venerdì 13 gennaio 2012

libro limes esiste l'Italia?

LIMES - ESITE L’ITALIA? DIPENDE DA NOI

L’ITALIA SECONDO GLI ITALIANI
Secondo l’indagine Lapolis-demos-limes in collaborazione con Intesa Sanpaolo, gli italiani si allontanano sempre più dalle istituzioni, Ue compresa. E si rifugiano nelle patrie immaginarie e nella tradizione sociale. Il paese è inadeguato da affrontare le sfide giovanili.

L’Italia è la nostra famiglia
Ilvo Diamanti

L’identità territoriale degli italiani riflette largamente il modello del passato. Se possibile, ne riproduce in modo più marcato i tratti principali. In altri termini: lontana dalle istituzioni pubbliche e attaccata a quelle sociali; povera di senso civico ma ricca di senso comune.

L’identità nazionale, in particolare, sino ad oggi è apparsa complementare ad altre appartenenze territoriali. D’altronde, per ragioni storiche e sociali, l’Italia è un paese dai molti riferimenti: le città, anzitutto, poi, in alcuni casi, le regioni. Peraltro, la frattura storica Nord/Sud ha prodotto due questioni - in primo luogo quella meridionale e quindi quella settentrionale - in grado di imporsi come fonti di riconoscimento.

Gli italiani confidano nella propria famiglia e in se stesi. Nella propria capacità di adattarsi e di reagire di fronte alle difficoltà. Nella propria creatività, esibita in ogni ambito: nella vita quotidiana, ma anche nell’arte e nell’economia. Sottraendosi, però, alle regole e ai vincoli pubblici. Gli italiani pensano sia possibile vivere bene “nonostante” lo Stato.

L’affermarsi delle patrie artificiali
I riferimenti dell’appartenenza territoriale, negli ultimi dieci anni, mostrano un’evoluzione chiara, che procede in tre direzioni.
A) Il declino delle identità più definite e istituzionalizzate più definite e istituzionalizzate, a livello nazionale e locale. Se consideriamo i riferimenti territoriali nei quali gli intervistati si riconoscono maggiormente, infatti, si rileva un calo dell’appartenenza regionale e urbana, oltre a quella nazionale.
B) Il ridimensionamento, costante e altrettanto sensibile, dell’appartenenza europea.
C) L’affermarsi dell’identità cosmopolita e, soprattutto, di quella “nordista”.
      In altri termini: fra gli italian, nell’ultimo decennio, si sono imposte soprattutto le patrie virtuali, i riferimenti territoriali dotati di forza simbolica elevata, ma fondati su basi istituzionali fragili, se non inesistenti. Come la Padania e il mondo.

Emergono, invece, alcuni motivi di disorientamento, di cui l’indagine LaPolis-Limes fornisce misure e spiegazioni piuttosto chiare. Quattro di esse risultano particolarmente importanti.
La prima è il ritorno delle fratture territoriali, vecchie e nuove, riassunte attraverso due formule note nella letteratura sull’Italia: la questione meridionale  e quella settentrionale. Ne fornisce un indice esplicito l’allargarsi della quota di persone che esprime distacco dal Nord o dal Sud: complessivamente, sale dal 20% al 31% negli ultimi tre anni. Riflette una reciproca ostilità che oggi appare molto intensa. Infatti, il 26% di chi abita nelle regioni del Nord (senza l’Emilia Romagna, per omogeneità geopolitica) - e il 20% di chi risiede nelle regioni rosse - afferma di sentirsi lontano e implicitamente avverso al Mezzogiorno. Viceversa: il 29% delle persone che abitano nel Sud esprime distanza e risentimento nei confronti del Nord.

Oltre un terzo dei cittadini del Nord (più del 40% nel Nord-est), ma anche delle regioni “rosse” del Centro ritiene che il Mezzogiorno sia “un peso per lo sviluppo del paese”. Sempre nel Nord, inoltre, più di 2 su persone 10 si dicono d’accordo che “Nord e Sud si dovrebbero dividere e andare ciascuno per conto proprio”.
Vent’anni di polemiche e di mobilitazioni fondate sull’opposizione fra interessi e culture territoriali non sono passati invano. Le distanze nel paese sembrano essersi rapidamente allargate. E le posizioni sui temi dello sviluppo e delle politiche territoriali si presentano sempre più divergenti. Come sull’attuazione del principio federalista, rispetto al quale gli italiani si dividono circa a metà, fra quanti vorrebbero ridistribuire le risorse in base alla ricchezza prodotta dalle regioni e quanti, al contrario, preferirebbero privilegiare le aree più svantaggiate.

D’altra parte, il peso delle persone che si riconoscono nelle macroaree, nell’insieme, appare superiore rispetto a quello di coloro che esprimono appartenenze nelle città e nella regioni. Sul piano delle identità, in altri termini, le “patrie artificiali” sembrano contendere spazio e rilievo a quelle istituzionali.

Queste fratture interne al paese si stanno realizzando senza particolari traumi; senza mobilitazioni e senza marce lungo il po, com’era avvenuto in passato. Senza minacce seccessionistiche. Il distacco reciproco tra le diverse aree del paese e in particolare del Sud dal Nord - ma meglio sarebbe dire: dal centro-Nord - si sta consumando senza rumore. Silenzioso e invisibile. Dato per scontato e quasi disciolto nel senso comune.

L’Europa è una moneta svalutata
Il terzo motivo che stressa l’identità territoriale degli italiani riguarda il rapporto con gli ambiti esterni. Anzitutto con l’Europa. Gli Italiani, il popolo più europeista sempre più come un costo, un vincolo e una fonte di incertezza. Un costo, perchè l’introduzione dell’euro, salutata come un successo dalla larga maggioranza degli italiani, oggi è percepita come causa dell’aumento dei prezzi. Un costo, appunto, e, semmai, uno svantaggio competitivo per le esportazioni.

Gli stranieri devono sembrare italiani. Ma non troppo
Il quarto motivo che contribuisce a rimodellare l’identità italiana è il rapporto con gli “altri”. Cioè: con gli stranieri. Ossia con gli immigrati, che negli ultimi dieci anni sono cresciuti, in Italia, a tassi molto rilevanti, fino a divenire un fenomeno ampio e significativo. E’ il volto socialmente più visibile della globalizzazione.

Il bricolage dell’identità nazionale
La complessa architettura dell’identità territoriale appare quindi squilibrata e un po’ traballante. Stressata dall’affermarsi delle opposte patrie artificiali: la Padania e il mondo. Dal declino dei riferimenti subnazionali, anzitutto la regione. Ma soprattutto dalla perdita di fiducia nel principale riferimento esterno: l’Europa. In quest’epoca, l’identità nazionale soffre, inoltre, il riacutizzarsi della questione meridionale e, in parallelo, della questione settentrionale. L’allargarsi della frattura tra Nord e Sud. Mentre l’immigrazione pone la questione della cittadinanza e soprattutto della sicurezza. Che, in qualche misura, contrastano reciprocamente: visto che la cittadinanza evoca apertura e solidarietà, mentre la sicurezza suscita, all’opposto, diffidenza e domanda di controllo.
Per questo, la costruzione dell’identità italiana continua ad affidarsi, oggi più di ieri, soprattutto alle virtù e ai vizi della dimensione sociale e soggettiva. In altri termini: al “carattere nazionale”. Il quale poggia su tre puntelli, ben evidenziati dalle ricerche di La Polis-Limes (compresa la più recente): l’arte di arraggiarsi, la famiglia e la creatività (nell’impresa, nell’arte, nella cultura eccetera).

Qual è il nostro carattere nazionale?
Vizi (pubblici) e virtù (sociali) dell’italianità
L’immagine che gli italiani forniscono di loro stessi, per de-finirsi rispetto ad altri popoli, riflette una graduatoria ormai nota. Ambiti come la famiglia, l’arte di arrangiarsi, il patrimonio artistico, la creatività nelle arti e nell’economia rappresentano i cardini principali sui quali si innesta il carattere nazionale.
Tra gli altri, assumono un importanza considerevole la tradizione cattolica – che nello specifico nazionale assume una forte connotazione etnico-culturale – e la capacità imprenditoriale, legata al made in Italy. Cioè a quei prodotti o marchi che rappresentano l’Italia nel mondo.

Orgogliosi di …
Il quadro illustrato sopra viene precisato da altri specifici aspetti che alimentano il sentimento di orgoglio nazionale. Il patrimonio artistico e culturale (81%), le bellezze del territorio (79%) e la cucina (79%) sono gli aspetti che più rendono i cittadini fieri di essere italiani. E’ comprensibile che un popolo si riconosca oltre che in elementi estetici, come l’arte e il paesaggio, nei profumi e nei sapori della propria tradizione  gastronomia. E’ un sentimento che si esplica nei prodotti tipici del territorio, nel come e nel dove si mangia. Il cibo è, per definizione, un simbolo, una fonte di identità e di riconoscimento (ma anche di distinzione). Per gli italiani in particolar modo, i quali vengono generalmente associati, dagli stranieri, a pizza e spaghetti (e alla mafia).

Dunque il sentimento nazionale e l’orgoglio nazionale trovano le proprie radici in significati che sono eredità del passato (il patrimonio artistico) o nelle risorse paesaggistiche (la bellezza del territorio) oppure ancora nella sensibilità e nelle capacità atletiche o infine nel carattere generoso degli italiani.

Italiani, nonostante tutto
Un’altra domanda del sondaggio LaPolis-Limes chiedeva di indicare l’intensità del legame con diversi ambiti di significato. Emerge come primo l’Italia (35%), segue  la religione (31%) e quindi la città (30%). Più distaccate sono la categoria professionale (16%), la classe sociale (14%), la squadra di calcio (11%) e infine, come prevedibile, l’appartenenza più debole riguarda il partito o lo schieramento politico (8%).
Dunque, l’identità degli italiani si incardina anzitutto intorno alla parola, o meglio al contenitore semantico “Italia”. I significati con cui viene riempito sono sicuramente diversi ma, alla luce di quanto visto sopra, “Italia” e italianità vengono intese soprattutto come arte, creatività, famiglia e tradizione cattolica, oltre a essere un approdo per l’appartenenza territoriale (si veda il saggio di Ilvo Diamanti in questo dossier).

La dimensione pubblica non riesce ad ancorare l’elemento identitario. Rispetto a questa sfera l’identità si opacizza, perde quella definizione  che invece sanno trasmettere altri riferimenti. Così il modo di sentirsi italiani si incardina nelle pieghe della storia, nelle espressioni della tradizione (gastronomica, artistica, cattolica) e nella cerchia ristretta della famiglia. Un’identità fluida e composita, che si fonda socialmente, restando  debole istituzionalmente.
Tra i diversi aspetti che contribuiscono alla costruzione del carattere nazionale, la capacità di arrangiarsi si configura come una vera e propria  arte italiana. Si colloca al centro dei vari significati che compongono l’identità nazionale. L’arrangiarsi diventa un “mestiere” (il che non significa che gli italiani siano dei faccendieri), una prassi della quotidianità, un modo di essere e di vivere “all’italiana”. Ricorda ai cittadini chi sono, la loro capacità adattiva e reattiva. Il punto critico è semmai il senso di questa abilità nazionale; in bilico tra vizio e virtù, tra scelta e necessità.

Noi e gli altri: come si diventa italiani?
Fabio Bordignon, Natascia Porcellato

La progressiva connotazione dell’Italia come terra di immigrazione ripropone e attualizza la discussione su cosa significhi (oggi) essere italiani, e a quali condizioni si possa diventare italiani.

Diventare italiani, essere italiani
Ma in che modo gli “altri” possono diventare parte di “noi”? Anche in merito all’acquisizione della nazionalità tende a presentarsi una concezione “aperta”, per quanto la prospettiva sociale, nel tempo, si sia ridefinita in senso restrittivo.
Agli stranieri che vogliono diventare italiani si chiede sostanzialmente di “attendere”: lasciar passare qualche anno, e, nel frattempo, rispettare le leggi. Il diritto di cittadinanza si lega maggiormente alla richiesta di residenza e di regolarità con leggi e fisco (in aumento rispetto al 2001),  seguito da una richiesta di accettazione da parte del migrante dei valori e delle leggi italiane.

La valutazione sulle strategie integrative da seguire ci aiuta a precisare meglio questo punto. Un approccio di tipo assimilazioni sta è oggi quello maggiormente condiviso: il 56% del campione sostiene che gli immigrati dovrebbero essere inseriti nelle comunità in cui vivono, adeguandosi ai valori e alle loro tradizioni.

Considerazioni conclusive
A quasi 150 anni dall’unità d’Italia, appare ancora attuale la questione su come “fare gli italiani”. L’Italia, agli occhi dei suoi cittadini, rimane una cornice mobile, al cui interno convivono, una accanto all’altra (spesso contrapposte l’una all’altra), identità differenti.

1) La debolezza e la vaghezza dell’italianità possono attenuare l’impatto dell’immigrazione. La prospettiva aperta, indefinita (verrebbe da dire di matrice multiculturali sta) genera meno domande, meno condizioni e meno barriere per i nuovi arrivati, facilitando il loro inserimento in Italia e, forse, la convivenza tra “noi” e gli “altri”. Per diventare italiani, in fondo, non si chiede molto: rispettare le leggi innanzitutto non delinquere, e rimanere qualche anno in attesa.

2) Esiste però un’altra possibilità, che si profila soprattutto al crescere delle difficoltà e delle tensioni sociali, nelle fasi in cui sale, al contempo, il volume delle contrapposizioni politiche.

La crisi economica in atto rischia di rendere più stridenti le tensioni sul mercato del lavoro: l’immigrato, che in fase di espansione produttiva è stato visto come una risorsa per le imprese, rischia oggi, in tempi di licenziamenti e cassa integrazione, di diventare uno scomodo concorrente per il posto di lavoro. Ma il momento di affanno generalizzato può dare luogo anche ad altre forme di competizione: per l’accesso alla casa, ai servizi sociali, socio-sanitari eccetera.
C’è il rischio, inoltre, che il ritorno delle contrapposizioni e degli antagonismi di natura territoriale, particolarmente visibile dai dati di questa ricerca, si riverberi anche nell’atteggiamento verso i nuovi arrivati. Che cresca il “tutti contro tutti”: il Nord contro il Sud, Milano contro Roma, l’italia contro altri paesi, gli italiani  contro gli immigrati.

ESISTERANNO GLI ITALIANI?
La fortissima immigrazione straniera colmerà in parte il buco demografico provocato dalla nostra grave crisi di fecondità. Gli immigrati diventeranno elemento strutturale e non più marginale della società. E al Centro-Nord vi saranno più giovani che al sud.

1. Lungo vari decenni. A partire dagli anni Settanta del secolo scorso, la fecondità italiana è scesa a livelli inimagginabili, nel senso che nessun demografo aveva saputo (potuto?) prevedere che si sarebbe raggiunto nel 1995 il valore medio di 1,18 figli per donna (il che detto in altri termini equivale a 118 figli per ogni 100 donne o, meglio, per ogni 200 genitori). Si trattava del valore più basso mai registrato nella storia dell’umanità per una popolazione di grandi dimensioni; insieme con i ridottissimi valori degli anni precedenti, era il serio e sicuro preavviso di un declino annunciato, dal momento che è ben intuitivo come, nel ciclo delle generazioni, solo quando 200 figli sostituiscono 200 genitori è assicurata, a parità di altre condizioni, la crescita zero della popolazione. Invece, 118 figli ogni 200 genitori comportano, a parità di altre condizioni, un declino della popolazione di circa il 40% a ogni intervallo generazionale, cioè all’incirca ogni 30 anni.

Dall’altro lato c’erano i demografi (nemmeno tutti, peraltro), oltre alcuni sociologi e rari economisti, a denunciare l’eccesso di bassa fecondità (cioè un valore molto al di sotto di 2 figli per donna) dal momento che un declino troppo marcato e rapido della popolazione avrebbe portato a gravi problemi per la società e l’economia italiane soprattutto viste in una situazione comparativa internazionale; in particolare per il fatto che più rapido è il declino della fecondità, o meglio del numero di nati in una popolazione, e più rapido e più intenso è il suo invecchiamento, che si manifesta attraverso una riduzione del numero e della proporzione della popolazione giovane, sia attraverso un aumento del numero e della proporzione della popolazione anziana e vecchia. E così l’italia si è ritrovata alla fine del secolo scorso, e si ritrova ancora adesso, con la più bassa proporzione alla più alta proporzione al mondo di popolazione con 60 anni e più – il 24%, cioè quasi una persona su 4; attualmente ha anche il più elevato rapporto al mondo fra anziani inattivi e forze di lavoro, quasi 48%. Valori questi ultimi due destinati ad aumentare nel tempo.
Le tendenze appena delineate hanno provocato, fra l’altro, un vero e proprio buco nella popolazione giovane italiana, che è stato progressivamente, ma finora parzialmente, riempito con un’eccezionalmente forte immigrazione straniera, arrivata in pochi anni a contare circa 4 milioni di persone, clandestini e irregolari inclusi.

L’immigrazione straniera sta sconvolgendo, e continuerà a sconvolgere, ammontare, struttura e tendenze della popolazione residente in Italia, mentre la popolazione di origine italiana va sperimentando, ormai da circa tre decenni, una fecondità straordinariamente e prolungatamente bassa, della quale quanto a livello e durata non vi erano precedenti nella storia.

Prendendo a base la protezione cosiddetta centrale (che allo stato sembra avere la maggiore probabilità di verificarsi), si trova che nel giro di 44 anni, dal 2007 al 2051 la popolazione italiana continuerebbe sia pure debolmente a crescere, grazie al solo effetto dell’immigrazione straniera. Infatti l’intera popolazione residente sul territorio aumenterebbe di 2,5 milioni, dai 59,1 ai 61,6 milioni di abitanti, con la popolazione d’origine italiana che scenderebbe dai 56,2 milioni ai 50,9 e quella di origine straniera  che salirebbe dai 2,9 ai 10,7 milioni. Al 2007 è straniera 1 per ogni 20 residenti del nostro paese; al 2051 invece lo sarebbe 1 persona su 6 circa. E’ in atto una vera e propria rivoluzione che richiede politiche molto più attive delle attuali in tema di integrazione, con particolare riferimento al lavoro, alla casa, alla salute, alla scuola e alla mobilità sociale, elementi essenziali per una corretta e appropriata crescita delle seconde generazioni e quindi per una duratura e vantaggiosa pace sociale. In una parola, l’immigrazione straniera diventa elemento strutturale e centrale della popolazione italiana e non più elemento marginale e marginalizzato come è stato considerato finora.
Verrebbe scompaginata la distribuzione della popolazione italiana sul territorio come conseguenza del fatto che l’immigrazione straniera si stabilizza in assai maggior misura nelle più ricche regioni del Centro-nord che non in quelle meno floride del mezzogiorno da dove, per di più, ripartono consistenti migrazioni interne. Di conseguenza la popolazione del Mezzogiorno scenderebbe dai 20,8 milioni di abitanti del 2007 ai 17,1 milioni nel 2051. Quella del Centro-Nord salirebbe invece dal 65 al 71% del totale italia, passando da 38,4 a 43,5 milioni (senza immigrazione la tendenza sarebbe del tutto rovesciata: scenderebbe da 35,8 a 33,6 milioni).
L’invecchiamento della popolazione italiana prosegue intensissimo, appena lievemente intaccato dall’apporto positivo dell’immigrazione, sia con l’aumento fino al 33% degli ultrasessantenni (contro l’attuale 20%), sia con la diminuizione fino al 12,8% (contro l’attuale 14,1%) delle persone con meno di 15 anni. L’aspetto assolutamente più sconvolgente è dato però dalla circostanza che il Centro-Nord, dove attualmente l’età media è più elevata, sarebbe destinata a diventare l’area con maggior numero di giovani e l’opposto varrebbe per il Mezzogiorno.
Queste tendenze demografiche pongono, fra l’altro, grandi sfide all’attuazione di un pieno federalismo fiscale: ci si aspetta che anche le regioni attualmente ricche del Centro-Nord siano caratterizzate da una crescita della popolazione totale del 10-20% mentre le regioni meridionali da una diminuzione del 12-14%; le regioni centro-settentrionali. La popolazione in età lavorativa diminuirebbe, nonostante l’immigrazione straniera, di circa 1,1 milioni di persone nel centro-Nord, e di ben 4,5 milioni nel Mezzogiorno. Dal momento che il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza prodotta, di un determinato territorio non è soltanto il frutto del sistema economico e della sua struttura e organizzazione, ma anche della quantità di persone che sono sul mercato del lavoro – il capitale umano, dal punto di vista quantitativo e qualitativo – e più in generale degli abitanti che in quel territorio consumano i beni e servizi, si avrebbe che nel lungo periodo, al di là delle capacità degli amministratori locali, con le tendenze in atto si alimenterebbe nelle regioni del Centro-Nord un circolo virtuoso fra economia e demografia, e invece uno vizioso prenderebbe piede in quelle del Mezzogiorno, dove all’economia fortemente depressa si affiancherebbe una demografia in declino.

4. Allargando lo sguardo al mondo intero è previsto che entro il 2050 la popolazione  in età lavorativa , dai 15 anni ai 64 anni, aumenti di quasi 1,7 miliardi di persone, con fortissime differenze territoriali: -92 milioni nei paesi economicamente sviluppati; +708 nei paesi a sviluppo minimo; e +1.067 nei paesi emergenti. Il che implica la necessità di creare nel complesso dei paesi in via di sviluppo all’incirca 1 miliardo e 250 milioni nuovi posti di lavoro per fronteggiare l’offerta che deriva dalla sola dinamica demografica.

I paesi economicamente sviluppati, per la prevista diminuzione della popolazione in età lavorativa, avranno bisogno di immigrati, che le Nazioni Unite stimano nella misura di 2-3milioni l’anno. La pressione migratoria e i flussi migratori Sud-Nord saranno quindi fortissimi e incontenibili. Ma mentre le migrazioni saranno in grado di risolvere i problemi demografici del Nord del mondo (sempre che esse abbiano continuità nel tempo), non saranno certo in grado di risolvere i problemi demografici ed economici del Sud.
Nel lungo periodo quindi si può immaginare che si vengano a creare nel mondo 3-5 Unioni regionali p sovra regionali (forse sul modello dell’Unione Europea), una delle quali potrebbe essere una grandissima Unione Euroafricana, all’interno della quale si avrebbe una piena e libera circolazione  di persone, oltre che di idee, capitali, merci. A quel punto sarà veramente difficile parlare di italiani o di francesi o di egiziani e individuarli.

L’ITALIANO SI FA A SCUOLA
Martina Gvainer e Giuseppe Sciortino

Negli ultimi trent’anni, l’Italia è divenuto un paese d’immigrazione. Nell’ultimo decennio, poi, essa ha conosciuto tassi d’immigrazione tra i più alti dell’area europea. Poco meno di un milione di stranieri risiedono continuativamente in Italia da più di un decennio. Una parte consistente delle nuove nascite ha un genitore straniero. Un numero crescente di studenti, nella scuola dell’obbligo ma anche nelle scuole superiori, è costituito da bambini e ragazzi di nazionalità straniera. La popolazione immigrata è ormai divenuta una componente strutturale della popolazione insediata nella penisola italica: un segmento che, al di là della sua rilevanza numerica, contribuirà sicuramente nei prossimi anni a mettere in discussione certezze implicite e consolidate su chi siano  gli italiani e su quali condizioni includano o escludano dal sistema delle identità e delle solidarietà collettive. Elaborare il cambiamento demografico per trasformarlo in realtà  socialmente riconoscibile richiederà un intenso lavoro di rielaborazione simbolica e non pochi conflitti.

Sotto molti profili, l’Italia continua ostinatamente a considerare l’immigrazione come un problema congiunturale, sperando che - tenendo botta abbastanza a lungo - esso finisca per risolversi da solo.

Tutti i fattori conosciuti sembrano escludere che, nel medio periodo, l’Italia possa trovare al proprio interno la forza lavoro richiesta dalle imprese e, in misura crescente, dalle famiglie.

Inoltre, i settori economici nei quali i lavoratori immigrati sono maggiormente inseriti - costruzioni, agricoltura intensiva, lavoro domestico - sono anche quelli dove è impossibile decentrare la produzione all’estero e dove appare meno probabile lo sviluppo di ulteriori innovazioni di processo.

Occorre accettare che una parte non trascurabile della popolazione della penisola è oggi fatta da individui immigrati o di origine immigrata. Si tratta di famiglie che sono qui per restare: basta chiedere alle banche quanti sono i mutui prima-casa accesi dai lavoratori stranieri per rendersene conto.

2. Contrariamente ai paesi dell’Europa settentrionale, dove il grosso delle presenze straniere è tuttora costituito dai lavoratori giunti negli anni del miracolo economico (e dai loro discendenti), l’immigrazione verso l’Italia è ancora un fenomeno in pieno svolgimento. Quasi la metà degli stranieri è giunto in Italia da meno di cinque anni e si trova quindi nella prima, critica fase del processo di insediamento.
Allo stesso tempo, tuttavia, non è più possibile negare che accanto a questi segmenti di popolazione straniera con bassa anzianità migratoria esista in Italia un segmento rilevante di stranieri residenti ormai ampiamente stabilizzati.

Un quarto degli stranieri presenti - senza contare i minori nati in Italia o giunti in tenera età - risiede stabilmente in Italia da oltre un decennio.

Ma questo non è vero per tutti gli immigrati in Italia. Se si guarda ai flussi di più antico radicamento nel nostro paese, la percentuale  dei residenti di lungo corso sale notevolmente, giungendo al 47% degli algerini e al 55% dei filippini presenti, sino all’87% dei cittadini di Mauritius.

In altre parole l’immigrazione in Italia è fatta sia di sistemi migratori dinamici e recenti, sia di insediamenti consolidati e ormai integrati nella società italiana.

Confondere queste due dimensioni non è una buona idea: oltre all’avere una cittadinanza straniera e l’avere attraversato nel corso della loro vita il confine italiano, gli “immigrati” in Italia non hanno generalmente molto altro in comune.

Occorre invece essere consapevoli che lo stock di stranieri presenti da lungo tempo, per quanto numericamente minoritario, è quello destinato a giocare il ruolo maggiore sull’evoluzione di lungo periodo della società italiana. Sono loro che stanno già oggi modificando lentamente l’immagine della nostra società, rendendo sempre più difficile dare per scontato che un “italiano” sia automaticamente bianco e cattolico.

Nella sua variante di destra, gli immigrati contemporanei vengono visti come non assimilabili, atomizzati, culturalmente e religiosamente rigidi e, ciò nonostante, interessati esclusivamente a incrementare i propri livelli di consumo. In assenza di forti controlli e di politiche rigide, si sostiene, il loro insediamento darebbe rapidamente vita a comunità separate, totalizzanti e ostili, portando al tracollo quel poco di struttura unificante sulla quale l’Italia può ancora contare.
Nella sua variante di sinistra, multiculturale, gli immigrati sono ugualmente caratterizzati da forti differenze culturali e dall’assenza di processi d’assimilazione.
Grazie alla popolarità di queste due opposte prospettive, l’idea che le migrazioni contemporanee siano portatrici di forti e irriducibili differenze culturali gode di un credito indiscusso. Peccato che non si disponga, a sostegno di questa idea, di alcuna evidenza empirica minimamente attendibile.
Al contrario, l’evidenza storica suggerisce una sostanziale continuità tra le forme del processo d’integrazione degli immigrati nella società moderne e contemporanee: non è stato affatto così facile in passato, non è necessariamente così difficile oggi. Inoltre, è utile ricordare che i (pochi) dati disponibili sembrano mostrate un rapido e veloce processo d’integrazione – alcuni potrebbero persino parlare di assimilazione – degli immigrati stranieri in Italia.

Questi ricercatori hanno calcolato un indice, con un valore compreso tra zero e uno, che misura l’esistenza delle condizioni di base che favoriscono il percorso di integrazione: regolarità del soggiorno, autonomia abitativa, stabilità residenziale, sicurezza del lavoro, conoscenza della lingua e presenza di reti sociali che comprendono anche membri della popolazione nativa.

Lo studio lombardo rivela l’esistenza di alcune significative differenze nel processo d’integrazione, a seconda del paese d’origine. E la cosa non è sorprendente: un numero apprenderà l’italiano comunque più rapidamente di un cinese. Ma ciò che conta, come mettono in evidenza i dati, è che l’anzianità migratoria, non già l’origine nazionale, rappresenta la variabile chiave per il processo d’integrazione. Se si confrontano i nuovi arrivati con coloro che sono in Italia da almeno cinque anni, i livelli d’integrazione dei secondi sono sempre sistematicamente e marcatamente più alti dei primi. Se l’immigrazione in Italia sembra essere caratterizzata da estraneità e precarietà , questo deriva non dall’assenza di processi di stabilizzazione degli immigrati, ma dalla crescente continuità di nuovi arrivi. La notizia della morte sociale degli immigrati nella società contemporanea è, a quanto sembra piuttosto prematura.

4. Uno degli aspetti più evidenti della stabilizzazione dell’immigrazione straniera in Italia è la forte presenza di minori. Degli otre 3,4 milioni di stranieri registrati nelle anagrafi italiane al primo gennaio 2008, più di un quinto ha meno di 18 anni e uno su dieci è nato in Italia da un genitore straniero.
Questa forte presenza di minorenni è dovuta a due processi distinti. Da un lato, gli immigrati residenti in Italia – una grande maggioranza dei quali in età fertile – creano famiglie e relazioni sentimentali dai quali derivano contingenti rilevanti di nuovi nati in Italia. Di questi, coloro che hanno almeno un genitore italiano acquisiscono, alla nascita, la cittadinanza italiana. Chi nasce in Italia da genitori ambedue stranieri, invece, eredita da questi la condizione di straniero: nel 2006, questa è la sorte di oltre il 10% dei nati in Italia che potranno (forse) divenire italiani solo verso i 18 anni documenti e burocrazia permettendo.
Il secondo processo consiste nell’ingresso in Italia di figli nati, quasi sempre prima dell’esperienza migratoria, all’estero dagli stranieri residenti in Italia. E’ il cosiddetto ricongiungimento familiare.
L’emergere di una quota rilevante di stranieri – e in misura ancora molto limitata di italiani di origine straniera – nelle corti più giovani della popolazione italiana è un processo cruciale per il nostro paese. Lo è per le dimensioni del fenomeno stesso: la percentuale di stranieri tra i minorenni è marcatamente superiore alla percentuale di stranieri nella popolazione italiana complessiva, e cresce  ancor più velocemente. Ma lo è anche per le implicazioni sociali, dato che è davvero difficile immaginare un futuro (non traumatico) per questo paese che non tenga conto della loro esistenza. Vi sarebbero quindi buone ragioni per evitare di trattare le seconde generazioni con noncuranza. Tanto più che le esperienze degli altri paesi ci dicono che una compiuta inclusione di questi giovani nella società è tutto meno che un esito meccanico e scontato.

Tali svantaggi riguardano  l’accesso all’istruzione e al mercato del lavoro, il tipo di ritorno che possono attendersi  dai loro investimenti nell’istruzione e, di conseguenza, le change di ascesa sociale.
Affrontare l’inclusione delle seconde generazioni richiede un grande sforzo da parte dei sistemi d’istruzione. L’evidenza empirica disponibile su diversi paesi dell’Europa occidentale mostra, infatti, l’esistenza di alcuni problemi comuni nell’integrazione dei figli degli immigrati in tali sistemi. In primo luogo, i figli degli immigrati tendono ad avere un livello d’istruzione inferiore a quello dei nativi. In secondo luogo, si registra dappertutto una sovra rappresentazione dei figli degli immigrati nei rami scolastici  più professionalizzanti e una loro sottorappresentazione  nei rami più prestigiosi, che hanno come sbocco naturale l’università. In terzo luogo, i figli degli immigrati presentano quasi dappertutto un maggiore rischio di dispersione scolastica. Infine, si registra una differenza sistematica – sia in termini di competenze acquisite, valutate dai docenti, sia di livello di frequenza e di passaggio a gradi d’istruzione superiori – nel rendimento scolastico di molti gruppi di figli di immigrati rispetto ai figli dei nativi.

NAZIONALISMI E NEONAZIONALISMI NELLA STORIA D’ITALIA
Alberto Mario Banti

E’ ormai da più di due decenni che autori di pamphlets, articoli di fondo, inchieste giornalistiche o televisive affrontano il tema dell’identità nazionale italiana. Che cosa emerge da questo dibattito pubblico? In genere dominano tre posizioni: a) un essenzialismo perennista, secondo il quale un’identità nazionale italiana esiste da secoli e secoli, e le sue radici vanno ritrovare nell’oscurità dei tempi, per esempio nel diritto romano, nell’esistenza di una Chiesa cristiana, nei liberi Comuni medievali, in Dante, Petrarca eccetera; b) un pessimismo integrale, che sostiene l’inestirpabile debolezza delle radici identitarie italiane, per cui se anche qualcuno – coscientemente o inconsapevolmente – ha provato a renderle più solide, non ha mai ottenuto risultati apprezzabili; c) una sorta di tremendismo epocale che mette insieme le due prospettive, per cui sebbene ci siano tratti identitari quasi metastorici che ci rendono – di fatto – tutti italiani, pure questi tratti non sono mai stati visti o adeguatamente sfruttati dalle élite intellettuali e politiche dell’Italia contemporanea: ergo, un’identità dissinata e debole.
Le differenze, come si vede, sono notevoli. Tuttavia, a prescindere dall’interpretazione sostenuta, tutti gli interventi sono accomunati da una convinzione di fondo, molto raramente messa in discussione, secondo la quale un forte identità nazionale è un bene particolarmente prezioso per una società come quella italiana di solito descritta come individualista, localista, particolarista e priva di senso della collettività.

2. Intanto, una questione su cui c’è un certo accordo tra i ricercatori è la datazione del fenomeno nazionale. “Nazione è una parola che deriva dal latino ed è largamente utilizzata anche in epoca medievale e moderna. Allora, però, non individui che hanno qualche tratto comune (lingua, cultura, provenienza). Oltre a non avere una precisa connotazione politica, il termine “nazione” si riferisce a comunità non bene definite:  vi sono molti e vari esempi di intellettuali, scrittori o politici che parlano indifferentemente di nazione italiana o napoletana o veneziana e via dicendo.
Il quadro cambia radicalmente nel corso del XVII secolo, e cambia in particolare grazie alle innovazioni istituizionali e linguistiche promosse dai protagonisti della rivoluzione francese. In cerca di un termine che indichi il soggetto collettivo che deve sostituirsi al re come depositario esclusivo della sovranità politica, i rivoluzionari lo trovano nel termine “nazione”.

Il secondo passaggio è anche più significativo e scaturisce da due interrogativi fondamentali: quali sono le nazioni? E chi ne fa parte? Nella prima metà del XIX secolo i primi influenti movimenti nazionali sono promossi da intellettuali o da leader politici con un’ottima formazione intellettuale, che identificano le nazioni sulla base di un primo criterio essenziale, ovvero la lingua. L’esistenza di una lunga tradizione letteraria scritta in italiano induce facilmente i promotori del movimento risorgimentale (da Cuoco a Foscolo, da Manzoni e Mazzini eccetera) a considerare che la nazione di riferimento  per un movimento sulla penisola sia, appunto, la nazione italiana.
Tuttavia c’è un grado di forzatura pazzesco in questo tipo di operazione. All’inizio del XIX secolo l’italiano letterario è usato (ed è conosciuto) solo da una percentuale minima di coloro che vivono nella penisola, poiché tutti gli altri parlano dialetti che si differenziano molto l’uno dall’altro per strutture lessicali e sintattiche. E questa è una prima difficoltà. A ciò si aggiunga che il movimento risorgimentale vuole costruire uno Stato nazione unificando o smembrando Stati preesistenti; in un simile contesto i promotori del movimento risorgimentale devono convincere i potenziali militanti che la nazione esiste, anche contro ogni evidenza, e che vale la pena di fare qualcosa per essa, nonostante questa sia un’impresa estremamente pericolosa perché ha contro di sé tutte le istituzioni ufficiali degli Stati che esistono nella penisola. Malgrado le enormi difficoltà comportate da questo programma, il movimento risorgimentale, nelle sue varie (e spesso contrastanti) articolazioni, riesce a riscuotere uno straordinario successo, raccogliendo intorno a sé una militanza “di massa”, e ottenendo l’obiettivo che si prefiggeva, cioè la costruzione di uno Stato nazionale unitario.

4. Quale definizione di “nazione”  sorregge questa straordinaria vicenda politica? E’ una definizione articolata in tre parti fondamentali:
a) la nazione viene considerata come una comunità di parentela, ovvero come una “comunità di discendenza” dotata di una sua genealogia e di una sia specifica storicità. In questa concezione il nesso biologico tra le generazioni e gli individui.

b) la nazione viene descritta anche nelle sue componenti di genere, attraverso un’operazione che attribuisce agli uomini della nazione il compito di difenderla armi alla mano, e alle donne della nazione il compito di riprodurre.

c) infine, la nazione è descritta come una comunità i cui membri devono essere  entusiasticamente disposti al sacrificio della propria vita.

Nell’italia postunitaria i programmi scolastici, la letteratura patriottica (Cuore, per esempio), il cinema patriottico (floridissimo all’inizio del XX secolo), le ritualità pubbliche, la statuomania, insegnano la nazione attraverso il sistema che si è ricordato prima: la nazione viene presentata come una comunità di parentela cementata dal sangue.

Nel primo dopoguerra il successo del movimento fascista – oltre che alla micidiale efficacia delle sue squadre paramilitari, e alla convivenza  delle istituzioni statali che non ne reprimono le iniziative  - è da attribuirsi anche al fatto che con più decisione di qualunque altro raggruppamento politico Mussolini e i suoi si pongono come veri interpreti della tradizione nazional-patriottica risorgimentale, oltre che come i veri difensori di tutti coloro che hanno sacrificato la loro vita nazione nel martirio collettivo della grande guerra.

6. La fortissima identificazione tra regime fascista e discorso nazional-patriottico è ciò che spiega perché, dopo la fine della seconda guerra mondiale i termini “nazione” e “patria”, e i valori che sono loro associati, vengano abbandonati dai protagonisti della vita pubblica italiana.

E qui capitano due cose interessanti. In primo luogo, il senso di appartenenza  nazionale non viene perso del tutto, poiché restano attivi frammenti rituali, simbolici e discorsivi centrati sull’idea  di nazione che appartenevano alla vita pubblica  precedente. Intanto, per fare qualche esempio relativo all’Italia  repubblicana, il diritto di cittadinanza continua a basarsi sui criteri parentali su cui si basava in precedenza. In secondo luogo il canone educativo, dalle scuole elementari fino alle superiori, si basa ancora sulla preminenza della letteratura in lingua italiana.

Anche in un contesto culturale generalmente piuttosto localistico come quello del tifo calcistico, si opera una sorta di miracolo (accuratamente costruito durante il fascismo, peraltro): quando gioca la Nazionale, gli stadi e i giornali sportivi si trasformano in uno dei contesti di massima persistenza e di massima valorizzazione dell’identità nazionale, col suono dell’inno di Mameli, il tripudio di bandiere tricolori.

E qui interviene il secondo fenomeno interessante, ovvero il recupero attivo del discorso nazional-patriottico, che comincia a prendere un’evidente consistenza dagli anni Sessanta quando qua e là, si formano vari movimenti neonazionalisti: l’Eta del Paese Basco, l’Ira in Irlanda; gruppi neonazionalisti in Corsica, Bretagna, Fiandre, Suditorolo e altri luoghi ancora.

In questo quadro generale si inserisce anche il fenomeno neonazionalista delle varie formazioni che rivendicano un’identià nazionale all’una o all’altra delle regioni del Nord Italia, confluite poi nella Lega Nord. Il movimento leghista delle origini si caratterizza per un lessico neonazionalista.

7. E’ in risposta alla preoccupazione suscitata dalla Lega e dalla minaccia di una possibile frattura dell’unità nazionale italiana che è rinato il dibattito sulla debole identità nazionale italiana. Ed è in risposta a quei pericoli che ha preso vita il più importante tentativo di rilancio istituzionale del senso di appartenenza a una comunità nazionale che abbia avuto luogo nel secondo dopoguerra, quello condotto con grande determinazione dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi tra 1999 e 2006. Strano effetto: la nazione e stata presentata da Ciampi e dai suoi collaboratori di nuovo come una comunità di parenti, all’interno della quale i valori nazional – patriottici classici (la celebrazione della morte in battaglia, l’esaltazione delle Forze armate, la commemorazione di eventi bellici significativi – dal Risorgimento, alla grande guerra, alla Resistenza – la valorizzazione di simboli tipicamente nazionalisti come il Vittoriano o la tomba del Milite ignoto) hanno rilanciato un complesso discorsivo  che sembra porsi in linea di continuità con l’universo simbolico del nazionalismo italiano come si è costruito dal Risorgimento al fascismo.
Presentando in forma sintetica la ratio che ha guidato il neopatriottismo ciampiano, uno stretto collaboratore del presidente, Paolo Peluffo, ha ricordato che gli elementi fondamentali che hanno orientato l’iniziativa  neopatriottica, consentendo di identificare la “nazione italiana”, sono stati l’epos (la memoria collettiva), il logos (la lingua) , l’ethos (l’insieme di valori), il genos (i “legami” di sangue e parentela) e il topos (“un territorio iconizzato in un’immagine simbolica della patria”). Si tratta di una definizione che ogni ideologo del nazionalismo otto-novecentesco avrebbe sottoscritto con trasporto: e nonostante sia una definizione che è in contrasto con i risultati della migliore ricerca scientifica recente, che sottolineano il carattere artificiale e manipolatorio del discorso nazionale, privo di ogni rapporto di necessità con un qualunque genos o topos originario.

Dal punto di vista strutturale l’iniziativa ciampiana, e le modalità attraverso le quali si è sviluppata, suggeriscono che le parole simbolo, i sistemi discorsivi, i rituali che strutturano l’identità nazionale si distanziano con difficoltà dagli archivi memoriali ai quali appartengono; e quindi conservano latente l’intera complessità del discorso matrice che li ha foggiati. Coloro che – con qualunque intenzione, anche la più democratica – si preoccupano adesso della questione dell’identità nazionale, dovrebbero essere consapevoli che “nazione” e “patria” sono due termini che – quasi per riflesso condizionato – portano con se una serie di formazioni valoriali specifiche che inducono a pensare la nazione come parentela, come discendenza di sangue, come memoria storica esclusiva e selettiva, come valorizzazione di narrazioni belliciste e maschiliste.
Davvero si ritiene che i cittadini e le cittadine della Repubblica Italiana abbiano bisogno di questo sistema di valori? Davvero si ritiene che questa sia la migliore attrezzatura che la comunità repubblicana può mettere in campo per affrontare sfide dell’emigrazione, della globalizzazione, del multiculturalismo. La domanda è tanto più necessaria perché si fonda su un’acquisizione fondamentale della ricerca scientifica, troppo spesso dimenticata nel dibattito corrente: ovvero che l’identità nazionale (italiana, ma anche padana, irlandese, croata, rumena o quel che si vuole) non è una condanna; non è un dato di natura; non è l’unico modo possibile di concepire le comunità politiche; ma è, appunto, un modo artificiale, storicamente determinato, carico di specifiche narrazioni e di particolari gerarchie di valori. Per questo, invece di continuare a dibattere sul se la Repubblica abbia bisogno di un’identità nazionale forte, sarebbe piuttosto opportuno discutere sul se – in assoluto – abbia bisogno di una identità nazionale.

COME LEGARCI ALL’EUROPA
E una correlazione significativa: il rapporto tra pil e accessibilità. In sostanza, chi è più centrale e più dotato di infrastrutture,  e dunque ha maggior ai mercati, presenta pil pro capite più alti. Non è un paradigma assoluto, come dimostrano i casi di Finlandia e Irlanda, ma di certo presenta un’evidenza empirica che non può essere trascurata. In questo caso l’ Italia mostra il peso dei suoi diversi handicap: per il Nord quello orografico delle alpi, che nel Nord’Est diviene anche infrastrutturale; per il Mezzogiorno quello geografico, con impatto economico e  infrastrutturale.

Su tutti un tema comune: la sostenibilità dello sviluppo e la compatibilità ambientale degli investimenti, secondo la strategia di Gotemborg. Che nel trasporto in generale significa meno strada e più ferro e acqua; e nelle aree urbane meno auto e più servizi collettivi.

Emerge in tutta chiarezza il forte divario tra desideri e risorse del disegno europeo. L’intera politica comunitaria opera con l’1,15% del pil globale dei paesi membri, pari a 133,8 miliardi di euro, in cui la voce trasporti incide per l’1,4% pari a 1,8 miliardi di euro.

Il territorio italiano in Europa
La collocazione del territorio italiano in Europa può ricondursi a tre posizioni: semicentrale (il Nord), semiperiferico (il Centro) e periferico (il Sud: Mezzogiorno.

Questa grande pianura “padano-veneto-friulana-giuliana” concentra molti fattori favorevoli, inclusi clima e paesaggio, ma appare comunque come una corona esterna del cuore transalpino europeo.

La semiperifericità geografica del Centro è compensata da una politica infrastrutturale nazionale che ha sempre privilegiato l’asse Milano Roma, dall’Autosole in poi. Oggi l’area fruisce del completamento prioritario dell’alta velocità ferroviaria, giunta ormai fino a Napoli, e sulla tratta Milano-Fiumicino gode di un servizio aereo-navetta con frequenza – e redditività – senza pari in Europa.

I caratteri della perifericità, economico-geografica e infrastrutturale, sono invece palesi e pervicacemente radicati al Sud. Ma non sono strutturalmente diversi da quelli degli altri competitori mediterranei, come Spagna, Portogallo e grecia.

Il disegno europeo in italia
Tra i trenta progetti prioritari previsti nel 2004 dal programma Ten-T, l’Italia è interessata dai progetti: N1, berlino-Palermo; N6. Lione-Trieste-Budapest; N10, Malpensa (completato, ma abbiamo visto come); dal doppio asse Genova-Rotterdam via Loschberg e Gottardo; dal terminal portuale pugliese (Bari, Brindisi, Taranto) del corridoio 8, che da Durazzo (Albania) prosegue per Varna (Mar Nero); dai bracci di “autostrade del mare” relative al mediterraneo orientale e occidentale (progetto N21).
Questo disegno va esaminato in un contesto geopolitico più ampio: quello della Wider Europe, dell’Europa che allarga le sue relazioni al contesto intercontinentale nordafricano, mediorientale e russo. In sostanza una sfera che considera le relazioni col partenariato di prossimità geografica, col quale i rapporti di collaborazione sono opportuni, utili e molto spesso necessari.
Sul piano dei trasporti, eccezion fatta per l’Est, si tratta in prevalenza di relazioni marittime, destinate a rivitalizzare i rapporti intramediterranei, per un maggiore integrazione Nord-Sud. Ma anche le relazioni con gli altri continenti: le Americhe via Gibilterra e il Sud-est asiatico, cinese e indiano, via Suez. Che interessano particolarmente, in quanto lambiscono lo Stivale e offrono opportunità.
Per l’Italia questo significa un potenziale di riequilibrio verso sud, per trarre vantaggi sia come piattaforma terrestre europea immersa nel Mediterraneo, sia come risalita verso nord lungo i due canali marittimi naturali, il Tirreno e l’Adriatico. Ma tutto questo  richiede iniziativa e strategia di lungo termine.
All’atto pratico il disegno europeo prevede, nel suo complesso, una direttrice nord-sud che attraversava tutto lo Stivale, congiungendo la vetta d’italia (il Brennero) con la Sicilia occidentale (Palermo), passando per lo Stretto di Messina – a inglobare, senza nominarla, un’opera simbolica, il ponte. E una direttrice est-ovest (il corridoio 5, Lisbona-Kiev), che invece infila tutta la pianura padano-veneta-friulan-giuliana, come parte di una grande dorsale lungo la costa Nord del Mediterraneo che dalla penisola iberica si inoltra verso l’Ucraina. La tratta che più ci interessa prende nome di progetto ferroviario N6, Lione-Budapest, via Torino-trieste.
Accanto a questa grande croce, un progetto solo apparentemente minore: l’asse Genova-Rotterdam, destinato a saldare il maggior porto italiano col maggior porto europeo, sei volte più grande e ormai a rischio congestione. Per questo intenzionato e estendere il proprio know-how logistico mondiale anche verso il Mediterraneo.
Infine le autostrade del mare, che costituiscono un’integrazione modale al lento dispiegarsi dei costosi sistemi infrastrutturali lungo i congestionati assi terrestri, e che si giovano di programmi specifici per attivare servizi marittimi di linea lungo le acque costiere, con possibili prolungamenti verso quelle interne.

Dalle parole ai fatti
In Italia sia il progetto N1,Berlino-Palermo, che l’N6, Lione Budapest, riguardano investimenti ferroviari che affiancano tanto assi autostradali saturi che ferrovie tradizionali, e prevedono nuovi sistemi di alta velocità – Alta capacità a significare che le nuove linee saranno utilizzate sia da treni passeggeri che da merci. Carattere prevalente di questi tracciati in Italia è di attraversare pianure dense (Nord) e aree collinari e montane (Centro e Nord).

In Italia il grande disegno europeo si è sovrapposto sostanzialmente al programma nazionale Av/Ac, concepito fin dagli anni Ottanta come una grande T: da Torino a Trieste e da Milano a Napoli e oltre. Sia pur con grande lentezza quel programma è avanzato. Oggi il collegamento Torino-Milano è una realtà; quello Milano-Roma sta per esserlo; Roma-Napoli è operativo, sia pur con un’offerta superiore alla domanda. In pratica funziona una L rovesciata sbilanciata a ovest, che per diventare una T deve proiettarsi a est, da Milano a Trieste. Ma il tutto è in grave ritardo. Se fino a Verona un progetto esiste ed è stato di recente finanziato, a est di Verona l’intero Nord-est è privo di progetto e di finanziamenti. Se si escludono i venti chilometri realizzati tra Padova e Venezia, e il progetto preliminare transfrontaliero italo-sloveno Trieste-Divaccia.

Vecchio e nuovo in Italia
In Italia questo assume una configurazione quasi simbolica. Da ovest verso est (corridoio 5) assecondando la dinamica di slittamento del baricentro continentale dopo la caduta del Muro. Da nord verso sud (corridoio 1) corrispondendo sia alla storica aspettativa nazionale di un riscatto del Mezzogiorno che alla riduzione della sua perifericità in Europa.
In realtà, dal punto di vista europeo il Mezzogiorno italianoo altro non è che parte del ben più vasto problema Mediterraneo. Che non può ridursi solo al mare caldo per le vacanze dell’Europa transalpina. Ma è un tema geopolitico assai più impegnativo: quello dello squilibrio tra due sponde continentali, Nord e Sud, molto lontane quanto a demografia, sviluppo economico e occupazione. All’avanzamento del proprio programma infrastrutturale l’Italia paga il prezzo del suo enorme debito pubblico, con una cronica carenza di investimenti che si traduce in lentezza di realizzazione.

Ma il vero tema sul tappeto è quello della competitività europea su base territoriale, tra chi cioè compete già, e richiede investimenti per rimanere agganciato ai concorrenti europei (il Nord), e chi nella competizione si vorrebbe che entrasse, ma abbisogna di infrastrutture, oltre che di imprese che sappiano usufruirne (il Sud).

Tra i paesi sviluppati, l’Italia rivela il massimo sbilanciamento sul trasporto stradale rispetto a quello ferroviario, con la prospettiva che il divario aumenti anziché diminuire. Al tempo stesso l’organizzazione intermodale e logistica opera in modo limitato rispetto ai maggiori paesi transalpini , che guardano alle nostre regioni settentrionali come a un appetibile mercato da inglobare nelle forti reti di servizi che da tempo si sono organizzate in Centro Europa.
I maggiori porti mediterranei occupano un rango inferiore rispetto ai maggiori porti del Nord, e i porti italiani crescono a un ritmo inferiore a quello dei nostri competitori mediterranei: Spagna e Francia in primis.





 


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