venerdì 13 gennaio 2012

libro l'Italia disunita di romano, lazar e canonica

L’ITALIA DISUNITA
Sergio Romano, Marc Lazar, Michele Canonica

1. CENTOCINQUANT’ANNI DOPO

1911, 1961, 2011 ...

Michele Canonica - Il pretesto di queste nostre conversazioni è costituito dal 1500 anniversario dell'Unità d'Italia. Le celebrazioni sono accompagnate da polemiche, da un clima di incertezza. La percezione dell'unità nazionale resta molto varia, secondo le tendenze politiche di ciascuno, ma anche secondo le disparate sensibilità regionali.  

Sergio Romano - La verità è che non sappiamo esattamente che cosa celebrare. È questa la vera ragione del ritardo con cui è stato varato il programma definitivo delle celebrazioni. Esistono nella società italiana giudizi molto diversi sul Risorgimento, sul percorso storico dall'Unità ad oggi e sui risultati concreti dell' unità nazionale. Oggi le valutazioni critiche sono ancora più marcate che in passato.

Marc Lazar - È vero che queste celebrazioni illustrano ancora una volta la difficoltà degli italiani a confrontarsi con il loro passato comune, e ciò rappresenta sicuramente una differenza rispetto ad altri Paesi.

Si accentua una ricerca identitaria che però non necessariamente prende la via della coesione nazionale, e può spingere a privilegiare le radici regionali o locali.

M.C. - Un'elementare obiettività ci impone di non dimenticare che anche le celebrazioni del 1911 per il cinquantenario dell'Unità o quelle del 1961 per il centenario non sono state completamente pacifiche.

S.R. - L'Unità d'Italia non ha mai fatto il pieno dei consensi. Dal 1861 in poi, vi sono sempre stati, in agguato, i nostalgici del passato, quelli che proclamavano la loro estraneità al processo unitario o addirittura si dichiaravano traditi dall'unità nazionale. In particolare, vi sono ancora settori del mondo cattolico che vivono la presa di Roma nel 1870 come un'intollerabile sopraffazione ai danni del papato.
Sarebbe dunque assurdo e falso credere nell' esistenza di un' età dell' oro risorgimentale, in cui l'unità nazionale sarebbe stata oggetto di un sentimento unanimemente condiviso. È tuttavia innegabile che il cinquantenario e il centenario furono celebrati nel quadro di una pedagogia nazionale che imponeva una certa ortodossia risorgimentale, contro la quale il dissenso esisteva ma era taciuto o appena bisbigliato.
Nel 1961 si assistette a un paradosso. Le manifestazioni per il centenario si svolsero mentre era ancora ben vivo il ricordo della sconfitta italiana nella seconda guerra mondiale. Eppure prevalse il nobile tentativo di una parte della classe dirigente, che cercò di trasformare perfino la seconda guerra mondiale in un momento positivo della storia patria. La Resistenza contro il nazifascismo, vissuta con la partecipazione non soltanto dei partiti della sinistra, ma anche di molti democristiani e monarchi ci, fu rappresentata come una nuova guerra d'indipendenza, la manifestazione di un secondo Risorgimento. L'inchiostro delle firme apposte ai trattati di Roma nel marzo 1957 era ancora fresco, circolava nell' aria un diffuso entusiasmo europeista, e il centenario fu considerato come un nuovo mattone destinato alla costruzione di un nuovo edificio, l'Europa dei popoli, su cui l'Italia poteva vantare, grazie a Mazzini, una sorta di diritto di proprietà. Ecco alcune delle ragioni per cui, malgrado tutto, il 1961 filò abbastanza liscio.

M.L. - Aggiungerei che nel 1961 c'è in Italia un grande ottimismo legato al cosiddetto miracolo economico, al «boom ». Si vogliono dimenticare le tragedie della seconda guerra mondiale, si sottolinea l'epica della Resistenza, ma soprattutto si vuole mettere l'accento sui buoni risultati di un Paese in forte crescita, che sta trasformandosi e lanciandosi nella modernità.
Secondo studi storici degni di attenzione, sembra però che le celebrazioni organizzate nel 1961 con forte partecipazione delle massime autorità abbiano incontrato una certa indifferenza popolare ...

S.R. - È vero che le celebrazioni del 1961 caddero in un momento propizio di grande crescita economica: la lira aveva ricevuto una sorta di Oscar da un grande giornale economico britannico, e quell' elogio era un indice dell'ammirazione con cui una parte dell'Europa assisteva alla crescita dell'Italia. Il Paese trasmetteva un'immagine di stabilità anche grazie alle sue scelte di politica internazionale, al suo solido ancoraggio atlantico ed europeo. Quelle scelte, naturalmente, erano contestate dalla sinistra, ma soprattutto dai comunisti e un po' meno dai socialisti, molto scossi questi ultimi dalla rivoluzione ungherese del 1956.
Forse non vi furono grandi entusiasmi popolari, ma ciò che maggiormente conta in queste situazioni non è tanto l'entusiasmo quanto la mancanza di un' aperta sconfessione, di un pubblico disincanto comparabile a quello di oggi.

Spinte centrifughe al Nord e al Sud

M.C. - Fra i « disincantati» dell'identità nazionale italiana, fra i testimoni di un'Italia tuttora in parte disunita, non bisogna trascurare né i meridionalisti nostalgici del regno borbonico, secondo cui il sottosviluppo del Mezzogiorno sarebbe da imputare allo sfruttamento colonialista da parte delle regioni settentrionali, né i nordisti nostalgici dell'Austria- Ungheria, che si considerano espropriati dal parassitismo del Sud. In un recente volume, Terroni, Pino Aprile sostiene che al momento dell' Unità « il Piemonte era pieno di debiti; il Regno delle Due Sicilie era pieno di soldi ». E aggiunge polemicamente che « l'impoverimento del Meridione per arricchire il Nord non fu la conseguenza, ma la ragione dell'Unità d'Italia ». Peraltro nelle regioni nord-orientali il sentimento antitaliano continua a coinvolgere minoranze significative, e ancor oggi molte famiglie espongono nelle loro case un ritratto dell'imperatore Francesco Giuseppe. Infine, negli ultimi vent'anni, i leghisti introducono una visione non più nostalgica di entità statali precedenti, bensì propositiva di nuove soluzioni, federa liste o separatiste. Ma alla lunga questa incessante campagna antimeridionalista potrebbe anche suscitare reazioni violente nelle regioni del Sud. ..

S.R. - Esiste indubbiamente la nostalgia degli Asburgo al Nord-Est e quella dei Borbone al Sud. Ma persino nell'Italia centrale non mancano i nostalgici, anche se con uno stile più ironico e affettuoso. In Toscana qualcuno dice snobisticamente di rimpiangere il granduca, che fu peraltro uno dei migliori sovrani dell' epoca. Perché tanti sintomi di malessere? Semplicemente perché l'Unità può funzionare solo quando è in grado di dare qualcosa a tutti. Voglio dire che le grandi operazioni politiche suscitano consensi se assicurano benefici al maggior numero possibile di coloro che avevano legittime aspettative. E così arriviamo a un interrogativo veramente centrale: può l'Italia unita riuscire a risolvere il problema del Meridione?
Tutto ciò che è accaduto dalla fine degli anni '80 in poi - la nascita e lo sviluppo dei movimenti leghisti in Lombardia e in Veneto, l'espansione del loro modello ideologico e organizzativo in altre regioni non soltanto del Nord - è il risultato della crescente constatazione nazionale che il problema del Sud, nonostante i molti tentativi, non è stato risolto. Da parte sua, il Mezzogiorno tende a giustificare il proprio mancato decollo attribuendone la colpa a una classe dirigente settentrionale che lo avrebbe colonizzato con brutalità di corta vista, senza preoccuparsi del suo sviluppo a medio e lungo termine. L'arringa autodifensiva include naturalmente la rivendicazione della propria originalità culturale, della propria storia, delle proprie tradizioni; e la nostalgia dei Borbone riassume per l'appunto questa autodifesa. Quando ci si chiede da dove provengano i movimenti d'ispirazione leghista nati anche nel Mezzogiorno, bisognerebbe sempre tener presente un «vizio d'origine », e cioè che il Sud non fece parte del disegno strategico originario di Cavour.

M.C. - Certo, e tanto meno di quello di Napoleone IIL il quale pensa a un nuovo Stato dell'Italia settentrionale, satellite della Francia.

M.L. - Permettetemi un passo indietro. In effetti qualunque osservatore straniero dell'Italia deve accorgersi con sorpresa che la questione del Mezzogiorno non è affatto risolta! Anche se, fortunatamente, il Sud appare oggi molto cambiato rispetto alle condizioni di arretratezza economica di cento o anche di cinquanta anni fa.
Seconda riflessione. Ribadisco che l'Italia - proprio come altri Paesi europei - si ritrova oggi a confronto con spinte di «rivendicazione territoriale» determinate dal processo di globalizzazione, il quale accentuandosi tende ad estremizzare la ricerca delle radici locali. Si tratta di un fenomeno ben presente in Belgio, in Spagna, in Gran Bretagna, ma soprattutto evidente in Italia a causa della sua storia così caratterizzata dai particolarismi.
Terza riflessione. Il processo di regionalizzazione politico-amministrativa iniziato negli anni '70 viene ora completato con l'introduzione del federalismo fiscale. Sono molto interessato, o più esattamente impressionato, dalla foga con cui le regioni italiane stanno ormai cercando di sfruttare il loro potenziale non soltanto a livello nazionale, ma soprattutto europeo e internazionale. È lecito domandarsi quale sarà l'esito di tale evoluzione: spinta centrifuga oppure creazione di nuove risorse?
Tutti questi elementi mi sembrano delineare nuove sfide per l'Italia, e mi fanno ripensare al bel titolo di un libro di Giuseppe Galasso: Una nazione difficile.

M.C. - È chiaro che anche in altri Paesi si verificano tendenze che vanno in direzione contraria all'idea patriottica dello Stato-nazione quale si era sviluppata nel clima culturale del romanticismo ottocentesco. E c'è chi dice che l'Italia starebbe semplicemente attraversando qualche malattia infantile da cui risorgerà irrobustita, che nei suoi comportamenti concreti
sarebbe molto più unita di quanto possa sembrare sul piano delle grandi teorie.
In definitiva, possiamo considerare che l'Italia partecipi a un fenomeno di crisi dell'identità nazionale largamente diffuso nella realtà odierna, oppure dobbiamo considerarla come il « malato d'Europa »?

S.R. - No, il fenomeno non è solo italiano, ed è certamente dovuto al processo di globalizzazione, ma anche allo sviluppo della costruzione europea con la conseguente riduzione progressiva dei diversi aspetti della sovranità nazionale: il controllo della spesa pubblica; la possibilità di scrivere autonomamente il proprio bilancio, senza passare attraverso i paletti fissati collegialmente dai 27 Statibri dell'Unione; il controllo delle proprie frontiere, dato che quelle tradizionali non esistono più, mentre ci sono ormai altri confini dei quali il singolo Stato europeo non è che corresponsabile. Si tratta dei confini esterni dell'Ue, da tutelare in un quadro di sicurezza nel quale altri poteri - per esempio gli Usa - assumono responsabilità preminenti.
I vari Stati europei perdono alcuni dei loro poteri sovrani, ma a questa amputazione non corrisponde la diminuzione delle responsabilità verso i loro cittadini. La democrazia infatti continua ad avere una dimensione nazionale. Le classi politiche so n? al potere perché legittimate dei loro elettori nazionali. E nell' ambito dello Stato nazione che si conferiscono i mandati e si risponde del moodo in cui ciascun mandato viene eseguito. Insomma, le classi dirigenti nazionali sono schiacciate fra due fattori contraddittori: hanno meno poteri, ma se qualcosa non va bene la colpa è sempre loro.
Qualche volta, paradossalmente, sono gli stessi governi dei Paesi dell'Ue che, dopo avere contribuito a creare regole europee, montano campagne antieuropee. In passato, Berlusconi e Tremonti hanno lamentato la creazione dell'euro. Era un modo per sfuggire al dilemma fra poteri in calo e responsabilità in aumento.


M.L. - Gli Stati-nazione, un po' in tutta Europa, sono lacerati fra due pressioni contraddittorie: quella che viene dall'alto, cioè da Bruxelles, e quella che viene dal basso, cioè dalle realtà regionali o locali, ma anche dal desiderio crescente del singolo cittadino di essere più vicino al pootere. Questa spinta dal basso è una nuova « rivendicazione forte », visibilissima in Italia, e perfino in un Paese tradizionalmente centralizzato come la Francia.
Andiamo verso la fine degli Stati-nazione? Ovviamente, la risposta è no. Gli Stati-nazione mantengono una forte identità culturale, e ciascuno continua a sviluppare una propria politica estera. Resta difficile pensare a una nazione europea.
Lo Stato italiano del 20 Il sarà capace di elaborare una nuova « narrativa nazionale », di definire l'identità italiana del XXI secolo? Questa è la grande domanda legata alle celebrazioni del 1500 anniversario dell'Unità d'Italia. Sergio Romano sembra piuttosto scettico, e in parte lo sono anch'io proprio perché non mi pare per il momento che in Italia ci sia consenso sul modo di creare questa nuova identità nazionale, di costruire questo nuovo « racconto nazionale », partendo dalla commemorazione del passato per meglio costruire il futuro.

Il momento storico dell'Unità

M.C. - Nelle celebrazioni del cinquantenario, come in quelle del centenario e del centocinquantenario, si coglie l'occasione di queste varie ricorrenze per accendere i riflettori sullo specifico momento storico in cui nasce l'Unità d'Italia: un'unità ripetutamente invocata lungo i secoli da minoranze colte, ma irrealizzata fino alla metà dell'Ottocento. Non a caso nel 2009 Lucio Villari intitola Bella e perduta, citando il Nabucco di Verdi, un suo bellissimo libro sull'Italia del Risorgimento.
Vediamo dunque il contesto politico e le grandi correnti culturali di quel momento. Un po' sommariamente, possiamo ricordare che le due superpotenze dell'Europa continentale sono l'Austria e la Francia, e che il miracolo politico di Cavour consiste nel riuscire a farle litigare fra loro. Altrettanto sommariamente, aggiungiamo che la romantica riscoperta delle nazionalità caratterizza culturalmente quella stagione.

S.R. - Per la verità, nella politica di Cavour c'è anche molto di vecchio. L'ingrandimento di uno Stato appartiene alla fisiologia della storia europea. Che un piccolo Stato sia ambizioso, e cerchi di annettere territori mettendo una potenza contro l'altra, non è una invenzione di Cavour.
Nel Risorgimento c'è naturalmente una grossa novità, ma non politica, diplomatica o militare. La novità consiste nel trionfo dell'ideologia che vuole far coincidere lo Stato con la nazione e la nazione con il popolo; e nel diffondersi della convinzione che questa sia la direzione ineluttabile della Storia. Dai moti spagnoli contro Napoleone alla grande insurrezione tedesca del 1813, e poi via via fino all'esplosione generale del 1848, c'è un crescendo, indubbiamente legato ai fenomeni di modernizzazione della società: rivoluzione industriale, sviluppo delle ferrovie, nascita delle rotative per la stampa dei giornali.
Ma sarebbe un insulto a Cavour non riconoscergli la particolare intelligenza e abilità con cui seppe guidare un piccolo Stato secondo il principio delle arti marziali: sfruttare la forza dell' altro per ottenere il risultato migliore.

M.L. - Sergio Romano insiste su questa idea in un suo breve testo di una quindicina di anni fa. In sostanza, afferma che Cavour è una sorta di straordinario improvvisatore che ha il merito di saper profittare degli errori altrui, nonché di circostanze imprevedibili come il collasso repentino del Regno delle Due Sicilie.

S.R. - Effettivamente ritengo che nella dinamica storica del Risorgimento vi sia un tasso di casualità molto elevato.

M.L. - Non sono molto d'accordo con questa teoria degli accidenti storici, pur trovandola interessante e originale, perché a mio avviso comporta una sottovalutazione del processo di rivendicazione dell'identità nazionale italiana ben presente nella penisola fin dagli ultimi anni del Settecento: quello che in francese chiamiamo le mouvement nationalitaire. Ossia un movimento che nasce elitario, ma riesce a coinvolgere le popolazioni di un livello di istruzione molto basso. In occasione dei plebisciti degli anni attorno al 1860, anche se i cittadini che vanno a votare costituiscono una percentuale limitata, si svolgono vari dibattiti pubblici soprattutto in Toscana e Umbria, e si registra una diffusione considerevole dell'idea di appartenenza nazionale.
Sottovalutando questo processo, si rischia di cadere nella tesi troppo spesso enunciata secondo cui in Italia non c'è nazione come non c'è Stato, non c'è coscienza nazionale come non c'è organizzazione statale. Questa tesi mi pare troppo drastica, il suo semplicismo non coglie la complessità della storia italiana.

S.R. - A me sembra che nella genesi del « sentimento nazionale italiano» vi siano due componenti diverse. La prima è rappresentata dalla tendenza politico-culturale dell'Europa dell'Ottocento verso la creazione di Stati nazionali di orientamento liberale. Dopo i moti in Grecia e in altri Paesi europei è ormai chiaro che grossi cambiamenti stanno bollendo in pentola. Ed è logico che questa atmosfera generale arrivi a contagiare anche !'Italia. L'Europa è una famiglia nella quale i contagi si trasmettono con estrema facilità.
Poi c'è un altro aspetto più tipicamente italiano: lo straordinario paradosso di un Paese che era stato incapace di realizzare il suo processo unitario nell' epoca, fra il Quattrocento e il Cinquecento, in cui tali processi si realizzavano con successo in Francia, in Inghilterra, in Spagna. E un Paese che ha una considerevole unità culturale, un Paese orgoglioso del suo passato al centro dell'impero romano, fiero di avere inventato la finanza moderna e rivoluzionato le arti. Ma è formato da piccoli Stati privi d'influenza, spesso satelliti di grandi potenze europee. Non si sceglie il granduca di Modena senza l'approvazione delle potenze straniere, non si fa il granduca di Toscana senza l'approvazione di qualcuno. La consapevolezza del paradosso italiano è antica, già Petrarca e Machiavelli ne avevano colto gli elementi essenziali.
Cavour si serve della combinazione di questi due elementi - il clima favorevole in tutta Europa alla creazione di Stati-nazione e l'aspirazione al superamento del « paradosso italiano)} - per dare sostanza moderna a un progetto che all' origine, come abbiamo visto, è figlio di una politica vecchia. La genialità di Cavour consiste nel presentare con un bell' abito nuovo un progetto espansionistico abbastanza tradizionale, destinato - fino agli inizi del 1860 - a non scendere al di sotto dell'Italia centrale.

M.C. - Sì, ma con o senza Roma? In tutta la sua vita, Cavour non ci mette mai piede. Però non ne poteva ignorare il mito di capitale del mondo antico. Solo dopo l'unificazione, Cavour scende a visitare Bologna, Firenze e Pisa.

S.R. - Non credo che vi sia stato un momento in cui Cavour si propose deliberatamente di sfidare il papa. Ho l'impressione che il problema di Roma, se fosse vissuto più a lungo, gli sarebbe per così dire caduto fra le mani. E la morte, tre mesi dopo la proclamazione del Regno d'Italia, gli impedì di visitare quell'Italia meridionale di cui non aveva mai programmato la conquista.

M.C. - L'abilità di Garibaldi è di sbarcare in Sicilia, dove il malcontento contro lo Stato governato da Napoli è particolarmente forte.


S.R. - ,Non attribuirei a Garibaldi delle strategie intellettuali. E un volontarista a cui prudono le mani, un uomo d'azione. Cavour lo lascia fare, ma con un guinzaglio così lungo da poterlo mollare in qualsiasi momento. Mette le due navi di Persano in posizione strategica, ma è chiaro che non compie su quell'impresa un definitivo investimento personale. Naturalmente, sa benissimo che Garibaldi non sarebbe mai in grado di governare l'enorme territorio conquistato.

M.C. - Al momento della proclamazione dello Stato unitario, Italia è davvero una nazione soltanto per i pochi che leggono, scrivono e parlano la sua lingua, mentre la stragrande maggioranza della popolazione è analfabeta e si esprime in mille dialetti. Ma, per la verità, tutte le « rivoluzioni nazionali }) sono state realizzate da esigue minoranze: quella di Cromwell come quelle di Washington, di Lenin e di Mao; quella francese del 1789 come quelle avvenute simultaneamente in molti Paesi nel 1848 e nel 1968.
Tuttora Italia è una sorta di piccolo variegato continente, una tavolozza con moltissimi colori. È un'idea che porta dentro di sé più la molteplicità che l'unità: il simbolo dell’Italia turrita è l'icona della città con le sue libertà municipali, e richiama l'epoca dei Comuni medioevali. Non a caso Mare Lazar ci ricorda che le regioni italiane tendono ad avere una loro politica estera autonoma, e diffondono messaggi turistici separati. Il che è logico perché effettivamente per un giapponese visitare la Toscana o visitare la Sicilia sono cose molto diverse.
Allora vi domando: come possiamo immaginare la reazione dell’Italia del 1861 alla nascita dello Stato unitario?

S.R. - Bisogna appunto distinguere fra chi sa leggere e scrivere da una parte, e la gran massa degli analfabeti dall'altra, un gregge di contadini che stanno appena cominciando ad affluire nelle città, dove si registrano i primi vagiti di un processo di industrializzazione.
Parliamo dunque degli italiani che leggono e scrivono, dei gruppi professionali: avvocati, medici, farmacisti, artigiani di un certo livello. Per integrare queste persone bisogna dare loro qualche beneficio, cioè non soltanto un sentimento di appartenenza, ma anche l'impressione che dall' appartenenza si possa ricavare qualche profitto.
Incontestabilmente, il nuovo Stato italiano fece uno sforzo serio per fornire una collocazione alle classi dirigenti degli Stati preunitari. E lo fece con buon senso, giacché i piemontesi mantennero un sostanziale controllo della funzione pubblica (dalla magistratura alle forze armate e alla diplomazia), ma alle altre componenti regionali vennero riservati incarichi adeguati alle loro competenze. Sarebbe falso quindi affermare che non si cercò di creare un ceto dirigente nazionale il quale, nonostante le sue vecchie lealtà, potesse trovare motivi per essere fiero della sua nuova patria più grande.

M.C. - Sergio Romano parla degli analfabeti come di un gregge. Non dimentichiamo però che, all'epoca, il grado di patriottismo degli analfabeti è essenziale per il destino di una nazione europea. Sono loro la cosiddetta carne da cannone che, se crede neffa patria, accetta di partire in guerra, di rischiare la pelle e di morire se necessario.

S.R. - Nel dibattito pubblico italiano è subito chiarissima l'esigenza di riscattare queste masse dalle condizioni di ignoranza, dallo stato servile in cui avevano vissuto. Uomini illuminati come Stefano ]acini e Sidney Sonnino producono fior di documenti sulle condizioni del mondo agricolo nell'Italia postunitaria. C'è una classe dirigente di alto livello che sa benissimo quel che si deve fare per dare stabilità allo Stato, per fornirgli una piattaforma più grande su cui appoggiarsi.
Probabilmente non si intervenne nei modi e nei tempi che sarebbero stati opportuni. Ma non bisogna dimenticare che la nuova Italia doveva sostenere forti spese militari (nell'Europa di allora sarebbe stato molto rischioso rimanere senza una sufficiente difesa), e soprattutto pagare gli ingenti debiti contratti nella fase di costruzione dell'unità nazionale. Se non avesse saldato i debiti, avrebbe perduto la credibilità necessaria per contrarre altri prestiti. Continuarono a esistere quindi aree di estrema arretratezza anche al Nord, come il Polesine, dove si riscontravano all' epoca percentuali di analfabetismo superiori all'800/0, dove i contadini dormivano con gli animali. L'intervento in questa parte del Veneto arrivò tardi, sotto l'impatto di grandi alluvioni che avevano reso il problema non più differibile, ma alla fine le bonifiche vennero realizzate.

M.L. - Spesso in passato, non senza ragione, si è accusato lo Stato di restare pressoché inerte negli anni che seguono il 1861, insomma di non agire per « fare gli italiani », secondo la famosa formula attribuita a Massimo d'Azeglio.
Invece gli studi storici degli ultimi anni insistono su una voglia di autolegittimazione dei Savoia che più o meno funziona: malgrado una certa resistenza della popolazione (non solo dei « briganti ») nel Sud, la monarchia riesce ad acquisire un notevole prestigio. C'è il tentativo di combattere l'analfabetismo (che però secondo le statistiche non scende abbastanza rapidamente), e c'è una strategia di integrazione delle varie classi dirigenti locali. C'è la creazione di simboli, riti, feste nazionali, decorazioni ...
Certo, i limiti della monarchia sono numerosi e gravi: il problema del Sud che rimane irrisolto, la povertà e anche la miseria che costringono milioni di italiani a una vera emigrazione di massa, un diritto di voto ancora assai ristretto, le pratiche persistenti del clientelismo e della corruzione, una forma di immobilismo che suscita l'amara delusione e le critiche di tutti coloro che sognavano di costruire un' altra Italia, nuova e diversa.
Ma l'Altare della Patria inaugurato nel 1911 è un momento di celebrazione nazionale che riesce davvero a coinvolgere una parte significativa dell' opinione pubblica italiana, malgrado le polemiche e le contestazioni. Non mi sentirei di sottoscrivere totalmente, in quanto a mio avviso troppo schematica, la notissima tesi di Benedetto Croce che oppone la « poesia» dell'Italia risorgimentale che precede il 1861 alla « prosa» dell'Italia liberale che segue l'Unità.
Credo che una gran parte dei limiti della politica dei primi decenni del nuovo Stato sia determinata dalla persistenza di un vasto settore della popolazione che non si riconosce affatto nel nuovo Stato, cioè i cattolici e in particolare quelli fra loro che restano più legati alla Chiesa. Questo è un elemento capitale, cruciale della storia italiana, anche contemporanea: si tratta di un Paese dove, almeno finora, neppure il migliore dei governi potrebbe costruire solidi successi senza il consenso del mondo cattolico.
Di fatto i cattolici continueranno a non riconoscersi nello Stato italiano almeno fino alla guerra di Libia. Ovviamente un' altra dissidenza fortissima nei confronti dello Stato viene poi, a partire dall'ultima parte dell'Ottocento, dal movimento socialista, che in Italia come altrove vede nelle istituzioni uno strumento di protezione degli interessi della borghesia. Ci sono anche i repubblicani, ovviamente ostili alla monarchia. Senza dimenticare i molti intellettuali che, spesso con buoni argomenti, deplorano l'incapacità del nuovo Stato di creare un Paese moderno, « virtuoso» e unito da un sentimento civico nazionale.
Aggiungerei un altro, piccolo ma curioso elemento di debolezza del neonato Stato unitario italiano, e cioè il confronto pressoché ossessivo con il modello francese. Gli italiani vogliono imitare la Francia, e a loro volta i francesi di fine Ottocento vedono l'Italia come un Paese che cerca di costruire uno Stato-nazione analogo al loro, ossia una sorta di Terza repubblica da realizzarsi però in regime di monarchia.

Quale modello per il nuovo Stato?

M.C. - Perché Italia del 1861, che è il risultato di una storia tanto diversa, vuole imitare così meccanicamente il modello francese? La Germania, nascendo come Stato unitario dopo la vittoria prussiana del 1870 sui francesi a Sedan, non si ispira affatto al centralismo giacobino e sceglie fin dall'inizio un'articolazione istituzionale più conforme al suo percorso precedente.

In Italia, benché le regioni fossero espressamente previste nella Costituzione del 1948, soltanto nel 1970 si tengono le prime elezioni regionali, e solo da pochissimi anni si progetta un vero federalismo ... Eppure il fèderalismo « solidale» di Carlo Cattaneo risale alla prima metà dell'Ottocento!

S.R. - Bisogna considerare un errore storico il fatto di non aver puntato fin dal 1861 sul federalismo di Cattaneo? Non credo. In quel momento, solo lui e pochi altri ci credevano. Cattaneo è una persona nobilissima, ma non un modello di pragmatismo politico.
Quanto alla Germania, bisogna ricordare che l'unità tedesca venne raggiunta grazie allo sforzo congiunto di tutti i sovrani preunitari. Bismarck riuscì a creare una coalizione dove erano presenti sotto la guida del re di Prussia, tra gli altri, il re di Baviera e il re di Sassonia. Da noi l'unità fu fatta dal Piemonte contro la volontà degli Stati preunitari. Vi è un' altra differenza fondamentale: la Germania completò il suo processo unitario con una vittoria militare contro la Francia, la maggiore potenza continentale. L'esito fu indiscutibile, legittimato dalla vittoria. L'IItalia invece terminò la seconda fase del suo processo unitario con la sconfitta del 1866 a Lissa. Per di più, non tutta l'Europa fu subito convinta che tale processo fosse irreversibile. Lo stesso Napoleone III non riconobbe immediatamente il nuovo Stato. Mancava al re d'Italia la piena legittimazione dei « cugini» europei.
Vi era quindi una situazione d'incertezza di cui il governo italiano fu obbligato a tener conto. Minghetti preparò una legge sulle autonomie (comunali, non regionali, perché la concessione dell' autonomia a regioni che corrispondevano in alcuni casi ai vecchi Stati preunitari avrebbe aumentato il rischio delle secessioni). Comunque persino il progetto di Minghetti fu considerato pericoloso e venne accantonato. Non dimentichiamo poi il fenomeno del brigantaggio nel Sud. Il brigantaggio presenta tratti di jacquerie, ma in fondo è anche una guerra di secessione condotta nel primo decennio del nuovo Regno da alcune decine di migliaia di combattenti fra cui ex soldati borbonici, disertori del neonato esercito italiano, braccianti nullatenenti, pastori, rivoltosi e banditi. Se perfino una vittoria come quella di Garibaldi nel 1860 non basta a impedire un'immediata guerra di secessione nelle regioni appena conquistate, non è difficile comprendere l'estrema prudenza del governo centrale in materia di autonomie locali.

M.C. - Trovo molto suggestivo questo parallelo tra il brigantaggio in Italia meridionale e la guerra di secessione che infuria negli Stati Uniti proprio negli stessi anni, tentando anche lì - con analogo esito negativo - di separare il Sud dal Nord
I veterani sbandati dell'esercito borbonico sconfitto da Garibaldi sono comparabili con quelli dell'esercito confederale battuto dai nordisti, che diventano i « briganti », non rassegnati alla sconfitta, dell'America postbellica.

S.R. - Torniamo al nostro quesito. È davvero irragionevole desiderare, dopo l'Unità, uno Stato-nazione alla francese, vale a dire fortemente governato dal centro? Secondo me no, anche perché - riprendendo il discorso di poc'anzi - la schiacciante maggioranza degli analfabeti può essere la materia grezza, non ancora plasmata e forgiata, con cui creare uno Stato nazionale. Era stata, per la verità, preforgiata dalla Chiesa, ma con un catechismo che, soprattutto al Sud, è in parte superstizione, in parte paganesimo. Per la classe politica risorgimentale, essenzialmente liberale e anticlericale, le grandi masse cattoliche costituivano certamente un problema, ma non così insuperabile come oggi si ha tendenza a pensare.

M.C. - Siamo proprio sicuri che i valori cattolici rappresentino per la società italiana, di ieri e di oggi, soltanto una superficiale infarinatura?


S.R. - La verità è che le grandi masse popolari si forgiano soprattutto con i benefici materiali, riguardo ai quali la nuova Italia non poteva che essere parsimoniosa, e con le guerre, a cui debbono però corrispondere vittorie tali da compensare e giustificare i sacrifici fatti.

M.L. - Anch'io ritorno alla domanda: è un errore per l'Italia la scelta centralizzatrice alla francese? E anch'io credo che questa scelta debba essere considerata inevitabile, nel contesto dell'epoca, per tenere più saldamente in pugno la situazione. C'è il compito immane di far funzionare un nuovo sistema economico, c'è la necessità di integrare e « convincere» alcune regioni soprattutto meridionali, c'è l'enorme problema dei cattolici e della Chiesa, c'è l'opposizione di una parte delle classi dirigenti a un' estensione del diritto di voto che in effetti viene introdotta dopo mille cautele solo nel 1912.
È proprio all'inizio del Novecento che l'estensione del diritto di voto permette ai cattolici, come ai socialisti e ai repubblicani, di organizzare le loro forze. Come è noto, i cattolici e i socialisti diventeranno i due principali partiti politici italiani del primo dopoguerra, cioè degli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale.

Nazionalismo vittimista

M.C. - Un fenomeno molto interessante è lo sviluppo del nazionalismo italiano tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento ...

M.L. - Il processo di « nazionalizzazione delle masse» (George Mosse), vissuto come una forte emozione collettiva, prosegue anche se alcune zone del Paese restano molto povere, con un tasso elevatissimo di analfabetismo. Il socialismo italiano è diviso fra nazionalismo e internazionalismo, fra partecipazione alla guerra (interventismo di Mussolini) e neutralismo (derivante dalla dottrina secondo cui i proletari dei vari Paesi debbono unirsi contro il capitalismo, non ammazzarsi fra loro).
Ci sono forze politiche che non solo si riconoscono nella nazione italiana, ma nutrono una concezione diciamo pure offensiva della nazione, cioè l'idea che sia giusto conquistare colonie e anche partecipare allo scontro fra diverse potenze. Questo nuovo nazionalismo di tipo immperialista - assai diverso da quello risorgimentale, che si limita a rivendicare il diritto all'unità e all'indipendenza della patria italiana, coniugandolo con le idee di libertà, democrazia ed emancipazione dell'uomo - incontra un consenso crescente nell' opinione pubblica, e costituisce il supporto ideologico della tendenza favorevole all'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale.

M.C. - Qui si arriva a uno snodo fondamentale. Dopo l'accesso al club delle potenze coloniali (l'Eritrea, una parte della Somalia e la Libia diventano italiane fra il 1890 e il 1912), e !'ingresso ufficiale dei cattolici nella vita politica (con il patto Gentiloni del 1913), l'Italia decide nel 1915 di entrare in guerra al fianco della Francia e dell'Inghilterra, contro l'Austria e la Germania.

M.L. - Nel 1917 l'Italia conosce la terribile sconfitta di Caporetto, un vero dramma nazionale, ma riesce a reagire: questo Paese così recentemente unito resiste e contrattacca di fronte al potente esercito austriaco, dimostra di saper funzionare nel momento dell' emergenza suprema.

S.R. - Posso fornire un minuscolo esempio di quel momento di coesione perché la mia famiglia paterna è friulana. Lasciarono il paese e la casa per non vivere sotto 1'occupazione austriaca. Andarono a Firenze, poi a Milano, e conservarono a lungo un sentimento di gratitudine per i milanesi che li accolsero con grande cordialità e benevolenza. Non si sentirono ospiti, ma compatrioti. Il mio nonno paterno era nato nel 1872, quindi sei anni dopo l'annessione del Friuli all'Italia. I suoi genitori erano nati austriaci.

M.L. - In Francia spesso si esprime un certo autocompiacimento per la capacità di tenuta nella battaglia di Verdun (1916). Ma la Francia aveva una lunga storia nazionale alle spalle! Invece !'Italia vive il suo «ingresso nella modernità» (François Furet) proprio nel contesto atroce della prima guerra mondiale, dove siciliani e veneti si ritrovano nelle stesse trincee, spesso senza neppure capirsi bene fra loro, ma in un grande momento di coesione patriottica. A forza di insistere sulla cronica debolezza nazionale italiana, si rischia di dimenticare che la grande prova della guerra 1915-1918 non avrebbe mai potuto essere superata senza il paziente lavoro compiuto dalla classe politica che per cinquant'anni aveva governato il Paese.

M.C. - A suscitare una forte spinta nazionalista nel dopoguerra non è tanto l'euforia per la vittoria, quanto la delusione per la « vittoria mutilata ». I fascisti accusano la vecchia classe politica liberale di non ottenere soddisfazione, al tavolo della pace, per le legittime richieste dell'Italia.

S.R. - Quella diffusa delusione per i trattati di pace non è sorprendente. Al tavolo della pace, in effetti, le cose non andarono nel modo sperato. Ma quasi tutti i nazionalismi - non solo quello italiano - sono affetti da vittimismo, quasi tutti vengono in qualche modo legittimati dal sentimento di un'ingiustizia patita.

La patria secondo i sondaggi

M.C. - Vorrei ora proporvi l'ultimo tema di questa conversazione introduttiva. Secondo un'opinione diffusa, in Italia la nazione resta una nozione culturale minoritaria e abbastanza astratta, e la patria rimane incarnata da entità locali. Invece, secondo sondaggi recenti, ormai la patria è l'Italia per il 72% degli italiani, l'Unione europea per il 10% (ma con tendenza al ribasso), la propria città per il 7% e la propria regione per il 6%.

S.R. - Non credo in queste rilevazioni. Chi è interrogato per un sondaggio deve subire le domande e accettare le regole scritte da chi vuole risposte per quanto possibile nette. Se un sondaggio ci chiedesse di rispondere alla domanda «Ami tuo padre? », 1'80% probabilmente risponderebbe che lo ama. Ma la risposta non ci direbbe nulla sui reali sentimenti delle persone interrogate.

M.L. - Ecco un punto di reale disaccordo. Fin dall'inizio degli anni '90, seguo con grande attenzione i vari sondaggi sull'identità nazionale italiana, in particolare quelli realizzati dall'agenzia specializzata Demos del mio amico e collega Ilvo Diamanti. Effettivamente le risposte vanno tutte nella stessa direzione, e ci dicono che gli italiani sono fierissimi di esserlo, anche più di quanto i francesi o i tedeschi lo siano delle rispettive appartenenze nazionali, ma per ragioni dove la dimensione politica (struttura costituzionale, funzionamento della democrazia, eccetera) è molto, ma molto, debole.
Infatti, quando si pone la domanda « Che cosa significa essere italiano per lei?» le risposte più getto nate sono: « L'arte di arrangiarsi », «L'attaccamento alla famiglia», « La creatività ». Fra gli altri elementi di identità (e motivi di orgoglio), i primi posti sono occupati dalla bellezza del paesaggio, dall'importanza del patrimonio artistico e culturale, dall' alta qualità gastronomica, dalla raffinatezza e dal grande successo internazionale della moda italiana. Oltre 1'84% degli italiani considera che l'Unità è una cosa « positiva », e una larga maggioranza dà un giudizio nettamente favorevole sul Risorgimento, sulla Resistenza e su numerose realizzazioni della Repubblica. È vero peraltro che spesso l'italiano riunisce in sé varie identità, e trova punti di riferimento non solo nella sua appartenenza nazionale, ma anche nella propria regione, nella propria città, nel proprio villaggio.

S.R. - Sono domande che vertono su una materia poco definibile e a cui vengono date necessariamente risposte superficiali e mutevoli. Quando veniamo a contatto con persone di altri Paesi, ad esempio, cerchiamo inevitabilmente di rivendicare titoli di merito, doti e virtù al fine di non venire schiacciati dal loro eventuale sentimento di superiorità. Ma è soltanto una tattica di autodifesa.

M.L. - SÌ, ma questo non impedisce che i sondaggi possano comunque fornirci indicazioni molto significative. Lo scarso peso attribuito nelle risposte alla dimensione politica non significa affatto che la politica sia assente dalla testa della gente, anzi è la conferma della gravissima criisi di identità esistente attualmente in Italia. La crescita della Lega Nord provoca un visibile contraccolpo patriottico da parte di chi non ama i suoi argomenti anti-Sud o addirittura secessionisti. E la sfida dell'immigrazione una novità forte per l'Italia, che rilancia il dibattito sull'identità nazionale - accresce la consapevolezza e l'orgoglio di essere italiani, anche se talora in chiave razzista.

M.C. - Va ricordato, in tempi recenti, un autorevole tentativo di sottolineare con enfasi la continuità della patria italiana, di far amare maggiormente la bandiera e l'inno nazionale. Viene compiuto dal presidente Carlo Azeglio Ciampi durante tutto il periodo del suo settennato al Quirinale ...

M.L. - In questo tentativo, Ciampi è stato aiutato dalla sua storia personale, vale a dire dal fatto di non avere alle spalle una carriera di partito e di essere quindi per certi aspetti un antipolitico. Inoltre, ha avuto il privilegio di non dovere la sua elezione soltanto alla destra o alla sinistra, bensì a entrambi gli schieramenti. E infine ha avuto il merito di non auspicare una nazione chiusa, ma democratica e aperta all'Europa.

M.C. - A Ciampi va anche riconosciuto il merito di aver resuscitato la parola «patria.

S.R. - Ciampi è stato capo dello Stato in un periodo nel quale l'unità nazionale era messa in discussione dalla forte presenza della Lega al Nord e dalle posizioni secessioniste che il partito di Umberto Bossi aveva assunto sino alla fine degli anni '90. Il suo patriottismo ebbe uno scopo, un senso e anche una certa nobiltà. Ma produsse, tutto sommato, effetti modesti.

2. UNA LUNGA STORIA

Il passato remoto

M.C. - Quando si attribuisce alla parola Italia una connotazione essenzialmente meridionale, quando la si considera come un'espressione geografica che designa in primo luogo il Sud della penisola, tutto sommato si dice la verità. Non deve stupire che l'immagine internazionale dell'Italia sia essenzialmente - ci piaccia o no - quella di un Paese soleggiato, piazzato da una divinità benevola nel bel mezzo del Mediterraneo.
Questo nome deriverebbe, secondo Antioco di Siracusa (V secolo a. C), da quello di un potente principe di stirpe lucana, ltalo. Ma è soltanto nel II secolo d. C che il nome latino Italia cessa di designare una parte dell'ex Magna Grecia, per coprire tutto il territorio compreso tra le Alpi e la Calabria. Infine, nel III secolo d. C, l'imperatore Diocleziano include anche le tre grandi isole (Sicilia, Sardegna e Corsica) nella diocesis italiciana, la quale però è suddivisa in due territori, sotto la guida di due città che anche oggi, dopo tanti secoli, sono le due maggiori del Paese: il vicarius Italiae risiede a Milano e governa l'Italia settentrionale, mentre il vicarius Urbis risiede a Roma e governa il Centro-Sud e le isole.
L'italiano è abituato a coesistere con un illustre passato, donde il suo atteggiamento piuttosto « relativista» rispetto alle vestigia di epoche precedenti. Per secoli, i marmi di antichi monumenti vengono disinvoltamente asportati per utilizzarli a casa propria. Tutta questa disinvoltura non deve però far credere che gli italiani non abbiano le loro « memorie storiche condivise ». Qual è il rapporto tra l'italiano medio di oggi e il lontano passato della Roma imperiale, quando l'Italia era il centro della « civiltà occidentale »? Possiamo ritenere che il rapporto con quel lontano passato influenzi la percezione attuale dell'appartenenza nazionale italiana?

M.L. - C'è una minoranza che non soltanto conosce bene il passato remoto del Paese, e ne è giustamente orgogliosa, ma lo considera come un fattore identitario insostituibile, cioè come un elemento fondamentale per definire l'italianità rispetto ad altre appartenenze nazionali. Non mi riferisco soltanto all'impero romano, ma anche all'epoca dei Comuni, al Rinascimento, al fiorire dell'architettura barocca, eccetera. Per una certa élite, i vari riferimenti storici incarnano l'essenza stéssa dell'italianità. E abitare in un palazzo antico debitamente restaurato può rappresentare un segno di distinzione che merita investimenti molto cospicui.
Come osservatore straniero, sono colpito dal fatto che nel vostro sistema scolastico sia rimasto cosÌ importante il liceo classico, e che di conseguenza lo studio del latino e del patrimonio umanistico continui ad essere considerato come un valore importante da tramandare, nonché come strumento essenziale per forgiare la maturità dei giovani. In apparenza, questi giovani avrebbero tendenza a dimenticare subito quello che hanno imparato. Invece non è raro in Italia sentire citazioni in latino, anche da persone di 35-40 anni, cosa ormai impensabile da parte dei loro coetanei francesi, perfino dei più colti.
Ma per la grande maggioranza degli italiani le glorie del passato lontano costituiscono soprattutto un argomento turistico-folcloristico ... Le mie bambine sono molto impressionate dagli uomini vestiti da gladiatori che sostano in permanenza davanti al Col osseo e si fanno fotografare con i turisti per guadagnare un po' di soldi. Le mie figlie hanno ancora difficoltà a distinguere il passato dal presente, a capire se i gladiatori fanno parte del presente italiano o se invece sono figure appartenenti a un passato che, per ragioni a loro incomprensibili, è rimasto vivo!

S.R. - In realtà, la maggioranza degli italiani sa di queste cose soltanto il poco che viene raccontato nelle scuole, e crede nel suo passato romano più o meno a seconda dell'entusiasmo con cui viene insegnato e della simpatia ispirata dall'insegnante. Beninteso, è giusto che le classi dirigenti del Paese sentano il dovere di mantenere vivo il ricordo delle glorie passate. Ma per la verità, in questo campo, risultati eccellenti sono stati raggiunti anche da stranieri, in particolare tedeschi, che hanno lavorato molto bene sul patrimonio archeologico e linguistico dell'Italia centrale e meridionale. Penso, per fare soltanto un esempio, agli straordinari studi di Gerhard Rohlfs sui dialetti della Calabria e della Lucania. Ma non credo che tutto questo sia davvero importante ai fini delle nostre conversazioni. Ciò che più conta per l'attuale identità nazionale degli italiani è la storia del Paese dal momento della sua unificazione fino a oggi. Questa è l'unica materia di cui concretamente disponiamo per tentare la formazione del cittadino italiano.

M.C. - Dunque il tentativo del fascismo di far credere a milioni di italiani che la loro superiore civiltà proviene da quella nata sui colli fatali di Roma ...

S.R. - ... era un'impostura destinata sin dall'inizio a finire male.

M.C. - Secondo sondaggi recenti, condotti su campioni vasti e non limitati alle classi medio-superiori, risulterebbe che i momenti fondatori dell'identità nazionale italiana, ossia i momenti della storia d'Italia che incoraggiano maggiormente l'orgoglio nazionale, sono i seguenti: l'Impero romano, il Rinascimento, il Risorgimento, la Resistenza, il miracolo economico degli anni '60. Peraltro, è ben nota l'ammirazione pressoché unanime per alcuni personaggi come Dante Alighieri, Leonardo da Vinci, Giuseppe Garibaldi. Ma anche le icone di personaggi più recenti stimolano particolarmente l'orgoglio patriottico: per esempio, Gianni Agnelli, Federico Fellini, Enzo Ferrari, Luciano Pavarotti ...

S.R. - Ho già spiegato la mia sfiducia nei sondaggi. Mi sembra più utile chiedere perché sia così difficile scrivere la storia dell'Italia dal 1861 in poi. Intendiamoci, questa storia viene scritta continuamente, anche in modo accurato e intelligente, con riflessioni molto interessanti. Ma la storia a cui mi riferisco non è quella degli specialisti, è quella« pedagogica» che viene diffusa nel Paese. Una cosa che gli italiani dovrebbero cercare di fare nel 1500 anniversario dell'Unità d'Italia è chiedersi perché sia così difficile scrivere questa storia.

M.L. - Riguardo alla difficoltà italiana di scrivere una «storia ad uso del cittadino », debbo constatare che per esempio in Francia e negli Stati Uniti c'è una sorta di politica del patrimonio storico che insiste molto di più sugli elementi di continuità che su quelli di rottura. Entrambi questi Paesi hanno vissuto terribili scontri interni nel loro passato, ma compiono un sistematico tentativo di unire i cittadini spingendoli a memorizzare soprattutto i fattori di continuità.

Guerra civile permanente

M.C. - Esiste in Italia un luogo comune larghissimamente diffuso secondo cui la Francia incarnerebbe un modello assoluto di coesione nazionale. Invece non vanno dimenticate le sanguinose fratture politiche che costellano la sua storia, quelle che certi studiosi chiamano le «guerre francosi ». Qualche esempio fra i tanti? La Rivoluzione del 1789, quella del 1848, la Comune di Parigi, il caso Dreyfus, la spaccatura del Paese tra Resistenza e collaborazionismo petainista, senza dimenticare il rischio di guerra civile ai tempi della guerra d'Algeria ...

M.L. - Certo, ma la Francia si sforza malgrado tutto di restare un Paese unito. Anche nella storia d'Italia, i momenti di rottura e quindi i motivi di divisione sono ricorrenti. Il brigantaggio nel Sud, le insurrezioni di fine Ottocento, il «biennio rosso» poco dopo la prima guerra mondiale, il ventennio fascista e gli antifascisti fra carcere, esilio e confino, la Resistenza e la Repubblica di Salò, gli anni di piombo del terrorismo sono altrettanti momenti di spaccatura che rendono difficile - ma a mio parere non impossibile - l'elaborazione di una pedagogia storica unitaria.

S.R. - Il Paese conta dopo l'Unità un buon numero di guerre civili. Sappiamo che la guerra civile è la conseguenza fisiologica e pressoché inevitabile di qualsiasi grande progetto unitario. Ma la frequenza con cui l'Italia, nei suoi centocinquant' anni, attraversa periodi di guerre civili o affronta situazioni che rischiano di sfociare in una guerra civile, è abbastanza eccezionale. In particolare il terrorismo degli anni '70 è più grave in Italia che in Germania perché nella società italiana trova, se non vaste aree di solidarietà attiva, certamente alcune reti di simpatia e connivenza. Tutto ciò sembra confermare che nella casa comune degli italiani c'è qualcosa che veramente non funziona.

M.L. - Ecco un tema centrale per la nostra discussione! Anzitutto, bisogna definire quello che intendiamo per guerra civile.
Secondo una prima definizione, più limitativa, la guerra civile è uno scontro a morte tra due componenti che rivendicano ciascuna il controllo dello Stato. Conosciamo bene vari esempi storici: la Spagna del periodo 193661939, la Grecia dopo la seconda guerra mondiale, eccetera. Nel XX secolo, troviamo in Italia due situazioni abbastanza corrispondenti a questa definizione: il biennio rosso 1919-1920 e la lotta armata fra partigiani e fascisti del periodo 1943-1945. Entrambe queste situazioni, quanto al numero delle vittime, non sono comparabili con il tragico bilancio della guerra civile spagnola. Inoltre, entrambe non coinvolgono se non marginalmente il Sud del Paese.
Poi c'è un'altra definizione della guerra civile, che è più estensiva e può essere applicata a una parte delle « guerre franco-francesi» appena citate. Si tratta di conflitti che hanno un carattere simbolico, per così dire metaforico, anche se a volte possono degenerare in veri scontri. Toccano soltanto una parte della popolazione, non prefigurano alcuna vera conquista del potere. Tra le « guerre italo- italiane» di questo tipo si potrebbe citare il terrorismo degli anni '70, sconfitto senza ricorrere a misure repressive estreme.
È vero che in certi momenti l'Italia è molto divisa, ma lo è quasi sempre nel senso della seconda definizione, e non della prima. Per quanto riguarda il periodo dopo il 1945, si potrebbero aggiungere alla nostra lista gli scontri violentissimi fra Democrazia cristiana e Partito comunista italiano degli anni '50, che non possono essere ridotti alle pittoresche caricature di don Camillo e Peppone. Dc e Pci vorrebbero distruggersi a vicenda, ma per mille motivi non possono andare fino in fondo. Anche l'attuale forte contrapposizione fra berlusconiani e antiberlusconiani, iniziata fin dal 1994, prende a tratti il carattere di una « guerra civile blanda».

M.C. - L'arte di trovare abili compromessi fra acerrimi nemici è uno degli elementi più noti, anche all'estero, dell'identità nazionale italiana. Non è vero?

M.L. - Ma certo. È ricorrente il ragionamento secondo cui siamo divisi su tutto, sull' orlo del baratro, però dobbiamo in qualche modo metterci d'accordo per salvare quel bene prezioso che è il nostro Paese. Ecco l'Italia! E la capacità di mediazione ...
Negli anni '8O, ero giovanissimo e avevo una borsa di studio all'Istituto Universitario Europeo di Fiesole. Il grande politologo Maurice Duverger mi incarica di prendere contatto con l'Università di Perugia per l'organizzazione di un convegno sulla comunicazione politica. Senonché, un professore di quella università mi precisa che il convegno non è sulla comunicazione, bensì sulla mediazione, gettando mi nello sconforto più totale dato che nessuno dei preparatissimi colleghi francesi da me interpellati sa cosa sia la m édiation.
Nel week-end vado a Roma, poi il lunedì mattina sul treno per Firenze incontro per caso un' amica italiana che mi parla della morte appena avvenuta del celeberrimo pittore comunista Renato Guttuso. Pare che negli ultimi momenti della sua lunga agonia, riavvicinandosi alla fede cattolica, Guttuso abbia chiesto una messa a San Giovanni in Laterano, con due bandiere sulla sua bara: una rossa e una tricolore. Esibire una bandiera rossa in chiesa è una cosa che all' epoca normalmente non si faceva, e allora il Pci, dato il grande prestigio del defunto, si rivolge a Giulio Andreotti - proprio così conclude la mia amica - per la mediazione. Subito la abbraccio commosso per ringraziarla di avermi fatto finalmente capire che cos'è la mediazione: una sorta di tecnica per aggirare gli ostacoli ed evitare ogni genere di scontro, dalla polemica spicciola fino alla guerra civile.

M.C. - In uno dei suoi libri, che s'intitola L'Italia sul filo del rasoio, Marc Lazar sviluppa la tesi secondo cui la democrazia italiana è appunto basata su un'esigenza difensiva contro la tentazione ricorrente della guerra civile, dunque su un equilibrio precario che diventa permanente. In altri contesti, questo tipo di equilibrio sarebbe improponibile, ma in Italia può funzionare: soprattutto nel Centro-Sud, dove perfino le relazioni personali, nella vita quotidiana, sono allo stesso tempo molto conflittuali e molto «amorose.

S.R. - Questa fotografia è assolutamente esatta. Anche la parola « conciliazione », con cui fu definito il compromesso negoziato nel 1929 fra lo Stato e la Chiesa, è in realtà un sinonimo di mediazione. E vero: conciliazione, compromesso e mediazione sono concetti che aiutano a definire l'identità italiana.
Ogni guerra civile ha un nucleo forte di militanti, da una parte e dall' altra, e un numero più o meno alto di attendisti, cioè di persone che restano neutrali e aspettano la conclusione della partita. In Italia, il numero degli attendisti è sempre stato proporzionalmente più elevato che in altri Paesi. La guerra civile russa che segue la rivoluzione del 1917, come quella spagnola che precede la seconda guerra mondiale, sono scontri in cui gli attendisti sono complessivamente abbastanza pochi. Nel caso di quella che infuria in Italia nel periodo 1943-1945, il numero degli attendisti è invece altissimo; anche se i comunisti per lungo tempo non vollero riconoscerlo, impedendo così una comprensione reale degli avvenimenti.
Si può esprimere un giudizio etico sull' elevato livello di attendismo nelle guerre civili italiane? È un sintomo di ragionevolezza, di civile rifiuto della violenza, oppure di colpevole disinteresse per i destini della propria nazione? Insomma, è moralmente bello o brutto? A me interessa di più il giudizio storico-politico.
Le guerre civili sono spaventose, ma hanno un merito straordinario: producono chiarezza. Se invece prevale lo spirito di mediazione, la chiarezza viene a mancare. Il vincitore deve accettare la convivenza con lo sconfitto. L'amnistia concessa da Togliatti ai fascisti nel 1946, il divieto di ricostituzione del Partito fascista accompagnato però dall' autorizzazione accordata al Movimento sociale italiano: ecco un modo di procedere che si colloca nello spirito della mediazione.

M.C. - Lenin e Stalin non concedono alcuna amnistia ai russi bianchi ...

S.R. - Una guerra civile produce risultati chiari - e qui non intendo esprimere giudizi di valore su questi risultati - soltanto se il vincitore continua a eliminare i perdenti, a spegnere tutti i possibili focolai di opposizione per almeno quattro o cinque anni.
Invece in Italia le guerre civili finiscono in un altro modo. Il vincitore integra pezzi del partito sconfitto all'interno della propria struttura, lasciandosi inquinare, contaminare. Nel dopoguerra la Dc, il Pci e in misura minore altri partiti accolsero molti fascisti nelle proprie file, anche in posizioni di grande responsabilità. Ma vi erano, al tempo stesso, fascisti che sopravvissero politicamente come tali nel Movimento sociale italiano.
E allora che cosa succede? Succede che in Italia si perpetuano varie versioni della storia passata. La partita non si conclude con l'annientamento degli sconfitti. E questi, a seconda della loro « reincarnazione» (fascisti rimasti fascisti, fascisti diventati democristiani, fascisti diventati comunisti, fascisti diventati laico-socialisti, eccetera), raccontano storie diverse, ciascuno rivendicando la propria come l'unica autentica.

M.L. - Francamente non posso seguire Sergio Romano in un ragionamento suscettibile di lasciarci credere che ogni tanto una bella guerra civile possa essere auspicabile per la vita di un Paese. E comunque, non sempre in Italia le cose funzionano secondo la logica della mediazione. La vittoria del fascismo nel 1922-1925 è sicuramente una vera rottura con l'Italia liberale. I partiti dell' opposizione vengono sciolti, e la repressione è dura, a volte durissima. Successivamente, malgrado le amnistie, si tenta di operare una rottura netta col fascismo, e l'antifascismo diventa un elemento forte dell'identità nazionale repubblicana. Detto questo, sono pronto a riconoscere che non mancano gli clementi di continuità tra fascismo e repubblica, soprattutto a causa dell' assenza di una vera epurazione nel settore della pubblica amministrazione.
Al di là di queste sfumature, ancor oggi resto colpito dal concetto che Sergio Romano introduce già nella prima edizione francese della sua Histoire de l'Italie du Risorrgimento à nos jours, nel lontano 1975: l'Italia è un Paese dove non c'è mai né un vero vincitore né un vero sconfitto. È un concetto che cito sempre ai miei studenti perché trovo che effettivamente aiuta molto a comprendere la dinamica nazionale italiana.


S.R. - Il fascismo tentò di operare una rottura, ma ereditò pressoché interamente il corpo prefettizio giolittiano, le forze armate, la diplomazia, la magistratura. Mussolini usò i prefetti più di quanto non usasse i federali del partito. Quanto alla classe dirigente del sistema economico, gli stessi uomini d'azienda e di banca che avevano gestito l'Italia prefascista conservarono i loro poteri anche dopo l'avvento del nuovo regime.

È vero che l'Italia repubblicana cercò di alimentare e tenere in vita l'ideologia dell' antifascismo. Ma bisognerebbe aggiungere che il Movimento sociale non era soltanto « autorizzato» a esistere, ma anche destinatario di grandi attenzioni e spesso di accordi clandestini. Farò un esempio basato sulla mia personale esperienza. Quando ero in carriera da una decina d'anni, lavorai al Quirinale nell'ufficio del consigliere diplomatico di Giuseppe Saragat, presidente della Repubblica dal dicembre del ·1964. Il capo della corrente moderata del Movimento sociale italiano era allora Arturo Michelini, volontario con i franchisti nella guerra di Spagna e vice federale di Roma nell'ultima fase del regime. Quando si ammalò, Saragat chiese al suo consigliere diplomatico, Franco Malfatti, di fargli visita e portargli i suoi auguri. Stiamo parlando di un episodio accaduto nella seconda metà degli anni '60, cioè in una fase nettamente diversa da quella del governo Tambroni, nato grazie all'appoggio missino e finito bruscamente dopo gli scontri di Genova e Reggio Emilia. Ed è opportuno non dimenticare il governo Andreotti del 1972, un monocolore democristiano che slittò a destra per tener conto del brillante risultato elettorale appena ottenuto dall'Msi.

M.L. - L'elemento più sorprendente per un osservatore straniero è la coesistenza tra fratture forti e un' altrettanto forte capacità di mediazione, di compromesso, di sintesi, nel quadro di rapporti umani « trasversali », spesso eccellenti anche fra avversari politici irriducibili. Lei citava il caso Saragat-Michelini, ma forse il caso Berlinguerrante è per i francesi ancora più incomprensibile. Vedere il capo dei fascisti rendere omaggio alla bara del capo dei comunisti: che spettacolo!
C'è una profonda coscienza, nelle classi dirigenti italiane, della difficoltà di costruire, perpetuare, salvare la nazione. Donde l'alternanza continua fra il momento dello scontro e quello della ricerca di un'intesa.

S.R. - Ma la spiegazione di tutto questo non consisterebbe app~nto nella precarietà della nostra costruzione nazionale? E un po' come se ci fosse un avvertimento reciproco: attenzione, viviamo tutti in zona sismica, è inutile che ci ammazziamo a vicenda.



La monarchia

M. c. - I primi ottantacinque anni della storia unitaria, ossia ben oltre la metà del periodo di cui ora si celebra il centocinquantenario, si sono svolti in regime di monarchia: Vitttorio Emanuele 11 è re d'Italia per diciassette anni (186111878), Umberto 1 per ventidue anni (1878-1900), Vittorio Emanuele 111 per ben quarantasei anni (1900-1946), e Umberto II solo per un mese (maggio-giugno 1946). Quale bilancio possiamo tentare dell'apporto fornito dalla monarchia alla costruzione del sentimento nazionale?

S.R. - Bisogna partire dalla constatazione che senza i Savoia non ci sarebbe stata l'Unità d'Italia. Non possiamo dimenticare che nel 1849 Vittorio Emanuele II ereditò da Carlo Alberto un regno di Sardegna appena sconfitto a Novara, e dovette subito firmare un armistizio con gli austriaci. Ma insistette perché venisse garantita clemenza a quanti erano stati coinvolti nei moti patriottici, e conservò, insieme alla bandiera nazionale, lo Statuto liberale del suo predecessore. Sono cose che il nuovo re avrebbe anche potuto non fare, sono meriti che gli vanno riconosciuti.
Il grande errore della monarchia fu l'intervento in guerra nel 1915: un classico riflesso dinastico, datato e anacronistico. Giolitti capì perfettamente che la guerra sarebbe stata un grosso rischio per un Paese che lui stesso aveva contribuito a far crescere, e di cui conosceva bene la precarietà. Avrebbe avuto i numeri in Parlamento per opporsi alla guerra, ma non lo fece perché capì che l'opposizione a una decisione già presa dalla Corona avrebbe aperto una crisi istituzionale.

M.C. - Ma perché la monarchia aveva bisogno ad ogni costo di una guerra?

S.R. - Ripeto: un riflesso assolutamente dinastico. È un grosso errore per il Paese, ma dettato dalla cultura di un uomo che ragionava così perché era figlio di Umberto I e nipote di Vittorio Emanuele II. È inutile, tanto per fare un esempio tratto dalla storia di un altro Paese, chiedere perché Gorbaciov fosse contrario alla pluralità dei partiti. Era la sua cultura, la sua grammatica, la sua sintassi. E la sintassi di Vittorio Emanuele III nel 1915 era: «Scoppia una guerra? Allora bisogna andare a combattere per cercare di ottenere qualcosa! » L'espansione territoriale era allora considerata la naturale e legittima aspirazione di ogni sovrano.

M.L. - Il secondo grave errore della monarchia è l'alleanza con il fascismo, anzi proprio questa è l'accusa principale

S.R. - Su questo punto avrei da fare qualche distinguo. Sappiamo che a Vittorio Emanuele III viene rimproverato anzitutto di avere bloccato nell' ottobre del 1922 il decreto di Facta, allora presidente del Consiglio, sulla proclamazione dello stato d'assedio. Ma era possibile in quel momento tenere il fascismo fuori della politica italiana? Per la verità, molti liberali - fra cui Benedetto Croce e probabilmente lo stesso Giolitti - la pensavano come Vittorio Emanuele III e ritenevano che i fascisti sarebbero stati, prima o dopo, addomesticati. Bisogna mettersi nei panni di un re che in quattro anni, dal 1918 al 1922, aveva assistito a vari conati di guerra civile e alla caduta di governi che erano stati uccisi in Parlamento dai loro stessi sosteniitono
Quando si proclama lo stato d'assedio, non soltanto si corrono tutti i rischi di uno scontro frontale, ma bisogna anche avere un'idea di che cosa fare il giorno dopo. Vittorio Emanuele III riteneva che mettere i fascisti fuori legge significava affidare nuovamente il governo agli stessi che avevano dimostrato di non essere in grado di governare.

M.C. - Forse il re avrebbe potuto accettare lo stato d'assedio - consentitemi di giocare per un attimo con questi concetti così interessanti - e poi nominare presidente del Consiglio il generale Armando Diaz, principale artefice della vittoria italiana nella prima guerra mondiale, e destinato a entrare poi nel primo governo Mussolini proprio come garante della fedeltà alla Corona.

S.R. - Ripeto che questo avrebbe significato mettere fuori legge i fascisti, i quali disponevano di molte simpatie nella pubblica amministrazione e anche all'interno delle forze armate. Non voglio dire che la decisione del re nell' ottobre 1922 fosse la sola possibile, penso anzi che potessero esservene altre, ma non fatico a capirla. E la capisco ancora meglio se rifletto sul carattere di Vittorio Emanuele II!, sul suo cinismo, sul suo profondo scetticismo.
Il problema a mio avviso andrebbe spostato al '24, al delitto Matteotti. È in quel momento che Mussolini rischia la massima impopolarità. Vittorio Emanuele III chiese «un segnale del Parlamento », una domanda d'intervento a lui rivolta per via parlamentare, un gesto da cui avrebbe potuto nascere un capovolgimento della situazione. Invece - malgrado la disapprovazione di Giolitti - gli oppositori del fascismo restarono sull'Aventino e l'appello del re non trovò risposta. Certo in questa mancata reazione il re trovò una buona giustificazione per la sua prudenza, ma non penso che possa essere legittimamente rimproverato di non avere dispensato gli ammonimenti e i consigli che un sovrano deve dare nelle situazioni di pericolo.
In definitiva, anche se certi suoi comportamenti sono censurabili, non credo che si possano addossare a Vittorio Emanuele III tutte le responsabilità del consolidamento della dittatura. Questo giudizio finisce per assolvere tutti gli altri, e in particolare la classe politica antifascista che invece di restare in Parlamento si ritirò sull'Aventino.

M.L. - Capisco questo ragionamento, però il risultato è che la monarchia si lega al destino del fascismo, avvilendo l'immagine nazionale del Paese ...
S.R. - Anche se è proprio la monarchia che, nel 1943, mette fine al regime. Ma vediamo, prima di arrivare al '43, un altro passaggio fondamentale: le leggi razziali del 1938. Al re verosimilmente non piacciono perché sono non soltanto odiose, ma anche inutili e puramente « ideologiche », in un Paese dove gli ebrei sono appena 45.000. Eppure Vittorio Emanuele III controfirma queste leggi assurde. Perché? Cerchiamo di capire il contesto dell'Italia dell' epoca, e di metterei ancora una volta nei panni (scomodi) del sovrano. Come ha bene raccontato Renzo De Felice, fra il '35 e il '37 il consenso degli italiani per Mussolini diventa altissimo. Tuttavia all'interno del Partito nazionale fascista sopravvive un' anima antimonarchica e repubblicana, che riconosce l'autorità del Duce ma non gli perdona la sua presunta timidezza verso la Corona e attribuisce alla convivenza con la monarchia l'eterno rinvio della «ineludibile» rivoluzione, della cosiddetta «seconda ondata ». Al fine di tacitare l'ala estremista, decolla per l'appunto quel progetto di Stato etico e totalitario che fino ad allora era rimasto nel cassetto, e che comincia a manifestarsi con caratteri talora folcloristici come l'abolizione della stretta di mano, l'obbligo del «voi », il moltiplicarsi delle manifestazioni di massa. Quando fu conquistata l'Etiopia e proclamato l'impero, venne istituita la carica di Primo Maresciallo dell'Impero: una dignità che identificava nel suo titolare la suprema autorità nazionale e che avrebbe dovuto svettare solitaria al di sopra di tutte le altre. Ma, per una sorta di compromesso istituzionale, i primi marescialli furono due: il re e Mussolini.
A questo punto Vittorio Emanuele III prende paura.
Vuole conservare la sua« ragione sociale », ossia l'istituzione monarchica e la dinastia sabauda; e vede nella creazione della carica « bicefala» di Primo Maresciallo dell'Impero una sfida, una minaccia. Si accorge, anche se con un colpevole ritardo, di aver nutrito nella sua casa una serpe pronta ad assestare il colpo di grazia a lui e alla dinastia. Ancora un'impresa fortunata, e i fascisti più sfegatati obbligheranno Mussolini a rovesciare il re.
Ecco dunque il contesto nel quale il sovrano diventa particolarmente guardingo. Sa che probabilmente dovrà affrontare una battaglia contro il Duce: una battaglia all'ultimo sangue, al termine della quale uno dei due avrà perso tutto. Quindi deve stare molto attento a scegliere il momento e il pretesto dello scontro, per cercare di combattere da una posizione di forza. E arriva alla conclusione che le leggi razziali non sono l'occasione giusta. Mi spiace dirlo, ma sicuramente non è su questo tema che Vittorio Emanuele III avrebbe potuto impostare una battaglia vinncente contro Mussolini. Avrebbe perduto la corona.

M.L. - Secondo un metodo teorizzato e collaudato da Max Weber e Raymond Aron, stiamo cercando di metterci nei panni degli attori della storia per meglio comprendere i moventi profondi dei loro comportamenti. E arriviamo a conclusioni interessanti. Ma resta il fatto che il re nel 1938 assume la responsabilità di controfirmare le leggi antisemite.
Sergio Romano cerca di spiegare - senza per questo giustificarlo - l'atteggiamento del re di fronte al fascismo. E vero che, soprattutto a partire dalla metà degli anni '30, il regime diventa molto popolare e la monarchia è in posizione di debolezza. Però Mussolini non si spinge fino all' estromissione del re perché ha ben presente, contrariamente ai suoi seguaci più scalmanati, che grazie ai predecessori di Vittorio Emanuele III la dinastia dei Savoia è un simbolo prestigioso della nazione italiana, e che una parte non trascurabile del Paese resta legata a questo simbolo.

S.R. - Anche Mussolini cerca il terreno giusto su cui litigare. Se avesse vinto la guerra, avrebbe fatto fuori il re senza esitare un attimo. E Hitler, che certamente monarchico non era, lo avrebbe incoraggiato e si sarebbe congratulato.

M.L. - Il forte radicamento della monarchia - ormai riconosciuto dai lavori dei molti storici che stanno facendo giustizia dell'idea lungamente dominante secondo cui i Savoia sbagliano sempre tutto - viene confermato dai risultati del referendum istituzionale del 2 giugno 1946.

La repubblica vince di misura. E la monarchia, con buona pace di quei meridionalisti che avevano accusato la dinastia sabauda di annessionismo coloniale, ottiene una maggioranza netta al Sud. Ancora una volta, il Paese è spaccato in due, e alcuni si spingono a mettere in dubbio i risultati del referendum.

M.C. - Nel 1944 il re si rifugia al Sud in terre sicure già liberate dagli Alleati, cosa inaccettabile per chi al Nord sta vivendo l’occupazione tedesca, i bombardamenti, la guerriglia partigiana... Purtroppo, la repubblica che nasce nel '46 non è espressione di una ritrovata unità nazionale. Qualcuno paventa una rivolta dei monarchici sul modello di quella che aveva opposto la Vandea alla Francia rivoluzionaria.

M.L. - Non a caso si manifestano spinte autonomiste in Sicilia e in altre parti del Paese. Il problema del dopoguerra è quello di rifondare la nazione nel suo nuovo assetto repubblicano. Reinventare l'identità nazionale è il compito titanico dell'Assemblea che varerà la Costituzione entrata in vigore il 10 gennaio 1948.

M.C. - Indubbiamente il nuovo re Umberto II contribuisce a evitare la guerra civile accettando il risultato del referendum. Ma è legittimo chiedersi: perché la monarchia, dopo aver sconfessato il fascismo e fatto arrestare Mussolini nel 1943, non completa topera nel '44 mandando il giovane Umberto di Savoia al Nord a raggiungere i partigiani? Questo avrebbe significato qualche milione di voti in più al referendum.

S.R. - Sì, probabilmente. Benedetto Croce era attratto dall' esempio gollista, voleva la creazione di un nuovo corpo di combattenti che avrebbe assunto un forte significato nazionale soprattutto se guidato dal principe ereditario.
Se volete, posso cercare spiegazioni più nobili. Ma il vero motivo per cui questo progetto non si realizzò fu la regina. Mamma Elena non voleva che il figlio rischiasse la vita.

M.C. - Se vai a Milano prendi freddo! Magari ti sparano, prudenza!

S.R. - Quindi, tutto sommato, è giusto che la monarchia se ne vada. Però non è giusto, ripeto, addossare ogni responsabilità dei mali italiani alla sola monarchia.
Se vogliamo finalmente costruire una storia nazionale italiana dotata di una funzione pedagogica, cioè capace di unire anziché dividere il Paese, dobbiamo garantire a questa costruzione una continuità che rispetti ogni segmento del percorso fatto. Mentre la rottura comporta sempre la divisione in buoni e cattivi, la continuità esclude che tutti siano interamente buoni o cattivi.

Il fascismo

M.C. - Questo ragionamento vale anche per il fascismo?

S.R. - Il fascismo si deve non solo condannare ma anche spiegare, con le sue colpe e i suoi innegabili meriti. Se quel regime avesse commesso soltanto errori, sarebbe impossibile comprendere perché l'Italia repubblicana abbia utilizzato per decenni l'eredità fascista, sia quella giuridico-istituzionale, sia quella di politica economica.
Un esempio. Chi tira fuori l'Italia - con un certo anticipo rispetto ad altri Paesi europei - dalla crisi scoppiata negli Stati Uniti nel 1929, e arrivata in tutta Europa nel '32? È la politica economica del regime fascista e soprattutto di Alberto Beneduce, primo presidente dell'Iri, anche lui (come Mussolini) ex socialista rivoluzionario, che estende e razionalizza l'intervento dello Stato nell' economia proprio come sta facendo il New Deal dall' altra parte dell'Atlantico. Non dimentichiamo che Beneduce è l'autore della famosa legge bancaria del 1936, rimasta in vigore fino al 1993. E interessante il suo legame con Enrico Cuccia: il futuro capo di Mediobanca è un giovane funzionario neoassunto all'Iri quando, frequentando la casa di Beneduce, ne conosce la figlia Idea Nuova Socialista (le altre due figlie si chiamano Italia Libera e Vittoria Proletaria) e la sposa nel 1939. Il potente suocero favorisce gli inizi della carriera del genero, caldeggiandone l'assunzione presso la Comit guidata da Raffaele Mattioli.
Ecco l'intreccio inestricabile di ideali, passioni, elementi comici e drammatici, felici intuizioni e terribili cantonate di cui è composta la continuità storica italiana.

M.L. - Sì, questo è vero per l'Italia come per ogni altro Paese. Però non bisogna dimenticare il giudizio etico sulla dittatura fascista.

M.C. - Non mi pare proprio che l'attuale dibattito politico italiano sia caratterizzato dalla demonizzazione del fascismo ...

S.R. - Sì, ma non siamo ancora arrivati alla possibilità di scrivere una storia « pedagogica» che spieghi le responsabilità degli antifascisti nell'instaurazione della dittatura, che racconti la vicenda del regime in maniera non puramente ideologica. Non è più concepibile una storia seconndo la quale il fascismo irromperebbe come un male assoluto nel corpo sano della nazione.
Tutti i Paesi hanno bisogno di continuità storica. Per continuità, intendo appunto un tentativo di spiegare gli avvenimenti senza demonizzarli. Putin restituisce a Stalin il suo posto perché, malgrado il crollo disastroso del comunismo, non può lasciare un buco di trent'anni nella storia nazionale della Russia.

M.L. - Ma il fascismo non è colpa degli antifascisti! Il fascismo deve essere oggetto di studi storici rigorosi, però anche di una riflessione teorica globale, in quanto esperienza totalitaria che ha rappresentato e ancora rappresenta una piaga, un dramma per l'Italia. Sono perfettamente d'accordo sulla necessità di sforzarci di comprendere le ragioni della sua presa del potere, delle sue realizzazioni e dei suoi disastri. Ma non accetto che lo si metta sullo stesso piano dell'Italia liberale che lo ha preceduto o dell'Italia repubblicana che lo ha seguito, semplicemente in nome della continuità storica.
Gli anni del periodo fascista appartengono certo alla storia dell'Italia, ma debbono essere studiati come una delle pagine più oscure della complessa vicenda nazionale del vostro Paese.

M.C. - C'è un termine finora rimasto assente dalla nostra conversazione: trasformismo. Si usa questo termine soprattutto a proposito dei comportamenti della classe politica italiana nei primi decenni dello Stato unitario. Ma il fatto che il capo stesso del fascismo fosse un ex socialista rivoluzionario, cioè un transfuga del campo avverso, la dice lunga sulla capacità degli italiani di cambiare idea.

S.R. - In realtà Mussolini rimase sempre un socialista. I capitalisti non gli piacquero in nessun momento della sua carriera politica, anche se durante il Ventennio si convinse dell'impossibilità di governare l'Italia fuori dell' economia di mercato. La Repubblica sociale del periodo 1943-1945 costituisce un ritorno a quelle idee anticapitaliste in cui aveva sempre creduto. Consapevole che la guerra è ormai perduta e che pertanto il suo ciclo storico corre verso la fine, Mussolini è ossessionato dal problema della propria immagine da consegnare alla storia, e vorrebbe poter trasmettere a qualcuno la sua eredità morale. A chi? Vorrebbe lasciarla ai socialisti, naturalmente. Ma in questo campo trova solo un paio di interlocutori: Carlo Silvestri, un giornalista che nel 1924, dopo il delitto Matteotti, era diventato l'anima della campagna lanciata dall'Aventi no contro Mussolini, e forse, indirettamente, Corrado Bonfantini, comandante partigiano delle Brigate Matteotti a Milano. Entrambi vennero subito sconfessati perché, com' era prevedibile, prevalse la tesi di chi non intendeva riconoscere alcuna legittimità socialista alla Repubblica di Salò.

M.L. - Secondo me, Mussolini esce dalla logica del socialismo fin dagli anni della sua scelta a favore dell'intervento dell'Italia nella prima guerra mondiale. Diventa un nazionalista e rinuncia cosÌ all'internazionalismo socialista.

S.R. - Be', nella storia dell'umanità c'è anche il nazionalsocialismo hitleriano. E c'è perfino la dottrina staliniana del socialismo in un solo Paese, fase transitoria ma indispensabile per reagire all' accerchiamento dei Paesi capitalisti. I socialismi sono numerosi. E numerosi furono anche, nel 1915, gli interventisti di sinistra.

M.L. - Certo, i socialismi sono numerosi. Però, creando il partito fascista, Mussolini si mette contro la tradizione socialista. Anche se mantiene la sua ostilità, o più esattamente la sua diffidenza, nei riguardi delle oligarchie economiche.
Comunque Mussolini non è un ideologo, bensì un uomo d'azione, come risulta con chiarezza dall' opera monumentale di Renzo De Felice, dalle ricerche di Emilio Gentile o dalla bella biografia di Pierre Milza. Cioè un uomo che adegua le sue idee generali agli imperativi della propria attività quotidiana, e non viceversa. Diventando il Duce del fascismo, non è più per niente il leader socialista che era stato.
È evidente, ad esempio, che nel dopoguerra Fanfani non avrebbe potuto promuovere le sue idee solidaristiche proclamandosi corporativista e conservando la camicia nera. Lo ha fatto con altre parole, con altri abiti, in un altro contesto.

M.C. - È ben noto, come ricordato anche in una nostra conversazione precedente, il fenomeno degli innumerevoli ex fascisti diventati classe dirigente nel dopoguerra: essenzialmente democristiani, come Fanfani e Moro) o comunisti, come Ingrao e Alicata.

S.R. - In epoca fascista, Fanfani scrisse testi di economia corporativa, e anche successivamente rimase in sostanza un corporativista, fautore di una collaborazione interclassista fra capitale e lavoro nel segno della solidarietà cristiana. Sta di fatto che il mondo cattolico, a partire da De Gasperi, prende molto sul serio il corporativismo fascista.
La parola « trasformista» comporta un giudizio negativo, ma forse è opportuno ricordare che nessuno può scegliere il momento in cui realizzare le proprie idee, e che ciascuno di noi è costretto a adattarsi alle circostanze. Troppo spesso ci si ostina a pensare che i trasformisti siano sempre e comunque persone spregevoli: traditori degli ideali della gioventù, opportunisti a caccia di laute prebende. Questo severo giudizio deriva dalla convinzione che il trasformista cambi bandiera obbedendo alla sua personale convenienza, mentre la realtà resterebbe immobile, sempre la stessa. E invece no, la realtà cambia continuamente
M.C. - Nella nostra analisi dell'evoluzione dell'idea nazionale non possiamo dimenticare che al fascismo viene rimproverato di avere messo troppo l'accento sul nazionalismo, al punto da dissuadere gli italiani per vari decenni da qualsiasi forma d(patriottismo.

M.L. - È indubbio che il fascismo vuole esaltare l'idea di nazione, presentandosi come il legittimo continuatore di altri momenti gloriosi per la patria italiana, come l'antichità romana ma anche il Risorgimento. De Felice dimostra con chiarezza che fino al 1938 - soprattutto dopo la conquista dell'Etiopia e dopo gli accordi di Monaco - gli italiani accordano un consenso popolare vastissimo sia al regime fascista, e in particolare alla persona del Duce, sia all' idea nazionale.
Ovviamente, con le leggi razziali e la guerra, tutto cambia. Allora mi chiedo: come viene vissuta la disillusione della guerra e del dopoguerra da quel popolo che tanto aveva creduto nell' esaltazione esacerbata della nazione? Forse l'Italia reagisce come qualcuno che si ubriaca un po' troppo, e quando si sveglia ha un mal di testa terribile!

M.C. - Il regime dissemina di messaggi la vita quotidiana della gente semplice: gli stivali lucenti dei gerarchi, le .frasi perentorie scritte sui muri, gli anni dell'Era fascista messi vicino a quelli dell'Era cristiana ... Sono infiniti i simboli creati nel Ventennio per infondere la fierezza di essere italiani, per creare una sorta di complesso di superiorità.

S.R. - In Italia come altrove, la grande maggioranza ha fiducia in chi ha successo. E se poi le cose vanno male, il primo riflesso è di linciare lo sconfitto, accusando lo di non aver mantenuto le promesse. La folla scesa nelle strade il 26 luglio 1943, per abbattere i simboli del fascismo, non è composta da antifascisti di vecchia data e di radicata convinzione, ma da quegli stessi che fino a qualche mese prima si erano spellate le mani per applaudire Mussolini e gli slogan con cui inneggiava alla grandezza della patria. Compensando umiliazioni antiche e recenti, Mussolini ha regalato agli italiani per vent'anni la sensazione di appartenere a una grande potenza, di poter andare orgogliosi della loro patria: una patria dalla quale molti di loro erano ancora costretti a emigrare, vivendo un' esperienza umiliante perché inevitabilmente accompagnata, in quei tempi, dal giudizio sprezzante del Paese che li accoglieva.
In effetti, la massima popolarità del regime fu ottenuta grazie a due eventi: la conquista dell'Etiopia con la conseguente proclamazione dell'Impero, e la conclusione apparentemente positiva della conferenza di Monaco, dove Mussolini apparve come l'uomo capace di salvare la pace in Europa e nel mondo. Se fosse rimasto fuori dalla guerra, Mussolini sarebbe forse morto nel suo letto come Franco in Spagna, e l'Italia sarebbe ridiventata una democrazia senza traumi e scosse. Non è vera la tesi secondo cui la dittatura fascista sarebbe la naturale conseguenza di un vizio congenito del Paese, cioè della mancanza di una radicata tradizione democratica. L'Italia è una democrazia imperfetta, ma conosce forme di civile partecipazione alla cosa pubblica fin dalle città-Stato dell' epoca dei Comuni.

M.L. - Mi sembra che sotto il fascismo si assista a una nuova spinta in avanti nel processo di « nazionalizzazione delle masse », la quale include un' accentuazione del sentimento di appartenenza a una stessa nazione dal Nord al Sud del Paese. Questo è anche legato a una certa modernizzazione promossa dal fascismo.
Pensiamo all' esempio delle ferrovie, molto noto e molto ben studiato in vari Paesi. Grazie alle ferrovie, un contadino può andare a vendere i prodotti fuori dal suo paesello, così va alla città più vicina, poi decide di andare un po' più lontano, e infine si accorge che il suo spazio di azione può diventare molto più ampio di prima. Si rende conto di far parte di una comunità le cui frontiere si trovano molto al di là dell' orizzonte di casa sua. Ecco dunque il nesso positivo fra modernizzazione e costruzione della patria: qui il fascismo compie un' azione destinata a continuare con l'avvento della repubblica.
Quello che invece del regime fascista va respinto nella maniera più netta è l'elemento totalitario, cioè la creazione - per usare le parole di Gentile - di una « religione politica »: sacralizzazione del Duce e dello Stato, esaltazione nazionalista, mobilitazione permanente, politicizzazione esasperata.


S.R. - La nazionalizzazione delle masse viene effettuata anche con la loro militarizzazione. Non vi era italiano che non avesse una divisa: il balilla, l'avanguardista, la giovane fascista, la crocerossina, l'iscritto al Guf (Gruppo universitario fascista), il funzionario dello Stato, il membro del partito. Tutti in uniforme, tutti militarizzati.
Visto con la sensibilità di oggi, in un mondo dove tutti sono liberi di vestirsi come vogliono (anche se tutti, poi, si vestono allo stesso modo), ciò può sembrare assurdo. Ma, a pensarci bene, anche nella militarizzazione fascista dell'abbigliamento vi è il tentativo di costruire la nazione italiana. Dimentichiamo forse com' erano vestiti soltanto mezzo secolo prima quegli stessi italiani che negli anni '30 portavano tutti o quasi un'uniforme? Avevano costumi regionali molto diversi, che non si usavano più per la vita di tutti i giorni, ma che venivano sfoderati per le occasioni solenni. Il matrimonio di una ragazza del lago di Como era diverso da quello di una ragazza di Pozzuoli. Dunque non solo i dialetti, ma anche gli abiti dividevano l'Italia dell'Ottocento.
Ricordate le riunioni presiedute da Saddam Hussein e frequentemente mostrate nei telegiornali durante le due guerre irachene? Tutti i suoi ministri e collaboratori indossavano una uniforme grigioverde. In un Paese dove nessuno era privo di un elemento distintivo della propria appartenenza tribale o fede religiosa, Saddam aveva messo tutti in divisa.

Terra di emigrazione

M.C - È di poco fa il riferimento di Sergio Romano alla massiccia emigrazione italiana, che richiama l'immagine delle famiglie in viaggio con i loro bambini piangenti e i loro bagagli miserabili ...

S.R. - Quello che mi spiace è il processo di santificazione dell' emigrazione come esodo biblico di povere vittime. In realtà, per vari decenni l'emigrazione è una win-win operation, nel senso che ci guadagnavano tutti. Ci guadagnavano quelli che emigravano, perché la grande maggioranza finiva per ottenere un lavoro che non avrebbe mai potuto trovare in patria. Ci guadagnava l'Italia nel suo insieme e ci guadagnavano soprattutto i familiari rimasti a casa che approfittavano largamente delle rimesse. E ci guadagnavano infine i Paesi di accoglienza, che ricevevano enerrgie fresche, e nuovi talenti. Ripeto, fu per tutti un' operazione  vincente.

M.C - Dell'emigrazione, per un certo periodo l'Italia si vergogna.

S.R. - No, sono alcuni partiti politici che per molti anni cercano di costringere il Paese a vergognarsi, ma io non ho mai avuto questo problema.

M.L. - Anche a me sembra giusto andare contro la « leggenda nera» dell' emigrazione, che, nonostante i vari e veri problemi e drammi, è una straordinaria opportunità di arricchimento, in tutti i sensi della parola. Anche nel caso dell' exode rural francese non mancano elementi di soffeerenza e perfino di disperazione, però innumerevoli ricerche socio logiche, romanzi e film dimostrano che alla fine tutti sono abbastanza contenti. I contadini scoprono le città, gli orizzonti si allargano, le aspettative crescono ...

Molti emigrati italiani perdono progressivamente il legame con la madrepatria, e questo fenomeno dello smarrimento dell'identità nazionale d'origine è molto più intenso in Francia che in altri Paesi. Il modello francese è duro, costrittivo, ma al tempo stesso è « ricompensativo », cioè tende a premiare chi si integra.

M.C - Però negli ultimi decenni, in Francia come altrove, gli emigrati italiani manifestano la tendenza a un attaccamento più tenace alle proprie radici. Fondano associazioni che organizzano viaggi verso le varie regioni di origine. Creano una rete sempre più vasta di relazioni economiche e culturali fra le loro due patrie, la vecchia e la nuova.
È soprattutto negli anni '80, con l'affermarsi della moda italiana e del design italiano nel mondo intero, con l'unanime riconoscimento delle eccellenze gastronomiche e dei benefici salutisti dell'alimentazione italiana, insomma con il diffondersi di un'immagine « raffinata» dell'Italia, che gli emigrati ritrovano una grande fierezza delle loro radici. Il che ovviamente non ostacola in alcun modo il loro attaccamento al Paese che li ha accolti.

S.R. - Esiste in Europa, ma non soltanto in Europa, una figura sempre più diffusa, quella della persona dotata di una doppia nazionalità: due patrie, due passaporti. È soltanto uno degli indici del tramonto di una certa concezione dello Stato-nazione. In effetti, per molto tempo, gli Stati non hanno amato che un cittadino dividesse la propria lealtà fra diverse appartenenze nazionali. Ma con la fine della seconda guerra mondiale questa tendenza si è progressivamente affermata e può essere considerata ormai inarrestabile.

Perfino gli Stati Uniti accettano la doppia nazionalità.

Ma l'Italia ha probabilmente più « binazionali» di altri Paesi perché ha varato negli anni '90 una legge che ha concesso la cittadinanza italiana anche a molti che t'avevano perduta, e volevano recuperarla pur rimanendo all'estero.

M.C. - L'importanza assunta dall'emigrazione nel dibattito politico italiano può anche suscitare preoccupazione o fastidi.

S.R. - Per vari motivi. Innanzitutto perché l'emigrazione continua a essere presentata come t'ennesima dimostrazione del fallimento dello Stato nato dal Risorgimento. Conosco le difficoltà, i difetti, i vizi di questo Stato. Ma c'è una bella differenza tra la constatazione della sua crisi e t'atteggiamento pregiudizialmente ostile all'Unità d'Itali,a, che a me pare profondamente sbagliato e antistorico. E vero che il fenomeno migratorio ha preso proporzioni importanti proprio negli ultimi decenni dell'Ottocento, mantenendo una dimensione rilevante fino agli anni '60-'70 del secolo scorso. Ma questo accadde principalmente perché lo sviluppo industriale di numerosi Paesi e il loro decollo economico esigevano mano d'opera straniera.
Ora abbiamo una legge elettorale che permette l’elezione di deputati e senatori in rappresentanza delle comunità di italiani residenti all' estero. È un modo per favorire la formazione di una nomenklatura, cioè di un sistema di potere che spesso non rappresenta affatto la maggioranza dei connazionali (bene integrata nel Paese di accoglienza e quindi non molto interessata a votare per il Parlamento di Roma), ma incarna piccole o grandi ambizioni personali. Senza contare le sempre possibili infiltrazioni della criminalità organizzata in consultazioni elettorali che la bassa percentuale dei votanti davvero interessati rende abbastanza facilmente manipolabili.
Questo sistema non mi piace. I candidati riescono con fatica a procurarsi qualche suffragio che comunque non è indicativo di una reale partecipazione ai problemi dell'Italia: problemi che t'emigrato di seconda o terza generazione non può conoscere. Per di più, a votare per il Parlamento italiano sono persone che non vivono nel Paese, e quindi votano sapendo che non pagheranno le conseguenze delle loro scelte.
Il primo appuntamento elettorale in cui questo nuovo sistema è stato sperimentato mi ha dato ragione perfino al di là di ogni previsione. Gli inconvenienti provocati dalla eterogeneità della coalizione guidata da Romano Prodi sono stati ulteriormente accresciuti dal ruolo sproporzionato assunto da un senatore italo-argentino, indispensabile alla maggioranza ma deciso a orientare il proprio voto, come disse più volte con sfrontata franchezza, secondo gli interessi dei suoi elettori. Ma quali erano gli interessi dei suoi elettori? Un consolato in più? Una pensione?

S.R. - Negli Stati Uniti sono incoraggiate a esistere dal fatto che il fenomeno migratorio ha per questo Paese un carattere « fondatore », e che l'organizzazione dell' elettorato per lobbies nazionali corrisponde ormai a una logica politica ben consolidata. Si tratta di quel sistema di coesistenza tra vari gruppi etnici, religiosi e nazionali che i francesi chiamano con disprezzo «comunitarismo ». Ecco dunque perché da almeno un secolo esiste negli Stati Uniti una nomenklatura italiana riconosciuta e legittimata dalle autorità americane.
In Brasile e soprattutto in Argentina, dove circa la metà della popolazione è di origine italiana, un nostro passaporto diventa un potenziale permesso di lavoro, perché può essere utilissimo - soprattutto nei periodi di crisi per emigrare in un altro Paese dell'Unione europea, ad esempio in Germania o in Francia.

M.C. - Attualmente gli italiani che si trasferiscono all'estero lo fanno essenzialmente nel quadro della circolazione delle

M.C. - Naturalmente non bisogna dimenticare che queste comunità italiane all'estero hanno un'importanza molto diversa da Paese a Paese ... persone che caratterizza la nostra epoca di globalizzazione economica, e non per obbedire a una necessità davvero coattiva. Questi nuovi emigranti sono i protagonisti di una rete solidale di relazioni economiche e culturali fra Italia e i Paesi dove gli italiani hanno tendenza a concentrarsi. Non dimentichiamo che una parte non trascurabile degli italiani o dei loro discendenti tende ad accentuare il sentimento di identità nazionale proprio perché vive all'estero.
C'è una forte identità italiana che è ben riconoscibile nel mondo intero grazie ai suoi molti simboli prestigiosi, commerciali e culturali, e che in effetti viene nitidamente percepita come tale sia da coloro che ad essa rivendicano la propria appartenenza, sia da coloro che dall'esterno l'ammirano, la disprezzano o la temono.

M.L. - Anzitutto, mi sembra che 1'origine del fenomeno migratorio vada fatta risalire a una circostanza ben precisa: nella seconda metà dell'Ottocento il processo di modernizzazione economica dell'Italia è ancora incompiuto, la rivoluzione industriale raggiunge solo zone limitate del Paese. Non penso proprio che sia possibile attribuire la responsabilità dell' emigrazione - ammettendo che sia giusto parlare di responsabilità - alla grande novità politica costituita dalla formazione dello Stato unitario italiano.
Riguardo alla dinamica socio-culturale, vorrei fare almeno tre riflessioni. Anzitutto, va registrato che 1'emigrazione italiana viene talora caratterizzata da un sentimento iniziale di disprezzo verso la nazione d'origine, la quale «essendo arretrata non ha saputo darci da mangiare », nonché da una certa iniziale ammirazione acritica verso il Paese di arrivo.
Secondo elemento, solo apparentemente contraddittorio rispetto al primo. Quando un italiano arriva in un altro Paese e incontra le inevitabili difficoltà connesse al proprio inserimento professionale, spesso non tarda a riscoprire tutti quei preziosi tesori dell'italianità che fino a quel momento aveva trascurato. Lo dicono tanti studi storici e sociologici, e anche alcuni film particolarmente riusciti: per esempio, Pane e cioccolata (I 974) di Franco Brusati.
Come forse qualcuno ricorda, il protagonista è Nino Manfredi, un immigrato italiano in Svizzera dove svolge un dignitoso lavoro di cameriere fino al brutto giorno in cui viene sorpreso a orinare all' aperto. Così perde il permesso di soggiorno e deve vivere da clandestino. Estasiato dalla visione di un gruppo di giovani svizzeri biondissimi, decide di tingersi i capelli per assomigliare a loro. Ma successivamente, essendo capitato in un bar dove viene trasmessa in televisione una partita di calcio che oppone la nazionale italiana all'Inghilterra, si fa riconoscere come immigrato quando gli azzurri segnano un gol e lui esplode in un urlo di gioia da vero tifoso. L'appartenenza patriottica è di nuovo operante.

M.C. - Questo bisogno di ritorno alle origini non riguarda soltanto l'emigrazione proletaria ...

M.L. - Ma certo, conosco raffinati intellettuali italiani che vivono a Parigi da molti anni, sono ambientatissimi però ogni tanto mi dicono: « Voi francesi siete proprio insopportabili! » Hanno nostalgia di certi gesti, di certi percorsi mentali ... Spesso idealizzano l'Italia come una sorta di Paradise Lost.
Una terza riflessione si può ricavare dall' esperienza americana: nella quotidianità, il tema dell'identità nazionale italiana viene declinato in modo molto particolare. Le comunità presenti nelle varie città degli Stati Uniti hanno aspetti comuni: la gerarchizzazione, dunque l'esiistenza di una vera e propria nomenklatura; e anche una forma di esibizione dell'italianità diventata ormai abbastanza folcloristica, caricaturale.

In molti ristoranti, a New York come a San Francisco, non sanno più parlare italiano però dicono qualche parola che fa atmosfera: « Si capisce », « Una pizza al dottore », eccetera. Oltretutto pretendono di proporre specialità gastronomiche del tutto immaginarie, data la ben nota tendenza locale che costringe tutte le cucine del mondo a adattarsi a un certo gusto medio americano.

S.R. - Ancora un'osservazione sul rapporto fra l'emigrazione e l'Unità d'Italia. La nascita dello Stato unitario comporta trasformazioni rivoluzionarie per l'economia del Paese. Crea uno spazio commerciale nazionale e la moneta unica, mettendo sul mercato molti beni ecclesiastici e demaniali degli Stati preunitari, dunque privatizzando e liberalizzando. Tutto questo naturalmente sollecita le aspirazioni, le ambizioni, la capacità d'invenzione dei settori imprenditoriali più dinamici dell'Italia postrisorgimentale. A partire dal 1880, nascono alcune grandi industrie. Ancora una volta: non è l'unificazione politica del Paese a determinare l'intensificazione del fenomeno migratorio. Ma è altrettanto evidente che, nel quadro di una politica economica favorevole allo sviluppo industriaale, e in una fase caratterizzata dal protezionismo dei maggiori Paesi europei, le deboli agricolture del Mezzogiorno e del Veneto sud-orientale risultano fortemente penalizzate. E allora assistiamo alle grandi partenze.
Beninteso, va ricordata anche l'emigrazione italiana che precede l'Unità, benché limitata a dimensioni meno importanti. Penso soprattutto a quella « mediterranea », diretta verso la Tunisia, l'Egitto e altri Paesi del Levante: un' emigrazione abbastanza interessante perché formata da ceti sociali intermedi, da persone che vanno a occupare ruoli di spicco nell' artigianato di qualità o nelle libere professioni, entrando nelle fasce medio-alte della società egiziana o tunisina. Alcuni personaggi che appartengono a pieno titolo alla cultura nazionale italiana, come Filippo Tommaso Marinetti e Giuseppe Ungaretti, nascono negli ultimi decenni dell'Ottocento ad Alessandria d'Egitto. Molti italiani, insieme ad altri europei, abbandonano la loro seconda patria egiziana nel 1956, dopo la guerra di Suez.

Declino demografico

M.C. - Un criterio per valutare la tenuta di una comunità nazionale può essere quello della fecondità dei suoi nuclei familiari. Infatti nella nostra epoca la procreazione può essere facilmente controllata, e quindi la tendenza a riprodursi, rinnovando le generazioni al ritmo di almeno due figli per coppia, costituisce un indice abbastanza interessante per misurare l'ottimismo collettivo (dunque la coesione nazionale) degli abitanti di un certo Paese.
Fra gli strascichi paradossali del Ventennio si potrebbe annoverare anche la gridatissima politica demografica, caratterizzata da slogan come « Il numero è potenza» nonché dalla famigerata « tassa sul celibato ». Sicché ancor oggi, se qualcuno in Italia propone una seria politica di sostegno economico per le famiglie a partire dal secondo figlio, al fine di rianimare un tasso di natalità fra i più bassi del mondo, c'è il rischio che magari balzi in piedi un autorevole sprovveduto per tacciarlo di fascismo, insultarlo o deriderlo. Attualmente gli unici che si riproducono a ritmo sostenuto sono gli stranieri, oppure gli italiani che hanno recentemente acquisito la nazionalità e provengono da altre culture.
In definitiva, vi sembra che abbia un senso associare la fecondità con il livello di ottimismo collettivo?

S.R. - Probabilmente sÌ, anche se non c'è dubbio che la diminuzione del tasso demografico in Italia sia anzitutto legata al positivo fenomeno dell' emancipazione femminile. La minore dipendenza della donna dalla prospettiva del matrimonio come fattore di sicurezza tende a ritardare le unioni stabili. La donna che lavora può decidere più liberamente della propria vita, può decidere se e quando sposarsi. Inoltre la rivoluzione dei costumi modifica profondamente il rapporto della società italiana con la sessualità, ormai svincolata da quella che un tempo era considerata la sua funzione primaria, cioè la riproduzione della specie.


M.C. - Certo, secondo il vecchio adagio: « Non lo fa per piacer mio, ma per dare figli a Dio».

S.R. - Questa mentalità non esiste più. Il sesso è un piacere. In Italia, nella seconda metà del Novecento, la modernizzazione s'impone in modo più brusco rispetto ad altre società dove era arrivata prima, e più gradualmente. Questo inconveniente potrebbe trovare un correttivo in una seria politica della famiglia e della natalità. Se una giovane famiglia italiana avesse la sensazione di poter contare su un aiuto per il primo figlio, poi via via per i seguenti, come accade in Germania e in Francia, il quadro potrebbe cambiare.
Ma in Italia ciò ancora non accade anche perché il fascismo ha fatto una politica natalista, e ogni politica per la natalità ha lungamente evocato il ricordo del regime. Questo meccanismo si verifica anche in altri campi e spiega, ad esempio, perché l'Italia non abbia un ministero della Cultura ma dei Beni culturali: l'impronunciabile espressione « ministero della Cultura» risale appunto al periodo fascista.
Qualcuno ancora considera «fascista» auspicare una nuova legge sulla famiglia e sulla natalità? No, sono profondamente convinto che quella fase sia ormai superata. Il problema è più generale: l'Italia dispone di uno Stato assistenziale strutturato in un modo sbagliato, che protegge i vecchi e dimentica i giovani; e non si sa da che parte cominciare per riformarlo.

M.L. - Forse perché sono francese, trovo che l'argomento demografico è essenziale in ogni dibattito sull' evoluzione dell'idea nazionale. Tutti sappiamo che in Francia fin dall'Ottocento c'è una vera ossessione del declino demografico, considerato come sintomo (e simbolo) di un possibile declino della nazione. Così tutta la politica sociale francese in favore delle famiglie è organizzata come risposta al pericolo di una bassa natalità.
Se oggi la Francia fa molti bambini e ha un tasso di crescita demografica fra i più elevati dell'Occidente, ciò è sicuramente legato a queste politiche pubbliche (oltre che a un certo incoraggiamento selettivo dell' immigrazione). Questo fenomeno è abbastanza strano dato che siamo un Paese piuttosto pessimista, ben lontano dal rappresentare un modello di «ottimismo collettivo », e soprattutto siamo un Paese laico, nel quale l'influenza della Chiesa cattolica è molto più debole che in Italia.
Per la verità, il declino demografico italiano è iniziato proprio sotto il fascismo, malgrado le frasi altisonanti del Duce, e si è intensificato in regime democratico, perché è come abbiamo ricordato - nessuno voleva essere additato come l'erede dell'imbarazzante, maldestra propaganda natalista del periodo fascista.
Sono molto d'accordo con l'idea che la bassa natalità italiana possa derivare, oltre che dall' assenza di politiche pubbliche a favore dello sviluppo demografico, anche dalle modalità forse un po' troppo brusche della giusta e necessaria emancipazione delle donne. Negli anni '60-'70, il femminismo italiano è stato forse più aggressivo di quello di altri Paesi europei perché chiamato a combattere su due fronti, cioè a gestire una durissima rivolta simultanea contro due chiese, quella cattolica e quella comunista, detentrici di un analogo moralismo e di un' analoga concezione subalterna del ruolo della donna.
Certi atteggiamenti esibizionisti del paesaggio femminile italiano di oggi (non legato al femminismo) sembrano a noi francesi, che pure non siamo particolarmente pudichi, come eccessivi e francamente scioccanti. Queste donne super-liftate, che a sessanta o settant'anni si vestono (e si spogliano) come ragazzine di sedici, forse stanno ancora vivendo la loro rivoluzione permanente contro un passato oppressivo che ben ricordano.

M.C. - Parlando di emigrazione, non si può evitare di ricordare le famiglie numerose dell'Italia di un tempo. Sappiamo bene che gli otto-dieci figli erano una ricchezza nell'economia contadina tradizionale, e che proprio il crollo di quell'economia ha costretto i giovani a varcare le frontiere per non crepare di fame.
Nell'immaginario collettivo di molte donne di fresca emancipazione, queste famiglie numerose diventano il simbolo stesso dell'oscurantismo. E varie stimolanti dottrine vengono interpretate come altrettante prove del carattere irrimediabilmente autoritario o addirittura criminale dell'istituzione familiare. Mi riferisco per esempio a una certa lettura estremista della teoria del «familismo amorale », elaborata dall'antropologo americano Edward C. Banfield sulla base dello studio di un paesino dell'Italia meridionale in provincia di Potenza.
Del resto non solo le donne, ma anche molti uomini italiani sembrano attualmente voler smentire l'immagine tradizionale di un Paese bigotto dove non si disobbedisce al parroco. Ecco dunque un motivo supplementare per non avere bambini, o per averne uno per coppia, e non di più. Ed ecco forse il perché di quell'atteggiamento un po' esibizioni{ta di certe donne italiane, che può stupire gli amici francesi. E possibile che nell'Italia di oggi persista il complesso di un vero o presunto oscurantismo passato?

S.R. - Può darsi, ma spesso constato una sorta di reazione di segno opposto e quindi una certa nostalgia per l'immagine rassicurante delle famiglie numerose. Ci si ricorda volentieri di quella del padre, della madre, del nonno. Certo, in tutto questo c'è anche un po' di idealizzazione superficiale del buon tempo antico. Al traguardo della maturità, molte di quelle famiglie non erano più numerose. Molti dei loro membri morivano in giovane età, soprattutto nei settori più poveri della società.

M.L. - Il rifiuto delle donne di avere molti bambini, e il loro desiderio di ritardare la nascita del primo, hanno certamente motivazioni culturali profonde, ma ribadisco che sono anche incoraggiati dalla mancanza di politiche pubbliche adeguate in termini di incentivi fiscali, sostegni economici, asili-nido, nonché dalla difficoltà di ritrovare un lavoro dopo la nascita dei figli
Quando chiedo ai miei amici italiani perché non fanno bambini, spesso mi rispondono che costa troppo. In Francia ci sono forti benefici fin dal primo figlio. Quando si arriva al terzo, le tasse scendono a meno della metà.

M.C. - Come mai non c'è stato finora un vero ed esauriente dibattito pubblico in Italia sul problema demografico?

M.L. - Ciò è particolarmente sorprendente se si tiene conto che la scienza demografica italiana è considerata una delle migliori del mondo! I vostri specialisti sono spesso invitati dalle maggiori università perché hanno una competenza statistica e una capacità di analisi che sono ammirate da tutti. Perché gli insigni studiosi italiani non escono allo scoperto con interventi pubblici, perché non fanno come il grande demografo francese Alfred Sauvy, l'inventore dell' espressione «terzo mondo », che per decenni ripropone questo tema cruciale per la sopravvivenza di una nazione? A mio avviso, l'ampia discussione che presto o tardi si aprirà anche in Italia dovrà coinvolgere l'insieme della sua classe dirigente, anzitutto politici e imprenditori, e sarà centrata proprio sulla natalità come strumento di perpetuazione dell' identità nazionale.
Se in Francia c'è l'ossessione del declino demografico, in Italia si cade nell' eccesso opposto, cioè nella totale indifferenza. L'associazione tra futuro della propria nazione e numero dei suoi abitanti è ben presente nella testa del francese medio. Ma, sorprendentemente, non dell'italiano medio. Forse perché, molto semplicemente, l'idea nazionale è meno radicata.

S.R. - Il confronto tra l'Italia e la Francia sembra a tutta prima abbastanza semplice da fare perché grossomodo i due Paesi hanno la stessa popolazione. Ma non lo stesso territorio, dato che la densità della popolazione è molto più forte in Italia, e ciò contribuisce a spiegare l'importanza che gli italiani attribuiscono alla casa: oltre 1'80% vive in un alloggio di sua proprietà. E questa differenza può anche spiegare perché la crescita demografica dell'Italia sia nettamente inferiore a quella della Francia.
La nostra conversazione conferma che esiste un rapporto profondo fra l'evoluzione demografica e il concetto che un Paese ha di se stesso. Anch'io ritengo che un dibattito su questi problemi stia per decollare in Italia.
Il problema della demografia è che si tratta di una scienza del tutto imprevedibile. Sappiamo che esistono delle tendenze, ma non sappiamo perché quelle api in un certo giorno decidano di fare stormo e di andare tutte nella stessa direzione. Non riusciamo né a capido, né a prevederlo. Continuiamo a cercare di razionalizzare a posteriori dei fenomeni che non eravamo stati capaci di prevedere.

Terra d'immigrazione

M.C. - In Italia già si parla di demografia molto di più che in passato, ma soprattutto in relazione al problema dell'immigrazione, che è percepita al tempo stesso come una salvezza e come una minaccia ...

M.L. - In Francia, lo Stato-nazione è sicuramente più consolidato e più forte che in Italia. Eppure, molti fra i figli dell' immigrazione - anche naturalizzati da parecchi anni - non si riconoscono affatto come francesi, o non si sentono riconosciuti come francesi, e quindi continuano a dire: «Ma io sono algerino! », oppure « lo sono marocchino! » Alcuni di loro, per convinzione o forse per gusto della provocazione, oppure perché si sentono stigmatizzati, fìschiano la Marsigliese allo stadio. Altri, magari con l'aiuto di francesi che non sono di origine straniera, incendiano le macchine nelle banlieues. Resta aperta la sfida sul come fare per integrare queste persone. Vero è che spesso provengono da ex colonie francesi, quindi il loro atteggiamento rivendicativo è più esplicito. Sembrano dire: « Voi siete venuti a casa nostra con la forza delle armi, quindi è normale che adesso noi siamo qui, ma non per questo porrete imporci di rinunciare alla nostra identità d'origine ».
Come farà l'Italia, dove l'unificazione nazionale è più recente, le divisioni regionali restano cosÌ marcate, e lo spirito autodenigratorio è così vivace? Sarà un grande banco di prova: l'integrazione degli immigrati contribuirà a fare o a disfare l'immagine nazionale.
Moltissimi bambini che nascono attualmente nel vostro Paese - già si manifesta una piccola ripresa della natalità - sono figli dell'immigrazione che prefigurano un'Italia decisamente multi etnica, molto più colorata di quella cui siamo abituati. Ci sono e ci saranno sicuramente reazioni di xenofobia, di razzismo, e spetterà all'insieme delle forze politiche italiane, ma soprattutto ai settori più lumgimiranti del centro destra, riuscire a isolade e a renderle inoffensive. Se questi bambini, e uomini di domani, non vengono accolti come veri italiani, il Paese è finito.

M.C. - Probabilmente, i francesi di origine straniera perfettamente integrati sono più numerosi di quel che raccontano certi media alla perpetua ricerca di sensazioni forti.

M.L. - Certo, ed è anche vero che negli ultimi anni il modello repubblicano si è un po' evoluto: pur senza scivolare nel comunitarismo all' americana, appare però caratterizzato da una maggiore flessibilità. Il riconoscimento delle diversità, che nella Francia del passato era impensabile, adesso è diventato una realtà.
Così un' azienda parigina può essere contenta di assumere un francese di origine araba o africana, considerandolo come un punto di forza anziché come un handicap. Ormai molti imprenditori affermano che se vogliono esportare in un Paese arabo, il fatto di essere rappresentati da un francese che ha qualcosa di arabo può essere vantaggioso per gli affari.


S.R. - Anche in Italia si assisterà a un' evoluzione analoga. Resto convinto che l'allergia iniziale e la tendenza a respingere l'immigrato come se fosse un appestato non siano problemi di lunga durata. I giovani lavoratori immigrati sono indispensabili per pagare le pensioni alla nostra popolazione sempre più invecchiata, e la loro fecondità è la condizione necessaria alla sopravvivenza della nazione.
Fra vent'anni, almeno dieci milioni di italiani avranno origini straniere. Sarà fondamentale che non soltanto abbiano la cittadinanza, ma che davvero si sentano italiani. I figli degli immigrati di oggi ci diranno fra vent'anni se questo è un Paese unito o no, se questa è una vera nazione o no. Sono loro che ce lo diranno.

M.L. - Ho un po' studiato questo argomento. C'è una grande differenza tra l'uso propagandistico, da parte di alcune forze politiche, del tema della sicurezza nonché della lotta contro la delinquenza associata all'immigrazione, e la realtà vera di un processo d'integrazione che fondamentalmente avanza. Nel Nord dell'Italia quasi tutti trovano un lavoro, c'è bisogno degli immigrati per far funzionare 1'economia, anche la Confindustria li vuole, e le organizzazioni cattoliche svolgono un ruolo molto importante.
Un altro dato rilevante che va nella stessa direzione è la progressione abbastanza spettacolare - visibile consultando i dati Istat - dei matrimoni «misti» fra un italiano e una straniera o fra un'italiana e uno straniero. Questi dati sono la miglior risposta a chi pensa che l'Italia sia un Paese inguaribilmente razzista, basandosi soltanto su certe dichiarazioni ormai inconcepibili in altre democrazie dell'Occidente, oppure sugli intollerabili fischi e slogan contro i giocatori neri negli stadi. Il problema è che per l'Italia l'immigrazione costituisce un' esperienza recente, della quale ancora non si sono veramente definite e stabilizzate le «regole del gioco».
Si tratta infatti di risolvere il problema della cittadinanza, un nodo politico cruciale. E anche di favorire la formazione culturale e professionale dei figli degli immigrati, affinché non restino eternamente confinati nei piccoli lavori che gli italiani non vogliono più fare. Inoltre, si trattterà di permettere che accanto alle chiese cattoliche ci siano più moschee: cosa difficile da far accettare, ma indispensabile.

S.R. - Temo che queste regole l'Italia non le definirà mai. Il suo pragmatismo elude la definizione chiara dei problemi.

M.L. - Ah, certo, ecco ancora una volta la chiave di lettura di Sergio Romano: né vincitori, né vinti!


S.R. - Non so se questo atteggiamento, come qualcuno sostiene, possa in qualche caso rappresentare un vantaggio, o addirittura costituire un punto di forza. Ma so con certezza che chiedere alla classe politica italiana che cosa vuole davvero per i prossimi vent'anni sarebbe un esercizio inutile. Per di più, il giorno in cui riuscissimo a ottenere una qualche risposta, saremmo sommersi da un diluvio di retorica e ci sentiremmo raccontare bugie prive di qualsiasi rapporto con la realtà. La quale poi ovviamente continuerebbe a camminare per conto suo.

La Chiesa e i cattolici

M.C. - Vi propongo ora un altro tema che mi sembra altrettanto importante di quelli dell'emigrazione e dell'immigrazione, e cioè il peso della Chiesa.
Noi sappiamo che la Chiesa non svolge un ruolo attivo nel Risorgimento, anzi « rema contro », e che proprio l'assenza o l'ostilità delle masse cattoliche rappresenta uno dei principali elementi di debolezza del processo di unificazione nazionale. Il Risorgimento è opera di piccole minoranze laiche di destra e di sinistra, unite da un comune sentimento anticlericale dal quale non è assente la volontà di sfidare il papa. Successivamente i cattolici entrano nella vita nazionale, e nel secondo dopoguerra il partito più gradito al Vaticano domina la politica italiana per oltre quarant'anni. Qual è il rapporto tra la Chiesa cattolica, la fede cristiana come sorgente d'ispirazione di un'azione politica, e il sentimento nazionale?

S.R. - Tendenzialmente la Chiesa cattolica non vuole uno Stato italiano, e se questo Stato c'è lo vuole debole. Può tollerare che esista uno Stato francese, perfino uno Stato spagnolo. Ma l'Italia no, l'Italia è sua.
Quindi la Chiesa è il principale avversario di chiunque voglia consolidare l'esistenza di una nazione italiana. Ma dov'è l'identità italiana senza il cattolicesimo romano? Questo è un nodo praticamente insolubile.

M.L. - Certo, la nazione italiana resta fondamentalmente cattolica, malgrado i molti tentativi di costruire uno Stato laico. Troppo spesso dimentichiamo che nella seconda metà dell'Ottocento ci sono momenti di grandissima tensione fra la Chiesa e lo Stato liberale. Ma, oggi come ieri, non sembra esserci alternativa: il campo della laicità è completamente sulla difensiva, restando incapace di proporre una definizione dell'identità italiana che non sia appunto quella cattolica. In uno dei suoi libri, Sergio Romano ci racconta la sua sorpresa di dover giurare sul Vangelo per inaugurare la sua carriera di diplomatico ...

M.C. - Per la verità, ogni presidente degli Stati Uniti al momento del suo insediamento giura sulla stessa Bibbia su cui il 4 marzo 1861 posò la mano Abraham Lincoln. L'attuale presidente Barack Hussein Obama ha voluto aggiungere alla formula tradizionale del giuramento le parole So help me God. E non dimentichiamo che la regina d'Inghilterra è il capo della Chiesa anglicana.

M.L. - Solo una minoranza degli italiani è praticante in modo regolare, ma nella vita di ogni giorno il firmamento dei valori cattolici resta sempre ben visibile. Per esempio, il forte attaccamento alla famiglia, oppure la cultura del perdono: i terroristi degli anni '70 che hanno subito condanne sono stati trattati con umanità, e presto gratificati con la semilibertà. Ci si può perfino chiedere se talora non si sia caduti nel lassismo.

M.L. - Il ruolo storico della Dc mi pare incontestabile. Grazie all' azione combinata dei suoi vari « cavalli di razza », la Democrazia cristiana riesce nella difficile impresa di reinserire l'Italia nel concerto delle nazioni dopo la seconda guerra mondiale, giocando benissimo le carte della guerra fredda, della paura del comunismo, dell' atlantismo e dell' europeismo.
Inoltre la Democrazia cristiana - malgrado le polemiche roventi e continue fra le sue correnti, che coprono tutto 1'arco ideologico dalla destra alla sinistra, e i vizi ben noti, come clientelismo e corruzione - fornisce un contributo decisivo alla costruzione della repubblica dopo ottantacinque anni di monarchia. Forse questo nuovo assetto istituzionale non è accolto con lo stesso entusiasmo riscosso in Francia dalla Terza repubblica che fa seguito al periodo di Napoleone II!. Però viene accettato, e a partire dagli anni '70 la difesa della repubblica coinvolge anche tutto il gruppo dirigente del Partito comunista italiano.

M.C. - Secondo voi, la classe politica cattolica che ha governato l'Italia per oltre quattro decenni ha contribuito al sentimento nazionale, oppure lo ha mortificato?

S.R. - Direi che tutto sommato lo ha - se non irrobustiito - allargato, facendo confluire nel melting pot italiano ingredienti che non erano presenti nella creazione dello Stato risorgimentale.
Giulio Andreotti è un cittadino della Roma « papalina ». Tutti conosciamo questi personaggi (ne esistono ancora molti) che non hanno vissuto il Risorgimento se non come un sopruso, e che nel 1945 per un bizzarro gioco del destino si sono ritrovati a governare un Paese sconfitto. La Democrazia cristiana non ha remato contro l'Italia, anzi ha cercato a modo suo di conservare e arricchire un legato che non apparteneva alla sua storia. Qualche volta, si è spinta addirittura fino a litigare, prudentemente beninteso, con le gerarchie ecclesiastiche. Alcide De Gasperi ebbe un forte dissenso con il Vaticano quando Pio XII cercò di imporre una coalizione fra Dc e neofascisti per le elezioni del comune di Roma. Più recentemente, Romano Prodi ha dichiarato che si sarebbe comportato come un cattolico « adulto »: una parola in cui vi era un'implicita critica verso coloro che nella Chiesa preferirebbero continuare a trattare i cattolici come fanciulli. Non ho mai votato per la Democrazia cristiana, ma debbo riconoscere la maturità politica di cui la Dc ha dato prova nell' affrontare problemi spinosi come il divorzio e 1'aborto. Si oppongono, rivendicano i loro valori, ma sanno capire che la volontà della società italiana è diversa, e 1'accettano.

M.C. - Quali sono le prospettive di risuscitare una sorta di centro democristiano, come rUdc di Casini tenta di fare? Come valutare questo tentativo dal punto di vista nazionale, cioè della costruzione di un'Italia istituzionale più forte?  

S.R. - Non è impossibile che 1'operazione riesca. Tutto dipende dalla coesione del centrodestra e dalla eventuale modifica della legge elettorale. Ma il nuovo centro non sarebbe più democristiano. Sarebbe una nebulosa in cui arriverebbero correndo, alla minima prospettiva di successo, molti degli attuali esponenti politici, di destra e di sinistra.
Questo sbocco sarebbe una vera iattura. Continuo a pensare che il bipolarismo abbia il merito di avere restituito agli italiani il diritto di scegliere il loro governo. Che poi questo governo faccia davvero quello che gli elettori vogliono, è un altro discorso. Tanto più che molto spesso neppure loro sanno che cosa veramente vogliono. Il centrismo invece è un sistema in cui i cittadini non vengono chiamati a fare una scelta precisa, bensì a conferire una procura in bianco, sulla base della quale il partito che è perno del sistema farà le alleanze che vorrà e la politica che vorrà. Questo sistema non mi piaceva all' epoca della Dc, e non mi piacerebbe adesso.

Comunisti e postcomunisti

M.C. - Nell'immediato dopoguerra, il Partito comunista italiano ha forse il progetto di prendere il controllo totale del Paese, insomma di fare la rivoluzione. Però nel tempo il suo gruppo dirigente, a guida intellettuale e borghese, non operaista come quella del partito francese, si sposta progressivamente su posizioni riformiste e rivendica una crescente autonomia dall'Unione Sovietica.

M.L. - Mi pare indiscutibile che anche il Pci -la cui storia è estranea, ma non così antitetica come quella della Dc, rispetto allo Stato risorgimentale - contribuisca al consolidamento della nazione. Don Camillo e Peppone litigano però sono complementari, in nome di quello spirito di « mediazione» che è tanto italiano!

M. C. - Vorrei chiedere a Sergio Romano se condivide la tesi, sostenuta da vari studiosi e in particolare da Marc Lazar in un libro di qualche anno fa, secondo cui il Partito comunista avrebbe certamente incarnato una sensibilità «bolscevica », ma anche - soprattutto in alcune regioni - una sorta di respiro laico-borghese, un anelito di modernizzazione dello Stato. Sempre secondo questa tesi, in una certa fase storica è soltanto un grande partito di opposizione come il Pci che fra gli anni '70 e gli anni '80 arriva fino a un terzo delll'elettorato - a poter interpretare esigenze che gli alleati tradizionali della Democrazia cristiana esprimono un po' troppo sottovoce.

S.R. - Per alcuni decenni, il Partito comunista italiano ha svolto il ruolo dell' opposizione nel quadro del cosiddetto « bipartitismo imperfetto». Tutti sapevamo che i due partiti veramente importanti del sistema politico italiano erano la Dc e il Pci. Ma sapevamo al tempo stesso che i democristiani avrebbero governato e che i comunisti non avrebbero avuto dirette responsabilità di governo. Di fronte alla persistente minaccia sovietica, non lo avrebbero permesso né gli italiani, né gli americani, né gli alleati europei.

È fisiologico, anche in queste particolari circostanze, che in un sistema democratico una parte degli elettori voti contro l'esecutivo. Molti italiani quindi votavano per il Pci semplicemente perché rappresentava l'opposizione. E all'interno dell'elettorato comunista andò crescendo una componente non comunista, difficilmente quantificabile ma forse addirittura maggioritaria, nel momento della sua espansione maggiore. N elle elezioni europee del 1984, sull'onda emotiva della morte di Berlinguer, il Pci raggiunse - fu l'unica volta -la maggioranza relativa dei suffragi ...
Se qualcuno si prendesse la pena di consultare i verbali delle riunioni del Comitato centrale del Pci, sicuramente non troverebbe traccia di una discussione sul tema: « Ma lo sapete che la maggioranza dei nostri elettori non sono comunisti? Quindi, se vogliamo tenerceli, dobbiamo cambiare tutto ». No, una tale discussione non ebbe mai luogo. Ma una parte dei dirigenti, detti «miglioristi », colse l'occasione per assumere un profilo nazionale ed europeo più consono alla realtà elettorale, accentuando le distanze da un modello sovietico sempre più impresentabile.

M.L. - Vedo due aspetti. Il primo è che fin dal 1944 il Pci afferma di difendere una marcata specificità nazionale italiana all'interno del movimento comunista mondiale: «Noi del Pci siamo diversi perché italiani ». Questa dottrina all'inizio è puramente e chiaramente propagandistica, cioè falsa, come è dimostrato dal semplice fatto che nel dopoguerra anche altri partiti comunisti occidentali, fra cui quello francese, dicono la stessa cosa. Infatti, se già sembra sorprendente che Stalin possa rispettare l'anomalia italiana, appare del tutto inverosimile che il dittatore georgiano si metta ad accogliere col sorriso sulle labbra molte specificità differenti.
Le cose cominciano a cambiare nel 1956, benché Togliatti non solo approvi ma anzi chieda l'intervento sovietico in Ungheria, come ormai dimostrato dagli archivi. Però il pugno fermo di Stalin non c'è più, e le defezioni dei numerosi intellettuali che abbandonano il Pci inducoono il partito a rivendicare un' effettiva maggiore autonomia dall'Urss (senza purtroppo rompere completamente). Si apre il periodo nel quale i comunisti francesi criticano i compagni italiani in quanto non abbastanza internazionalisti, cioè non abbastanza legati all'Unione Sovietica, paatria del socialismo.
Il secondo aspetto riguarda la politica interna, e si può riassumere nella formula: «Siamo italiani prima che comunisti ». Nel 1948 il Fronte popolare (dove i comunisti sono alleati con i socialisti) fa campagna elettorale esibendo il ritratto di Giuseppe Garibaldi, uomo del Nord che ha italianizzato il Sud e quindi simbolo dell'unità nazionale, leader storico del Risorgimento a tendenza democraatica e rivoluzionaria. Ma il risultato in termini di voti è una cocente sconfitta.
Resta il fatto che il Pci non si stanca di voler incarnare l'internazionalismo comunista di un movimento totalitario, ma anche una forte identità italiana, legata al Risorgimento e alla Costituzione approvata in collaborazione con altri partiti che sono espressione di altrettanti filoni ideali della storia d'Italia. Non dimentichiamo che l'inclusione dei Patti Lateranensi firmati da Mussolini nel 1929 nel corpo stesso della carta costituzionale avviene con il voto favorevole del Pci, che in tal modo ottiene almeno due obiettivi in un colpo solo: lanciare un messaggio di pace al Vaticano e ai cattolici, differenziandosi nettamente dall'anticlericalismo risorgimentale; tendere la mano anche ai nostalgici del fascismo, nella speranza di raccogliere i voti dei più confusi fra loro. Non a caso, il simbolo elettorale del Pci presto affiancherà la bandiera italiana tricolore alla bandiera rossa con falce e martello, al fine di sottolineare la vocazione «nazionale» del partito.

M.C. - Il simbolo del Partito democratico, che almeno parzialmente possiamo considerare come l'erede dell'area politica e del patrimonio ideale occupati un tempo dal Partito comunista italiano, sopprime la falce e martello ma presenta in modo ben visibile i tre colori nazionali ...

M.L. - ... anche se non è molto chiara la sua proposta in termini di definizione dell'identità nazionale italiana. Il Pd si sforza di ripensare la nazione italiana nel quadro della costruzione europea e di un mondo globalizzato, ma senza riuscire a elaborare una narrativa mobilizzatrice. La collaborazione fra postcomunisti e postdemocristiani, accompagnata da presenze radicali e socialiste, propone un modello culturale interessante, ma la cui decifrazione non è immediata.

M.C. - Ultimamente la crisi della sinistra tradizionale apre uno spazio importante agli ecologisti, in Germania e soprattutto in Francia, dove i Verdi di Daniel Cohn-Bendit ottenngono una clamorosa affermazione nelle elezioni europee del 2009. Invece in Italia le difficoltà del Partito democratico favoriscono l'espansione elettorale di un partito che raccoglie i suffiagi di quanti considerano il Pd come troppo prudente nell'opposizione a Berlusconi. Questo partito è attualmente l'unico nel cui nome compaia la parola Italia: è l'Italia dei Valori.

S.R. - L'Italia è un marchio per il quale sono scaduti i diritti, ormai lo possono usare tutti.

M.L. - I successi dell'Italia dei Valori vanno certamente collegati alle difficoltà del Pd, ma anche e forse soprattutto all'eclisse dell' estrema sinistra, di cui ha preso atto un Nichi Vendola che cerca di definire un'altra offerta politica. Ormai autodefinirsi «comunisti» equivale a far fuggire gli elettori, ma questo non significa che sia scomparsa dalla scena politica italiana una sensibilità fortemente antima (e anti-Berlusconi).
Il paradosso è che a incarnarla sia un ex magistrato: Antonio Di Pietro, fondatore e leader dell'Italia dei Valori, protagonista a suo tempo della stagione «Mani pulite» che una parte dell' opinione pubblica - quella che oggi vota per lui - ricorda e rimpiange come il periodo del trionfo della giustizia sull' arroganza dei potenti, e che altri invece condannano come il periodo del terrore giustizialista e dello strapotere dei giudici.
È difficile prevedere quale sarà il futuro di una forza politica che non ha affini in nessun altro Paese del mondo. Certo è che in Italia il filone protestatario non sembra proprio destinato a estinguersi: perfino un comico come Beppe Grillo, che inizia i suoi interventi con stentorea voce mussoliniana (<< Italiani! »), riesce a suscitare un certo interesse.

La Lega Nord

M.C. - Proseguendo il nostro percorso nel paesaggio storicopolitico italiano, al fine di tentare la definizione di ciascuna componente rispetto all'identità nazionale del Paese, arriviamo a quella che sotto questo particolare punto di vista presenta il profilo più controverso: la Lega Nord.

M.L. - Credo che vadano distinte varie fasi. Tra gli anni '80 e gli anni '90, prima ma soprattutto dopo « Mani pulite », la Lega Lombarda e la Lega Veneta sono movimenti regionali che conoscono un grosso successo con due filoni rivendicativi principali.
Anzitutto, si battono per gli interessi specifici delle rispettive regioni - con la differenza che quasi tutta la Lombardia è da sempre un' area di avanguardia produttiva e finanziaria, mentre il Veneto è di nuovo una terra di vivacissimo dinamismo economico dopo un lungo periodo di gravi difficoltà - contro il parassitismo di «Roma ladrona» e del Sud, e chiedono un sistema-Paese più efficiente.
Inoltre, c'è l'ideologia antinazionale che propone una rilettura polemica di tutta la storia d'Italia e in particolare del Risorgimento, inventando di sana pianta un nuovo soggetto geo-culturale candidato a federare tradizioni disparatissime, a conquistare la sua indipendenza politica, a diventare un nuovo Stato: la Padania.
Gli elettori lombardo-veneti, poi «nordisti », sono soprattutto attratti dal primo aspetto, e considerano il secondo come una semplice arma di pressione: votando per Bossi vogliono più spinta modernizzatrice, meno burocrazia, meno tasse. Invece una buona parte dei militanti leghisti, come risulta da varie indagini condotte dall' amico Ilvo Diamanti, vuole davvero la secessione della Padania. Ma in tal modo ottiene il risultato paradossale di rilanciare il dibattito sulla nazione italiana, un concetto che stava precipitando nel disinteresse generale. Bossi va da Torino a Venezia brandendo un' ampolla contenente la sacra acqua del Po, però intanto c'è quella signora che a ogni manifestazione leghista organizzata sotto casa sua espone alla finestra un' enorme bandiera tricolore, per provocazione e dispetto. Fioriscono i convegni sull'identità nazionale, i giornali le dedicano pagine e pagine.
Come sappiamo, la prima elaborazione teorica delle dottrine leghiste si deve in larga misura al noto costituzionalista e politologo Gianfranco Miglio, preside per trent'anni della Facoltà di Scienze Politiche dell'Università Cattolica di Milano, che diventerà anche senatore della Lega Nord prima di rompere con Umberto Bossi e dar vita alla breve stagione del Partito federalista. Miglio elabora un progetto di riforma costituzionale fondato sulla creazione di tre macroregioni (del Nord o Padania, del Centro o Etruria, del Sud o Mediterranea), da affiancare alle cinque regioni a statuto speciale già esistenti. Ma successivamente sostiene a più riprese la piena legittimità del diritto di secessione della Padania dall'Italia, come sottospecie del più antico diritto di resistenza medioevale.

M.C. - Nel primo decennio del nuovo secolo assistiamo a una trasformazione molto netta.

M.L. - Malgrado qualche raro richiamo ormai da tutti considerato come essenzialmente folcloristico, la posizione secessionista viene lasciata da parte. Invece la Lega Nord ottiene risultati significativi in materia di federalismo fiscale, e diventa un partito fortissimo nelle amministrazioni locali dell'Italia settentrionale, dando prova di una capacità di ascoltare e tradurre in misure concrete quelle esigenze quotidiane della gente comune che altre forze politiche si ostinano a trascurare. I suoi metodi di gestione fanno scuola anche al Sud, dove per esempio Raffaele Lombardo, presidente della regione siciliana dal 2008, fondatore e leader del Movimento per le autonomie, si ispira esplicitamente alle modalità operative leghiste.

S.R. - La Lega punta sul federalismo, e sostiene Berlusconi perché le ha promesso di realizzarlo. Ha un programma concreto, specifico: federalismo politico-amministrativo, con il suo complemento di federalismo fiscale. Poi c'è anche un altro volto della Lega, quello che continua a rappresentare gli umori popolari, rozzi e un po' plebei del Nord, le paure e le insicurezze, la percezione dell'immigrazione come minaccia, il razzismo contro gli stranieri e perfino contro gli italiani del Sud. Purtroppo, la Lega è anche lo specchio doloroso della mancata soluzione della questione meridionale, che ha finito per creare una questione settentrionale. In altre parole, è il fedele riflesso del principale punto debole dell'Italia unita.
Che senso ha prendere di petto l'immigrazione, presentandola come una minaccia per regioni che invece ne hanno bisogno per far funzionare le loro economie? Su questo tema, negli ultimi anni la Lega è stata più volte in contraddizione con se stessa. Quando venne promulgata la legge Bossi-Fini, più severa della legge precedentemente varata da un governo di centrosinistra, i due firmatari appartenevano a uno stesso governo Berlusconi che dovette poi legalizzare di colpo, per non scontrarsi con le esigenze economiche del Nord, settecentomila immigrati clandestini.

M.L. - Aggiungerei qualche parola sul rapporto della Lega con l'Europa. In una prima fase, è entusiasticamente europeista, anzi tratta il Sud come una sorta di zavorra che impedisce al Nord di librarsi nell'azzurro infinito di Bruxelles. In sostanza dice: « Noi siamo moderni e facciamo parte integrante dell'Europa, mentre voi terroni siete arretrati e l'Europa non vuol saperne di voi ». La fiducia cieca e indiscriminata verso tutto quanto proviene da Bruxelles, sapientemente alimentata dalla Lega, costituisce per anni il tipico argomento da bar di chi descrive l'Europa come una sorta di bacchetta magica capace di risolvere all'istante tutti i problemi storici del Paese.

S.R. - Non dimentichiamo però che a un certo momento la Lega puntò sul mancato ingresso dell'Italia nell' euro, e che per quell' eventualità mise in campo una strategia pronta e teoricamente redditizia: la secessione.

M.L. - Esatto, ma quando invece l'Italia riesce a entrare nell' euro, e ci sono reazioni negative nell' opinione pubblica a causa di un aumento del costo della vita più significativo che in altri Paesi, subito la Lega diventa molto critica contro un' organizzazione burocratica elefantiaca pilotata dal tandem franco-tedesco, la quale godrebbe di privilegi inauditi, nuocerebbe agli interessi nazionali e prepaarerebbe una sorta di sovietizzazione dell'Europa.
Ecco dunque un' altra contraddizione: la Lega sa benissimo che una parte importante dei suoi elettori sono piccoli imprenditori che vivono proprio grazie all'Europa, però al tempo stesso non vuol perdere la fiducia di un' altra quota importante del suo elettorato, quella più grossolana che spesso obbedisce a impulsi primari e non è consapevole dei propri veri interessi.
E impressionante constatare come anche in questo 20 Il dedicato al 1500 anniversario dell'Unità d'Italia la Lega critichi il Risorgimento, rifiutando di associarsi alle commemorazioni, e riprenda i suoi attacchi contro il Sud. Lo fa per evidenti ragioni politiche, anzi elettorali, ma ciò non mancherà di lasciare tracce nell'immaginario nazionale.

S.R. - La schizofrenia della Lega è evidente. Tende ad assecondare le sensibilità più volgari, eppure sa esprimere una classe dirigente locale tutt' altro che manichea, con buone qualità amministrative e grande buon senso.
A questo punto, il futuro della Lega dipende dal successo del federalismo fiscale, il cui funzionamento concreto rappresenta un passaggio molto complicato. Tutti sappiamo che questo nuovo sistema ha un senso soltanto se consente alle regioni di conservare sul loro territorio una percentuale importante del reddito prodotto localmente. Se questa regola viene applicata con coerenza, l'Italia del Nord diventa più ricca e l'Italia del Sud più povera;e il divario si aggrava sino a diventare, con ogni probabilità, inaccettabile. Occorre quindi creare compensazioni che siano generose ma non eccessive, dato che lo scopo della manovra non è soltanto quello di introdurre una maggiore equità a favore del Nord, ma anche di stimolare il Sud a rimboccarsi le maniche per avviare un processo di sviluppo economico autonomo. Insomma, un dosaggio difficilissimo.
I tribunali amministrativi e la Corte costituzionale diventeranno i veri arbitri di questo Paese, e non chiedetemi di guardare a questa prospettiva con piacere. Il potere dei giudici mi ha sempre preoccupato.

Berlusconi e il suo popolo

M.C. - Quindi Sergio Romano condivide la dottrina berlusconiana secondo cui la magistratura può facilmente diventare eversiva rispetto al governo eletto dalla maggioranza dei cittadini: una dottrina difficilmente difindibile in uno Stato di diritto ...

M.C. - Qual è la visione nazionale espressa dalla più recente creatura politica di Silvio Berlusconi, il Popolo della Libertà?

M.L. - Facciamo una piccola marcia indietro per ricordare che la sua creatura precedente si chiama Forza Italia, e che questa denominazione - con la quale Berlusconi si lancia in politica e ottiene un immediato successo - suscita subito molte discussioni anche all' estero. Per esempio, in Francia non esiste un partito che si chiama Allez la France. Forse Philippe de Villiers, presidente e fondatore del Mouvement pour la France, voleva scegliere questo nome, ma alla fine non l'ha fatto.
Francamente non so se Berlusconi abbia sviluppato una riflessione approfondita sulla nazione italiana, ma credo che abbia cercato di inventare una nuova forma di fierezza italiana basata anche sul modello del suo personale successo economico: « Sono riuscito a diventare uno degli uomini più ricchi del mondo, noi italiani siamo gente dinamica nata per il successo ». Quindi un messaggio di ottimismo.

S.R. - Formulata in questi termini la tesi è difficilmente difendibile, soprattutto quando il suo autore è Berlusconi. Ma se a sostenerla fosse un altro leader politico, argomentandola con qualche necessario distinguo, sarebbe una verità sacrosanta. È certamente vero che i procuratori hanno spesso « esondato ».
Il problema esiste, ma non è Berlusconi la persona che possa risolverlo, perché nel momento in cui lo solleva è in palese conflitto di interessi. Non è possibile accettare un modello istituzionale in cui spetta all'imputato modificare le leggi che regolano le funzioni dei suoi giudici.

S.R. - È un po' buffo che questo nuovo nazionalismo italiano nasca con una terminologia calcistica.

M.L. - Attenzione. Le partite della Nazionale rapresentano uno dei momenti di maggior coesione del Paese. Questo tutti lo sanno da sempre, ma Berlusconi ha il talento e anche la sfacciataggine di fare un uso politico dello sport più popolare.
Il simbolo di Forza Italia contenente il tricolore è forse un po' folcloristico, ma non privo di una sua forza. Berlusconi capisce che nell' opinione pubblica c'è 1'attesa di qualcosa di nuovo, e riesce a dare una risposta comprensibile ai più.

S.R. - Tra l'altro ha avuto il merito di inventare questa formula in un momento di forte depressione nazionale, quando tutti o quasi avvertivano un senso di smarrimento di fronte alle immagini ossessivamente riproposte di politici corrotti, imprenditori corruttori e giudici al potere. Quella sera del '94 in cui le televisioni di Berlusconi diffusero un suo messaggio, il volto addolcito da una calza di seta avvolta sull' obiettivo, molti mi telefonarono per chiedermi che cosa ne pensassi. Si aspettavano che io dicessi: «Che pagliacciata!» Risposi che questo nuovo stile avrebbe potuto funzionare.
E in effetti ha funzionato. Perché? Fu subito chiaro che quell' appello al Paese utilizzava una lingua diversa da quella dei politici italiani abituati a parlare fra di loro. Berlusconi ha rinnovato il linguaggio della comunicazione, e per la prima volta gli italiani hanno avuto l'impressione che qualcuno si stesse rivolgendo direttamente a loro.

M.L. - Inizialmente, tutto questo suscita sorrisi e sarcasmi a sinistra. La vecchia classe politica non si rende conto che un messaggio di orgoglio nazionale formulato in un linguaggio semplice come quello della pubblicità commerciale è proprio ciò che la maggioranza degli italiani desidera. Beninteso, c'è un'altra parte del Paese che continua a detestare quel linguaggio, che lo trova furbesco e volgare ...

M.C. - ... e che considera Berlusconi come una catastrofe per l'immagine dell'Italia nel mondo.

S.R. - Resta il fatto che Forza Italia offrì un punto di convergenza non ideologico ma concreto a tutte le membra sparse della galassia centrista (democristiani, liberali, repubblicani, socialisti, socialdemocratici), destinate a patire un grave danno dall' approvazione di una legge elettorale che prevedeva l'elezione diretta, in collegi uni nominali, del 75% delle due Camere. In quelle circostanze, se Berlusconi non avesse fondato Forza Italia, le sinistre avrebbero conquistato i due terzi del Parlamento: una percentuale che non corrispondeva alla loro reale forza nel Paese.
Non basta. Berlusconi ebbe l'accortezza di reinserire nel gioco politico quelle forze di destra che ne erano rimaste pressoché escluse. Mi riferisco naturalmente alla sua collaborazione di governo con la Lega e con Alleanza nazionale. La Lega è un movimento separatista, estraneo alla filosofia unitaria delle maggiori forze politiche, e non troppo diverso da altri movimenti analoghi, populisti e xenofobi sorti in Europa negli ultimi trent'anni. Ma Berlusconi l'ha costretta a perseguire i suoi obiettivi nell' ambito delle istituzioni nazionali. Alleanza nazionale è l'erede della tradizione nazionalista e di un partito, il Movimento sociale italiano, che è stato ed è definito, a seconda delle circostanze, neo fascista o postfascista. Ma Berlusconi le ha aperto prospettive che il suo leader, Gianfranco Fini, ha saputo cogliere e sfruttare.
Sappiamo che le ambizioni di Fini e i guai giudiziari di Berlusconi hanno incrinato i loro rapporti e messo in discussione la coesione del Popolo della Libertà. Sappiamo che la Lega è periodicamente tentata dal desiderio di «tornare al Nord », per fare la sua vecchia battaglia contro Roma e il sistema politico nazionale. Ma l'area della democrazia italiana, dopo l'arrivo di Berlusconi, è più larga ed è probabilmente destinata a restare tale.

M.L. - Se con quest'ultima affermazione Sergio Romano intende dire che Berlusconi ha contribuito alla « destizzazione» degli ex missini e alla trasformazione di un partito di protesta come la Lega Nord in una forza politica capace di associare - per il proprio vantaggio, naturallmente -la vocazione protestataria con la partecipazione al governo, allora lo seguo ben volentieri. Ma non potrei mai condividere un ragionamento secondo cui grazie a Berlusconi l'area globale della democrazia italiana, in senso teorico e anche pratico, si sarebbe allargata.
Silvio Berlusconi incarna una metamorfosi della democrazia che si ritrova anche in altri Paesi, e che io chiamo, con altri, democrazia dell’opinione pubblica, oppure democrazia del leader. Si tratta di un' evoluzione preoccupante, soprattutto in Italia dove è accompagnata dal conflitto d'interessi in cui lo stesso Berlusconi vive e governa, dalle sue leggi ad personam, dallo stile del suo personaggio, dai suoi attacchi reiterati contro coloro che designa come propri nemici (magistrati, giornalisti, intellettuali, « comunisti»), dal suo controllo sui media e inoltre - qui la lista sarebbe così lunga da riempire intere pagine - dalla restrizione della libertà d'informazione, soprattutto televisiva.
Nel centrodestra emergono ormai due ben diverse rappresentazioni della nazione: da una parte, quella di Berlusconi e dei suoi amici, che unisce alcuni elementi un po' folcloristici dell'immagine italiana (la gastronomia, il patrimonio turistico, la bellezza delle donne, la gioia di vivere ... ) all'elogio delle prodezze economiche del Paese, nonché alle attenzioni costanti verso la Chiesa e la religione cattolica; dall' altra, quella più politica di Fini che, seppellendo il suo passato, fa riferimento alla Costituzione, ai valori democratici, all' antifascismo, alla laicità, e che, pur mantenendo una posizione molto ferma in materia di sicurezza, propone una concezione più aperta della patria italiana, anche nei riguardi degli immigrati.


M.C. - A immagine e somiglianza di un'Italia per tanti versi disunita, anche la coalizione uscita vincitrice dalle elezioni del 2008 appare scossa da spinte centrifughe. Il Popolo della Libertà di Silvio Berlusconi rischia di ritrovarsi compresso fra due sensibilità opposte e difficilmente conciliabili, fta la concorrenza populista della Lega di Umberto Bossi e quella laico-garantista della nuova formazione Futuro e Libertà di Gianftanco Fini, il cui posizionamento di « destra costituzionale» un po' mi ricorda quello del quotidiano La Voce, fondato da Indro Montanelli nel '94 quando lascia la direzione del Giornale accusando Berlusconi - appena entrato in politica - di pesanti ingerenze. L'avventura ha vita breve, appena un anno. Ma Montanelli era un giornalista, non un politico come Fini, il quale - accentuando certi ingredienti sociali non estranei alla sua ideologia d'origine - potrebbe pescare voti nel disorientatissimo elettorato della sinistra italiana, alla ricerca di un antagonista credibile per Berlusconi ...

3. LA PERCEZIONE QUOTIDIANA

Istituzioni politiche

M.C. - Lasciamo da parte la storia e dedichiamoci agli elementi della vita quotidiana che attualmente in Italia rendono più o meno gradevole l'uso di quella casa comune che è un Paese. Infatti uno Stato-nazione non è soltanto un'idea, ma anche una sorta di centro di servizi. Il loro livello di efficienza contribuisce a determinare il grado di intensità dell'affezione dei cittadini alla propria nazione. Naturalmente, oltre ai servizi ci sono anche altri elementi che hanno un peso sul sentimento patriottico. Per esempio, le attività economiche: si può essere fieri di far parte di un Paese dove esistono settori produttivi di eccellenza, che hanno un'immagine positiva nel mondo. Come peraltro si può essere orgogliosi della propria patria a causa delle sue vittorie sportive ...
Allora vi propongo di passare in rassegna una serie di temi la cui percezione quotidiana influenza il rapporto degli italiani con la loro identità nazionale. Cominciamo dalle istituzioni politiche.

S.R. - Credo che sia abbastanza diffusa in tutto il Paese una forte sfiducia verso la classe politica, una sfiducia che in parte è motivata da comportamenti specifici, ma in parte deriva da un cambiamento di psicologia collettiva dovuto all'instaurazione, relativamente recente, del bipolarismo. Da quando possono scegliere il loro governo, anziché conferire una generica procura a un partito centrista come accadeva all' epoca della Democrazia cristiana, gli elettori italiani sono diventati molto più esigenti. Ormai abbiamo una campagna elettorale nella quale i due candidati premier assumono personalmente degli impegni: se l'eletto non li mantiene o li mantiene solo in parte, com' è quasi inevitabile, allora cresce il sentimento di sfiducia verso la classe politica.
Si tratta di un sistema nettamente migliore del precedente, ma non privo di rischi. Invece di consolidare la fiducia nello Stato, come sarebbe lecito supporre e sperare, il nuovo sistema può inasprire la delusione del cittadino verso un governo che non fa quello che i suoi elettori, nei loro mutevoli umori, vorrebbero.
C'è poi un fenomeno interessante, che si verifica anche in altri Paesi. Le nuove tecnologie creano una forma, imperfetta, embrionale, di partecipazione diretta alle decisioni politico-amministrative. I cittadini possono lanciare quotidianamente, grazie a internet, messaggi di malumore, di critica, di sfiducia per questo o quel provvedimento. Non dimentichiamo che queste espressioni di partecipazione diretta si fondano su notizie fornite più o meno tendenziosamente dalle varie fonti di informazione, e interpretate più o meno correttamente dagli utenti, per cui la probabilità di malintesi nella valutazione di un provvedimento è molto alta.

M.C. - In Italia, come altrove, stiamo assistendo in effetti a una modifica del rapporto cittadino-Stato, che in gran parte è il risultato delle innovazioni tecnologiche ...

S.R. - È la tecnologia che cambia il mondo creando nuovi diritti, nuove aspettative, nuove potenzialità. Ne ho un'esperienza diretta grazie alla mia rubrica di risposte ai lettori del Corriere della Sera. Voglio raccontare una storia curiosa. Ricorderete probabilmente il verdetto negativo della Corte costituzionale sul cosiddetto Lodo Alfano, la legge che attribuiva al presidente del Consiglio e alle altre maggiori cariche dello Stato una sorta di immunità da azioni penali per tutto il periodo del loro mandato. Qualche mese prima del verdetto, uno dei giudici costituzionali invitò a pranzo Silvio Berlusconi e Gianni Letta, sottosegretario di Stato alla presidenza del Consiglio e suo braccio destro. La storia finì sui giornali e ne nacque uno scandalo motivato dal fatto che Berlusconi era la persona più direttamente interessata all' esito di quel verdetto. Ebbene, per quattro o cinque giorni noi ricevemmo al Corriere una media di seicento/settecento e-mail al giorno, tutte redatte esattamente con lo stesso testo. In questo caso non era possibile parlare di spontaneità. Ma su altri temi riceviamo invece messaggi verosimilmente spontanei di persone che magari la pensano allo stesso modo, però espongono la loro idea con argomenti molto vari e del tutto personali.
Tramite le nuove tecnologie viene data voce a stati d'animo di collera diffusa, che concernono l'intera classe politica e che potrebbero divenire un giorno la materia prima per l'uso strumentale di demagoghi e avventurieri ... Perfino un fenomeno come quello del comico Beppe Grillo è per molti aspetti il risultato di questo nuovo rapporto del cittadino con lo Stato.



M.C. - Il caso citato da Sergio Romano fa pensare che la rivoluzione tecnologica possa favorire la nascita di nuove forme di pressione politica, consistenti per esempio nel redigere un messaggio che viene trasmesso via mail senza alcun costo a persone che lo fanno proprio e lo ritrasmettono ad altri, moltiplicandone l'impatto all'infinito. Una nuova versione di ciò che un tempo si chiamava la catena di Sant'Antonio!
La sfiducia degli italiani verso le loro istituzioni politiche è confermata dal successo strepitoso di un libro come La casta, che è opera di due bravi giornalisti, ma deve gran parte della sua fortuna alla convinzione autolesionistica, molto diffusa in Italia, secondo la quale certi privilegi della nostra classe politica rappresenterebbero un'eccezione assoluta su scala mondiale. Tutte le persone bene informate sanno che molte delle situazioni descritte nel libro esistono anche in altri Paesi, in misura perfino superiore. Per non parlare del funzionamento quotidiano dell'Unione europea ...

M.L. - Condivido la riflessione secondo la quale il bipolarismo e il ruolo accresciuto del leader svolgono una funzione fondamentalmente positiva, ma possono deludere la gente con la stessa facilità con cui la mobilitano.
È interessante constatare che i due grandi partiti di massa del passato, Democrazia cristiana e Partito comunista, avevano la capacità di coinvolgere in permanenza non solo gli iscritti, ma anche i simpatizzanti, perché disponevano di un'identità collettiva, ideologica e per così dire antropologica, molto forte. Il declino dei partiti crea un elemento di volatilità dell' elettorato, che può votare ma anche astenersi, andando a ingrossare quel «popolo dell'antipolitica» di cui spesso si sente parlare. Però nel frattempo si sviluppano molto le associazioni, politicizzate e non, come a testimoniare che gli italiani continuano a cercare forme di coesione fra cittadini.

M.C. - Qual è il ruolo della televisione?

M.C. - In definitiva, non sarebbe giusto dare per scontata un'ormai totale sfiducia verso le istituzioni

M.L. - Secondo me, bisogna essere prudenti. Non soltannto perché la partecipazione elettorale rimane malgrado tutto abbastanza alta, anzi alta in confronto a molti altri Paesi europei. Ma anche perché fra le istituzioni politiche italiane ce n'è una che secondo tutti i sondaggi - so bene che Sergio Romano non li ama! - mantiene un livello alltissimo di popolarità e di fiducia: la presidenza della Repubblica. Non parlo della persona, ma dell'istituzione, che ottiene consensi comparabili all' arma dei carabinieri.
Una prima spiegazione potrebbe essere che si tratta di un'istituzione rassicurante proprio perché dispone di poteri limitati: una figura lontana, che non suscita né la divisione né l'ostilità. Però c'è anche un' altra spiegazione possibile, forse più interessante per la nostra conversazione di oggi. La presidenza della Repubblica incarna l'identità nazionale, mette insieme tutti gli italiani malgrado le loro diverse sensibilità politiche, malgrado la varietà dei loro contesti culturali e territoriali. Quindi è popolare in quanto esprime anche un dover essere, una ricerca di quell'unità profonda che ancora è incompiuta.

M.L. - La televisione favorisce la popolarità dei leader, soprattutto di quelli che sanno sfruttarla. Al tempo stesso, la televisione demolisce il prestigio dei dibattiti parlamentari, che affrontano questioni complesse e pertanto appaiono noiosi. E molto più divertente vedere due sanguigni comizianti adoperare argomenti semplici, e litigare sobillati dall' abile conduttore della trasmissione, che assistere alle laboriose liturgie della democrazia parlamentare. Però respingo la tesi, diffusa soprattutto fra gli intellettuali, secondo la quale il popolo italiano - anestetizzato dalla congiunta influenza nefasta della politica-spettacolo e dei programmi commerciali d'intrattenimento - sarebbe ormai del tutto spoliticizzato, anzi rincretinito dalla televisione.
Credo che le cose siano molto più complesse. Le nuove tecnologie, tramite i messaggi via mail, ma anche i blog e la consultazione crescente dei siti internet, contribuiscono allo sviluppo di quel fenomeno che alcuni politologi chiamano la «democrazia partecipativa ». Il che significa che l'italiano medio è disgustato dalla politica tradizionale, basata su sfumature dialetti che per lui incomprensibili, e soprattutto su interessi affaristici inconfessabili, ma sarebbe disponibilissimo verso un' altra forma di vita politica nella quale potesse sentirsi maggiormente coinvolto. Ecco, la mia piccola provocazione consiste nell' affermare che invece di parlare sempre di crisi della nazione italiana, dovremmo piuttosto riflettere sulla vitalità e sulle trasformazioni della democrazia in Italia.
Certo, ci sono dei rischi. Come Sergio Romano ha ricordato, è vero che alcune minoranze ben organizzate possono cercare di controllare i flussi dei messaggi informatici. Ma anche di dominare le associazioni, i siti, i blog. Se però, come io credo, queste forme di democrazia parte ci pativa riusciranno a consolidarsi come complementi delle forme classiche di democrazia rappresentativa, allora sarà legittimo concludere che l'Italia non sta affogando nella sfiducia verso le sue istituzioni politiche, bensì sta cercando di inventare un nuovo modello di coesione nazionale, un nuovo modo di vivere insieme.

S.R. - Non c'è dubbio che lo stato di tensione continua fra governo e opposizione genera un forte sentimento di disagio in una parte importante del Paese. Dalla necessità di un contrappeso che esprima la solidarietà nazionale, trae giustamente profitto la figura del capo dello Stato.

Però attenzione. La sua popolarità è spesso il risultato di interventi che per grandi linee vogliono corrispondere al sentimento della schiacciante maggioranza e proprio per questo attirano l'applauso delle folle. Ma questi interventi, nel nostro sistema politico-costituzionale, sono « irresponsabili ». In altri termini, per il presidente non è difficile dire belle cose, esprimere auspici, indicare nobili obiettivi. Non è lui che avrà la responsabilità di realizzarli. Non è lui che alla resa dei conti deve misurarsi con un calo del gettito fiscale, o altre volgarità del genere. E allora, come privarlo della tentazione di volare alto, come chiedergli di resistere all' umanissimo piacere di vedere l'espressione di compiacimento che si disegna sul volto dei suoi interlocutori? Ma non appena tocca al presidente della Repubblica, per esempio, firmare una legge che molti italiani ritengono scritta per gli interessi del presidente del Consiglio, ecco che anche il capo dello Stato diventa criticabile e vulnerabile.
Si può affermare che i poteri del presidente cambino a seconda dei rapporti di forza tra partiti e Quirinale. Nella storia repubblicana del nostro Paese, il record dei poteri concretamente esercitati da un capo dello Stato va probabilmente attribuito a Oscar Luigi Scalfaro, il cui mandato (1992-1999) coincide appunto con un periodo di particolare debolezza dei partiti e quindi di forte instabilità. E il periodo che va da « Mani pulite» al braccio di ferro fra il nuovo centrodestra e il nuovo centrosinistra, e ai vari regolamenti di conti all'interno della sinistra. L'Italia ebbe allora sei governi in sette anni: Amato, Ciampi, Berlusconi, Dini, Prodi e D'Alema. Si può ritenere che un potere così esteso sia conforme alla Costituzione? Sui poteri del presidente, la nostra carta costituzionale è abbastanza ambigua.

M.L. - Un bellissimo lavoro di un mio allievo, Alessandro Giacone, dimostra che il presidente della Repubblica italiana non ha poteri così limitati come si dice abitualmente, soprattutto all' estero.
Secondo me, il più importante di questi poteri consiste nel diritto, consolidato da una prassi di oltre sessant'anni, di rivolgere consigli e ammonimenti. E quando il presidente della Repubblica ricorda a questo o quel presidente del Consiglio, a questo o quel ministro i valori della Costituzione, con riferimento per esempio ai grandi principi dell' etica di governo, in effetti sta lanciando un messaggio rivolto anche all' opinione pubblica.
In un sistema politico di «democrazia del leader », come attualmente esiste anche in Italia attraverso la figura di Berlusconi, il presidente della Repubblica svolge un ruolo di garanzia e assicura un prezioso equilibrio: una sorta di sistema di checks and balances.

Pubblica amministrazione

M.C. - Passiamo al secondo punto della mia lunga lista. La percezione della pubblica amministrazione è certamente pessima, e contribuisce alla crescente impopolarità della capitale d'Italia, che purtroppo ormai rivaleggia nell'opinione negativa dei compatrioti con Washington, Londra, Parigi ...

S.R. - Debbo aggiungere: percezione giustificatamente pessima, anche e soprattutto perché vige in Italia la vecchia regola sovietica secondo cui il pubblico impiegato è pagato poco, ma ha il diritto di lavorare poco. L'Italia non è mai riuscita a creare un servizio efficiente, basato su criteri di produttività, per garantire il miglior funzionamento dell' economia e dare una risposta sollecita ai bisogni del cittadino. La pubblica amministrazione è stata usata soprattutto per integrare la piccola borghesia meridionale nel nuovo Stato unitario. Un altro modo per tentare di costruire l'unità nazionale, un'altra dimostrazione del modo in cui il problema del Sud condiziona l'organizzazione del Paese.
Negli anni '80 vi fu una grande occasione, in Italia come altrove. L'informatizzazione permetteva di ridisegnare completamente il rapporto tra il cittadino e lo Stato, in termini di aspettative, diritti e doveri. Il personale inamovibile della nostra elefantiaca burocrazia fece del suo meglio per boicottare l'informatizzazione, e la classe politica non ebbe la forza o la voglia di esercitare le necessarie pressioni. Il primo a proclamare un certo impegno in questa direzione, ma con risultati assai meno brillanti dei suoi proclami, è stato Berlusconi. Ma anche la sinistra, nel periodo in cui Franco Bassanini fu ministro della Funzione pubblica, cercò di mettere in moto la macchina delle riforme. La società italiana sembrava pronta a sostenerle. Ma lo stesso italiano che chiede efficienza come cittadino diventa, quando è dall'altra parte dello sportello, il geloso difensore delle sue prerogative e delle sue pigrizie. Aggiungo che ogni riforma, anche se è destinata a ridurre in prospettiva le dimensioni e il costo della funzione pubblica, è inizialmente costosa: una difficoltà in più per un Paese dove la spesa pubblica, anche per ragioni sindacali, continua comunque ad aumentare.
A questo proposito, non dimentichiamo che la qualità della spesa pubblica è anche collegata ai metodi di reclutamento dei pubblici funzionari. Ormai, soprattutto nelle regioni, le assunzioni vengono fatte sulla base della chiamata nominativa, la formula utilizzata per definire il meccanismo delle raccomandazioni clientelari. I provvedimenti iniziali di un ministro, Renato Brunetta, hanno ottenuto un certo consenso. Ma non sono sicuro che l'Italia sia alla vigilia di una riforma coraggiosa della burocrazia, anche se esistono tutte le condizioni tecnologiche per realizzarla.

M.L. - In effetti mi sembra che l'amministrazione pubblica non sia un elemento di particolare fierezza per gli italiani, mentre lo è certamente per i francesi, anche se siamo la patria di Georges Courteline, che come Balzac e altri prende in giro i funzionari con estro straordinario. Resta il fatto che ogni francese è un po' orgoglioso dell' organizzazione burocratica del suo Paese, e anche delle grandi società del settore pubblico.
Varie ricerche storiche testimoniano che fino all' inizio degli anni '50, cioè fino ai primi anni della Repubblica, l'amministrazione italiana è ancora abbastanza competente. I lavori di Sabino Cassese dimostrano molto bene che gli eccessi di politicizzazione e clientelismo nei criteri di assunzione hanno modificato profondamente la situazione.

M.C. - Ben prima degli anni '50, nemmeno un dittatore come Mussolini riesce a far lavorare gli impiegati dei ministeri nel pomeriggio!

M.L. - Due tentativi molto interessanti di riforma della pubblica amministrazione, studiati con attenzione da tutte le burocrazie europee, vengono compiuti in Italia in un passato recente: la riforma Cassese (governo Ciampi) e la riforma Bassanini (primo governo Prodi, due governi D'Alema, secondo governo Amato).
Oggi Franco Bassanini dichiara che l'architettura della sua riforma è crollata subito dopo la sua partenza dal governo del Paese. Però alcuni meccanismi fortemente innovativi da lui creati ancora rimangono. Per esempio, la valutazione e il riconoscimento del merito, gli aumenti salariali individuali, la creazione per ogni utente di un interlocutore ben identificato, l'autocertificazione. Quando Jacques Attali forma la sua famosa Commission pour la libération de la croissance française (2007-2008), il nome di Bassanini - se ben ricordo le parole di Sarkozy - viene proposto direttamente dallo staff dell'Eliseo. L'altro membro italiano è Mario Monti, presidente dell'Università Bocconi di Milano dopo aver fatto parte della commissione esecutiva di Bruxelles per dieci anni.

M.C. - Il fatto che la Francia chieda consigli agli italiani in materia di riforma burocratica può sembrare paradossale, ma in realtà lo è soltanto fino a un certo punto, dato che l'Italia spesso eccelle nella dottrina ed è deludente nella sua attuazione pratica. Si dice che il nostro Paese è la «patria del diritto », e infatti gli italiani annoverano molti grandi giuristi, però questo non vuol dire che la nostra macchina giudiziaria funzioni particolarmente bene.

M.L. - D'accordo, ma io non rinuncio a insistere sulla mia vecchia ottimistica tesi, secondo cui il tessuto nazionale italiano non è poi così disfatto come quasi sempre si dice. Vorrei ricordare che la riforma Bassanini ottiene una sorta di consenso parziale anche da parte dei sindacati: cosa impensabile in Francia dove invece la maggioranza dei sindacati intraprende lotte durissime contro ogni ipotesi di riforma. Sono comunque ben consapevole dei paradossi della vita politica, e quindi so bene che per un uomo di sinistra come Bassanini è certamente più facile che per un uomo di destra far accettare qualche amaro boccone alle rappresentanze dei lavoratori.
Infine, Sergio Romano ci ha parlato della difficoltà di introdurre criteri meritocratici e non clientelari nelle assunzioni. Ebbene, nel rapporto annuale realizzato nel 2009 dalla Luiss in collaborazione con la Confindustria sullo stato della classe dirigente italiana, c'è un'ampia documentazione che testimonia l'opposizione radicale dei giovani e di gran parte della popolazione contro le vecchie pratiche. Anche se ben sappiamo che ogni italiano continuerà a cercare un posto per suo figlio facendo appello agli amici o sollecitando i favori di qualche potente. C'è in questo una vera schizofrenia ...
Comunque, la mia profonda convinzione è che l'aspirazione al cambiamento sia sincera, com' è dimostrato dal fatto che alcuni fra i miei migliori studenti della Luiss di Roma intendono lavorare al servizio dello Stato italiano. Insomma esistono giovani molto brillanti, ragazzi e ragazze provenienti da Padova come da Catania o da Grosseto, che dichiarano all'unisono, molto semplicemente: « Crediamo nella possibilità di riformare e modernizzare questo Stato, e vorremmo servirlo, per l'interesse dell'Italia».
Qualcuno vuol entrare nei servizi di sicurezza e combattere la criminalità organizzata, qualcun altro sarebbe fiero di rappresentare il suo Paese all' estero e gli piacerebbe diventare un diplomatico. Sono abbastanza abituato a dichiarazioni del genere da parte dei miei studenti di Sciences Po a Parigi, ma resto favorevolmente stupito nell'ascoltare dei giovani che si esprimono in termini altrettanto entusiasti in un'università italiana. Forse le mie parole appariranno un po' ingenue ...

S.R. - Ho meno familiarità con il mondo della funzione pubblica di quanta ne avessi in passato. Ma è giusto aggiungere che non tutta la funzione pubblica italiana sta perdendo il treno della modernità. Ci sono alcune regioni che funzionano bene, e sono molto attente a stabilire un rapporto efficace con il cittadino, facendo uso di tutto ciò che le tecnologie più recenti possono offrire. Ci sono paesini del Nord-Est dove basta premere un bottone per ottenere il certificato desiderato.

Una burocrazia che funziona può essere un formidabile fattore di unità nazionale. Invece, nel nostro caso, il fortissimo divario fra le zone di efficienza e un' amministrazione pubblica nazionale complessivamente inefficiente spacca il Paese, e rende l'Italia ancora meno unita: una constatazione ancora più evidente nel campo della sanità.

Sistema sanitario e sistema pensionistico

M.C. - E allora parliamo del sistema sanitario.

S.R. - Stavo dicendo che questo tema si presta particolarmente a illustrare il discorso sulle disparità italiane. Diciamo subito che complessivamente il sistema sanitario italiano non è cattivo, tutt' altro. Ci sono regioni in cui funziona piuttosto bene, non solo perché è gratuito o molto economico, ma anche per la qualità dei servizi. Naturalmente i giornali si occupano puntualmente degli scandali relativi alla cosiddetta « malasanità», però nell'insieme ho l'impressione che gli italiani siano abbastanza soddisfatti del loro sistema sanitario.
Il problema è soprattutto regionale. Per un calabrese che soffre di appendicite è più facile prendere un treno e andare a Varese, anziché farsi operare nella città in cui abita.

M.C. - Non è neppure un problema di risorse economiche, ma soltanto di organizzazione e di corretta gestione. Ben sappiamo che nel Sud esistono anche ospedali dotati di attrezzature d'avanguardia, che però spesso non funzionano.
                                              
M.L. - Non credo che dovremo passare troppo tempo sui problemi sanitari. In Europa, ogni Paese è convinto di avere il miglior sistema sanitario del mondo. Francesi e tedeschi ne sono assolutamente persuasi, gli inglesi un po' meno dopo la terribile riforma di qualche anno fa. Direi che questa fierezza diffusa in tutta l'Europa continentale costituisce un elemento identitario comune nei confronti del sistema americano, che il presidente Obama sta cercando di avvicinare al nostro. Tutti gli europei affermano che non vorrebbero saperne di un sistema caratterizzato dalle assicurazioni private e dall' ineguaglianza nell' accesso alla sanità.
Qualche anno fa, venendo a vivere in Italia con la mia famiglia, scopro che perfino gli italiani, di solito così autocritici, hanno una grande fiducia nel loro sistema. Al tempo stesso, non posso mancare di accorgermi che effettivamente ci sono forti differenze regionali. Un giorno, una delle mie figlie viene ricoverata in un ospedale pediatrico romano molto efficiente, dove per puro caso abbiamo occasione di conoscere alcune famiglie di Salerno venute fino a Roma con i loro bambini, anziché restare nella loro città o portarli nella ben più vicina Napoli.

M.C. - Sul piano sanitario, Roma è un caso a parte, perché è a pelle di leopardo, ha pezzi di avanguardia e pezzi di terzo mondo.

M.L. - Che esperienza interessante! Finalmente, tramite questo breve ricovero di una nostra bambina, mia moglie e io arriviamo a capire le forti differenze fra il ruolo della famiglia in Italia e in Francia.
Alla sera, in mancanza di urgenze assolute, noi e un' altra coppia di genitori francesi rientriamo a casa per dormire, benché sgridati dai « colleghi» italiani che ci urlano addosso: « Ma come potete abbandonare i vostri figli, bisogna rimanere anche la notte per sorvegliare, non si sa mai quello che può succedere ». Una scenata che non potrò dimenticare.

S.R. - Ci sono medici che teorizzano l'utilità di una presenza continua della famiglia in ospedale, sostengono che il paziente - soprattutto se si tratta di un bambino - è confortato dall'affetto dei suoi cari, e quindi può essere curato meglio se sono presenti.

M.L. - Dunque in Italia la famiglia ha una funzione non solo affettiva, ma anche terapeutica. Allora mi chiedo: questa onnipresenza non entra mai in conflitto con il sentimento nazionale? Oppure, forse, la patria italiana è semplicemente un' amplificazione per così dire maiuscola dell'idea di famiglia ...
La mia impressione è che in definitiva coesistano varie Italie: quella che ripropone l'immagine tradizionale della famiglia italiana si colloca agli antipodi della tendenza « modernista» che sarebbe alla base del declino demografico, in quanto non ancora accompagnata da un'adeguata politica di sostegno economico alla procreazione.

M.C. - Oggi le famiglie italiane e .francesi vivono in modo più simile di cinquant'anni fa. Però la concezione mediterranea e giudaico-cristiana della famiglia resta diversa da quella « laicista» ancora dominante in Francia, malgrado la crescente presenza di immigrati fortemente ancorati a valori religiosi.
Nella famiglia italiana tradizionale, gli anziani avevano un posto ben preciso, fino all'ultimo giorno. Nelle società occidentali di oggi, la serenità della maggior parte di loro è legata all'ammontare della pensione. Gli italiani hanno paura della vecchiaia? Si sentono protetti dallo Stato-nazione per gli anni dell'età senile?

M.L. - Credo che il problema delle pensioni sia forse il maggior problema dell'Italia di oggi e dell'immediato futuro. Ci sono state già due o tre riforme, e si sa con certezza che ce ne saranno altre, per la semplice ragione che con il calo demografico di cui abbiamo parlato sarà impossibile perpetuare il sistema attuale. Nessuno vuol fare scelte impopolari, dunque è sicuro che se la questione delle pensioni già divide gli italiani, ancor più li avvelenerà nel futuro. Ma alla fine la gente dovrà lavorare più a lungo, non c'è dubbio

M.C. - Il governo di centrosinistra presieduto da Romano Prodi ha abolito il cosiddetto scalo ne, quindi ha fatto marcia indietro rispetto al precedente governo Berlusconi, soddisfacendo le richieste sindacali più immediate. Non dimentichiamo che ormai oltre la metà degli iscritti ai sindacati sono pensionati.

S.R. - L'annosa questione delle pensioni è legata a due problemi tipicamente italiani, il lavoro nero e 1'evasione fiscale. Se il governo riuscisse a sconfiggere almeno in parte questi due flagelli, la gran maggioranza della gente non avrebbe più interesse ad andare in pensione presto. Oggi gli italiani vogliono la pensione a sessant'anni, ma non hanno alcuna intenzione di smettere di lavorare. Sono ancora numerosi quelli che vogliono cominciare a lavorare In nero senza pagare tasse.

Giustizia e magistratura

M.C. - Abbiamo parlato della fiducia degli italiani nel loro sistema sanitario. Si potrebbe affermare che nutrono la stessa fiducia nel funzionamento della giustizia, sistematicamente attaccato - anzi denigrato secondo il Consiglio superiore della magistratura - da Silvio Berlusconi?

S.R. - No, per un complesso di ragioni talora abbastanza contraddittorie. Anzitutto, vi è una totale sfiducia nella giustizia civile, la quale è di una tale lentezza da diventare una sorta di « vantaggio dilatorio », vale a dire di un' arma nelle mani di coloro che hanno un forte interesse a rallentare per quanto possibile il corso del procedimento. Si tratta di un grave problema a cui la società reagisce spontaneamente, come ormai accade molto spesso - non solo in Italia - quando gli strumenti pubblici non producono i risultati desiderati. Per supplire alle mostruose carenze della giustizia civile, si sviluppano enormemente le forme di arbitrato, nazionale e internazionale.

La giustizia penale comporta problemi di natura diversa. Bisogna riconoscere che in molti casi agisce con relativa rapidità, più o meno nella media europea. Il problema fondamentale è quello dell'importanza eccessiva acquisita dal magistrato in una società dove altri poteri, come quelli dell' esecutivo e del legislativo, sono, agli occhi dei cittadini, screditati. E non bisogna dimenticare, a questo proposito, che l'Italia è un Paese caratterizzato da grandi emergenze fra cui la mafia, la criminalità organizzata, il terrorismo, la corruzione: fenomeni a cui il Paese, in alcune circostanze, ha fatto fronte nelle aule di giustizia meglio di quanto non abbia saputo fare la classe politica.
Il cittadino è giustamente convinto che i politici, in buona parte, non siano all' altezza delle loro responsabilità: dopo aver lungamente negato l'esistenza della mafia in Sicilia e della criminalità organizzata in altre regioni, dopo aver sprecato anni preziosi nella discussione se il terrorismo fosse di destra o di sinistra, molti politici approdano addirittura sul banco degli imputati nelle inchieste di corruzione e vengono accusati di « concorso esterno» in attività mafiose. In un contesto del genere non sorprende che i magistrati, in particolare l'inquirente durante le indagini e il pubblico ministero nei processi, acquistino un credito e una visibilità mediatica che li mettono al centro della sensibilità popolare. Si dà il caso, tuttavia, che questo potere della legalità si incarni in una particolare persona che nessuno ha eletto, che è semplicemente un funzionario dello Stato. Fin dall'Ottocento sappiamo che il diritto è una creazione della storia, che si adatta via via alle esigenze di una società in continua trasformazione. Ma oggi in Italia molti magistrati si comportano non come i modesti interpreti di norme storiche e pertanto relative, bensì come sacerdoti di verità assolute, autorizzati non soltanto a punire i colpevoli, ma a raddrizzare i torti e dare il benservito a governi sgraditi.

M.C. - Già una conversazione precedente ci proponeva l'inedito spettacolo di una convergenza Romano-Berlusconi nelll'accusare la magistratura eversiva ...

S.R. - No, e mi spiego meglio. Ce l'ho con Berlusconi proprio perché indebolisce il mio argomento. Se qualcuno usa i miei stessi argomenti, ma per il suo personale interesse, questo mi rende meno credibile.

M.L. - Mi sembra evidente che in Italia c'è una forma di sfiducia abbastanza forte verso questi tribunali dove c'è scritto che la legge è uguale per tutti, mentre la maggioranza dei cittadini ha l'impressione contraria. Ma il malcontento esiste anche altrove, per esempio in Francia, per ragioni talora analoghe: esasperazione per la lentezza, sentenze che fanno discutere, sentimento che vengano adottati due pesi e due misure ... Molti filosofi e giuristi si sono interrogati sui modi per rendere più giusta la giustizia, e soprattutto per avvicinarla a criteri di uguaglianza.
Sicuramente la giustizia non fa parte della fierezza nazionale italiana. Ma direi che non fa più parte neppure della fierezza nazionale francese. Forse in altri Paesi, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, c'è una maggior fiducia nella giustizia.

S.R. - In America certamente c'è, anche se è spesso ingiustificata.

M.L. - Diciamo che l'americano medio ci crede molto. Esiste un vero mito della giustizia americana, come si vede bene nei film centrati su quei bei processi dove, grazie alla bontà del sistema giuridico, alla fine la verità degli umili trionfa sull' arroganza dei potenti.

M.C. - Visto che finora abbiamo sovente stabilito confronti con la realtà francese, mi pare interessante tentare un ragionamento sui sistemi giuridici anglosassoni. Come tutti sanno, questi sistemi sono caratterizzati dall'assenza dei codici, sui quali in misura non trascurabile sono invece basati i sistemi dell'Europa continentale, eredi del diritto romano e dell'influenza napoleonica. Qualcuno potrebbe essere tentato di pensare che l'esistenza dei codici, i cui tecnicismi sono spesso inaccessibili al comune cittadino, crei automaticamente una casta di specialisti incaricati di interpretarli e di applicarli, e quindi rafforzi in certo senso il potere della magistratura.

S.R. - Credo piuttosto che la mancanza di codici nella common law renda il magistrato creatore di diritto, attribuendogli un potere pressoché assoluto.
I codici hanno semplicemente la funzione di rendere quanto più organica possibile la raccolta delle leggi di un Paese, di creare una certa coerenza e di evitare quelle contraddizioni fra una legge e l'altra che si determinano in una produzione legislativa estesa su molti anni. Nemmeno i codici, naturalmente, possono impedire al magistrato di interpretare le leggi secondo le sue personali convinzioni. Ma l'assenza dei codici, cioè di un argine capace di canalizzare il flusso continuo delle leggi e della giurisprudenza, conferisce al magistrato anglosassone una libertà molto superiore.

M.L. - Secondo le nostre abitudini mentali di europei continentali, questa grande libertà dei giudici anglosassoni potrebbe addirittura confinare con l'arbitrio. E vediamo bene come perfino l'indipendenza dei magistrati italiani possa suscitare perplessità.
Forse a torto, ma sta di fatto che il rapporto fiduciario molto intenso con la giustizia costituisce un elemento assai significativo dell'identità nazionale americana, a differenza del caso italiano o anche francese.

S.R. - Sì, spesso a torto, dato che la magistratura americana è piena di storie aberranti. Per loro, il tribunale è un grande teatro, e non a caso il processo può diventare un dramma capace di scatenare la genialità di scrittori e registi. Ogni anno negli Stati Uniti si producono nuovi film in cui viene raccontato un processo. Senza dimenticare le innumerevoli serie televisive. Il processo è una sorta di circo massimo della giustizia: il Colosseo della democrazia americana.

M.L. - Vorrei tornare alla riflessione iniziale di Sergio Romano, secondo la quale i giudici debbono il loro grande potere (anzi strapotere, a detta di alcuni) alle evidenti carenze della classe politica italiana. Sono d'accordo, ma aggiungo che i magistrati godono anche dell'innegabile prestigio conquistato in virtù delle loro sacrosante battaglie contro la mafia e il terrorismo, e che la loro immagine popolare deriva anche dal coraggio e dal sangue dei loro morti.
Ricordo bene la prima fase dell'inchiesta « Mani pulite », con gli applausi rivolti dalla gente comune a Di Pietro e ai suoi colleghi di Milano, e l'entusiasmo diffuso nel vedere l'umiliazione dei potenti. Proprio come in uno di quei film di cui si parlava poc'anzi, dove è grazie al funzionamento equanime della giustizia che gli americani ritrovano la piena fiducia nella loro nazione. E ricordo le scritte sui muri d'Italia: « W Di Pietro », oppure « Bravo Di Pietro che non hai paura di nessuno ». In quel breve periodo, si direbbe quasi che la nuova carismatica figura di riferimento della nazione italiana sia ormai il giudice.

S.R. - Sì, certo, ma sono sentimenti molto populisti, se non addirittura plebei.

M.L. - Infatti le cose cambiano in fretta. Nel '94 Berlusconi vince le elezioni e vorrebbe portare Di Pietro nel suo governo, ma questo tentativo non riesce, e comincia il durissimo braccio di ferro del Cavaliere con la magistratura.
Certo è che il tema del rapporto fra potere esecutivo e potere giudiziario è assolutamente centrale per capire l'Italia di oggi, e anche il modello di coesione nazionale che si delinea per l'avvenire.

Trasporti e servizio postale

M.C. - Ecco due servizi il cui funzionamento si presta a una trattazione congiunta. Non c'è dubbio che esiste una generale insoddisfazione per il sistema dei trasporti, e che anche in questo settore il Centro-Nord appare trattato molto meglio del Sud.

S.R. - Purtroppo, per una serie di ragioni, si finisce sempre per mettere nella parte alta della lista delle priorità le regioni più produttive, le regioni in cui i ritorni economici sono maggiori.
L'insoddisfazione generale può anche essere comprensibile, ma bisogna considerare che ogni confronto serio con la situazione degli altri principali Paesi europei è difficilmente proponibile a causa delle specificità geografiche dell'Italia, e in particolare della catena di montagne che la spacca in due longitudinalmente. Per cui è spesso impossibile costruire autostrade o linee ferroviarie che non comportino un numero di gallerie enormemente più elevato di qualsiasi altro tracciato europeo. Per esempio, la Spagna dispone di treni ad alta velocità fin dall' epoca di Felipe Gonzalez, ma su percorsi prevalentemente in pianura.

M.L. - Già Fernand Braudel parlava di queste « costrizioni geografiche» in un suo bellissimo libro sull'Italia. Tutti sappiamo che le Ferrovie dello Stato non sono per gli italiani un elemento di fierezza nazionale. Il trasporto aereo ancora meno, per la verità! Comunque sono ottimista, in quanto ogni giorno vedo nascere nuovi treni ad alta velocità, anche se un po' troppo cari e non sempre puntuali. I famosi ritardi italiani sono meno frequenti, ma persistono.
La valutazione della rete ferroviaria deve tener conto del fatto che in Italia, dopo la seconda guerra mondiale, viene compiuta una scelta strategica a favore della motorizzazione privata. Spesso gli italiani non ci pensano, ma l'automobile - sia l'utilitaria Fiat, sia la Lancia, l'Alfa Romeo o la Ferrari - è veramente uno dei simboli internazionali del loro Paese.
E la rete autostradale, fa parte dell' orgoglio italiano?
Queste autostrade costruite malgrado le tante avversità naturali, e soprattutto l'Autostrada del Sole che va da Milano a Roma, incarnano storicamente la fierezza un po' spaccona dell'italiano del boom economico, quello interpretato da Vittorio Gassman nel Sorpasso (1962), per intenderci. Però all' epoca vengono molto apprezzate anche dagli stranieri, e ricordo bene una frase pronunciata dai miei genitori: « Andiamo a fare le vacanze in Italia perché ci sono bellissime autostrade ». Negli anni '60 c'è un vantaggio nettissimo sulla Francia in questo campo. Mio padre è felice di sfruttare tutte le possibilità della sua macchina, scorrazzando senza limite di velocità, e naturalmente ammirando il magnifico paesaggio italiano.
Oggi la rete autostradale italiana appare un po' arcaica per mancanza di un' adeguata manutenzione, e anche per la ritardata costruzione di certi tratti che sarebbero veramente utili. Però la bella macchina resta un elemento forte di identità nazionale, e in Italia c'è tuttora una densità automobilistica per abitante che è fra le più alte d'Europa, con tutti i problemi conseguenti - purtroppo - in termini di traffico, parcheggi, inquinamento.

M.C. - All'epoca trionfale delle autostrade italiane, la sinistra accusa i governi di favorire pesantemente gli interessi della Fiat, a detrimento della rete ferroviaria cioè del servizio pubblico.

S.R. - L'accusa della sinistra non è infondata, e fu condivisa, all' epoca della costruzione delle prime grandi autostrade, da molti imprenditori, convinti che questo privilegio eccessivo accordato alla Fiat avrebbe finito per danneggiare il Paese, privandolo di una rete ferroviaria efficiente. Anche mio padre, presidente degli industriali della Liguria, disapprovava apertamente questa politica.
La verità è che, prima ancora che l'avvocato Agnelli lo enunciasse apertamente, fu esteso alla Fiat il noto principio inventato dalla General Motors per definire il proprio ruolo negli Usa: tutto ciò che va bene per Fiat, va bene anche per l'Italia. In effetti vi fu un' assonanza profonda tra la Fiat e il potere politico nazionale. Ho avuto l'occasione di accorgermene quando, negli anni '60, da giovane
diplomatico lavoravo al Quirinale durante la presidenza di Giuseppe Saragat. Ricordo bene i suoi appuntamenti con Vittorio Valletta, presidente e amministratore delegato della Fiat, che scendeva a Roma una volta alla settimana. Non esisteva ancora un mercato comune delle automobili, e la Fiat si batteva tenacemente per ritardare la perdita del monopolio automobilistico nazionale. Aggiungo che Valletta fu nominato da Saragat senatore a vita.


M.C. - Si tratta di un'assonanza già esistita, almeno in parte, fra il fondatore della Fiat e il regime fascista.

S.R. - A un certo punto, effettivamente, la Fiat entrò nell'orizzonte del fascismo e divenne uno strumento importante del suo programma economico e sociale. Nel 1930, Mussolini convocò il senatore Giovanni Agnelli per informarlo della «inderogabile» necessità di motorizzare gli italiani con una vettura economica che non superasse il costo di cinquemila lire. E nel 1936, dopo lunghi studi e tentativi, venne messa in vendita la Fiat 500 A, poi soprannominata Topolino, al prezzo di 8900 lire: venti volte lo stipendio mensile di un operaio specializzato. Divenne una icona della identità nazionale, un' aspirazione comune dei ceti emergenti che avevano portato il fascismo al potere. N egli stessi anni Hitler fece realizzare la Volkkswagen, «vettura del popolo », divenuta famosa con il nome di Maggiolino, anch' essa, come la Topolino, figlia della Model T di Henry Ford. Resta il fatto che Mussolini, molto più socialista di Saragat, non riuscirà mai ad amare gli Agnelli.

M.C. - Non abbiamo ancora parlato del trasporto aereo e delle varie polemiche sull'Alitalia ...

M.L. - Esiste una strana schizofrenia. L'Alitalia è criticatissima, soprattutto a causa dei suoi proverbiali ritardi e della sua catastrofica gestione economica, però resta molto amata. Persiste un legame affettivo molto forte.
Non a caso, Berlusconi è convinto di toccare una corda sensibile della psicologia collettiva quando insiste, nella campagna elettorale del 2008, sulla necessità di trovare una cordata italiana per salvare la compagnia di bandiera. In francese si parlerebbe di compagnie nationale, l'espressione « di bandiera» ha una connotazione più forte, e conferma l'importanza che gli italiani attribuiscono al fatto di avere una propria rete di trasporto aereo, dove si parla la loro lingua, si servono a bordo i loro vini ...

S.R. - Vi è un aspetto della vicenda Alitalia che mi ha incuriosito e divertito. Quando si pose l'alternativa fra venderla o non venderla, il governo Prodi propendeva per Air France, anche se qualcuno dichiarava di preferire Lufthansa. La soluzione trovata da Berlusconi dopo la vittoria elettorale del 2008 serve a capire come funzionino in queste occasioni i meccanismi italiani. In definitiva, il marchio Alitalia passò sotto il controllo « patriottico» della Cai (Compagnia aerea italiana SpA), la quale però fece subito un accordo con Air France, a cui cedette una parte non trascurabile di effettiva « sovranità» sull' azienda. Nel frattempo nacque Lufthansa Italia, una società costituita per gestire quella parte significativa del traffico di Malpensa che Alitalia aveva abbandonato per alleggerire i propri costi e concentrarsi su Fiumicino. Toccò a Lufthansa, quindi, gestire e sfruttare il traffico del Nord, cioè del bacino di utenza più importante del Paese. In ultima analisi, Alitalia non fu comprata né dai francesi né dai tedeschi, ma il vero capitale dell' azienda, il cielo italiano, è in buona parte franco-tedesco. Ecco dunque un compromesso tipicamente italiano, grazie al quale, alla fine, tutti sono contenti. O, forse, tutti scontenti.

M.C. - Il funzionamento dei vari sistemi di trasporto ha un'influenza evidente su quello del servizio postale. Molti hanno la sensazione che le cose vadano un po' meglio di vent'anni fa, però la situazione rispetto ai vicini europei rimane insoddisfacente ...

S.R. - Il servizio postale tradizionale funziona meglio di venti o dieci anni fa, anche se continua a riservarci qualche cattiva sorpresa e, soprattutto, non funziona con la stessa efficienza sull'intero territorio nazionale. Per fortuna, una parte cospicua e crescente delle comunicazioni avvviene ormai per via informatica o telefonica.

Ma il vero e straordinario miglioramento rispetto a vent' anni fa è nella nuova immagine delle Poste italiane, divenute ormai un' azienda redditizia, grande collettore del risparmio popolare.

M.L. - Sì, proprio come in Francia, l'ufficio postale è ormai - soprattutto nei piccoli paesi - un centro di servizi che rappresenta anche l'indispensabile punto di riferimento della vita locale, nonché un' espressione importante della presenza capillare dello Stato-nazione sul territorio.
Invece è in netta decadenza, dato il forte calo degli invii postali « classici », il ruolo del francobollo come parte significativa della simbologia grafica dei vari Paesi. Pur rimanendo fiorentissimo, beninteso, il mercato dei filatelici.

Infrastrutture e turismo

M.C. - Abbiamo già parlato dell'importanza della rete autostradale... Il discorso sui trasporti ci conduce quasi spontaneamente a, quello sulle infrastrutture, che ne sono strumenti essenziali. E perfino banale ricordare che le infrastrutture sono fondamentali non soltanto per il buon vivere quotidiano dei cittadini, ma anche e soprattutto per ogni strategia di sviluppo economico.

S.R. - Per alcuni anni le infrastrutture furono fortemente penalizzate dalla corruzione e dagli scandali di Tangentopoli. La corruzione ebbe una incidenza considerevole sui costi delle opere pubbliche. E gli scandali paralizzarono l'intero sistema. Gli anni '90, dopo le inchieste di «Mani pulite », furono, per l'aggiornamento infrastrutturale italiano, disastrosi. Tutto ciò che serviva allo sviluppo dell' economia e al progresso civile fu bloccato: il raddoppio dell'Autostrada del Sole nel tratto appenninico Firenzegna, il Mose di Venezia per controllare il fenomeno dell'acqua alta, la ferrovia ad alta velocità Torino-Lione per l'inserimento dell'Italia nei grandi corridoi europei, il passante di Mestre per riunire il Veneto occidentale al Veneto orientale, la Salerno-Reggio Calabria per il collegamento delle regioni sud-occidentali con il resto del Paese.
Bisogna riconoscere che la macchina fu rimessa in moto meglio al Nord che al Sud, dove si scontrò con la carenza di fondi ma anche con forti « inquinamenti ambientali ». Il programma di rilancio realizzò opere importanti e creò molti posti di lavoro, ma coinvolse interessi non sempre trasparenti. Il ministro delle Infrastrutture e dei Trasporti del secondo governo Berlusconi, Pietro Lunardi, era lui stesso un costruttore, titolare o azionista di società che progettavano e realizzavano opere pubbliche: insomma, un esempio di conflitto d'interessi da manuale.

M.C. - Il nuovo governo Berlusconi nato nel 2008 promette - o minaccia, secondo i punti di vista - di realizzare la ripetutamente annunciata costruzione del ponte sullo stretto di Messina, che avrebbe tra l'altro la missione di rendere più italiana la Sicilia e quindi di consolidare l'unità nazionale. C'è chi dice che il rischio dell'inquinamento mafioso potrebbe essere particolarmente sensibile.

S.R. - Personalmente sono favorevole, anche se per motivi psicologi e nazionali, più che economici. Non sono certo che il ponte sullo stretto sia davvero indispensabile. Ma credo che una grande opera gioverebbe al clima morale del Paese e darebbe forse un salutare scosso ne alla Sicilia, una regione che nessun governo italiano, dall'Unità in poi, è riuscito a trasportare nella modernità. Sono consapevole che esiste un rischio mafioso, ma sappiamo che tra i fattori capaci di ridurre o eliminare la criminalità vi è anche una migliore e più diffusa crescita economica. Grazie al ponte, la mafia potrebbe essere travolta, paradossalmennte, da un eccesso di occasioni favorevoli.

M.L. - Conosco un poco la Sicilia. La considero come un' ennesima conferma dell' estrema varietà dell'Italia, che deriva dall'ineguale distribuzione delle risorse, ma ancora di più da fattori storico-culturali. In Toscana, le strade sono ben fatte, ben tenute, ben segnalate, e mi ricordano la rete dipartimentale francese. Francamente non potrei dire lo stesso né della Sicilia, né del Lazio, dove da anni trascorro lunghi periodi, e che pure è così vicino alla Toscana.
Mi sembra evidente che il sistema infrastrutturale è essenziale per la coesione di una comunità nazionale. E credo che in questo settore stiamo forse per assistere a un momento di svolta per l'Italia. Voglio dire - schematizzando - che il modello di sviluppo caratterizzato da uno Stato molto invadente nelle procedure amministrative e burocratiche, però abbastanza debole nella capacità di intervenire direttamente e concretamente, vede ormai da tempo esaurita la propria missione modernizzatrice. È finita la spinta propulsiva, per usare una celebre espressione di Berlinguer, del modello che ha caratterizzato l'Italia dal 1945 fino agli anni '90. Non è più possibile lavorare così.
Tutti sappiamo che oggi per attrarre investimenti stranieri in un Paese non bastano né la competitività delle imprese né la produttività dei lavoratori: è altrettanto importante l'efficienza della rete infrastrutturale, da migliorare non solo perché crea posti di lavoro, ma soprattutto perché in certi luoghi strategici ce n'è veramente bisogno. E per farle compiere il necessario salto di qualità non sono sufficienti le energie pur indispensabili della società civile, ci vuole un impegno determinato e rigoroso da parte dei pubblici poteri.
Con questo non voglio affatto invocare uno Stato forte alla francese, che sarebbe agli antipodi di tutta la storia italiana, bensì auspicare uno Stato più presente per stimolare e regolare le attività, indirizzandole nella direzione dell'interesse generale.

M.C. - Le infrastrutture sono essenziali anche per lo sviluppo del turismo, che nella nostra epoca assume un peso economico mai conosciuto in passato. In questo campo l'Italia dispone di potenzialità enormi, data l'eccezionalità del suo patrimonio storico, artistico e naturale, ma è certamente in ritardo sul piano dell'organizzazione. La rete dei trasporti, la rete alberghiera, la rete della ristorazione restano insufficienti.
Da parte degli italiani coesistono atteggiamenti diversi.
C'è chi riserva ai turisti l'accoglienza più cordiale, ma c'è anche chi li tratta con fastidio, o chi li considera come polli da spennare, sentendosi furbo nell'imbrogliare quegli stranieri che potrebbero invece diventare i migliori testimoni dell' ospitalità italiana, e convincere i compatrioti a ripercorrere i loro stessi itinerari.

S.R. - In teoria, l'Italia ha tutto per attrarre i turisti: le bellezze naturali, il capitale artistico, le specialità gastronomiche, la bonomia e l'informalità dei suoi abitanti, le tracce di un grande passato, la bellezza delle coste, il clima così accattivante soprattutto nelle stagioni intermedie. Ma è purtroppo una grande occasione perduta.
Il Mezzogiorno ha dilapidato il proprio capitale investendo in un' edilizia selvaggia. Lo ha fatto perché questa scelta era la più redditizia sul piano politico-clientelare e quindi, in ultima analisi, elettorale. E qui siamo alle solite, cioè alla concezione della politica come business.

M.L. - Ancora negli anni '70, l'Italia è la prima destinazione del turismo mondiale, mentre oggi credo sia al quinto posto. Attualmente, il primato turistico internazionale è detenuto dalla Francia, passata in testa nel 1989 grazie alle celebrazioni per il bicentenario della rivoluzione.
Sarebbe però poco obiettivo affermare che la cementificazione delle coste sia una prerogativa della sola Italia meridionale. Analoghi errori fatali, dettati da una logica speculativa di corta vista, sono ben visibili nel Sud della Francia e della Spagna. Senza dimenticare il bellissimo romanzo breve di Italo Calvi no intitolato appunto La speculazione edilizia, la cui azione si svolge sulla costa ligure, non in Calabria.
Malgrado tutto, l'Italia resta un Paese molto attraente per il visitatore straniero, e soprattutto per lo straniero che conosce almeno un poco la lingua e quindi può apprezzare la vivacità della gente. Fra i suoi tratti unici e irripetibili si può ricordare la forza delle sue « piccole patrie », cioè l'identità architettonica e culturale inconfondibile di ciascuna delle varie centinaia di città-capitali in miniatura che si incontrano viaggiando in ogni regione italiana. La varietà dei tanti campanili non deve far dimenticare che esiste una ben radicata fierezza nazionale per cui io bolognese sono orgoglioso che tu straniero vada a visitare anche Roma e Napoli.
Naturalmente questa fierezza, in gran parte legata al patrimonio storico, può celare un grande pericolo, quello dell'imbalsamazione culturale di un'Italia ridotta a museo, anzi degradata a cartolina postale. Una sorta di immensa Eurodisney, ma con moltissimi inquietanti e pressoché sinistri residui di una lunga storia veramente accaduta. Anche la Francia vive in parte sotto la spada di Daamode della stessa minaccia.
In un libro molto fine che però non ho veramente amato, Contre Venise, Régis Debray prende Venezia a simbolo di questa tendenza, e sostiene che è ormai una città morta, opponendole la vitalità intatta di Napoli.

Forze armate e forze dell' ordine

M.C. - Cambiamo completamente argomento. Il rapporto degli italiani con le forze armate è molto migliore che venti o venticinque anni fa ...

S.R. - Sì, per decenni la sinistra ha continuato a considerare le, forze armate come un possibile strumento repressivo. E l'epoca degli stati d'assedio, delle leggi speciali, delle cannonate milanesi del generale Bava Beccaris. Nel secondo dopoguerra le cose sono andate progressivamente migliorando, soprattutto grazie alla decisione dei vertici delle forze armate di proclamarsi ripetutamente fedeli servitori delle istituzioni. Anche in Italia, come in Francia dopo il caso Dreyfus, l'esercito è diventato « repubblicano ». Quindi non soltanto al servizio del Paese, ma anche della stabilità e della continuità istituzionale. Le alte gerarchie militari tendono a conservare un basso profilo, a parlare sommessamente anche quando avrebbero il diritto di alzare la voce per lamentare, ad esempio, la modestia dei finanziamenti o, peggio, la tenacia dei pregiudizi ostili.
Tutti i contratti per le forniture destinate alle forze armate debbono passare sotto le forche caudine del Parlamento, diventato molto inquisitivo. E le dotazioni finanziarie continuano a diminuire: non sono all' altezza delle aspettative della Nato, ma neppure dell'esigenza di quei periodici aggiornamenti a cui le forze armate, se vogliono conservare la loro efficienza, non possono sottrarsi. I vertici militari potrebbero organizzare una lobby per la tutela dei loro interessi, ma danno la sensazione di essere disposti a tutti i sacrifici. Sappiamo bene che certi magistrati vanno volentieri in televisione per esprimere le loro rimostranze. I capi di stato maggiore si astengono dal parlare pubblicamente anche quando lo Stato trascura i loro più elementari bisogni.
Quando negli anni '90, all' epoca del governo Ciampi, venne chiesto alle forze armate di realizzare un' operazione antimafia che non rientrava nei loro compiti istituzionali e nelle loro competenze, i vertici militari furono piuttosto infastiditi e preoccupati, ma lo dettero a vedere il meno possibile. Alla fine accettarono perché si resero conto che, al di là della sua effettiva utilità operativa, quella forma di presenza sarebbe piaciuta ai siciliani e avrebbe contribuito ad accrescere la popolarità dell' esercito nazionale.

M.L. - Anche nel caso molto più recente delle immondizie di Napoli, l'intervento delle forze armate piace molto alla gente.

M.C. - Certo, ma non dimentichiamo gli interventi più propriamente militari, che in varie regioni del mondo suscitano simpatia e creano prestigio

S.R. - Nelle missioni di pace, come per esempio in quelle del Libano o del Kosovo, la capacità di stabilire un buon rapporto con le popolazioni civili ha un'importanza fondamentale, e lo stile dei nostri soldati è apprezzato. Le forze armate italiane agiscono con serietà professionale, si dimostrano all' altezza dei loro compiti e hanno ormai una buona reputazione internazionale per questo particolare tipo di attività. Ma che cosa succederebbe se dovessero combattere?

Nel 2003 Berlusconi avrebbe voluto mandare le nostre truppe a combattere in Iraq. Ma non poté farlo perché Giovanni Paolo II - seguito dalla grande maggioranza della società italiana - espresse contro questa guerra una posizione contraria ancora più netta di quella che aveva assunto al momento della guerra del Golfo nel 1991. Anche il presidente Ciampi fu contrario e si appellò all' articolo Il della Costituzione: «L'Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali ... » È chiaro che sulla carta nessuno vorrebbe la guerra, come nessuno vorrebbe una catastrofe naturale. Ma le guerre, come le catastrofi naturali, hanno la cattiva abitudine di non dare retta a chi le ripudia.


M.L. - Quell' articolo della Costituzione va collocato nel contesto del dopoguerra, quando è ancora fresca la memoria della guerra perduta dall'Italia di Mussolini al fianco della Germania nazista. Mi pare comunque che la cultura della pace come valore etico supremo, ma anche come efficacissimo strumento di azione politica, faccia ormai parte integrante dell'identità nazionale dell'Italia repubblicana.
Ciò è legato ovviamente al peso secolare della tradizione pacifista cattolica, benché perfino la Chiesa ammetta l'esistenza di guerre giuste. Verso la fine della messa, ogni fedele stringe la mano del suo vicino in segno di pace. Non dimentichiamo poi la cultura comunista, molto forte in Italia per vari decenni, la quale all' origine non è affatto pacifista, però negli anni della guerra fredda usa abilmente (e suggestivamente) la lotta per la pace come argomento di difesa dell'Unione Sovietica contro l'imperialismo americano. Così nasce una cultura della pace di matrice comunista, e anche dopo la scomparsa dell'Urss e del Pci il termine «pace» rimane una delle parole-chiave della sinistra italiana.
La marcia della pace che ogni anno viene effettuata a piedi da Perugia ad Assisi è uno dei simboli della convergenza fra cultura cattolica e cultura comunista, divenuta poi postcomunista. È significativo che alcune delle manifestazioni più grandiose contro l'ultima guerra in Iraq si svolgano proprio in Italia, sempre accompagnate dalla famosa bandiera multicolore che fa il giro del mondo intero.
Non a caso, quando vengono colpiti i soldati o i carabinieri mandati all'estero, c'è in Italia un'intensissima emozione collettiva che dobbiamo considerare come un momento forte di unità nazionale. Dopo l'atroce attentato suicida di Nassiriya del 12 novembre 2003 (ventotto morti, di cui diciannove italiani e nove iracheni), tutta 1'11talia dal Nord al Sud s'inchioda commossa davanti agli schermi televisivi per guardare le bare che arrivano a Roma, il composto dolore dei congiunti e il presidente Ciampi che dà l'estremo saluto.

S.R. - Esiste in sostanza una grande maggioranza di italiani che sono contrari all'invio di truppe all' estero anche per missioni umanitarie. D'Alema fu aspramente criticato quando mandò le forze armate in Kosovo. Lo fece malgrado le critiche perché non poteva correre il rischio che a Washington si dicesse: «E ancora un comunista ».
Il diffuso atteggiamento pacifista è confermato dal fatto che le divise, quando non sono quelle della polizia, dei carabinieri e dei vigili urbani, sono sparite dal panorama italiano. Al tempo del mio servizio militare, le strade erano ancora piene di gente in uniforme, perché i militari indossavano la divisa anche in libera uscita. Oggi invece soltanto le forze dell' ordine, per tranquillizzare i cittadini, devono continuare a essere riconoscibili. Le altre divise sono scomparse.

M.C. - Tutti ricordiamo l'epoca in cui per la sinistra italiana la coscrizione obbligatoria è un baluardo di democrazia contro l'esercito di mestiere, ritenuto il complice pressoché inevitabile dei colpi di Stato di estrema destra. Oggi invece l'abolizione del servizio militare suscita unanime consenso. La professionalità delle forze armate appare cresciuta, anche se per fortuna non abbiamo ancora avuto l'occasione di sperimentarla sui campi di battaglia. E certamente non viviamo sotto una dittatura militare ...

M.L. - È vero, la sinistra italiana non è più ossessionata dal timore di un colpo di Stato militare, alimentato dalle famose inchieste giornalistiche sul generale Giovanni De Lorenzo negli anni '60, e accentuato dalla salita al potere di Pinochet in Cile nel 1973.
È altrettanto vero che la fine della coscrizione obbligatoria può anche essere interpretata come la morte della concezione secondo cui il servizio militare forma i buoni cittadini di domani mescolando i giovani delle varie regioni e obbligandoli a una disciplina comune, quindi come un fattore di indebolimento della coesione nazionale. Ma questa percezione negativa mi sembra molto meno presente in Italia che in altri Paesi.
Il prestigio delle forze armate italiane è certamente elevato, anche se la sfilata militare del 2 giugno, rilanciata da Ciampi e proseguita da Napolitano, resta meno simbolica del 14 luglio francese sugli Champs- Élysées in termini di riaffermazione dell'identità nazionale. Tra l'altro, ai vertici stessi delle istituzioni italiane c'è qualcuno che tiene a prendere le distanze, pensando di interpretare gli umori popolari, dunque di rendersi simpatico e di aumentare la propria popolarità.
Ricordate? Alla sfilata del 2009, proprio nel momento in cui il coro dell'inno di Mameli intona il celebre « Siam pronti alla morte! », dalla tribuna d'onore Berlusconi fa una smorfia d'ironia e un gesto di relativismo con la mano che vengono riproposti da tutti i telegiornali, e che francamente sarebbero impensabili in Francia. Se a Parigi il capo dello Stato o il primo ministro si comportassero allo stesso modo mentre ascoltano «Aux armes CIItoyens ... » ne nascerebbe un vero scandalo nazionale.
Anche in Francia ormai ben pochi sono disposti a moorire per la patria, ma a mio parere certe perspicaci intuizioni umoristiche - in qualsiasi Paese - diventano molto inopportune, anzi inaccettabili, se provengono dal capo del governo.

S.R. - Considerato che nel nostro brutto mondo la guerra purtroppo esiste, la difesa del proprio Stato comporta dei rischi, e i rischi non possono essere esorcizzati con la retorica delle preghiere e dei buoni propositi. Avevamo creduto di addomesticare il pacifismo integrale con la professionalizzazione delle forze armate: dopo tutto, un professionista della guerra deve mettere in conto la possibilità di morire. Ma gli italiani, per tutti i motivi che sappiamo, non ragionano così, e l'idea che qualcuno dei nostri possa morire in Afghanistan viene considerata intollerabile. Conosco gli inconvenienti e temo l'inutilità di quell' operazione militare, ma cerco di ricordare ai miei lettori che l'Italia fa parte di un' alleanza. E questa alleanza, che tra l'altro a me piace pochissimo, implica alcuni vantaggi ma anche alcuni obblighi. Come è noto, le alleanze non sono degli alberghi con le porte girevoli, da cui uno può entrare e uscire a piacimento. Insomma, l'Italia è attualmente in Mghanistan per onorare i suoi doveri verso gli Stati Uniti che hanno bisogno di aiuto, ma contro la volontà della propria opinione pubblica che non vorrebbe far correre rischi a nessuno dei suoi figli.
Forse Marc Lazar ha ragione quando constata i progressi del sentimento nazionale in Italia. Ma questo sentimento, per non restare pura retorica, può e deve essere misurato con un solo criterio: quali sacrifici siete disposti a fare per il vostro Paese? In altri termini, se qualcuno riproponesse agli italiani il celebre quesito di Kennedy (<< Non chiedetevi ciò che il vostro Paese può fare per voi, chiedetevi piuttosto quello che voi potete fare per il vostro Paese »), probabilmente tutti piangerebbero di gioia, perché troppo spesso nei miei connazionali il gusto dello spettacolo prevale su qualsiasi altra esigenza. Ma poi rimarrebbero quelli che sono, cioè un popolo che non è particolarmente disposto a fare sacrifici per il proprio Paese.
Ecco perché a mio avviso il 2 giugno 2009 Berlusconi, con il suo scanzonato cinismo, ha messo il dito sulla piaga di un vizio nazionale. Bisogna riconoscere che ha il senso dell'umorismo.

M.L. - Questa è la grande critica americana, rivolta con forza dal presidente Bush alla «vecchia Europa », non solo all'Italia: nessuno è pronto a sacrificarsi. Ma la risposta di chi detiene responsabilità di vertice non può essere semplicemente spiritosa.

S.R. - Certo, al posto di Berlusconi non lo avrei fatto. Ma avrei pensato che tra gli umori del Paese e le parole dell'inno vi era una stridente contraddizione.

M.L. - Le classi dirigenti devono dare l'esempio, saper andare controcorrente rispetto all' opinione pubblica, non diventare complici indulgenti dei vizi dei propri compatrioti. Inoltre, un inno nazionale esprime linee di tendenza, passioni collettive, e non si propone di fornire un'immagine realistica della società.
Il nesso fra guerra e pace appassiona e angoscia l'umanità da sempre. Ecco un piccolo aneddoto francese. Al marito militare di una mia cugina chiedo il perché della sua scelta professionale, e lui mi dice: «Per salvare la pace ». Il che corrisponde al notissimo adagio latino: «Si vis pacem, para bellum ». Infatti, il giovane ammette: «Se costretto, farei la guerra, ma solo per ristabilire la pace ». Dunque non è un pacifista integrale come ce ne sono molti in Italia, o anche in Germania dove negli anni '80, di fronte alla minaccia nucleare sovietica, nasce lo slogan antimilitarista: «Meglio rossi che morti ».
Vero è che in Francia c'è una lunga tradizione bellicosa, e che la guerra - malgrado alcune dolorose sconfitte fa parte dell'identità nazionale francese. Nel 1991, Frannçois Mitterrand, uomo di sinistra, spiega alla televisione che ci sono momenti nei quali un Paese deve fare delle scelte, e che pertanto la Francia parteciperà alla guerra del golfo contro l'Iraq. Di fronte a un evento futuro analogo all'invasione del Kuwait, credo che Sarkozy o Ségoolène Royal o altri si comporterebbero proprio come Mitterrand, e si assumerebbero la stessa responsabilità.

M.C. - In queste conversazioni non cessiamo di sottolineare la popolarità dei carabinieri, di questo corpo militare molto particolare cui vengono affidate funzioni di ordine pubblico. Ma anche la polizia - su cui la sinistra nutriva forti riserve nel ricordo della sua utilizzazione repressiva contro manifestazioni politiche o sindacali, ai tempi in cui Mario 5celba era presidente del Consiglio o ministro dell'Interno - conosce attualmente una stagione di favore popolare.

M.L. - È vero, ma il tema della sicurezza continua a essere percepito come un problema molto grave, non a caso ricorrente nelle campagne elettorali.
C'è molta paura nell'Italia di questi anni. Ed è interessante notare che l'insicurezza non viene imputata alle eventuali carenze delle forze dell' ordine, a una loro cattiva organizzazione o cattiva volontà. Viene imputata piuttosto, e questo mi sembra inquietante, all' eccessivo numero di immigrati clandestini che si suppongono animati da una selvaggia propensione a delinquere, e che carabinieri e polizia - malgrado le loro capacità operative - non riescono a controllare.

Scuola, università, cultura

M.C. - È fin troppo evidente che la capacità o incapacità di formare efficacemente i propri giovani è uno degli ingredienti fondamentali dell'immagine nazionale di un Paese. Il sistema scolastico e universitario italiano sembra come travolto dalla propria stessa crescita ...

S.R. - Sì, soprattutto a partire dagli anni '60, l'Italia volle integrare nel suo sistema scolastico quella parte della società che fino ad allora ne era rimasta pressoché esclusa. Per reazione contro il cosiddetto « elitismo » esplose allora l'istruzione di massa, con la scuola media unica e il liceo aperto a folle di nuovi studenti che cominciarono a superare gli esami di maturità con percentuali non lontane dal 100%. Dopo il crollo dello sbarramento costituito dalla licenza liceale, abbiamo assistito a un progressivo declassamento del sistema universitario, costretto anch' esso a adeguarsi all' aumento della popolazione scolastica.
Il risultato è un sistema dove non c'è più selezione, dove i timidi tentativi di creare qualche forma di numero chiuso vengono subito contraddetti da sentenze della giustizia amministrativa. Eppure illustri professori scrivono articoli intitolati pressappoco «lo non sono per la scuola che boccia », mentre qualcun altro afferma che «La scuola che boccia è una scuola che ha fallito ». Che argomenti del genere facciano parte del dibattito pubblico è sconcertante e deprimente. È inutile aggiungere che questo regime non selettivo conduce in realtà alla peggiore selezione antidemocratica, anzi classista. I giovani provenienti da famiglie modeste escono dalla scuola con diplomi che non valgono nulla, mentre chi dispone di mezzi finanziari può frequentare le università private, in Italia e all' estero.
Tutto questo non significa che gli italiani siano ormai incapaci di realizzare prodotti intellettuali di qualità. Ma ciò avviene attraverso scelte personali o piccoli circuiti spontanei. Voglio dire che l'università non è più l'equivalente di una buona libreria, dove un venditore competente consiglia i libri da leggere. È un supermercato dove il cliente può comprare il peggio o il meglio a seconda della sua preparazione e della sua capacità di discernimento.
M.C. - Questa crisi dell'università tradizionale non è un fenomeno soltanto italiano, vero? Marc Lazar frequenta il mondo universitario francese e italiano da qualche decennio ...

M.L. - Sì, tutto quello che ha detto Sergio Romano per l'Italia si potrebbe ripetere per tanti altri Paesi europei, perché il processo di democratizzazione del sistema scolastico e accademico ha condotto in realtà alla massifìcazione, cioè al livellamento verso il basso. Il problema non è soltanto quello di realizzare una fotografia esatta della situazione, ma anche di vedere quale tipo di orientamento possiamo dare ai giovani.
La parola « selezione» è tabù. In Francia, parlare di selezione equivale a far scendere subito in strada alcune decine di migliaia di manifestanti. Però il problema è proprio quello di fornire alla minoranza di giovani dotati e meritevoli la possibilità di proseguire i loro studi fino ai livelli più elevati, a vantaggio del loro Paese e anche ovviamente di loro stessi.
Vorrei ribadire che, malgrado tutto, la formazione culturale fornita dal liceo classico resta un elemento significativo dell'identità nazionale italiana. In altri termini, l'importanza fondamentale attribuita alle discipline umanistiche è un dato tipicamente italiano che non si ritrova altrove. Il latino, il greco ... E i manuali di storia sono grossi libri con molto testo. L'analogo programma di Storia degli studenti che fanno la maturità in Francia è condensato in piccoli libri con molte foto e pochissimo testo.
Anche lo studio minuzioso della storia della filosofia è una forma di retorica molto italiana. Spero di non offendervi rivelando che è grazie alla conoscenza dei programmi del liceo classico che ho potuto finalmente capire come mai nei convegni internazionali gli italiani hanno spesso difficoltà a contenere la loro relazione nei venti minuti previsti. E quando come presidente di sessione sono costretto a dire: «Mi dispiace, il tuo tempo è terminato », mi sento magari rispondere: «Ma sono solo alle premesse dell'introduzione ... »
L'erudizione italiana è una cosa seria, il liceo classico abitua a una vera assimilazione dei testi, a una ragionata costruzione retorica della formulazione di un tema. E l'abitudine - prima di affrontare un argomento - a riassumere i vari interventi precedenti in proposito, può anche diventare una forma di prolissità, ma fondamentalmente contribuisce al rigore della discussione. I miei studenti italiani della Luiss spesso provengono da licei che li hanno formati molto meglio che gli studenti francesi di Sciences Po.

M.L. - Anche la Francia, malgrado gli sforzi importanti di Sarkozy! Sono impressionato dal numero di grandi talenti tra i professori universitari e gli studiosi italiani, però la competitività internazionale e la capacità di attrazione delle loro facoltà restano basse. Anche a causa del probleema della lingua, ancora più acuto che per il francese, dato che pochissimi studenti di altri Paesi conoscono l'italiano. Il grosso degli arrivi è costituito da studentesse interessate a materie artistiche tradizionali: canto, musica, pittura, scultura ... Ma l'Italia fatica ad attirare stranieri per le discipline più avanzate, anche per quelle dove i suoi studiosi raggiungono ottimi risultati scientifici.
Per attrarre studenti a livello internazionale sarebbe necessario un enorme sforzo. Solo alcune università private lo stanno facendo: per esempio, la Bocconi e la Luiss organizzano sempre più corsi in inglese per superare il problema linguistico. Questo naturalmente non impedisce di imparare l'italiano al giovane cinese che vivrà per quattro anni a Milano o a Roma, e magari avrà anche una fidanzatina locale.

M.C. - Per le università italiane l'uso dell'inglese non crea problemi di immagine altrettanto imbarazzanti che in Francia. L'università di scienze gastronomiche di Pollenzo in Piemonte - prima nel mondo in questo campo - tiene i suoi corsi in inglese.

M.L. - Infine c'è la questione della fuga dei cervelli, che non trovando lavoro in patria vanno altrove. Il mondo « aperto» è una bellissima cosa, però questa apertura non va a vantaggio della nazione italiana, che attira pochi cervelli e ne esporta molti, spesso di alta qualità.
E evidente che la società civile da sola non può risolvere le grandi sfide del mondo di oggi e del futuro dell'Europa: anche i pubblici poteri debbono mobilitarsi. Andiamo verso una «società della conoscenza », e più cospicui investimenti nella ricerca e nella cultura saranno certamente indispensabili da parte dei governi dell'Italia di domani.

M.C. - Però in materia di università e ricerca !'Italia ha un grosso ritardo ...

M.C. - Qual è il rapporto degli italiani con la propria cultura? Ecco un altro elemento fondamentale dell'identità nazionale! L'Italia resta un Paese la cui produzione culturale è capace di interessare un pubblico mondiale, anche se la sua lingua non è più così diffusa come lo era fra i dotti dell'Europa del Settecento. Alcuni suoi scrittori viventi, come Umberto Eco e Andrea Camilleri, sono tradotti ovunque. E il cinema italiano, pur restando lontano dai fasti degli anni '40-'60, quando regnava la generazione felice di una decina di registi amati in tutto il mondo, sembra comunque in ripresa. Carrone, Servillo, Sorrentino sono nomi di grande risonanza internazionale.

S.R. - Quanto al rapporto degli italiani con la loro cultura, il quadro generale è fornito da dati che tutti possono procurarsi: tiratura dei giornali, libri pubblicati, libri venduti, numero delle traduzioni. Si tratta di un' editoria di buon livello, ma il panorama non è particolarmente esaltante perché il bacino di lettura resta ridotto.

Se la domanda invece vuol sollecitare un giudizio storico, direi che, paradossalmente, l'Italia comincia a perdere la sua importanza culturale dopo l'Unità. Ci sono anzitutto ragioni politiche: il Mediterraneo diventa un condominio franco-britannico e la lingua italiana perde peso proprio nell'area in cui dovrebbe, dal punto di vista geoculturale, avere un ruolo centrale. Ma forse altre ragioni, specificamente culturali, sono più importanti. La produzione letteraria della seconda metà dell'Ottocento presenta qualche punta elevata, ma mediamente è abbastanza modesta. Si tratta di una letteratura che parla un linguaggio vecchio, polveroso, non moderno. Il romanzo italiano dell' epoca, rispetto a quello francese o russo, è pressoché illeggibile. I libretti musicali, materia prima del grande melodramma italiano, sono scritti in una lingua artificiale, improbabile, incomprensibile.
La situazione migliora nettamente nel Novecento, ma il periodo davvero vivace per la letteratura italiana è il secondo dopoguerra. Curiosamente, la generazione del fascismo, i nati durante il fascismo, e soprattutto coloro che sono stati cresciuti e educati durante il fascismo, scrivono buoni romanzi e buone poesie, fanno buoni film.

M.L. - Francamente a me piacciono molto i libri di Baricco, formato non dal fascismo ma dalla repubblica. E c'è una letteratura recente che interessa molto in Francia, dove sono sistematicamente tradotti i giovani giallisti. Malgrado gli inevitabili scettici, anche il cinema italiano degli ultimi anni piace ai francesi, come dimostrano i recenti premi a Cannes e il proliferare di festival cinematografici dedicati in modo specifico all'Italia.
È vero però che l'interesse internazionale suscitato dal lavoro culturale delle generazioni precedenti appare più intenso, e quindi capace di stimolare maggiormente l'orgoglio patriottico degli italiani. In termini di rayonement mondiale contano soprattutto i grandi filoni del cinema, dal neorealismo alla commedia all'italiana, da De Sica a Monicelli, senza trascurare l'originalità geniale di Fellini e Visconti. Ma vanno ricordati anche i grandi personaggi della musica, come Abbado, Morricone, Muti, Pavarotti.

M.C. - Stiamo parlando di persone formate in un'epoca in cui gli studi erano ancora molto rigorosi, indipendentemente dal regime fascista che tali persone in genere detestavano.

S.R. - Quasi tutti i registi cinematografici italiani di qualità, divenuti internazionalmente noti nel dopoguerra, escono dal Centro sperimentale di cinematografia, una creazione del regime fascista, e fanno film fascisti fino al , 42, cioè fino all' anno in cui diventa chiaro che la Germania sta perdendo la guerra. Non è facile credere alla sincerità della conversione antifascista di Rossellini, Camerini, Blasetti, De Sica. Del resto, Moravia, Calvino, Bassani e Cassola, formati dal fascismo, hanno scritto ottimi romanzi, mentre la prima generazione educata dalla repubblica ha scritto spesso cose mediocri.

M.C. - Tornando al rapporto fra cultura e identità nazionale, vorrei ricordare che i film più amati nel mondo, quelli che consolidano il prestigio artistico dell'Italia ... sono proprio quelli che più aspramente la criticano.
Oltre al tema della pace, evocato con forza da Marc Lazar, anche la nobile vocazione all'autodenuncia fa parte dell'immagine dell'Italia, il che non sorprende visto che l'autodenigrazione è uno dei vizi nazionali più ricorrenti. Diversamente dal cinema dei telefoni bianchi dell'epoca fascista, che presenta gli appartamenti borghesi come rappresentativi della realtà del Paese, il neo realismo dell'immediato dopoguerra ne fornisce un ritratto poetico ma straccione, e mostra così quale in confessa bile realtà si celasse dietro certe gestualità altisonanti. Sessant'anni dopo, è ancora l'autodenuncia che riscuote gli applausi del pubblico internazionale, con il trionfo del film Gomorra, dedicato alla lucida ricostruzione dei meccanismi della camorra napoletana.

S.R. - Negli Stati Uniti degli anni '30 e' 40 - molto ispirati e motivati dal « sogno americano», l'American Dream - vi fu una importante cinematografia di denuncia, ma al tempo stesso ottimista. Il neorealismo italiano è chiaramente influenzato dalla produzione americana: denuncia i mali del Paese, ma è fondamentalmente ottimista. Tra la fine degli anni '50 e l'inizio degli anni '60 si passa alla cinematografia di « denuncia pessimista», caratteristica delle opere di Elio Petri, Francesco Rosi e altri registi. Ma può accadere, in alcuni casi, che l'autore della denuncia s'innamori dell' oggetto della sua requisitoria. Paolo Sorrentino confessa che durante la realizzazione de Il divo si è innamorato di Andreotti.

M.L. - Né le arti figurative né la letteratura hanno costituito fattori davvero determinanti per la coesione nazionale dell'Italia postunitaria. Sono mancate figure di artisti altrettanto universali e popolari quanto, per esempio, gli impressionisti francesi. Anche se non si può dimenticare la magnifica potenza creativa dei vari De Chirico, Carrà, Sironi, Boccioni, Morandi, Fontana, Medardo Rosso. Peraltro, l'Italia resta un Paese dove non si leggono molti romanzi: il pubblico è ancora più limitato che in Francia, e molto più limitato che nei Paesi protestanti.

Invece il cinema è sicuramente un elemento unificante, non soltanto quello « nobile », ma anche il cosiddetto « cinema panettone », che critici e intellettuali disprezzano, ma che ogni anno nel periodo delle feste riunisce milioni di famiglie italiane per ridere a crepapelle, da Milano a Palermo. I film di Natale interpretati da Christian De Sica sono così italiani da non poter neppure essere esportati all' estero, sarebbero incomprensibili in altri Paesi.

M.C. - E la musica?

M.L. - Anche la musica è un elemento molto forte di identità nazionale. C'è la tradizione dell' opera e del bel canto, che in alcune regioni coinvolge anche ceti proletari. Molti cittadini di basso reddito sono pronti a fare qualche sacrificio per assistere a uno spettacolo musicale di alto livello. Ogni anno, in coincidenza con la festa di Sant'Ambrogio, l'inaugurazione della stagione della Scala è sulla prima pagina di tutti i grandi quotidiani italiani, e i telegiornali ne parlano diffusamente. In Francia sarebbe impensabile che l'inauguration dell'Opéra Bastille vada sulle prime pagine.
Inoltre, c'è la canzonetta di musica leggera, che in nessun altro Paese del mondo gode di una popolarità cosÌ diffusa. Solo in Italia è concepibile una manifestazione caanora della grandiosità del Festival di Sanremo. Ormai perfino i muratori albanesi o romeni immigrati cantano mentre lavorano, si vede che questa abitudine tipicamente italiana di canticchiare per strada è fulmineamente trasmissibile agli stranieri.
Certe canzoni italiane - come Volare di Modugno, Un italiano vero di Toto Cutugno oppure Caruso di Lucio Dalla - sono veramente conosciute in tutto il mondo, si ascoltano alla radio e perfino (in sordina) nei lunghi corridoi dei grandi alberghi. Sono suoni che la grande maggioranza degli abitanti di questo pianeta associa allo stivale italico.
Per noi stranieri, l'Italia è davvero un Paese dove tutti sono un po' musicisti, e la vostra è davvero una lingua musicale, anche se questa affermazione talvolta vi sorprende o vi fa sorridere.

Lingua, televisione, informazione

M.C. - Nell'odierna cultura italiana, intesa non come patrimonio dei dotti bensì come sistema di valori sociogici dominanti, la televisione è forse il principale cemento unitario.
Infatti essa produce modelli di comportamento che la gente comune cerca di imitare, creando una certa omogeneità interregionale ignota fino a qualche decennio fa. Per esempio, l'impiegata di Savona e la commessa di Salerno vorranno entrambe assomigliare all'abruzzese Milly Carlucci, presentatrice della fortunata trasmissione Ballando con le stelle, vorranno vestirsi come lei, pettinarsi come lei, camminare come lei, parlare come lei. Certo, anche parlare, perché prima della diffusione capillare della televisione la maggior parte degli italiani si esprimeva nei rispettivi dialetti, mentre oggi la lingua italiana compresa ovunque dal Nord al Sud è quella televisiva: una lingua non « alta >i, ma utile come veicolo di comunicazione. Ricordo bene i tempi in cui nella Sicilia interna o nelle valli del comasco erano in pochissimi a capire l'italiano: i tempi della trasmissione Non è mai troppo tardi.

M.L. - Secondo i sondaggi, c'è in Italia molta diffidenza verso l'insieme dell'informazione, e verso quella televisiva in modo particolare, anche se è molto seguita. Quindi - pur considerando che il conflitto di interessi è un problema cruciale - non credo che i successi elettorali, peraltro abbastanza discontinui, di Berlusconi possano essere meccanicamente spiegati con il suo controllo delle televisioni.
Il discorso sulla televisione si collega con quello sull'informazione, essendo entrambe strumenti fondamentali della coesione nazionale. Qual è la percezione che gli italiani hanno della televisione? E più in generale dell'informazione (stampa scritta, telegiornali televisivi, siti internet)?

Quello che invece mi stupisce molto nell'informazione televisiva, sia Rai che Mediaset, è la sua poca apertura sul mondo. A differenza dei grandi giornali della stampa scritta, la televisione è molto centrata sull'informazione nazionale, come se al pubblico ciò che avviene all' estero non interessasse. Ma è davvero così?

S.R. - Esiste probabilmente un rapporto tra la modesta diffusione dei quotidiani in Italia e il ruolo molto particolare assunto dalla televisione, che ha il merito di aver unificato il Paese, insegnando l'italiano alla maggioranza dei nostri concittadini. Ma al tempo stesso ha la colpa di averne fatto un popolo di teledipendenti, bloccando sul nascere un fenomeno che avrebbe dovuto andare di pari passo con la crescita culturale, cioè l'espansione della stampa quotidiana come strumento di informazione, di analisi, di espressione delle opinioni in tutta la loro complessità.

M.L. - Anch'io sono molto impressionato dalla presenza ossessiva della televisione nella vita italiana. Quando si va a cena da persone anche di buon livello sociale e culturale, spesso l'apparecchio resta acceso a lungo, e talvolta i padroni di casa si mettono a commentare con gli amici, in simultanea, i programmi in corso.
In Francia siamo all' estremo opposto. Appena gli ospiti suonano alla pona, subito la televisione viene spenta perché nessuno vuol far sapere che la guarda, nessuno vorrebbe essere considerato come una di quelle volgari persone che la seguono regolarmente. E infatti molti dicono che non la guardano mai, anche se spesso non è vero. Il che può diventare abbastanza ridicolo.

S.R. - La televisione sconvolge il codice della buona educazione, cioè un fondamentale strumento di coesione sociale. Gli italiani sembrano avere perduto quelle regole del vivere in comune che sono così utili per rimuovere o addolcire i molti ostacoli che ogni persona incontra quotidianamente sulla sua strada. Lo dimostrano l'uso selvaggio dei telefoni cellulari, la conversazione privata rumorosamente esibita in pubblico, i comportamenti al ristorante o in treno. E pensare che l'Italia è il Paese dove, a metà del Cinquecento, monsignor Giovanni Della Casa codificò con il suo Galateo le regole della cortesia.
Bisognerebbe rileggere un libro ben più recente di Giovanni Ansaldo, pubblicato nel 1947 con lo pseudonimo di Willy Farnese, da Leo Longanesi: Il vero Signore. Manuale di belle maniere. E un libro un po' nostalgico sul galateo della borghesia negli anni in cui la promozione sociale era legata all' adozione di uno stile dignitoso e decoroso.

M.C. - Questo eroe borghese è veramente agli antipodi dell'idea velleitariamente aristocratico-plebea che molti italiani di oggi coltivano di se stessi. L'accanimento parodistico, con echi gogoliani, contro la figura del piccolo borghese incarnato da Fantozzi, è anche il riflesso di questo atteggiamento. Il nuovo italiano non vuol essere un dignitoso signore attento alle buone maniere, bensì una persona che ride schietto e parla forte perché non gli importa nulla di nascondere la propria vita privata, che guarda programmi popolari alla televisione e non se ne vergogna. Ma vediamo le altre caratteristiche dell'informazione in Italia.

S.R. - Una caratteristica fondamentale del giornalismo italiano è la sua proprietà. Sia i giornali sia le televisioni appartengono a proprietari che non sono prevalentemente interessati alla loro azienda giornalistica. Neppure l'editore « puro» di una testata giornalistica o radio televisiva, beninteso, è sempre politicamente neutrale. Murdoch non lo è mai stato, ma si suppone che il suo principale interesse, in definitiva, sia quello di rendere la sua azienda la più fiorente possibile, e non di corteggiare oppure attaccare questa o quella personalità politica, per motivi completamente estranei ai suoi obiettivi di editore.

M.C. - Dunque, anche le grandi televisioni nazionali hanno proprietari le cui motivazioni politiche vanno oltre gli aspetti gestionali ...

S.R. - La Rai è un condominio nel quale il socio di maggioranza cambia a seconda del risultato elettorale, e un certo spazio resta comunque riservato alla minoranza. Non è vero che nella Rai d'oggi non sia presente la sinistra, come non è vero che nella Rai dell' epoca di Prodi fosse assente la destra.
Invece Mediaset è stata, sino alla « discesa in campo» di Berlusconi, una televisione alla Murdoch, vale a dire caratterizzata da una prevalente motivazione aziendale. Poi divenne veramente la televisione di Berlusconi, anche se, non potendo contare sul canone, vive di una raccolta pubblicitaria che dipende in ultima analisi dagli indici di ascolto, cioè dalla necessità di soddisfare un vasto pubblico diffondendo programmi non troppo sbilanciati politicamente. In altri termini, mentre il Giornale è certamente la « Gazzetta di Berlusconi », Mediaset deve amministrare la sua linea politica con maggiore prudenza. Fedele Confalonieri è ancora, nonostante tutto, un editore.

M.C. - Il sistema informativo è un ingrediente importante dell'identità di un Paese. Non è lunghissima la lista delle aziende giornalistiche o radio televisive di dimensione nazionale, che tutti conoscono e che compongono il mosaico dell'informazione cui tutti hanno occasione di accedere.
Innumerevoli sono invece le radio e televisioni locali, anzi l'Italia è prima al mondo per il rapporto fra numero di emittenti locali e popolazione, e numerosissimi sono i quotidiani della stampa regionale, spesso di buon livello. Questo settore dell'informazione è dotato di una grande libertà d'azione perché gode di un privilegio straordinario, quello di essere generalmente non deficitario, anzi piuttosto florido.

S.R. - Sì, il gruppo Espresso-Repubblica ha una sua catena di giornali. Il Corriere della Sera ha creato con gruppi locali il Corriere del Veneto, il Corriere del Mezzogiorno, il Corriere del Trentina. Ci sono poi aziende giornalistiche, per esempio a Bergamo e Brescia, dove si assiste a partecipazioni molto proficue degli industriali e delle diocesi. Il Gazzettino, la Gazzetta di Parma e L'Arena di Verona, testate popolarissime nelle loro aree, sono fra i più antichi quotidiani italiani.
Soprattutto nelle province più prospere, questi giornali danno buoni risultati finanziari grazie alle tirature relativamente elevate, ai minori costi di produzione e di distribuzione, ai flussi pubblicitari, solo marginalmente legati alle alterne vicende dei grandi cicli economici.

M.C. - Ma gli italiani hanno fiducia o no nel loro sistema d'informazione?

S.R. - Come si dice in linguaggio commerciale, esiste una certa fidelizzazione. Fra le lettere che vengono indirizzate alla mia rubrica, molte cominciano con le parole: « Sono un abbonato del Corriere», parole dietro le quali si legge: « Appartengo alla famiglia, quindi ho diritto a una risposta ». Acquisire lettori fedeli è un' aspirazione legittima di tutti i giornali e questa fidelizzazione può essere considerata come un fenomeno positivo. Può diventare negativa, tuttavia, quando è fondata sulla convinzione che le idee del giornale debbano corrispondere fedelmente alle idee del lettore, sull' aspettativa che il giornale tranquillizzi ogni mattina il suo lettore dicendogli: « Hai ragione ».

M.C. - Nell'edicola di un aeroporto internazionale, la stampa italiana è immediatamente riconoscibile rispetto a quella di altri Paesi europei a causa di una caratteristica molto particolare, che dunque va considerata come una parte della nostra immagine nazionale.
Sulle prime pagine dei quotidiani italiani, l'informazione « alta» e «bassa» è mescolata, nell'evidente intenzione di raggiungere un pubblico molto vario. Le Monde non aprirà mai con un disastroso incidente autostradale dove undici persone hanno perso la vita. In Inghilterra da una parte ci sono i giornali popolari ad altissima tiratura che mai proporrebbero ai loro lettori un raffinato editoriale di Sergio Romano, e dall'altra i giornali seri e prestigiosi. Invece il Corriere della Sera, la Repubblica, La Stampa possono, anzi debbono altrimenti perderebbero copie - affiancare l'articolo sulla crisi della costruzione europea al truculento servizio di cronaca dedicato al pazzo che ha strangolato la moglie e aperto il fuoco sulla folla. Chi ha ragione?

M.L. - Effettivamente questa particolarità della stampa italiana può sorprendere molto gli stranieri.

S.R. - Il giornalismo italiano è nato in un Paese dove, nell'Ottocento, il bacino di lettura era relativamente ristretto e il tasso di analfabetismo molto elevato. Per sopravvivere, i giornali dovevano appagare i gusti di una larga area di lettori. Nacque così il giornale « omnibus », in cui c'è un po' di tutto: cronaca bianca e nera, politica interna, economia e finanza, inchieste, curiosità, sport, informazioni dall' estero, spettacoli, moda, pettegolezzi, cultura, analisi.
Questa peculiarità rimane una grande servitù, dalla quale il giornalismo non è mai riuscito a riscattarsi. Ha tentato, ad esempio, creando un tabloid italiano. Non mi riferisco a la Repubblica che, pur avendo quel formato, non è un tabloid nel senso anglo-americano, cioè un giornale popolare, di cronaca e pettegolezzi. Mi riferisco al quotidiano L'Occhio di Maurizio Costanzo, edito da Rizzoli fra il 1979 e il 1981, destinato ad attraversare come una cometa il cielo del giornalismo nazionale. Una decina d'anni più tardi, sul versante opposto, si cercò di creare un giornale di opinioni, analisi e informazioni molto distaccate. Nacque così L'Indipendente di Riccardo Franco Levi, che però visse, nella sua formula originaria, soltanto dal 1991 al 1992.

M.C. - Quello che invece sembra piacere a una parte degli italiani è la versione moderna di certe gazzette di moda nella Francia tra fine Ottocento e inizio Novecento: un giornale di poche pagine ma che fà baccano, agitando qualche problema con lo stile molto personale del suo direttore ...

S.R. - Questo è anzitutto lo stile del Foglio di Giuliano Ferrara, e in parte del Riformista di Antonio Polito. Anche Libero è un po' così. Sono giornali di battaglia, di polemica, già esistenti nell'Italia prefascista e sopravvissuti, per certi aspetti, nella stampa fascista dei Guf e delle varie associazioni giovanili, ora rinati con tirature molto limitate grazie a sussidi pubblici. Hanno avuto inoltre un forte incremento i giornali gratuiti, finanziati soltanto con i proventi pubblicitari, e ormai non più veramente pessimi sul piano qualitativo. Com'è ovvio, subiscono in misura maggiore i contraccolpi dei cicli economici negativi, ma per fortuna in Italia non debbono scontrarsi con ostracismi come un famoso tentativo di soffocarli clamorosamente fallito in Francia. Anzi, negli ultimi anni alcuni importanti quotidiani nazionali hanno creato o comprato una testata gratuita, nella convinzione che valesse la pena di individuare e soddisfare i gusti di un pubblico nuovo, alquanto lontano da quello tradizionale.
Anche i giornali on line conoscono in Italia un successo considerevole, perfino maggiore rispetto ad altri Paesi europei. Certo è una lettura molto diversa rispetto alla carta stampata, anche quando si tratta dello stesso articolo, con lo stesso titolo.
M.C. - Esiste in Italia una vera « stampa nazionale »?

M.L. - Le due maggiori testate generaliste, Corriere della Sera e la Repubblica, mantengono un pubblico principalmente ancorato alle loro città di nascita, che sono poi le maggiori del Paese, ma dispongono di varie pagine locali realizzate nei maggiori capoluoghi regionali, e puntano a una diffusione molto « nazionalizzata », che comporta fra l'altro una costosa presenza di prestigio anche nei piccoli comuni più sperduti.
Sono le due « voci nazionali» dell'informazione italiana, però la Repubblica ha una distribuzione più equilibrata: si vende soprattutto in Italia centrale, ma anche in tutte le regioni del Nord e del Sud.

M.C. - È vero che in Italia i giovani non comprano più i giornali?
M.L. - È verissimo, ma non solo in Italia! Il mio lavoro di professore universitario mi tiene a contatto con le nuove generazioni, a Parigi come a Roma, e quindi posso fornire una testimonianza diretta molto precisa. Il riflesso di comprare il giornale alla mattina oppure al pomeriggio (Le Monde) non esiste praticamente più. Qualcuno prende un quotidiano gratuito nella metropolitana o al supermercato, ma il grosso dei giovani attinge le informazioni dalla televisione e soprattutto dal computer. Il web è sicuramente un elemento che cambia molte cose.
È verissimo peraltro che, in Italia come in Francia, la stampa scritta locale resiste meglio di quella nazionale. La sua buona salute economica è dovuta a tutti i fattori già illustrati, ma soprattutto a un fatto sostanziale, e cioè che parla di tante piccole cose che interessano davvero alla gente. Non a caso, i quotidiani locali del gruppo Espresso Repubblica vanno ancora meglio della nave ammiraglia.

M.C. - Nell'analisi della stampa italiana abbiamo finora trascurato un settore molto significativo, e cioè quello della stampa periodica (mensili, trimestrali .. .), la quale produce pubblicazioni che hanno spesso una certa qualità grafica, e sono certamente destinate a un'obsolescenza meno rapida rispetto ai quotidiani. Inoltre, la stampa periodica consente di soddisfare tutte le curiosità di un mondo associativo che nella società italiana sta diventando sempre più importante. C'è la rivista per gli amanti della vela, quella per i fumatori di pipa, e così via.

S.R. - Il fenomeno delle riviste dedicate a specifiche categorie d'interessi esiste da molto tempo nella stampa anglo-americana, ma è più recente in Italia, anche perché fino a 30-40 anni fa mancavano da noi, in numero sufficiente, i potenziali destinatari di quelle pubblicazioni. Non vi erano né abbastanza proprietari di barche a vela sui mari, né abbastanza cultori e proprietari di macchine sportive, né abbastanza appassionati di archeologia o di estetica. Ma in una società italiana divenuta più prospera e varia, vi sono più desideri da soddisfare e la stampa, naturalmente, si adegua. Tra l'altro, spesso queste riviste non appaiono neppure nelle edicole perché si vendono solo per abbonamento.
Forse è buon segno per la formazione di una moderna identità italiana. Penso all'importanza che riviste come Tatler e Country House hanno avuto per la creazione della identità britannica fra l'Ottocento e il Novecento.

M.C. - E i settimanali?

S.R. - Credo che siano in declino. Panorama va forse un po' meglio dell' Espresso, che mi sembra avere perso lo smalto di qualche decennio fa. Però è interessante che anche nel settimanale si ripeta l'esperienza del quotidiano « omnibus ». Anche Panorama e L'espresso sono antologie di stili giornalistici e notizie che hanno destinatari molto disparati.
La verità è che in Italia non esiste un mercato in grado di assorbire un prodotto come The Economist, con la sua capacità di fornire alla classe dirigente internazionale le migliori informazioni e analisi su ciò che accade di importante nel mondo.

Sport

M.C. - Un grande giornale di cui non abbiamo ancora parlato, ma che certamente fa parte dell'identità nazionale italiana, è La Gazzetta dello Sport, primo quotidiano italiano quanto a numero di copie vendute.

M.L. - L'Italia è l'unico Paese d'Europa che ha tre quotidiani sportivi. C'è il Corriere dello Sport di Roma, c'è Tuttosport di T orino, c'è La Gazzetta dello Sport di Milano che è non soltanto il più venduto, ma anche l'unico reperibile all' estero.

Quando sono fuori dal loro Paese, gli italiani - in particolare i tifosi italiani - esibiscono La Gazzetta dello Sport come un segno di riconoscimento, quasi come una bandiera. È il giornale che simboleggia il loro legame, sportivo ma non solo, con la patria lontana.

M.C. - Effettivamente lo sport in generale e il calcio in particolare occupano un posto di enorme importanza nella vita italiana. Mi riferisco ai vari sport che nel nostro Paese vengono praticati in misura certamente più intensa di qualche decennio fa, ma soprattutto al sostegno emotivo dei tifosi
nei riguardi delle proprie squadre di calcio, cittadine o regionali, e ancor più della Nazionale.

M.L. - Sì, esiste questa enorme passione sportiva che sicuramente fa parte dell'identità nazionale, anche se mi pare un po' caricaturale l'affermazione secondo cui l'Italia esisterebbe solo al momento delle grandi partite diffuse in mondovisione, quando la squadra azzurra è in gara per la Coppa del Mondo.
Per la verità, fino all'inizio degli anni '50 a scatenare il delirio delle folle è il ciclismo, e soltanto in seguito il calcio conquista il primato in termini di popolarità. C'è il legame viscerale dei tifosi con la loro squadra locale, oppure - nelle città maggiori - il legame con la squadra che meglio incarnerebbe i propri tratti distintivi sociorali, donde le rivalità Roma-Lazio, Milan-Inter o Toriino-Juve, con la ricorrente benché non automatica contrapposizione fra ceti proletari di antico radicamento locale da una parte e ceti borghesi sorprendentemente uniti a immigrati e loro discendenti dall' altra parte.
Le competizioni internazionali accendono lo spirito patriottico, ma sarebbe un errore pensare che ciò avvenga soltanto nel campo calcistico. Per esempio, provate a guardare su Rai Uno un campionato di nuoto: resterete impressionati dal cambiamento di tono dei commentatori ogni volta che fa la sua apparizione un italiano o un'italiana. Questo elemento di forte passionalità, e di fierezza in caso di vittoria, ovviamente esiste anche in Francia e in altri Paesi. Ma in Italia può destare qualche stupore, visto che si parla così tanto di crisi del sentimento nazionale.

M.C. - Tra sport e politica i rapporti sono intensi ...

M.L. - Ricordate la finale dei Mondiali di Calcio 2006, in cui l'Italia batte la Francia ai rigori dopo la famosa testata di Zidane a Materazzi? Roberto Calderoli, all' epoca corrdinatore della Lega e vice presidente del Senato, dichiara: «Quella di Berlino è una vittoria della nostra identità, della nostra squadra che ha schierato lombardi, campani, veneti o calabresi, contro una squadra francese che ha schierato negri, islamici e comunisti». Qualche tempo dopo cominciano in alcuni stadi italiani le proteste razziste contro i giocatori di colore.
In Italia il problema non è tanto quello di sapere se la politica fa irruzione nel mondo sportivo, ma piuttosto di comprendere se lo sport - elemento fondamentale dell'identità nazionale - stia ormai condizionando le modalità stesse del fare politica. Berlusconi nel 1994 parla di « scendere in campo» e battezza «Forza Italia» il suo nuovo partito, proprio perché capisce che la domanda di orgoglio nazionale passa attraverso rivincite sportive: la nostra grinta calcistica può sconfiggere la sufficienza dei tedeschi, più forti nell' organizzazione economica, o l'arroganza dei francesi!
Questo elemento revanscista è riassunto con grande efficacia nella canzone dedicata da Paolo Conte a Gino Bartali, il leggendario campione ciclista che nel 1948, grazie all'entusiasmo suscitato dalla sua vittoria al Tour de France, distoglie l'attenzione degli italiani dall' attentato a Togliatti e quindi salva il Paese dalla guerra civile. Ecco le parole esatte della canzone: «Quel naso triste come una salita / quegli occhi allegri da italiano in gita / e i francesi ci rispettano / che le balle ancor gli girano ... »

M.C. - Nella passione nazionale per lo sport forse c'è anche la volontà di sfuggire alle miserie della vita quotidiana, di veder trionfare un mondo di campioni che sono i nuovi eroi della mitologia contemporanea, forti e leali ...

S.R. - Senza dubbio, ma tutto questo interessa al politico e all' operatore economico-finanziario soprattutto in relazione ai suoi specifici interessi, attuali e potenziali.
È vero che storicamente il ciclismo è più importante, ma poi ci si accorge che il campo sportivo dove si giocano le partite di calcio è il luogo ideale per riunire masse importanti di cittadini, cioè di elettori e di consumatori, tutti abbastanza manipolabili perché concentrati su uno stesso avvenimento e caratterizzati da un alto tasso di emotività. Così uomini più o meno potenti cominciano ad acquistare squadre più o meno grandi, a spendere grosse somme di denaro per comprare giocatori, per ingrandire e modernizzare gli stadi. È un investimento che produce generalmente perdite e ha quindi scopi diversi da quelli di una qualsiasi attività economica. Berlusconi non è il solo che abbia fatto questa scelta.
Nel frattempo alcuni gruppi estremisti, soprattutto della destra ma anche della sinistra radicale, cercano di impadronirsi dei campi sportivi, cioè di politicizzarli lanciando i loro messaggi a un pubblico che ha la febbre giusta, e che spesso già propende verso la destra o la sinistra secondo l'orientamento tradizionale delle varie tifoserie. La divisione del pubblico in gruppi contrapposti non è certo un fenomeno nuovo: accadeva già negli ippodromi bizantini dove le fazioni politiche portavano gli stessi colori di quelle sportive.

M.L. - Aggiungerei che fanno parte integrante dello spettacolo i commenti di coloro che vanno allo stadio, ma anche di coloro che ascoltano la radiocronaca della partita o che la guardano in televisione, e che proseguiranno la discussione il lunedì in ufficio o in fabbrica.
In questi commenti si ritrovano tutti gli stereo tipi nazionali, sia in caso di sconfitta che di vittoria. « Siamo proprio sfortunati, si vede subito quando un arbitro è venduto. Però è anche colpa nostra, non c'è serietà e finisce sempre così ». Oppure: « Con noi non c'è niente da fare, vinciamo perché siamo grandi, siamo i migliori! »

S.R. - Le pagine sportive dei giornali sono uno straordinario laboratorio linguistico, e forniscono ai tifosi un vero patrimonio di immagini letterarie da usare nelle discussioni. Lo sport offre possibilità praticamente illimitate alla fantasia narrativa, il suo pubblico ha voglia di sognare, vuole un cattivo da odiare e un idolo da venerare.
Ai tempi d'oro del ciclismo, essere incaricati dal giornale di seguire il Giro d'Italia non fu affatto considerato un incarico minore da grandi giornalisti e scrittori come Orio Vergani, Indro Montanelli odino Buzzati.

M.L. - Il Giro d'Italia è particolarmente interessante perché, passando da una regione all' altra, è una lettura completa della nazione. Sugli schermi televisivi si vedono cambiare i paesaggi, si ammirano le bellezze architettoniche delle varie città.
M.C. - Nel completare la nostra conversazione sullo sport, non possiamo dimenticare il tema delle violenze che le passioni sportive arrivano a scatenare. Permettetemi di citare Marcello Lippi, che tutti ricordano nella veste di commissario tecnico della nazionale italiana di calcio e di vincitore della Coppa del Mondo nel 2006: « La violenza negli stadi non esiste quasi più, perché controllare uno stadio non è facile, ma è possibile. Purtroppo però la violenza persiste fuori dagli stadi, prima e soprattutto dopo le partite ».

S.R. - Ma questo non è un fenomeno solo italiano. E l'Inghilterra? E l'Olanda? Se voi riunite alcune decine di migliaia di persone, le ubriacate con fiumi di birra e le scaldate al calor bianco con le alterne vicende di una partita di calcio, come volete che poi all'uscita non succeda qualcosa?

M.L. - Vado volentieri allo stadio, all'Olimpico a Roma come al Parco dei Principi a Parigi, e debbo constatare che non è affatto uno spazio omogeneo e unificato. In tribuna, una parte del pubblico arriverà perfino ad applaudire cavallerescamente la squadra ospite che sta giocando con classe, mentre nelle curve si vivrà il tifo allo stato puro. Il modo di guardare la partita cambia molto a seconda del posto in cui ci si trova, e anche naturalmente del livello di istruzione.
Come dimenticare l'entusiasmo di Pertini a Madrid nell'82, che balza in piedi per applaudire la squadra italiana fino alla vittoria finale? Il re di Spagna, al suo fianco nella tribuna d'onore, resta nobilmente composto.

Industria, agricoltura, enogastronomia

M.C. - A oltre sessant'anni dalla fine della guerra, l'Italia non è più un Paese prevalentemente agricolo. È ormai una delle maggiori potenze industriali del mondo ...

S.R. - Questa trasformazione ha avuto anzitutto l'effetto di migliorare considerevolmente la qualità dell' agricoltura.
« Noi », replicano gli italiani, « che produciamo una varietà ben superiore, ma non abbiamo unificato il mercato e redatto una lista completa per non burocratizzare un' arte che deve restare fedele alle sue tradizioni. »

S.R. - Secondo me, sulla questione dei formaggi la Francia ha partita vinta senza alcuna discussione possibile.

M.L. - Ma bisogna riconoscere che i vini italiani hanno conosciuto un progresso straordinario e sono vincenti sul mercato internazionale, dove i vini francesi sono un po' in difficoltà. L'immagine dell'Italia a tavola è globalmente in crescita. Non a caso, la maggior associazione gastronomica del mondo - creata per opporsi alla standardizzazione dei gusti, e presente in oltre cento Paesi - è nata e mantiene la sua sede centrale a Bra, in Piemonte, anche se vuol sottolineare il proprio carattere universale con un nome inglese: Slow Food
Recentemente in Francia la cucina si è molto aperta alle influenze straniere: mediterranee, asiatiche, eccetera. Come la moda, si è molto métissée. In Italia ci sono i ristoranti che voi chiamate « etnici », ma nell'insieme la vostra gastronomia resta abbastanza legata alle tradizioni locali. Vero è che la varietà culinaria italiana appare davvero straordinaria, e che quando un milanese va in un ristorante siciliano si sente un po' all' estero.

Moda e design, piccole e medie imprese

M.C. - Come tutti sanno, la creatività italiana non si esprime soltanto nelle forme culturali tradizionali (letteratura, arti figurative, musica, cinema, eccetera), ma anche attraverso prodotti industriali prestigiosi che raggiungono il vastissimo « mercato globale ». Sto parlando della moda e del design, settori nei quali !'Italia è uno dei Paesi-leader a livello mondiale.
Malgrado il quadro politico confuso, le carenze dei pubblici servizi e gli scandali a ripetizione, c'è un miglioramento facilmente constata bile dell'immagine del Paese. E non ci vuole grande perspicacia per comprendere che questa nuova immagine di raffinatezza è dovuta non soltanto all'enogastronomia di cui abbiamo appena parlato, ma anche al successo dei nostri stilisti e dei nostri designer, cioè dei nostri abiti e dei nostri mobili.

S.R. - Design e moda seguono percorsi diversi. Quello del design è per certi aspetti parallelo a quello delle arti figurative e della letteratura, nel senso che anche in questo caso i primi frutti importanti provengono da una generazione educata sotto il fascismo. Mentre il nazismo fa riferimento a canoni estetici molto antiquati, il fascismo invece ha una matrice futurista, e conserva una forte sensibilità per 1'architettura moderna. Il Bauhaus viene ucciso in Germania alla fine della Repubblica di Weimar, ma la sua influenza sopravvive in Italia più a lungo. È questa la ragione per cui un' ondata di nuovi oggetti, o meglio di vecchi oggetti disegnati con canoni nuovi, appare sul mercato italiano dopo la seconda guerra mondiale: è il risultato del lavoro di architetti formati negli anni '30. Poi naturalmente sopravviene la generazione successiva. Attualmente il design italiano non sta attraversando il suo periodo migliore, però mantiene un prestigio pazientemente consolidato nel tempo. Il Salone del Mobile di Milano continua a ottenere un' eco straordinaria sulla stampa internazionale.

M.C. - E la moda?

S.R. - La moda in Italia gode da sempre di un artigianato diffuso di grande qualità. Ancora in un recente passato ogni città, anche molto piccola, aveva le sue modiste e i suoi sarti. I sarti meridionali sono sempre stati particolarmente apprezzati. Senza dimenticare i piccoli laboratori che fabbricano bottoni, guanti, scarpe, cappelli, borse e borsellini. Ecco, immaginate una carta geografica costellata di puntini di eccellenza artigianale, che non fanno massa critica; questa è la carta italiana del passato. E confrontatela con una tradizionale carta francese della moda, dove quasi tutto è concentrato a Parigi. Ma poi all'improvviso, in questa Italia frammentata, sono apparsi alcuni personaggi di grande talento che hanno creato prodotti di successo usando, per realizzarli, la rete artigianale presistente. E così il patrimonio di straordinarie piccole eccellenze, già capillarmente distribuito sul territorio, ha cominciato a fare massa critica. Per certi aspetti, nel campo della moda, l'Italia è diventata una super-potenza, ma ha ancora le dimensioni e l'agilità di una goletta.

M.L. - Questi temi ci aiutano a riflettere su alcuni elementi fondamentali dell'identità nazionale italiana, su qualità che tutti riconoscono all'Italia: il gusto individuale del lavoro ben fatto, la creatività, l'ingegnosità, la duttilità.
Un giorno incontro un inglese che da anni ama comprare scarpe a Firenze, e mi viene di chiedergli il perché. Allora lui mi riferisce un aneddoto raccontato dal titolare di un grande negozio di Londra, il quale gli avrebbe detto di aver chiesto a un fabbricante francese di modificare un suo modello, spostandone la fibbia secondo il gusto britannico. Risposta negativa: gli inglesi non hanno che da cambiare i loro gusti. Risultato commerciale: zero. Lo stesso negoziante va in Italia e manifesta a un fabbricante la medesima esigenza. Risposta perfettamente opposta alla precedente: « Ma certo, non ci avevo pensato, è molto meglio se facciamo come dice lei!» Risultato commerciale: ordinazione immediata e creazione di un rapporto fiduciario che dura nel tempo. Ecco dunque l'importanza di una certa duttilità italiana.
La moda, il design, ma anche la ristrutturazione delle case, e soprattutto la capacità di inserire le comodità più moderne nella fascinosa cornice di strutture abitative antiche, sono altrettanti aspetti di quell'idea italiana della bellezza come valore costante della vita quotidiana che gli stranieri apprezzano tanto. Fortunatamente questa raffinatezza diffusa riesce a occultare almeno in parte un fenomeno inquietante dell'Italia di questi ultimi anni, e cioè il progresso della volgarità.

S.R. - Ma l'arredamento urbano francese (pensiline per aspettare l'autobus, panchine, edicole, eccetera) è più curato. Decaux va considerato come uno dei grandi creatori del XX secolo in questo campo. Anche le vetrine e le insegne di un negozio francese sono mediamente più belle di quelle di un negozio italiano. Pensate alle vetrine delle macellerie di Parigi. In Italia, solo a Bologna si trovano vetrine analoghe, capaci di risvegliare l'appetito anche di chi ha appena mangiato.

M.L. - Ma voi avete gestito meglio, con più discrezione, l'inserimento dei McDonald's nelle città storiche. E mi sembra evidente che in Italia si fa molto più attenzione che in altri Paesi a non deturpare con edifici moderni il fascino dei quartieri antichi.

M.C. - Nel parlare di moda e design, insomma di creatività economica, non si può dimenticare un elemento fondamentale dell'identità nazionale italiana: le piccole e medie imprese.

M.L. - Un tempo si parlava con grande fierezza dei grandi gruppi come Fiat, Pirelli, Olivetti, Montedison. Invece a partire dagli anni '60, con il diffondersi dei distretti industriali che fabbricano un prodotto molto specifico in un territorio ben delimitato grazie a una rete di piccole aziende, la fierezza nazionale si è legata all'idea che small is beautiful. Talora queste piccole imprese ottengono enormi successi, e a volte diventano veramente grandi, come Benetton che ormai gestisce interessi ben al di là dell' abbigliamento, e Luxottica (Del Vecchio) che con i suoi occhiali commercializzati nel mondo intero si proietta nell'universo dell' alta tecnologia.
Due idee sono alla base di questo fenomeno. La prima è la concezione molto italiana secondo cui si preferisce fare cose piccole e non grandi, a condizione di farle bene. La seconda è la diffidenza verso lo Stato, legata al gusto di fare da sé.
Il giovane operaio ambizioso e dotato di una vivace intelligenza pratica, che non ha avuto molta voglia di studiare ma non si accontenta di lavorare sotto padrone, che è convinto di aver fiuto per il prodotto destinato a piacere, che ha una sua idea geniale e allora convince un parente più anziano a prestargli un po' di soldi, che crea la sua fabrichetta per farei lavorare tutta la famiglia, che finalmente ha successo e comincia a costruire stabilimenti  anche in Romania ... Ecco l'eroe positivo dell'Italia di oggi.

M.C. - L'affermarsi di questo modello ha forti contraccolpi sul piano politico, perché i valori dominanti dell'attuale maggioranza di governo sono proprio quelli dei piccoli e medi imprenditori del Centro-Nord, che vivono in un contesto molto coeso, spesso dialettale ...

S.R. - Tra i numerosi punti forti, queste imprese hanno anche una straordinaria flessibilità. La domanda dei mercati cambia secondo le condizioni economiche generali, e le imprese riescono spesso a adattarsi rapidamente.
Però attenzione, sono estremamente vulnerabili. Anzitutto, perché non fanno ricerca. E poi perché quella stessa dimensione familiare che presenta enormi vantaggi in una certa fase iniziale della vita dell' azienda, diventa una terribile palla al piede nel momento in cui bisogna decidere se fare un salto di dimensione, oppure no. Molte volte il salto non si fa proprio per non turbare gli equilibri familiari ...

4. PER CONCLUDERE

M.C. - L'identità nazionale italiana vive oggi un periodo molto contraddittorio. Da una parte viene aspramente contestata, guardata con sufficienza o addirittura rimessa in discussione. Dall'altra viene invece sottolineata con orgoglio rinnovato, anche in relazione a certi aspetti prestigiosi della creatività economica e culturale dell'Italia che sono riconosciuti in tutto il mondo. Nel 2008, Paolo Peluffo dedica un libro molto interessante a La riscoperta della patria, dove presenta l'immagine di una patria viva e vitale, un'immagine molto contemporanea e lontanissima da ogni retorica nazionalista del passato. E anche Gilles Pécout, maggiore storico francese dell'Ottocento italiano, va approfondendo con acume una riflessione assai rigorosa sull'identità nazionale.
Nelle nostre conversazioni abbiamo cercato di ricostruire il contesto storico in cui è nata l'Unità d'Italia, e inoltre l'articolato giudizio che danno oggi gli italiani sul loro Paese, dopo un'esperienza unitaria di un secolo e mezzo. Abbiamo tentato di ripercorrere il flusso delle « memorie storiche condivise» e di definire il risultato che tali memorie producono nell'attuale psicologia collettiva degli italiani, alimentando o smentendo la loro « leggenda nazionale ». Infine abbiamo preso in esame i vari aspetti della realtà quotidiana odierna che in Italia possono influenzare, in senso positivo o negativo, la percezione della propria appartenenza nazionale.
Eccoci giunti al termine del nostro percorso. Volete tirare qualche conclusione?

M.L. - Dall'Ottocento a oggi, l'idea di nazione conosce in Italia vari momenti. C'è quello della passione, anche se accompagnata da forti resistenze: dal Risorgimento alla prima guerra mondiale. C'è quello dell'esaltazione nazionalista del periodo fascista, combinata a partire dal 1938 con una nuova dimensione etnico-razziale che è traumatica per molti italiani, ma soprattutto per la minoranza ebraica. Poi, dopo il 1945, c'è il momento della rimozione, o addirittura della derisione della nazione. Utilizzando la libertà ritrovata, il cinema neorealista mette in mostra le piaghe del Paese. Successivamente, dalla fine degli anni '50 fino ai primi anni '90, subentra una forma di indifferenza, e perfino la festa del 2 giugno viene pressoché cancellata: si assiste a una sorta di ripiegamento, di ghettizzazione, di folclorizzazione della nazione.
Ed eccoci alla fase attuale, che registra di nuovo un diffuso bisogno di affermazione dell'identità nazionale, dovuto alla convergenza di vari fattori: allontanamento « anagrafico» dall' ubriacatura fascista, consolidamento del prestigio italiano in settori chiave del mercato internazionale, reazione ai processi di globalizzazione economica e culturale, necessità di trovare un punto di equilibrio, di sintesi fra crescenti spinte localiste e crescente integrazione europea. In definitiva, negli ultimi quindici anni rinasce una forte attenzione per la nazione, insieme alla necessità di ripensare, ridefinire con elementi nuovi il passato comune.
Sergio Romano ha ragione quando dice che il problema cruciale è quello della continuità storica. Ovviamente, sforzarsi di comprendere il passato non vuol dire giustificare tutto, non significa nascondere le divisioni, i passaggi più oscuri o drammatici, come la dittatura fascista ... Ma la grande differenza è che in Francia e in America c'è il tentativo costante di elaborare una narrativa comune, la quale - anziché sottolineare i momenti di frattura - metta l'accento sulla continuità della storia nazionale. In Italia è più difficile, ma a mio parere non impossibile, costruire una pedagogia che educhi il cittadino e lo scoraggi dalle spinte centrifughe.
Certo è che l'Italia non sarà mai una nazione « monolitica », e che la sua memoria storica sarà sempre « plurale ». Però potrà essere capace di costruire un futuro comune, una vera identità nazionale comune nella quale tutti possano riconoscersi. Il che significherebbe risolvere grossi problemi ancora aperti, come i rapporti fra Stato e società civile, fra classi dirigenti e masse popolari. Ecco la sfida fondamentale su cui a mio parere l'Italia dovrebbe riflettere, nel momento del suo cento cinquantesimo compleanno.

S.R. - Come potrei contraddire una immagine così lusinghiera dell'Italia? Mi chiedo tuttavia se esista davvero una nuova consapevolezza dell'identità nazionale che non sia fondata su argomenti enfatici e retorici, spesso al servizio di un disegno politico. Continuo a pensare che il valore della nazione si misura con un solo metro: quello dei sacrifici che ogni cittadino è pronto a fare per il suo Paese. Mi sembra che gli italiani siano disposti a fame pochi.
Esiste tuttavia un elemento che rende l'Italia non troppo diversa dal resto dell'Europa. Il suo sentimento nazionale, quando si manifesta, assume una forma difensiva piuttosto che aggressiva. Il nazionalismo degli europei, quello degli italiani in particolare, non è più caratterizzato - come un tempo - da ambizioni egemoniche, dal desiderio di affermare il proprio potere sugli altri. Assistiamo così a un nazionalismo difensivo, che si accende quando gli italiani hanno la sensazione di essere minacciati, vittime di un'ingiustizia o di una prevaricazione. Ho una forte diffidenza verso questo nazionalismo vittimistico che ringhia in difesa, fondato sulle lamentazioni e sulle accuse: contro il Risorgimento, contro la monarchia, contro il fascismo, contro la Democrazia cristiana, contro il comunismo, contro i padroni, contro la Chiesa ...
Continuo a pensare che bisognerebbe dare agli italiani una storia nazionale su cui possano esservi i consensi più larghi possibili, una storia basata sul criterio della continuità, nella quale vi sia posto per tutti. Non possono esservi corpi e momenti estranei su cui si abbattono i fulmini della ricusazione e dell' odio. Questa non sarebbe la storia di tutti gli italiani. Occorre una storia nella quale ogni elemento, anche se condannabile per certi aspetti, trovi la sua spiegazione e le sue radici nel continuum degli eventi che lo hanno preceduto.
Allora è inutile girarci attorno: il problema è Mussolini. La vulgata postfascista lo dipinge come un mostro, come una malattia che subdolamente si è insinuata nel corpo sano dell'Italia. E i fascisti? Tutti stupidi o cattivi. Invece Mussolini bisogna anatomizzarlo, spezzettarlo in modo da rendere visibili gli innumerevoli fili della sua vicenda politica. Bisogna spiegarlo come figlio dei suoi paadri e nipote dei suoi nonni, ma anche come padre e nonno dei suoi figli e dei suoi nipoti, cioè di una parte di italiani che - se vogliamo costruire una vera nazione - non possiamo considerare come bastardi privi di ogni ascendenza.

M.C. - La Russia non dimentica le atrocità commesse da Stalin, ma non dimentica neppure che Stalin ha vinto la guerra. Invece in Germania non appare possibile alcuna forma di recupero della continuità storica, e Rider rimane il male assoluto. Salvo sparute minoranze di fanatici, nessuno lo vuole nell'album di famiglia della nazione tedesca. E in Italia, francamente non si vede attraverso quale percorso mentale possa venire concepito un albero genealogico nel quale perfino a Mussolini toccherebbe un suo onorevole rametto ...

M.L. - Se consideriamo la dittatura fascista come un fenomeno accidentale, non legato ai flussi profondi della storia italiana, commettiamo un errore madornale. Se davvero vogliamo capire che cosa è stato il fascismo, dobbiamo riflettere sulle sue radici: sulle contraddizioni del movimento socialista, sulla vittoria mutilata, sulle responsabilità della classe politica prefascista e antifascista, sulla monarchia, sui comportamenti di Mussolini e dei fascisti ... come abbiamo cercato di fare.
Poi però c'è anche il problema di vedere se possiamo mettere fascisti e antifascisti sullo stesso piano, o se invece - come io credo - i primi erano dalla parte sbagliata e i secondi dalla parte giusta. Ecco il giudizio etico che a un certo punto lo storico deve dare.

S.R. - La storia continua, e viene via via raccontata con sensibilità diverse. Anche la Francia ha un problema di non perfetta continuità. E non potrà occultare all'infinito il periodo di Vichy.

M.L. - Adesso non è più occultato, però è condannato sul piano dei valori etici.

S.R. - Valori etici per spiegare la storia? Quando sento parlare di valori etici, subito la mia immaginazione vede qualcuno salire in cattedra per dirmi che cosa è buono e che cosa è cattivo. E non amo le cattedre.

M.L. - lo sono un professore, quindi non posso odiare le cattedre. E ritengo che esistano cose buone e cose cattive nella storia dell'umanità ...

S.R. - Non ho nessuna difficoltà a capire l'operazione di Putin. Se fossi alla guida di un Paese come la Russia e dovessi affrontare macigni come quello del comunismo e in particolare del periodo di Stalin, cercherei un posto per entrambi nella storia nazionale. Ma naturalmente per la Russia turto è molto più semplice che da noi. Si tratta di una democrazia autoritaria dove certi modelli vengono calati dall' alto, con le necessarie censure, sicché diventa più facile creare un continuum nella pedagogia collettiva di un popolo.
La Germania, ovviamente, costituisce un problema molto più grande, ma ci sono stati segnali interessanti negli ultimi anni, provenienti da scrittori che hanno cominciato a trovare stretta la gabbia in cui la democrazia tedesca si era rinchiusa. Ho l'impressione che alla ricostruzione di una continuità storica ci arriveranno anche loro, benché per ultimi.
Noi italiani abbiamo un grande problema, ma anche quello dei francesi non è piccolo. Il periodo 1940-1944 resta da studiare. Qualcuno mi dovrà pur spiegare perché uomini come Maurice Couve de Murville, Raymond Marcellin, Maurice Duverger o François Mitterrand abbiano lavorato per il regime di Vichy. Tutti cattivi, tutti opportunisti?

M.C. - Se risaliamo più indietro nella storia francese, troviamo un caso di tentata rimozione poi superata, e cioè il periodo napoleonico. Non dimentichiamo che dopo Waterloo c'è il tentativo di dire che un tiranno, estraneo alla vera storia nazionale, aveva fatto vivere alla Francia una parentesi sanguinosa, rendendola vittima di se stessa ...

S.R. - Sì, ma quanto deve durare il periodo che precede il recupero di una fase considerata esecrabile? La salma di Napoleone rientra in patria già all'epoca di Luigi Filippo. In realtà la rimozione è breve, e termina con la fine della vita anagrafica dei due re della Restaurazione, Luigi XVIII e Carlo X.
La Francia ha saputo dare prova di lucidità verso Napoleone. Ovviamente le critiche non scompaiono, e c'è ancor oggi chi lo accusa di essere all' origine di tutte le dittature della storia contemporanea: un dittatore con il vezzo di farsi chiamare imperatore. Però viene accettato come una delle tessere del grande mosaico francese. E con onori, crescenti nel tempo.

M.L. - Tornando all'Italia, proprio non mi pare possibile - anche in un clima di pacificazione nazionale, di forte recupero dell'identità nazionale - che possa nascere attorno a Mussolini una leggenda più o meno «perdonista », comparabile a quella nata attorno alla figura di Napoleone. Ribadisco che l'esigenza della continuità storica è cosa ben diversa da un verdetto etico di assoluzione generalizzata.

M.C. - Il2 agosto 1847, meno di un anno prima di lasciare il potere, in una nota inviata al conte Dietrichstein, il cancelliere austriaco Klemens von Metternich scrive la jàmosa frase: « L'Italia è un'espressione ge0trafica ». Anzi, la sua francese esatta è: «La parola Italia è un'espressione geografica, una qualificazione che riguarda la lingua, ma che non ha il valore politico che gli sforzi degli ideologi rivoluzionari tendono a imprimerle ». Nelle intenzioni di Metternich, probabilmente si tratta di una semplice constatazione, e non di un'arrogante manifestazione di disprezzo, come affermato dai liberali italiani dell'epoca.
Certo è che a nessuno oggi, a centocinquant'anni dall'Unità d'Italia, potrebbe venire in mente di parlare di «espressione geografica» per definire una delle maggiori potenze industriali del pianeta. Gli ultimi decenni equivalgono a vari secoli della storia passata in termini di trasformazione sociale ed economica mondiale, e proprio in questo periodo l'Italia consolida la propria immagine unitaria agli occhi della comunità internazionale.
In Cina e in India, ma anche in Medio Oriente e nell'Europa centro-orientale risorta dopo quarant'anni di dominazione sovietica, la presenza dell'Italia è ben riconoscibile, con il suo dinamismo economico e commerciale, la sua vivacità culturale. Resta da vedere se tutto ciò si tradurrà in un peso maggiore nel contesto europeo, a Bruxelles, oppure se tornerà a prevalere quell'immagine di un'Italia disunita che per tanti secoli ha caratterizzato la nostra storia.


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