al paese suo dopo i soliti giuramenti di vassallaggio di tutti i vassalli italiani, felici di salutarlo con deferenza purché fosse di passaggio. Queste frequenti discese e risalite degli imperatori tedeschi costituiscono nel Medioevo un rito turistico peculiare.
Anche l'imperatore bizantino si preoccupò dell'intrusione normanna e si rivolse a Venezia, che gli promise l'invio della sua flotta, come pisani e genovesi avevano promesso a Lotario l'intervento della loro contro la flotta siciliana. Ma, nonostante la fervida mediazione di un grande diplomatico come Pantaleone di Amalfi, quell'intesa singolare fra due imperi e tre repubbliche non si realizzò. È probabile che Ruggero II fosse riuscito a sventarla usando le risorse della sua diplomazia.
E infine, last not least, i baroni. L'ascesa folgorante di Ruggero non poteva lasciare indifferenti i suoi vassalli, soprattutto quelli del "continente", che respingevano le sue pretese di despota orientale, di monarca assoluto. Rivolte scoppiarono ovunque. In Campania insorsero a più riprese, inframmezzate da lacrime di riconciliazione presto dimenticate, Roberto di Capua e Rainolfo di Alife, il cui fratello respinse l'inviato del re con le solite buone maniere: cavandogli gli occhi e tagliandogli il naso. In Puglia, Tancredi di Conversano e le città di Bari, Troia, Molfetta. Ruggero intervenne due volte. La prima dovette subire un'umiliazione, quando fu sconfitto dai ribelli nei pressi di Benevento. La seconda abbandonò ogni scrupolo e si presentò con un esercito tutto costituito da Saraceni, suoi fedelissimi, che si può capire quale considerazione potessero avere delle popolazioni cristiane. Espugnate le città ribelli, le sue vendette furono atroci. Era stato noto fino allora per una clemenza persino stravagante, rispetto ai (empi. Recuperò pienamente, incendiando le città, bruciando vivi gli abitanti, lasciando stuprare le donne; e, naturalmente, cavai! do occhi e tagliando nasi a volontà. Il ribelle Rainulfo, che nel frattempo era morto, lo fece dissotterrare, per gettarlo in un pantano, fuori delle mura. In quegli anni anche il Vesuvio si risvegliò, dopo più di un secolo di totale inattività, con un' eruzione magnifica quanto terribile.
Per una settimana il vulcano vomitò fiumi di lava sui villaggi circostanti e 1'aria si fece densa di cenere rossiccia che oscurò il cielo fin sopra Benevento, Salerno e Capua (Norwich).
Nel 1140 era finita sia l'eruzione del Vesuvio, sia quella di Ruggero II. Dopo dieci anni di strenua lotta, il regno era tutto suo.
Qui, nell'intelligente flessibilità con cui seppe governarlo, si manifestò la sua vera grandezza.
L'esiguità delle forze di cui i Normanni potevano disporci, rispetto al numero e alla varietà della popolazione, non consentiva un esercizio dispotico e oppressivo del potere. Del resto, quello non era nelle corde di Ruggero, che preferiva alla brutalità normanna la sottigliezza orientale. Era preferibile di gran lunga governare con il consenso. Per questo, tuttavia, era necessario realizzare l'integrazione di etnie cosi disparate. Questo fu il compito cui Ruggero si dedicò, e che in Sicilia gli riuscì.
Non vi sarebbero più dovuti essere siciliani di razza inferiore. Tutti, Normanni e Italiani, Longobardi, Greci, Saraceni, avrebbero avuto un ruolo da svolgere nel nuovo Stato. L'arabo e il greco sarebbero state le lingue ufficiali alla pari con il latino e la lingua franco-normanna. Un Normanno venne nominato emiro di Palermo, titolo bello e altisonante che Ruggero non ritenne per nulla necessario abolire; a un Greco invece venne affidato il comando della marina che andava rapidamente ingrossandosi. Al controllo del tesoro e delle zecche vennero posti alcuni Saraceni. Brigate speciali saracene vennero integrate nell'esercito e acquistarono ben presto una fama particolare per la loro lealtà e la loro disciplina, fama che dovevano conservare per oltre un secolo. Le moschee rimasero affollate come prima, mentre chiese e monasteri cristiani di rito latino come di rito greco, molti dei quali fondati dallo stesso Ruggero, sorsero ovunque, in numero sempre crescente, nel territorio dell'isola (Norwich).
La prima preoccupazione del nuovo re fu quella di dare al suo regno una costituzione. Non bastavano più i giuramenti di fedeltà, cosi spesso traditi, dei vassalli. Occorreva che tutto il popolo fosse legato a un principio di ordine. Occorreva, insomma, un popolo. Non era più questione di tolleranza, com'era stata assicurata dagli Arabi. Era questione di giustizia, di diritti condivisi. E qui il modello non era, quali che fossero i gusti personali del re, l'Oriente. Era Roma. Ruggero dedicò molto tempo a stendere un vero e proprio sistema legislativo, anticipando la grande opera di Federico II: la Costituzione di Melfi. Non molto lontano da Melfi, ad Aviano in Abruzzo, fece approvare un testo da una specie di Parlamento costituito da feudatari di ogni parte del Mezzogiorno.
Non è dunque vero quel che si dice dei Normanni, che abbiano introdotto in Italia un sistema feudale, del tipo di quelli vigenti nel Nordeuropa. Il sistema siciliano era un misto di assolutismo orientale e di diritto romano. Il potere dei baroni esisteva, certo. Ma Ruggero era stato capace di tenerlo a freno con le armi, e voleva ora governarlo con la legge.
Giusto e magnifico. Cosi Ruggero voleva passare alla storia. Il Glorioso e magnifico re di Sicilia»: cosi gli si rivolse, in quegli anni, un suo ex grande nemico, Pietro il Venerabile di Cluny (cito da Tramontana):
La Sicilia la Calabria e la Puglia, regioni che prima del vostro tempo erano in balia dei Saraceni, oppure covi di briganti e di ladri, sono ora trasformate, grazie al Signore che vi ha assistito nel vostro compito, in luogo di pace e in un asilo di tranquillità; un felice e pacifico regno governato, si direbbe, da un secondo Salomone. Dio volse che alcune contrade della povera e miserevole Toscana potessero essere unite, insieme ad altre regioni limitrofe, al vostro regno!
Parole altrettanto enfatiche delle precedenti ingiurie. Ma è un fatto che, dopo la fine delle guerre contro i baroni ribelli, l'opulenza del regno si manifestava a tutti i contemporanei. Contribuiva a nutrire quest'ammirazione la grande Cura che il re e i suoi Normanni dimostrarono per la cultura e nell'arte. Nello spazio di pochi anni, furono creati monumenti di sobria magnificenza, come il duomo di Cefalù, edificato da Ruggero per adempiere un ex voto formulato durante una tempesta; come la Martorana, come San Giovanni degli Eremiti, e finalmente quella Cappella Palatina considerata da Maupassant «le plus surprenant bijoux réligieux creé par la pensée humaine»: la cappella privata del re, edificata per undici anni sotto le sue dirette cure, dove possiamo incontrarlo ritratto in un mosaico d'oro, proteso sotto la mano del Cristo, con la dalmatica e la stola, la corona ingioiellata, le braccia sollevate nel gesto greco della preghiera.
Il re era noto per la sua insaziabile voracità intellettuale.
Non erano tanto le sue precisioni pignolesche a suscitare ammirazione, come quando informò i napoletani che le loro mura misuravano 2363 piedi, ma la consuetudine intensa che aveva con i piu famosi scienziati, filosofi, geografi e matematici, da lui invitati a corte, con i quali passava molta parte del suo tempo. Si alzava quando entravano, per salutarli e invitarli a sedere, e conversava con loro su ogni argomento scientifico in francese, in latino, in greco e in arabo.
Per sua sollecitazione, il grande Edrisi compose la piti insigne opera geografica del Medioevo. Titolo esteso: Opera di un uomo desideroso di giungere a completa conoscenza dei vari paesi del mondo, piti noto semplicemente come Il libro di Ruggero, un'enciclopedia scientifica ma anche affascinante, piena di storie bizzarre: come quella della regina di Merida, i cui pasti venivano serviti galleggianti nell' acqua; o di quel pesce del Mar Nero che, impigliato nella rete, procurava ai pescatori «une érection d'une manière inaccoutumée».
Molto meno brillante fu la performance di Ruggero sul versante dell'economia. È vero che, specie all'inizio, i Normanni proseguirono lungo il solco tracciato dagli Arabi, d'intensificazione dei traffici mediterranei, soprattutto con l'ampia fascia costiera nordafricana, spingendosi anche molto piti in giti, e impiantandovi colonie.
Ma è anche vero che il sistema dei feudi da essi introdotto spezzò il processo di sviluppo intensivo dell' agricoltura siciliana, che aveva visto la fioritura di mezzo milione di coltivatori, i quali furono dispersi dalle requisizioni dei baroni e dal conseguente ritorno dei latifundia.
C'è, poi, l'aspetto che a me sembra essenziale. Soffocando l'indipendenza delle città marinare, di Bari, di Napoli e soprattutto di Amalfi, il regno rinunciò alla straordinaria forza propulsiva che aveva permesso di conquistare, alla pari con Venezia, una posizione egemonica nel Mediterraneo.
In un primo momento Ruggero aveva promesso ad Amalfi, in cambio di una formale sottomissione, di mantenere il controllo delle sue mura e delle sue rocche. Nel febbraio del I 13 I, dopo un anno dall'incoronazione, egli ingiunse improvvisamente alla città di riconsegnare le chiavi delle sue rocche. Poiché gli amalfitani rifiutarono, inviò la flotta siciliana al comando dell'ammiraglio greco Giorgio di Antiochia a bloccare il porto, impadronendosi di tutte le navi che si trovavano nella rada. Al tempo stesso un altro Greco, l'emiro Giovanni, muoveva contro Amalfi con un esercito dalla montagna sovrastante.
Le rocche, le fortezze che costituivano il sistema difensivo di Amalfi, Guallo, Capro, Ravello, Tramonti, Scala, Maiori e Poderale, capitolarono a una a una. Il 17 febbraio del I 131 la città si arrese. Una storia gloriosa si spegneva. Dopo altri quattro anni, il 4 agosto del II 35, la città ricevette il colpo mortale. Costretta da Ruggero a partecipare con la sua flotta all'assedio di Napoli, lasciò sguarnito il suo porto. I pisani, alleati dei napoletani contro Ruggero, ne approfittarono, e piombarono con quarantasei galere nel porto della loro rivale. Dopo aver distrutto le poche navi alla fonda, si precipitarono sulla città, saccheggiandola orrendamente e traendone un'immensa preda.
Amalfi non si riprese piti da quel colpo, e da una tremenda mareggiata che, come se non bastasse, la investi, devastandola. Quel grande suo impero commerciale, che poggiava su piccolo centro, si disfece. Ne approfittarono i veneziani, che subentrarono nei privilegi degli amalfitani a Costantinopoli.
Il colpo inferto ad Amalfi, e subito dopo a Napoli, non fu soltanto la fine di una grande storia cittadina. Fu anche l'inconsapevole perdita di una grande occasione per il nuovo regno. Rinunciando al diretto dominio sulla città in cambio di una qualche alleanza assistita dalla forza militare, i Normanni avrebbero conservato una preziosa rete di relazioni economiche e d'influenza politica sulle altre potenze mediterranee. Quel destino fu precluso. La gloria delle repubbliche marinare fiori tutta al Nord.
«Stupor mundi.
Il successivo periodo svevo segna una forte discontinuità ,con il regno di Sicilia. Esso è assorbito nell'impero germanico in forme violente, che contrastano vistosamente con le caratteristiche artistiche di civiltà e di tolleranza del dominio normanno Il protagonista di questa svolta è un personaggio feroce che fonda il suo potere sul terrore, decimando l'aristocrazia siciliana. Enrico VI insegue il più vasto disegno di una restaurazione dell'impero in tutta Italia.
Questo disegno è interrotto dalla sua morte violenta, provocata da una congiura cui non sembra estranea la moglie Costanza, figlia bistrattata di Ruggero Il.
Il successore è un fanciullo che stupirà il mondo. Abbandonato prima agli intrighi e alle prepotenze dei baroni, insidiato dagli altri principi tedeschi pretendenti alla successione, è finalmente posto sotto la protezione della Chiesa di Roma che lo riconosce, con il papa Innocenzo III, come re di Sicilia e come imperatore del Sacro romano impero, a patto che le due entità politiche restino separate, pur sotto una stessa persona, che detiene il regno come una specie di feudo della Chiesa.
Dopo uno stupefacente viaggio in Germania, dove riceve l'omaggio di tutti i feudatari imperiali, il fanciullo Federico Ruggero torna in Italia. Pili normanno che svevo, pili italiano che tedesco, incarna soprattutto la figura cosmopolita di un monarca universale, che pretende un'investitura divina, ma la esercita in forme moderne, precorritrici dello Stato nazionale. Premuto dai papi che si succedono a Roma, organizza una crociata sui generis attraverso un accordo con i sovrani del mondo musulmano, verso la cui civiltà non nasconde le sue profonde simpatie. Scomunicato per questo, e per la sostanziale violazione del patto di separatezza fra il regno di Sicilia e l'impero, rompe clamorosamente e violentemente con la Chiesa, mal dissimulando una sua intima miscredenza, e affronta al tempo stesso, seguendo le orme del nonno Barbarossa, quella ribellione anarchica dei Comuni e delle repubbliche italiane del Nord, raggruppate in gran numero in una Lega, che considera intollerabile. Le vince in una battaglia campale a Cortenuova, vendicando l'onta di Legnano, e inviando il loro Carroccio come trofeo in Campidoglio. Ma fino all'ultimo deve subire la loro resistenza armata, e la cattura del figlio Enzo, che finirà i suoi giorni melanconicamente poetando, prigioniero, in un palazzo di Bologna. Circondato da una corte fastosa e gioiosa, da donne bellissime (che i parmensi riusciranno a catturare durante un'incursione), da giuristi, filosofi e poeti, poeta egli stesso, fonda l'università di Napoli, e lascia ai posteri un trattato venatorio rimasto celebre (De arte venandi cum avibus). Ma anche un grande monumento giuridico, la Costituzione di Melfi, base del moderno diritto europeo. Fino all'ultimo combattuto, nonostante effimere riconciliazioni, dai papi, soprattutto dal pili aggressivo Gregorio VII, incontrerà il poverello di Assisi, e percorrendo l'Italia, si guarderà bene dal passare per Firenze, essendogli stata predetta una morte "fiorentina". Morirà a Castel Fiorentino, in Puglia. Per sua volontà, sarà sepolto nell' amata Palermo, nel suo duomo, avvolto, lui miscredente, nel saio severo dei cistercensi.
È difficile sottrarsi al fascino di questo personaggio assolutamente eccezionale. L'eccezionalità è la sua cifra. E anche la sua ambiguità. Nato in un'epoca di torbidi, cresciuto nel marasma di una Palermo risonante di tante lingue, fitta di tanti mercati, intrighi e violenze; cresciuto nel pieno dello scontro fra le potenze, fra Chiesa e impero, fra impero e repubbliche, fra Occidente cristiano e Oriente islamico, il suo 111010 politico sfugge a ogni precisa definizione. L'ultimo dei momarchi medievali? Il primo dei sovrani moderni? Gli storici seguiteranno chissà per quanto tempo a disputare. E cosi controversa è la sua personalità. Crudele sino alla ferocia, come quando ficca la punta aguzza della scarpa nella pancia di ribelle; ironico, come quando all'imperatore mongolo che chiede quale posto sceglierebbe tra i suoi servi, risponde: potrei fare il falconiere». Tollerante di ogni religione, come quando cavalca accanto al califfo in Gerusalemme. Incurante delle buone maniere, come quando introduce un elefante in monastero. O come quando, compiaciuto dello spettacolo di leggiadre fanciulle danzanti, chiede allo scandalizzato messo del papa: «che male c'è?» Progettatore e costruttore di cento meravigliosi castelli, vi fa installare bagni e latrine, contnuando a scandalizzare il papa.
Tanto avanzato dal concepire una forma di Stato moderno, basato sul diritto, e nel coltivare in pieno Medioevo una concezione della politica che non si può definire altrimenti che laica. E, d'altra parte, tanto legato al modello ormai desueto dell'impero, e incapace di scorgere altro, nel nascente capitalismo delle repubbliche, se non il disordine e l'anarchia.
L'età di Federico segna un momento fatale per l'Italia.
Grande potenza politica, crescente sviluppo economico. Le due forze si contrappongono: prevalente la prima al Sud, la seconda al Nord. È comprensibile che ci si possa chiedere come sarebbe stata diversa la sua storia, se proprio Federico avesse svolto il ruolo del grande Federatore.
Canone inverso.
Prevedere il passato? Come diceva Federico: che male c'è?
Non si tratta solo di un divertimento: che è già cosa buona. Si tratta di riscoprire le sorgenti di fiumi che scorrono nel nostro tempo. E quindi di capire la musica di oggi attraverso un canone inverso.
Il gioco è semplice. Si cambiano le mosse della partita, e il ruolo di certi pezzi. Si cambiano le strategie. Il segreto del gioco è di non discostarsi troppo dal percorso reale: anche se spesso è pili difficile accertare quello realmente accaduto che inventarne un altro.
Nella storia bastano piccoli spostamenti per produrre risultati molto diversi, come insegna la teoria del caos. I campioni di scacchi non fanno altro che rivisitare le grandi partite per proporre varianti. Factum infectum fieri nequi, ammonisce il saggio, ma in realtà il fascino della storia sta proprio in questo: nel riviverla, con tutta la suspense della sorpresa. E nel giudicare il senso delle mosse reali attraverso !'introduzione di varianti possibili. Possibili, però, non astruse.
Ai deterministi questo gioco è vietato. Coerenza vorrebbe che essi fossero in grado, oltre che di "blindare" il passato, di descrivere il futuro. Con il che la storia, veramente, avrebbe fine. Noi restiamo invece nell'incertezza dell'uno e dell' altro.
Ne ricaviamo non soltanto la nostra libertà critica di leggere la storia in modi diversi. Ma anche il calcolo dei costi e dei vantaggi che sono stati pagati o acquisiti: se è vero che il valore di una scelta è rappresentato dal costo delle sue alternative.
In un altro libro, Il cavallo di Federico, ho tentato di immaginare una variante della storia d'Italia nel XIII secolo, tutta centrata su un disegno rovesciato del grande Federico: un suo canone inverso. Qui ne ripropongo, molto brevemente, il senso.
In un racconto al doge di Venezia certi personaggi, presi dalla realtà e opportunamente modificati, testimoniano di una storia mai esistita.
Quella "variante" comincia proprio a Venezia, durante lo storico incontro del r r87 tra il papa, l'imperatore tedesco Federico I (il Barbarossa) e i Comuni della Lega italica. Non c'era stata riconciliazione, come fu riferito, ma totale rottura, e la Lega si estese a una vasta confederazione, affidandosi alla guida di un grande barone e guerriero piemontese, Corrado di Montefeltro, per combattere l'imperatore, con il sostegno del papa.
Nella Lega una corrente moderata, ispirata dai baroni piemontesi, perseguiva un realistico compromesso tra gli italiani insorti e l'impero, mentre un forte movimento di popolo, i palarini (straccioni), sosteneva una riforma religiosa radicale, e insieme un riscatto nazionale nel nome dell'unità e dell'indipendenza italiana. Corrado era incerto. In quel tempo il regno normanno del Sud passò, per via matrimoniale, nelle mani di Enrico, figlio del Barbarossa morto in Terrasanta: persona ferocissima, che aveva soggiogato con barbarica violenza la civilissima Sicilia, e aveva dichiarato una guerra senza quartiere ; gli insorti delle repubbliche italiane del Nord. Ucciso Enrico da una congiura, dopo alterne vicende, l'impero era scivolato nelle mani di un fanciullo, protetto dal papa di Roma Innocenzo. Si chiamava Federico Ruggero e aveva dapprima ripreso il disegno del nonno paterno e del padre, di ristabilire in Germania e in Italia l'autorità imperiale, con la benedizione del papa. In una grande battaglia a Cortenuova aveva battuto l'esercito della Confederazione, vendicando la giornata di Legnano. Ma presto le cose avevano preso tutt' altra piega. I baroni tedeschi, stanchi di piombare in Italia periodicamente e vanamente per restaurarvi un impero ormai consunto, avevano proclamato il regno di Germania, affidandolo a Leone di Brunswick. Federico, rimasto re d'Italia, aveva rotto con il papa Gregorio sulla questione della crociata. Egli sosteneva l'opportunità di un'intesa pacifica e tollerante con i sovrani arabi per un governo comune di Gerusalemme, e per questo era stato scomunicato. In pili, si erano confermate in lui vocazioni laiche, anzi decisamente miscredenti. Le repubbliche del Nord d'Italia, investite dal grande movimento patarino (il "risorgimento" italiano), guidato dal condottiero Ariovaldo, avevano affidato a un abile barone piemontese, Camillo figlio di Corrado di Montefeltro, il compito di stabilire un'intesa con Federico. E Federico, che aveva riorganizzato nel Mezzogiorno un regno fondato su una nuova costituzione, aveva concepito il disegno arditissimo di riunire l'Italia in una confederazione tra le repubbliche del Nord e il regno del Sud: tra la ricchezza e la potenza. Questo disegno poteva comporsi solo richiamandosi alla maestà di Roma. Federico offri al papa, privato del potere temporale, le guarentigie necessarie per esercitare la sua missione spirituale. Essendo stata respinta quella proposta, l'esercito della Confederazione italiana entrò in Roma, che fu proclamata, nel settembre del 1249, capitale d'Italia.
Insomma, Federico avrebbe potuto realizzare contro la Chiesa, contro i Comuni e soprattutto contro se stesso, l'unità di un'Italia ricca e potente. Ho immaginato che egli avesse avuto la rivelazione di quell'incredibile disegno all' alba del giorno della battaglia di Cortenuova.
Erano, di fronte a lui, i confederati.
Si sentivano nella notte, di contro al profondo silenzio dell'esercito imperiale, i loro canti, le loro risa sguaiate. Uomini da niente, plebei, ma terribilmente presuntuosi e spavaldi. Al suo messaggero che gli aveva intimato di lasciarlo passare, com' era avvenuto un giorno con il Barbarossa, avevano mandato a dire: «se l'imperatore ci vuole, venga a prenderei. Noi lo aspettiamo, non siamo canne di palude che tremano al vento». Sembravano proprio canne, quelle irte selve di lance, interrotte dai pennoni delle Città. E quel miserabile trabiccolo che chiamano il Carroccio. Dopo la vittoria, lo avrebbe inviato come un ridicolo trofeo in Campidoglio. Roma aveva visto di meglio. Qui il vento diaccio dell'ultima notte gli attraversò d'un tratto la fronte. Si ricordò di quel che il califfo gli aveva detto:
Attento, noi li conosciamo ormai da piti di due secoli. Nella gestione dei commerci, sono insuperabili. Nella battaglia, arditissimi. Portano dentro di loro una fonte nuova e sconosciuta di energia. Chi potesse aver li, non contro ma al suo fianco, avrebbe con sé il futuro. Il papa di Roma lo ha capito. E tu?
Sarà stata la fredda carezza della notte. Ma i suoi pensieri si erano drizzati in una rivelazione improvvisa. Era un pensiero che sembrava venirgli dal futuro. Si, certo, bisognava vincerli, quei borghesi presuntuosi. Ma non umiliarli. Bisognava offrirgli una nuova alleanza, strapparli al papa, ma non nel nome di un impero che non aveva pili alcun senso, specie ,la che il regno di Germania se n'era staccato. In nome di un legno che poteva essere il loro. Non il regno dei baroni che lo avrebbero aiutato a schiacciare, come avevano fatto a casa loro. Piuttosto, il regno delle repubbliche: una confederazione, certo, inedita nella storia. Ma tutto quel che lui faceva, non era inedito?
In quella combinazione egli avrebbe perso un impero che non esisteva pi, e le repubbliche un'indipendenza sterile , che avrebbe prima o poi, attraverso reciproci scannamenti, condotte alla servitù straniera e alla rovina. Entrambi avrebbero guadagnato la ricchezza di un impero commerciale e la forza di un esercito nazionale.
Il suo cavallo, improvvisamente, fremette. Dal ciglio lontano era spuntato il primo raggio di sole. Federico spronò il suo cavallo.
Il doge serenissimo era rimasto assai turbato da quello strampalato racconto. E nella sua saggezza aveva disposto che i tre personaggi che glielo avevano riferito fossero rinchiusi per sempre nelle segrete dei Piombi, e opportunamente ammutoliti, per sempre: i mutoli dei Piombi. Faetum infeetum fieri nequi.
Parte seconda
L’UNITA’ INCOMPIUTA
Capitolo primo
QUEL GIORNO DI MARZO
Quel giorno di marzo del 1861 , in cui fu proclamato a Torino il regno d'Italia, i cinquecentottanta deputati eletti qualche mese prima, che rappresentavano, con il 2 % dei voti, ventisei milioni di italiani, non poterono riunirsi nell' aula che avrebbe dovuto ospitarli perché l'aula ... non c'era. Quella destinata nel bellissimo palazzo Carignano al Parlamento subalpino era troppo piccola. Se ne dovette improvvisare una nel cortile del palazzo, che ospitò l'assemblea fino al 1864, quando la capitale fu trasferita a Firenze. Non era l'ultima delle incapienze del nuovo regno. E non furono pochi, in Europa e in Italia, a pensare che non solo l'aula, ma il regno, fosse provvisorio.
Cavour usci dal palazzo al braccio di Alessandro Manzoni, tra le acclamazioni. Sarebbe morto improvvisamente, a soli cinquantuno anni, tre mesi dopo. E fu la prima grande disgrazia del regno. Ai suoi successori, esponenti di quella che fu definita la «destra storica», toccava un'eredità da far tremare.
Anche solo due anni prima, nessuno avrebbe scommesso su quell'evento imprevisto, e in fondo da pochi desiderato. A produrlo fu l'intreccio di circostanze improbabili, nel quale gli stessi protagonisti erano stati coinvolti.
Ciò che si era immaginato era tutt' al più, come dice Luciano Cafagna in Nord e Sud, un «Belgio grasso» al Nord, affiancato dallo Stato del papa al centro, e dal regno delle Due Sicilie al Sud: il tutto, in un'auspicabile confederazione. Tutto, invece era precipitato in due anni. Forse, il Risorgimento riuscì proprio per questo: la sorpresa.
Su quest'evento improbabile si erano chiusi poco più di sessant' anni di storia tumultuosa, che sorvoleremo rapidamente in due momenti: il «Risorgimento caldo» e il «Risorgimento freddo».
Capitolo secondo
RISORGIMENTO CALDO
La tempesta napoleonica dilagò, alla fine del Settecento, in un'Italia già percorsa, alla fine di un lungo sonno, da fremiti eversivi: logge massoniche, nuovi club giacobini. In qualche modo, era attesa. Ma suscitò passioni opposte. Salutati all'inizio come liberatori, i Francesi si comportarono da conquistatori.
Non era, quello di Bonaparte, l'esercito di ferro di Carlo VIII. Era una masnada di «pidocchiosi» (secondo Alfieri), affamati e fanatici, pieni di voglia di saccheggio e di violenza; ma soldati intrepidi, guidati da un giovane genialissimo generale. Del resto proprio da lui, dal ventisettenne Napoleone Bonaparte, gli era stato rivolto un messaggio inequivocabile, «alla gloria e alla preda». Irrompendo da Nizza, l'armata francese sgominò l'uno dopo l'altro, con rapidi movimenti, i due eserciti che piemontesi e Austriaci le avevano opposto, e che, uniti, l'avrebbero probabilmente sopraffatta. Usciti di scena i primi, i Francesi inseguirono le truppe austriache in Lombardia e in Veneto, minacciando di là delle Alpi la stessa Vienna, finché anche l'imperatore fu indotto a chiedere un armistizio, che Bonaparte gesti direttamente, con la maltollerata acquiescenza del Direttorio. Con un colpo di scena, liquidò dopo tredici secoli la decrepita Repubblica di Venezia, cedendola all'Austria in cambio della Lombardia, e umiliando con questa cinica mossa i patrioti italiani, cui però offriva di fondare una repubblica formalmente indipendente, di fatto satellite (di lui, più che della Francia): con il nome, prima di Cispadana, poi di Cisalpina. I liberatori, intanto, iniziavano un saccheggio, di ricchezze e di opere d'arte, apertamente reclamato dal Direttorio, che non aveva avuto l'eguale neppure durante le invasioni barbariche. Insieme con le esose pretese finanziarie dei nuovi padroni (il saccheggio ufficiale che si sommava a quello privato), e con il vincolo della coscrizione obbligatoria, queste vessazioni alimentarono una corrente di odio popolare che i vecchi ceti aristocratici e il clero sfruttarono facilmente, sobillando dappertutto nel paese insurrezioni aperte, nel nome della patria, della Madonna e della Santa fede. Tutto ciò sembrava fatto apposta per dissolvere le speranze e screditare la causa della rivoluzione liberatrice, provocando feroci rappresaglie.
Non tutti i Francesi agirono, però, a questo modo. Molti di essi erano giunti in Italia con il sincero proposito di portarvi la libertà, e tra questi, il piti grande e sincero amico di Napoleone, il conterraneo Saliceti, che aveva stabilito rapporti diretti con i patrioti giacobini, incorrendo nelle ire del Direttorio, che fini per richiamarlo in Francia.
Nello stesso Napoleone, del resto, si combattevano due tendenze: il disprezzo degli italiani contemporanei, e la sincera venerazione del passato glorioso d'Italia e di Roma. C' era anche la non troppo celata ambizione di fare dell'Italia una specie di grande feudo personale, sempre comunque subordinato alla sovranità francese. Mai unita, però. Era bene che, confinata 1'Austria nel Nordest, ed esiliato il papa dai suoi possedimenti temporali, ristretto il Piemonte a protettorato francese, l'Italia restasse divisa tra repubbliche satelliti: la Cisalpina a Nord, la romana e la partenopea a Sud, più un gruppo di granducati al Centro, da spartire fra i parenti prossimi.
Che posto occupavano gli italiani, in tutto questo? Molto è stato scritto in proposito: da una parte, per sottolineare la natura subalterna dell'Italia napoleonica, e in particolare il carattere minoritario del patriottismo nazionale; dall' altra, per rilevare la sua natura autentica, la passione che l'animava, la fondatezza e saldezza delle sue idee.
Io penso che abbiano ragione coloro che, come Croce anzitutto, hanno rivendicato la dignità e l'etica del Risorgimento; o meglio di quella fase del Risorgimento, che io definirei la sua fase "calda", nazionale e popolare.
Che le élite risorgimentali italiane fossero minoritarie, è innegabile. Ma quale dei grandi movimenti storici è stato mai guidato da élite maggioritarie? Si può certo obiettare che ci sono minoranze trascinatrici e minoranze isolate. Ed è senz' altro vero che i patrioti italiani non esercitarono mai un ruolo egemone rispetto alle masse contadine, che essi temevano e cui erano invise.
Ma non è vero che non fossero capaci di una forza morale che trascendeva la realtà dei rapporti di forza materiali, anticipando un disegno futuro. Come dice Salvatorelli nel Sommario della Storia d'Italia, il Risorgimento non fu un caso fortuito e fortunato, e neppure «un fatto puramente politico-territoriale-statale», ma un processo di carattere spirituale, «una trasformazione intima e completa della vita italiana, un' affermazione di autonomia nazionale e individuale». Il fatto che la sua caratteristica essenziale fosse letterario-culturale, piti e prima che politico-territoriale, non toglie niente alla sua grandezza. Il fatto che nacque all' ombra della potenza francese non lo rese servile. I patrioti italiani non furono dei Quisling.
Quella minoranza fece sempre sentire 1'azione sua, non si disperse, non si smarri, e si dimostrò salda e flessibile e ottenne infine vittoria [ ... ] perché [ ... ] era assorta in un ideale e di contro le stava la realtà; ma quell'ideale, poiché possedeva forza etica, aveva vera realtà, e quella realtà era invece realtà bruta, incapace di mai dominare e governare (B. Croce, Storia d'Italia nel secolo XIX).
Fu, storicamente, 1'elemento attivo che rappresentava autenticamente la nazione, non quello pesante, riottoso e «inertissimo» che si opponeva al suo sviluppo. Fu dunque esso a uscire vittorioso, segnando il destino d'Italia. Fu l'idea d'Italia, non quella del papa, dei principi e della Santa Alleanza, a trionfare; e non come un dono francese, ché senza quella spinta ideale non ci sarebbe stata alcuna Francia, neppure a promuoverla, e neppure alcun Cavour a darle compimento. E tuttavia - questo SI che è vero - di quell'incapacità di trascinamento attivo delle masse l'Italia pagò pesantemente il costo, quando finalmente il suo obiettivo essenziale, l'unificazione, fu realizzat~. Di questo diremo più avanti.
contesta che da quella i napoletani traggano «una invidiabile felicità».
Intanto, guardiamo un po' più da vicino quelle forze delle quali parliamo, perché furono forze reali, concrete e pratiche, non vuote perorazioni retoriche. Guardiamo alle repubbliche napoleoniche, alloro fallimento; e alla loro rapida rinascita quando, dopo la precaria restaurazione della Santa Alleanza, nel 1848 il moto risorgimentale esplose in tutta Italia; per poi resistere, impavido, dopo la sconfitta piemontese.
Lo facciamo seguendo a volo di rondine le vicende cronologiche, distintamente per ciascuna delle principali realtà territoriali cittadine: perché Napoli, Roma, Milano e Venezia sono certo Italia, ma ciascuna con le sue torri e cupole e guglie. E Torino, che emerse dal Risorgimento caldo per fondare la fase del Risorgimento freddo, non fu mai una realtà a esse esterna, ma con esse strettamente e drammaticamente intrecciata.
Nessuno stato d'Europa è in condizione peggiore della nostra non eccettuati nemmeno i Turchi i quali almeno sono barbari, sanno che non hanno leggi, son confortati dalla religione a sottomettersi a una cieca fatalità, e con tutto questo van migliorando ogni di; ma nel regno delle due Sicilie, nel paese che è detto giardino d'Europa la gente muore di vera fame [ ... ] sola legge è il capriccio, il progresso è indietreggiare e imbarbarire. Nel nome sanissimo di Cristo è oppresso un popolo di cristiani.
La Repubblica partenopea.
L'antico regno di Napoli è vittima di una leggenda climatica: che vi sia sempre il caldo e il sole. «Più il viaggiatore si avvicina verso Napoli più la terra muta sotto i suoi occhi», afferma Giuseppe Galanti, nella sua Descrizione geografica e politica delle Sicilie, opera del 1787; il che è senz'altro vero, ma poi aggiunge: «è pur da notare che nella Toscana e nelle altre parti dell'Italia superiore, nella stagione d'inverno è sensibile nelle chiese il frastuono di tosse della gente di campagna. Quello non si osserva in Napoli». Sarà pur vero che a Napoli si tossiva di meno in inverno (ne dubito assai), ma non che se ne traesse più felicità. Luigi Settembrini, che pure rilevava, nell'opera Protesta del popolo delle Sicilie, scrivendo sessant'anni più tardi, «la serena bellezza del nostro cielo»,
Dodici anni dopo il compiaciuto ritratto di Galanti, e quarant' anni dopo la denuncia di Settembrini, esplodeva a N apoli la prima grande fiammata del Risorgimento italiano. La quale sarebbe oggi, e ingiustamente, meno nota agli italiani se il grande romanzo di Enzo Striano, Il resto di niente, non avesse fatto rivivere in quel tempo quella città, nella sua infinita mutevolezza e nella sua stremata malinconia.
Napoli era allora la grande capitale di un grande regno. Al centro del suo arco splendido, una splendida corte. Splendida nello sfarzo vistoso, quanto corrotta e futile. La corte di Napoli, dice Vincenzo Cuoco, era la corte delle irresoluzioni, delle viltà e delle perfidie. Al centro della corte, la regina. Maria Carolina, figlia di Maria Teresa d'Austria, sorella di Maria Antonietta, giunse a Napoli in odore di massoneria progressista, e persino di simpatie per la Francia rivoluzionaria. Che mutarono di colpo, ovviamente, quando la ghigliottina troncò la testa della regina di Francia. Dolore e odio strazianti la travolsero allora, scalciante e urlante sul pavimento. L'odio non la lasciò mai, anzi l'attanagliò, fin quasi alla follia. Anche il re odiava, ma in lui prevaleva un'indolenza cialtrona che lo assimilava ai lazzaroni, ai piaceri della caccia e di giochi grossolani, lasciando libero campo alla regina nelle cose della politica. Delle quali era ben sicura almeno rispetto a due obiettivi essenziali: staccare il regno di Napoli dalla tutela della Spagna per agganciarlo a quella dell' Austria; concentrarsi a tempo pieno e spietatamente nella persecuzione dei giacobini (il popolo li chiamava «li Giacobbe»), organizzando una vera inquisizione, affollata di delatori e di spioni. Indispettita dall'impopolarità che sentiva montare contro questo brulicare di vermi, dichiarò che un giorno avrebbe distrutto quell' antico pregiudizio che rendeva infame il mestiere di denunciante.
Napoli ospitava allora un'élite d'intellettuali tra le piti brillanti d'Europa. Basta fare i nomi di Genovesi, di Filangeri, di Pagano, di Galiani, quest'ultimo follemente innamorato della regina. Ma ella preferiva gli stranieri e i peggiori. Non ebbe requie finché non riUScl a scacciare il primo ministro del re, il marchese Tanucci, per sostituirlo con il toscano Acton, prono alle sue volontà. Si immerse piti tardi nella combriccola degli Hamilton, l'ambasciatore britannico e la moglie Emma, amante di Nelson e complice orditrice di vendette.
Attorno alla corte si estendeva una città per quei tempi popolosissima, la seconda in Europa dopo Londra, ma caotica e miserabile. Una massa di gente ignorante, superstiziosa, perennemente affamata e disoccupata, dominata da una congrega di lazzaroni, pronti a ogni nequizia in nome del re (il nostro «Tata») e della Santa Fede; avida di saccheggio (lo chiamavano l' «arricchimento di Napoli») e di violenza. All' occorrenza, eroica nel combattimento, come dimostrò contro i Francesi, battendosi allo stremo e destando la loro ammirazione.
All' esterno della capitale stava la grande estensione del regno e 1'indomita Sicilia: un immenso mondo contadino, sempre ai limiti tra la sopraffazione, la miseria e il brigantaggio, fonte di terrore e quindi di ulteriori soprusi.
Tra i contadini e i baroni, questi ultimi chiusi nei loro castelli o nei loro palazzi napoletani, lo strato sottile di una borghesia di artigiani e professionisti, per lo piti avvocati e medici, oltre che burocrati, galantuomini dediti a «farsi gli affari propri» (come scriveva Croce), dai quali sortiva però una piccola schiera d'intellettuali di raffinata e cosmopolitica cultura. Spesso si trattava di giovani giunti a posizioni critiche e addirittura estremistiche, giacobine, in rottura con i loro stessi parenti e con il loro ambiente familiare e sociale. L'educazione tradizionale era stata sostituita da letture per lo piti tratte dalla letteratura filosofica e politica francese e inglese.
Da questa furono tratti i quadri del governo provvisorio formato all'entrata a Napoli dell'armata francese del generale Championnet, nel gennaio del 1799, e poi quelli della Repubblica partenopea, che durò lo spazio di un semestre e si spense combattendo. Ebbero piti tempo per scrivere e per combattere, i patrioti napoletani, che per legiferare e amministrare. Si resero responsabili di colpevoli ingenuità, di goffe delibere, di colossali errori, che Vincenzo Cuoco veemente denuncia, nel Saggio storico sulla rivoluzione di Napoli:
Ma quei cento trenta giovani componenti la guarnigione del vetusto rudere di castel dell'Ovo, tutti educati alle lettere, che non mai avevano sentito parlare di assedi e di fortezze, pur vigilavano da sentinelle, servivano i cannoni, eseguivano sortite, combattevano da soldati. Erano idealisti alla cui fantasia sorrideva come promessa la pura felicità del genere umano e che, mentre credevano di abbracciare questa cosmopolitica astrazione, si abbracciavano alla realtà dell'Italia.
Chi erano dunque i realisti? Esclama Benedetto Croce:
Quando io ripenso a quei calabresi e abruzzesi, basilicatesi e pugliesi e napoletani di Napoli che scrivevano e combattevano impavidi, dico tra me: ecco la nascita dell'Italia moderna, della nuova Italia, dell'Italia nostra [ ... ] Quei giacobini furono i primi che dettero il grido all'Italia sonnacchiosa. C'erano tra loro scienziati e letterati. C'era Leonora de Fonseca, 1'ardente Lenor, e Pagano, e Cirillo, il Lauberg e, tra i nomi illustri dell' aristocrazia napoletana, i Carafa e i Caracciolo, i Pignatelli e i Filomarino.
Gente pura e dura, che continuò a combattere senza piti alcuna speranza, mentre i Francesi erano costretti a uscire dal. la città, e il cardinale Ruffo vi entrava alla testa dei sanfedisti e dei lazzaroni. Ammirato del loro valore, egli volle rendere a loro l'onore delle armi, impegnandosi sulla sua parola a Iasciarli partire. Ma quella parola fu disconosciuta dall'odio forsennato della regina, dalla viltà del re, dalla ferocia vendicativa di un Nelson geloso di Caracciolo. Cosi, tradendo la parola data, i "giacobini" della repubblica napoletana furono avviati al patibolo nella piazza del Mercato, in mezzo a una folla schiamazzante, tra ingiurie e sputi.
La prima Repubblica romana.
Tanto fu dignitosa la storia breve della Repubblica partenopea, quanto indecorosa quella, altrettanto breve, e contemporanea, della prima Repubblica romana. Della prima, perché ce ne furono due, nel Risorgimento, e la seconda molto piu famosa e meritevole.
La prima delle due repubbliche nacque il28 dicembre 1797 da un fattaccio. Un gruppo di giacobini romani si era raccolto davanti all'ambasciata di Francia. Al grido di «viva la Repubblica francese, viva il popolo romano», dichiararono di essere insorti contro la tirannia pontificia e chiesero l'appoggio dell'ambasciatore di Francia, Giuseppe Bonaparte. Costui, infuriato per quest'indesiderabile compromissione, li mise alla porta. Ma intanto era sopraggiunto un drappello di soldati pontifici che, inseguendo gli insorti, aveva varcato i recinti dell' ambasciata. Un gruppo di ufficiali francesi li affrontò e uno di loro, il focoso generale Duphot, fu colpito e ucciso da una fucilata. Convocato immediatamente, il segretario di Stato si sottrasse, con incredibile leggerezza. Informato dall' ambasciatore, che intanto aveva lasciato Roma indignato, il Direttorio approfittò subito dell'incidente come pretesto di un intervento militare, diretto a realizzare un obiettivo politico di grande portata: niente di meno che il rovesciamento dello Stato pontificio.
Una spedizione condotta dal generale Berthier, organizzata in grande segreto e con la massima celerità, calò dalle Marche a Roma, dove un governo confuso e un papa sbigottito si dichiararono pronti a dare ogni possibile soddisfazione, accompagnando le parole con quaranta bottiglie di vino, una vitella e uno storione. Ormai, però, il dado era tratto, e i Francesi non si accontentavano di storioni. Entrando a Roma, occuparono Castel Sant' Angelo e i principali punti strategici della città, imposero pesanti tributi, razziarono opere d'arte in maniera sistematica, e infine diedero via libera ai giacobini romani che, adunatisi nell'antico Foro, ora pascolo di vaccine, proclamarono con solennità, alla presenza di un popolo indifferente e diffidente, la Repubblica romana.
Segui un' orgia di rappresentazioni piuttosto carnevalesche, con innalzamento di «alberi della libertà», sventolamento di un tricolore bianco, rosso e nero, e pomposi discorsi dei retori romani e dei generali "gallici" inneggianti a Pompeo, a Bruto, ma non, per comprensibile delicatezza verso i Francesi, a Cesare.
A Pio VI che, a differenza dei suoi cardinali, non era fuggito, ma era rimasto dignitosamente al suo posto, fu comunicato che il suo potere temporale era finito, e che non aveva ragioni di temere per la sua incolumità. Ma, a quel punto, al povero papa non restava che scappare il piu presto possibile, travestito da semplice chierico, e cercare un'ospitalità che gli fu vergognosamente negata dalle potenze "amiche", e gli fu infine accordata dai suoi nemici, in Francia, dove un anno dopo mori.
La Repubblica giacobina ebbe vita breve e ingloriosa. Agli annunci assai solenni di libertà e di prosperità sempiterna, seguirono le pretese fiscali esose e le soperchierie private dei padroni francesi, le manifestazioni di servilismo del sedicente governo repubblicano, e una serie di inutili angherie ai danni dei riti e costumi popolari, come il Carnevale, il culto dei santi e della Madonna, sostituita da improbabili vergini giacobine e zoccole libertine. Riforme fondamentali, come la soppressione dei re nei giochi delle carte, furono introdotte, accanto a misure quanto mai utili, come l'illuminazione delle strade, la rimozione dei rifiuti, il censimento della popolazione. Forse la piu rilevante delle conquiste civili della Repubblica fu la soppressione del ghetto e la riabilitazione civile e sociale degli ebrei, che rimasero fino alla fine tra i suoi più fedeli sostenitori.
La costituzione, promulgata nel marzo del 1798, come copia conforme di quella francese, restò lettera morta. Di molte altre innovazioni liberali, che pure erano state annunciate da patrioti autentici e ragionevoli, non s'ebbe modo e tempo neppure di discutere, pressati dai fatti d'arme che da ogni parte assalivano la fragile Repubblica. Una sommossa popolare testimoniò, piti di ogni altra prova, l'attaccamento della maggior parte del popolo romano alle sue tradizioni. Settantamila napoletani comandati dall' austriaco von Mack entrarono a Roma in soccorso del papa in novembre, e fuggirono in dicembre, sgominati da un vigoroso contrattacco francese. Il re Ferdinando, che era entrato trionfalmente a Roma accompagnato dal suo inetto generale in capo, «venne vide e fuggi», cosi commentò Pasquino.
Alla fine, tuttavia, i Francesi, richiamati a Nord a fronteggiare l'esercito austriaco, abbandonarono Roma, che fu rioccupata dai napoletani nel settembre del 1799. Ben diversamente da quanto avvenne a Napoli un anno dopo, però, non vi fu alcuna resistenza. Fu posta fine pacificamente a una repubblica senza popolo e senza gloria.
La Repubblica romana quella vera.
Le cose andarono molto diversamente nella stessa Roma, mezzo secolo dopo. La scena era cambiata radicalmente.
La caduta di Napoleone aveva trascinato nella rovina le sue creature politiche: il regno Italico e il regno di Napoli, preceduti dalle repubbliche giacobine di Napoli e di Roma.
Aperta dal congresso di Vienna, era seguita, nel 18 15, la grande Restaurazione.
Quella Santa Alleanza avrebbe dovuto durare per secoli.
Invece, visse poco piti di trent'anni una vita tormentata.
Non è difficile capire le ragioni. Le grandi potenze che 1'avevano costituita seguivano progetti diversi: le une, come Austria e Russia, fortemente legate al mantenimento dello sta- tus qua; le altre, come l'Inghilterra, piti aperte al futuro, nel quadro di una visione mondiale moderna.
Inoltre, ed è l'aspetto piti rilevante, l'assetto politico-istituzionale stabilito a Vienna era del tutto incompatibile con la nuova struttura della società emergente dalla rapida evoluzione economica e sociale intervenuta dopo la Rivoluzione francese.
In Italia, per esempio, si era creato un nuovo blocco sociale contrapposto alla vecchia aristocrazia, formato da un pezzo di quella stessa, coinvolta nelle nuove correnti ideali; dalla borghesia ricca, dai ceti militari mobilitati nelle imprese napoleoniche, da quelli burocratici impegnati nelle nuove amministrazioni. Di contro, si estendeva la massa dei contadini, divisi in Italia dalle classi dirigenti da un profondo varco, in condizioni economiche miserabili, in promiscuità tra loro e con i loro animali. E già si profilava, sull' onda incipiente della Rivoluzione industriale, l'irrompere del proletariato operaio.
Si capisce che queste tensioni non potessero comporsi nel teatro politico settecentesco. L'ordine sociale, in tutta Europa, era percorso da fremiti di rivolta, che sfociavano talora in aperte insurrezioni. Come quella provocata a Napoli nel 1820 dalla notizia della costituzione spagnola, con il conseguente pronunciamento degli ufficiali murattiani e con la rivendicazione di una costituzione napoletana che il re Ferdinando, sopraffatto dagli eventi, aveva accordato (poi però, convocato dalle potenze dell' Alleanza, rinnegò l'impegno, invocando un intervento militare repressivo, prontamente concesso ed eseguito dall' Austria).
Oppure, come nel 183 I, quando, infiammati dall'avvento di Luigi Filippo in Francia, Ciro Menotti e un gruppo di patrioti modenesi pensano di organizzare un movimento parallelo in Italia. Il duca di Modena, sul quale si erano illusi di poter contare, fugge a Mantova trascinandosi dietro Menotti in catene, che verrà giustiziato quando gli Austriaci, invocati dal duca, avranno ristabilito l'ordine.
Ma attraverso ammutinamenti, complotti, insorgenze, impiccagioni, cresce in quegli anni un sentimento collettivo di odio e di solidarietà. Di odio verso l'Austria, e di solidarietà concreta fra italiani: liguri, romani, romagnoli, toscani, veneti e anche siciliani, calabresi; e attraverso tutti i fallimenti dell'eterno ricorso allo straniero, la ferma convinzione maturata nelle delusioni, espressa da Ciro Menotti mentre sale sul patibolo: «italiani, ricordatelo, non dovete fidarvi che di voi stessi».
È proprio un anno dopo i moti del 1831, che Mazzini fonda la Giovine Italia. E fino alla vigilia del fatale 1848, continuerà la catena del martirio che, come in tutti i rivolgimenti nazionali, sembra inutile. Ma senza i fratelli Bandiera, senza Pisacane, senza tutti gli insorti traditi e fucilati, la sola attesa sarebbe stata un prezzo sufficiente?
Quegli anni della Restaurazione non restaurano proprio niente. Alimentano invece nel paese, accanto al sentimento della rivolta, un fiotto di vitalità che si rivela nel rinnovato fermento della cultura. Sono gli anni nei quali Alessandro Manzoni compone Fermo e Lucia, che diventeranno gli Sposi Promessi e quindi i Promessi Sposi. Sono gli anni delle tragedie di Vittorio Alfieri, il vero Tirteo del Risorgimento. Sono gli anni del melodramma italiano, che lo accompagnerà, quel Risorgimento, per tutto il secolo, come la sua colonna sonora.
A Roma, nel 1846, nasce una grande speranza.
Dopo la morte dello sfortunato Pio VI, tre papi gli erano succeduti, e l'ultimo, Gregorio XVI, si era dimostrato il più ottusamente reazionario. Tornati a esercitare il potere temporale, i ministri avevano ripristinato d'un colpo solo le migliaia di editti soppressi dalla Repubblica. Riaccolto con ardore filiale, il papa aveva avuto il tempo di disgustare nuovamente il suo popolo. Al fanatismo patriottico era subentrata l'isteria clericale. Trasteverini, monticiani e regolieri avevano ricominciato a cantare versi di scherno al passaggio delle carrozze cardinalizie.
Alla morte di papa Gregorio, il conclave si era aperto in un clima di vivace partecipazione politica. Si scommetteva su due campioni: il cardinale Lambruschini, conservatore, e il cardinale Gizzi, liberale. Come spesso succede, ne venne fuori un terzo, cui toccò di contare i voti, e mentre leggeva, e il suo nome ricorreva insistente, gli tremarono le mani, e dovette smettere, lasciando ad altri le schede. Era il cardinale marchigiano Mastai Perretti. Di lui si sapeva che era giovane, che era amabile, che era bello e piaceva alle donne, ma ... niente più di questo.
L'attesa di novità era tale che ogni minimo accenno del nuovo papa era spiato e caricato di significati allusivi. Il papa, cui piaceva molto piacere, lo sapeva; e quest' attesa degli uni, e questa compiacenza di lui, furono causa del sorgere di un colossale equivoco. A Roma, uno cosi, lo chiamano un piacione. Ora, finché lo è un attore, o anche un personaggio politico, poco male. Ma per un papa, può essere una grave insidia. Per Pio IX (questo è il nome che si era dato) lo fu. Un vero guaio per l'Italia fu che il nuovo papa, diverso per tanti aspetti, somigliasse a Carlo Alberto per due: la vanità e l'ostinazione.
Era però sincero nella convinzione che la Chiesa avesse bisogno di una "rinfrescata". E volle cominciare a dare una prova di cambiamento. Porse lui pensava che fosse un suono di campane. Invece fu una cannonata. Si trattava di un' amnistia per condannati di reati politici (detenuti, esuli, perseguitati). Suscitò un'ondata irrefrenabile di entusiasmo. Altro che «alberi della libertà» e busti di Bruto. Tutta la città ballava e cantava davanti al Quirinale e a piazza del Popolo. Leader democratici autentici, come quel popolano Angelo Brunetti, detto Ciceruacchio, si presentavano come interpreti accreditati del suo pensiero. Quando poi nominò Gizzi segretario di Stato, e istitui una specie di governo e una consulta che teneva luogo di un Parlamento, si vide che non solo di gesti formali, ma di vere intenzioni riformistiche, si trattava. Perché, d'altronde, Giuseppe Mazzini gli avrebbe indirizzato una lettera deferente, nella quale lo pregava di ricordarsi della sua italiaIlità? E perché lui stesso, in una pubblica allocuzione, avrebbe pronunciato quella frase famosa che scosse di un fremito profondo tutta la nazione: «benedite, gran Dio, l'Italia!»
Intanto, gli eventi precipitavano.
Nel marzo del fatale 1848, i milanesi insorgono: dopo cinque giorni il maresciallo Radetzky è costretto a lasciare Milano, e Carlo Alberto dichiara guerra all' Austria. Da Roma parte un contingente di volontari al comando del generale Durando, per affiancarsi ai piemontesi. Leopoldo di Toscana e Ferdinando II di Napoli dichiarano, riluttanti, guerra all' Austria. A Roma vengono abbattute le mura del ghetto. I piemontesi battono gli Austriaci a Goito.
Ma, alla fine di luglio, la sorte si rovescia. I piemontesi, mal guidati e bloccati nel "quadrilatero", sono sconfitti a Custoza. Radetzky entra a Milano. Carlo Alberto firma un armistizio. A Roma si forma un nuovo governo guidato da Pellegrino Rossi, che attacca in un articolo la politica piemontese e viene ucciso sullo scalone della Cancelleria. Pio IX ordina ai volontari di ritirarsi, e quelli non obbediscono. La luna di miele dei romani con il papa è finita. La città insorge, e Pio IX fugge a Gaeta, raggiunto dal re di Napoli. A Roma il consiglio dei deputati si scioglie, si forma una giunta e si indice una Costituente. Il papa annuncia: coloro che la voteranno saranno scomunicati. La votano in 250000. Sono eletti 179 deputati: 65 emiliani e romagnoli, 50 marchigiani, 25 umbri, 32 laziali. I moderati ottengono la maggioranza. La Costituente, riunita in Campidoglio nel febbraio r849, dichiara decaduto «di fatto e di diritto» il potere temporale del papato, e proclama la Repubblica romana. La Repubblica romana «avrà col resto d'Italia le relazioni che la nazionalità comune esige»: una formula non del tutto chiara. La bandiera sarà il tricolore, bianco rosso e verde. «lI pontefice avrà tutte le guarentigie necessarie per l'indipendenza nell'esercizio della sua potestà
spirituale» .
Giuseppe Garibaldi arruola una Legione italiana. Qualche mese dopo, arriva a Roma Giuseppe Mazzini.
Nel marzo del 1849 Carlo Alberto rompe la tregua con l'Austria, ma è sonoramente battuto a Novara, e abdica in favore del figlio Vittorio Emanuele. La Costituente elegge triumviri Mazzini, Saffi e Armellini. La guerra con l'Austria è finita, ma Venezia resiste.
Il nuovo governo repubblicano di Roma abolisce la censura, istituisce lo stato e il matrimonio civile.
L'ex carbonaro Luigi Napoleone, diventato imperatore dei Francesi, incalzato da una destra vittoriosa, invia in Italia un corpo di spedizione comandato dal generale Oudinot, con il compito di riportare il papa a Roma e di restituirvi l'ordine, sgominando la «masnada» dei ribelli. Su Roma convergono, per schiacciare la Repubblica, napoletani e spagnoli. Ma la masnada resiste, in armi.
Sbarcato a Civitavecchia, Oudinot pubblica un proclama untuoso, dichiarando di essere li a nome della Repubblica francese, non per ristabilire gli abusi per sempre distrutti dalla generosità dell'illustre Pio IX, ma per facilitare il ristabilimento di un regime che eviti l'anarchia di questi tempi.
Il triumvirato risponde, protestando «in nome di Dio e del popolo contro l'inattesa invasione e dichiarando il fermo proposito di resistere e rendere mallevadrice la Francia di tutte le conseguenze».
In un nuovo proclama altrettanto ipocrita, Oudinot afferma che l'armata francese è li non per imporre un governo, ma «per preservarvi da pili gravi mali». Ricevendo due deputati della Repubblica, che gli chiedevano se fosse li per restaurare il papa, si mise la mano sul cuore e dichiarò: <<nulla è più lontano dalle mie intenzioni e da quelle del mio governo».
Oudinot aveva settemila uomini. Si mise in marcia il 28 aprile alle otto del mattino. A chi gli chiedeva se si aspettasse lilla resistenza, rispose con una frase rimasta famosa: «les tard ils ne se battent pas» (più tardi disse di non averla mai pronunciata: conosciamo questa abitudine).
Comunque la smentita venne subito, quando, sotto le mura di Roma, tra porta San Pancrazio e porta Cavalleggeri, due colpi di cannone infilarono l'avanguardia, che dapprima si disperse per le vigne, poi piazzò due pezzi sparando contro le mura. Quindi i Francesi si lanciarono avanti, tentando per tre volte di scalarle. Attacco quanto mai stupido, come in fondo lo era il bravo Oudinot, che mandava a morte certa i suoi soldati, costretti ad arrampicarsi conficcando nelle mura i pugnali come sostegni alla scalata, sotto il fuoco dei romani che sparavano a bruciapelo. Male informati da chi li aveva assicurati che di là dalla porta il popolo, fedele al papa, era pronto ad accoglierli, i Francesi della seconda brigata, correndo nel vallone che costeggiava le mura vaticane, furono investiti da una pioggia di proiettili. Mori crivellato di colpi il generale Levaillant - nome appropriato -, e rischiò di morire lo stesso Oudinot, che si era avventurato. Un terzo assalto fu condotto dalle parti di porta San Pancrazio. Li c'era Garibaldi, e li si combatté per ore, all'arma bianca. Alle cinque del pomeriggio, Oudinot decise di dare un nuovo assalto alle mura, quando, di là da quelle, udi un canto ben noto. Si, cantavano proprio Allons enfants de la patrie. Oudinot, convinto che fossero i suoi, inviò alle porte un ufficiale che si trovò davanti Nino Bixio ... e fu fatto prigioniero.
Finalmente, dopo che dall'una e dall' altra parte erano cadute decine di morti e centinaia di feriti, Oudinot ordinò la ritirata. Si trattò di una tregua. Niente descrive meglio la giornata, delle parole asciutte di Giuseppe Garibaldi:
Era veramente disprezzante il modo di attaccare del generale nemico. Don Chisciotte all'assalto dei mulini a vento. Egli attaccò non in altra guisa che se non vi fossero stati baluardi, o se questi fossero stati guerniti con bimbi. Veramente per sbaragliare quattro brigands d'italiens il generale Oudinot, virgulto di un maresciallo del primo impero, non aveva creduto necessario procurarsi una carta di Roma.
I Francesi avevano lasciato a Roma cinquecento prigionieri. Ma Mazzini non si esaltò. Scrisse in inglese all'amica Emilie Hawkes: «i Francesi sono quasi a quattro miglia dalla città. I napoletani avanzano; la nostra posizione è abbastanza cattiva. Siamo condannati: ma faremo tutto il possibile».
Questa era la pura verità. La vera gloria della Repubblica romana risiede in questo combattere senza speranza. Non c'era nessun Vittorio Emanuele all'orizzonte. E quanto a Napoleone III, stava dall'altra parte. Questi inviò una missiva al suo generale, dicendosi addolorato dell' accoglienza cosi ostile a un esercito «che veniva a compiere una missione benevola e disinteressata», e promettendo immediati rinforzi. Garibaldi scrisse ad Anita: «il tuo bel poncio è stato bucato da tre palle e la mia pancia ha resistito a una regolare contusione: che brutto, se morivo per la pancia!»
Nelle giornate che seguirono, i prigionieri francesi, che temevano di essere massacrati, furono festeggiati e liberati. La Repubblica era generosa. Ma disperata. I tentativi di un'intesa per un esito onorevole fallirono. Oudinot attaccò di sorpresa, ventiquattr'ore prima dello scadere della tregua. Sul coraggio e il valore dei difensori lasciamo la parola a Cesare Pascarella (dai Sonetti, Villa Gloria):
Ma ce rimase li fino alla fine
Finché il muro li sassi li mattoni
Finché le pietre de li cornicioni
Nun stavano già drento a le cantine
E li tra assalti mine c contromine
Tutti li reggimenti e li cannoni
Finché non volle lui non fumo boni
De fallo scenne giri da le rovine
Che dar principio che ce s'era messo
Più loro, li francesi ce provavano
A cacciallo e più lui sempre lo stesso
Imperterrito sempre e sempre in cima
A le macerie se lo ritrovavano
Gni giorno sempre li peggio de prima [ ... ]
Razzi e bombe fioccavano!
Ma pure Framezzo le rovine e li sfaceli
De li palazzi, in mezzo a le paure
Di quell'urtimi strazi piri crudeli
Nun se cedeva. E er Pincio e l'antre arture La Trinità de Monti [ ... ] e l'Areceli
S'empiveno de donne e de crature Che cantavano l'inno de Mameli.
Che differenza, tra questi versi che raccontavano l'eroismo di Medici del Vascello e la resistenza popolare di Roma, e le fanfaluche accademiche e le frasche retoriche che avevano agghindato il melodramma della Repubblica giacobina.
Il diavolezzo dei cinque giorni?
L'espressione è del loro principale protagonista, Carlo Cattaneo, che fu l'ultimo a crederei, ma il primo a governarle, quelle fatali «Cinque giornate».
A metà dell'Ottocento Milano era già allora, diversamente da Roma, una grande città operosa, con un' aristocrazia orgogliosa ma anche colta, una borghesia industriosa, anche se non ancora industriale, un vasto ceto di artigiani e mercanti, una fascia vivace d'intellettuali partecipi e protagonisti (basta fare i nomi di Verri e di Beccaria) delle correnti culturali europee dell' epoca, radunati attorno a due giornali prestigiosi, il «Caffè», d'intonazione illuministica, e il «Conciliatore», d'ispirazione romantica.
Pochi anni prima era morto uno dei più illustri patrioti italiani, tornato a Milano dopo la condanna, il carcere e l'esilio:
Federico Confalonieri.
Milano era anche una delle più ricche e progredite province dell'impero asburgico, che stentava a tenere a freno la sua incoercibile spinta all'autonomia, se non all'indipendenza tout court. Milano, insomma, non soffriva di alcun complesso di deferenza nei riguardi di Vienna e del suo governo. Mordeva il freno. Nessuno si aspettava, però, che quella condizione sfociasse in un'insurrezione di popolo.
Quando, nel marzo del 1848, giunse nella città la notizia della caduta, a Vienna, di Metternich, i più autorevoli esponenti del liberalismo milanese (tra i quali Luciano Manara e 97 i fratelli Dandolo) si affrettarono a promuovere un'assemblea popolare a San Babila. Probabilmente neanche loro si aspettavano un cosi imponente concorso di popolo. Fu prontamente votato un proclama, che avanzava le rivendicazioni ormai comuni a tanta parte del movimento: abolizione della censura, della tortura, istituzione della guardia civica, libertà di stampa.
Le richieste, furono i milanesi a portarle direttamente al vicegovernatore O'Donnell, invadendo i suoi uffici, conducendolo al balcone a guardare una folla inferocita, facendogli firmare le loro rivendicazioni li, sulla ringhiera. A questo punto Radetzky, che aveva criticato i tentennamenti di O'Donnell, non ebbe più esitazioni. Convocò il podestà Casati. Gli disse che, se gli insorti non tornavano subito nelle loro case, egli avrebbe scatenato i suoi centomila uomini, e avrebbe bombardato Milano con i suoi seicento cannoni. In realtà, non poteva. L'insurrezione era stata cosi fulminea da irretire le poche migliaia di soldati austriaci (croati e italiani) nella trama delle barricate.
Radetzky amava Milano (e anche Giuditta Meregalli, milanese, famosa per i suoi gnocchi di patate), e la scelse poi per vivere gli ultimi anni della sua vita. Era stato lui per primo sorpreso dalla violenza dell'insurrezione.
Scrisse a Vienna, come riporta Carlo Cattaneo, nell'opera Dell' insurrezione di Milano:
Il carattere del popolo di Milano [ ... ] mi sembra trasformato per un colpo di bacchetta magica: il fanatismo ha preso persone di ogni età, di ogni rango, uomini e donne [ ... ] Le notizie delle province, sebbene poche, sono affliggenti. L'intero paese è insorto, anche i contadini sono in armi. L'armistizio non è stato accettato e la battaglia continua con furia inesausta [ ... ] I soldati isolati vengono fucilati o fatti prigionieri. Reparti piu grossi trovano nelle strade barricate e nei villaggi una resistenza invincibile.
Per cinque giorni tentò di piegare gli insorti. Riuscì anche a penetrare nel Comune, arrestando gli assessori, ma non Il podestà. Ma che se ne faceva? Mentre Radetzky perdeva fiducia, gli insorti l'acquistavano. Non avevano che poche armi, e soprattutto poco pane. Ma avevano trovato un capo.
Un grande intellettuale, freddo di mente e caldo di cuore, che all'inizio della rivolta, a chi gli chiedeva che cosa si dovesse fare, aveva risposto: «quando i ragazzi scendono in strada gli uomini vanno a casa».
Cattaneo: chi era? Soprattutto un economista, un uomo di cultura vastissima, nutrita di storia, sorretta da un forte apparato scientifico e da una vasta conoscenza amministrativa. I suoi saggi, scritti sulla rivista «Politecnico», forniscono una ricca e profonda - modernissima analisi dei problemi del suo tempo, italiani ed europei.
Diffidava degli "ismi" ideologici, dell'Illuminismo come del Romanticismo, preferendo sempre un approccio pragmatico. Della vita coglieva tutta la ricca potenzialità, rifiutandosi di comprimerla in uno sterile disegno unitario: «La varietà è la vita, l'impassibile unità è la morte».
Politicamente, non pensava che l'unità d'Italia fosse all' ordine del giorno. Era un convinto federalista, ma pensava a un federalismo asburgico: la Lombardia, regione tra le più ricche dell'impero, inserita in una confederazione imperiale. Certo, l'obiettivo era la confederazione italiana, che, però, si sarebbe potuta realizzare solo quando le altre regioni d'Italia avessero raggiunto il livello della Lombardia. Allora, in un grande quadro europeo pacifico, essa si sarebbe distaccata dall'impero, per prendere il suo posto in Italia.
Una visione tra complicata e irenica, che presto i fatti, che soprattutto contavano per lui, gli fecero abbandonare.
E fu soprattutto la visione del popolo in armi, di quell' accelerazione della storia che aveva fuso una nazione nell' ardore della lotta che trasformò un intellettuale critico, «il più serio, profondo e versatile di tutto il Risorgimento» (Storia d'Italia Einaudi), in un grande capo popolare.
Cambiò idea, realisticamente, sui ragazzi scesi in strada, e, più in generale, sulle ragioni e sulle passioni italiane.
Opponendosi alle proposte di un armistizio che avrebbe troncato lo slancio della lotta, aveva interpretato perfettamente la volontà popolare, salvando la vittoria dell'insurrezione. Opponendosi all'invocazione dell'intervento piemontese, di un Carlo Alberto che aveva già una volta tradito gli italiani, scelse la strada del Risorgimento caldo, autentico, popolare: la più difficile, ma forse l'unica che avrebbe realizzato una vera unità nazionale, sia pure in tempi più lunghi, e non "improvvisati".
La sua italianità si temprò nel vivo della battaglia, di quelle Giornate milanesi che davano corpo e sangue alla causa italiana, riscattandone anche i miti. Molti di coloro che oggi si professano suoi seguaci leggerebbero con qualche smarrimento le pagine che egli dedicò a Roma e al tricolore: «La madre della nazione, la madre dell'Italia una, fu Roma. E ciò che da lei venne, ora manifestamente ritorna a lei».
Leggerebbero anche con qualche divertimento del colloquio tra il commissario Bossi, rappresentante italiano in abito di spada, e Radetzky, seduto sulle macerie del ponte di Mangnano.
Quando le truppe di Radetzky, nelle loro bianche uniformi, lasciarono, sconfitte, Milano, si contarono le perdite. Migliaia, si disse. Sembra in verità che i morti siano stati seicento per parte. In grande maggioranza, popolani. Era la prima volta. Ma non fu l'ultima. L'ultima fu Venezia. E a lei dedichiamo l'ultima scena del Risorgimento caldo.
Sul ponte sventola.
Dunque, Venezia era insorta scacciando i governanti austriaci, e decretando la fusione con il regno di Sardegna. Era 1111;1 vittoria degli unionisti moderati, non dei federalisti I repubblicani come Daniele Manin, ma quest'ultimo l'aveva approvata, come bene minore. Tuttavia, le cose erano andate subito a rovescio. Battuti a Custoza, i piemontesi avevano abbandonato Milano. E i veneziani, disgustati dal comportamento di Carlo Alberto, avevano disconosciuto i commissari inviati da Torino. Venezia si era orgogliosamente ripresa la sua autonomia, senza stringere altri accordi, come Mazzini avrebbe voluto, con la Repubblica romana e con il nuovo governo di Firenze. Manin aveva deciso di aspettare tempi più certi. Ma dopo la sconfitta di Novara, le cose precipitarono. E l'Austria, che ormai poteva rivolgere contro Venezia tutto il peso del suo esercito impegnato sul Ticino, le intimò la resa. La risposta, inviata al generale Hainau, il boia di Brescia», fu perentoria: d'assemblea dei rappresentanti dello Stato di Venezia (si noti, non della Repubblica, che non era stata ripristinata) in nome di Dio e del popolo unanimemente decreta: Venezia resisterà all'austriaco a qualunque costo. A tale scopo il presidente Manin è investito di poteri illimitati». Eroismo disperato o irresponsabilità? Ci sono momenti nei quali l'eroismo disperato è responsabile: verso la storia futura.
Venezia disponeva, tra i suoi cittadini e i volontari accorsi da altre parti d'Italia, di circa quindicimila combattenti, che fino a quel punto erano parsi sufficienti, tanto da considerare con imbarazzata preoccupazione l'annunciato arrivo di Garibaldi. L'assedio, inoltre, era aperto dalla parte del mare, ove i piemontesi avevano inviato una piccola flotta. Presto ogni varco fu chiuso dai battaglioni e dalla flotta austriaci. E cominciò l'assalto. La prima mossa fu però, a sorpresa, di Manin, che lanciò i suoi contro Mestre cogliendo di sorpresa gli Austriaci, che lasciarono sul campo trecento morti e seicento prigionieri. Il seguito fu terrificante. A Marghera, dopo giorni di combattimento, gli Austriaci, penetrati nell' abitato, non vi trovarono che cadaveri, ai quali il vecchio maresciallo Radetzky rese 1'onore delle armi. Le truppe austriache marciarono poi in parallelo, una trincea mobile dietro l'altra, sul ponte ferroviario, una striscia stretta poche decine di metri, mentre i cannoni bombardavano il centro della città. Gli Austriaci sperimentarono persino il primo bombardamento ae- reo della storia, legando le bombe a dei palloni, ma quelli, con grande allegria dei veneziani, furono sospinti dal vento sulle loro stesse teste. L'assalto finale durò ventiquattro giorni, ininterrottamente. Donne e ragazzi sostenevano i cittadini armati. Non furono i fucili, ma la fame e il colera, a piegare la città. Il segreto della resistenza stava nella forza di un popolo che aveva trovato un capo che li rappresentasse e li guidasse. Come Garibaldi a Roma, come Cattaneo a Milano, Daniele Manin non era un retore pomposo, ma un combattente che si esprimeva, con qualche sgrammaticatura, in dialetto. Era seguito. Era amato. Quando fu chiaro che ogni resistenza era vana, e i negoziati erano falliti di fronte all'irremovibilità austriaca, parlò al suo popolo dal balcone, annunciando la resa inevitabile. Lui, però, non si arrendeva. Lasciava la sua città. Gli Austriaci lasciarono partire indenni tutti i capi della resistenza, e garantirono l'incolumità della popolazione (non come a Brescia, dove l'altrettanto eroica città fu oggetto di violenze e di massacri). Radetzky entrò a Venezia. Ma solo il patriarca lo accolse, con un Te Deum. Il popolo di Venezia, come scrisse uno straniero presente alla scena, Blaize de Bury:
[ ... ] rattristato c silenzioso assisteva allo spettacolo delle celebrazioni, e su quei volti smagriti dalle sofferenze di un lungo assedio, su quei tratti induriti e decomposti dalla febbre e dall' odio, si potevano leggere le stesse cose che avevano ispirato una violenta apostrofe scritta or non è molto sulle mura di Pavia: «vattene, tedesco, perché l'uomo cui questa terra appartiene, ti odia dal profondo dell' anima. Ti odia oggi, ti odierà domani e sempre. Tu ridi e io piango, ma bada che le mie lacrime, bagnandoti, non ti avvelenino».
Cosi si chiudeva, nel 1849, il Quarantotto. Un tempo nel quale, finalmente, la passione del Risorgimento raggiunse 1'anima popolare. A prima vista, aveva vinto una volta ancora la ·'.lllla Alleanza, era stato restaurato l'ordine antico. Ma era l’illusione. Quello che era stato riedificato era uno scenario , I, t:lrtone, presto una nuova Europa delle nazioni lo avrebbe travolto. Quella sorgeva dall'intraprendenza dell'industria e dalla coscienza dei popoli. Anche in Italia lo scenario era cosi
fragile che crollò, dieci anni dopo, di colpo. Una nuova coscienza di sé era sorta nel profondo del paese. Non avrebbe raggiunto mai più la temperatura che aveva infiammato le giornate di Napoli, di Roma, di Venezia, di tante altre città italiane. Si sarebbe misurata più realisticamente con le cose e con i fatti, riconoscendoli nella loro durezza. Avrebbe accettato compromissioni, alcune necessarie, altre inutili, altre ancora dannose. Avrebbe costruito progetti ambiziosi, e compiuto errori funesti. Ma sarebbe andata avanti, fino al compimento di un esito fino a poco tempo prima considerato impossibile. Il Risorgimento freddo fu meno esaltante. Ma ebbe la ventura di esistere.
Capitolo terzo
RISORGIMENTO FREDDO
Se il Risorgimento fosse un film, Mazzini sarebbe il soggettista, spesso tradito e misconosciuto dalla trama, Garibaldi l'eroe protagonista e, senza alcun dubbio, Cavour il regista. Regista appassionato, ma freddo. Tutta la trama del Risorgimento, nella storia che si svolse tra la sconfitta del 1849 e la vittoria del 1861, è nelle sue mani.
Qui, ovviamente, non ne ripercorreremo gli eventi, ma cercheremo di rilevarne alcuni aspetti caratterizzanti. Un provvidenziale fiuto politico sconsigliò al giovane re Vittorio Emanuele, all'indomani della catastrofe di Novara, alla volta subito dall' Austria un pesante trattato di pace, di seguire la via della Restaurazione scelta dagli altri sovrani itali,mi, e gli fece preferire quella italiana e costituzionale, suggerita dall' aristocratico pittore e romanziere Massimo d'Azzeglio, «autore e padre della questione italiana», o addirittura «cavaliere d'Italia», come fu definito. Grazie a questa scelta il Piemonte, il meno italiano degli Stati della penisola, occupò il ruolo di campione d'Italia.
Stretto fra la pressione dei democratici, che si rifiutano di , sottoscrivere l'umiliante pace con l'Austria, e quella della destra reazionaria, che spinge per un colpo di Stato autoritario il governo del re resiste, scioglie due volte un Parlamento calcitrante, e ottiene finalmente, in elezioni svolte con metodi che apparirebbero oggi molto discutibili, la maggioranza della nuova assemblea.
Il Piemonte apre le porte ai fuoriusciti italiani. Li sostiene finanziariamente. Integra i loro esponenti più rappresentativi nelle file del ceto politico piemontese. Favorisce la fondazione, come alternativa alla rivoluzionaria Giovine Italia, della moderata Società nazionale, che ha per insegna: «Italia e Vittorio Emanuele».
Succede presto a d'Azeglio il giovane Cavour, aristocratico anche lui, di più recente data, di famiglia agiata, con una giovinezza vagamente repubblicana, poi sempre più convinto liberale e «centrosinistro», come allora si diceva, agronomo, imprenditore moderno, economista e conoscitore attento delle realtà europee più avanzate. È stato adottato nell'infanzia da una madrina d'eccezione, Paolina Bonaparte, che gli ha trasmesso, con la sua tenerezza, una vocazione femminilista che non perderà mai. Tutt'altro che tenero sarà invece il suo rapporto con il re, che attraverserà fasi tempestose. «Fate attenzione a quello - mormora Vittorio Emanuele che vi sfila il portafoglio»: ma non può fare a meno della sua prodigiosa abilità.
Sotto il suo governo, il Piemonte diventa non soltanto il campione della causa italiana, ma lo Stato più moderno e avanzato d'Italia sulla via delle riforme. Della più ardita riforma laica del clero, all'insegna del principio che non abbandonerà mai (<<frate - sussurrerà in punto di morte - ricordate sempre: libera Chiesa in libero Stato»). Della riforma economica, diretta a modernizzare tecnicamente le aziende, inserendole in un libero mercato che non tema la concorrenza piti aperta, secondo i principi liberali che condivide con il suo amico Cobden.
Suo costante riferimento sarà il Parlamento, la cui autorità saprà contrapporre a quella di un re che sarebbe ben felice di liberarsene, se non fosse per il sostegno della causa che gli sta più fortemente a cuore: la rivincita contro l'Austria. Il Parlamento, Cavour lo sa trattare magistralmente, inaugurando quel metodo delle maggioranze variabili e manovrabili che più tardi si chiamerà «trasformismo», e che allora fu definito«connubio». Dunque, il regista del Risorgimento fu in quegli anni tumultuosi, incontestabilmente lui, Camillo conte di Cavour.
L’ Italia in Europa.
Dopo la sconfitta di Novara, è diventata manifesta l'impossibilità italiana di "fare da sé". Ben diversamente dalla Prussia, le forze militari di cui può disporre un'Italia a guida piemontese si sono dimostrate impari. Sola di fronte all'Austria, non è in grado di sostenere il confronto. È necessario, dunque, trovare alleanze in Europa.
Qui, è cambiata la scena. All' Austria non si riconosce più, da parte delle altre potenze, un ruolo dominante in Italia. C'è la riserva di un'Inghilterra la cui opinione pubblica manifesta una viva simpatia alla causa italiana; e che considera con interesse l'emergere di una nuova potenza mediterranea, di fronte alle pretese continentali di Austria e Francia. C'è, soprattutto, la risorgente potenza della Francia del piccolo Napoleone.
È in questo nuovo gioco europeo che s'inserisce l'intelligenza di Cavour. Gli giova la sua conoscenza diretta dell'Europa, della sua economia, delle sue costituzioni politiche, delle sue lingue: una conoscenza superiore persino a quella dell'Italia. La sua mossa geniale, cinica e arrischiata, è la decisione di coinvolgere il Piemonte nella guerra franco-britannico-turca contro la Russia, la guerra di Crimea, alla quale non lo lega alcun interesse, tranne quello di conquistare un ruolo sulla ribalta della scena europea e di ristabilire un prestigio militare compromesso a Novara.
Diciottomila bravi piemontesi inviati in Crimea, dove si battono valorosamente sulle sponde del fiume Cernaia, gli permettono, superando una comprensibile opposizione in patria, di realizzare entrambi gli obiettivi. Al congresso di Parigi che chiude la guerra, Cavour è in grado di esporre, in modi non querimoniosi ma pragmatici, la causa italiana, che si riassume in questi termini. L'Italia è, a causa della dominazione austriaca e dei regimi oppressivi di Napoli e di Roma, una polveriera insurrezionale, che minaccia l'intera Europa. Solo il Piemonte è in grado di evitarne l'esplosione, convogliandola verso un assetto che ne riconosca diritti di libertà e autonomia ormai imprescindibili. Il messaggio è abile e convincente.
La grande partita.
Il primo a raccoglierlo è l'esponente più vigoroso di quel revisionismo europeo che sta mettendo in crisi l'ancien régime e la Santa Alleanza: l'ex carbonaro "italiano" Luigi Napoleone, che nel 1852 riprenderà, sulle orme del grande zio, il titolo di imperatore dei Francesi, con il nome di Napoleone III (il secondo non c'è mai stato). In realtà, già due anni prima della Crimea, Napoleone aveva incontrato privatamente Cavour, rivelandogli (per assicurarsi il sostegno del Piemonte) il suo progetto. Quel progetto apre al Piemonte e all'Italia una «grande partita» (come scrive Luciano Cafagna, in Nord e Sud), in cui il destino italiano è strettamente legato alla Francia. Si tratta dello scenario di una nuova Europa, nella quale Francia e Inghilterra si contrappongono ai due imperi, asburgico e russo, la cui solidarietà è stata incrinata dalle comuni pretese alla successione dei domini ottomani (la question d'Orient). In questo quadro si apre uno spazio per un ampliamento del Piemonte in un nuovo regno dell'alta Italia. Per Cavour è un vero e proprio «coup de foudre» (Cafagna). Il Piemonte non è piu isolato. Il suo primato in Italia può saldarsi con una forte alleanza esterna. In tale prospettiva, si spiega meglio la decisione di partecipare alla guerra di Crimea.
Tra il 1852 e il 1859, quella conversazione a ruota libera è seguita da una serie di contatti segreti fra Torino e Parigi, con il coinvolgimento di Vittorio Emanuele.
Però, le cose non vanno cosi lisce. Per qualche tempo, Napoleone pratica il doppio gioco tra piemontesi e Austriaci, confermando ai primi il suo progetto antiaustriaco, e rassicurando gli altri sul mantenimento dello status quo in Italia. Con chi è sincero? Con nessuno dei due. Come lui stesso dice, in politica bisogna saper aspettare. Non importa poi molto saperlo. Importa invece che Cavour persegua tenacemente, per la parte che gli spetta, quel progetto. E la sua parte consiste nell'esercitare una serie di provocazioni dirette all' Austria, per ottenere una delle condizioni fissate da Napoleone: che sia l'Austria ad attaccare, per giustificare l'intervento francese.
All'inizio del 1858, comunque, Napoleone sembra deciso.
Il 10 gennaio annuncia bruscamente all' ambasciatore austriaco che i rapporti con il suo paese si sono guastati.
Tuttavia, un evento imprevedibile sembra possa mandare all'aria l'intesa franco-piemontese. Il 14 gennaio un ex mazziniano, Felice Orsini, attenta alla vita dell'imperatore: scaglia tre bombe a forma di pera (entreranno poi nel folklore anarchico come «le bombe all'Orsini») contro la carrozza reale, provocando otto morti, ma lasciando incolumi Napoleone e la moglie Eugenia. Sono in molti a pensare che la vera vittima dell'attentato sarà Cavour. Ma l'imperatore non cambia idea. Anzi: una lettera indirizzatagli da Orsini, nella quale l'attentatore gli rivolgeva un appassionato appello a liberare l'Italia, lo indurrebbe, d'accordo con Eugenia, ad accordargli la grazia. Ma il consiglio della Corona è inflessibile. Orsini andrà, dignitosamente pentito, alla ghigliottina. La grande partita franco-piemontese sarà confermata. Napoleone pretende però da Cavour l'esilio dei "democratici" più in vista, e alcune misure severe di limitazione delle garanzie costituzionali. Dopo di che, riceve il primo ministro piemontese ai bagni di Plombières, dove s'intrattiene con lui per due giorni, a precisare i termini dell'alleanza. La scena di quell' evento è stata resa famosa in centinaia di libri, e in più di un film. Il più fedele resoconto è, comunque, quello che Cavour invia al re, dopo due giorni di fitti colloqui, su qualche foglietto rimediato alla meglio in albergo. Quel colloquio, lo aveva preparato fin nei minimi dettagli. E, fra i dettagli, ce n'era uno particolarmente piccante: la missione affidata alla bella cugina, la contessa di Castiglione, di sedurre l'imperatore, accompagnata da una lettera inequivocabile. «Riuscitevi, cugina mia, con i mezzi che volete, ma riuscitevi»
(Milza, Storia d'Italia).
Nella lettera di Cavour al re sono descritte accuratamente le intese raggiunte. La costituzione, dopo la vittoria, di un regno dell'alta Italia, comprendente Piemonte, Lombardia e Veneto, meno Nizza e Savoia, da cedere alla Francia quale compenso per il suo intervento. Sarebbe stato, inoltre, costituito un regno dell'Italia centrale, comprendente Toscana ed Emilia, sotto la sovranità del cugino dell'imperatore Gerolamo Bonaparte, lasciando le altre regioni centrali allo Stato pontificio, e Napoli e la Sicilia ai Borboni. Tutti gli Stati italiani avrebbero fatto parte di una confederazione presieduta dal papa. La sola delle clausole che Cavour sapeva che il re avrebbe dichiarato inaccettabile era il progetto di matrimonio del suddetto Gerolamo, cugino scapestrato, con la pia e riluttante Maria Clotilde, figlia del re. Cavour si permetteva di insistere su questo sacrificio per il bene della patria, e aggiungeva con una punta di perfidia: «d'altra parte, Maestà, con tutto il rispetto, chi se la piglia?»
Alla fine, il re accetta. Tutto ciò che resta da fare a Cavour è di organizzare la provocazione. Nel r859 l'accordo è siglato, e tre mesi dopo si celebrano le nozze "patriottiche" di Maria Clotilde. Ci siamo dunque? Purtroppo no. Inghilterra e Russia si mettono di mezzo. Si offrono come mediatori, proponendo una conferenza internazionale che risolva pacificamente il conflitto. Cavour è disperato. Sembra deciso a suicidarsi, ma a questo punto l'Austria commette un colossale errore. Francesco Giuseppe è particolarmente offeso dall'ultima provocazione: la sottoscrizione dei fondi necessari a edificare un monumento alle glorie sabaude da parte di un gruppo di milanesi, tutti sudditi dell'imperatore. Vienna decide che la misura è colma, e intima a Torino un ultimatum: o smobilita entro tre giorni le sue truppe ammassate al confine, o sarà guerra. Quei tre giorni, Cavour, che non si è suicidato, li passa nella più pura letizia. Il 26 aprile scade l'ultimatum. Il 27 giugno l'esercito imperiale austriaco varca il Ticino.
Solferino e Villafranca.
Gli Austriaci, comandati dall'ungherese Giulay, sono centoventimila, i piemontesi sessantamila e i Francesi, che, onorando l'impegno, hanno dichiarato guerra all'Austria, ci mettono quattro settimane ad arrivare. Un Radetzky avrebbe sicuramente approfittato di quella temporanea superiorità. Ma Giulay non è Radetzky. Quando si decide, i Francesi sono arrivati dai varchi alpini e da Genova, dov'è sbarcato, alla loro testa, Napoleone in persona. Le forze sono pressappoco pari. La prima dura battaglia la vincono a Magenta i franco-piemontesi. Gli zuavi francesi, ammirati del coraggio del re Vittorio, lo nominano loro caporale. Napoleone e il re entrano trionfalmente a Milano.
Francesco Giuseppe sostituisce al comando Giulay, e fa ripassare il Mincio ai suoi duecentomila uomini, per affrontare il nemico che avanza.
I due eserciti si fronteggiano, attestati su due colline. È uno scontro micidiale, quello che segue. Gli Austriaci tentano l'aggiramento, sul fianco piemontese di San Martino. I piemontesi resistono. Dopo dieci ore di battaglia, i Francesi riescono a sfondare al centro. Gli Austriaci in ritirata lasciano un campo sterminato di dolore e di morte. Non si era vista mai una battaglia tanto sanguinosa. Decine di migliaia di morti, da una parte e dall' altra. Dalla pietà di Florence Nightingale nasce, a Solferino, l'idea della Croce Rossa.
Napoleone, impressionato dalla strage, è in difficoltà. Ha un esercito stremato e, davanti a sé, un poderoso quadrilatero di fortezze. Teme la reazione delle altre potenze europee, e soprattutto quella, la piti minacciosa, della Prussia, che sta mobilitando ai confini francesi. Decide di chiedere un armistizio, che viene prontamente accordato.
Ancora una volta, le speranze d'Italia sembrano svanire.
Venezia e il Veneto resteranno in mano austriache. Cavour, indignato, presenta al re le sue dimissioni. Ben felice di accoglierle, il re Vittorio sottoscrive l'armistizio «per la parte che lo concerne». La parte restante prevede il reinsediamento dei sovrani "legittimi" nei regni e ducati dell'Italia centrale, che però, nel frattempo, sono insorti, cacciandoli. Tutto torna come prima? No, tutto cambia.
Crolla il castello della Restaurazione.
Fin dall'inizio della guerra d'Indipendenza, gli italiani della Toscana e dei ducati sono insorti, e si sono formati governi provvisori, con Ricasoli in Toscana e con Farini a Modena. Questi, ben sostenuti dalla popolazione, impediscono il ritorno dei vecchi sovrani e chiedono l'annessione al Piemonte.
Intanto firmano una lega militare, e ne affidano il comando a Garibaldi, che lo assume con l'accordo del re (dopo tutto, è un suo suddito).
Il re prende atto della domanda d'annessione e della decisione di sottoporla a plebiscito. Ci si potrebbe aspettare una reazione delle grandi potenze, che si sono accordate - implicitamente o esplicitamente - sulla "Restaurazione". Ma le grandi potenze o non vogliono, o non possono. Non può l'Austria, sconfitta militarmente. Non vuole la Francia, per non sfidare ulteriormente i popoli d'Italia che si sentono traditi dall' armistizio. Non vuole l'Inghilterra, che vede di buon occhio la crescita di un nuovo Stato sottratto all'influenza austriaca.
È in questa circostanza che riemerge Mazzini. Piomba a Firenze di nascosto, raccoglie dappertutto volontari e propone a Garibaldi un piano rivoluzionario. Con i volontari che da ogni parte stanno accorrendo, invada Marche e Umbria e poi, attraverso l'Abruzzo, penetri in un Mezzogiorno che è al limite della sollevazione. Lasciando per ora in sospeso il destino di Roma, che è sotto la garanzia francese, sarà cosi realizzata una quasi completa unità italiana. È uno dei tanti paradossi del Risorgimento: che il disegno di Mazzini si compirà, ma senza e contro Mazzini.
Garibaldi, che in un primo momento si è reso disponibile, è richiamato dal re, e dopo molte esitazioni accetta di ritirarsi dal comando della lega militare toscana, che nel frattempo è stato affidato al piemontese Fanti. E questo è un altro paradosso. Garibaldi è, incontestabilmente, l'unico che potrebbe mettersi a capo di una rivoluzione italiana. Il suo prestigio e la sua popolarità sono immensi. Dovunque passa, è accolto da folle in delirio, e da ammiratori (e ammiratrici) adoranti. In Italia e fuori d'Italia. Come si spiega che esso deponga questo immenso capitale ai piedi di un Vittorio Emanuele che è cresciuto anch'egli di statura politica, ma in misura incomparabilmente minore? Può essere che il suo innegabile avventurismo eroico sia, a differenza di Mazzini, ancorato a un solido buon senso pratico, che gli fa misurare i rischi internazionali di un'impresa da tante parti avversata. O c’è anche un' altra ragione più intima: il bisogno di nobilitarla, quell'impresa, con una lealtà suprema il cui costo ne elevi il valore? Il valore dell' obbedisco che anticipa, nell'incontro che ha con il re a Teano, quello che rimarrà famoso, più tardi, di Bezzecca. Il fatto è che c'è tra i due personaggi un rapporto complesso. Per entrambi, l'unità d'Italia è diventato un impegno irrinunciabile. Ma per Garibaldi è supremo, tanto da sacrificargli ogni altra fede di parte e ogni ambizione personale. Per Vittorio Emanuele è condizionato sia dalla fede di parte - piuttosto di classe, che comporta un' ostilità implacabile verso le istanze democratiche - sia dall'ambizione per- sonale, che fa dell'unità italiana non il suo ideale ma il suo piedistallo.
Comunque, le cose vanno per il loro verso. L'annessione della Toscana e dei ducati, che presto sarà seguita - per contaminazione insurrezionale - da quella delle Marche, dell'Umbria e delle legazioni dello Stato pontificio (Bologna e l'Emilia), crea nell' alta Italia un "grande Piemonte", non inferiore per portata a quello, lombardo-veneto, che era stato immaginato a Plombières. L'Europa non si è mossa. E, ciò che più conta, sulla rovina smossa a partire dalla Toscana nell'Italia centrale, stanno per rovinare a loro volta due altri grandi Stati italiani finora protetti dalla tutela austriaca: lo Stato pontificio e il regno delle Due Sicilie. Qui torna in campo Garibaldi. E qui si coglie anche un aspetto fondamentale del Risorgimento italiano. Le vicende che stiamo rapidamente ripercorrendo possono dare l'impressione di un bizzarro intreccio di occorrenze casuali, senza capo né coda. Ma non c'è bisogno di cercare, in quella storia, inesistenti disegni deterministici per constatare che, sotto i suoi strati successivi, c'è un fondo, che anch' esso si muove, e acquista man mano una sua direzione. Accade che questo movimento di fondo coinvolga un tempo e un popolo con potenza irresistibile. È quel fenomeno che ha trovato nella poesia popolare la sua espressione retorica. Quando un popolo si desta} Dio si mette alla sua testa e una folgore gli dà. Il verso è enfatico, ma coglie la realtà di una spinta irreversibile.
Il Risorgimento era dotato di questa spinta.
L’ impresa dei Mille.
Il piano mazziniano aveva due direttrici: l'invasione delle Marche e dell'Umbria, da Nord; !'insurrezione della Sicilia, da Sud. Quella che Garibaldi, dopo molte esitazioni, realizzò si concentrava su questo secondo punto. La seconda direttrice, fu Cavour a realizzarla. Garibaldi aveva accettato a malincuore di rinunciare al disegno mazziniano. Era rimasto convinto che l'annessione delle regioni centrali al Piemonte avesse prodotto una lacerazione del sistema restaurato nel r848, tale da renderlo estremamente fragile. Tutto stava nel proporzionare l'impatto di un intervento esterno con quello di un'insurrezione interna, in modo da non ripetere la disastrosa avventura di Sapri. Questa fu la sua preoccupazione dominante, nei giorni che seguirono la sua rinuncia; e la causa del suo esitare, di fronte alle tante sollecitazioni che da ogni parte gli venivano rivolte. Egli era persuaso, e non a torto, che anche il re, e molto più di Cavour, avvertisse, per un intuito che non gli mancava, il maturare di condizioni d'indebolimento e d'isolamento dell'antico regno di Napoli. E contava, forse eccessivamente, su una specie di delega politica, da parte di un sovrano che sapeva di poter contare sulla sua lealtà. Si era dunque stabilita una sorta di filo diretto fra Garibaldi e il re. Che divenne ancora più forte quando Garibaldi apprese della cessione alla Francia della sua città natale: un colpo terribile, che non poté mai perdonare a Cavour, e che troncò per molto tempo le relazioni tra i due. È probabile che proprio il sentimento, cosi gravemente ferito, abbia indotto Garibaldi a riprendere nelle sue mani il disegno mazziniano.
Questa volta, le condizioni di un'insorgenza» c'erano, specialmente in una Sicilia più che mai ostile ai napoletani, cui si era ribellata nel 1848, con una sommossa finita in una sanguinosa repressione. In tutta Italia, e specialmente in Romagna, c'erano schiere di volontari disposti a partire per un'impresa di liberazione del Mezzogiorno: una terra che, nel!'immaginazione popolare, appariva ubertosa e florida di messi, inondata di sole. Il siciliano mazziniano Francesco Crispi, inviato nell'isola per conto di Mazzini nel luglio-agosto r859, aveva assicurato che la rivoluzione sarebbe stata appoggiata praticamente da tutti. Ma poi le notizie si erano fatte più dubbie. A un certo punto pareva, dai messaggi cifrati, che i movimenti insurrezionali fossero stati duramente repressi. Garibaldi dichiarò di rinunciare alla partenza. Stava per reimbarcarsi per Caprera, quando Crispi, l'unico a possedere la chiave dei cifrati, annunciò che il messaggio era stato mal tradotto. L'insurrezione, d1ceva, repressa a Palermo, fiammeggiava in tutta l'isola. Ci si può ancora domandare se Crispi, che voleva partire a ogni costo, avesse forzato la "chiave". Fatto sta che Garibaldi decise di partire, e l'avventura cominciò.
Una vittoria impossibile.
Cominciò nel porto di Genova, la notte del 5 maggio. Con un colpo di mano Nino Bixio, con un commando di una quarantina di uomini, irrompe su due piroscafi alla fonda, appartenenti alla ditta Rubattino: il Piemonte e il Lombardo. Dei marinai alcuni sono complici, altri no, e scendono, mentre i primi assicurano le manovre. Tutto è molto confuso: non si trovano le chiavi di alcune porte che occorre forzare, bisogna accendere le caldaie, farle andare in pressione, mettere in moto le macchine. Le macchine del Lombardo - maledizione! non si avviano. Il Piemonte lo prenderà a rimorchio. Il tempo passa, e Garibaldi, che indossa una camicia rossa e il poncho americano, impaziente, balza in un canotto e va incontro alle navi. Che finalmente si muovono. È una splendida notte di luna. Allargo di Quarto, i volontari, ammassati da ore sulle rive, si affollano con barche e chiatte, e s'imbarcano. S'imbarcano anche i fucili, i viveri e le munizioni. E anche novantamila lire, che Bertani consegna a Garibaldi. Dunque, mille uomini e novantamila lire: le due cifre dell'impresa.
Il generale invia un messaggio al re:
[ ... ] il grido di sofferenza che dalla Sicilia giunse alle mie orecchie ha commosso il mio cuore [ ... ] io non ho consigliato il moto insurrezionale [ ... ] ma dal momento che i fratelli di Sicilia si sono sollevati nel nome dell'unità italiana di cui Vostra Maestà è la personificazione, contro la piti infame tirannide dell'epoca nostra, non ho esitato a mettermi alla testa della spedizione.
E Cavour? È perfettamente al corrente dei movimenti di Garibaldi. Il 2 maggio, con una rapida corsa in treno, si è incontrato a Bologna con il re, giunto in carrozza da Firenze. Non si sa che cosa si siano detti. È un fatto che Garibaldi sia stato lasciato libero di condurre i preparativi dell'impresa. L'unico vincolo è che la spedizione non tocchi il territorio piemontese.
La guerra dei Mille è una serie di colpi di scena sorprendenti, talvolta bizzarri, al limite dell'impossibile.
Marsala. Lo sbarco avviene davanti ai cannoni di una nave borbonica. Ma i cannoni non sparano, perché il comandante vuole avere l' ok degli inglesi, data la presenza dei loro stabilimenti vinicoli. Quando finalmente sparano, i garibaldini sono sbarcati.
Nell'isola l'esercito napoletano, che conta complessivamente sessanta-ottantamila uomini, ne ha almeno tredicimila, e bene armati. Ma, anziché attaccare, decide di "sbarrare la strada" di Palermo.
Calatafimi. Borbonici e garibaldini si fronteggiano su due alture. I napoletani scendono dalla loro per attaccare, convinti di schiantare quella marmaglia. Sono respinti all' arma bianca. È il turno dei garibaldini, ma sulla collina a terrazze è quasi impossibile avanzare. Le perdite sono elevate, e Bixio chiede a Garibaldi se non è il caso di ritirarsi. La risposta storica è: «Bixio, qui si fa l'Italia o si muore». Quella vera sembra fosse diversa. «Bixio, qui non possiamo andare né avanti né indietro». Ma un contingente di un centinaio di cacciatori delle Alpi, rimasti in retroguardia, irrompe sulla scena e scardina le linee nemiche. Il comandante dei napoletani che -lo dice Garibaldi - si sono battuti da leoni, ordina la ritirata.
Palermo. Garibaldi penetra con i suoi nella città dopo aver dirottato con una finta manovra Lanza, il comandante napoletano. La città, centosessantamila abitanti, insorge, al suono delle campane. Si combatte aspramente per tre giorni, strada per strada. Lanza chiede di parlamentare. Si rivolge a Garibaldi, il bandito, chiamandolo «Eccellenza». Lui sbuccia tranquillo un'arancia e ne porge uno spicchio al generale, sulla punta di un pugnaletto. Finalmente i napoletani abbandonano la città. Parla Garibaldi:
Se vi fu favore della Provvidenza per cui un uomo deve umiliarsi davanti a essa con gratitudine immensa, quello è certamente a me successo negli avvenimenti venturosi succeduti in questi ultimi giorni in Sicilia e nei quali ebbi la fortuna di partecipare.
Raggiunto lo Stretto, bisogna passarlo. Cavour preferirebbe di no. Ma chi può fermare Garibaldi? L'opinione pubblica mondiale esulta. Il fabbricante d'armi che ha creato il fucile Enfield gli fa recapitare un cannone esente da dazio. Gli operai dell'arsenale di Glasgow e gli scaricatori di Liverpool fanno gratis turni di lavoro straordinario per preparare munizioni e medicamenti. George Sand, come riferito da Alfonso Scirocco nella biografia sul generale, dice: «Garibaldi non somiglia a nessuno ed è in lui tal sorta di mistero che fa meditare». Engels, quello stesso che, a proposito dei mazziniani aveva parlato di «italiani pidocchio si», scrive sul «Daily Tribune» di New York che la conquista di Palermo è «una delle più stupefacenti imprese militari del nostro secolo». Garibaldi, dice, «ha provato in modo brillante di essere un generale non solo atto alla guerra partigiana, ma a operazioni ben più importanti».
Ma passare lo Stretto non è semplice. Un primo tentativo fallisce. Garibaldi si sposta verso Taormina, che ha davanti un mare meno sorvegliato dalle navi borboniche (chi può aspettarsi che un attacco alla Calabria possa muovere da Taormina?) Si fa raggiungere da Bixio e da una colonna di volontari, che imbarca. Ma in una delle navi c'è una falla, e il pilota si rifiuta di partire. Garibaldi fa raccogliere nella campagna escrementi di vacca, con i quali tura la falla. Se arrangiarsi è arte italiana, Garibaldi è italianissimo. Cosi sbarca a Melito Porto Salvo, e comincia la marcia su Napoli.
Proprio dopo il suo trionfale ingresso in una Napoli letteralmente impazzita, Garibaldi dimostra che Engels aveva ragione. Non è soltanto un arditissimo partigiano. Possiede la mente strategica di un grande generale. L'esercito di Francesco II, schierato a difesa di Gaeta, dove il re si è rifugiato, è ancora una forza militare ben organizzata e ben armata, molto più numerosa (cinquantamila uomini) di quella dei volontari, quasi la metà di numero, costretti ad assottigliarsi lungo un arco che si estende da Santa Maria Capua Vetere a Maddaloni. Per di più, le popolazioni della zona stanno tutte a difesa del loro re.
I reggimenti borbonici, guidati dallo svizzero von Mechel, escono da Capua all'attacco. Von Mechel vorrebbe sfondare le linee garibaldine sulla sua sinistra, tagliarle fuori dal resto delle truppe e aprirsi la strada verso Napoli. Ma il re, considerando la grandissima superiorità numerica, vuole farla finita con quei banditi, travolgendoli frontalmente. In un primo tempo, sembra proprio che vada cosi. I napoletani avanzano, sospingendo indietro i garibaldini. Garibaldi si batte con la sua spada, esponendosi temerariamente. È salvato da un drappello di volontari, che si getta a corpo morto - è il caso di dirlo - sul nemico. Poi Garibaldi stesso guida un contrattacco alla baionetta.
Quindi, il colpo di genio.
Garibaldi sguarnisce Caserta. Richiama 3000 uomini tenuti in riserva, che alle tre del pomeriggio raggiungono con la ferrovia il punto caldo del campo di battaglia. 1500 li lancia verso Sant' Angelo, prendendo alle spalle i Borboni che stanno avendo la meglio, gli altri 1500 li manda tra il fronte e Capua, minacciando di tagliare le comunicazioni con la fortezza (Scirocco, Garibaldi).
Il comandante napoletano Ricucci, che non sa come contrastare la manovra, fa rientrare le truppe, dopo ore di combattimento.
Cosi finisce la grande battaglia del Volturno, l'unica vittoria che Garibaldi ha colto combattendo sulla difensiva, contro un nemico che aveva dalla sua tutto: la superiorità del numero e delle armi, il sostegno della popolazione, la disperata motivazione della vendetta.
Ma fu freddo, tristemente freddo, per Garibaldi, per i suoi volontari, per l'Italia, l'epilogo di un'impresa gloriosa.
Gli esausti reparti dei volontari, che si erano misurati con un esercito bene armato e disciplinato, furono sostituiti dall'esercito regio comandato da Cialdini, che il governo di Torino aveva, con rapida decisione, inviato nel Sud attraverso le terre del papa: allo scopo, come Cavour spiegò agli ambasciatori dei governi europei, di assicurare l'ordine. Cialdini colse la sua prima vittoria sui napoletani, esausti anch' essi, aprendosi la via verso il Volturno, che le camicie rosse abbandonavano su un ponte di barche costruito dai volontari inglesi. I due eserciti si incontrarono a Teano. Le bande militari non riuscivano a dissipare la mestizia del paesaggio autunnale, attraversato dalle lunghe fila delle truppe regie.
Ricorda Alberto Mario:
Improvvisamente [ ... ] una botta di tamburo troncò le musiche e s'intese la marcia reale. Il re, disse Della Rocca (il comandante piemontese). Il re, il re, ripeterono cento bocche [ ... ] Il re, con l'assisa di generale, in berretto, montava un cavallo arabo storno e lo seguiva un codazzo di generali, di ciambellani, di servitori [ ... ] Disotto al cappellino Garibaldi s'era acconciato il fazzoletto di seta, annodandoselo al mento per proteggere le orecchie e le tempia dalla mattutina umidità. All' arrivo del re, cavatosi il cappellino, rimase il fazzoletto. Il re gli stese la mano dicendo. Oh, vi saluto, mio caro Garibaldi: come state? E Garibaldi: Bene, Maestà, e Lei? E il re: Benone. Garibaldi, alzando la voce e girando gli occhi come chi parla alle turbe, gridò: Ecco il re d'Italia! E i circostanti: Viva il re!
L'Europa assiste alla nascita improvvisa di una nuova grande potenza europea. L'esercito garibaldino avanza indisturbato. C'è, finalmente, l'insurrezione siciliana. Palermo cade. Garibaldi giunge a Napoli in trionfo. Potrebbe essere il dittatore delle Sicilie. Ma è prevenuto da Cavour e dal re. Sono i piemontesi a invadere lo Stato pontificio, e a piombare a Napoli per farsi consegnare il regno. Garibaldi glielo consegna. Sembra il finale di un melodramma. L'Italia, con l'eccezione di Roma e del Veneto, c'è, finalmente, unita. Ma quale Italia? A quel punto, ci si accorge che, di Italia, ce ne sono due.
La prima conosce l'estrema miseria e inciviltà della seconda. Questa, la frustrazione delle masse contadine, che per un istante avevano nutrito le loro speranze di terre, mentre subiscono l'avvento di un regime esoso e straniero.
Capitolo quarto
BILANCIO DEL RISORGIMENTO
Il Risorgimento è per l'Italia un evento fondativo della sua storia, alla stessa stregua di quel che è per la Francia la grande Rivoluzione, e per la Germania la Riforma.
Il suo svolgimento sembra paradossale, nel senso che, nato da certe istanze e con certi obiettivi prevalenti, si è concluso con esiti opposti. Nato repubblicano, è diventato monarchico. Nato come disegno confederale, si è concluso con uno Stato fortemente accentrato.
Inoltre, l'unificazione nella quale il Risorgimento culminò fu un esito sorprendente. Imprevisto, e persino indesiderato, anche da coloro che lo avevano più efficacemente promosso. Come Cattaneo, come Cavour, che ancora nel r856 giudicava l'unità politica della penisola «una corbelleria». Forse proprio per questo, dice Luciano Cafagna, ebbe successo.
Quanto poi al suo significato per la storia dell'Italia moderna, c'è una storiografia controversa e sterminata. Senza entrare minimamente nel merito intricatissimo che essa presenta, possiamo porre la semplice domanda: il Risorgimento fu un successo o un fallimento? .
E possiamo collocare le risposte degli storici fra due interpretazioni estreme: quella di Croce e quella di Gramsci (L. Riall, Il Risorgimento).
Di quella di Benedetto Croce, che l'ha svolta soprattutto nella sua Storia d'Italia nel secolo XIX, abbiamo già parlato. Il Risorgimento è il prodotto dell' azione di una minoranza, certo, ma della più viva e vitale del paese, che trionfa su una maggioranza inerte. Ed è il trionfo dell'idea liberale, che un ceto politico di grande competenza e integrità saprà tradurre nel miracolo dello Stato nazionale italiano. Il successivo collasso dell'Italia liberale non dev'essere posto a carico del modo in cui il Risorgimento fu realizzato, ma del modo in cui fu successivamente tradito dal nazionalismo e dalla guerra, che aprirono la strada al fascismo. Insomma: non c'è nessuna connessione causale tra il liberalismo e il fascismo, che ne è l'antitesi.
Si tratta di una tesi idealistica, nel senso che esalta la capacità di mobilitazione morale e culturale delle idee e delle passioni e pone in secondo piano, se non trascura del tutto, l'immaturità delle condizioni materiali e l'arretratezza delle condizioni sociali, rispetto a quelle dei paesi europei piti avanzati.
È, invece, proprio su queste ultime che si fonda la tesi gramsciana della «rivoluzione passiva»: un' espressione mutuata da Vicenzo Cuoco, e che esprime al tempo stesso il carattere non originario, ma "importato" dell'idea rivoluzionaria e la sua incapacità di tradursi nella mobilitazione delle grandi masse popolari: soprattutto, di quelle contadine.
Secondo Gramsci, esisteva un potenziale rivoluzionario che il prevalere delle correnti moderate su quelle democratiche, nell' ambito del movimento risorgimentale, impedì di utilizzare. Ciò ebbe conseguenze economiche negative. L'immobilizzazione della struttura sociale nelle campagne, conseguenza della mancata redistribuzione delle terre, ha posto limiti all'espansione dell'industria, non sorretta dalla domanda, e non alimentata da un'abbondante offerta di lavoro. Quando, poi, i processi di ristrutturazione agricola promossi dalla concorrenza internazionale hanno provocato l'espulsione dei lavoratori dalle strutture agricole, questi non hanno trovato sufficienti sbocchi nello sviluppo industriale, determinando condizioni di disoccupazione strutturale e di ribellismo sociale endemico.
Invece di un'alleanza con il mondo contadino, che avrebbe dato impulso a un forte sviluppo economico, e offerto alla classe dirigente un valido sostegno a politiche di modernizzazione, si è realizzata un'alleanza della borghesia industriale del Nord con i residui feudali del Sud, i baroni, e con i loro successori della borghesia terriera (i «galantuomini»). Si è formato dunque un blocco agrario-industriale, con due conseguenze che hanno deviato la storia d'Italia dal percorso degli altri grandi paesi capitalistici. La prima, «il prezzo di questo compromesso: una permanente spaccatura tra lo Stato e la società civile, caratterizzata da una cronica instabilità politica e da un disordine sociale endemico» (Riall). La seconda: l'esasperazione del già esistente dualismo territoriale tra il Nord e il Sud del paese.
Qui Gramsci innesta la sua diagnosi del più traumatico aspetto dell'unificazione: la questione meridionale. Il Mezzogiorno è «una grande disgregazione sociale»: nel senso che la società meridionale è costituita da un grande blocco agrario, formato da quattro strati sociali che non stanno in equilibrio stabile: la grande massa contadina amorfa, la classe della piccola e media borghesia "intellettuale", i grandi proprietari terrieri e i grandi intellettuali. I contadini, in perpetuo fermento, nell' assenza di guida politica, sono incapaci di esprimere coerentemente le loro aspirazioni alla proprietà della terra, e diventano facile campo di coltura per i messaggi anarchici di Michail Bakunin, o, più tardi, per la grande insorgenza del brigantaggio. Gli intellettuali ricevono dalla base contadina impulsi che non sono capaci di tradurre positivamente in riforme, e che invece avvertono come perpetua minaccia. Sono i due ultimi strati: politicamente, i grandi proprietari; ideologicamente, i grandi intellettuali, come Giustino Fortunato e Benedetto Croce, a dominare questo instabile blocco.
Secondo Croce, dunque, il Risorgimento ha raggiunto i suoi scopi: realizzare un'unità fondata su una salda coscienza nazionale, e costruire uno Stato che, a confronto con problemi drammatici, è riuscito a realizzare un regime politico liberale e un sistema economico aperto.
Secondo Gramsci, invece, il Risorgimento ha fallito il suo scopo essenziale, di fondare l'unità su una vasta base popolare, determinando un vuoto fra lo Stato e la società, nel quale, piu tardi, si è generato il fascismo.
Si può affermare che ambedue le tesi sono vere?
È certo che il Risorgimento ha contribuito decisamente alla formazione di una coscienza nazionale. C'è una certa esagerazione nel presentare, come fa Sergio Romano in Storia d'Italia dal Risorgimento ai nostri giorni, nell'ambito di un ragionamento serio e rigoroso, tutto il Risorgimento come «effetto di circostanze impreviste e di opportunistiche adesioni». E quindi, nel sottolineare il bisogno delle classi dominanti che ne uscirono vittoriose, di raffigurare in una narrazione ideologica «un'opera nata per caso». Se è vero che le navi inglesi ebbero un ruolo determinante nel facilitare lo sbarco dei garibaldini a Marsala (non solo quelle: anche le esitazioni del comandante borbonico che avrebbe dovuto aprire il fuoco!), non è men vero che i garibaldini non erano li per caso. Ciò che è senz' altro vero, è che la narrazione del Risorgimento è un costrutto ideologico (ma quale narrazione rivoluzionaria non lo è ?), che tuttavia nasce da slanci e sentimenti autentici.
Come anche Antonio Labriola ha affermato, in implicito dissenso con l'interpretazione marxista ortodossa, il movente degli interessi, ai fini dell'unitarismo, è stato meno forte, per l'Italia, del «culto letterario della propria storia». Il mito di una grandezza italiana da recuperare e da rivalutare ha generato una forza piu trascinante di quella dell'interesse economico. In questo senso, le "gloriose sconfitte" del Risorgimento caldo sono state altrettanto propulsive delle battaglie vinte: poche, in verità. In questo senso, è stata quella forza ideale generata dal Risorgimento, e non i carabinieri mandati da Cadorna a fucilare i disertori, che ha arginato la sconfitta di Caporetto, scongiurando il disfacimento del paese e suscitando la grande riscossa del Piave. I miti possono essere altrettanto potenti degli interessi, nel promuovere la storia. Avrebbe mai potuto esserci il Piave, se alla sua fonte non ci fosse stato il Risorgimento? È un fatto che, in quei drammatici momenti, una sinistra che aveva nelle sue mani il paese sottovalutò quella fonte di energia nazionale che si era accumulata durante l'epoca creativa del Risorgimento. Ed è un fatto che più tardi, il fascismo l'ha deviata e tradita.
È altrettanto certo che l'esito "sorprendente" del Risorgimento, l'unificazione, ha prodotto un'unità debole, incompleta. Da più punti di vista: politico, sociale, territoriale.
Com'è stato detto mille volte, l'unificazione si è compiuta come conquista, molto più che come liberazione. Certo, anche in Germania, l'unità si è realizzata attorno alla Prussia, come in Italia attorno al Piemonte. Ma ben differenti erano le condizioni dei due paesi: la forza politica e militare della Prussia, l'omogeneità culturale e sociale della Germania. È vero che la "piemontesizzazione" amministrativa che ne derivò non è imputabile al Risorgimento, ma al governo unitario immediatamente successivo. Ma è anche vero che nel Risorgimento la spinta federalista fu debole, sia fra i moderati che fra i democratici. Non si spiega altrimenti la scarsa resistenza opposta dalle classi dirigenti degli Stati italiani preunitari alla pesante camicia di forza imposta dai primi governi nazionali.
Dal punto di vista economico-sociale, le tesi gramsciane sono state oggetto di forti critiche.
Gramsci, come abbiamo visto, era partito dall' affermazione che esistesse in Italia, nel movimento contadino, un potenziale rivoluzionario, e che la borghesia italiana avrebbe potuto giovarsi di quella spinta: economicamente, per effetto di un aumento della domanda; politicamente, grazie al sostegno nella lotta comune ai residui feudali, acquistando casi una vera egemonia nazionale. Ambedue le ipotesi sono state contestate. Quanto alla prima, si è sostenuto, da parte di Rosario Romeo, in Risorgimento e capitalismo, che una struttura di proprietà diffusa non avrebbe lasciato margini alla necessaria accumulazione massiccia di capitali. Ma soprattutto, che un potenziale rivoluzionario contadino non esisteva. Il mondo contadino era incapsulato in una condizione di passività, della quale le frequenti rivolte erano piuttosto la conferma che il riscatto. La fame di terre era più forte negli strati della nuova borghesia terriera, i Sedara del Gattopardo, che tra i contadini. La borghesia meridionale era ben lontana dal porsi alla testa del movimento contadino, non per difetto di "coraggio", ma perché vedeva in quello non una risorsa da egemonizzare, ma un nemico da combattere. I contadini facevano molto più paura alla nuova borghesia terriera dei galantuomini, che ai vecchi baroni. E - si può forse aggiungere - ai contadini erano più intollerabili certe pose moderniste e dissacranti dei galantuomini, che quelle autoritarie ma tradizionaliste dei vecchi aristocratici.
D'altra parte, gli industriali borghesi del Nord erano molto più interessati a mantenere saldi rapporti con i mercati esteri ricchi, che gli assicuravano l'assorbimento delle loro produzioni di seta, che non a un ampliamento del mercato interno, comunque modesto. E infine, se anche ci fossero stati, nel Sud, contadini disponibili per la rivoluzione, sarebbe mancata «una borghesia compatibile con una siffatta mobilitazione contadina» (Cafagna).
C'è stato anche "a sinistra", qualcuno, come l'anarchico Saverio Merlino, che si è spinto in direzione opposta a quella gramsciana, affermando che la borghesia meridionale «entrò in scena nelle varie fasi del moto risorgimentale essenzialmente per difendersi o per cercare difesa dai contadini e per sopraffarli».
Queste critiche alla teoria gramsciana sono certamente convincenti.
Ma la verità inoppugnabile della rappresentazione gramsciana sta comunque in questo: che il mondo contadino, non solo ma soprattutto nel Sud, fu indifferente, o apertamente ostile, al Risorgimento. E ciò contribui a compromettere non il suo esito finale, l'unificazione, ma il modo in cui essa fu realizzata.
E soprattutto, è convincente l'impostazione che Gramsci dà della «questione meridionale», come parte fondamentale della «questione agraria».
Gramsci si pose anche il problema di quale fosse il grado di coscienza del dualismo territoriale, e della questione meridionale, nel Nord. Per le masse popolari del Nord, disse, la miseria del Mezzogiorno era inspiegabile. Era opinione largamente diffusa che il Mezzogiorno fosse un paese naturalmente ricco, dotato di grandi risorse, oltre che caldo e radioso: una specie, come più tardi si disse, di «paradiso abitato da diavoli». Se invece era povero, doveva essere per colpa dei meridionali. E qui fecero presa diretta le teorie "scientifiche" dei positivisti sull'inferiorità biologica delle genti del Sud. Da Lombroso a Niceforo, da Ferri a Orano, si davano gran da fare a misurare crani e setti nasali, e altro. Le loro tesi influenzarono anche l'opinione, oggi si direbbe, "padana", dei socialisti. Non capivano, dice Gramsci, che l'unità non era avvenuta su una base di eguaglianza, ma di egemonia del Nord sul Mezzogiorno. E qui aveva ragione. Ma aggiunse: ignoravano che «il Nord era concretamente una piovra che si arricchiva a spese del Sud e che il suo incremento economico-industriale era in rapporto diretto con l'impoverimento dell'economia e dell'agricoltura meridionale». E qui sbagliava, ricopiando anche lui un pregiudizio. Quest'ultimo, che anche Salvemini a suo tempo sconfessò, è stato contestato in modo particolarmente efficace da Cafagna. Lo sviluppo del Nord fu un fenomeno interamente autonomo. Il Sud non è stata una sorta di aggiogata colonia di sfruttamento, sulle cui miserie il Nord avrebbe costruito la propria fortuna: uno "sgabello". Al contrario. È stata proprio una "palla di piombo" per il Nord: almeno fino al secondo dopoguerra, quando il Mezzogiorno, rovesciando sul Nord la sua forza di lavoro, alimentò il "miracolo italiano".
Prima di concludere sulla domanda cruciale che ci siamo posta, se il Risorgimento sia stato un successo o un fallimento, dobbiamo chiederci se il Risorgimento ci sia veramente stato.
Alcuni valenti storici (vedi la brillante analisi storiografica di Lucy Rial1) contesterebbero le prime righe con le quali si apre questo capitolo: che il Risorgimento sia stato un evento fondativo della storia italiana. Altri, e più rilevanti, sarebbero i momenti della modernizzazione italiana: come, ad esempio, la rapida industrializzazione della fine del secolo XIX, o i mutamenti intervenuti nella famiglia. Si obietta anche al quadro nazionale scelto per dare conto della storia italiana, che impedirebbe di cogliere prospettive più concretamente centrate sull' analisi comparativa delle aree regionali e municipali. E, inoltre, si critica il ricorso a categorie astratte, come «classe» e «nazione», sotto le quali si raggruppano, soprattutto nella saggistica d'ispirazione marxista, fatti, fenomeni e concetti eterogenei.
Lo stesso concetto di Risorgimento si presta a qualche sapiente operazione "decostruttiva" (come, del resto, ogni definizione di carattere generale). Ora, senza entrare nel merito dei concreti problemi suscitati da quest' approccio, penso che si debba apprezzare l'impegno di quei seri studiosi che si dedicano a operazioni di restauro storico. Dio solo sa se ce n'è bisogno. Ma c'è anche un rischio. Che il gusto della dissacrazione finisca per corrompere la ricerca della verità.
E allora, a furia di temperare la matita, si finisce per distruggerla. Nel nostro caso, a furia di decostruire il Risorgimento come fattore fondativo dell'unità italiana, si finisce per lasciare senza risposta la domanda essenziale: di chi è merito, o colpa, l'unità d'Italia? Dopo tutto, quella esiste, e, finora almeno, non è stata decostruita.
Il guaio è che spesso, dopo la demolizione, non restano che le macerie.
Il fatto è che la furia demolitrice, talvolta, nasce da pulsioni meno professionali e più ideologiche: da un'iconoclastia partigiana, che è presente spesso nei "vecchi credenti". Quando l'impegno revisionista è rivolto con tanta intensità contro gli idola tribus della nostra storia, che si tratti del Risorgimento o della Resistenza, sorge il dubbio che lo scopo reale sia quello di buttare la matita, non di temperarla.
Possiamo ora concludere sulla contrapposizione delle due tesi: quella positiva di Croce, quella negativa di Gramsci. Anzitutto, il Risorgimento c'è stato (ricordo la battuta di un grande storico, Arnaldo Momigliano, a proposito della disputa "revisionistica" sulla caduta dell'impero romano: «possiamo finalmente annunciarvi che l'impero romano, effettivamente, è caduto») Inoltre, il Risorgimento è stato un evento storico di grande importanza per questo nostro paese: una civiltà che ha attraversato secoli di grandezza e secoli di decadenza, ma sempre divisa, è stata ricomposta in un soggetto che occupa un posto di prima fila nell'economia mondiale e una posizione politica ragguardevole.
Ma - e qui le considerazioni di Romano sono ineccepibili raggiunta, nei modi in cui fu raggiunta l'unificazione, fu evidente che non era stata realizzata l'unità. Fatta l'Italia, ci si accorse che non c'erano ancora gli italiani. E ci si diede un gran da fare a forgiarli, gli uni, attraverso l'educazione e le riforme (Spaventa, Sella, Minghetti, Depretis, Giolitti), gli altri (Crispi, Mussolini) con la guerra.
C'è bisogno di dire che entrambe le squadre fallirono? I due capitoli seguenti sono dedicati al fallimento, rispettivamente, dei liberali e dei nazionalisti. Soprattutto sul punto cruciale della saldatura tra il Nord e il Sud.
Capitolo quinto
LA GUERRA DI REPRESSIONE
Dopo il Risorgimento, al tempo dell'unificazione, negli anni Sessanta, l'Italia presentava «i tratti tipici di un'economia povera e sottosviluppata, non molto dissimile da quella di altri paesi del Sud e del Levante mediterraneo» (V. Castronovo, Storia economica d'Italia). Nel 1871 la popolazione aveva raggiunto i ventisei milioni, con un considerevole aumento rispetto ai diciassette milioni del 1770. Il reddito nazionale era meno di un terzo di quello francese e soltanto un quarto di quello inglese. Non piu del 20,3 % era fornito dall'industria, contro il 57,8 dell'agricoltura. Nel 1861 nemmeno un quinto degli italiani risiedeva in centri superiori ai ventimila abitanti.
La carta moneta era considerata, come disse Cattaneo, uno «spauracchio »; le transazioni erano regolate dalle «buone valute d'oro e d'argento».
La rete ferroviaria sommava a poco più di 2000 chilometri, rispetto ai 17 000 chilometri dell'Inghilterra e ai 9300 della Francia.
Due terzi degli italiani erano analfabeti.
Segni percepibili d'intraprendenza industriale si manifestavano in Piemonte, Lombardia e Toscana, soprattutto nella filatura del cotone e della seta, affidate a lavoratori a domicilio, o a poveri lavoranti ospiti di ricoveri pubblici e religiosi.
Non molto progredita risultava la cultura industriale, se si pensa che, accanto a presenze eccezionali d'imprenditori moderni, come quella del giovane conte di Cavour, figurava un Bettino Ricasoli, che considerava l'introduzione delle macchine nei processi produttivi come una buona occasione «di emanciparsi dalla più odiosa delle schiavitù, quella del popolaccio».
I progressi piu significativi, dal punto di vista della produzione per il mercato, si manifestavano nell'industria della seta: allevamento dei bachi e trattura, ma anche nella produzione di riso, dei foraggi, del bestiame. Accanto ai proprietari e ai fittavoli, si stava sviluppando un ceto nuovo di periti, sorveglianti idraulici (<<compari d'acqua»), ingegneri; nonché di impiegati nelle attività consortili e nelle camere di commercio: insomma, un brulicare di laboriosa borghesia minuta.
Tutto ciò avveniva nel Nord, e prevalentemente in Lombardia. Ben diverse erano le condizioni dell'Italia meridionale, dove la sopravvivenza di estesi possessi della nobiltà e del clero, di oneri feudali, di contratti e di metodi produttivi anacronistici, come il periodico "riposo" del suolo, pregiudicava lo sviluppo di un' agricoltura meno povera e più produttiva.
Insomma, il nuovo regno aveva alle spalle un'economia che stava appena uscendo dal torpore al Nord, e vi restava immersa nel Sud.
Politicamente, quella che stava di fronte al nuovo governo della destra storica, all'indomani della morte di Cavour, era un'eredità di problemi davvero schiacciante.
Anzitutto, quella che s'imponeva per coronare il Risorgimento: il compimento dell'unità, con la liberazione del Veneto e di Roma. Bisogna dire che fu la più umiliante, per il nuovo regno che si presentò al mondo, con due vergognose sconfitte, una di terra (Custoza, un nome fatale per l'Italia), e una di mare: quella battaglia di Lissa che in qualche modo fu comunque una vittoria italiana, dal momento che, agli ordini dell'ammiraglio von Tegetthoff, un italofilo che li impartiva in dialetto veneto, erano marinai veneti, friulani, dalmati, comandati come si deve.
Il Veneto, l'Italia lo ebbe lo stesso, grazie, ancora, a Napoleone IlI, che insistette con i prussiani, alleati dell'Italia contro l'Austria, ma vincitori, di mantenere la loro promessa: di costringere 1'Austria a cederlo, nelle mani dello stesso Napoleone, che lo porse all'Italia. Che brutta figura!
Lo stesso Napoleone, invece, fino all'ultimo, impedì ai piemontesi di strappare Roma al papa, prima fermando Garibaldi a Mentana, con una spedizione armata dei famosi fucili Chassepots (<<les Chassepots ont fait des merveilles», fu il commento del comandante francese), e poi piegando gli italiani a garantire la sovranità del papa su Roma. Fu solo grazie a un' altra provvidenziale sconfitta, quella di Napoleone a Sedan, che i bersaglieri di Lamarmora entrarono nella città eterna, attraverso una breccia poco gloriosa.
Il secondo grande problema fu conseguenza del primo. Fu il conflitto con la Chiesa cattolica, che privò per decenni il nuovo Stato italiano della partecipazione politica attiva di un' ampia base di cittadini. Bisogna dire che questo fu gestito dal governo italiano con una fermezza e con una dignità che ce lo rendono, soprattutto di questi tempi, ammirevole.
Il terzo fu il problema cruciale della costruzione dello Stato. E qui, invece, la performance fu letteralmente funesta.
Gli uomini della destra storica, senza ombra di dubbio, erano integerrimi. Erano anche competenti. Ed erano patrioti. Non gli mancava l'onestà. Gli mancava quel sale della fantasia che rendeva Cavour, anche se meno "onesto", più intelligentemente creativo. Quella creatività gli aveva permesso di trovare la via d'uscita da situazioni obiettivamente impossibili. I governi della destra erano di fronte a una di quelle situazioni. Un'Italia profondamente eterogenea, trovatasi improvvisamente inclusa in un medesimo destino, era sottoposta a fortissime tensioni, che minacciavano di decomporla da un momento all'altro. Essi diedero a quella condizione la risposta più immediatamente disponibile, non la più intelligente: una costituzione rigidamente accentratrice, affidata a un gruppo di persone di estrazione etnica e culturale omogenea: un gruppo di piemontesi. Negli anni in cui l'ordinamento unitario fu costituito, anche esponenti "piemontesizzati" come Minghetti e Farini, uno toscano e l'altro bolognese, furono rigorosamente esclusi dal potere. Essi erano portatori di quelle istanze di differenziazione, decentramento, autonomia che avrebbero permesso ai diversi popoli della penisola di costruire una convivenza, anziché essere costretti a una disciplina. Cosi, anziché realizzare il minimo comune multiplo, si pretese d'istituire il massimo comune denominatore: istituzioni omogenee, li dove ciò comportava uno scadimento dell'efficienza e dei servizi. Una soluzione obiettivamente stupida.
Ciò che all'interno dell'Italia centrale e settentrionale era un problema divenne, per quanto riguarda i rapporti fra Italia del Nord e Italia meridionale, una tragedia. Ecco la quarta sfida, di fronte alla quale il governo del nuovo regno falli clamorosamente.
Il divario originario.
Un comprensibile spirito polemico ha indotto il primo meridionalismo italiano, fiorito già alla fine del XIX secolo, ad attribuire il dualismo italiano tra Nord e Sud alle politiche seguite dopo l'unificazione. Ora, per funeste che fossero quelle politiche, e lo constateremo nel seguito, non è dubbia la preesistenza del dualismo economico tra le due parti del paese. Senza svalutare i forti richiami dei primi meridionalisti, i Villari, i Franchetti, i Sonnino, i Fortunato, bisogna ridimensionare certi giudizi polemici: come quello di Fortunato, secondo cui, seguendo un giudizio di Nitti, «noi (meridionali) eravamo in floridissime condizioni per un risveglio sano e profittevole». Lui stesso, però, riconobbe piu tardi che «l'Italia meridionale entrò disgraziatamente a far parte del nuovo Regno in condizioni assai diverse da quelle che Nitti lascia a credere».
La somma degli squilibri economici esistenti tra Nord e Sud al tempo dell'unificazione è stata valutata in un divario del 15-20% del reddito pro capite.
Quattro regioni del Nord, Piemonte, Liguria, Lombardia e Veneto, con un terzo della popolazione nazionale complessiva, contavano per tre quarti del reddito totale, e cinque sesti di quello industriale.
L'inferiorità dell' agricoltura meridionale si manifestava attraverso sistemi di coltivazione antiquati, vaste distese paludose e malariche, prevalenza di ordinamenti cerealicolo pastorali.
La maggiore densità di addetti all'industria nel Sud rispetto al Nord si contrapponeva alla minore produttività, dovuta all'insufficiente dimensione e dotazione di capitali delle imprese, nonché alla scarsa capacità di ricorso al credito.
Una struttura urbana debole e frammentaria si confrontava con i centri del Nord che, specialmente nelle grandi pianure, disponevano di vasti entroterra, con reti di scambio fitte e articolate.
Ben diverso, infine, era il grado d'inserimento delle due parti dell'economia italiana nella rete internazionale degli scambi, a tutto vantaggio del Nord.
Abbiamo già parlato dell' arretratezza dell' agricoltura meridionale, le cui caratteristiche tecniche (mancanza di capitali, metodi produttivi obsoleti, sistemi gretti e anacronistici di conduzione dei patrimoni fondiari) erano profondamente legate a quelle sociali.
Queste ultime si aggravarono quando, con 1'eversione degli ordinamenti feudali disposta nel periodo murattiano, vasti territori appartenenti al clero e alla nobiltà entrarono a far parte del demanio pubblico. Quella avrebbe dovuto essere la prima fase di una grande re distribuzione delle terre a vantaggio dei contadini. In effetti, sia pure in termini ridotti rispetto alle misure inizialmente predisposte, un' espropriazione di terre ebbe luogo, ma in forme cosi clamorosamente inique da suscitare un' ondata possente di collera. In primo luogo, alle aste di aggiudicazione si ripresentavano, in forme appena dissimulate, gli stessi proprietari espropriati. Quando poi alle aste, svenandosi, i senza-terra riuscivano ad aggiudicarsi i fondi, essi, mancando dei mezzi necessari alla gestione, erano costretti a ricorrere massicciamente all'usura.
Alle prime difficoltà economiche causate da qualche dissesto naturale, i nuovi proprietari, insolventi, erano costretti a cedere le loro terre, magari dopo averle dissodate e coltivate a vantaggio degli usurai, che erano o i vecchi proprietari, o galantuomini arricchiti. Ogni cosa rientrava, cosi, nell' ordine sociale.
Siamo nel cuore della «questione agraria». La quale sta, a sua volta, nel cuore di quell'immane tragedia che prese il nome di «guerra del brigantaggio».
La guerra del brigantaggio.
«Brigante» è concetto spesso associato a quello di «bandito». Mentre l'origine di quest'ultima parola è chiara - il destinatario di un bando, di un ordine di espulsione -, quello della prima è più indiretto. Certamente deriva da« briga», che a sua volta sembra collegata originariamente con un termine celtico che sta per «lotta», particolarmente vigorosa. Pare sia la stessa etimologia di «brio». Insomma: brigante è un combattente particolarmente aggressivo, un guerrigliero.
Presente sia in inglese, brigaunt, sia in francese, brigand, in Italia si diffuse particolarmente durante il periodo napoleonico. Murat ne riferisce a Napoleone in una relazione: «sono sbarcati, sempre in Calabria, circa 300 briganti che hanno commesso e commettono tuttora indicibili orrori». I Francesi usarono il termine in riferimento soprattutto alle bande calabresi.
Il brigantaggio si distingue dalla criminalità comune, "privata", per la sua natura politica d'insurrezione collettiva contro le istituzioni.
È fenomeno costante della storia di tutti i paesi. A Roma, si distinguevano i latrones, che operavano sulla terraferma, dai praedones, che infestavano il mare; e contro di essi s'impegnarono i più famosi condottieri, da Silla a Cesare a Crasso. Le rivolte assunsero, talvolta, le caratteristiche di vere e proprie rivoluzioni sociali, come quella legata al nome dello schiavo trace Spartaco, che minacciò di travolgere la repubblica. Nella scia di Spartaco, troviamo nel Medioevo personaggi altrettanto famosi, come il toscano Chino di Tacco (XIII secolo), ricordato da Dante nel canto VI del Purgatorio, che concluse le sue audacissime gesta pacificamente, a Roma, sotto la protezione del papa Bonifacio VIII; e il calabrese Marco Berardi, detto re Marcone, del XVI secolo, vero e proprio rivoluzionario comunista ante litteram, cui Filippo II offri il titolo di «re della Sila». Tra la storia e la leggenda sta il mitic o Robin Hood, descritto da Walter Scott in Ivanhoe come fedele compagno di Riccardo Cuor di Leone.
Ma il secolo classico del brigantaggio fu l'Ottocento: brigantaggio comune, sociale, politico, romantico e spesso tutte queste cose insieme, che esplose con particolare violenza in Italia, in Piemonte come in Romagna, in Sardegna come nel Lazio, e assunse poi, nel Mezzogiorno, le caratteristiche di una vera e propria guerra di repressione.
Il brigantaggio, nel Mezzogiorno, è condizione storicamente endemica. Se ne hanno tracce già nel reame di Napoli. Talvolta, essa si colora di istanze politiche: la lotta contro i Francesi di Murat, contro i Borboni, contro i piemontesi. Alla base, c'è la violenza di un mondo contadino oppresso dalle classi possidenti, in condizioni economiche vicine alla soglia della mera sopravvivenza e in condizioni culturali di fanatica superstizione.
L'arrivo dei Mille, e il sorprendente crollo del regno delle Due Sicilie, piombò il Mezzogiorno in uno stato di marasma che ingigantì il fenomeno del brigantaggio, già esploso durante il periodo napoleonico. Dapprima 1'arrivo di Garibaldi suscitò, con la leggenda di liberatore che lo accompagnava, e con certe misure sociali promettenti, le speranze della sola liberazione che poteva commuovere i sentimenti delle masse contadine: la liberazione dallo stato di servi grazie alla proprietà della terra. Si ebbero arruolamenti nelle schiere garibaldine, non solo di giovani intellettuali, ma di braccianti, alcuni dei quali già ribelli e "briganti", come il più famoso di loro, Carmine Crocco.
La profonda delusione sopravvenuta, prima a causa degli stessi garibaldini (come nel famoso episodio di Bronte, protagonista l'irruento Bixio, che massacrò gli insorti), e poi, soprattutto, del regime autoritario e vessatorio instaurato dai piemontesi dopo la "conquista", cambiò segno alla rivolta che, alimentata dal governo borbonico in esilio, assunse in poco tempo impressionanti proporzioni.
La delusione contadina, che Gramsci tradusse nella questione agraria», fu accompagnata ed esacerbata da una serie di politiche disastrose da parte del governo piemontese, a partire dall'unificazione amministrativa, che comportava per il Sud l'avvento d'istituzioni del tutto estranee alla sua storia; e, per le grandi masse contadine, un netto peggioramento delle loro condizioni materiali. Anzitutto quanto alle tasse, il cui peso, ingigantito dai bisogni, militari e civili, connessi con l'unificazione, gravò soprattutto sui ceti più poveri, essendo costituito per la massima parte da imposte indirette: sul sale, sui tabacchi, sul grano, quest'ultima soprattutto iniqua, la famosa imposta sul macinato, che suscitò rivolte in tutta la penisola.
Inoltre: la coscrizione militare obbligatoria, che in Sicilia non era mai esistita, e che nel resto del regno era realizzata per sorteggio, con la possibilità di farsi sostituire versando una somma di denaro. Essa depauperava le campagne di braccia, e decimava le famiglie per lunghi periodi di doloroso esilio.
Si deve aggiungere un rapporto arduo con i nuovi amministratori giunti dal Nord, a cominciare dall'incomprensibilità della lingua, e dalla diversità delle abitudini e dei comportamenti.
L'insieme di questi aspetti accentuava il sentimento che prevalse fin dall'immediato domani dell'impresa dei Mille: di un paese non liberato, ma occupato. Questa era la scena che fu investita dalle masse smobilitate di un esercito frustrato. Questo il teatro di un dramma antico, quello del brigantaggio, che esplose in modo particolarmente violento proprio nel momento storico dell'unificazione del paese.
Dramma antico. Non c'è forse paesaggio più congeniale al brigantaggio del Mezzogiorno interno. Dalle balze della Maiella alle foreste della Sila, dalle Dolomiti lucane alle rupi dell' Aspromonte, una terra tormentata comunica alla vista l'inquietudine e la tentazione del nascondimento.
È in quel teatro, che esclude le isole e le scarse pianure, che si è svolta la storia più intensa del brigantaggio nell'età moderna, a partire dall'irruzione napoleonica.
Dovette apparire paradossale, all'opinione convenzionale giacobina, che gli eserciti marcianti dietro le insegne della liberazione fossero accolti con tanto furore. Abbiamo ricordato quanto poco rassomigliasse alla retorica rivoluzionaria l'armata stracciona e cupida che invase allora l'Italia. Ma ciò che accadde nelle regioni del Sud fu una reazione molto più profonda di quella generata dalla dignità offesa e dall'indignazione per la roba rubata. Non era solo un regime politico dispotico a essere rovesciato. Era il sostrato culturale con cui quello ancora si identificava, a essere improvvisamente investito.
Ai Francesi di Napoleone, e a Napoleone stesso, quella reazione apparve come una risposta criminale, dettata dall'ignoranza e dalla servitù. Furono proprio i Francesi, come abbiamo detto, a introdurre, allora, la parola briganti.
Chi erano i briganti
Chi erano i briganti? Gente di ogni specie. Giovani impetuosi e ribelli scatenati alla rivolta da violenze e ingiustizie subite, personaggi stravaganti e lunatici, solitamente presenti fra la gente dei paesi, oppure delinquenti comuni, o anche idealisti fanatici. Come il prete brigante, l' «abate maledetto» Ciro Annichiarico, predicatore messianico, condannato per un assassinio motivato da rivalità amorose; evaso, autore di straordinarie efferatezze, come quella di dare un suo nemico in pasto ai cani, o di appendere il corpo del figlio di un duca alla porta della casa paterna. Decapitare, tagliare, squartare era prassi normale. Anche sottoporre a sevizie le vittime, uomini e donne. Le cronache dei briganti rigurgitano delle loro efferatezze e modalità di supplizio, come quella di recidere la testa a poco a poco, per prolungare al massimo l'orrore della morte.
La guerra del brigantaggio coinvolse oltre la metà dell'esercito italiano, fino a centoventimila uomini. Dalla parte dei "briganti", si mobilitarono quattrocento bande agguerritissime, per un numero totale di ottantamila uomini, cui bisogna aggiungere gli informatori, i forni tori di armi e munizioni, gli agenti di collegamento, i procacciatori di viveri, i simpatizzanti, le amanti: insomma, tutto il vasto acquario nel quale è immerso un esercito partigiano. Dunque, si trattò non di un' operazione di polizia, per quanto imponente, ma di una vera e propria guerra di repressione e di resistenza.
I morti di quella guerra si contano nell'ordine delle decine di migliaia, da una parte e dall'altra. Enormi i danni: interi paesi incendiati e distrutti, raccolti dati alle fiamme, mandrie e greggi sterminate, la paralisi economica di vaste zone per lunghi tempi.
In una sola piccola zona, il Melfese, si contarono in un anno 800 tra furti e rapine, 200 incendi, 350 ricatti, 150 assassinii, 130 ferimenti e mutilazioni, 81 stupri.
Le bande erano composte per un terzo almeno da militari borbonici sbandati (e fu letteralmente idiota la decisione di non procedere a una loro assimilazione controllata nel nuovo esercito del regno). In alcuni casi, gli ex militari borbonici si organizzarono in veri e propri reparti, comandati da ufficiali, come quel Domenico Romano che diventò famoso come «il sergente romano», e che per oltre un anno occupò la zona di Gioia del Colle, con le sue truppe guidate da luogotenenti dai nomi bizzarri: Pizezicchio, il Capraio, Ciucciariello, Nenna Nenna. C'erano, poi, un certo numero di nobili avventurieri più o meno romantici, accorsi da tutta l'Europa legittimista a sostenere la causa della fede minacciata, del re di Napoli e della sua bella regina, l'intrepida Maria Sofia. Si distinguevano il catalano Josè Borges, il francese Olivier Marie Augustin de Langlais, il prussiano Theodor Klitsche de la Grange e lo spagnolo Rafael Tristany, alcuni dei quali ebbero parte importante nei combattimenti e ci rimisero anche la pelle.
Ma soprattutto c'era la massa dei cafoni, dei poveracci, molti dei quali avevano fatto il tifo per Garibaldi e si erano arruolati tra i suoi volontari. Le speranze della terra deluse, il peso delle tasse, e soprattutto la coscrizione obbligatoria, che minacciava di separarli dalla loro terra per essere spediti su fronti e in guerre lontane, li avevano spinti nelle campagne, tra i boschi e le montagne, in questa "armata Brancaleone" che si organizzava con l'assistenza degli ufficiali borbonici e con le armi e i fondi forniti da Roma, dove i reali di Napoli si erano rifugiati, sotto la paterna protezione del papa.
I briganti erano, per la maggior parte, assassini feroci, ma circondati, come spesso avviene in questi casi, da un' aura di romanticismo che i più astuti tra loro sapevano animare, alternando imprese truculente a gesti cavallereschi. I grandi giornali italiani di Milano, di Torino, e la stampa internazionale alimentavano l'attenzione. «L'Illustration» di Parigi usci nel gennaio 1862 con un clamoroso servizio sul brigante Chiavone. Un giornalista e un fotografo della rivista erano riusciti a entrare in contatto, attraverso una vivandiera, con Luigi Alonzi detto Chiavone, nei pressi di Sora, nel Lazio. Lui li aveva ricevuti in una catapecchia, con grande cortesia. A veva raccontato la sua vita e si era fatto fotografare in due posture: con le ciace e la camicia di flanella alla garibaldina (era un grande ammiratore del generale), e in alta uniforme borbonica. A sera, offri ai due invitati una cena principesca, nel corso della quale furono serviti maccheroni, pollo alla Marengo, agnello all'uvetta, capretto e vitello, il tutto annaffiato da vino d'Abruzzo, Marsala, Moet e acquavite.
Il sostegno della Chiesa.
Bisogna dire che i briganti, oltre a essere sostenuti dalla maggioranza della popolazione, godevano di un manifesto "appoggio morale" da parte delle autorità ecclesiastiche. Sentite il caloroso ritratto che del suddetto brigante Chiavone faceva la «Civiltà Cattolica», nel 1864:
A Monteneta la sponda meridionale del Lago di Fucino era campo e quartiere di quel Luis Alonsi, per soprannome Chiavone, il quale a capo della banda di Realisti, da sé levati e da sé valentissimamente condotti, vi si era messo in fortezza; e l'occupava contro le squadre volanti dei piemontesi, che indarno gli davano rabbiosissimamente caccia e vi si tenea bravamente; e di continuo vi facea sventolare la bandiera di Napoli, e spesso rimbombare il fragore delle sue scaramucce, e risonare altre si il gioioso grido della vittoria. La notte egli con il nerbo dei suoi, tutti fior di montanari destri gagliardi e animosissimi, ricoglievasi per su quei nidi di falco, insuperabili allo sforzo delle straniere soldatesche; e il giorno calavane per fiutarne le orme e tener loro imboscate, e piombare alle spalle, alla coda e alla testa delle loro colonne, e senza posa romperle e tartassarle; o, non incontrandole, per fare vettovaglie nell' abitato; ricevuti sempre con feste e allegrezze di popoli che acclamavano, abbracciavano e provvedevano in abbondanza quale campione dei sacri diritti del re e della patria, conculcati dall 'usurpatore.
Del resto, i vescovi delle città che ai briganti riusciva provvisoriamente di occupare, andavano incontro alle loro schiere in processione con santi e Madonne, e officiavano il Te Deum in loro onore. Nelle Istruzioni diramate dalla Sacra penitenzieria ai confessori, nel novembre e dicembre 1860, s'invitavano apertamente i soldati dell'esercito sabaudo alla diserzione, «qualora ciò si potesse fare senza pericolo di vita». L'arruolamento nella Guardia nazionale era consentito «solo in caso di necessità e a condizione di disertare appena possibile».
Il Comune molisano di Isernia, alla fine di settembre r860, fu occupato da una colonna borbonica costituita da ex galeot- ti fatti uscire dai bagni penali di Ponza e di Ventotene, che si collegarono all'interno della città con gli insorti, guidati dal vescovo Saladino. Il terrore imperversò per giorni. Cittadini furono massacrati a colpi di scure. A uno di essi, sanguinante, fu strappato un occhio con un colpo di roncola. Il vescovo Saladino, celebrò con un solenne Te Deum l'onomastico di Francesco II. In giro, si vedevano scene raccapriccianti. Uomini impiccati ai lampioni, altri selvaggiamente evirati, rivolto si che nel luogo ove adesso sorge la villa comunale facevano ruzzolare le teste di cinque garibaldini, uno scalmanato che intingeva il dito nel sangue di una vittima e lo accostava alle labbra.
Non è il caso d'intrattenersi a narrare quelle gesta, ma solo di menzionare il nome di qualcuno di quelli, tra i più famosi, di quest' epopea perversa.
Pietro Corea, calabrese, fucilato dopo una serie di mirabolanti imprese: gli furono tagliate la testa e le mani, consegnate all'ospedale di Catanzaro per studiarne la conformazione anatomica, alla luce della nuova "scienza" dell' antropologia criminale.
I ferocissimi fratelli Cipriano e Giona La Gala, protagonisti di sevizie raccapriccianti, come l'uccisione a coltellate in tutte le parti del corpo, con successivo distacco della testa e sua esposizione con una pipa in bocca (10 scherno era parte integrante dello spettacolo).
Michele Caruso, pugliese, che si era presa per compagna la «pacchianella» Mariannina, famosa per la sua bellezza, cui aveva ammazzato il padre.
I paradisi selvaggi della Calabria erano, insieme alle terre lucane, i ripari più densi del brigantaggio. Non era tranquilla la convivenza, all'interno delle bande. Frequenti gli sgarbi, le liti rumorose, i drammi della gelosia e le vendette sanguinose.
Giuseppe Musolino era un calabrese condannato, quando aveva ventun anni, a ventun anni di carcere, per un delitto che sembra non avesse commesso. Latitante, si caricò di delitti autentici, tanto numerosi da meritargli il titolo di «re dell'Aspromonte», con fama di vendicatore dei poveri e degli oppressi. Dopo aver impegnato formazioni dell'esercito vanamente, per anni, fu catturato inciampando occasionalmente in un cavo (<<pè chillu filo», come disse), e riconosciuto, malgrado i suoi dinieghi, per il suo accento calabrese, da un certo brigadiere Mattei, padre dell' a noi ben noto Enrico.
Il momento più alto dell'insurrezione fu il raduno a Lago pesole dei più illustri fra i briganti, Ninco Nanco, Chiavone, Malacarne, Sacchitiello, Ciucciariello, Coppolone e Crocco: sembrava un teatro dei pupi, ed era un raduno di ferocissimi e grotteschi bravacci. In quell' occasione, Crocco Donatelli fu riconosciuto generalissimo e pronunciò un fremente discorso: «non si commuove ancora il cielo, non freme la terra, non straripa il mare al cospetto delle infamie commesse ogni giorno dall'iniquo usurpatore piemontese».
Molti anni più tardi, l'ergastolano Crocco raccontò, in una stupefacente autobiografia, quei giorni di gloria:
Le armi erano fornite segretamente, i cavalli in parte requisiti, in parte avuti in dono. Comitati reazionari con arruolamenti segreti fornivano l'elemento, onde in breve ebbi ai miei ordini un piccolo esercito, del quale n'ebbi regolarmente il comando, quale generale ufficialmente nominato e riconosciuto da tutti i centri dipendenti. Promettevo a tutti mari e monti, onori e gloria a bizzeffe; ai contadini facevo balenare la certezza di guadagnare i feudi dei loro padroni, ai pastori la speranza di impadronirsi degli armenti affidati alla loro custodia; ai signorotti decaduti il recupero delle avite ricchezze e la gloria degli smantellati castelli, a tutti molto oro e cariche onorifiche. E cosi mentre io facevo servire da puntello al mio potere tutto l'elemento infimo ignorante e ambizioso, il clero e i nobili borbonici si servivano dell'opera mia per avvantaggiarsi nella reazione. A poco a poco io mi trovai quasi involontariamente a capo dei moti reazionari e m'ingolfai in essi, sicuro di ricavarne guadagno e gloria (T. Maiorino, Briganti e brigantesse).
Le gesta della repressione.
Alle gesta dei briganti si contrappongono, specularmente, quelle dei soldati italiani inviati al Sud per schiacciarli. La punizione degli inauditi delitti fu d'inaudita violenza. Ecco una sola breve citazione dal rapporto di Angiolo de Witt, un ufficiale incaricato della repressione, dopo la sommossa di Pontelandolfo:
Fu fiera rappresaglia di sangue che si posò con tutti i suoi orrori su quella colpevole popolazione. I diversi manipoli di bersaglieri fecero a forza snidare dalle case gli impauriti reazionari dell' ieri, e quando dei mucchi di quei cafoni erano costretti dalle baionette a scendere per la via, ivi giunti vi trovavano delle mezze squadre di soldati che facevano una scarica a bruciapelo su di loro.
Fu una guerra, come scrisse Aurelio Saffi, «sciagurata e ingloriosa», «durante la quale italiani del Nord e del Sud si conobbero attraverso il mirino del fucile» (S. Scarpino, La guerra «cajona).».
«Prendeteli vivi o morti, preferibilmente morti»: questa fu la direttiva che il governo trasmise ai bersaglieri, ai lancieri, ai carabinieri, impegnati in una guerra spietata.
Circa dieci anni durò questa guerra, più sanguinosa di tutte quelle dell'Indipendenza. Le bande, a loro completo agio nel loro territorio, si spostavano con rapidità fulminea, comparivano e scomparivano a sorpresa. Con il minimo di bagaglio (si approvvigionavano sul posto, sostenuti dalla popolazione), armati del fucile ad avancarica con la bocca a tromboncino, in grado di sparare non con precisione, ma con effetti micidiali, le loro cariche. Il loro abbigliamento consisteva il più delle volte in panni di velluto, con cinturone e cartucciera, il classico cappello a pan di zucchero ornato di nastri svolazzanti, quando non riuscivano a procurarsi uniformi militaresche del vecchio esercito borbonico. Erano in comparabilmente più mobili degli impacciati battaglioni sadogaribaldeschi, ingombrati da zaini grevi, con lenti carriaggi, uniformi sempre pesanti, cannoni difficilmente trasportabili tra balze e rupi. Disponevano anche, all'inizio della guerra, di un numero maggiore di cavalli. Per lo più analfabeti, comunicavano tra loro a fatica in dialetti reciprocamente incomprensibili, non sempre meridionali. C'erano infatti tra loro romagnoli, maremmani, persino piemontesi.
La loro estrema mobilità gli permise di cogliere nei primi tempi successi notevoli: l'occupazione per più giorni di paesi, e persino di cittadine, con la minaccia portata a città importanti, come Potenza, e persino quella, temuta dall' alto comando di Napoli, d'interrompere le linee di comunicazione fra il Tirreno e l'Adriatico. Preferivano, ovviamente, le incursioni, ma si misurarono talvolta con i battaglioni regolari in campo aperto, in vere e proprie battaglie campali, grazie alla competenza tattica acquisita da alcuni dei loro capi.
Con il tempo, tuttavia, emersero i loro limiti. Gli aiuti in denaro non bastavano. Gli annunciati sbarchi di truppe austriache rimasero un miraggio, quelli di volontari stranieri si limitarono ad avventurieri generosi e pittoreschi. L'insofferenza di disciplina dei capi, incapaci di sottoporsi a comandi superiori, l'incostanza dei propositi, e soprattutto la crescente pressione dell' esercito italiano, le taglie, le delazioni e i tradimenti finirono per scomporre le bande, e per disperderle a poco a poco.
L'esercito sabaudo, intanto, si era organizzato, dopo i primi rovesci. Merito del colonnello Pallavicini, quello che affrontò in quegli anni Garibaldi ad Aspromonte, e del generale in capo Cialdini, più efficiente con i briganti che, più tardi, con gli Austriaci, e spietato al punto da suscitare, inutilmente, la reazione di Ricasoli. Furono ristrutturate le formazioni, razionalizzate le uniformi, velocizzati i movimenti, rafforzata la cavalleria. Ma soprattutto fu terrorizzata la popolazione: minacciati, arrestati, spesso torturati, i congiunti, raddoppiate le taglie, grazie a una legge straordinaria, la legge Pica, che sospese ogni garanzia costituzionale.
Alla fine, quando anche lo Stato pontificio smise di svolgere la funzione di sicuro rifugio delle bande, anche prima che Roma cadesse nelle mani dei piemontesi, e che Francesco e Maria Sofia abbandonassero definitivamente l'Italia, si spensero a una a una le bande. Ma non cadde la frustrazione.
Per un anno, il 1866, il moto insurrezionale rifiammeggiò in Sicilia, a Palermo, dove fu necessario mandare un corpo di spedizione, malgrado che l'esercito italiano fosse impegnato sul fronte austriaco. Poi, i contadini meridionali impararono a «votare con i piedi», e la lunga guerra di repressione si snodò nella lunga processione degli emigranti da un paese che li rifiutava.
Quella guerra, che la storiografia italiana ha circondato di silenzio (è significativo che nella grande e bella Storia degli italiani di Rodolico non ve ne sia neppure un accenno) fu dimenticata. Ma lasciò una scia di rancore nel cuore del Mezzogiorno. Consolidò i pregiudizi e alimentò il disprezzo nei sentimenti del Nord verso il Sud.
Sentite q'uel che pensava Nino Bixio della gente del Mezzogiorno (in Ch. Duggan, La forza del destino):
Che paesi - scriveva nel 1863 alla moglie - si potrebbe chiamar dei veri porcili [ ... ] Prima che questi paesi giungano allo stadio di civiltà in cui siamo noi [ ... ] abbisognano anni e lunghi anni. Non strade, non alberghi, non ospedali, nulla di quanto si vede oggi nella parte meno avanzata dell'Europa: poveri paesi! Quale governo Dio ha permesso s'avessero! Manca loro il senso del giusto e dell'onesto, bugiardi sempre, timidi come fanciulli [ ... ] poi inimicizie terribili, e in questo paese i nemici e gli avversari si uccidono ma non basta uccidere il nemico bisogna straziarlo [ ... ] Questo insomma è un paese che bisognerebbe distruggere o spopolare e mandarli in Africa a farsi civili.
Farini scrive a Cavour, nell'ottobre 1860: «Ma amico mio che paesi sono [ ... ] mai questi. Che barbarie. Altro che Italia, questa è Africa».
E Massari, un pugliese che si era rifugiato a Torino dopo la rivoluzione napoletana del r848, invocava per il Mezzogiorno «una grossa invasione di moralità piemontese per ripulire le stalle di Augia della corruzione meridionale».
Massimo d'Azeglio diceva che l'unificazione con Napoli era «come mettersi a letto con un vaioloso», mentre Farini temeva che il Sud diventasse la cancrena del rimanente Stato, finendo per causare la disgregazione morale dell'Italia.
E Ippolito Nievo: «finora sul Napoletano non vidi che paesi da far vomito al solo entrarvi, altro che annessioni e voti popolari! Dal Tronto a qui ove sono (a Sessa) io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti: che razza di briganti». E l'altra campana?
Napoleone Colajanni pubblicò nel 1906 questa lettera, che gli era giunta dal Veneto:
[ ... ] se sentisse quassu egregio Professore, le idee della maggioranza sul disgraziato Mezzogiorno! Quanti pregiudizi ci instillano sin dai primi anni di vita! Noi settentrionali, dicono, apparteniamo a una razza superiore, siamo onesti, siamo lavoratori, abbiamo in una parola tutte le buone qualità. I meridionali invece, appartenenti a una razza inferiore, ne sono completamente privi. Fu un grave errore, aggiungono, quello di Garibaldi di andare a conquistare il Regno delle Due Sicilie perché noi settentrionali dobbiamo pagare le tasse per quei disperati del Mezzogiorno che non vogliono lavorare. Laggiu tutto è mafia e camorra [ ... ] E creda, egregio Professore, che tali idee non le nutrono solo i poveri contadini ma anche quasi tutti i rappresentanti delle classi dette classi colte.
Solo Cavour, che dapprima condivideva opinioni molto simili a queste, si espresse sul suo letto di morte con queste parole: «io governerò (i popoli del Sud) con la libertà e dimostrerò ciò che possono far di quel bel paese dieci anni di libertà. In venti anni saranno le più ricche province d'Italia. No - aggiungeva - niente stato d'assedio, ve lo raccomando». Proprio in quei giorni, il governo raccomandava alle truppe: «prendeteli vivi o morti: meglio morti che vivi».
Ci fu chi cominciò a dubitare che convenisse lasciar perdere, rinunciare all'unità. E, tra questi, proprio quel Leopoldo Franchetti cui, insieme con l'amico Sonnino, si deve la prima severa ed esauriente indagine sulle condizioni della Sicilia:
[ ... ] la coesistenza della civiltà siciliana di quella media e superiore in una medesima nazione è incompatibile colla prosperità di questa nazione e, a lungo andare, anche colla sua esistenza, poiché produce debolezza tale da esporla ad andare a sfascio al minimo urto datole da fuori. Una di queste due civiltà deve dunque sparire in quelle sue parti che sono incompatibili con l'altra.
E, d'altro canto, suona addirittura disperata l'invettiva di Crispi (quando era ancora democratico), rivolta però tutta al Nord, contro l'azione del governo nel Mezzogiorno:
Che ha fatto il governo nazionale per portarvi la civiltà e farci amiche le popolazioni? Nulla. Si è fatto un lavoro a controsenso [ ... ] Non ti dico le grida le maledizioni le lagrime. Ti dico soltanto che il governo italiano è maledetto e odiato. E se ripiglia il brigantaggio, chi avrebbe motivo di dolersene? E se mettono a soqquadro l'unità, oseremmo pure punirli? C'è da perdere la testa; e noi che due volte abbiam fatto la rivoluzione, dobbiamo riconoscere che cosi tristi sono le opere del governo nato dalla rivoluzione.
Non si può dire che, dopo l'esperienza amarissima del brigantaggio, siano mancate in Italia voci, giudizi, indagini, inchieste che facevano luce sulle condizioni sociali dei contadini del Sud, e del Mezzogiorno in generale. Come accade spesso in Italia, non mancano i moniti; mancano le conseguenze che se ne dovrebbero ricavare.
Dall' ampia relazione di Giuseppe Massari sul brigantaggio, «uno degli episodi piti tragici e cupi della nostra storia nazionale», si trae un giudizio preciso su quelle che il deputato napoletano chiama le «cause predisponenti», e cioè le condizioni sociali delle popolazioni contadine. «Molta gente non sa come fare per lucrarsi la vita. I terrazzani e i cafoni hanno pan di tal qualità che non ne mangerebbero i cani».
T ali condizioni non erano state create certo dal nuovo governo piemontese. Erano il frutto di secoli di oppressione, di coltivazione consapevole dell'ignoranza e della superstizione, da parte dei governi napoletani e della Chiesa. Ciò che a prima vista appare stupefacente è che la rabbia e la violenza che tali condizioni generavano esplodessero con la maggiore violenza contro un governo che combatteva i Borboni e contrastava la Chiesa. Era già avvenuto con l'arrivo dei Francesi, che. erano invasori e stranieri. Sembrava paradossale che avvenisse con gli italiani "liberatori".
In realtà, come abbiamo già visto, gli italiani in tutti i modi si comportarono, tranne che come "liberatori". Delusero le speranze delle plebi contadine, per le quali la parola «libertà» non aveva altro significato che 1'aspirazione alla terra e alla liberazione dalla fame. Introdussero nuove e più pesanti vessazioni fiscali, amministrative, militari. Assunsero fin dall'inizio modi di superiorità sprezzante. Non soltanto verso le plebi contadine. Anche verso quella classe di "galantuomini" subentrata in parte all'aristocrazia feudale e che, per parte sua, si comportò durante la repressione in modo più che ambiguo.
Capitolo sesto
IL PAESE SI ALLUNGA
Il liberismo sotto accusa.
Quale giudizio conclusivo possiamo dare di quella «tragica e cupa» esperienza? Qualcuno potrebbe essere tentato di accostare la guerra di repressione italiana alla guerra di Secessione, che proprio negli stessi anni divampava in America. Ma, a parte le ben diverse dimensioni, si tratta di vicende a parti invertite.
I governi della destra avevano gestito la grande rivolta del Sud come una gigantesca jacquerie.
Nella guerra di Secessione americana, il Nord si era battuto contro le classi dirigenti del Sud per la liberazione degli schiavi. In Italia, il Nord si era battuto per reprimere gli "schiavi". Le classi dirigenti del Sud, i galantuomini, che stavano gradatamente sostituendo i baroni, avevano mantenuto, in quella guerra di repressione, un atteggiamento passivo e ambiguo. Alla fine della guerra, si trovavano formalmente dalla parte dei vincitori, anche se non si erano schierati alloro fianco. Conservavano le loro proprietà e il loro incontrastato dominio sulla massa dei contadini sconfitti. Ma non avevano alcuna voce nel governo del paese: alcuna partecipazione al potere centrale, che era rigorosamente riservato a piemontesi e "piemontesizzati" .
Sembrava, almeno all'inizio, che le cose potessero andare diversamente sul piano economico. La destra liberale (ma anche, sostanzialmente, la sinistra) aveva legato la sua politica economica a un modello rigorosamente libero-scambista. Sembrava che quel tipo di politica favorisse le produzioni agricole specializzate: quelle fiorenti al Nord (riso, foraggi, bestiame) ma anche quelle presenti al Sud: agrumi, vino. Insomma nel suo complesso 1'agricoltura italiana, sia al Nord che al Sud, se la cavava abbastanza bene.
Le cose andavano diversamente per l'industria. A mano a mano che la competizione internazionale si faceva più serrata cresceva l'esigenza di rafforzarla con investimenti di beni strumentali che dovevano essere importati. Diventava fondamentale il ruolo delle banche e si affacciava la domanda di sostegni da parte dello Stato.
Quella domanda aveva già trovato risposta esplicita nel protezionismo americano, e si era già espressa anche nei paesi europei (Germania soprattutto, ma anche Francia e Austria), che inseguivano i livelli di competitività del paese giunto prima di tutti gli altri nella corsa all'industrializzazione, la Gran Bretagna. Anche in Italia le politiche di incondizionato liberismo furono poste in discussione. L'autorevole «Giornale degli Economisti» denunciò queste tendenze, ma anche un sostenitore del libero scambio come Luigi Luzzatti, ministro del Tesoro e dell'Agricoltura, dichiarò che un'adesione incondizionata alle politiche liberiste lasciava disarmata 1'Italia nei confronti dei paesi più industrializzati. Di ciò erano ben consapevoli gli industriali del Nord, che cominciarono a premere per una revisione di quelle politiche.
Uno dei personaggi più significativi di questo gruppo fu il senatore Alessandro Rossi, titolare a Schio della più grande impresa italiana per la lavorazione della lana pettinata. Critico feroce della mentalità conservatrice e paternalistica tipica della provincia veneta, aveva tratto, dalla tradizione cattolica, un approccio moderno ai problemi dell' assistenza sociale, e dall' esperienza diretta americana una concezione innovativa dello sviluppo industriale. Quell' esperienza, diceva profeticamente nel 1883, «pare destinata a tutto l'universo in ricchezze in popolazione e in ardimento», come scrive Valerio Castronovo nella sua Storia economica d'Italia. Dunque, un misto di produttivismo americano e di solidarismo cattolico, che anticipava le linee di un modello sociale europeo.
Già prima della svolta protezionistica, comunque, una base industriale si era già formata, sia pure in modo frammentario, tra il 1881 e il 1887. L'indice complessivo della produzione tessile segnò un aumento di 36 punti, e quello della produzione meccanica di 85 punti. Sempre in quegli anni, la produzione globale dell'industria metallurgica sali dall'indice 100 a 414, quello della chimica a 267, quello della meccanica a 185. Bisogna tuttavia dire che le politiche liberiste non avevano impresso all' economia nazionale quel vigore che i loro sostenitori si aspettavano: negli anni Sessanta, il prodotto interno lordo era cresciuto in media di non più dell' I % all' anno, molto meno di quel che era necessario per reggere il passo della concorrenza internazionale.
La svolta protezionista.
Dopo un primo ritocco dei dazi nel 1876, si giunse, con la nuova tariffa del 1887, alla svolta protezionistica. Essa intervenne, però, non tanto a causa delle pressioni industriali, ma soprattutto di una grave crisi dell' agricoltura. La drastica diminuzione dei costi dei trasporti aveva rovesciato sull'Europa quantità massicce di grano americano e russo, determinando il crollo dei prezzi e della produzione. In Italia, le importazioni di grano aumentarono da 1,5 a IO milioni di quintali fra il 1880 e il 1886, i prezzi del grano calarono del 30% e la produzione scese da 51 a 43 milioni di quintali.
Questo tracollo precipitò il passaggio dallibero-scambismo al protezionismo, sempre più insistentemente invocato dagli industriali del Nord, e ora anche dagli agricoltori del Nord e del Sud.
La nuova tariffa elevava in misura notevole i dazi sul grano e sullo zucchero e introduceva dazi più o meno rilevanti a favore dell'industria siderurgica, di quella chimica e, in parte, di quella meccanica. Non fu, però, un espediente temporaneo per uscire dalla crisi, ma una storica correzione di rotta. Anche se non espressione di un consapevole disegno, ma esito dell'incalzare dei problemi, essa sancì, dal punto di vista economico, la trasformazione dello Stato da un ruolo economico neutrale a uno di protagonista.
È controverso che la tariffa abbia dato luogo alla costituzione di quel blocco agrario industriale che Gramsci denunciò definendolo «sciagurato», e che avrebbe saldato un'intesa fra imprenditori industriali del Nord e rentiers agrari del Sud: tesi ripresa soprattutto da Emilio Sereni.
In verità, gli industriali del Nord furono i soli e veri vincitori della partita. I proprietari terrieri, sia al Nord che al Sud, dovettero subire il netto primato dell'industria; e il protezionismo agricolo non fu sufficiente a riportare l'agricoltura a quella posizione di assoluta preminenza nella vita economica del paese che essa aveva detenuto fino ad allora.
Il protezionismo non suscitò però subito, come i suoi promotori avevano sperato, un balzo decisivo della produzione industriale, al contrario. La sua introduzione in Italia aveva coinciso con una grave recessione internazionale, cominciata verso la fine degli anni Settanta, che si sarebbe prolungata fin
quasi alla fine del secolo. L'Italia ne fu colpita in pieno. Il reddito nazionale diminuì nel 1892, e rimase sostanzialmente fermo fino al 1897. Gli investimenti precipitarono da 1552 a 546 milioni di lire.
Non per questo il protezionismo fu abbandonato.
Le aspre critiche degli economisti liberisti, come Pantaleoni e Pareto, più tardi Einaudi, non fecero breccia nel mondo politico. Anzitutto, era il capitalismo internazionale a evolvere decisamente verso un' epoca imperialistica, di stretto intreccio fra potere economico e potere politico, creando un clima del tutto ostile all'ideale del doux commerce di Montesquieu e della libera competizione degli eguali. Inoltre, se il livello della produzione industriale aveva subito i colpi della recessione, la protezione aveva permesso di realizzare importanti guadagni di produttività, attraverso una razionalizzazione dei metodi produttivi. Ancora, la stessa recessione, con la caduta dei noli marittimi, aveva determinato una caduta del prezzo del carbone, eliminando una grave strozzatura allo sviluppo industriale di un paese importatore come l'Italia. E infine, anche in Italia, se era discutibile la formazione di un "blocco agrario industriale", era diventata concreta quella di un intreccio fra lo Stato e la nascente grande industria del Nord. Il sostegno dello Stato a quest'ultima non si limitava all'aumento delle tariffe doganali, ma si realizzava attraverso il cospicuo flusso delle commesse pubbliche. «Trivellatori» furono definiti ironicamente da Luigi Einaudi i beneficiari di aiuti pubblici: anziché le miniere, trivellavano le casse dello Stato. Non si trattava soltanto di finanziamenti, ma di vere e proprie imprese comuni, come la fondazione della Società altiforni di Terni, creata con il concorso decisivo dello Stato, sotto forma di anticipazioni sui contratti stipulati con la Marina per la fornitura di corazze e apparecchiature navali; o la realizzazione del progetto di Vincenzo Breda, di un'impresa metà pubblica e metà privata che trasformò un piccolo centro umbro, lontano dalle frontiere e dal mare, in una «città di ferro, acciaio e lignite, animata dalla forza di 6000 cavalli idraulici» (Castronovo).
Si può dire che il protezionismo gettò le basi sia della "rivoluzione industriale" italiana, sia della corruzione finanziaria.
Il salto dell' industrializzazione.
Anzitutto, quanto alla prima, il termine «rivoluzione industriale», che alcuni usarono, è certamente esagerato. Ma il quindicennio "giolittiano" d'inizio del secolo segnò, indubbiamente, una netta cesura rispetto al passato.
Dopo la grande gelata della depressione di fine secolo, l'industria italiana, irrobustita nelle sue strutture produttive, fece appena in tempo a non essere tagliata fuori dal second wind, il vento della nuova alta congiuntura internazionale, che segnò il passaggio a una nuova fase di organizzazione capitalistica.
I progressi furono sorprendenti. Da un saggio di aumento medio annuo di poco più dell' I % negli anni Ottanta, la produzione industriale italiana balzò al 4,3 % nel quindicennio tra il 1896 e il 1910. La quota dell'industria manifatturiera sul prodotto interno lordo sali dal 19,6% del 1895 al 25% del 1910; la manodopera occupata nell'industria da 1275000 a 2 300 000, il 23,7% della popolazione attiva. Forse non era una rivoluzione, il distacco rispetto alle altre grandi economie industriali restava ampio; ma era, nondimeno, una netta cesura rispetto al passato (Castronovo).
In quel quindicennio, emersero le leve del giovane capitalismo italiano, una nuova classe d'imprenditori che diede vita a delle vere e proprie dinastie: il capitalismo delle grandi famiglie.
C'erano i figli di ricche famiglie blasonate, che coglievano le nuove occasioni offerte dai dazi protettivi. C'erano i "figli del lavoro" , fattisi avanti dalle file dell' artigianato, dalla schiera anonima dei capi operai: i Borsalino, i Rivetti, gli Zegna, gente educata a un codice rigoroso non molto diverso da quello che regolava i rapporti fra proprietari e contadini, fatto di obbedienza silenziosa e di sfruttamento brutale, del tipo descritto da Émile Zola. C'erano tecnici e dirigenti stranieri provenienti dalla Svizzera, dalla Germania, dalla Francia (dagli Abegg ai Flick). C'erano rampolli dell'aristocrazia lombarda, come i Visconti di Modrone, o della nobiltà subalpina come Giovanni Agnelli, figlio di un facoltoso possidente ed erede di una dimora signorile in Villar Perosa. Tutti questi segnavano un marcato distacco dalle prime generazioni di signori, come gli Orlando e i Florio, che consideravano in fondo l'industria come un optional e un arsenale per le ambizioni politiche. Erano industriali professionali: Agnelli appunto, e Pio relli, Guido Donegani, Cesare Pesenti, Ettore Conti, Camillo Olivetti, cresciuti in sintonia con le innovazioni tecnologiche dell' automobile e della gomma, della chimica di base, del cemento, dell'elettricità e della meccanica di precisione. Gente "moderna", fredda, aliena sia dalle inclinazioni "sadiche" dei padroni delle ferriere, sia dagli slanci solidaristici e paternalistici che avevano animato gli Alessandro Rossi, o i Crespi, o i Marzotto.
In quel nuovo capitalismo piemontese e lombardo-veneto si coltivavano, come disse Luigi Einaudi, «piti fresche e solide energie produttive».
Il risvolto speculativo.
Se questo era 1'aspetto dinamico e moderno del giovane capitalismo italiano, c'era quello torbido e speculativo che fioriva attorno alle banche, promosso dall' afflusso di capitali esteri, e presto contaminato dall'intreccio con il mondo politico e parlamentare. Fu questo che, sempre alla fine del secolo, minacciò addirittura non solo di sconquassare le grandi banche, ma di porre in gioco lo stesso assetto politico del paese. Il capitale bancario italiano era restio a promuovere la nascita di nuove imprese. Guardava con sospetto anche le richieste di finanziamento di imprese solide e affermate. Insomma, era allergico a veri investimenti industriali. Fu invece straordinariamente pronto a gettarsi nella speculazione edilizia. Roma fu la scena di un boom spettacoloso.
La Roma umbertina era «una capitale improvvisata e babelica», come scrisse Piero Chiara in Diario del Novecento. Era invasa dai politicanti, presa d'assalto da immigrati e impiegati, da speculatori e avventurieri. La vecchia città paolina, sonnacchiosa e fatiscente, era stata colta da una febbre, da un'eccitazione frenetica. Era diventata la capitale di un paese di ventisei milioni di abitanti, il centro di un mondo al tempo stesso affaccendato e neghittoso: due qualità che solo a Roma convivono.
Mancava di tutte le caratteristiche della capitale di un grande Stato: infrastrutture, servizi pubblici. Niente di comparabile con le due città italiane che hanno 1'inconfondibile impronta di una capitale: Napoli e Torino. Ma non mancava di traffici. «Affaristi, impresari e speculatori erano accorsi e le avevano conferito quel carattere di inesausta fonte di corruzione che non ha ancora perso nel corso di più di un secolo» (Chiara). E soprattutto, non mancava di vita mondana, della quale ci sono state trasmesse le cronache fervide nelle corrispondenze di un fantasioso giovane che si faceva chiamare Gabriele d'Annunzio: ricevimenti mondani, balli, concerti, accademie di scherma, prime al teatro Apollo, opere al teatro Costanzi, aste pubbliche, fiere di beneficenza, cerimonie religiose, cacce alla volpe e, naturalmente, «fantasmi femminili che formavano il tessuto dell'ora gioconda» (G. Borghese in Chiara).
Nel 1870 Roma contava 512 000 abitanti, addensati nell'ansa del Tevere. Monumenti e rovine, palazzi e chiese sontuosi, vie strette e tortuose, una massa di case e casupole addensate disordinatamente attorno a rare piazze.
Un'umanità discretamente cenciosa: mendicanti, storpi e pitocchi dappertutto. Dal Rinascimento in poi la città non aveva conosciuto il piccone e la costruzione di opere nuove.
Non furono, però, i piemontesi a mettere le mani sulla città.
Solo pochi anni prima del loro arrivo, fu un prelato belga, Francesco Saverio de Merode, figlio di un ministro ed ex soldato della legione straniera, protetto dal papa Pio IX, sostenuto dai gesuiti e rivale del cardinale Antonelli, a «sventrare» Roma, progettando e realizzando ambiziosi piani urbanistici. Fino al 1865 era stato ministro della Guerra dello Stato pontificio, guidando da Roma le imprese sanfediste dei briganti ciociari; poi, su pressione dei Francesi e con disappunto di Pio IX che lo aveva sempre protetto, abbandonò il governo e si diede alla speculazione immobiliare. Il suo piano era quello di «hausmaniser Rome»: di ricostruire la città come il prefetto Hausmann aveva fatto a Parigi, rivoltandola come un guanto. Proprio nei cinque anni che precedettero la breccia di porta Pia, aveva cominciato a realizzare i suoi vasti progetti. Acquistò villa Strozzi, sul cui terreno fu edificato il Costanzi, poi teatro dell'Opera. Sgombrata 1'area circostante le terme di Diocleziano, costruì la stazione di Roma. Svèntrò i quartieri che stavano fra la nuova stazione e il centro della città, aprendo la grande arteria di via Nazionale, che si chiamò, allora, via De Merode. Cominciò a realizzare il grande progetto dei Prati di Castello, portato avanti poi dal Comune di Roma. E continuò a operare come finanziere e imprenditore edile a Roma, sotto il governo italiano, fino al 1874, anno della sua morte. La ristrutturazione di Roma cominciò, dunque, prima che vi giungesse 1'«orda degli speculatori».
Come realtà sociale, Roma era allora un popolo miserabile ma assistito, dominato da un' onnipotente gerarchia ecclesiastica. In mezzo, un ceto di «mercanti di campagna», essenzialmente grandi affittuari dei latifondisti ecclesiastici e aristocratici. Erano noti come «il generone». Dal punto di vista urbanistico, fino a De Merode Roma era ancora quella ridisegnata da Sisto V. L'80% della proprietà era nelle mani del clero, nelle sue varie articolazioni: cardinali e alti prelati, conventi, congregazioni. Il resto era nelle mani della grande nobiltà.
I "piemontesi" soppressero o espropriarono 134 delle 221 case religiose esistenti, e procedettero all' assegnazione del 10ro immenso patrimonio. Entro il 1877,1'80% del patrimonio era stato liquidato. Per la maggior parte, era stato acquistato dai mercanti di campagna, che se ne infischiarono della scomunica di Pio IX. I principali proprietari d'immobili nella città restarono comunque le grandi famiglie: gli Odescalchi, i Doria Pamphili, i Pallavicini.
Il primo sviluppo urbanistico postunitario fu fortemente condizionato dalle scelte di De Merode: stazione, via Nazionale e adiacenze, Prati di Castello. L'altra principale direttrice riguardò la sistemazione dei grandi ministeri, lungo 1'asse della "liberazione", da porta Pia al Quirinale (via XX Settembre): Finanze, Agricoltura, Guerra. Per tutti gli anni Ottanta, Roma divenne un cantiere. La speculazione edilizia assunse proporzioni colossali. Bastava comprare aree fabbricabili, contraendo prestiti anche ad alto tasso d'interesse, per realizzare in pochi mesi guadagni del 200 e del 300%.
Su questo mercato aureo si costruì la fortuna, e poi si consumò la rovina, delle prime grandi banche italiane. Erano pesantemente coinvolte nella compravendita dei terreni la Banca Tiberina e la Società dell'Esquilino, rispettivamente legate a grandi istituti di credito piemontesi. E, soprattutto, la Banca Romana, ex Banca Pontificia, che si era lanciata in una dissennata ridda speculativa.
Il governatore della Banca Romana si chiamava Bernardo Tanlongo. Da giovane era un garzone di fattoria, diventato una spia durante la Repubblica romana: semianalfabeta, ma un vero genio finanziario, salito in auge nella corte pontificia, anche per certi svaghi non proprio leciti procurati ai monsignori. Rimase al suo posto sotto il nuovo governo, che addirittura lo nominò governatore nel 1881. Era un personaggio pittoresco. Quando, a settantatre anni, nel gennaio 1893, alle sette del mattino vennero ad arrestarlo nella sua casa di via Gregoriana, non si scompose. «Assiste, in vestaglia, alla perquisizione del suo appartamento e al sequestro di molte carte, poi si fa accompagnare (ha la gotta) a Regina Coeli nella sua carrozza scoperta, distribuendo sorrisi saluti e sigari al popolino che lo applaude» (dal «Corriere della Sera»).
Lo scandalo della Banca Romana, che fu a un passo da travolgere governo e Parlamento, nacque nel r889' I prezzi delle case crollavano, e le banche più coinvolte entravano in crisi. Il ministro dell'Industria Miceli ordinò un'ispezione sulla situazione delle banche di emissione (allora erano sei, e la Banca Romana era una di quelle). Ne affidò l'incarico a un senatore e a un alto funzionario del Tesoro. I risultati dell'indagine, che era stata considerata di normale amministrazione, furono sconvolgenti. Risultò che il Tanlongo e il cassiere della Banca Lazzaroni (respondent saepe nomina... ) avevano fatto stampare a Londra, da una ditta inglese, biglietti falsi: anzi, verissimi (la Banca era autorizzata a farlo), ma con il numero di vent' anni prima, felicemente regnante il papa. Si trattava di nove milioni di lire, che servivano sia per coprire ammanchi speculativi, sia per finanziare personaggi politici.
Questa bomba fu tenuta segreta (il ministro si giustificò poi con la motivazione del discredito internazionale che ne sarebbe risultato). Ma il senatore Alvisi, poco prima della sua morte, per sgravarsi la coscienza aveva consegnato una copia della relazione all' economista Leone Wollemborg, il quale la consegnò a Maffeo Pantaleoni, che a sua volta la fece avere a Napoleone Colajanni, deputato dell'estrema sinistra. Il 20 dicembre 1892 Colajanni, in una seduta della Camera, rese pubblico il contenuto della relazione. L'emozione fu enorme. Ci si chiese subito chi fossero gli uomini politici, cui si alludeva.
Giolitti, allora presidente del Consiglio? Crispi, suo rivale? Tanlongo, arrestato subito dopo, disse ai giudici che tutti i presidenti del Consiglio, dal 1865 in poi, avevano ricevuto soldi.
Giolitti, personalmente implicato, dovette dimettersi e fuggi in Germania, a casa della figlia, nel timore di essere arrestato. Ma prima consegnò alla Camera un dossier, che conteneva documenti compromettenti non solo per Crispi, che avrebbe ricevuto denaro dalla Banca, ma anche per sua moglie, quella Lina Barbagallo, avida di lusso, per la quale aveva abbandonato la seconda moglie e affrontato l'accusa di bigamia, e che lo tradiva con il maggiordomo, cui erano indirizzate un centinaio di lettere infocate. Giolitti, in quell'occasione, non esitò ad affondare il Parlamento, il paese, e se stesso nella vergogna. Subito dopo il re, anche lui abbondantemente compromesso dallo scandalo (attraverso il ministro della Real Casa) sciolse il Parlamento, indicendo nuove elezioni. Lo scandalo si chiuse vergognosamente, com'era cominciato; con l'assoluzione di Tanlongo e di Lazzaroni dall' accusa di «circolazione abusiva di biglietti di banca». Evidentemente, non era abusiva!
L'Italia sembrò sprofondare sotto lo scandalo. Altre grandi banche vennero coinvolte. Il direttore del Banco di Napoli Cuciniello fu arrestato, mentre scappava dalla casa dell'amante vestito da prete. E qualcuno collegò l'assassinio dell'ex direttore del Banco di Sicilia Notarbartolo, di cui parleremo tra poco.
Nonostante la crisi bancaria, l'industria italiana riuscì a reggere l'urto della recessione economica internazionale, che si prolungò fino alla fine del secolo. Ebbe invece effetti sconvolgenti all'interno del paese. «Lo sconquasso fu talmente forte da dare l'impressione che fosse in gioco la stessa sorte del Paese, il suo assetto politico insieme alla stabilità delle istituzioni parlamentari» (Castronovo). L'onda speculativa partita da Roma e da Napoli era stata gonfiata dall'afflusso di un'ingente massa di risparmi, convogliati dalle campagne verso l'investimento nei suoli urbani. Vi avevano contribuito gli uomini della finanza vaticana, le famiglie dell' aristocrazia nera, le fondazioni e le Opere pie, e un flusso di capitali esteri, attratti dal giro della speculazione immobiliare. Tra il 1883 e il r 887, i crediti concessi dalle banche erano raddoppiati. Nel r885 gli investimenti nel settore edilizio avevano raggiunto il 25% del totale. La febbre edilizia calò bruscamente all'inizio degli anni Novanta, con il crollo dei prezzi delle case e dei titoli di società finanziarie e imprese costruttrici, investendo in pieno il sistema bancario. Dopo pochi mesi dalla liquidazione della Banca Romana, caddero i due massimi istituti di credito ordinario, la Banca Generale e la Società generale di Credito Ordinario, che pure avevano svolto una funzione economica propulsiva, impegnando finalmente il risparmio italiano nell'investimento industriale. Per fortuna, non tutte le risorse erano state bruciate dalla speculazione edilizia, il che spiega la relativa tenuta dell'economia italiana. Pure, quelle furono sufficienti per travolgere il sistema creditizio, che dovette essere completamente ristrutturato. Nel 1893, la fusione di tre banche di emissione, la Banca Nazionale del Regno, la Banca Nazionale Toscana e la Banca Toscana di Credito diede vita alla Banca d'Italia, segnando una svolta nella storia della finanza italiana, concentrando le emissioni, e quindi consentendo una gestione unitaria della circolazione monetaria.
Il triangolo industriale.
Mentre si risolveva la crisi bancaria il capitalismo industriale italiano si concentrava nel Nord: nel triangolo industriale.
Lo sviluppo industriale è uno di quei misteriosi fenomeni cumulativi che crescono su se stessi, come le epidemie. Di quelle, si può stabilire di solito la causa prima. Di questo è molto più difficile, a causa del fitto gioco delle interdipendenze: le contiguità territoriali (fra Milano e Torino), il livello culturale (15% di analfabeti, contro il 59% nel Sud), ma soprattutto l'apertura di nuove grandi linee di comunicazione. Per Milano fu l'apertura, nel 1882, della linea ferroviaria del Gottardo. Per Genova, quella dei traffici con gli altri porti mediterranei. Torino, invece, era cresciuta su se stessa: sull'espansione dell' industria automobilistica e metalmeccanica. Questi fattori propulsivi si collegavano tra loro determinando sinergie cumulative, che, a loro volta, presentavano impulsi all'espansione di altre attività. Tra i grandi centri meccanici e siderurgici si stendeva una fascia di piccole e medie industrie tessili, s'infittivano le aziende artigiane e quelle agricole, si accumulavano risorse finanziarie che stimolavano la moltiplicazione delle casse di risparmio e delle banche popolari. Ai margini del triangolo, poi, si costruiva un' ossatura robusta di grossi centri urbani: da Bologna a Piacenza a Parma, da Padova a Verona a Venezia.
L'area del triangolo e le sue propaggini si differenziò rapidamente da quella del resto del paese, assumendo caratteristiche non molto diverse da quelle delle zone più industrialmente progredite di Francia e Germania, ancora lontane da quelle inglesi e belghe, ma superiori a quelle svizzere, danesi, olandesi.
L'esplosione industriale si riversò in parte certamente minore, ma significativa, sulle altre regioni del Nord e in Toscana. Non investi neppure marginalmente il Mezzogiorno.
Ne risultò un ampliamento del dualismo tra le due grandi aree del paese. E nacque, dalla constatazione dell' apertura di questa forbice, la convinzione, in alcuni tra i primi "meridionalisti", come Nitti e Fortunato, che le fortune del Nord fossero dovute allo sfruttamento del Sud. Gli stessi autori di questa tesi hanno in seguito rinunciato a sostenerla. Com'è stato da più parti osservato e documentato, le evoluzioni economiche delle due aree, fino, si può dire, alla fine dell'ultima guerra, risultano largamente indipendenti. Cafagna, in particolare, ha sottolineato la loro «separatezza».
La verità è che il Nord, una volta annesso il Sud politicamente, ha proseguito per conto suo. Il Mezzogiorno non usufruiva dello stimolo fornito dalle più prossime zone industriali europee. Il suo progresso economico risultava quindi debole. Le sue strutture sociali irrigidite. Le condizioni sociali miserabili. Queste ultime emersero molto presto con grande evidenza di fronte al Parlamento italiano, che già nel 1875 disponeva la costituzione di una giunta d'inchiesta sulle condizioni sociali e sull' andamento dei pubblici servizi in Sicilia.
La miseria in Sicilia.
Da quella nacquero i due volumi di Leopoldo Franchetti e di Sidney Sonnino, l'Inchiesta in Sicilia, documentazione drammatica di un'arretratezza che veniva da lontano. Nel 1812 i governi napoleonici avevano decretato la fine degli ordinamenti feudali, che non erano stati ripristinati dopo la Restaurazione. Ma
[ ... ] quella che era stata fino allora potenza legale, rimase come potenza o prepotenza di fatto, e il contadino, dichiarato cittadino dalla legge, rimase servo e oppresso. Il latifondista restò sempre barone, e non soltanto di nome; e nel sentimento generale la posizione del proprietario di fronte al contadino restò quella del feudatario di fronte al vassallo.
Egli considerava ancora la proprietà come espressione inseparabile, quindi inalienabile, della sua dignità e della sua potenza. Anche i "galantuomini", la borghesia terriera subentrata in parte ai baroni, si erano rivestiti della loro supponenza. Nei riguardi dei contadini, in massima parte braccianti giornatari, non c'era la minima solidarietà. Erano «un puro strumento di guadagno», da sfruttare all'estremo. E questi, a loro volta, non vedevano nel proprietario che qualcuno inteso a «smungere i loro miseri guadagni». Non era povera la terra, ma i metodi con i quali la si coltivava. Essa non dava meno di otto semenze, più che in Toscana. Ma l'aratro non faceva che scalfirla malamente, con solchi della profondità di un palmo.
I contratti agricoli erano tali che, data la concorrenza reciproca dei contadini, il loro guadagno non superava lo stretto necessario per vivere. Quanto ai proventi del raccolto, non erano mai sufficienti a quadrare i conti, per cui bisognava ricorrere all'usura. Si chiamavano soccorsi e bisognava umiliarsi, invocandoli. Con l'odio nel cuore. L'usura rendeva impossibile ogni risparmio: il contadino siciliano era costantemente indebitato, verso il padrone o verso estranei. Quelli che per qual- che improbabile caso riuscivano a raggranellare un gruzzolo, non lo investivano certo nel fondo, che era detestato, come il lavoro. Lo usavano per imitare i loro aguzzini, per oziare e praticare l'usura. Anche gli amministratori delle Opere pie praticavano l'usura: 25% d'interesse per sette mesi.
Il contadino era tartassato in modo iniquo. Per le bestie che lui usava, muli e cavalli, pagava da 5 a 8 lire, mentre per bovi e vacche il gabellotto o il padrone non pagavano quasi niente. Nel 1874 l'imposta sulle bestie da tiro rendeva in Sicilia 589 557 lire, quella sul bestiame 146493. Le tasse comunali sul consumo gravavano sui contadini per IO 3 3 2 000 lire, a fronte di 2 857 I IO lire della sovrimposta sui terreni.
Qualcuno potrebbe stupirsi. Come mai - ci si domandava nell'inchiesta - di fronte a uno sfruttamento cosi feroce, tollerato, talvolta praticato, dalle organizzazioni cattoliche, dalla Chiesa stessa,
[ ... ] il contadino restava ciecamente attaccato alle superstizioni che si ornavano del nome di religione? [ ... ] È che il prete è la sola persona che si occupa di lui con parole di affetto e di carità; che almeno, se non lo aiuta, lo compiange quando soffre; che lo tratta come un uomo e gli parla di una giustizia avvenire per compensarlo delle ingiustizie presenti. Nel cuore religioso sta tutta la parte ideale della vita del contadino: all'infuori di quella non conosce che fatica, sudori e miseria. Alla festa religiosa egli deve la sua sola ricchezza: il riposo.
La moderna società laica, non sa che raccomandare a chi ha fame e a chi patisce, di studiare le opere degli economisti per impararvi che tutto quel che è doveva essere. Perciò la Chiesa dominerà sempre sulle masse; e la fede cieca stupida e superstiziosa prevarrà sulla fede scientifica mettendo sempre in forse ogni progresso della civiltà umana.
Non ci si può stupire se in questa condizione disperata, dopo che la repressione aveva schiacciato la risorsa estrema, il brigantaggio, le masse contadine del Mezzogiorno, non potendo lavorare con le mani, abbiano deciso di muoversi con i piedi.
La risposta del Sud: l'emigrazione.
Tra il 1901 e il 1923 emigrarono in America 4 71 1 000 italiani. Di questi, 3 374000 provenivano dal Mezzogiorno. L'emigrazione meridionale era passata dal 13 al 39% di quella italiana complessiva. Si trattava di gente povera e analfabeta. A differenza delle correnti migratorie provenienti dal Nord d'Italia, che si erano indirizzate prevalentemente verso l'America Latina, assumendo le caratteristiche di una vera e propria colonizzazione, quelle meridionali, costituite in massima parte da contadini, erano destinate ai ranghi del proletariato urbano. Si ammassavano nei "bastimenti" per terre assai lontane, in viaggi transoceanici molto meno costosi di quelli ferroviari diretti verso i paesi europei (P. Milza, Storia d)Italia).
Le inchieste condotte dalla Direzione della statistica sulle cause dell' emigrazione distinguono fra i partenti per miseria, assolutamente prevalenti fra gli emigranti del Sud, e quelli «per desiderio di miglior fortuna», prevalenti fra quelli delle regioni settentrionali. Pure, nella generale motivazione economica, le cause specifiche dell' emigrazione variano da regione a regione. In Abruzzo e nel Molise, l'indole ardita di pastori abituati da secoli alle transumanze, in Campania l'esasperazione per i patti angarici, i bassi salari, la malaria, le zone sterili della montagna: «se non fosse avvenuta l'emigrazione, - dice un contadino -, si sarebbe fatto a coltellate per vivere». In Puglia, la regione a minore intensità migratoria del Mezzogiorno, sono presenti artigiani, contadini affittuari, anche piccoli proprietari, che tendono tutti a tornare, dopo aver raggranellato il reddito necessario per campare meglio. La Basilicata dà il piti alto contributo relativo all' emigrazione: nel 1911 la popolazione si riduce del 3,58%. È soprattutto dalle zone montuose ad alta densità demografica e a basso rendimento agricolo, che provengono gli emigranti. Ci sono i suona tori ambulanti di Viggiano, che cantano: «l'arpa al collo son viggianese tutto il mondo è il mio paese». Ma il tono di un vecchio di Lagonegro è diverso: «qua non si può vivere. Il Signore non ci manda bene. I terreni sono arsi». E un altro: «qua è l'acerba montagna, gli uomini si stancano e la terra non dà niente. La gente va in America. Lasciateli andare». I calabresi, all'inizio, furono pio lenti a muoversi, erano pio diffidenti; ma poi cominciarono a partire in massa, a causa anche dei disastri che li colpivano: la fillossera, la mosca olearia, i terremoti. «Perché devo restar qui? - dice un giovane di Geracè Marina - qui ho due lire, in America 14. Sarebbe disonesto. - E i proprietari? - Sono mali». «Qui - dice un proprietario -, l'emigrazione è nata come un bisogno, è cresciuta come un desiderio, è diventata un morbo infettivo».
Egli esprime una preoccupazione che non manca di diffondersi, tra le classi possidenti e nel governo stesso.
L'emigrazione, ovviamente, comportava tremendi disagi, materiali e morali. Il dolore profondo del distacco, l'incognita dei rischi, i pericoli di una condizione indifesa, le minacce degli interessi stranieri offesi.
Questi innegabili costi furono invocati come motivi per contrastare, anzi per impedire l'emigrazione, ma la pietà c'entrava poco o niente. La reazione che fin dal primo momento suscitò il moto spontaneo dell' emigrazione fu determinata - e lo si dichiarò con aperta impudicizia dal governo e in Parlamento - dal fatto che essa «rompeva l'equilibrio esistente nel rapporto tra le classi agricole, provocando una diminuzione della massa di manodopera disponibile nelle campagne e, conseguentemente, un aumento dei salari e un mutamento del regime contrattuale, sfavorevole ai proprietari». Si evidenziavano anche gli aspetti psicosociali di quella «malaugurata febbre»: la svogliatezza del lavoro, l'irriverenza, l'insubordinazione, oltre al pericolo, per i proprietari, d'insolvenza dei debiti contratti nei loro confronti.
Di fatto, fin dal manifestarsi delle prime correnti migratorie, la posizione assunta dal governo fu sostanzialmente repressiva. Si tentò di contrastare l'attività degli agenti d'emigrazione, come se essi fossero i principali responsabili del fenomeno. E, con circolari, si invitarono i prefetti a impedire 1'emigrazione clandestina e a ostacolare quella lecita.
Ciononostante, la spinta era troppo forte perché si potesse pensare seriamente di contrastarla. Nell'opinione pubblica, il bracciante disperato e analfabeta «diventò l'eroe di una nuova e pacifica rivoluzione sociale». Diceva Franchetti, in Mezzogiorno e colonie:
[ ... ] mentre si scrivevano libri, si pronunciavano discorsi, si compilavano leggi per risolvere il problema del Mezzogiorno, i contadini meridionali ne iniziavano la soluzione da sé, silenziosamente. Andavano in America, a creare quei capitali che sono pur necessari per fecondare la terra del loro paese.
Diceva Nitti, come riporta Christopher Duggan, in La forza del destino:
Quel capitale circolante che la borghesia ha vanamente richiesto allo Stato mercè sgravi tributari, opere pubbliche, diffusione del credito, oggi lo va formando il popolo mercè i risparmi sugli alti salari guadagnati all'estero e inviati in patria.
Nel corso di poco più di un secolo, dal 1861 all'inizio degli anni Settanta del Novecento, circa ventisette milioni di italiani si sono trasferiti all'estero: più di quelli (venticinque milioni) che hanno cambiato residenza all'interno del paese. Il flusso più forte si è gonfiato tra il 186 I e il 19 I 3, quando da una media di duecento mila l'anno nei due primi decenni, si è passati a trecento mila alla fine del secolo, raggiungendo seicentomila nel 1910, e il picco di ottocentosettantaduemila nel 1913, prima dell'interruzione dovuta alla guerra.
Poi l'emigrazione si è spostata verso l'Europa, soprattutto la Francia. Poi ancora, ostacolata negli anni del fascismo, che scoraggia ogni perdita demografica, si riduce negli anni Trenta a settantamila unità annue, per interrompersi nuovamente negli anni di guerra. In quegli anni, i movimenti di popolazione si svolgono all'interno del paese. Anche li sono ostacolati, ma procedono illegalmente, nella direzione campagnacittà. Specie verso Roma e Milano, tra il 1923 e il 1939 si spostarono in Italia diciotto milioni di persone, più di un milione all'anno, in gran parte all'interno della stessa regione.
L'emigrazione riprende impetuosamente nel secondo dopoguerra, con il paese allo stremo e in condizioni di disoccupazione massiccia. La direzione prevalente non è più l'America del Nord, ma i paesi dell' America Latina, e quelli europei bisognosi di manodopera: Francia, Belgio, Svizzera e Germania occidentale. Nel periodo 1945-50 si contano in media 226000 emigranti all'anno, che nel decennio successivo salgono a poco meno di 300 000. Ma aumentano anche i rimpatri, 132000. Sono i lavoratori italiani che in quegli anni viaggiano per le strade d'Europa. E cominciano a incrociare gli italiani turisti. Il napoletano Troisi, in vacanza, fatica a spiegare di non essere un emigrante.
Si gonfia, negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, il flusso dell'emigrazione interna, tutta rivolta dal Sud al Nord, prevalentemente verso il triangolo industriale: circa cinque milioni di italiani nei due decenni. Nel 1971 la quota d'italiani che risiede in un Comune diverso da quello di nascita supera abbondantemente il 50% .
A poco a poco, il flusso con l'estero s'inverte. L'Italia diventa meta di una corrente d'immigranti extraeuropei. Il Veneto, dimentico di essere stato fino a ieri regione tipica di emigrazione riceve, non sempre di buon umore, un flusso consistente d'immigrati.
Intanto, natalità e mortalità calano. Il paese, rapidamente e mestamente, invecchia. Nelle chiacchiere da treno non si sente più la battuta convenzionale: «siamo in troppi». Non ci sono più madri prolifiche che sfilano "di profilo" di fronte al duce.
Può sembrare inverosimile, ma oggi, in Italia, un ragazzo su tre non ha mai sentito parlare di emigrazione. Secondo un'indagine condotta su 890 giovani tra i r6 e i 24 anni, il32% degli intervistati non sa niente dell'emigrazione italiana. Il 37% che ne sa qualche cosa lo deve alla Tv. Il 22 % ne ha sentito parlare da parenti. Il 9% soltanto, a scuola.
Tra quelli che ne sanno qualche cosa, poi, i più credono che la causa dell'emigrazione sia stata la guerra, o il turismo. Qualcuno pensa che sia stata l'apertura delle frontiere del calcio.
La risposta del Sud: la burocrazia.
La seconda risposta del Mezzogiorno all"'abbandono" fu la sua occupazione dello Stato nel solo modo che gli era possibile: l'invasione burocratica.
Gli uomini della sinistra, giunti al governo, erano in larga parte meridionali. Per la borghesia meridionale costituivano una garanzia non soltanto dei suoi interessi agrari, ma di una consistente partecipazione alle commesse statali collegate ai lavori pubblici. La loro presenza a Roma, nel governo e nel Parlamento, apriva inoltre le porte dell' amministrazione centrale alla vasta disoccupazione degli intellettuali meridionali. In pochi anni, si compi una vera ricomposizione della burocrazia statale. Una burocrazia sempre più numerosa fu largamente meridionalizzata. Il risultato fu un crescente distacco dell' amministrazione dal cuore dell'industria, che si sviluppava soprattutto al Nord, e l'espansione di una burocrazia che era dotata di una prevalente formazione giuridica, ma mancava totalmente di esperienze economiche e industriali. Economia e amministrazione finirono per costituirsi in due mondi separati. La distanza psicologica tra Roma e Milano, tra la capitale politica e quella industriale, rappresentò un grave handicap di rappresentanza e di efficienza rispetto agli altri paesi europei dotati di una grande capitale, espressione sintetica delle esperienze e delle competenze nazionali.
Questa meridionalizzazione burocratica ha aggravato il dualismo italiano. Da una parte, ha generato un fatale di sinteresse politico nel Nord. Dall'altra, ha indebolito nel Sud il rapporto fra lo Stato e la società, aprendo un pericoloso vuoto, che è stato riempito da organizzazioni intermedie e spesso criminose.
Tra queste si distingue la mafia, anzi, le mafie, centri di potere ramificati in buona parte del territorio meridionale e collegati con grandi reti criminose internazionali. È la terza risposta del Sud all'abbandono.
La risposta del Sud: la mafia.
La mafia è una realtà. Ma è anche un mito. Come tutti i miti, si nutre a un tempo di menzogne e di verità, in un groviglio inestricabile. Qui c'interessa non il suo mito storico, consegnato a una sterminata letteratura, narrativa e cinematografica, ma quel breve lasso di tempo che associa la mafia con la storia dell'Italia al momento dell'unificazione.
È proprio in quel tempo che le due storie s'incrociano. Ambedue, ai loro primi passi. La mafia, come fenomeno storicamente rilevante, non è infatti vicenda remota. È inutile disturbare Verre e Cicerone, nell' antichità, e gli Arabi, dai quali deriverebbe il suo nome, che starebbe per «protezione dei poveri», né i Vespri siciliani, epica della sicilitudine. Nel suo Saggio sulla pubblica sicurezza in Sicilia, che costituisce la prima fredda indagine conoscitiva di cui disponiamo, Nicolò Turrisi Colonna barone di Buonvicino, di cui non sappiamo bene se fosse solo una vittima o anche un affiliato alla mafia, ne fa risalire l'origine a una ventina d'anni prima, e quindi all'epoca del Risorgimento caldo, nel quale in qualche modo sarebbe stata coinvolta. Nel confuso contesto dell'Italia preunitaria, la mafia sarebbe nata come una delle tante società segrete costituite sul modello francese e carbonaro: quindi, decisamente antiborbonica (lo stesso barone Turrisi era stato uno dei Mille, sbarcato a Marsala per liberare l'isola).
Rapidamente, la nuova formazione sociale aveva abbandonato le suggestioni idealistiche per aderire alla scabra superficie di quella società nella quale nessuno può sopravvivere, se non a scapito degli altri. Si era trasformata in una setta armata, provvista di tutti i rituali e i cerimoniali di una setta. Turrisi li aveva descritti, dunque li conosceva. E li tradiva, a suo rischio e pericolo. Aveva parlato del suo codice d'onore, delle sue formule d'iniziazione, e soprattutto del suo rigidissimo silenzio: di quella legge dell'omertà (in siciliano umirtà, in italiano «umiltà») che, a infrangerla, si andava a morte certa. «Questa setta diabolica - aveva spiegato - considera ogni cittadino che si avvicina a un carabiniere e scambia con lui due o tre parole come uno scellerato che merita la pena di morte». Aveva rivelato il rito dell'iniziazione. Il candidato è condotto con gli occhi chiusi in un luogo segreto, dove gli viene punto il dito con una spilla, e il suo sangue viene fatto colare sull'immagine di un santino. Egli deve allora giurare fedeltà alla famiglia, mentre l'immagine del santo è bruciata e le ceneri vengono disperse, allo stesso modo in cui ci si libera di un traditore. Al nuovo accolito viene insegnato come si riconosce un suo pari incontrato casualmente. Si deve fingere di avere male ai denti. Il dialogo si svolge pressappoco cosi. «Per il sangue di Cristo, mi fa male un dente», dice uno. «Anche a me», risponde l'altro. E prosegue poi con frasi del tipo: «Quando ha cominciato a farti male? Dove ti trovavi? », eccetera. Cosi ci si riconosce e ci s'intende. Viene da ridere.
Ma non c'è niente da ridere. Ogni rito esige che ci si sottoponga a una prova di umiliazione, appunto, di omertà. Tutto sta nell' animus di chi lo affronta. C'è chi pensa al supremo rischio della morte e chi alla presidenza di un ente pubblico.
Ciò che conta, in definitiva, è la funzione sociale che la mafia si assegnava. E qui c'è stato un grosso fraintendimento. Molti hanno pensato che riti cosi grottescamente arcaici sottintendessero la rivalutazione d'istituzioni, di relazioni, di comportamenti sociali altrettanto arcaici: che la mafia fosse rivolta a un passato feudale da ripristinare. Non era e non è cosi. La mafia nasce, nell' età moderna, contemporaneamente allo sviluppo del capitalismo, e ne assume in pieno la logica suprema dell' accumulazione. Il suo "specifico" è che pone al servizio di quel fine autenticamente moderno metodi di una società primordiale e violenta. Ed è proprio questa la ragione del suo successo: inserire nel mercato e nel contratto la forza della sopraffazione. Mettere al servizio del profitto la paura e la violenza. In questo senso si coglie il significato di una definizione che le si addice particolarmente: l'industria della violenza. Altro che doux commerce!
Chi ha inteso la mafia come un rigurgito, una resurrezione d'istituzioni e relazioni "feudalistiche" si è sonoramente sbagliato. Lo sviluppo industriale che, secondo quell'interpretazione, avrebbe dovuto travolgerla è stato il suo brodo nutriente.
È proprio negli anni di cui ci stiamo occupando, dell'ultimo scorcio del XIX secolo, che si compie in Sicilia quella che potremmo definire una rivoluzione capitalistica mafiosa. Le pendici incantevoli della Conca d'Oro di Palermo, quella «wo die Citronen bluen», dove fioriscono i limoni, e anche gli aranci e i cedri e i bergamotti, tutti introdotti all'inizio del secondo millennio dagli Arabi, hanno visto fiorire proprio in quel tempo il capitalismo mafioso. La produzione intensiva di agrumi era alimentata da un'eccezionale domanda inglese e americana. La marina britannica utilizzava i limoni per combattere lo scorbuto. Dal r840 erano arrivati nei frutteti di Palermo anche i produttori di tè, avidi di quell'olio di bergamotto che è essenziale per dare aroma alla famosa miscela Earl Grey. I proprietari di quei frutteti erano stati soverchiati dalla domanda di migliaia di casse destinate ai porti di Londra o di New York. Ma non furono essi a beneficiarne. Tra loro e i consumatori si era inserita una nuova classe, quella dei gabellotti. I gabellotti avevano cominciato spesso come sorveglianti e custodi di tutta la complessa rete d'intermediari che dovevano assicurare il difficile svolgimento delle fasi della coltivazione, la manutenzione e la raccolta di questa produzione specializzata e delicatissima: campieri, curatoli, fontanieri. L'interesse dei gabellotti consisteva, ovviamente, nel comprare al prezzo più basso possibile dai proprietari, per vendere al più alto agli importatori. Si valevano per questo delle pressioni più persuasive, la minaccia e la violenza, nei riguardi dei proprietari e degli intermediari subalterni, per imporre le loro condizioni e i loro prezzi. A questo scopo si servivano delle cosche mafiose, delle quali non di rado facevano parte. Non erano pochi i "signori" che finivano per cedere le loro proprietà ai gabellotti, che diventavano cosi una nuova classe, una borghesia mafiosa. Non era sempre possibile stabilire chi, in questo rapporto, stesse sopra e chi sotto. I gabellotti avevano bisogno dei mafiosi, e viceversa.
Ciò che è certo è che, in Sicilia e nelle altre zone del Mezzogiorno, dove attecchirono in tempi diversi organizzazioni di tipo mafioso, come la camorra in Campania, la J ndrangheta in Calabria, la Sacra corona unita in Puglia, lo Stato centrale perse la sua prerogativa essenziale: il monopolio della forza.
Esso fini, nelle zone nelle quali non era più monopolista, a venire a patti con i poteri rivali. Talvolta, le frequenti forme di collusione e corruzione di esponenti del potere politico - deputati, magistrati, poliziotti - trascendono il malcostume privato, rivelando una vera e propria "redistribuzione" del potere, tra pubblico e privato.
Questa condizione, della quale abbiamo purtroppo esperienza recente e presente, si è manifestata già subito dopo l'unificazione, come uno degli episodi più drammatici dell'infiltrazione della mafia nello Stato dimostra: il caso Notarbartolo. Come vicenda esemplare dell'intreccio tra mafia e potere politico, abbiamo voluto evocarla rapidamente in un "riquadro". Un esempio, purtroppo, non un caso isolato.
Ingiustizia è fatta: il caso Notarbartolo.
Il I° febbraio 1893, Emanuele N otarbartolo marchese di San Giovanni, viene massacrato in treno, fra Termini Imerese e Trabia, da due sicari con ventisette pugnalate, e quindi gettato fuori, sui binari. Era un grande gentiluomo, personaggio illustre della destra storica, per tre anni sindaco di Palermo, e per altri quattordici direttore del Banco di Sicilia. Ex garibaldino, godeva di una generale considerazione per la sua integrità morale e la sua competenza, che tuttavia gli erano valse l'ostilità di affaristi e mafiosi di alto livello. Furono subito accusati il conduttore e il capotreno come complici di assassini ignoti. Ma presto i carabinieri individuarono uno dei due assassini, Giuseppe Fontana, uomo di fiducia di illustri esponenti dell' alta società palermitana, tra i quali il principe di Scalea, e don Raffaele Palizzolo, autorevolissimo e influente parlamentare, detto «u Cignu». Il Fontana fu accusato come esecutore materiale, e il Palizzolo come mandante. Era la prima volta che un personaggio eccellente veniva coinvolto in un delitto di mafia. Ne segui una vicenda giudiziaria durata dieci anni (in seguito ricordata dal bel romanzo di Sebastiano Vassalli, Il Cigno), attraverso quattro successivi processi, a Palermo a Milano a Bologna e a Firenze, che rivelò i profondi legami delle istituzioni dello Stato - magistratura, amministrazione, polizia, finanza - con la rete mafiosa e con i poteri economici.
I processi, portati avanti soprattutto dal figlio della vittima, Leopoldo Notarbartolo, con tenace e coraggiosa determinazione, furono ritardati, ostacolati, invischiati con ogni mezzo, a partire dalle eccezioni formali, che servivano, allora come oggi, per fare passare il tempo, da parte di giudici e di procuratori. L'indagine dell'ispettore Di Blasi durò sei anni. Il processo di Bologna condannò Palizzolo a trent' anni, ma fu invalidato dalla Corte di cassazione per vizio di forma, e rinviato a Firenze. Le istanze presentate dalla parte civile - il figlio della vittima - ai ministri e ai presidenti del Consiglio, due siciliani, Crispi e Di Rudini, furono ignorate, cosi come le testimonianze dei carabinieri, per esempio quelle di un brindisi svoltosi nella tenuta di Palizzolo, a Villabate, per celebrare l'uccisione di Notarbartolo, con la partecipazione del Fontana; mentre quelle dei nobiluomini erano prontamente accolte. Per molto tempo don Raffaele, il maggiore sospettato, non fu né interrogato né iscritto nel registro degli indagati: come se non esistesse. Quando finalmente fu trascinato in giudizio, ebbe l'impudenza di affermare che tra lui e la vittima c'erano ottimi rapporti, quando tutto il mondo era al corrente dei loro contrasti sull'amministrazione del Banco di Sicilia, e delle accuse mosse a don Raffaele da Notarbartolo, di essersi intascato il denaro pubblico destinato ai poveri, denaro che era stato obbligato a restituire fino all'ultima lira. Uno degli ispettori di Palermo accusa pubblicamente Di Elasi, il ritardatario, notoriamente creatura di Palizzolo, di avere occultato le prove e di aver spinto le indagini su una falsa pista. Il ministro della Guerra, Giuseppe Mirri, essendo stato capo della pubblica sicurezza di Palermo all' epoca dei fatti, si presentò al processo, e accusò pubblicamente la magistratura cittadina «del più grande lassismo ... o addirittura di connivenza». Si capisce che don Raffaele, appena arrestato, abbia dichiarato di avere piena fiducia nella giustizia! Il Procuratore capo di Palermo, il napoletano Vincenzo Cosenza, non esitò a scrivere al ministro dell'Interno che, nei suoi lunghi anni di servizio, «non aveva mai sentito parlare della mafia».
Attorno ai processi del caso Notarbartolo monta l'onda del negativismo più sfacciato e del patriottismo siciliano offeso. Decine di notabili si succedono alla sbarra per difendere il pregiudicato Antonio Giammona dalle accuse che gli sono rivolte. Il padre della bambina Audrey Withaker, per il sequestro della quale i Withaker, una delle più ricche famiglie siciliane, avevano dovuto sborsare una somma favolosa, nega addirittura che la figlia sia stata sequestrata. Si fonda a Palermo una società che ha per scopo di rivendicare l'onore della Sicilia.
La migliore difesa è il diniego. La mafia non esiste. Questa è la convinzione, talvolta espressa in buona fede, da parte di siciliani per bene, com'è il caso del medico e studioso di tradizioni popolari Giuseppe Pitrè.
Meno candida è la difesa praticata dai potenti economici dell'isola, come la famiglia Florio. I Florio sono i principali azionisti della più importante compagnia navale italiana, la Navigazione Generale Italiana. Fanno di tutto perché Palizzolo non sia processato. Quando finalmente il Parlamento vota la sua decadenza, sostengono la sua candidatura alle elezioni del giugno 1900, in modo che egli possa recuperare l'immunità parlamentare. Il sostegno della Florio è una difesa formidabile. Ignazio Florio junior è un personaggio stravagante, che si è fatto tatuare sull' avambraccio la sagoma di una donna giapponese, si veste solo a Londra e ha sposato una delle donne più eleganti d'Europa, FrancaJona di San Giuliano: occhi verdi, pelle dorata, musa dannunziana, e, pare, una delle prime adepte della chirurgia estetica. In primavera, Palermo è la meta della nobiltà europea. I Florio la ospitano nella loro incantevole villa posta all'interno del parco dell'Olivuzza, nei giardini della Conca d'Oro. Re e principi, miliardari di tutto il mondo vi si ritrovano. Nel 1901 i Florio sono invitati ai funerali della regina Vittoria, insieme ai Withaker. Non però i loro amici Palizzolo e Giammona; o i loro scherani Fontana e Filippello. Quest'ultimo è il secondo dei massacratori del povero Notarbartolo, scovato proprio verso la fine dell'ultimo processo dai carabinieri. Per un momento, sembra che la difesa di Palizzolo stia per crollare. Ma la macchina della mafia non si fa sorprendere. Una mattina trovano Filippello che pende da una forca. Sentenza immediata: suicidio.
Alla fine, la vicenda Notarbartolo si chiude. Il 23 luglio 1904 i giudici di Firenze assolvono lui e il suo complice Fontana, l'unico dei due assassini che è ancora in vita. A Palermo si celebra un trionfo. Viene addirittura rimandata la festa del Carmine perché Palizzolo, il nuovo eroe, abbia il tempo di tornare per partecipare alle celebrazioni. Al suo rientro trova la casa illuminata e inghirlandata, con scritte «viva Palizzolo». Un'altra scritta dice: «E trionfò, Raffaele Palizzolo, circonfuso della smagliante aureola del suo dolore e della sua virtù». Il giovane Notarbartolo trovò pochi amici a riceverlo. Aveva combattuto con ostinazione e con coraggio. Per pagare gli enormi costi del processo dovette vendere la tenuta-modello trasmessagli dal padre, la Mendolilla. Lui, si, era un uomo d'onore.
Il Mezzogiorno si allontana.
Le "risposte" che abbiamo rapidamente esaminato non erano valse a ridurre il dualismo, avevano, anzi, contribuito ad accentuarlo. Nei decenni successivi all'unificazione, il paese lungo si allungò.
Le condizioni che determinano il ristagno economico sono cumulative, come quelle che promuovono lo sviluppo. Si tratta di avvitamenti reciproci di fattori che generano una condizione bloccata.
È cosi che si presenta il Mezzogiorno alla fine del secolo scorso, in un vivido ritratto di Ettore Ciccotti (contenuto nel saggio di Rosario Villari, Il Sud nella storia d'Italia), dal quale emergono gli aspetti caratteristici di una società irrigidita.
La scarsità di zone irrigue, a causa delle lunghe secche, interrotte da piene devastanti. L'ipertrofia delle grandi città: poche e congestionate. L'inerte struttura del latifondo
[ ... ] che non solo perdura ma si fa più triste, più desolato; deserto degli stessi animali che lo brucavano, di quelli stessi animali umani che lo raspavano. Come in una rogna malvagia crescono e si spandono su di esso le ortiche e i cardi e il mostro, torpido come un idiota, inerte come un paralitico, si crogiola al sole aspettando qualche cosa che lo snodi, che lo faccia rinverdire e fiorire di orti, di piante.
L'assenza di stimoli alla conoscenza e quindi alla intrapresa e quindi alla mancanza di nuove imprese e quindi il dirottamento dei risparmi verso l'usura e la speculazione, che inclina al parassitismo scoraggiando la conoscenza e l'azione e quindi [ ... ] l'assenza di cooperazione che isola gli uomini gli uni dagli altri come i loro borghi rifugiatisi sulle cime dei monti, divisi da torrenti non guadabili. E l'estensione delle zone malariche che rende gli uomini torpidi alla bonifica.
Ciò che è misterioso è il perché certe difficoltà che in certi tempi e luoghi agiscono come sfide, provocando una risposta vitale, in certi altri si stratificano, determinando una condizione irreversibile.
Il quadro che il Mezzogiorno presenta alla fine dell' Ottocento è quello di una zona che ha superato la soglia del ristagno. Ed è quasi sorprendente che l'autore concluda con una nota di speranza:
[ ... ] i bei seni lunati del mare sereno, gli aranceti, gli aridi declivi che, quasi esempio e rampogna, si andavano in qualche punto coprendo di ulivi, mi riconciliarono con propositi più lieti e mi dicevano che la natura non può aver fatto un paradiso perché gli uomini vi mantengano un inferno.
Quella speranza di riscatto non fu assente dalla consapevolezza dei politici contemporanei, e ispirò due tipi ben diversi di politiche dirette ad affrontare il problema dell' arretratezza meridionale: la prima, economica e pacifica, la seconda, politica e aggressiva. L'Italia liberale esitò fra queste due strategie: quella delle cosiddette leggi speciali e quella delle conquiste coloniali.
Tra il 1904 e il 1906 furono emanate successivamente leggi per la Basilicata, per Napoli e per la Calabria. Esse stanziavano fondi, per l'epoca rilevanti: e forse non meritavano le severe critiche, ricorrenti nella polemica politica italiana, alla sempiterna insegna del «ci vuoI altro». Su un punto quelle critiche coglievano il segno: come alcuni autori (Fortunato, De Viti De Marco) rilevarono, era manifesta la "specialità" di quelle leggi, anzi la loro contraddittorietà, rispetto agli indirizzi generali della politica economica, specie in materia fiscale e doganale, orientate in senso contrario rispetto agli interessi del Sud.
Un approccio tutt'affatto diverso era quello che proponeva, per un Mezzogiorno «sovrapopolato», la prospettiva della colonizzazione: come poi si disse, <<un posto al sole».
Conosciamo gli esiti infausti di questa strategia. L'avventura cominciata con la strage di Dogali, finita con il disastro di Adua, travolse il governo Crispi. La stessa avventura fu ripresa da Giolitti piu di dieci anni dopo, con la conquista libica, questa volta andata a segno militarmente, ma economicamente in netto passivo. Fu fin dall'inizio manifesto quanto fossero fondate le critiche alla rappresentazione bugiarda della ricchezza e della fertilità dello «scatolone di sabbia», e quale costo derivasse proprio al Mezzogiorno da quella sconsiderata avventura.
Come vedremo nel prossimo capitolo, la soluzione "imperialistica" al problema meridionale fu ripresa in grande stile, e con esiti ancora più catastrofici, dal fascismo; e nel capitolo successivo ci occuperemo del modo in cui la Repubblica fronteggiò il problema, con la strategia dell'intervento straordinario; e delle ragioni per le quali questa grande strategia di sviluppo si è degradata in un regime di "colonizzazione interna".
Parte terza
L’UNITA’ MINACCIATA
Capitolo primo
NAZIONALISMO E FASCISMO
Potremmo definire la storia dell'Europa nella prima metà dell'Ottocento come l' «età britannica». In quel periodo il capitalismo ha investito solo la Gran Bretagna, oltre a certe zone circoscritte dell'Europa continentale e dell' America del Nord. L'Inghilterra dominava nettamente l'economia mondiale. Il quadro cambia in profondità nella seconda parte del secolo. Da un lato, il ritmo generale dell'economia rallenta. La crisi agricola apre una lunga fase di depressione mondiale dei prezzi e della produzione, che durerà fino alla fine del secolo. Dall' altro, il capitalismo si estende a tutto lo spazio europeo, nonché agli Stati Uniti e al Giappone, in una prima globalizzazione caratterizzata da mutamenti strutturali: l'avvento di un nuovo ciclo d'innovazioni tecnologiche (chimica, elettricità, petrolio), rispetto al ciclo precedente del carbone e del ferro; l'aumento delle dimensioni e della complessità delle imprese; l'integrazione fra industrie e banche e lo sviluppo di un capitalismo finanziario; il ruolo di protezione e promozione del capitalismo nazionale assunto dagli Stati, con il conseguente emergere delle grandi potenze; un riequilibrio tra le potenze originarie, Inghilterra e Francia, e le più recenti, Germania e Stati Uniti; una nuova ondata di colonizzazione, con una vera e propria spartizione del mondo fra le grandi potenze europee; l'affermazione del movimento operaio.
Trionfo della borghesia, imperialismo. Le due definizioni di questa nuova fase si riferiscono, rispettivamente, alla sua struttura sociale e a quella economico-politica. Nell'insieme essa segna in Europa un' attenuazione del conflitto sociale e un inasprimento del conflitto nazionale.
Il movimento operaio si afferma e si organizza dappertutto nelle forme economiche del sindacato e in quelle politiche del partito. Prevalgono al suo interno, sulle spinte rivoluzionarie, le politiche riformiste. Ciò si deve alla maturazione istituzionale del movimento, che diventa capace di esprimere le sue rivendicazioni non in promesse remote, ma in riforme concrete; e alla capacità di un capitalismo sviluppato di offrire spazio alle richieste operaie attraverso riforme sociali, per quanto ancora limitate, grazie all' aumento della produttività: ciò che Marx non aveva previsto. Questa via fu seguita con particolare lungimiranza dalla Germania, ove Bismarck realizzò una forma antesignana di Stato sociale (Wohlfahrtstaat), introducendo assicurazioni contro la vecchiaia e !'invalidità. In Francia e in Inghilterra si preferi ricorrere alle risorse dello sfruttamento coloniale, coinvolgendovi in varie forme i lavoratori della madrepatria.
Né la prima né la seconda di queste strategie era disponibile in Italia: troppo limitato, ancora, lo sviluppo capitalistico, troppo esigue le economie di colonie povere che, anziché provvedere, esigevano risorse necessarie alla loro difesa.
Lo sfortunato ritardatario.
«Apparentemente, l'avvento di una nazione italiana unita aveva introdotto un grande cambiamento nell' equilibrio europeo», come scrive Paul Kennedy in Ascesa e declino delle grandi potenze. Invece di un'accozzaglia di piccoli Stati rivali, vi era ora un blocco di trenta milioni di persone, poco meno dei Francesi. Esercito e marina italiani, messi alla prova, non avevano certo brillato. Ma per numero il primo, per tonnellaggio la seconda, costituivano entità ragguardevoli: rispettivamente al sesto e al quinto posto della graduatoria mondiale. Diplomaticamente l'Italia, del resto, era riconosciuta come paese nella cui capitale bisognava mantenere un' ambasciata permanente, come nelle altre sei: Londra, Parigi, Berlino, Pietroburgo, Vienna e Costantinopoli. Era dunque una potenza, anche se non delle più affidabili. Conveniva, comunque, non averla contro.
Soffriva, però, di gravi ritardi. Alla sua grande storia letteraria non corrispondeva un livello d'istruzione popolare soddisfacente: per poco meno della metà, gli italiani erano analfabeti. E da questo punto di vista, come da tutti gli altri significativi del suo livello civile, il suo Mezzogiorno restava molto più indietro.
In particolare, per quanto riguarda l'economia, la produzione e la ricchezza nazionale pro capite erano paragonabili più alle società contadine iberiche e a quelle dell'Est europeo, che all'Olanda o alla Westfalia (Kennedy). Il confronto sarebbe stato molto più sfavorevole se centinaia di migliaia di italiani (di solito i più attivi e abili) non fossero ogni anno emigrati dall' altra parte dell' Atlantico. Secondo la definizione data da un economista, l'Italia era «uno sfortunato ritardatario». È vero che, come abbiamo visto, nel quindicennio giolittiano l'economia italiana aveva compiuto grandi passi avanti. Ma il livello da cui era partita era talmente basso, da rendere comparativamente modesti i risultati. Tanto per fare un esempio, la sua produzione siderurgica, ancora nel 19 I 3, era un ottavo di quella britannica, e un diciassettesimo di quella tedesca. Il suo contributo alla produzione industriale mondiale era pari al 2,4%. Inghilterra e Germania la superavano di sei volte, gli Stati Uniti di tredici.
In tali condizioni l'Italia non disponeva di grandi margini da offrire ai bisogni estremi dei suoi operai e dei suoi contadini. La sua arretratezza acuiva, pertanto, il conflitto sociale. Lo rendeva aspro ed elementare. Sia al Sud che al Nord.
I Fasci siciliani.
In Sicilia, le condizioni economiche dei contadini provocarono, negli anni Novanta, un'esplosione. Il movimento dei Fasci siciliani, tuttavia, assunse forme molto diverse da quelle del brigantaggio degli anni Settanta. Esso fu, sin dall'inizio, l'espressione di un' aperta e moderna opposizione sociale e politica.
Abbiamo ricordato le condizioni miserabili degli operai e dei contadini al momento dell'unificazione. Negli anni Novanta, esplosero in veri e propri movimenti rivoluzionari, in Lunigiana, in Romagna, e soprattutto in Sicilia.
Dall'unificazione in poi, le condizioni economiche dei contadini siciliani erano peggiorate, anche rispetto al resto del Mezzogiorno. La storia dell'isola ha ritmi e caratteristiche particolari, diversi da quelli continentali. Cosi avvenne per quella che abbiamo definito la guerra di repressione, che infuriò con particolare violenza nel Mezzogiorno continentale, e con intensità minore nell'isola. Ai diversi tempi e modi di reazione della Sicilia ha contribuito probabilmente la storica ostilità verso Napoli e il suo regno, che escludeva le nostalgie legittimiste che erano invece legate al movimento del brigantaggio. I contadini siciliani, al contrario, avevano accolto l'irruzione garibaldina con grandi speranze, immediatamente e amaramente deluse. La delusione non si era, però, tradotta in forme socialmente arretrate e politicamente reazionarie.
Il peggioramento della condizione contadina era dovuto, in Sicilia, alla prevalenza delle proprietà latifondiste. I latifondi non erano stati intaccati dalle leggi murattiane di eversione della feudalità. Quelle avevano abolito forme e vincoli giuridicamente vetusti, ma non avevano intaccato le strutture economiche e sociali. Non c'era stata alcuna redistribuzione di terre, e nessuna formazione di una nuova classe di piccoli proprietari di estrazione contadina. C'era stata una ristrutturazione della classe dominante. Molti grandi proprietari di origine feudale avevano da tempo cessato di occuparsi direttamente delle loro terre, affidandole a intermediari, che pagavano ai proprietari assenteisti una gabella, una specie di fitto: di qui il nome di «gabellotti». A loro volta, i gabellotti non lavoravano la terra direttamente, ma l'affidavano ai contadini, quelli che lavoravano e sfacchinavano sul serio, in base a un rapporto contrattuale di mezzadria (si chiamava in Sicilia mesenteria) o di affitto (si chiamava testatico). Questi patti agrari erano quasi sempre verbali, e si può capire quanto pesassero su di essi i concreti rapporti di forza tra i gabellotti "galantuomini" e i contadini: braccianti, affittuari, mezzadri. Una particolarità specifica della Sicilia -lo abbiamo visto nel capitolo precedente - era che, sia la determinazione delle gabelle, che quella dei patti agrari, erano sottoposte al controllo di una consorteria, la mafia, che traeva lucro dalle due parti, e le "garantiva", usando le intimidazioni e la violenza. In altri termini, in Sicilia, la mafia svolgeva le funzioni che sono normalmente svolte dal mercato e dallo Stato.
Tale sistema gravava tutto sulle spalle del contadino, che era sottoposto a tre tipi di rendita: quella del proprietario, quella del gabellotto, e quella del mafioso.
A questo sistema di sopraffazione privata si sommava il peso pubblico delle tasse, che i piemontesi avevano notevolmente aggravato, e quello della coscrizione obbligatoria che la Sicilia, storicamente, non aveva mai conosciuto.
Infine, proprio in quegli anni, l'agricoltura era stata colpita dalla crisi internazionale, aggravata in Italia dall'adozione della tariffa protezionistica, e dalle conseguenze della guerra commerciale con la Francia, particolarmente disastrose nell'isola per le esportazioni dei vini da taglio.
Ce n'era abbastanza per accumulare un enorme potenziale di rabbia disperata. Queste tensioni esistevano anche in altre regioni d'Italia: la Romagna, la Lunigiana, dove esplosero negli anni Novanta, in una serie di rivolte violente e sanguinose. Ma in Sicilia assunsero aspetti di particolare estensione e intensità, non come manifestazioni sporadiche, ma come componenti di un grande movimento di massa: quello dei Fasci siciliani.
Non fu però nelle campagne, ma nelle città, che si formarono i primi Fasci, organizzazioni collettive militanti: a Messina, a Catania, poi a Palermo. Essi assunsero subito connotati apertamente politici. Erano formati da operai e intellettuali che professavano esplicitamente idee socialiste. Ma la loro caratteristica specifica, rispetto al socialismo nordico, era la loro attenzione e solidarietà verso i problemi del mondo contadino: lo stato miserevole dei braccianti, lo sfruttamento dei gabellotti, la prepotenza mafiosa. All'inizio, il movimento fu guidato e controllato da militanti socialisti, che l'organizzarono nel quadro del nuovo Partito dei lavoratori italiani, quello fondato a Genova, nel r892, come Partito socialista, e al quale i rappresentanti dei Fasci siciliani inviarono i loro delegati.
Cominciarono agitazioni, manifestazioni, scioperi contro il carovita, che presto si trasmisero dalle città alle campagne. Un momento di svolta fu la strage di Caltavaturo. Alla sua origine vi era il mancato indennizzo dei contadini per la perdita degli usi civici (comuni) nel latifondo del duca di Ferrandina (seimila ettari). Il padrone si era deciso a concedere al Comune una parte delle sue terre, a compenso degli usi civici di cui si era appropriato. Gli amministratori, invece di ripartire queste terre fra i contadini espropriati, li concessero in "gabella" a dei prestanome di galantuomini. Cinquecento contadini, indignati per quest'usurpazione, all'alba del 20 gennaio r893, occuparono alcune terre di proprietà comunale, e cominciarono a lavorarle: uno sciopero bianco. Mentre stavano zappando, sopraggiunsero i soldati, e i contadini tornarono al paese a manifestare sotto il municipio, chiedendo di parlare con il sindaco, che però si rese irreperibile. Tornarono allora a rioccupare le terre, ma trovarono di nuovo la strada sbarrata dalle truppe. D'un tratto, senza alcun preavviso (squilli di tromba o altro), si rovesciò sulla folla una scarica di fucileria, che uccise undici uomini e ne feri quaranta. La notizia percorse tutta l'isola, provocando dappertutto la formazione di nuovi Fasci. In un anno ne nacquero novanta, alcuni dei quali molto numerosi e, fatto davvero eccezionale, con una larga partecipazione femminile: a Piana dei Greci, per esempio, duemilacinquecento uomini e mille donne. Esprimevano le loro rivendicazioni con grandi manifestazioni pubbliche, ma in forma pacifica. Chiedevano aumenti dei miseri salari per i braccianti, la divisione dei beni demaniali, l' affitto diretto, con l'eliminazione dei gabellotti.
Nel r894, secondo i socialisti che dappertutto avevano assunto un ruolo protagonista del movimento, i «fascianti» (si chiamavano cosi) avevano raggiunto le 300000 persone. Il governo, invece, aveva stimato in 70553 gli iscritti ai Fasci, uomini e donne. Gli scioperi si estesero, e con essi l'allarme nelle classi superiori, baroni e gabellotti, che cominciarono a reclutare" campieri" e a ricorrere alla mafia, per adeguate contromisure. Furono esercitate pressioni e minacce. A Bernardino Verro, uno dei maggiori capi, furono offerte r5 000 lire e l'alternativa di una fucilata. Ma l'onda cresceva. E con essa, l'entusiasmo popolare. Nei cortei, che assumevano toni religiosi, apparivano le immagini e gli stendardi di santi e di Madonne. A Corleone, in un raduno di tutti i Fasci dell'isola, si formulò una specie di programma, che conteneva le principali rivendicazioni del movimento. C'erano i primi casi di cedimento di proprietari, o gabellotti che accettavano di venire a patti. Nell'insieme, però, questi, e soprattutto i sindaci, che non erano eletti ma nominati, e di solito pienamente solidali con i padroni, esercitarono pressioni sul governo centrale, perché inviasse truppe con direttive perentorie di repressione violenta.
A questo punto, accadde qualche cosa d'inatteso. Il Partito socialista, che era stato non solo solidale, ma promotore del movimento (aveva tenuto due congressi a Palermo, e formato una delegazione dei Fasci al congresso nazionale di Genova), prese pubblicamente le distanze da un movimento che, secondo gli osservanti dell'ortodossia marxista, riformisti o massimalisti indistintamente, aveva assunto tendenze anarchiche o piccolo-borghesi. Era giusto - diceva - sostenere le rivendicazioni dei braccianti proletari, ma non bisognava condividere le istanze dei contadini che aspiravano alla proprietà privata (mezzo secolo piti tardi, Stalin li avrebbe definiti kulaki). Questa posizione, stupidamente intransigente e libresca (1'avesse condivisa Lenin, non ci sarebbe mai stata la Rivoluzione russa), vibrò un duro colpo al movimento dei Fasci. Non lo arrestò, ma lo privò di una guida, senza la quale esso subì la spinta delle tendenze estremistiche. Proprio ciò che i sostenitori della repressione denunciavano per giustificarla.
Finché a capo del governo ci fu Giolitti, egli, pur inviando rinforzi e promettendo inflessibile severità, si astenne dall'uso della forza. Era convinto che l'incendio si sarebbe spento da solo.
Ma Giolitti, travolto dallo scandalo della Banca Romana, fu sostituito da Crispi. E questi, malgrado o forse in ragione della sua sicilianità, scelse subito le maniere forti. NelI' autunno del r893, i «fascianti» avevano coinvolto in uno sciopero generale cinquantamila contadini. Erano passati dalle rivendicazioni rivolte ai padroni a quelle rivolte allo Stato, mobilitandosi per la riduzione delle tasse. Avevano cominciato ad attaccare i municipi. Crispi reagì, annunciando drammaticamente alla Camera che era in corso un piano per la rivoluzione sodalista in tutto il paese, proclamò in Sicilia lo stato d'assedio, e spedi nell'isola quarantamila soldati. Le truppe inviate contro i manifestanti cominciarono a sparare, spalleggiate dai campieri dei proprietari e dai mafiosi. Migliaia furono gli uccisi, decine di migliaia i feriti. Ci furono arresti in massa in settanta paesi, sulla base di un proclama del generale Morra di Lavriano, che dispose l'arresto indiscriminato «degli ammoniti e della gente malfamata». Le accuse si basavano su semplici dichiarazioni di "galantuomini". Un sordomuto fu arrestato dai carabinieri per avere emesso «grida sediziose». Furono istituiti tre tribunali militari. Le sentenze di quello di Palermo provocarono l'indignazione degli studenti, che sfilarono davanti al teatro Bellini, cantando l'inno dei lavoratori. I capi dei Fasci furono deportati. Tra questi, Bernardino Verro, che riuscì poi a fuggire in America, ma, tornato in Sicilia, fu subito ammazzato.
E poiché in questo nostro paese, proprio come nella sua grande tradizione musicale, il melodramma si alterna all'opera buffa, non mancò un episodio grottesco, del quale non si sa bene fino a che punto Crispi fosse vittima o colpevole.
Nel paese di Petralia Soprana c'era un tal Bonsignore Accursio, vicecancelliere di Pretura, che, perdutamente innamorato della moglie di un pastaio, tale Alessi, aveva tentato invano di sedurla. Più volte respinto, si era vendicato con una lettera anonima indirizzata alla polizia, nella quale aveva denunziato che il giorno stesso sarebbe giunto per posta al pastaio un manifesto rivoluzionario. Il manifesto, che lui stesso aveva scritto e spedito per posta al suo ignaro rivale, e che fu subito sequestrato, era un falso messaggio del Fascio, che annunciava un'imminente insurrezione. Il povero pastaio fu subito arrestato (il comandante dei carabinieri, comunicandolo al prefetto, dice testualmente: «depositato nelle locali carceri a disposizione della giustizia», come fosse una valigia). Più tardi l'onesta moglie, intervenuta a sua difesa, svelò la trama del vicecancelliere, che venne a sua volta "depositato". Ma, intanto, il supposto manifesto aveva raggiunto il Parlamento nazionale. Crispi ne aveva letto pubblicamente alcune frasi, tra l'altro deformandolo per sottolinearne la pericolosità, alla Camera, come una delle tante prove della sovversione dei Fasci.
La repressione dei Fasci siciliani avrebbe potuto tradursi in una più ampia e pericolosa avventura autoritaria, se Crispi non fosse stato costretto da tutt'altra causa, il disastro di Adua, ad abbandonare il potere. Chissà che la democrazia italiana non debba qualche riconoscenza a Menelik.
Quello dei Fasci siciliani è, su un piano generale, un capitolo particolarmente perverso della politica di sopraffazione che i governi liberali, di destra e di sinistra, indifferentemente, hanno praticato nei riguardi del mondo contadino in generale, e di quello del Mezzogiorno in specie.
Sul piano della storia degli uomini, esso ci offre elementi importanti per un giudizio su un personaggio certamente complesso, non facile da decifrare. Francesco Crispi ha una storia tumultuosa, ma anche a suo modo affascinante. È uno di quei personaggi cangianti, dei quali la storia d'Italia sembra particolarmente fertile: chiamiamoli «democratici autoritari», per cogliere un denominatore comune di caratteristiche peraltro tanto diverse: dai più tragici, ai più domestici - non c'è bisogno di fare nomi - che hanno saputo stregare i sentimenti di un popolo per tanti versi cosi scettico e diffidente, ma per altri cosi incline a subitanee infatuazioni. C'è nel suo istrionismo, e anche nelle sue nequizie, una carica di originaria passione che conservò fino alla morte, e che, sconfortato e quasi cieco, gli fece pronunciare queste parole terribili:
[ ... ] l'unità italiana fu l'effetto di una semplice aggregazione dei sette Stati e non di una rivoluzione. Meno le guerre del 1859 e del 1866, fatte per espellere i principi nemici, nulla fuvvi di violento e di mutato. I popoli rimasero quali erano prima della costituzione del nuovo Regno, con le loro abitudini, con i loro vizii, tenaci alle tradizioni locali, senza alcuna fusione o incrociamento di razze, e in alcuni luoghi con le antiche antipatie, con gli antichi pregiudizi, senza speranza di quella nazionalizzazione di quegli elementi che per loro natura tengon divise le genti della penisola (Duggan).
È difficile trovare una dichiarazione d'amore per il proprio paese più disperata di questa.
Le donne delle filande.
Anche dai paron dalle belle braghe bianche della Padania, non c'era da aspettarsi che disprezzo, violenza e stupidità. Gettiamo uno sguardo su quel mondo di sofferenza e di dolore che era il silenzioso rovescio dell'ubriacatura vitalistica dannunziana. E rivolgiamolo a quell'industria della seta, in particolare della trattura della seta, che costituiva una parte fondamentale del capitalismo industriale italiano. Era un vero esercito di donne. Di giovani donne e di bambine. Se ne contavano quarantamila in Piemonte, ottantamila in Lombardia.
La scena è quella della filanda, la prima fase di lavorazione della seta. In enormi stanzoni, o più spesso all'aperto, sotto i portici, i bozzoli vengono messi a macerare nell' acqua a 70-75 gradi, in bacinelle riscaldate dal fuoco a legna (<<fuoco diretto»), o, più tardi, dal vapore. La filatrice prende i bozzoli immergendo le mani nell' acqua bollente, li libera dalle incrostazioni e, afferrata un'estremità delle bave, ne svolge il filo e lo riavvolge sugli aspi, dandogli contemporaneamente un certo numero di torsioni. L'abilità del lavoro consiste nel dare al filo la sottigliezza che lo rende lucente, senza diminuirne la resistenza. Una bambina fa girare la ruota che muove gli aspi, e un' altra provvede a riscaldare l'acqua accendendo il fuoco sotto la bacinella.
Il lavoro occupava, nei primi tempi, solo i mesi estivi, spingendosi fino a ottobre. Con l'introduzione del vapore, si arrivò a metà dicembre e, dopo un'interruzione di due mesi, fino a maggio, quando le operaie erano occupate al raccolto.
La durata del lavoro si aggirava attorno alle quindici ore.
Cominciava alle tre del mattino, e poteva durare fino alle otto e mezzo di sera, con due ore e mezza di sosta. Nelle dichiarazioni rese al Comune, gli industriali spesso mentivano, dichiarando non più di undici ore.
L'età di ammissione al lavoro era tra gli otto e i dieci anni, ma per i lavori «1eggieri» si accettavano anche bambine di sei, o sette, e persino di cinque anni. «Quattro forni a legna - racconta un' operaia - e poi c'era la caldaia con l'acqua sopra, calda. Noi si doveva girare col piede l'asta che faceva girare la ruota e la donna coglieva la seta, ahi!, con le mani». Quel1'« ahi» non è casuale. Nel lavoro di trattura le mani venivano immerse nude, direttamente, nell'acqua bollente, perché le incrostazioni potessero staccarsi più facilmente senza rovinare il filo di seta. Cosi, di tutte le malattie che affliggevano le operaie (reumatiche, dell'apparato digerente, e della vista), quella che più le tormentava era 1'escoriazione delle mani. Era il «mal della filandera»: dopo cinque o sei giorni dall'inizio del lavoro, da pelle era a brandelli, le dita e le palme delle mani bruciate».
Alle operaie si davano due lire al giorno; alle bambine, che lavoravano dalle sei alle dodici e dall'una alle sei di sera, cinquanta centesimi. Diceva una di loro:
Sai in filanda com'è [ ... ] Si fa la seta. I bossoli li si mette nell'acqua bollente e si fa la massa, poi quella massa la si prende su con una pentolina e poi la si dà a quella davanti che fa la seta. Se non lo si fa bene, quella davanti prende l'acqua bollente e te la tira addosso.
Un'altra:
[ ... ] nel pomeriggio toglievo già i cuchet (i bozzoli), mi sono bruciata le mani con l'acqua bollente. Dopo cinque o sei giorni avevo tutte le mani che sanguinano. La pelle era a brandelli. Alla sera quando tornavo a casa non sapevo piti dove tenerle le mani. Al mattino quando mi lavavo con l'acqua fredda, dolori che davano nel cuore, neh. Le dita restavano incollate l'una l'altra perché nella notte facevano crosta, allora uno allargava le mani e la crosta si staccava e le dita sanguinavano.
Il nazionalismo.
La logica conclusione di un conflitto sociale cosi aspro avrebbe potuto essere una rivoluzione. Questa risorsa estrema mancava alla sinistra italiana. Secoli di servitù avevano depositato nel fondo della nostra società un'invincibile sudditanza al potere, che la sovranità della Chiesa cattolica aveva cementato. Quella risorsa profonda dell'indignazione, sprigionata in Irtghilterra dalla rivendicazione nazionale anticattolica, in Germania dalla Riforma luterana, in Francia dalla grande Rivoluzione, era stata anestetizzata e spenta in Italia da secoli di servitù. L'anticorpo del moderatismo aveva spento la forza rivoluzionaria del Risorgimento. Essa privò la sinistra, nel momento supremo del conflitto sociale ottocentesco, dell'energia organizzativa che non era mancata ai giacobini, e che non mancò ai bolscevichi. La sinistra mimò la rivoluzione come melodramma, ma non fu mai capace di concepirla realmente, non dico di realizzarla concretamente. Espressione di quest'impotenza storica fu il massimalismo, malattia infantile del socialismo.
Di fronte alla crisi dello Stato liberale, incapace di dare una risposta al conflitto sociale, poiché ogni vuoto storico esige una risposta, ce ne furono due. La prima fu il tentativo, sostenuto dai generali e dalla corte, di regredire dal liberalismo parlamentare all'autoritarismo, «tornando allo Statuto»: a un regime il cui governo non rispondesse al Parlamento, ma al re. I moti sociali furono il pretesto per scatenare il fatale 1898, le cannonate del generale Bava Beccaris (74 morti), cui segui l'assassinio del re Umberto, che lo aveva insignito di un'alta onorificenza. Fu un momento drammatico per l'Italia liberale. Il nuovo piccolo re avrebbe voluto abdicare in favore del figlio, e ritirarsi in pace nelle Baleari, ma non era proprio possibile e, quella volta, si comportò bene, rifiutando pressioni reazionarie.
La seconda risposta mirava anch' essa a sostituire il regime liberale, ma nella direzione, completamente nuova, del nazionalismo popolare e aggressivo. Anch' essa comportava due versioni. La prima consisteva nel trasferire la passione classista in una passione nazionale. «La grande proletaria si è mossa», gridò Giovanni Pascoli, esaltato dalla pagliacciata libica. Trasferire la lotta delle classi oppresse nella lotta delle nazioni mortificate era, indipendentemente dall' occasione ridicola, un'idea mobilitante. L'altra fu più geniale. Si rivolgeva all'immensa riserva di frustrazioni accumulata dai disinganni e dalle mortificazioni risorgimentali e coloniali, e le investiva in un sogno di riscatto e di grandezza, sostenuto da un' etica estetica. Un altro poeta, Gabriele d'Annunzio, ne fu l'incontestabile "vate".
Questa passione si alimentava di uno sdegno autentico, suscitato dagli scandali del regime parlamentare, ma lo trasfigurava nella visione di un popolo eroico, che dalle antiche gesta traesse la forza per spazzare il grigiore della vita politica quotidiana. Visione melodrammatica, emotivamente italiana. Al materialismo socialista, tutto costruito su pretese «volgari», essa contrapponeva un idealismo trascendentale, un popolo sublime e risplendente; e alla forza bruta dei sindacati, quella del desiderio maschile, depositata non negli interessi economici, ma nei germi impetuosi della natura. Quel torpido fondo piccolo-borghese italiano, che riluttava all' appello della rivoluzione, si esaltava, invece, all'invito di un riscatto sensuale, cui poteva aderire senza correre rischi, proprio come avviene al pubblico di un dramma teatrale.
Nutrito dalla frustrazione, questo messaggio affidava alla nazione il futuro del paese. Ma era una nazione ben diversa da quella risorgimentale mazziniana: democratica, pacifica, cosmopolitica. Era una nazione muscolosa e aggressiva, tutta protesa alla lotta e alla guerra.
Che cosa c'era di più seducente, per un piccolo-borghese in pigiama, di arruolarsi in una campagna marinettistica e marionettistica contro la volgarità della borghesia? Al piacere del travestimento rivoluzionario, poi, si sposava perfettamente l'interesse: perché dietro a quelle intemperanze deliziosamente scandalizzanti, c'era la ripulsa delle odiose pretese operaie di egualitarismo, che minacciavano concretamente la nuova borghesia di "arrivati", ieri operai e manovali, oggi imprenditori e industriali.
A differenza del socialismo, il nazionalismo fece breccia nei nuovi ceti borghesi: vi trovò, anzi, la sua base di massa. A un' emotività solidaristica - quella della giustizia sociale esso ne contrapponeva un' altra, quella della gloria nazionale.
Dice Fabio Cusin, nella sua Antistoria d'Italia:
Venendo al fatto pratico [ ... ] il nazionalismo era un reazionarismo creato allo scopo di fronteggiare il socialismo; reazionarismo militarista-monopolista-monarchico a base letteraria, adatto ai tempi nuovi, alla rinata industria italiana e al suo desiderio di espansione e di mercati, ma anche di spese militari che fossero fini a se stesse, specialmente in mano a politici di grassa ignoranza che, privi di ogni criterio di politica commerciale e di conquista coloniale, cercavano pretesti per forniture militari e, affare più grosso, per varare navi da guerra.
Il movimento nazionalista era alimentato da più fonti. I ceti reazionari schierati attorno alla Corona, certamente. Ma non era questa la più cospicua, né la più significativa. C'erano, inoltre, militari in cerca di riscatto e di gloria. Patrioti liberali che si richiamavano all'eredità del Risorgimento. Affaristi interessati alle forniture militari. Ma la fonte più ricca era la sinistra anarchica e socialista. Gli estremisti trovavano nel nazionalismo un attivismo rivoluzionario che li compensava delle delusioni del riformismo e delle miserie del parlamentarismo. Per molti socialisti contava la contrapposizione delle democrazie occidentali all' autoritarismo reazionario prussiano e al tradizionale nemico austriaco, che occupava ancora le terre irredente.
Al nascente nazionalismo si contrapponeva, tuttavia, la maggioranza della sinistra, che rimaneva legata all'ideologia marxista, e alle organizzazioni sindacali e politiche di classe. Il nazionalismo non trovò inoltre, almeno in un primo tempo, adesioni significative nel mondo cattolico. La sua aggressività contrastava con il solidarismo sociale ribadito di recente nel messaggio di papa Leone XIII.
Giovanni Giolitti.
Il nazionalismo trovò, poi, un'inattesa resistenza nella vera e propria riscossa liberale guidata da Giovanni Giolitti. Dopo una breve parentesi di capi di governo oscillanti fra tentazioni autoritarie e subitanei cedimenti, Giolitti, divenuto prima ministro dell'Interno, poi, con la morte di Zanardelli, presidente del Consiglio, scelse risolutamente la via di un prudente, ma ardito riformismo.
Seppe, anzitutto, utilizzare la nuova felice congiuntura economica, indirizzandola verso riforme sociali avanzate, come quella che istituiva l'assicurazione sociale sulla vita, o quelle che disciplinavano il lavoro dei fanciulli, o che affidavano compiti rilevanti alle cooperative operaie, oltre a sancire il riconoscimento, anche se circondato da cautele, del diritto di sciopero.
Chiese l'appoggio e la partecipazione al governo dei socialisti, ottenendo il primo, ma non la seconda.
Usò tutta la sua consumata abilità nel gestire il potere amministrativo dei suoi prefetti, e quello elettorale dei suoi «ascari», i deputati meridionali che dirigeva con spregiudicata disinvoltura. Era, come Turati lo definì, un «empirico», definizione di cui si compiacque, scrivendo in una lettera alla figlia di non ritenere che un sarto debba cucire una giacca dritta sulle spalle di un gobbo. Difese strenuamente il principio della totale neutralità politica dello Stato in tema di religione. Last, not least, ampliò le basi della fragilissima democrazia italiana, introducendo, «in un momento favorevole qualche riforma un po' ardita» -lo disse lui -, come l'estensione del suffragio elettorale.
Fu dunque, quello del «ministro della malavita», come lo aveva definito Salvemini, uno dei periodi di avanzamento della prosperità e della democrazia di questo nostro paese, i quali, in fondo, hanno costituito più le parentesi che il filo del discorso.
Tutto ciò non assolve affatto Giolitti dalle sue "gobbe".
E, soprattutto, da quella che contrastava palesemente con la sua natura, nient'affatto eroica - l'avventura libica -, e che contribuì a sommergere il paese nell' emozione nazionalistica. Stupisce assai che Giolitti la giustificasse con l' «ardente voto di tutte le province meridionali», nelle quali non aveva mai messo piede, come naturale sfogo della loro esuberanza demografica. Di quel Mezzogiorno che - come disse De Viti De Marco (in R. Villari, Il Sud nella storia d'Italia), documentando rigorosamente le sue affermazioni -, era destinato «a fare le spese di quel parassitismo doganale, finanziario e burocra- tico che ha innalzata la bandiera tricolore sui minareti della Tripolitania e della Cirenaica». Molto piti che le ardenti plebi meridionali, lo «scatolone di sabbia» interessava i freddi conti del Banco di Roma.
Comunque, 1'avventura libica di Giolitti, come quella etiopica e rovinosa di Crispi di vent'anni prima, si risolse finanziariamente in un disastro. Alimentarono, invece, la febbre nazionalistica.
L'Italia all'asta.
Il periodo che precede l'intervento italiano in guerra è uno dei più turbolenti della nostra storia. Turbolenti, e in qualche misura indecifrabili.
Sul piano delle relazioni internazionali e diplomatiche, anzitutto. Sciolti dagli obblighi della Triplice, a causa dell'unilaterale decisione delle potenze centrali di entrare in guerra, i governanti italiani (Salandra e Sonnino) s'inseriscono in un gioco segreto discretamente cinico, nel quale l'intervento italiano, per non usare giri di parole, è messo all' asta. Vince l'Intesa, e il governo italiano s'impegna segretamente a suo favore.
Ma l'opinione pubblica, i partiti socialisti e cattolici, la Chiesa sono, in netta maggioranza, neutralisti. E neutralista è Giolitti, al quale più di trecento deputati si rivolgono direttamente, per manifestargli la loro solidarietà.
Intanto, il paese è squassato da grandi moti insurrezionali. Durante uno sciopero generale proclamato dai socialisti in seguito all'uccisione di tre giovani dimostranti, la folla brucia edifici pubblici, erige barricate, distrugge i ruoli delle imposte, taglia i fili del telegrafo, occupa stazioni ferroviarie, saccheggia chiese. Più che la guerra, sembra che stia per scoppiare, al culmine della «settimana rossa», la rivoluzione. Ed è "merito" dei capipopolo nazionalisti, tra i quali primeggia 1'ex socialista rivoluzionario Mussolini, quello di deviare parte di quella foga rivoluzionaria contro le istituzioni liberali, contro il Parlamento, perché nel Parlamento contano i numeri, nelle piazze le emozioni. Ecco un campione di quell' offensiva, tratto dal giornale interventista «L'Idea nazionale»:
Il Parlamento è Giolitti. Giolitti è il Parlamento; il binomio della nostra vergogna. Questa è la vecchia Italia. L'Italia che ignora la vera, la sacra Italia risorgente nella storia e nell' avvenire [ ... ] L'urto è mortale. O il Parlamento abbatterà la Nazione e riprenderà sul santo corpo palpitante di Lei il suo mestiere di lenone per prostituirla ancora allo straniero, o la Nazione rovescerà il Parlamento, spezzerà i banchi dei barattieri, purificherà col ferro e col fuoco le alcove dei ruffiani (Duggan).
La violenza politica si alimenta di eccitazione sessuale. C'è tutto: il santo corpo palpitante, la bella Italia prostituita, le alcove dei ruffiani ...
Alla fine, vinsero le emozioni. Il Parlamento capitolò. Fu cosi che una forza minoritaria, ma combattiva, nella quale confluivano monarchici reazionari, nazionalisti entusiasti e uomini d'affari avidi, tenne in ostaggio il paese, trascinandolo in un' avventura della quale non era convinto, e alla quale non era preparato. La campana "eroica" di un d'Annunzio, i messaggi trionfali di un Corradini, che annunciava una guerra breve e travolgente, si spensero nel frastuono di uno spaventoso e lunghissimo massacro.
La guerra di trincea.
Nella grande guerra mondiale l'Europa fu crocifissa nel solco delle trincee, scriveva Trotzky.
Il ricorso a trincee precede il secolo xx. Si tratta di una tecnica impiegata soprattutto durante gli assedi. Erano gli assedianti a predisporre trincee, in modo da portare artiglieria e truppe il più possibile a ridosso delle mura, in vista di un attacco, o per dar modo agli zappatori di scavare una galleria di mina. Gli eserciti erano molto piccoli, le battaglie avevano durata limitata, o si trasformavano in assedi. I grandi eserciti di leva, scesi in campo nella guerra di Secessione americana, rendevano più difficili le manovre di aggiramento. Si impose, allora, l'attacco frontale in massa, appoggiato dall'artiglieria. Ma, con l'introduzione delle armi da fuoco, questi provocavano massacri. All'inizio della guerra mondiale, i due eserciti opposti, dopo le micidiali esperienze della guerra americana, tentarono di re introdurre la guerra di movimento, cercando sul fronte occidentale l' aggiramento sui fianchi. Questi aggiramenti furono tentati da entrambi gli eserciti, determinando la "corsa al mare". Raggiunto il mare, però, non c'era più niente da aggirare. I fronti s'immobilizzarono allora nelle trincee, dalle quali si scagliavano nuovamente assalti frontali. La guerra diventò vita miserabile nelle trincee, e morte in massa negli assalti. Era evidente che la mitragliatrice aveva determinato un vantaggio decisivo per i difensori, che lo rafforzavano cospargendo il terreno antistante le trincee con cavalli di Frisia, e rallentando cosi l'avanzata degli attaccanti, esposti per un tempo maggiore al fuoco. Era evidente a tutti, tranne che ai generali. La scena si ripeteva ossessivamente. Al fischietto di un ufficiale o al suo grido (<< avanti, Savoia! »), i soldati andavano all' assalto all' arma bianca, con le baionette inastate sui fucili. Moltissimi venivano subito falcidiati dal fuoco delle mitragliatrici, altri rimanevano feriti o mutilati nella terra di nessuno, senza poter essere soccorsi. Era il destino peggiore. Chi tornava indietro veniva giustiziato in modo sommario, per vigliaccheria o ammutinamento. Migliaia di uomini erano uccisi per conquistare pochi metri, poi regolarmente persi nel contrattacco nemico.
Si moriva anche nelle trincee, fra un assalto e l'altro: per i colpi dei cecchini, per le granate. Si viveva nella sporcizia, tra gli escrementi, in estate al caldo asfissiante, in inverno al freddo, alla pioggia e al fango. Unico conforto, l'alcool.
Le trincee contrapposte erano molto vicine tra loro (per abbreviare i tempi dell' assalto), e non mancavano episodi di tregua, in cui si fermavano le ostilità. Nel Natale del 1914, a Ypres, i soldati s'incontrarono per fraternizzare, scambiandosi sigari, cioccolata, alcool naturalmente. Si organizzò anche una partita di calcio. Se ne approfittava per raccogliere i caduti e seppellirli.
Le truppe schierate in prima linea furono dotate di corazze che le facevano assomigliare a guerrieri medievali. Ma cosi si era più esposti, e le corazze molto spesso furono abbandonate.
La probabilità di morire, nella prima guerra mondiale, fu del 10% (nella seconda scese al 4,5%), Quella di restare feriti, del 56%. Nelle trincee era molto superiore. L'assistenza medica era rudimentale. Non c'erano antibiotici, e anche ferite leggere provocavano spesso setticemie mortali. Nelle trincee infuriavano le malattie infettive: tifo, colera, dissenteria. Senza parlare dei parassiti.
Ecco. Questa era la guerra «igiene del mondo», cantata da Marinetti. Ad altri poeti che per davvero la vissero, la guerra ispirò accenti meno imbecilli e più dolorosi.
Di che reggimento siete fratelli?
parola tremante nella notte
Foglia appena nata
Nell'aria spasimante
involontaria rivolta
dell'uomo presente alla sua
fragilità
Fratelli
(G. Ungaretti)
Arrivano i fascisti.
Fra l'ottobre e il novembre del 19I7l'intero esercito italiano rischiò di essere travolto. Lo sfondamento operato da tedeschi e austriaci a Caporetto aveva colto di sorpresa, e distrutto, l'ala destra della seconda armata. Con una fulmine a avanzata nel varco aperto le truppe austro-tedesche si gettarono alle spalle delle altre due armate italiane, minacciando di imbottigliarle in una gigantesca sacca. Fu per un ritardo minimo che non raggiunsero i ponti del Tagliamento in tempo utile.
C'era una tremenda sconfitta militare, dovuta in gran parte all'inettitudine di un comandante in capo, Cadorna, il quale non esitò ad accusare di tradimento quei soldati che, per ventotto mesi, aveva scagliato nell'inutile massacro di undici successive battaglie inutili. C'era una sconfitta militare che si misurava negli undicimila morti e trecentomila prigionieri lasciati sul campo. E c'era il collasso morale di quattrocentomila sbandati, che creavano il caos nelle retrovie. Si temette che quel collasso si comunicasse all'intero paese. La guerra, che secondo la retorica nazionalistica, avrebbe dovuto saldare l'unità nazionale sembrava provocare, come proprio in quei mesi avveniva in Russia, il suo disfacimento.
Le prime reazioni degli alti comandi e del governo furono dettate dal panico. Processi sommari, fucilazioni in massa. Persino la proibizione di inviare viveri ai prigionieri. Ne morirono centomila.
Più tardi, subentrò la ragione. Le due armate che avevano rischiato l'aggiramento ripiegarono sulla linea del Piave. Il comandante in capo fu sostituito da un generale che, finalmente, si prendeva carico del morale dei suoi soldati. Il nuovo governo trovò le parole giuste per parlare al paese. Il quale trovò, nella minaccia del disfacimento, le ragioni profonde della sua unità.
L'esercito italiano, rafforzato da contingenti alleati, tenne saldamente la linea del Piave, respingendo due grandi assalti successivi. Nel novembre del 1918 passò all'offensiva, travolgendo un esercito demoralizzato e in via di smobilitazione.
Alla fine della guerra, però, il paese ripiombò nel conflitto sociale che la guerra aveva compresso, non certo risolto, e che fu inasprito dall'inflazione. I combattenti che tornavano dal fronte trovavano un paese diviso, una parte del quale, rappresentata dai partiti della sinistra, gli dimostrava il suo malanimo, se non un'aperta ostilità. Molti di loro reagirono con indignazione, ritorcendo sui partiti di sinistra accuse di sabotaggio e di tradimento ..
La guerra aveva depositato nei loro comportamenti il germe della violenza. Essi trovarono nei ceti dei possidenti, agrari e industriali, spaventati dalla minaccia comunista, protezioni e finanziamenti. Le sinistre fecero il possibile per rendere quella minaccia credibile. Incapaci di promuovere una rivoluzione, la rappresentarono, con iniziative sovversive ma sterili, come l'occupazione delle fabbriche. L'iniziativa passò presto all'estrema destra, e al biennio rosso degli anni 1919-20 segui il biennio nero degli anni 1921-22. La sinistra non aveva fatto la rivoluzione. La destra fece la guerra civile. Aveva sulla sinistra un vantaggio decisivo. Aveva un capo.
Benito Mussolini.
Benito Mussolini fu il «Lenin del fascismo» (Lenin stesso lo riconobbe come tale). Diede al nazionalismo uno sbocco rivoluzionario. Utilizzò le passioni dell'estrema sinistra, mettendole al servizio dell' estrema destra.
Aveva un predecessore in Francesco Crispi, anche lui ex rivoluzionario passato al servizio della monarchia, e fautore di un governo autoritario, antiparlamentare, militarista e colonialista.
Mussolini era però, molto piti di Crispi, un personaggio scultoreo.
Si possono dare di lui decine di definizioni, com'è stato fatto migliaia di volte: megalomane e prepotente (me a voi comandé, in romagnolo, «io voglio comandare»: era, fin da giovane, il suo esplicito programma); manipolatore di folle, comunicatore di massa, sloganista lapidario; seduttore affamato di femmine; amorale e amoralista cinico; esibizionista velleitario e bugiardo; intellettuale intelligentissimo, superficiale e impaziente; carattere impressionante e impressionabile; tetragono all'umorismo. Una cosa è certa: che egli rimane come un pezzo della storia d'Italia. Per il bene (poco), e per il male (molto).
Qui comunque non interessa il personaggio, descritto migliaia di volte, ma un giudizio, necessariamente sintetico e sommario, sulle ragioni del suo successo e del suo fallimento.
La ragione fondamentale del suo successo è di avere dato al conflitto sociale una risposta, capace di reggere e di controbattere la sfida comunista. Una risposta efficace non la poteva dare un reazionario convenzionale, ma solo un rivoluzionario, cresciuto nello stesso clima e nutrito delle stesse passioni che avevano agitato il mondo del socialismo. L'efficacia di questa risposta sta nella sua natura paradossale: vincere il comunismo usando le sue stesse armi. Né un generale sabaudo, né un economista liberale, avrebbero mai potuto mobilitare le folle. Occorreva qualcuno che fosse nato in quel mondo, ne condividesse le passioni, ne parlasse il linguaggio. È un fatto paradossale che comunisti e fascisti si "intendessero" perfettamente (e non furono pochi a pensare che, oltre che intendersi nel linguaggio, potessero farlo anche negli scopi). Un altro fatto paradossale è la facilità con la quale il fascismo, nato all'insegna della nazione, dilagò internazionalmente. Da questo punto di vista Mussolini può giustamente pretendere un brevetto. Che del resto gli fu riconosciuto, da Hitler, come da Franco, come da Salazar.
A questo successo internazionale si possono contrapporre gli insuccessi, che hanno contribuito al suo fallimento in Italia. Certamente, il fascismo realizzò, negli anni Trenta e Quaranta, un vastissimo consenso nel paese. Agli inizi, esso poté contare sull'appoggio o sulla "comprensione" di grandi esponenti della cultura liberale, come Croce, Pareto, anche Einaudi, e persino sulla neutralità di alcuni irreprensibili socialisti come Anna Kulisciov, che raccomandava di lasciarlo fare. Piti tardi, egli perse il sostegno di singoli, ma acquistò quello delle masse. E, tuttavia, c'erano almeno tre grandi faglie nella struttura del suo potere. La prima è la più paradossale. Il potere instaurato dal fascismo italiano, nonostante il gran parlare di totalitarismo, non era affatto totalitario. Per impadronirsene, Mussolini aveva accettato di venire a patti con la monarchia. Ciò si rivelò fatale alla fine, ma, nonostante la somma viltà del re e della sua corte, costituì anche, durante tutto il periodo del regime, un impedimento e un limite, nelle sacche di potere riservate all'uno e all' altra.
Inoltre il fascismo, con il Concordato, era venuto a patti con la Chiesa. Certo, quei patti gli assicurarono la formidabile sponsorizzazione che era mancata al regime liberale, ma costituirono anche un fattore limitativo rilevantissimo (lo si vide, anche qui, verso la fine del regime). Questo fattore non esisteva né in Germania, dove le Chiese mancavano sostanzialmente di potere politico, né in Spagna, per la ragione opposta: che il partito era nato nella, e con, la Chiesa.
La seconda faglia sta nel clamoroso fallimento di quello che avrebbe dovuto essere lo scopo fondamentale del regime: dotare l'Italia di una grande forza militare. L'intrusione della monarchia nelle strutture dell' esercito e della marina (molto meno dell' aviazione) fu particolarmente vasta e determinante. Ma soprattutto in questo settore, si manifestò un male italiano che sembra incurabile: la superficialità e il pressappochismo dell' organizzazione e la corruzione che la minava. Superficialità e pressappochismo erano "qualità" tipicamente mussoliniane. Egli credeva «inflessibilmente» nelle sue stesse parole. Quanto alla corruzione, non fu mai capace di combatterla seriamente: si limitò a distribuirla nel tempo; si rubava tra un cambio della guardia e l'altro, ed era questa una delle ragioni dei frequenti avvicendamenti al governo.
Risultato: la fondamentale inefficienza e impreparazione delle forze armate italiane.
La terza faglia ha a che fare con il tema centrale di questo libro: il dualismo Nord-Sud. Il fascismo tentò di affrontarlo in due modi: nel modo giusto, ma solo parzialmente, dapprima; in un modo fallimentare, poi.
Il modo giusto era quello d'intervenire nel Mezzogiorno con vasti interventi di bonifica, e di vera e propria colonizzazione. Questa strategia fu praticata con successo, ma con esperimenti parziali e isolati. S'inventò la grande bonifica pontina, con la successiva colonizzazione, e l'acquedotto pugliese, ma non la Cassa del Mezzogiorno. Non si realizzò, quindi, un piano d'intervento integrato, capace di produrre uno sviluppo cumulativo. Mancò a Mussolini l’idea stategica rooseveltiana della Tennessee Valley Authority o, per altro verso e con altri intendimenti, quella nazista della rete autostradale nazionale.
Il fatto è che Mussolini lo aveva, il suo grande disegno: quello del «Grande Impero». Ma anche qui, correva dietro alle sue parole. Già al tempo di Giolitti, si era favoleggiato di ricchezze libiche, per "vendere" agli italiani l'idea della conquista dello «scatolone di sabbia». Nel caso dell'Etiopia, si vendevano nelle edicole, oltre alle immagini di leggiadre e invitanti faccette nere, cartine del grande paese, con l'indicazione geografica di tutti quei beni che mancavano sulla tavola degli italiani: lo zucchero, il tè e il caffè (e il carcadè), ma anche quelle materie prime, ferro e carbone, che mancavano alle nostre industrie, e anche quelle ricchezze, oro, diamanti, che accendevano l'immaginazione dei lettori. Su quelle carte, gli italiani erano invitati a spostare le bandierine tricolori, man mano che le truppe vittoriose avanzavano. E anche qui, si rischiò una nuova catastrofe. Perché anche qui rifulsero l'impreparazione e l'incompetenza. Per avere ragione degli "abissini", gli italiani dovettero ricorrere su larga scala all'uso dei gas asfissianti. Quando finalmente la conquista fu portata a termine (ma neppure questo era vero: larghe sacche di resistenza furono lasciate alla repressione del macellaio Graziani), non c'era neppure più il tempo per la colonizzazione. Mussolini stava per imbarcarsi nell'impresa più temeraria della sua vita: la guerra rapida accanto alla Germania, che doveva costare solo qualche decina di migliaia di morti, per sedersi al tavolo della pace, e che cominciò subito con una serie di sconfitte. Una delle prime fu la perdita dell'impero.
Capitolo secondo
L’ETA’ DELLA REPUBBLICA
Era proprio la guerra di Mussolini. Diversamente da quanto era avvenuto nel 1915, non ci fu nessun moto di popolo, nessuna emozione, solo acquiescenza e perplessità. Già nei primi due anni, si potrebbe dire già fin dai primi giorni, una serie umiliante di sconfitte, dalla Francia all'Albania, dall'Etiopia alla Libia. E alla Russia. Poi l'Italia fu investita da un ciclone, che la squassò nei tre anni successivi. I bombardamenti devastarono le sue città: dappertutto morte, rovine, macerie.
L'invasione spaccò il paese in due parti. Nel Sud, conquistato dalle truppe alleate in pochi mesi, fu catastrofe dell' economia e sfacelo morale. Folle in preda a un servile entusiasmo, acclamanti i vincitori, fioritura di mercati neri, sciamare di prostitute e di sciuscià, trionfo della mafia; miseria materiale e scomparsa di vita civile. In quegli anni, Curzio Malaparte scrisse La pelle, il suo romanzo maledetto.
Una lenta morsa di ferro e di fuoco risali l'Italia da Sud a Nord per due lunghi anni: una serie di battaglie cruente che rinnovavano le stragi di trincea della prima guerra mondiale, decimando le truppe e le popolazioni.
Nel Nord si scatenò una guerra civile tra italiani, e una repressione spietata di tedeschi contro italiani.
Fu, certamente, anche rivolta antifascista e lotta di resistenza, da parte di minoranze combattive e assetate di libertà, contro l'invasore tedesco e contro le minoranze furenti d'indignazione vendicativa, con tutto l'orrendo corredo di violenze delle guerre civili, che si prolungò ben oltre la fine della guerra militare; con i massacri perpetrati da nemici inferociti. Tra le due minoranze combattenti che si affrontavano, una maggioranza inerte, passiva, cercava soltanto di sottrarsi e di durare, aspettando la fine della tempesta.
Bisogna dire la verità. Non ci fu una resistenza di popolo.
A tutto suo onore, ci fu la Resistenza partigiana nel vero senso della parola: di quella parte di popolo che, per fatalità di circostanze, o per autentico moto dell'animo, si radunò per combattere tedeschi e fascisti.
Le perdite di vite umane, se pur meno gravi di quelle della prima guerra mondiale, sono state pesanti: quattrocentocinquantamila morti, cui vanno aggiunte quarantamila deportati e scomparsi. Questa volta, le vittime civili furono molto più numerose. Durante la guerra di Liberazione, poi, vi furono quarantaseimila morti, per la maggior parte partigiani e antifascisti, o vittime dei fascisti e dei tedeschi, e diecimila, invece, vittime dell'epurazione selvaggia seguita al 25 aprile. Dopo la fine della guerra, il paese è stato attraversato da tre milioni di emigranti. I danni materiali sono stati molto più gravi di quelli della prima guerra mondiale: 16% di edifici tra distrutti e danneggiati, un quarto della rete ferroviaria e un terzo della rete stradale fuori uso, il50% delle auto e il 90% dei camion; la produzione industriale ridotta a poco più di un quinto, quella agricola a poco più della metà. Il reddito nazionale ridotto della metà, la ricchezza nazionale di un terzo.
Questi i risultati con i quali dobbiamo consegnare il ricordo di Mussolini alla storia.
Eppure, questi immensi disastri non hanno schiacciato il paese. Come in un formicaio sconvolto, un' ondata di attività brulicanti ha scatenato un impeto di vitalità. Si è prodotto un miracolo. Anzi, due.
Due miracoli e un intoppo.
Un miracolo economico. Abbandonato il protezionismo alle frontiere, liberalizzati i movimenti delle persone, affluiva sui mercati una massa di lavoro a basso costo e una schiera di nuovi imprenditori, che alimentavano una straordinaria ripresa.
Un miracolo politico. Mentre il mondo era attanagliato dalla guerra fredda, si approvava in Italia una Costituzione democratica, sulla base di un'intesa fra tutti i partiti antifascisti, fra i quali le due pili grandi forze politiche emerse alla fine della guerra: democristiani e comunisti.
Quest'intesa è stata il vero fondamento della Repubblica democratica. Fondamento paradossale tra forze che si fronteggiavano sul piano internazionale, ma non avevano alcuna possibilità di alternarsi al governo del paese; e che costituiva una formidabile garanzia contro il disastro di una nuova guerra civile.
Costituiva però, al tempo stesso, una condizione di democrazia bloccata, priva del necessario ricambio, incapace di costruire sulle fondamenta costituzionali l'edificio di uno Stato nazionale moderno, di una democrazia dinamica, capace di affrontare i grandi problemi che il Risorgimento aveva lasciato irrisolti, primo fra tutti quello, cruciale, del dualismo territoriale: la questione meridionale.
L'obbligatoria permanenza di un grande partito, e dei suoi alleati, al governo, e dell' altro all' opposizione, produceva inoltre una condizione di ristagno del potere, fatale matrice di prepotenza e di corruzione da una parte, di pratiche spartitorie dall' altra.
I tentativi, promossi soprattutto da parte comunista, di trasformare quell'intesa passiva in un'aperta alleanza ispirata a un grande disegno, l'incontro storico tra le due forze popolari, comunista e cattolica, erano condannati a scontrarsi con l'esistenza della "palla al piede" sovietica, dalla quale il partito comunista si stava sganciando, ma con esasperante, fatale, lentezza.
D'altra parte, la prospettiva di un' alleanza cattocomunista non era certo affascinante per tutte quelle forze laiche consapevoli degli elementi di autoritarismo intrinseci alla natura di quei grandi partiti. Anzitutto per i socialisti, che tentarono a due riprese di inserirsi da protagonisti nel gioco politico italiano: una prima volta, come promotori dell'alleanza di centrosinistra, negli anni Sessanta, sostenitrice di un programma di grandi riforme economiche e sociali; e una seconda, sotto la spinta di un leader, Bettino Craxi, che intendeva sfruttare fino in fondo il suo vantaggio di posizione nell' alleanza di governo con la Democrazia cristiana.
L’ offensiva craxiana.
Vale la pena di soffermarsi brevemente sull' avventura craxiana, per l'influenza che ha esercitato sulle vicende tempestose della Repubblica, e per gli esiti che ne sono derivati.
Sottraendosi, dopo le grandi delusioni elettorali del suo partito, al protettorato comunista, Craxi perturbò subito l'intesa implicita fra i due grandi partiti, con un comportamento corsaro che, approfittando della sua posizione strategica, li teneva in scacco, l'uno contrapponendoglisi all'interno del governo, l'altro sfidandolo dal governo.
C'era chi pensava che lo facesse per crescere, e formare poi, in condizioni meno squilibrate, un'alleanza con i comunisti, come aveva fatto Mitterrand in Francia. E c'era chi pensava che volesse soppiantare i democristiani, con una graduale scalata ai poteri: stampa, banche, grandi imprese pubbliche. Oppure, che intendesse cambiare le regole del gioco con una "grande riforma". Questa era, del resto, la carta che lui stesso ogni tanto esibiva. L'idea non era sua: era del gruppo degli intellettuali riuniti attorno a «Mondoperaio». Con quel gruppo, di cui era autorevole esponente Giuliano Amato, egli aveva vinto il congresso di Torino del 1978, entrando poi in collisione, soprattutto per «incompatibilità di carattere». Pili tardi, si era riconciliato con Amato, divenuto uno dei suoi pili validi consiglieri.
lo credo che, fra quelle tre ipotesi, Craxi non avesse fatto una scelta alla quale legarsi, ma che le mantenesse tutte aperte, fin quando stimava opportuno. Era per natura un pragmatico, ed era convinto, avendo una smisurata fiducia in se stesso, di potersela cavare in tutte le situazioni.
Insomma, non aveva un progetto definito. Ma fu proprio questo il suo punto debole. Se non hai un progetto, i mezzi che accumuli, e che dovrebbero servire per realizzarlo, finiscono per diventare essi il tuo progetto. I mezzi sovrastano i fini. Cosi fu per il denaro. Ne aveva bisogno per sfidare colossi che disponevano di risorse "proprie". Non per fini personali. Aveva un tenore di vita disordinato, ma normalissimo. L'accumulazione di risorse per il potere, che egli intendeva esercitare in prima persona, diventò un'ossessione. Come quella delle congiure e dei complotti da sventare. Chi voleva conquistarne la fiducia (e tanti erano i cortigiani che gli stavano attorno) aveva imparato a inventarseli. Era anche sensibile alle adulazioni. Accanto a persone d'indubbio valore, si circondò sempre più di personaggi servili, e di qualche mariuolo. Il combinato disposto di queste inclinazioni ridusse la sua dote più preziosa: la capacità di percepire le domande nuove che si agitavano al fondo della società. Il suo invito di andare al mare, agli italiani che chiedevano un segno politico di cambiamento, è il tragico esempio del suo declino. Ma la prova più evidente, la causa vera della sua rovina sta nell' assenza di un vero progetto politico. La storia perdona qualunque comportamento illecito, quando è messo al servizio di un grande progetto. È spietata quando le risorse illecitamente acquisite le si spreca in imprese meschine: come quella di legarsi a una coalizione del tutto priva di futuro. Nel caso di Craxi, fu il cosiddetto Caf (Craxi-Andreotti-Forlani), ch'egli tenne in piedi per non restare nel mare aperto dell'opposizione.
Da Gesù Cristo a De Gaulle, i grandi conoscono e accettano il rischio del ritiro, come inevitabile prezzo del ritorno. Non c'è investimento politico che non comporti rischi politici. Craxi voleva restare al coperto. E li fu colpito.
In verità, gli eventi imprevisti gli avevano offerto una chance.
L'inopinato - e imprevedibile - crollo sovietico, nel 1989, sembrò spazzare via, di colpo, quel blocco paralizzante della democrazia senza alternanza nel quale Craxi si muoveva a fatica (malgrado ogni sforzo, la quota elettorale del partito socialista si spostava appena). Improvvisamente, il pericolo comunista spariva. E, con esso, l'imprescindibilità del monopolio democristiano, e l'impraticabilità dell' alternanza. Tutto sembrava rivolto, finalmente, a una normalizzazione europea della democrazia italiana, fondata sull' alternanza fra una sinistra socialdemocratica e una destra liberaI o cristiano-democratica.
Ma non fu affatto cosi. Il morto afferra il vivo. Il "blocco" sopravvisse alle sue ragioni. Da una parte, il duello a sinistra aveva messo tali radici di ostilità fra i due partiti dello schieramento da rendere impensabile una conversione socialista dei comunisti, e una disponibilità all'alleanza (finché i rapporti di forza restavano cosi squilibrati) dei socialisti con i comunisti. Dall' altra, la Democrazia cristiana aveva perso il pelo, ma non il vizio della persistenza, comunque, al potere, il che le lasciava due possibilità opposte: continuare l'alleanza di governo con i socialisti, concedendo a essi una quota piu ampia di potere; o cercare di aggirarli con un'intesa aperta, un compromesso politico (non storico: i cattolici si affidano più volentieri alla provvidenza che alla storia) con i comunisti.
A tutte e tre le forze politiche in gioco, la continuazione dello stallo conveniva. Ai comunisti, si apriva finalmente una prospettiva di governo senza pagare il prezzo di un'intollerabile resa ai loro rivali. Ai democristiani, di continuare il loro gioco preferito: mettersi all' asta fra socialisti e comunisti, conservando comunque il potere. Ai socialisti, di disporre del margine di tempo necessario per mutare, finalmente, i rapporti di forza fra i tre partiti a loro favore.
Ma di tempo, non ce n'era più. Nel 1992 scoppiò Tangentopoli.
Tangentopoli.
La tempesta fu devastante. In pochi mesi, i partiti al governo furono travolti.
Tangentopoli fu un fenomeno complesso.
Non c'erano solo mariuoli, ma anche militanti in buona fede.
Non solo giudici imparziali e inflessibili, ma anche magistrati politicizzati ed esibizionisti.
Passando in rassegna personaggi e interpreti, incontriamo anzitutto i principali colpevoli: democristiani e socialisti. Per i primi, si trattava di "imposte", che da lungo tempo essi percepivano, ritenendole il naturale corrispettivo dei servizi resi al paese.
Ma come mai i socialisti, e Craxi anzitutto, vi furono coinvolti con tanto clamore e furore? Qui non si può che argomentare per ipotesi. Anzitutto, il partito socialista godeva di un'antica reputazione, che era stata scalfita si, ma in misura non grave, dalle precedenti esperienze di governo. E che rendeva tanto più scandalosi i loro comportamenti illeciti. Ma soprattutto, era obiettivo di Craxi di ampliare il "territorio" occupato dai socialisti, liberandosi da ogni complesso di subalternità nei riguardi del loro alleato. In tale sforzo, era inevitabile che essi offrissero largo spazio alla visibilità.
Craxi denunciò, in un discorso al Parlamento rimasto famoso, l'universalità del finanziamento illecito dei partiti. Aveva indubbiamente ragione. Ma, a parte 1'improponibilità giuridica dell'argomento (un illecito non diventa lecito perché estesamente praticato), è un fatto che Craxi abbia assunto in quel sistema un ruolo di primo piano. Non ne era certo un passivo fruitore, ne era un attivo organizzatore. Difficilmente può essere rappresentato come vittima di un complotto.
Quanto ai comunisti, essi parteciparono di certo al finanziamento illegale, indirettamente e marginalmente. Furono, dunque, marginalmente coinvolti. Ne approfittarono largamente, per accreditarsi presso 1'opinione pubblica come una forza capace di colmare il vuoto morale e politico lasciato dalla scomparsa dei partiti di governo. Ebbero la fortuna, proprio nel momento in cui i socialisti avrebbero potuto celebrare il loro trionfo, di vederli rotolare nella polvere. In verità, non avevano alcun diritto al compiacimento morale, in quanto, sia pure marginalmente, erano coinvolti. E non ne colsero i frutti politici perché, mentre tentavano faticosamente di assumere una nuova identità (le identità non si inventano), una vera e gioiosa macchina da guerra entrava in campo, ma dal lato opposto.
Proseguendo nella rassegna, incontriamo i "punitori". Leghisti e neofascisti, anche se non del tutto immuni, potevano a buon titolo puntare il dito sulla corruzione di un "sistema" cui non avevano partecipato. Inizialmente entusiastici sostenitori della magistratura, finirono per partecipare attivamente alla formazione di una nuova forza politica che le si rivoltava contro.
Da Tangentopoli esce poi, smarrita, la massa degli elettori democristiani, che si sono visti improvvisamente privati di rappresentanza politica, e che temono che quel vuoto elettorale sia colmato dagli eredi del Partito comunista. Una posizione particolare è assunta, finalmente, da quei socialisti che hanno visto in Tangentopoli soprattutto una manovra dei comunisti, dominanti nella corporazione dei magistrati, per schiacciare i socialisti craxiani, rei di avere sfidato, in nome della loro autonomia, l'egemonia comunista.
I comunisti, dunque, contavano di riempire essi il vuoto lasciato dalla scomparsa dei partiti di governo. Era una pretesa che suscitava il panico in tutte le altre forze: eterogenee, ma decisamente anticomuniste.
Alcune di queste forze, leghisti e neofascisti, erano partite dalla denuncia della corruzione dei partiti della Repubblica. Ma, dietro, c'era un più vasto attacco al sistema dei partiti e, al di là di quello, ai valori e alle istituzioni fondanti della Repubblica.
Non si trattava, propriamente, di una riscossa fascista. Era però un rigetto dell' antifascismo, una rivolta "anti-antifascista" sotto la forma qualunquista dell' antipolitica, e con una marcata impronta anticomunista. Per il resto, quelle forze esprimevano domande politiche eterogenee e incompatibili.
Ma c'era chi aveva capito che queste contraddizioni erano un ostacolo superabile.
Il prodigio di Silvio Berlusconi fu di offrire a queste forze l'alleanza di una nuova formazione che raccogliesse in chiave nettamente anticomunista l'elettorato conservatore dei partiti di governo scomparsi, colmando quel vuoto minaccioso. Ciò implicava un radicale riorientamento dei loro obiettivi (dal sostegno, alla contestazione della magistratura), e il superamento di alcune loro posizioni di principio (sull'unità nazionale, per esempio), in nome della comune contrapposizione alla sinistra.
Uno spregiudicato congegno elettorale permise di ottenere la confluenza di due alleanze distinte.
Silvio Berlusconi.
Silvio Berlusconi era quello che, nell' antica Roma, si sarebbe detto un homo novus: ma mica tanto.
Era certamente del tutto estraneo al mondo politico professionale, pur avendovi agganci decisivi per la sua sopravvivenza d'imprenditore. Non apparteneva all'establishment del mondo capitalistico, avendo sviluppato i suoi affari in settori economicamente marginali ma in rapido sviluppo, come la speculazione edilizia e la produzione mediatica.
Non interessano qui le motivazioni personali della sua «discesa in campo» (la necessità di sottrarsi a gravi difficoltà finanziarie? E / o a minacciose indagini giudizi arie ?)
Interessa la sua comprensione delle forze suscitate dalla tempesta di Tangentopoli, e della possibilità che si presentava di federarle in un unico grande movimento politico.
Questa comprensione gli è valsa, giustamente, la definizione di «statista» (conferitagli da Massimo Giannini, nell'opera omonima). Aveva capito per intuizione ciò che era sfuggito a Craxi: che a un ristagno e all'inconsistenza litigiosa della politica aveva corrisposto, negli ultimi decenni, una profonda mutazione del quadro sociale.
Nel mondo economico si era verificata la decomposizione della classe operaia, e l'avvento di una classe di piccoli imprenditori e di lavoratori autonomi. E in misura corrispondente, nella cultura della società, l'affermazione di valori individualistici, per meglio dire privatistici. La rivolta contro l'invadenza burocratica. La reazione al potere sindacale, respinto indietro dalla globalizzazione, dalle nuove tecniche produttive, dalle esigenze di mobilità. Inoltre, l'insofferenza per i riti della democrazia parlamentare e per l'invadenza partitica. E la domanda potenziale di un "capo" decisionista, che già si era inizialmente manifestata nei riguardi di Craxi.
Insomma, l'emergere di un populismo privatistico.
Non è qui il caso di intervenire con una mia tesi, su quello che negli ultimi decenni è diventato un tema trattato da politologi e sociologi in modo tanto più diffuso e capillare, quanto più indeterminato e sfuggente: il tema del nuovo populismo (di populismo si parlava fin dall'Ottocento, a proposito degli antischiavisti americani e dei narodniki russi). Mi limito a seguire la traccia di alcuni tra gli studiosi più accreditati del fenomeno, individuando nel nuovo populismo quella zona politica assai frequentata, che si estende dalla semplice demagogia all' autentico fascismo: dall' appello plebeo al popolo contro le élite sociali e culturali, alla mobilitazione plebiscitaria intollerante e violenta, suscitata attorno a un capo carismatico e autoritario.
Il populismo di marca italiana non era sensibile alle passioni nazionalistiche, come quello francese (di Le Pen), quello olandese (di Fortuyn: anche se Fortuyn aveva dichiarato di ispirarsi a Berlusconi, aggiungendo «purtroppo, con molti meno soldi di lui»), e quello austriaco (di Haider), ma piuttosto a quelle economiche e privatistiche. Era quello sgranamento privatistico che Berlusconi seppe avvertire come il grande moto collettivo che aveva investito la società italiana: dunque, un populismo privatistico. Pili che una «liquefazione», come scriveva Bauman, una polverizzazione della società in granelli di sabbia esposti al vento. A questo Berlusconi aveva offerto una risposta, con la promessa ottimistica dell' arricchimento. E, sul piano emotivo, ne aveva offerte due: la risposta alla paura, spingendo il tasto della difesa dall'immigrazione; e la risposta al bisogno di emozioni private, offerta dall'incantamento televisivo e dal tribalismo calcistico.
Sul piano strettamente politico, Silvio Berlusconi riuscì a riorientare e ad assemblare una coalizione eterogenea, rivolgendola contro la magistratura, sdoganando il neofascismo, superando le reciproche incompatibilità con il leghismo, rincuorando gli elettori moderati della Democrazia cristiana, rivendicando quelli socialisti.
E soprattutto, si rivolse alle "emozioni" popolari: della paura, dello spettacolo, del successo.
Paura dell'immigrazione, che aveva investito negli ultimi decenni il paese.
Spettacolo, offerto dalle emozioni private di massa: anzitutto, il tribalismo calcistico e l'ubriacatura televisiva.
Successo, simbolicamente esemplificato dalle fortune del capo, come modello emblematico proposto alla "gente" come molla promozionale.
Populismo privatistico e ludico, dunque, con un pizzico di piccante e permissiva sessualità. Una formula di travolgente successo. Soprattutto se contrapposta alla noia dei discorsi di sinistra, ormai da tempo privi di ogni impatto emotivo.
Nel considerare le ragioni del suo successo, non si può prescindere da una banalità. Berlusconi è nato in Italia. In un altro paese quel successo, in quelle forme particolari, sarebbe probabilmente impensabile. Nelle sue rappresentazioni e nelle sue azioni, egli attinge a piene mani a certi aspetti del ca- rattere italiano, che sono stati oggetto di particolare attenzione critica del nostro costume da parte di osservatori stranieri, anche i pili simpatetici, come Goethe, Stahl, Byron, Sand. Aspetti che Antonio Gambino, in un suo libro particolarmente felice (Inventario italiano), ha ripercorso in rigorosa e implacabile rassegna, cominciando con la famosa requisitoria di Leopardi, e rievocando le analisi di Turiello (la «società sciolta»), di Gobetti (la «società facile»), di Gramsci (la «società apolitica»).
I comportamenti di tipo apolitico, cosi spesso riscontrabili nella storia d'Italia, possono riassumersi in quella categoria del «particulare», che Guicciardini scelse come punto di vista privilegiato della sua analisi, e che si oppone all' altro, essenzialmente politico, scelto da Machiavelli. È stato Francesco De Sanctis a considerare la storia d'Italia sotto 1'aspetto di questa contrapposizione fra Machiavelli e Guiccardini. Il primo, spesso malinteso, investe nell' amar di patria una passione politica che non si ritrae neppure di fronte alle nequizie; l'altro è tanto immerso nel proprio privatismo da diventare <<incapace di percepire altro movente di quello dei propri vantaggi immediati». Sviluppando questa contrapposizione, si potrebbero individuare nella storia d'Italia tempi machiavelliani e tempi guicciardiniani. Non mi parrebbe dubbia la conclusione sulla natura di quello che stiamo attraversando.
Noi ci troviamo, ora, nel pieno di una condizione di consenso populista.
È giustificato chiedersi se questa condizione è stabile, o se evolve verso un qualche cosa di diverso. Se è vero che il populismo è una forma intermedia tra la demagogia e il fascismo, hanno ragione coloro che indicano la concreta minaccia di una deriva fascista?
Non si può respingere questa domanda come improponibile" né accoglierla come probabile.
E vero quanto dice Biagio De Giovanni, in A destra tutta:
[ ... ] fascismo è autoritarismo con tendenza totalitaria; fascismo è razzismo, fascismo è censura e fine dell'informazione libera; è partito unico, è chiusura del Parlamento democratico [ ... ] fascismo è negazione della Costituzione, è nazionalismo chiuso e guerrafondaio [ ... ] Quale di questi tratti, almeno uno di essi, incombe su di noi?
Nessuno incombe, è la risposta; ma, se si eccettua il razzismo, il partito unico e il nazionalismo guerrafondaio, gli altri sono presenti, sotto forma di aspirazione generica, di tentazione specifica, e, talvolta, d'indicazione programmatica. Inoltre, le tempeste possono essere assai diverse nella forma, spirare da venti diversi, ma abbattersi con la stessa violenza sugli stessi oggetti. L'essenza del fascismo non è necessariamente il partito unico, o la chiusura del Parlamento, o l'abolizione della stampa, tanto meno la milizia, le colonie, la guerra. Può essere una condizione di asservimento e autoasservimento conformistico,di plebiscitarismo elettorale, di decisionismo autoritario, di ultrasemplificazione e addomesticazione istituzionale, ottenuta attraverso il bombardamento mediatico o la distrazione ludica. Anche questo è regime. E questo non si può affatto escludere.
A me pare, tuttavia, che un passaggio di quel tipo, dalla tentazione al regime, comporta un percorso disseminato di trincee e di argini inevitabili, sia all'esterno (l'inserimento dell'Italia nell'Unione Europea e, oggi, nella stessa alleanza americana), sia all'interno (forze politiche sociali e culturali, incluse anche quelle presenti nella maggioranza). Non è che non vi siano predisposizioni e pulsioni, che di tanto in tanto si affacciano. È che non sembra che, in assenza d'incidenti imprevedibili, trovino il necessario concerto in un ambiente politico esterno ben diverso da quello degli anni Venti. Ma anche nell' ambiente politico interno, compreso quello dell' attuale maggioranza.
Pili concretamente probabili possono apparire le minacce di secessione, anche perché si sono, di fatto, proposte nel passato. Si sono proposte pili volte, e sempre sotto la copertura di trame e di complotti orditi da servizi e da massonerie da sempre impunite, e tuttora presenti fra noi. Non sempre le minacce pili ostentate, come quelle della Lega, sono le pili serie e preoccupanti. Francamente, non si vede in quale cantone potrebbero rifluire i cittadini della val Brembana, quando abbandonassero la Lombardia per costituirsi in una Padania sovrana. Ci sono secessioni drammatiche, e secessioni melodrammatiche.
Quelle siciliane o meridionali sarebbero, invece, drammaticamente possibili. Come vedremo tra poco, esse sono inscritte in una realtà già tragicamente presente, che insidia il paese nella miope e colpevole indifferenza di un nordismo provinciale, che abbandona il Mezzogiorno d'Italia nelle mani della criminalità mondiale. E qui si incontra il pericolo meno avvertito e pili grave: quello della decomposizione nazionale.
La minaccia della decomposizione nazionale.
Dobbiamo, ora, tornare al tema centrale di questo libro: al fallimento dell'unificazione nazionale dell'Italia, della creazione di un autentico Stato nazionale nato dalla confluenza di storie diverse, su una larga base di consenso popolare. In particolare, dalla confluenza del Nord e del Sud di un paese troppo lungo, nelle grandi occasioni che si sono presentate alla sua storia: quando, ancora in pieno Medioevo, la potente monarchia sveva, muovendo dal Sud, avrebbe potuto conglobare le ricche repubbliche del Nord. O, molto pili tardi, quando il moto del Risorgimento avrebbe potuto risolversi in un incontro di storie ricche e diverse, nel nome di un'unità superiore.
La conquista regia delle due Sicilie, che congelò la ventata garibaldina, tracciò, fra le due Italie, un solco profondo, che non si è mai rimarginato.
La «questione meridionale», sollevata in modi diversi da Fortunato, Salvemini, Gramsci, Dorso non era una questione regionale. Era l'impegno a colmare quel solco, realizzando davvero l'unità del paese. Era vista da grandi meridionalisti, da Nitti a Saraceno, come la via maestra al compimento dell'unificazione.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale, superate le minacce secessioniste, parve finalmente che questo impegno fosse diventato un concreto programma di governo, che la più grande forza politica del paese, la Democrazia cristiana, era convinta di perseguire, attraverso lo sforzo dell'intervento straordinario.
Le successive involuzioni di quella grande strategia non possono far dimenticare la sua portata storica: il trasferimento di ingenti risorse finanziarie dal Nord al Sud, e soprattutto il 10ro investimento in un vasto programma d'interventi infrastrutturali, che creassero le basi di un processo di sviluppo. La Cassa per il Mezzogiorno fu quest'innovazione.
Non ci sono dubbi sul successo di quest'operazione. Per la prima volta, il Mezzogiorno veniva investito da una serie di grandi opere: bonifiche, dighe, acquedotti, autostrade, reti stradali, che ne mutavano il volto rompendo ne l'isolamento, attivando ne energie, suscitandone nuove potenzialità. A ciò si aggiungeva il proposito di un secondo tempo d'incentivazione diretta d'iniziative industriali, anche creando un sistema d'istituti di credito speciali.
Ma fu proprio in questa seconda fase, che emersero le patologie di finanziamenti dispersivi e sterili, con un flusso di trasferimenti che alimentavano redditi e consumi, ma non promuovevano investimenti capaci di attivare processi di sviluppo autonomo. Le risorse destinate al finanziamento di investimenti produttivi non furono gestite da un sistema bancario e finanziario dotato dell'autonomia e della competenza necessarie a vagliare rigorosamente, in termini economici, i singoli progetti, ma direttamente da politici e amministratori locali, che li valutavano in termini di «acquisività politica» (l'espressione, ripresa da Cafagna nel suo saggio Nord e Sud, è di Weber).
Le risorse trasferite al Sud non erano lo strumento di una grande operazione di sviluppo economico, ma diventavano la base del potere di una classe politica.
Le dinamiche del potere interne a quella classe provocavano una "balcanizzazione" del partito dominante, e poi dei suoi alleati, in correnti, ciascuna radicata prevalentemente in certe regioni.
Balcanizzazione del partito e disponibilità di risorse da trasferire promuovevano 1'acquisività politica: una condizione lontana dalla prima fase d'intervento nel Mezzogiorno, ancora guidata da un disegno "storico", e non ancora consegnata nelle mani di consorterie autarchiche.
Si formava cosi, nel Sud, un nuovo blocco storico. Non il vecchio blocco agrario, dissolto dallo svuotamento delle campagne conseguente all'emigrazione e all'urbanizzazione, ma un blocco politico-burocratico, la cui funzione sociale essenziale era la gestione dei flussi finanziari trasferiti dal Nord al Sud. Smarrita la ragione progettuale di quel trasferimento, restava la sua potenza acquisitiva. E questa diventava il prezzo che i governi nazionali pagavano, in cambio dei voti assicurati alla loro maggioranza.
Emergevano, cosi, i due gravi guasti della nuova condizione parassitaria, di vera e propria "palla al piede", del Mezzogiorno: la «rivolta del nord», e la deriva criminale mafiosa del Sud.
All' origine della prima, c'era la crescente consapevolezza che il trasferimento di risorse preteso dai meridionalisti non serviva affatto a ridurre la dipendenza del Sud, grazie a uno sviluppo che quel trasferimento avrebbe attivato. Diventava sempre più evidente che quello sviluppo non si stava affatto verificando: la gente nel Sud consumava di più, ma non produceva di più.
Questa è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. «N on è possibile accettare che il foraggio destinato all' allevamento di cavalli di razza venga versato direttamente, invece, a ratti, zoccole e pantegane che si mangeranno poi anche i cavalli» (Cafagna).
Il guasto costituito dalla seconda, la deriva mafiosa, era ancor più grave e drammatico. Si trattava di un' accelerazione della caduta del Mezzogiorno sotto il controllo territoriale della mafia: peggio, delle mafie.
Dobbiamo rivolgerci, sia pur fugacemente, a un aspetto centrale del nostro tempo: lo sviluppo della globalizzazione criminale.
Un rapporto confidenziale, presentato nel 2000 al presidente Clinton, affermava: «nel 2010 il mondo assisterà probabilmente alla nascita di nazioni criminali». Sembra che queste previsioni si stiano realizzando. Molte zone del mondo sono di fatto sfuggite alla sovranità degli Stati, per passare sotto il controllo di veri e propri governi privati. Il rapporto contava ben cinquanta aree del pianeta ormai sottratte a ogni tipo di controllo statale, e passate nell' area di dominio di potenze criminali. In altre zone il processo è tutt' altro che compiuto, ma si può dire che è bene avviato. E una di queste è certamente il Mezzogiorno d'Italia. Negli ultimi trent'anni, e con particolare vigore negli ultimi dieci, zone estese del territorio meridionale e popolosi quartieri delle grandi città sono stati sottoposti alla sovranità privata di organizzazioni mafiose, che nel frattempo si sono differenziate, radicandosi nei territori di quattro grandi regioni: Cosa Nostra in Sicilia, la 'ndrangheta in Calabria, la camorra in Campania, la Sacra corona unita in Puglia. Un'idea della portata di queste organizzazioni la può dare la scheda tecnica della pagina seguente, che traiamo da uno studio sulle grandi mafie italiane (J. de Saint-Victor, Mafia. L'industria della paura).
L'emergere di queste grandi organizzazioni ha profondamente modificato la struttura del blocco sociale dominante nel Mezzogiorno. La classe politico-burocratica locale ha stretto con le organizzazioni mafiose forti rapporti collusivi, accettando di spartire con esse la gestione dei finanzia menti provenienti al Sud dall'esterno, quella degli appalti, e quella dei grandi servizi "pubblici", come la sanità. C'è chi pensa che la collusione sia giunta al di là di un compromesso fra po-
Cosa Nostra (Sicilia): 120 "famiglie" (oltre metà delle quali in provincia di Palermo); 3000 membri e decine di migliaia di affiliati. L'organizzazione ha una marcata struttura piramidale che vede, partendo dal basso, gli uomini d'onore, i soldati, i sottocapi e i capi. Ogni mandamento è comandato da una cupola ed esiste, a livello regionale, un'ultetiore cupola (la Commissione), diretta in passato da Totò Riina e poi da Bernardo Provenzano. Va sottolineata l'esistenza, fino al 1995, di una mafia dissidente nel Sud dell'isola (Agrigento), la stidda, composta da mafiosi esclusi da Cosa Nostra. Secondo 1'Eutispes, il giro d'affari dell'organizzazione ammontava, nel 2004, a 30 miliardi di euro.
Camorra (Campania): I IO "famiglie", 6500 membri. La struttura è orizzontale e ogni gang è estremamente autonoma, il che spiega le numerose lotte intestine. La camorra ha cercato di ispirarsi al modello siciliano all'inizio degli anni Novanta, ma senza successo. Si parla ormai, soprattutto a Napoli, di "sistema". «'0 guaglione di che sistema è ?», si sente chiedere in città. Del sistema di Secondigliano o del sistema di Scampia (quartieri a nord di Napoli). Nel 2004, il giro d'affari della camorra sarebbe arrivato a 28,4 miliardi di euro, oltre la metà dei quali dipendono dal traffico di droga.
'Ndrangheta (Calabtia): 132 "famiglie", o 'ndrine, e IO 000 affiliati. La struttura è piuttosto simile a quella della camorra, ma le 'ndrine hanno un vantaggio: sono essenzialmente composte da famiglie biologiche, un aspetto che limita il tischio di tradimenti. I figli dei mafiosi (<<giovani d'onore») sono avvantaggiati nella cartiera criminale. V a sottolineata l'esistenza di una potente appendice in Basilicata (i basi lischi): le inchieste della procura di Potenza ne hanno messo in evidenza gli importanti legami al Nord e con il mondo della politica e del jetset. Il giro d'affari della 'ndrangheta si è attestato, nel 2004, a 35 miliardi di euro. Secondo un rapporto della Direzione nazionale antimafia, nel 2007 sarebbe balzato a 180 miliardi.
Sacra corona unita (Puglia): 45 "famiglie", per un totale di 1560 membri. Strutturata orizzontalmente come la camorra (le donne rivestono un ruolo importante), è tuttavia divisa in diverse "società", la società minore (picciotto e camorrista), la società maggiore (sgarrista e santista) e la società segreta, con titoli bizzarri (evangelista, crimine o diritto alla medaglia, crimine distaccato o diritto alla medaglia con catenina ... )
teri distinti, per configurare un nuovo amalgama sociale, una nuova classe, una borghesia mafiosa. Sta di fatto che il grado d'inquinamento delle amministrazioni locali ha raggiunto livelli elevatissimi, testimoniati dalle centinaia di casi di scioglimento delle amministrazioni stesse da parte del governo nazionale, e dagli intralci, resistenze, veri e propri sabotaggi, opposti in sede locale all' azione repressiva della magistratura e delle forze dell'ordine.
La distinzione emerge, se mai, nel rapporto fra la classe politica nazionale e le borghesie mafiose.
Questo rapporto è di natura ambigua e contraddittoria. Da una parte, c'è la risoluta, tenace, eroica battaglia condotta a tutto campo contro la mafia dalla magistratura e dalle forze dell' ordine, appoggiate da forze politiche democratiche e da gruppi sempre piti consistenti di cittadini, esasperati dalla prepotenza e dal soffocamento mafiosi. Dall'altra, c'è la costante e possente inclinazione di un ceto politico cinico a «vivere con la mafia», sulla base del tradizionale scambio tra voti e favori: tra il sostegno elettorale assicurato alle maggioranze, e il flusso di risorse e le garanzie d'impunità.
Si può stabilire un confronto con il vecchio blocco agrario.
Allora, la supremazia incontrastata della classe dominante era esercitata brutalmente e direttamente. Ora, la rendita della mafia è riscossa sotto forma di "pizzo" sull'intera società.
Naturalmente, sorgono conflitti interni al "blocco", anche violenti, anche sanguinosi. A un certo punto, dopo la sfida aperta allo Stato da parte dell' ala estremista della mafia, sembrò che fosse venuta l'ora di una resa dei conti e di una sconfitta storica della mafia. Ma anche quell' ora è passata, i nuovi padrini sono tornati alle buone maniere: la mafia si è temporaneamente inabissata, e le antiche consuetudini di scambio politico hanno ripreso vigore.
Torniamo, ora, a considerare le due evoluzioni: la rivolta nordista e la deriva mafiosa sudista.
La prima, dopo una fase dimostrativa di separatismo, si è radicata al Nord nel leghismo: espressione di un'estrema destra gelosamente conservativa, decisa a contrastare la continuazione di politiche sistematiche di trasferimento di risorse al Sud. La pressione leghista, nella nuova maggioranza di governo, ha determinato l'abbandono di fatto dell'impegno meridionalista come priorità politica nazionale. La nuova «questione settentrionale» ripropone in pratica la visione che, prima dell'avventura garibaldina, il moderatismo risorgimentale aveva dell'Italia, quella di «un grasso Belgio»: un Nord profondamente inserito in Europa; un Sud abb~ndonato a se stesso. Nonostante ogni protesta virtuosa, questa è la filosofia che sta al fondo dell'attuale disegno di federalismo fiscale.
Il fatto è che, abbandonato a se stesso, il Sud rischia di essere travolto da un' ondata di criminalità mafiosa che, forte di collegamenti internazionali sempre più intensi, minaccia di tracimare al Nord.
Un giorno, Giuseppe Mazzini pronunciò queste parole: d'Italia sarà quel che il Mezzogiorno sarà». Dovevano essere intese nel bene e nel male. Nel bene le aveva intese Cavour, che sul letto di morte, contrastando i giudizi già allora assai delusi e pessimisti che gli circolavano intorno, espresse un confidente ottimismo sul futuro luminoso del Mezzogiorno d'Italia. Ma la profezia mazziniana aveva anche un risvolto amaro. Ed è proprio questo che si profila oggi, dietro la miope visione del «grasso Belgio», che sembra dominare la filosofia politica del nordismo moderno. È una filosofia che sembra abbia influenzato anche autorevoli e valorosi meridionalisti della sinistra, sedotti dal "tremontismo": penso soprattutto alla diagnosi "capitolarda" di uno dei più intelligenti, Biagio de Giovanni, e mi domando se talvolta delusioni e rancori non finiscano per annebbiare la lucidità dell' analisi.
Ebbene, questo nordismo provinciale è miope rispetto alla tremenda minaccia che grava su tutto il paese: di diventare un "Mezzogiorno d'Europa", centro nevralgico della grande rete della criminalità mondiale.
Non si tratta di minacce futuribili.
Pensare che il sistema mafioso resti confinato al Sud del paese è pura ipocrisia: il cancro sta pericolosamente risalendo verso il Nord. Si è impiantato stabilmente a Mil'\no e in Veneto e deborda dallo stesso quadro italiano (De Saint-Vietar).
Una delle pili coraggiose denunce della profondità dell'infiltrazione mafiosa in alcuni grandi settori dell'industria è stata quella dell' allora leader di Confindustria, Luca Cordero di Montezemolo, nel 2007; cui fanno penosamente riscontro le parole dell' ex ministro dei Lavori pubblici Lunardi, secondo le quali è necessario convivere con la mafia.
Del resto, già parecchi decenni fa, Milano è stata sede di banche gravemente indiziate di riciclaggio di fondi mafiosi, e teatro delle gesta di personaggi celebri per le loro intricate collusioni con la finanza mafiosa. Negli anni Novanta Milano è stata sede di dieci maxiprocessi di natura mafiosa, con centinaia d'imputati.
Torno alle osservazioni precedenti, relative ai pericoli d'involuzione autoritaria che gravano su questo paese. Ho già espresso le mie riserve, dovute non certo all'inesistenza di propositi e di pulsioni autoritarie, quanto all'esistenza di forti difese, esterne e interne. Altrettanto dicasi quanto ai rischi di secessione, del Nord o del Sud. Ma i rischi di decomposizione del tessuto sociale sono, invece, già in condizione avanzata: presenti e manifesti.
Il populismo privatistico che ha investito in pieno questo paese ha caratteristiche e prospettive che vanno al di là delle vicende dell'attuale sorprendente leader, per quanto queste possano riservare sorprese. Esso non presenta un'ideologia (non raggiunge questo livello), ma comporta un clima. E questo clima di lassismo morale, per tutto ciò che è res publica, è quello che meglio si adatta a coltivare le predisposizioni alla criminalità organizzata. Pulsioni di ricchezza e baldoria, disprezzo della politica, tribalismo calcistico, insofferenza per la critica, impazienza della discussione; ma, soprattutto, onnipotenza della cura dei propri affari, su ogni altra preoccupazione sociale.
Prese ciascuna per suo conto, queste pulsioni sono di certo relativamente innocue. Calate insieme in un messaggio politico, possono essere devastanti.
Quel che sgomenta, per una persona ormai inguaribilmente plasmata dai valori del 1789 (libertà, eguaglianza, fraternità), è l'assenza totale di un messaggio contrapposto, di eguale intensità e potenza, dalla parte sinistra.
All'invocazione di questo messaggio, limitata al caso italiano, sono dedicate le ultime pagine di questo libro.
Capitolo sesto
SENZA CONCLUSIONI
L'era berlusconiana è una parentesi effimera? Ci sono buone ragioni per pensare che la sua spinta propulsiva sia esaurita (cosi la pensa, per esempio, Aldo Schiavone). Ce ne sono altrettante per valutare i rischi che essa presenta: quelli di una deriva autoritaria, di una polverizzazione sociale e, soprattutto, quello di una decomposizione territoriale del paese.
Per «decomposizione territoriale» intendo, per l'Italia, una condizione nella quale il Nord somigli a un «Belgio grasso» (secondo la definizione di Omodeo), e il Sud a una colonia mafiosa.
Una condizione a dir poco spiacevole, a centocinquant'anni dall'unificazione. Questo pericolo non è avvertito da una sinistra che ha cessato di rappresentare un' alternativa di governo credibile, per non dire un progetto di società diversa. E che si limita al "controcanto". Anche la sinistra, non solo la destra, ha da tempo abbandonato la «questione meridionale».
E invece, è proprio su questo terreno che essa potrebbe riacquistare l'iniziativa politica perduta: come forza capace di arrestare il processo di decomposizione, e di realizzare finalmente il compito storico "mancato" dell'unità, dopo quello conseguito dell'unificazione.
Riprendere in mano la questione meridionale non significa, ovviamente, riproporla nei termini "gramsciani". È passato quasi un secolo, e la depressione politica del Mezzogiorno non s'identifica più nel potere della classe agraria e nella sua alleanza subalterna con la borghesia industriale del Nord, ma nel potere di una borghesia mafiosa, e nello scambio tra il voto elettorale che essa garantisce al governo centrale, e le risorse finanziarie che riceve tramite quello, e che gestisce attraverso i governi locali.
Questa borghesia "politica" è legata alla mafia militare, quella dei Provenzano e dei Riina, in un rapporto dialettico che comporta tensioni e conflitti, ma che resta indissolubile: il che spiega l'eterna risorgenza delle mafie dopo i colpi, anche durissimi, che esse subiscono dall'apparato giudiziario e militare dello Stato.
D'altra parte, la mafia militare s'intreccia sempre più con le grandi reti della criminalità internazionale, acquistando sempre maggiore autonomia, e radicandosi profondamente non solo in Sicilia, ma in altre grandi regioni e città del Mezzogiorno, dove si trasforma in quartier generale del crimine internazionale.
Questo è il doppio nodo che bisogna spezzare: tra la classe politica meridionale e la mafia; tra la mafia e le reti internazionali del crimine.
Queste due battaglie non hanno alcuna probabilità di essere vinte, nell' attuale stato di frammentazione politica e amministrativa del Mezzogiorno, lasciato nelle mani di governi regionali contaminati, e spesso sopraffatti, dai legami clientelari e dalle pressioni mafiose.
Bisogna mettere in campo un nuovo soggetto: un vero e proprio Stato federale del Mezzogiorno. L'idea non è nuova. Essa riprende in circostanze nuove il grande progetto della rivoluzione meridionale di Guido Dorso, e della costituzione meridionale federalista di Gaetano Salvemini: un governo autonomo del Mezzogiorno, saldamente ancorato a una costituzione nazionale autenticamente federalista.
Ricordiamo le parole di Guido Dorso, mai cosi attuali:
La soluzione del problema meridionale non potrà avvenire se non sul terreno dell'autonomismo. Ogni altro tentativo o ci riconduce nel vecchio schema della carità statale o minaccia di sbalzarci nel separatismo reazionario (Villari).
Si tratta, nel solco di quella proposta "rivoluzionaria", di trascendere il regionalismo, che ha frammentato la questione meridionale, favorendo la formazione di clientele locali e perdendo di vista l'unità del problema, per costituire un governo del Mezzogiorno come soggetto politico unitario.
Questo disegno non ha niente a che fare con la boutade di un "partito del Sud", e cioè di una formazione leghista del Sud che si contrapponga a quella leghista del Nord: un vecchio progetto, ricalcato su precedenti, e ben note, insorgenze di carattere separatista, secessionista e mafios,9.
La visione cui si ispira è quella del federalismo unitario: di un grande patto fra il Nord e il Sud del paese, posti stillo stesso piano autonomista, e volto a superare finalmente il distacco fra le due parti del paese, ricongiungendole in un'unità superiore. Proprio la visione di quei grandi meridionalisti che avevano concepito la questione meridionale come la chiave dell'unificazione nazionale.
Bisogna, però, distaccarsi decisamente dalle forme parassitarie e corrotte nelle quali l'intervento straordinario è caduto, e riproporre il problema antico nella nuova configurazione europea. Esiste, dunque, un problema di recupero e un problema d'integrazione.
Quanto al primo, l'obiettivo del superamento del divario dovrebbe essere realizzato non contando soltanto sui trasferimenti finanziari dall'esterno, ma anche e soprattutto su una mobilitazione delle risorse del Mezzogiorno stesso. A tal fine, i trasferimenti dovrebbero essere convogliati, nell' arco di una generazione, in un unico grande piano di risanamento e di sviluppo urbano.
Il problema fondamentale del Mezzogiorno, oggi, è costituito infatti dalle sue città degradate e congestionate, soprattutto da quelle più grandi e popolose, come Napoli, una vera e propria emergenza sociale: sporcizia dei rifiuti, abbandono scolastico, illegalità sistematica, racket, e soprattutto acquiescenza passiva, che talvolta si muta in attivo consenso, che queste avvilenti pratiche riscuotono nel fondo della coscienza popolare. Strutture urbane fatiscenti costituiscono lo scenario connaturato di questa degradazione.
Il segno più evidente della degradazione, afferma il Censis, è la fuga dei giovani dalle città. Negli ultimi cinque anni, diversamente da Milano, Torino e Firenze, la popolazione di Palermo, di Napoli e di Catania è diminuita. E sono giovani, quelli che abbandonano i loro coetanei all'influenza e alla militarizzazione delle cosche.
Il "territorio" è stato abbandonato a se stesso, il suo controllo è passato nelle mani dei governi criminali, in costante conflitto tra loro.
È, dunque, partendo da una riorganizzazione urbanistica che si può liberare il territorio dalle incrostazioni criminali. Un ambiente urbano provvisto dei servizi civili fondamentali, soprattutto di quelli relativi alla sicurezza, è la condizione per l'insediamento di nuove imprese. E soprattutto, è la condizione essenziale per sradicare dal Mezzogiorno l'escrescenza tumorale della mafia.
La guida politica del piano dovrebbe essere compito fondamentale e centrale del governo federale del Sud, sotto il controllo di un' assemblea democratica che costituisca la matrice di una nuova classe dirigente meridionale. La sua gestione operativa dovrebbe essere affidata a una Banca del Risanamento e dello Sviluppo, che la sottragga a ogni pressione tangentizia e clientelare.
L'obiettivo del recupero, che realizzi finalmente le promesse del Risorgimento, fondando su un patto federativo l'unità del paese, non può, però, prescindere dal contesto internazionale nel quale si svolge la vicenda politica italiana: in primo luogo, da quello europeo.
Il Sud d'Italia non è soltanto un problema italiano. È parte integrante della questione mediterranea, a sua volta parte determinante del progetto europeo. Quest'aspetto è stato riconosciuto dall'Unione Europea quando, nel 1995, essa fondò, insieme con i dodici paesi della sponda meridionale del Mediterraneo, il Partenariato euromediterraneo, meglio no- to come Processo di Barcellona, che aveva per obiettivo prossimo la costituzione di un'area di libero scambio; e, al di là di quella, un impegno transnazionale dei paesi della sponda nord e di quella sud del Mediterraneo al perseguimento di tre obiettivi principali: la cooperazione politica, la prosperità economica, l'intesa sociale e culturale. Non è questo il luogo per spiegare le ragioni di un deludente seguito di quell'impegno esaltante (a tutt'oggi, il commercio intermediterraneo è fermo a meno del 15% delle esportazioni totali della zona).
Ci si può limitare a richiamare la ragione più ovvia: il formidabile handicap che il conflitto arabo-israeliano costituisce per l'avanzamento di un processo cosi ambizioso. Ma è certo che, indipendentemente da questo colossale ostacolo, nessuno dei paesi partecipanti si è impegnato seriamente e concretamente, nella promozione di una serie di progetti rispondenti ai tre obiettivi del processo.
Ecco un' occasione per un nuovo soggetto politico, posto al centro del Mediterraneo, per misurarsi con questa sfida. Romano Prodi si era fortemente impegnato in questa direzione, ma i suoi successori hanno preferito la politica degli incontri mediatici a quella degli impegni concreti.
L'occasione è, per l'Italia, e in particolare per un eventuale governo federale del Mezzogiorno italiano, quella di impegnarsi decisamente in una politica di europeizzazione mediterranea, equilibrando la spinta che l'Unione riceve dai paesi dell'Europa orientale. La storia del nostro paese, che nella prima parte di questo libro abbiamo evocato, lo pone in una condizione di primato storico, oltre che di posizione geografica.
Queste considerazioni, che non possono essere conclusive, non giustificano affatto la speranza che ciò che è mancato ieri, la saldatura storica tra le due metà del paese troppo lungo, possa realizzarsi domani. Al contrario. Nei giorni in cui scriviamo, molte nubi si addensano, al Nord come al Sud, che gettano una luce sinistra sulle imminenti celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia. lo per primo mi rendo conto di quanto una proposta di recupero storico di quell' obiettivo, in grande parte mancato, come quella che ho avventurosamente avanzato, possa apparire impraticabile. Dalla mia parte c'è soltanto il ricordo, cosi insistentemente evocato nel libro, di quanto sia apparsa sorprendente l'unità d'Italia.
Prima di chiudere, vorrei, però, difender mi da due obiezioni possibili, e formulare un'istanza improbabile.
La prima obiezione è che la proposta qui enunciata ha tutte le probabilità di scontrarsi frontalmente con il grosso della classe politica dirigente del Sud, a destra ma anche a sinistra: una classe dirigente incardinata nelle strutture regionali dalle quali deriva il suo potere, a sinistra e a destra.
Ma è proprio questo lo scopo della proposta: di demolire il potere delle attuali classi dirigenti; di spezzare i legami che si sono intrecciati fra reti politiche clientelari e reti mafiose territoriali; di fondare su base democratica una nuova classe politica meridionale, in grado di rappresentare e di gestire problemi che, per loro natura, investono !'intera area meridionale. Verranno alla luce conflitti interregionali; io direi, più che altro, interclientelari? Oportet ut scandala eveniant. Qui si misura la capacità di un grande partito di rappresentare gli interessi generali, anziché le tribù locali, dalle quali esso stesso finisce per essere condizionato e corrotto.
La seconda obiezione potrebbe essere mossa da quanti pensano che ormai il problema dell'unità nazionale è alle nostre spalle. Quella sarebbe, dicono, un' occasione perduta, una volta per tutte. Oggi non bisognerebbe perdere altro tempo, inseguendo ombre fugaci. Nel tempo in cui si edifica l'Europa, bisogna calarsi in questa nuova impresa storica, nella quale investire tradizioni, inclinazioni e contributi più ricchi di quelli di altri paesi, senza attardarci su linee che sono state da tempo travalicate. Questa posizione che, fra altri, è stata argomentata, con la consueta finezza culturale, da Aldo Schiavone, devo dire, non mi convince affatto. Una delle ragioni per le quali l'europeismo italiano non è mai stato preso troppo sul serio è la sua gratuità. È facile rinunciare a sovranità deboli. Quelle che contano, sono le rinunce "forti". Su quelle si trasferiscono e si edificano poteri reali. Una voce flebile in Italia non acquista forza in Europa.
Abbiamo dato in altri tempi all'Europa ingegni finissimi che, o sono diventati efficaci e potenti, a patto di convertirsi agli interessi nazionali dei paesi che li avevano "adottati" (si pensi a un Mazzarino), o hanno svolto una funzione di brillante cornice, di un quadro dal quale il loro paese mancava totalmente.
È un'illusione, quella di colmare il vuoto di una personalità nazionale con quello di un' avanguardia europea. Il miglior europeismo è quello che si nutre pienamente delle realtà nazionali: dei loro caratteri, delle loro richieste, persino dei loro pregiudizi, per arricchirlo. L'europeismo ha tanto pili valore quando è il contributo di un azionista che conferisce parte del suo capitale. Si rischia altrimenti, ancora una volta, d'incorniciare un quadro cui fa difetto una presenza effettiva. Di fare la parte dei cantori, non dei costruttori dell'Europa. Il solo modo di essere seriamente europeisti è di poter contare su un'indiscutibile identità nazionale.
Infine: l'istanza è rivolta alla sinistra democratica e riformista. Essa sta attraversando un momento di oscuramento dei suoi obiettivi, di spaesamento dei suoi propositi. Sembra incapace di riconoscer si in una realtà sociale che esprima sinteticamente i suoi ideali e le sue aspirazioni. Una volta questa realtà sociale era la classe operaia. Oggi quella si è amalgamata in una struttura sociale complessa e differenziata. C'è, però, una forma superiore della solidarietà sociale, che la destra ha da tempo abbandonato, sciogliendola in un populismo privatistico disgregante. Ed è la forza ideale della nazione.
Realizzare attorno a un progetto nuovo di unità nazionale una vasta rete di solidarietà è la risposta pili efficace al messaggio populista e privatista. È il segno che la "gente", oggi abbandonata all' autoritratto sterile dei sondaggi, può ancora trasformarsi, riconoscendosi nel suo passato, impegnandosi nella costruzione del suo futuro, in "popolo".
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