venerdì 13 gennaio 2012

libro nuovi argomenti scrittori e unità d'Italia

NUOVI ARGOMENTI


INTRODUZIONE
di Carlo Carabba

In occasione del'centocinquantesimo anniversario dell'Unità di Italia, Nuovi Argomenti ha deciso ,di costruire un questionario, invitando a rispondere molti dei principali scrittori italiani, fra critici letterari, narratori e poeti. Il tema scelto è il senso di appartenenza alla nazione Italia. Nella costruzione delle domande si è cercato, nei limiti del possibile, di mantenere una neutralità di fonnulazione, evitando di imporre surrettiziamente una tesi. La ricchezza e la varietà delle risposte, non infrequentemente in contrasto l'una con l'altra, sembrano confermare la bontà dell'intento e la sua riuscita operativa. Queste brevi pagine introduttive, che per loro natura non possono essere neutrali, vogliono essere una linea guida al questionario, fatta di esempi e di qualche, rudimentale, risultato quantitativo, anche se la complessità e la pluralità delle argomentazioni sfuggono a una vera sistematizzazione statistica. Dopodiché il lettore potrà farsi le sue idee in base a quel che legge, irovando conferme o eccezioni a queste parole propedeutiche.
Semplicemente scorrendo l'indice analitico, posto in appendice al volume, la diversità dei nomi citati (504, compresi alcuni personaggi di fantasia), molti dei quali compaiono una sola volta, diviene una prova ostensiva della varietà dei contenuti. È interessante notare che, però, in tanta abbondanza è facile ritrovare omissioni di citazioni apparentemente scontate. I primi assenti inattesi sono i politici. Non c'è menzione di Andreotti e Craxi, di Forlani o Fanfani, compare una volta Moro e una Cossiga. Tra i politici in attività Prodi è citato due volte, Bossi tre, Berlusconi cinque (anche se in quattro altri casi compare l'aggettivo berlusconiano). La Lega, però, è chiamata in causa da molti degli intervistati, specie per quanto riguarda il rapporto di città, regioni e province con lo stato; Walter Pedullà scrive che «il convitato di pietra del nostro domandare e rispondere è il pericolo leghista».

Colpisce anche il ridotto numero di riferimenti alle mafie, La parola «mafia» occorre solo cinque volte, due delle quali in un elenco di luoghi comuni sull'Italia, una volta «ndrangheta»; una «criminalità organizzata», nessuna «camorra». Due volte compare «antimafia», Falcone è nominato due volte, Impastato e Borsellino una ciascuno.

Interessante infine come, nella ricerca di antenati e precursori italici, nessuno consideri gli antichi romani, citati di sfuggita.

Provando ad analizzare frettolosamente le risposte, una domanda per volta, colpisce che, nel rispondere alla prima domanda (Lei si sente italiano? E, se sì, in che modo?) il riconoscimento della propria italianità si accompagni in genere, con poche significative eccezioni, a un senso di disagio, a un sentimento immediato di «inconsapevole vergogna» (Piersanti). Golino parla esplicitamente di «disagio di esse-
re italiano», Cortellessa apre la risposta con «Ahimè sì, sono italiano», ma altri usano formule analoghe. Eppure quasi tutti affannano con sicurezza di essere italiani. Tra i fattori di appartenenza elencati da Manzoni in Marzo 1821 (<<Una d'arme, di lingua, d'altare, di memorie, di sangue, di cor»), pochi (Parazzoli, Pardini, Petrignani, Picca, Sebaste e Zaccuri) prendono in considerazione, come attributo identitario, il cattolicesimo; la grandissima maggioranza degli autori intervistati ritiene che il principale fattore di coesione nazionale sia la lingua. Pincio la definisce «non soltanto "un" elemento costitutivo, ma l'elemento costitutivo con l'articolo determinativo», alcuni, tra cui Lagioia e Mazzucco, vedono nella lingua la vera patria, De Luca, scrive, si considera «un residente in italiano». Altri però vedono, nella posizione privilegiata della lingua (che Nuovi Argomenti ha deciso di porre in rilievo nel titolo, dantesco, del fascicolo), una causa e una dimostrazione della debolezza del senso di appartenenza all'Italia. Marchesini scrive che l'identità italiana ha avuto una genesi mostruosa perché ha coinciso «non con una società ma con una Lingua Letteraria» e Scura ti che «il processo di unificazione nazionale è stato il frutto di una creazione di tipo artistico» che «la storia dell'unificazione italiana è innanzitutto una storia culturale» e dunque «l'unico, inestimabile, patrimonio comune agli italiani odierni è il patrimonio culturale». In proposito Pincio rileva coome, metaforicamente, sulle banconote italiane non erano ritratti, come in America, politici e condottieri, ma uomini d'arte e di scienza. Pochissimi si pongono il problema del/e lingue sovranazionali e delle nazioni plurilinguistiche (De Mauro, Gabriele Pedul/à e, con ironia, Longa): gli italiani danno per scontato che lingua e appartenenza nazionale coincidano, anche se è interessante notare come il ticinese Pusterla, rispondendo con un secco no ali' ottava domanda mostri di dare per scontato il contrario. I dialetti, in generale, non sono visti in conflitto con la lingua nazionale, e alcuni (Pincio, Rasy) sottolineano come l'Italia dei dialetti, come viene rappresentata da una certa retorica, non esiste ormai più. Sono numerose le critiche (ma non mancano elogi, fra cui è significativo quello di Riotta) alla televisione come fonte di apprendimento del/'italiano. .

Tra le parole su cui gli intervistati erano chiamati a pronunciarsi (territorio, identità, tradizione, patria) è importante notare come l'assoluta maggioranza abbia preso le distanze da patria, definita «impronunciabile» (Guglielmi, Raffaeli), «logorata dall'uso politico che ne ha fatto la destra» (van Straten). Raimo scrive «mi fa schifo, mi fa ridere, non la capisco» e Cortellessa, con Rimbaud, «fai horreur de la patrie». Il territorio è dato per acquisito anche se Manzon pone in luce la condiizione peculiare e complessa di una regione dai confini storicamente mobili, Murgia ricorda la mutevolezza della geopolitica e ammonisce «nessuna frontiera è dogma» e De Luca senza difficoltà apparenti afferma «Se una comunità del nord vuole costituirsi indipendente mi separo volentieri». L'identità è temuta laddove sia intesa come slatica e chiusa, ma molti fanno l'elogio di una identità mobile e fluida. Alcuni non fanno come la sinistra si sia appiattita su un uso reazionario dei concetti di idenntilà, tradizione e territorio, nella «moltiplicazione delle enclaves prolette» Sul rapporto, tiralo in ballo dalla quarta d'Olanda, tra identità locale e nazionale, le posizioni sono contrastanti.
I Santi cita la teoria dei cerchi concentrici secondo cui ogni essere umano partecipa di più identità, di estensione sempre maggiore (Gramellini scrive <,Mi sento torinese, italiano ed europeo, nell'ordine. Quando incontrerò un marziano mi sentirò anche terrestre»). Con singolare assonanza Franco e Manica attribuiscono la provenienza locale al polo del/a vita o della biografia, la provenienza nazionale al polo della storia. Belpoliti conia il motto «uniti nella diversità» e afferma «la nostra identità collettiva, nazionale è plurima, non catalogabile e definibile in modo netto».
La tradizione italiana è vista eminentemente come una tradizione culturale. Può darsi che la statistica sia influenzata dal campione scelto, ma gli argomenti degli scrittori sembrano validi. I nomi citati, in proposito ali' orgoglio patrio (sesta domanda) sono soprattutto pittori, poeti (i più citati in assoluto S0l10 Leopardi e Dannte). È opportuno notare come alcuni (Buonanno, Giartosio) mettano in dubbio la stessa possibilità dell'orgoglio patrio,fondata sull'ereditarietà del merito tra connazionali. Giartosio però giustifica l'orgoglio indiretto perché «del tutto umano» e Lusuardi osserva come più che di orgoglio si dovrebbe parlare di coinvolgimento.
Simile alla difficoltà di sentirsi orgogliosi degli italiani illustri è /'incapacità di tifare per atleti e squadre italiane durante eventi sportivi internazionali. Se alcuni (La Capria, Manica, G. Pedul/à, W. Pedulà, Trevi, Urbinati, e con qualche dubbio van Straten) considerano il tifo naturale e in qualche misura irrinunciabile - Vii/alta parla addirittura di «meccanismo 'radicato nella biologia» - colpisce l'elevato numero di risposte negative alla settima domanda, sintomo, forse, di un'appartenenza debole all'immaginario nazionale o del disgusto per certi meccanismi massificati (Cortellessa, Raffaeli).
Un numero importante di intervistati (fra cui Augias, Cucchi, Giartosio, Goolino, Janeczek, Nucci, Panarari, G. Pedullà, Policastro, Raimo), ravvisa un deegrado generale legato al progressivo sgretolamento dei valori necessari alla vita in comunità. Alla nona domanda, che riguarda un ipotetico carattere nazionale italiano, molti rispondono citando, per lo più con accezione negativa, il particulare guicciardiliano. Si può avvertire il timore, legato alla vergogna, che, con tutti i distinguo, certi luoghi comuni sugli italiani siano veri e il timore esponenziale che l'implicita attribuzione di credito ai luoghi comuni negativi diventi un alibi, un impedimento all'azione e al migliora/nento (Pascale, Pavoliini). Così il vittimismo, il lamenlo delle manchevolezze costitutivedegli italiani diventa una sorta di metacarattere (Janeczek) o, come scrive Elkann «gli italiani hanno il difetto e l'abitudine di parlare male di se stessi, a differenza forse dei francesi che per esempio parlano un po' troppo bene di se stessi». È interessante osservare come diversi autori abbiano indicato nel melodramma il «genere nazionale italiano» (tra loro Lusuardi e Scurati).
Per concludere, un rilievo sulla quinta domanda, che riguarda l'identità euroopea. Se molti la ritengono inesistente o artificiale e alcuni preferiscano parlare di identità occidentale, includendo l'America (Riotta, Stancanelli, van Straten), altri guardano all'Europa come a una speranza (Febbraro, Fusini, C. Pedullà), un aneelito (Casadei), un'utopia (Deidier), e sottolineano la forza di una tradizione europea di cui !'Italia fa parte (Arosio, Conte, Lagioia, Montefoscho. Giartosio, Leogrande e Zaccttri con tre belle formule rilevano /'incompiutezza dell'aspirazione europea ma anche la forza di tale aspirazione. È significativo che, tra i pochi nomi politici citaati, Marcoaldi, Marchesini e Stancanelli parlino con entusiasmo dei pionieri dell' europeismo italiano: Colorni, Rossi, Spinelli.

LÀ DOVE IL SÌ SUONA

1. Lei si sente italiano? E, se sì, in che modo?

2. Territorio, tradizione e identità sono concetti utilizzati con frequenza, a destra come a sinistra. È d'accordo con l'uso che se ne fa? E crede di poter parlare, secondo la sua esperienza, di territorio italiano, tradizione italiana e identità italiana?

3. Che significato ha per lei la parola patria?

4. Sente più forte il suo legame con un'identità locale (cittadina, provinciale, regionale) o con l'identità nazionale?

5. Simmetricamente, sente più forte il suo legarne con l'identità italiana o con l'identità europea?

6. Ci sono personaggi, periodi o eventi storici che accendono in lei qualcosa di simile a un orgoglio patrio? ,.

7. Uno dei rari momenti in cui il popolo italiano pare ritrovare un'unità di intenti e sentimenti è la visione di eventi sportivi. Si è mai trovato a guardare la gara di un atleta o di una squadra nazionale augurandosi che vincesse solo perché rappresentante l'Italia? E, se sì, per quale motivo?

8. Pensa che il senso di appartenenza linguistica sia un elemento costitutivo del sentimento di identità nazionale?

9. Quale è, se ritiene che esista, il carattere nazionale italiano? Crede che tale carattere sia costitutivo dell'identità o possa mutare nel tempo?

lO. Italiani si nasce o si diventa?

[NI3 Il numero non è indicato quando uno degli autori intervistati ha scelto di non rispondere a una domanda.]




ERALDO AFFINATI

Eraldo Affinati (Roma 1956)

1-8. Penso, parlo e scrivo in lingua italiana. Come ci hanno inseegnato i grandi maestri del Novecento, un pensiero è verbale, oppure non è.

2. Credo che di questi concetti si faccia quotidiano scempio, a destra come a sinistra. L'Italia dovrebbe essere una casa comune sotto il cui tetto uomini e donne del Belpaese e d'altri mondi possano imparare a convivere, non illudendosi che ciò avvenga senza tensioni, nel riispetto delle reciproche identità, tanto più f9rti quanto più capaci di mettersi in gioco, evitando di chiudersi a riccio in sterili o isterici arroccamenti.

3. Equivale a radice: appena tocchi una nervatura, vibra tutta la piannta. Quindi la patria non è soltanto nostra, ma appartiene a tutti quellli che decidono di riconoscersi in lei.

4. La ritengo una distinzione sostanzialmente trascurabile.

5. Senz' altro con quella italiana.

6. Mio nonno, insieme ad altri nove cittadini italiani, venne fucilato dai nazisti il 26 luglio 1944 a Pievequinta, vicino a Forlì. Mia madre, pochi giorni dopo, fuggì da un treno che la stava conducendo in Germania. Quando penso a questi eventi, non sento tanto un orgoglio patrio, ma un sentimento più complesso: ho l'impressione di essere, al tempo stesso, figlio e orfano di quell'Italia. Come se non fossimo riusciti a mantenere le grandi promesse formulate, con tutti i crismi costituzionali, nell'immediato secondo dopoguerra. Però, da insegnante, non perdo la speranza, essendo convinto che nessuna generazione sia migliore o peggiore di un'altra, ma ognuna ricominci da capo.

7. Certo che mi è capitato. Da bambino ho tifato per Nino Benvenuti al Madison Square Garden. Da ragazzo ho urlato quando Paolo Rossi segnò contro il Brasile ai Mondiali di calcio. Da adulto ho festeggiato la vittoria di Stefano Baldini nella maratona di Atene ... Ma non ho mai pensato che queste emozioni mi rendessero più italiano.

9. Niccolò Machiavelli, con indimenticabile disincanto e suprema sprezzatura, illustrò tutta la forza e la fragilità del nostro individualismo. Non credo che questo carattere sia immutabile. Ai. contrario, ritengo che possa cambiare. Ma con tempi lunghi.

lO. Mohamed, Ivan e Hafiz, miei scolari, mi dimostrano ogni giorno che italiani si diventa. E ciò accade, nonostante le lungaggini burocratiche, in tempi brevissimi.

ANTONELLA ANEDDA
Antonella Anedda (Roma 1958)

1.   Mi chiamo Anedda-Angioy sono sarda da generazioni continuamente imparentate tra loro. Unica eccezione una nonna di origine corsa Serra e una marrana: Campus. No, non mi sento esattamente italiana, ma vedo le ferite dell'Italia dove sono nata e ne soffro.

2. È una domanda a cui trovo difficile rispondere. Parlare di identità può essere pericoloso e ho qualche dubbio sulla parola. Vorrei più dire alterità, condivisione di uno spazio, terre.

3. Qui con una certa sorpresa mi scatta qualcosa, una commozione infantile, emotiva e so anche perché. Collego questa parola ai russi che in Guerra e pace resistono a Napoleone con Kutuzov, o al discorso di Churchill, o alla serie televisiva degli anni '60 di Mrs. Miniver. Ma è appunto una risposta emotiva. In realtà penso come Joyce che la patria sia una di quelle parole che ci fanno tanto infelici. Dietro ci sono in agguato guerre, sangue, sopraffazione. No meglio dire paese, country ma poi ricomincio a pensare ai Minivers.

4. Regionale, isolana, però la Sardegna stava per diventare inglese. Nelson la voleva comprare dai Savoia e si era trovato molto bene tra i maddalenini.

5. Mi è capitato di sentirmi più a casa in Spagna che in Italia, forse perché possiamo tenere il cappello davanti al re. Scherzo però davvvero dipende e mi è capitato di tornare da alcuni paesi europei e, con tutti i difetti dell'Italia, dire: che paese meraviglioso, che luce, davvero basterebbe poco.

6. Il Settecento di Giovanni Maria Angioy e la sua utopia il novecennto di Antonio Gramsci e di Emilio Lussu. Il lavoro di Maria Lai che unisce con i fili due paesi nemici.

7. Solo nelle partite di rugby. Per il resto tifo Liverpool.

8. Sì ma in modo duttile, permeabile, accogliendo altri accenti, ospitando anche ciò che è estraneo.

9. Penso che sia augurabile che possa cambiare nel tempo. Sapendo cosa succede quando i cognomi si ripetono, credo che mescolarsi, cambiare sia un bene.

lO. Molti stranieri che vengono in Italia e spesso restano, diventeranno italiani e noi un po' stranieri.

Giuseppe Antonelli (Arezzo 1970)

1.10 sono innegabilmente italiano. Lo sono - direi quasi mio malgrado - nell'aspetto, nell' abbigliamento, nelle movenze, perfino nei tratti somatici. Me ne accorsi la prima volta che a sedici anni andai da so-


GIUSEPPE ANTONELLI

lo all' estero: ovviamente in Inghilterra, come tutti gli italiani. La gennte (coetanei e adulti, senza distinzioni) capiva che ero italiano molto prima che aprissi bocca. Chi diceva perché eravamo vestiti meglio, chi per il taglio di capelli alla moda, chi per il gesticolare (e, dopo aver aperto bocca, per il tono di voce). Non riuscivo a capire cosa ci fosse di così strano in quel modo di essere: quella era la miii acqua. «<Ci sono due giovani pesci che nuotano e a un certo punto incontrano un pesce anziano che va nella direzione opposta, fa un cenno di aiuto e dice: "Salve, ragazzi. Com'è l'acqua?". I due pesci giovani nuotano un altro po', poi uno guarda l'altro e fa: "Che cavolo è l'accqua?"»: Foster Wallace docet). Ebbene, questa è la nostra acqua - i veestiti griffati, il taglio alla moda, il tono urlato, le risate sguaiate, il conformismo assoluto - il conflitto d'interessi, i furbetti del quartie~ tino, la monnezza, i finanziamenti alle scuole private - onorevole eccellenza cavaliere senatore nobildonna eminenza monsignore - questa è la nostra acqua (e quando i media internazionali lo dicono, da noi si fa appello al patriottismo). Poi, tornando in Inghilterra due anni dopo, me ne sono accorto anch'io che era facile riconoscere gli italiani: avevano tutti lo zaino Invicta.

2. Territorio, tradizione e identità sono tutti concetti che rimandano a un passato più o meno remoto: ieri ci si richiamava all'impero romano, oggi alla lega contro il Barbarossa. A seconda dell' estensione del territorio, possono essere usati pro o contro l'unità nazionale; ma soono sempre ispirati a un'idea di conservazione, se non di restaurazione. E infatti fino a non molti anni fa questi concetti erano considerati di destra: erano idee che facevano parte di una certa ideologia, inntesa come visione complessiva del mondo. Oggi che le ideologie si danno per morte, questi stessi concetti sono presentati come valori condivisi (o da condividere). Un'ulteriore prova del fatto che - non solo in Italia, per carità - il pensiero dominante oggi è di destra. Dellla nuova destra è anche la tendenza a imporre le proprie idee come super partes (o bipartisan che dir si voglia), stagliandole su quel minaccioso orizzonte a cui Noam Chomsky dà il nome di «TINA» (Theere Is No Alternative).

3. A dispetto delle recenti fortune, patria per me era e resta una paroola di destra. (Come !'inno suonato a ogni occasione e soprattutto coome l'alzarsi in piedi durante !'inno, magari mettendo una mano sul cuore). Nel 2005, lo slogan scelto da Alleanza nazionale per celebrare il decennale del partito (nato dalle ceneri del neofascista Movimento Sociale Italiano) lo diceva chiaramente: «Eravamo in pochi a chiamare Patria l'Italia. Oggi siamo la maggioranza».

4. Forse perché sono cresciuto in una grande città come Roma, forse perché a casa mia non s'è mai parlato romanesco, non s'è mai cucinato romanesco, non s'è mai tifato per la. Roma o per la Lazio (non si è mai tifato per il calcio, in effetti), non s'è mai andati a sentire il papa, né (colpevolmente) a visitare musei e monumenti, e non s'è mai detto né Roma capoccia né Roma caput mundi, forse per tutto queesto non provo alcun sentimento di appartenenza locale. Influenzato da altri immaginari e da altri conformismi, se sento parlare di territorio non penso al luogo dove vivo o sono nato: penso ai prodotti Dop, ai vitigni autoctoni, all'abbinamento per terroir.

5. Non credo che esista un'identità europea. C'è una moneta comune, è vero (non a tutti, peraltro: basti il caso clamoroso della Gran Bretagna), ma non c'è in comune un elemento essenziale come la lingua (a meno che non si voglia pensare, appunto, all'inglese). Per rendersene conto basta guardare la bandiera: ha solo le stelle, ma nelle bandiere quelle che contano sono le strisce.

6. Nel Rinascimento l'Italia esportava cultura. A testimoniarlo ci sono ancora, nelle lingue di tutto l'occidente, tante parole d'origine italiana. Tra Quattro e Cinquecento si diffondono - solo per limitarsi a qualche esempio - parole relative alla guerra (soldato), al vestire (cappuccio), alla moda (profumo), alla cucina (maccheroni), ma anche alla letteratura (sonetto) e alle arti figurative (facciata, piedistallo, balcone). Pur divisa politicamente, l'Italia godeva di un prestigio culturale che nei secoli successivi avremmo potuto solo rimpiangere. (L'italiano era, tra l'altro, una delle lingue centrali della diplomazia; oggi stenta a mantenere un suo spazio anche negli organismi comunitari).

7. Una volta all'anno, da quando quindici anni"fa me ne sono andaato di casa; io e mio padre passiamo un giorno noi due soli, e il giorno è quello dei Mondiali di ciclismo. Quand' ero piccolo lui mi ha insegnato a leggere la gara, a capire le strategie di squadra, le tattiche vincenti, a guardare i primi piani per vedere chi era in forma e chi no. Guardavo le maglie azzurre, e quella era l'Italia. C'erano i gregari, le punte, i capitani (le classi sociali);'i passisti, gli scalatori, i velocisti (le diverse specializzazioni); i generosi e gli opportunisti (i caratteri inndividuali). Sembrava la Repubblica di Platone o l'apologo di Menenio Agrippa: se ognuno faceva al meglio il suo dovere; rispettando limiti e mansioni del proprio ruolo, allora l'Italia vinceva. Quando ero piccolo io facevo il tifo per Moser, ma quando SarOlmi vinse il Monndii1le staccando tutti negli ultimi cinquecento metri di salita, io urlavo come un pazzo e avevo il cuore a duemila, perché aveva la maglia azzurra.


ENRICO AROSIO

8. La lingua è stato ed è il principale elemento di coesione nazionale. Anteporre i dialetti alla lingua comune significa vanificare il faticoso processo di integrazione avvenuto dopo l'Unità, con l'intento antistorico di rimettere indietro il calendario. Chi propugna il ritorno al dialetto per legge (nei programmi scolastici, nei cartelli stradali, nellle trasmissioni radio televisive) è un passatista velleitario. È un po' come chi esalta la bicicletta perché è più ecologica, ma si dimentica che senza macchina, treno, aereo per andare da una città all'altra ci vorrebbero giorni - non ore - di viaggio. Ecco, potremmo dire che il dialetto è come la bici: va bene per chi si muove in spazi ristretti. Senza contare che la famosa morte dei dialetti è un mito falso almeno quanto la morte delle ideologie. Stando ai dati Istat 2006, l'uso esclusivo del dialetto riguarda ormai meno del 6 per cento degli italiani, ma il 33 per cento della popolazione (un terzo degli italiani sopra i sei anni) quando parla in famiglia o con amici usa sia l'italiano sia il dialetto, mescolandoli liberamente secondo quei meccanismi che i linguisti chiamano code mixing e code switching.

9. A un certo punto del film Tra le nuvole, George Clooney e la sua colllega sono all' aeroporto e devono scegliere in quale fila mettersi. Lui: «Mai stare dietro gli anziani, hanno le ossa piene di metallo e" sembrano non apprezzare quanto poco tempo gli sia rimasto: eccoli, gli asiatici, sono essenziali, bagaglio leggero e hanno la fissazione per i mocassini, li adoro!». Lei: «Questo è razzismo». Lui: «Sono come mia madre mi affido agli stereotipi, si fa prima!». Un italiano - dando raagione a Cloney - avrebbe probabilmente cercato di passare avanti agli altri o di evitare la fila con una scusa. Sicuramente si sarebbe lamentato che la sua era la fila più lenta.

10. Italiani si nasce (e io appunto lo nacqui), ma anche si diventa: soprattutto negli anni decisivi dell'infanzia e dell'adolescenza. Per questo, a quarant'anni suonati, sto pensando per la prima volta all'idea di lasciare l'Italia. Forse vorrei che mia figlia, nata lo scorso 8 setttembre O), diventasse qualcosa di diverso.

Enrico Arosio (Milano 1957)

1. Sì, mi sento italiano e chiedo comprensione e pazienza.

2. Se la domanda è posta sullo sfondo della dialettica irrisolta tra centralismo e federalismo, nazione e territori, darei una doppia risposta, politica e culturale. La considerazione politica è che no, non mi piace il frequente uso ideologico del concetto di identità. Mi dispiace l'abuso dell'identità italiana rispetto all'immigrato perché spesso gli si chiede lealtà senza offrirla, onestà senza praticarla, obbedienza abusandone. E mi dispiace la procedura manipolativa con cui una forza politica, che pure ha avuto il merito di lanciare il tema cruciale del federalismo, ha provato a imporre un artificio identitario come la "Padania". La "Padania" non esiste, andrebbe scritta tra virgolette alte, è una modesta invenzione lessicale «buona per i gonzi», direbbe il giovane Hollden. Padano è, al massimo, un termine geografico, il bacino del Po (potrei dire: un formaggio). L'invenzione politica della "Padania", accompagnata dalle fasulle pretese di autonomismo o statuto speciale per Regioni come la Lombardia, il Veneto e il Piemonte, ha irretito alcuni milioni di elettori in un nonsenso storico-culturale. E ha imbastardito un tema nobile come il federalismo, che in realtà è molto adatto all'Italia, articolatasi sulla rete dei Comuni sin dal Rinascimento, e che la sinistra, con miopia, ha lasciato in mano alla Lega. In termini culturali, risponderei che il territorio italiano è insieme federale e unitario nel- . la sua impareggiabile ricchezza e diversità. Se dico Dolomiti di Brenta o piana del Salento, Ogliastra o Carso triestino, Cinque Terre o Circeo, colline del Chianti o isola di Stromboli, dico Italie e Italia. Alla fine, se costretto a parlare di identità italiana, prevale in me un elenco infinito di paesaggi modellati dal lavoro dell'uomo nelle più ammirevoli varianti. I tedeschi parlano, non a caso, di "Kulturlandschaft".

3. Dirsi patrioti nel 2010 non dovrebbe essere un imbarazzo, anche se un'intera generazione, la mia, formatasi negli anni Settanta, ha lungamente confuso il patriottismo con un valore "di destra", retorico, inattuale. Sul concetto di patria lascerei la parola a Salvatore Satta, nel De profundis, pubblicato nel 1948 ma scritto nel 1944-45. Quando ragiona sulla dissoluzione politica e morale dell'Italia dopo vent'anni di fascismo, e la chiama <<la morte della patria»: «Qui giace un'Italia senza virtù, invisa ai propri figli, spregiata allo straniero che ancor la lusinga, e quel che è più triste, indifferente alla miseria nella quale è caduta». Paarole di allora, ma in grado di turbarci ancora oggi; tanto più oggi.

4. A volte sento più forte il legame con Milano e la milanesità che con l'Italia e l'italianità. Per una ragione emotiva, ma non solo, di richiamo delle radici: la mia famiglia, Arosio, è documentata a Milano, a quannto risulta, dal Settecento, e dunque da una decina di generazioni. Nel 1838 la mia a va Giuseppina Arosio sposò Tito Ricordi, l'editore di Verdi. Per me, dunque, Milano è grande città e cultura urbana, mentre la Lombardia, lo dico con affetto, è campagna: nelle giornate limpide d'inverno guardiamo a nord e ci appare il Resegone, la montagna di Lecco che incantava Stendhal, e siamo contenti che stia dove sta. lo BlcHtlO, che ho vissuto, pelo studio e per lavoro, sette anni altrove (a Monaco c Roma), ho fatto ritorno a Milano per farvi nascere i miei due figli. Mi definirei un italiano con una sub-appartenenza molto forte, quella di una borghesia laica milanese e cosmopolita, con i suoi codici etici, civici, il senso di responsabilità è di solidarietà. E qualche buona abitudine: una per tutte, la fedeltà al culto dei migliori marrons glacés d'Europa, prodotti dalla pasticceria Galli in via Victor Hugo.

5. Sono, europeista sin da ragazzo, quando studiavo alla Deutsche Schule di Milano. Provengo da una famiglia di poliglotti e sono in grado di lavorare in tedesco, inglese e francese, ho modeste nozioni di spagnolo, olandese e yiddish, il tutto messo a sobbollire in ventiicinque anni di giornalismo. Mi sono formato, via via, su Heine, Goethe e Kafka, su Parri, Altiero Spinelli, la Parigi dei cubisti e la Repubblica di Weimar, la Vienna di Adolf Lbos e la Amsterdam dei mercanti, le architetture di Barcellona e i fiordi di Norvegia, i reporrtage di Joseph Roth e il Savinio di Sorte dell'Europa, il "NouvelObbservateur" e la "Neue Ziircher Zeitung". Non saprei dove cominciaare, perciò non comincio. Eludo la risposta con una notazione molto personale. Quando studiavo Lettere in Germania, intorno al 1980, ci tenevo moltissimo a farmi notare dai professori quale italiano plurilingue, mi battevo con un certo ardore contro i pregiudizi e giudizi antitaliani, allora molto accesi (dalla mafia alle Brigate Rosse), e dentro di me pensavo che con !'impegno avrei contribuito a correggere, nel mio piccolo, !'immagine del nostro Paese. Questo sentimento, o questa illusione, non mi ha mai abbandonato nei quattro anni all'Università di Monaco, anche se non ne ho mai parlato con nessuno.

6. Orgoglio patrio? Potrei dire: la Signoria fiorentina, o Mazzini, o Garibaldi, o la Pechino-Parigi di Luigi Barzini. Potrei metterla sul resistenziale. I partigiani di Giustizia e Libertà. Le Lettere di condannati a morte pubblicate da Giovanni Pirelli. La sopravvivenza di Primo Levi. Gli alpini della ritirata di Russia. La foto del generale Cadorna che con Parri, Longo e gli altri capi del Corpo volontari della libertà sfilano in Milano liberata nell'aprile 1945. Ma potrei anche dire: Renzo Piano chiamato a fare architettura nelle maggiori città del mondo, Riccardo Chailly che dirige l'Orchestra di Lipsia, Mimmo Paladino che espone a Londra, i designer, i registi, i medici, gli ingegneri italiani che si fanno onore ai più alti livelli della creatività e della ricerrca. La frustrazione che in me produce oggi, all'alba del declino dell'era Berlusconi, lo scadimento della politica, lo sfregio delle istituzioni e il torpore civile dei tanti italiani sfiducia ti è compensata dall'orgoglio sul piano della cultura, delle arti, del lavoro intellettuale. 7. Sì, ma non risponderò «i Mondiali di calcio del 1982». Dirò: certi ori olimpici e mondiali nello sci alpino o nell'atletica leggera. Emozione fortissima la vittoria di Stefano Baldini nella maratona olimpiica di Atene 2004 entrato a braccia alzate nello Stadion: c'era tutto, la lotta dell'individuo e la bandiera, il sacrificio; la fatica, la lealtà, la cornice emblematica della Grecia classica; il richiamo alle sorgenti della nostra civiltà.

8. Sì, l'appartenenza linguistica è centrale, se parltamo di un processso di identificazione. Tant'è che sono le minoranze linguistiche, in Italia, ad avere pulsioni centrifughe autentiche: i germanofoni del Sud Tirolo, comprensibilmente, e non certo i valligiani delle Alpi lombarde o i contadini veneti, i cui dialetti sono italianissirni e le ('ui presunte tentazioni separatiste sono influenzate dalla manipolazione politica della Lega Nord ai danni dei cittadini culturalmente meno attrezzati e più esposti alle lusinghe del populismo.

9. Fiumi d'inchiostro sono stati versati su questo tema: non ne aggiungerò. Ritengo che il carattere nazionale oscilli tra due poli, il taalento inventivo e immaginativo, e la vocazione al complotto, all'opportunismo, al ladrocinio. Penso, con Ennio Flaiano, che «l'italiano è mosso da un bisogno sfrenato d'ingiustizia». Mi dolgo che la sua proverbiale generosità e la capacità di adattamento siano minate dall!'ignoranza e dall'indole servile. E cito una crudele notazione dei Diari di Giuseppe Prezzolini, al5 maggio 1945, un commento da lui udito nel Faculty Club della Columbia University di New York, doove l'esule insegnava: «In battaglia gl'Italiani valgono poco; ma quando di tratta di assassinare nessuno li sorpassa».

lO. Italiani si nasce ed è come l'amore, le ciliege, il vino: non si riesce a smettere.

CORRADO AUGIAS
1. Italiano sì, certo - per tradizione, gusti, ma soprattutto lingua. italiano critico e tanto più critico quando nei periodi in cui sono all' eestero osservo l'Italia da fuori e mi rendo meglio conto degli errori e dei passi falsi che potrebbero essere evitati e dei quali spesso si ride. D'altra parte esiste sull' argomento una vasta bibliografia, la cosa è risaputa e proprio per questo, credo, ineliminabile.

2. La tesi storica al momento prevalente è che la celebre (e mal citata) frasc di d'Azeglio vada rovesciata. Non dunque «fatta l'Italia bisogna fLlre gl' italiani» bensì: fatti (da secoli) gli italiani, decidiamoci a fare 1'IIli1lin. Sono abbastanza d'accordo. Gli italiani come gens esistono da molto lCIllPO, bilstn pensare a tanta letteratura medievale e, per veniin.: i111'oggi, a quanto si comportano da «italiani» quelli che vorrebbe-

ro costituirsi in picclo Stato secessionista separato dal resto del paese. È invece l'Italia che manca, cioè una comunità unita intorno a certi valori di fondo. Come ne esistono in Francia, dove nessuno mette mai in discussione la République o negli Stati Uniti dove l'idea di «Nation» è fortissima nonostante si tratti di una federazione di Stati.

3. Non so bene, la uso poco. Mi piace di più «nazione». «Patria» è troppo carica di significati retorici spesso distorti anche a prescindere dall'abuso che ne fece l'ormai lontano fascismo. Naturalmente quando leggo All'Italia di Leopardi e il suo grido iniziale O patria mia, non resto insensibile.

4. Identità locale proprio no. Tanto più in un paese minuscolo come l'Italia, 300mila chilometri quadrati, sentirsi lombardo o laziale o emiliano è un po' ridicolo. Il che ovviamente non nega le specificità locali che da noi restano forti in fatto di dialetto, cucina, abitudini. Biisogna conservarle e curarle ma da qui a fame motivo d'identità ...

5. In Europa mi trovo bene quasi ovunque, mi sento un europeo d'origine italiana. Vivo a Parigi alcuni mesi all'anno come vivo a Roma. Vado spesso in Germania dove, a parte la lingua, mi sento a casa. Quando in un'isola greca sperduta nell'Egeo vedo sventolare la bandiera azzurra con le stelle penso che forse l'idea d'Europa, oggi così malconcia, avrà un futuro.

6. Non particolarmente per la verità. La nostra storia politica e militare è modesta, le ombre vi prevalgono. I personaggi e gli eventi di cui andar fieri appartengono alle arti ma queste sono, tutte, per definizione, internazionali.

7. Guardo poco lo sport. Quando c'è Italia-Germania mi fa piacere se l'Italia vince. Anche quando c'è Italia-Francia tifo per l'Italia. Poi spengo la tv. '

8. Decisamente. Come ho già detto metto la lingua, né potrei altrimenti, tra i fattori essenziali di un'identità, al primo posto anzi. La propria lingua non a caso si chiama «madre», permette di esprimersi e di pensare. Inoltre, per gente come noi che si guadagna il pane leggendo e scrivendo, la lingua ha un'importanza ancora maggiore. 9. Abbiamo cambiato poco e per lo più in peggio. Non saprei dire se gli italiani del passato erano più onesti, migliori, o semplicemente più poveri. Forse tutte e due le cose. Certo che se leggo certe invettive di Guicciardini o di Leopardi, ritrovo senza difficoltà caratteri identitari comuni anche a tante cronache contemporanee. È cambiata la superficie delle cose, la buccia dell'esistenza, i consumi. Ma dentro, nel cuore profondo, il «carattere nazionale» resta.

lO. Si nasce e si diventa.

Corrado Augias (Roma 1935)

MARCO BELPOLITl

Marco Belpoliti (Reggio Emilia 1954)

1. Sì, mi sento italiano. Ma mi sento anche reggia no, dato che sono nato e vissuto a Reggio Emilia, e quindi anche emiliano, e poi milanese, dato che da dieci anni vivo a Milano; e prima sono stato per altri dieci anni in Brianza, e quindi sono, seppur in percentuale minore, brianzolo. Noi italiani siamo insieme parte di un globale -la nazione italinna - e di un locale -la piccola patria in cui siamo nati e cresciuti. Ci appartengono diverse identità, qualcosa che in Europa capita raramente. Si nasce in provincia, in Bretagna, per esempio o in Normandia, poi si va a Parigi, e si diventa parigini. Noi siamo insieme provinciali e cittadini; inoltre, da noi non esiste solo una capitale, ma tante. Due principali: Roma e Milano, ma anche Torino, Genova, Firenze, Napoli, Venezia Palermo, capitali di antichi regni, stati, repubbliche, ducati, principati. Siamo un paese policentrico, in cui la maggioranza dei suoi abitanti risiede in piccole Città e paesi, ma ha conosciuto e conosce una mobilità notevole, soprattutto a partire dagli anni Sessanta; siamo tutti emigranti, interni, di poche centinaia di chilometri, ma che contano e che ci aiutano ad avere orizzonti territoriali e linguistiici, e quindi culturali, differenti. Una forma di multiculturalismo, con identità legate quindi alla lingua - il dialetto come lingua materna, o a volte paterna -, ma anche alla cucina, alle tradizioni, alle consuetudini. Insomma, mi sento italiano con un'identità varia e differente.
2. Territorio è, una parola d'origine geografica, ma anche etnografica, o forse etologica. Tradizione: sappiamo molto bene come le tradizioni siano un'invenzione culturale; importante per avere un passato, e quindi anche un futuro. Identità: non si può fare a meno di averla, e un'identità troppo forte è un limite; ma anche il contrario è deleterio: si può avere uno scambio proficuo con gli altri solo se si coltiva una proopria identità. Noi italiani siamo legati alla nostra identità, le tradizioni e i luoghi in cui siamo nati e cresciuti, ma siamo altresì capaci di riconoscere le tradizioni degli altri; la nostra identità collettiva, nazionale è plurima, non catalogabile e definibile in modo netto. Si pensi alla cosiddetta identità padana: dove si trova la Padania? Coincide con la Pianura Padana? Dove termina? Dal Piemonte, dove nasce il Po, alla Romagna, ai cui confini con l'Emilia, si getta nel mar Adriatico, si incontrano dialetti e tradizioni molto diverse, non una unità padana ma una molteplicità di culture locali, che si affacciano sulla medesima pianura, e che sono segnate da un solo fiume. E sotto il Po? Cosa lega un romagnolo a un piemontese di Torino? Sarebbe davvero un discorso lungo. Mi fermo a una sola questione: i confini delle regioni italiane sono stati definiti solo dopo l'unità d'Italia. La Romagna, ad esempio, non si sa bene dove comincia e dove finisce. Bologna è in Romagna? O comincia a Imola? li suo centro è Ravenna o Forlì? La storia italiana è così complessa e intricata che per capire le identità dei suoi abitanti bisogna prendere in mano un atlante storico e guardare ai confini degli antichi stati, dalla pace di Lodi, nel Cinquecento, al 1861. Reggio Emilia, per restare alla città dove sono nato, era nel Ducato di Modena, e quindi ha sviluppato una diversità storica rispetto a Parma, che è a soli 27 chilometri di distanza. Altro dialetto e altra storia, altre tradizioni, per quanto si tratti di città sulla antica via Emilia romana. E del resto i parmigiani distinguono bene tra quelli della città, detti «del sass», e quelli del contado e della provincia. La Bassa reggiana, verso il Po, era una volta dentro i domini di Guastalla, mentre lì vicino c'erano i Pio a Carpi: altri principi e signori, altre storie. Quando parliamo di Italia vogliamo tener presente tutte queste diversità e anche ricchezze?

3. Terra paterna, dei padri, dei miei avi. La terra dove sono sepolti i miei genitori, nonni, bisnonni, trisavoli. Lo scorso autunno con mio cugino abbiamo fatto il giro dei cimiteri che custodiscono le salme dei nostri parenti; nell' arco di 20 chilometri, in piccoli camposanti di campagna, eretti quasi tutti nell'Ottocento, ci sono molti dei nostri avi, i Belpoliti e quelli di mio cugino, i Davoli,' figlio della sorella di mio padre. Un piccolo bagno nella storia passata, in cimiteri piccoli e piccolissimi del contado, che conservano la memoria dei conflitti mondiali, della Resistenza, e in alcuni casi anche del Risorgimento. Patria è un luogo e un sentimento. Legato a Reggio Emilia, che è parte di una regione con due teste, Emilia e Romagna, le terre bagnate dal Po, e poi anche l'Italia, come aspirazione a un'identità più ampia, collettiva, fatta di piccole patriei non quelle di cui parla la Lega, ma quelle di cui scrive Gianni Celati nei suoi racconti e nei suoi viaggi nella pianura. Mia madre e mia nonna, che di cognome fanno Rosselli, venivano da Scandiano, la patria del Boiardo. Sento che anche lì, in provincia di Reggio, ma verso il confine con Modena, che corre sul Secchia, c'è qualcosa della mia passata identità famigliare: le storie che si raccontavano in casa. E poi i miei cugini che stanno a Sassuolo, in provincia di Modena, ma nella diocesi di Reggio ... Parlo di Reggio, dove ho studiato sino al liceo, ma potrei dire dell'Alta Brianza, sotto il monastero e il monte di San Genesio, dove ho vissuto per dieci e passa anni, e dove ho ancora una casai è stata la mia patria di adozione, nelle differenze anche vistose di lingua, cucina, cultura, ma anche carattere. In una pagina di Primo Levi, nei Sommersi e i salvati, lo scrittore torinese parla dei popoli, della loro identità e dice una cosa interessante: se non è totalmente corretto parlare del carattere dei russi o dei tedeschi, tuttavia ci sono caratteristiche che fanno s1 che qualcosa di comune tra gli abitanti di quelli stati ci sia. Ecco, la patria è questo luogo unitario nelle differenze.

4. Crcuo di aver risposto. Sento un legame con Reggio Emilia, un legame profondo e particolare; ma mi sento anche cittadino milanese. Àmo Milano come una seconda patria, che sento mia, pur nella diversità; e, se il destino mi avesse portato a Napoli, mi sentirei profondamente napoletano, una città che amo, anche se credo sia un amore non ricambiato, un amore impossibile per un emiliano-milanese come me, e per questo ancora più appassionante. L'identità nazionale è quella che nasce dall'appartenere a un paese fatto di tante diversità che sento mio, dalle Alpi alla Sicilia. L'Italia è un'espressione geografica, ha detto Metternich; e, come ha suggerito di recente un geografo, Franco Farinelli, aveva ragione il ministro austriaco: lo Stivale è la nostra identità: chiusi da quattro mari e serrati dalle Alpi, siamo uniti da questa appartenenza comune a una geografia che ha segnato il nostro destino: uniti nella diversità.

5. Più quella italiana. Ma io sono nato a metà degli anni Cinquanta del XX secolo, quando l'Europa era un sogno, e lo è stato, per noi, che ci sentivamo di sinistra, pacifisti, ecologisti, europeisti, un sogno da realizzare; e i nostri padri e fratelli maggiori l'hanno realizzato. Ora sono le mie figlie, le nuove generazioni, che sentono e sentiranno sempre più questa identità come parte della loro identità; tre livelli: dalla piccola patria, alla patria più grande, la nazione, alla patria più grande ancora, l'Europa. Bisognerà parlarne a scuola, nei libri, discuterne e far crescere questa identità importante. Credo che le borse dell'Erasmus abbiano fatto molto per questo, più di tanti discorsi astratti: i miei studenti sono tornati cambiati e fidanzati. Le mie figlie parlano e parleranno almeno tre lingue, dove io sono passato dal dialetto all'italiano e a una stentata lingua franca, l'inglese pilgrim.

6. Garibaldi. L'impresa dei Mille. Mi è sempre sembrato l'episodio più esaltante del nostro Risorgimento; più della Giovane Italia e di Mazzini, più delle rivolte e dei moti rivoluzionari del 1821, 1831 e del 1848, che. pure mi apparivano eroici. I garibaldini sono stati per me un mito, coltivato da letture infantili e discorsi dei maestri a scuola; i monumenti e le targhe, i viaggi al Sud, i libri e i romanzi. Era un esercito popolare e il mito della resistenza come seco-naoR1sorgimento, dei garibaldini come rivoluzionari. Ma forse questa è una storia personale, qualcosa che vale solo per la mia generazione. Alle mie figlie questo non dice più nulla o quasi. Per noi il Sessantotto era un'impresa garibaldina, una piccola epopea fatta da studenti, come quelli del liceo Sarpi di Bergamo, che erano il nerbo dei volontari in camicia rossa.

7. Confesso che seguo poco lo sport. Non possiedo la televisione da parecchi anni, quindi non posso vedere le gare. Anche le partite di calcio le guardo poco, e solo a casa di amici, in modo occasionale. Seguo in modo discontinuo la stessa nazionale di calcio. Mi piace di più l'atletica leggera. Ma senza il televisore, ... Quindi il tasso di nazionalismo legato allo sport in me è molto basso.

8. Credo proprio di sì. L'italiano è la mia lingua; ma mi pare che nella mia espressività scritta e parlata ci siano le impronte delle regioni che ho abitato o delle città in cui sono vissuto. Ho modi di dire ed espressioni tipicamente reggiane, così come mi sono fatto lombardo e milanese negli ultimi vent' anni. Qualcosa è filtrato. Dato che uso la lingua per scrivere oltre che per esprimermi, questo per me ha un suo significato. Più in generale credo che noi tutti, noi italiani, siamo plurilinnguistici. Quanto di Dante c'è in me, e dunque di fiorentino? Tanto. Ho imparato a memoria diversi canti dell'Inferno. E ci sono parole che vengono da lì e che sgorgano spontaneamente alla mente mentre parlo o scrivo. Questa è la nostra identità plurima, anche questo un bel valore da coltivare. Si tratta di un sentimento di unità nazionale? Penso di si, ma sempre con questa specifica: uniti nella diversità.

9. Credo con Primo Levi che esista un carattere italiano. Lo spiega bene là dove, in Se questo è un uomo confronta la sua visione della dignità umana con quella di Steinlauf, l'ex sergente dell'esercito austroungarico che si trova nel Lager, e che si ostina a lavarsi con l'acqua putrida dei lavatoi e si lucida le scarpe per conservare la sua dignità. Levi dice che sotto le Alpi, ovvero in Italia, tutto è più flessibile, meno rigido, tutto si accomoda con un altro stile e con altre modalità. Siamo più flessibili. E lo dice dentro il Lager. Sarebbe un discorso da riprendere e da allargare, insieme a quello che lo stesso Levi, come ho detto prima, fa a proposito dei caratteri di un popolo. Qualcosa d'identificativo, ma non di assoluto. Le identità mutano nel tempo, credo, confermando o mutando se stesse. Un discorso davvero complesso, ma che occorre fare. La nostra è un'identità plurima, come le lingue e i dialetti che si parlano da Bolzano a Palermo. Ma esiste certamente.

lO. Si nasce e si diventa. Tutte e due le cose. Si nasce, se si nasce qui, a Milano o a Roma, a Foligno o a Bari, a Reggio o a Parma. E lo si diventa. Credo che valga anche per la natura umana: si diventa uomini dopo essere nati uomini. Sono gli altri, la società, la cultura, la lingua, le tradizioni, che ci formano e decidono chi siamo e cosa saremo. L'identità è qualcosa insieme di fisso e di mobile, di variabile e di stabile con cui fare i conti, non una volta per tutte, ma di continuo. E lo stesso vale per la nostra umanità,

FILIPPO BOLOGNA
SILVIA BRE

Filippo Bologna (San Casciano dei Bagni 1978)

1; Faccio del mio meglio per rimediare questo inconveniente O' essere italiano), ma l'orgoglio (raro) e lo sconforto (frequente) che provo contemplando, non tanto 1'1 tali a come stato, ma lo stato dell'Italia, mi riordano mio malgrado di esserlo. Mi piacerebbe definirmi un cittadino asburgico del Granducato di Toscana imbatto a Roma al seguito di qualche papa mediceo, ma non ne ho il coraggio. Per cui alla fine di solito finisce ch'io mi senta straniero in Italia, e italiano all'estero. 2. Territorio, Tradizione e Identità sono concetti ormai del tutto inutilizzabili. Si fanno tirare per il bavero della giacchetta dal leghismo più xenofobo come dall' ecologismo virtuoso di sinistra. Nella mia esperienza ho visto che il territorio è la divinità più pregata e bestemmiata sia dagli amministratori che dai cittadini. E se nemmeno gli abitanti dello stesso territorio, gli appartenenti alla stessa comunità, i depositari di una medesima tradizione sono d'accordo sul senso di questi concetti mi pare davvero commovente pensare che lo siano abitanti di territori lontani, e individui diversi per appartenenza e tradizione. Propongo una moratoria nazionale su queste tre parole. 3. Per me la parola Patria è come un conchiglia morta trovata sulla spiaggia. lo che non ho fatto nemmeno il militare, se poggio l'orecchio posso solo sentire il rumore lontano delle battaglie combattute da coloro che lottarono e morirono per consegnarci questo Paese perennemente incompiuto, e una vaga commozione per l'esito di quello sforzo eroico.

4. Il legame con l'identità regionale, provinciale e locale è più forte, e ancora più forte potrebbe essere quello scomposto in ulteriore legame strapaesano, familiare, fino all'atomo indivisibile del legame individuale. Mi aggrappo e mi cullo in questa fitta trama di legami e sottolegami e vorrei al tempo stesso tagliarli con un odio che è solo l'eredità di antichi campanilismi tanto feroci quanto fecondi. In ogni modo per me «provinciale» è una bellissima parola, la parte migliore, perché vuoi dire italiano senza l'Italia intorno. La provincia ha dato tanta legna da ardere ai grandi centri, anch' essi provinciali eccetto forse Milano e Torino.

5. Sento più forte il legame con l'Europa. Lo sento ogni volta che viaggiando mi imbatto in un convento, un caffè coi tavolini fuori, una piazza con delle panchine su cui fermarsi a leggere il giornale, una festa di paese, un mercato, un anfiteatro romano, un bicchiere di birra o un calice di vino. Finché si leggono questi segni nel paesaggio e nelle persone, si ha la certezza di non trovarsi davvero fuori dall'Europa.

6. La grandezza dell'Impero Romano mi ha molto affascinato, sin dai banchi di scuola. Pensare all' egemonia che un popolo rude di pastori e contadini ha imposto, attraverso la forza delle sue armi e il rigoore della sua lingua, a civiltà molto più antiche e raffinate mi ha sempre affascinato. Poi penso anche che questa fascinazione nasconda un istinto di dominio e sopraffazione presente nell'uomo e cerco di allontanarmene pensando a tutte le occasioni in cui come italiani siamo stati umiliati e dominati dai popoli stranieri.

7. Credo che il fenomeno di partecipazione al tifo sia un valido indice per misurare l'arretratezza di un popolo, cosa facilmente verificabile dal fatto che nei paesi che io reputo più civili gli sport sono seguiti con benevolo distacco, mentre per dire, nei paesi africani, a Roma e nell' America Latina il calcio è vissuto come uno psicodramma collettivo.

Nonostante ciò, a parte gli ultimi Mondiali in cui mi sono trovato a tifare contro l'Italia solidale con lo speaker di Radio Padania per il mio odio contro Lippi, ammetto che nel 2006 quando abbiamo battuto la Germania e la Francia e siamo diventati campioni del mondo ho goduto pensando quella vittoria soprattutto come un piccolo risarcimento per le umiliazioni e i sacrifici di tutti gli italiani all' estero. Un comportamento del tutto contraddittorio, per non dire schizoide, come il sentirmi italiano, sempre in bilico tra la vergogna e l'orgoglio. 8. Questo è l'unico elemento in CUi mi riconosco, forse perché essendo toscano sento quasi di avere una missione, un' eredità linguistica da compiere e tramandare. Se dovessi trasferirmi all'estero sono sicuro che la cosa più dolorosa sarebbe davvero lasciare il bel paese dove il sì suona. Perché una lingua si abita, non si parla. E solo chi ne padroneggia diverse ma non ne possiede nemmeno una è davvero un apolide. 9. Il carattere italiano è stato definito. una volta per tutte da Finocchio prima che dalla commedia all'italiana. Sempre incerti se diventare adulti o restare bambini, col comico in perenne agguato sul tragico. Penso che questo tratto sia immutabile, come immutabile è l'Italia. lO. Si nasce, e io, modestamente, lo nacqui.

Silvia Bre (Bergamo 1953)

1. Sì, purtroppo a volte mi sento italiana, sento una vaga e ingiustificata responsabilità di fare parte di una compagine che non arrivo a comprendere. Amo ciò che amo di quanto vive o ha vissuto in Italia per motivi che nulla hanno a che fare con la collocazione geografica. 2. Non fondo certo il senso delle parole che adopero sull'uso, sull'abuso, che ne fanno i politici. Che ognuno riempia quei termini con la propria esistenza e non si lasci fuorviare, intendo dire. Queste tre definizioni non incidono su nessuno dei miei sentimenti. L'immenso valore prodotto dalla tradizione culturale italiana, per quanto mi riguarda, non risiede in ciò che in essa vi è di italiano, ma in ciò che non lo è, in ciò che sfugge a ogni contestualizzazione locale o temporale.

4. L:unico legame che sento è quello che intrattengo con i miei pensieri, uno per uno e di volta in volta. E i concetti di identità locale o nazionale non sono mai penetrati così in fondo.

5. Figuriamoci, europea. Che identità è? Detto così, sembra che serva solo a contrapporsi a qualcos' altro. È sempre la stessa Storia.

6. No, anche se, per esempio, ogni volta che rileggo Finocchio gioisco che'sia stato scritto in italiano.

7. Questo mi accade. Ma è perché è eccitante partecipare collettivamente a una guerra finta, a un gioco, per l'appunto.

8. Un'identità nazionale degna di questo nome dovrebbe prescindere dalle differenze di idiomi, lingue o dialetti parlati nei vari territori. Ma c'è sempre il politico di turno che ne approfitta, che le esalta. 9. Bisognerebbe smettere di cercarlo, questo carattere italiano. Bisognerebbe amarle, una buona volta, queste differenze, e tutta la bella varietà che comportano.

lO. Di tutte le cose che capitano una volta nati, il fatto di ritrovarsi italiani è di gran lunga la meno importante.

Enrico Brizzi (Nizza 1974) .

1. I sensi non possono ingannarsi in maniera tanto grossolana: oserei dire che mi sento italiano perché sono italiano, per natura e per cultuura. A sedici anni avrei preferito essere nato nelle Antille olandesi, ma questo è il destino che mi è toccato in sorte. È andata così e basta, 'gente: inutile farne cagione di superbia, così come ribellarsi.

2. Il territorio italiano è quello che mi è capitato di traversare in tre mesi l'anno scorso, per un viaggio a piedi dall' Alto Adige alla Sicilia che è stato più istruttivo di tanti libri e articolesse di giornale. A tratti è densamente popolato, ma permangono ampie zone nelle quali il viandante può fare l'esperienza di camminare nella rarefazione delle opere dell'uomo, che giunge sino alla sua completa assenza nelle montagne dell'interno.
Una tipica tradizione italiana è la liturgia del caffè, bevuto più volte al giorno, con o senza zucchero a seconda dei gusti; quanto all'identità, son quattro sillabe tirate in ballo troppo spesso dalle destre xenofobe per citarle con serenità.

3. «Terra'dei padri». La mia famiglia paterna discende da una schiatta di montanari mangia tori di castagne, insediati in un gelido lembo dell'alta valle del Reno, nel cuore dell'Appennino tosco-emiliano: penso a quei luoghi come alla mia patria ancestrale.

Patria mia sono anche la mia città di mattoni rossi e la rete di città e province ad essa legate, dove si parla la lingua di Dante e i ragazzi leggono Gianburrasca, Sussi e Biribissi e Salgari.

4. Non bisogna confondere il rispetto delle radici con il localismo; sono in patria quando cammino su via Merulana come su corso Buenos Aires, a Bolzano e in Sicilia.

5. Il sentire europeo è proprio di tutte le élite culturali del Paese; resta da vedere quanto sia diffuso a livello profondo nella società.

6. La biografia di Garibaldi e !'intera epopea risorgimentale.

7. Certo, in occasione di ogni campionato del mondo di calcio mi sono appassionato, o desolato, per la nazionale insieme agli amici più fida ti.

E ho assistito di persona al trionfo di Marco Pantani, in maglia gialla sugli Champs Élysées, forse la più grande gioia sportiva della mia vita. 8. Indubbiamente vale il contrario: appartenere a una minoranza linguistica porta a percepire come più sbiadita, quando non superflua, l'identità nazionale.

9. Siamo stati addestrati alla prudenza e al trasformismo, alle decisioni prese nei salotti e all'indulgenza verso chi amministra la' Cosa pubblica. Quando ce ne stanchiamo, ci corre lungo la schiena un fremito filoautoritario. Di solito è giusto un istante: cattolicamente, sapppiamo perdonare quasi chiunque.

lO. Mi ha sempre colpito il fatto che molti siano nati qui da una schiatta integralmente nostrana, eppure arrivino a compiere venti, trenta e quarant'anni senza capire la natura del Paese: si può nascere italiani senza poi diventarlo sul serio.

Franco Buffoni (Gallarate 1950)

1. Sono italiano come Marsilio da Padova, come Lorenzo Valla. E soono profondamente orgoglioso di esserlo. Mai mi sentii tanto fiero della mia italianità come durante gli anni del dottorato in Inghilterra. In ambito umanistico. Circondato da persone per le quali il nostro Umanesimo e il nostro Rinascimento erano il pane quotidiano. E io venivo costantemente interpellato. Perché leggevo il latino come l'italiano e loro non percepivano soluzione di continuità tra i due eloqui, le due parlate.

FRANCO BUFFONI

2. « ... Una d'arme, di lingua, d'altare, / di memoria, di sangue, di cuo •..... » Dipende anche molto dalla prospettiva in cui ci si pone. C'è un passaggio nel mio recente Zamel uscito da Marcos y Marcos che credo illustri bene questo punto: «Lo spegnimento delle lingue subalterne, dei dialetti, compianto da molti come una grave perdita culturale ... Certo, hanno ragione, ma per noi - idealmente - tale spegnimento significa il soffocamento della prima forma di insulto. Era il linguaggio della complicità tra "loro", dello scherzo. Per noi: il linguaggio della persecuzione. Quel senso di identità e di pienezza che coglie chi - magari dopo qualche tempo - si ritrova immerso nei fonemi della propria infanzia e adolescenza, per noi è anche un grande senso di soffocamento ... Siamo alla svolta: og&i un omosessuale capisce che deve lottare, ma ha la speranza - almeno per il futuro di poter vivere in un mondo normale».

3. « ... Non è questo il terren ch'io toccai pria? / Non è questa la terra che copre l'uno e l'altro miei parenti? .. » Mio padre era un tenente dell' esercito italiano durante la seconda guerra mondiale. Andò a occupare la Francia nel 1940. E quando nel 1943 i tedeschi improvvisamente divennero i nostri nemici, era in Corsica. Seguirono due anni di Lager in Germania. Soltanto 1'1 per cento dei seicentomila soldati e ufficiali italiani internati in Germania firmò per la Rsi e rientrò in Italia anzitempo (a Salò bastava passare una visita medica, dichiarando stenti e patimenti, e si era congedati). Come mai preferirono non firmare? La risposta l'ho trovata scritta in stenografia su una cartina per tabacco: era una sorta di diario che mio padre riuscì a tenere durante quegli anni in Germania. Scrive: «Ci chiedono di firmare per la Repubblica». Dapprima non capii, poi compresi che parlava della Repubblica di Salò. «Soltanto uno, il tenente ... » e mette nome e cognome «ha firmato. Gli altri, come me, non firmano, per non venir meno al giuramento prestato». Il giuramento era stato prestato al Re. Quindi non si poteva firmare per la Repubblica.

Patria, come senso dell'onore, come parola data. Ho trovato una lettera di mio nonno, che invece aveva combattuto nella prima guerra mondiale. Una lettera del febbraio del 1940 indirizzata a mio padre. Mio nonno, per via dei gas nervini austriaci, era tornato dalla guerra affetto da una forma di paralisi progressiva. Sarebbe morto nel 1944, dopo vent'anni di sedia a rotelle, mentre suo figlio era nel Lager tedesco. Ebbene, mentre mio padre si sta addestrando per la guerra mussoliniana, mio nonno, con mano tremante, parla ancora di «testa alta», di «onore della famiglia» e di «amore di patria».

Potete ben immaginare i miei sentimenti di adolescente gay nei confronti della parola patria: compii vent'anni proprio nel 1968 ... Ci pensò poi l'Inghilterra a farmi cambiare idea, ma nel modo che ho detto.

4. Vivo a Roma da quindici anni, e ...

Sono ormai un vecchio longobardo assente Ad ogni festa tribale,

Per ogni ora che batte ho già dato,

Per ogni meridiana che le ganasce contro il sole stinge Già c'è il ricordo che afferra costringendo alla sosta, Mimetizzando in pausa di pensiero il fiato corto. Sfioro appena la parete recinta di maschile contorno, Un fregio di campione sportivo dal calzone corto,

Coi buoi di Fattori a gemere e a sbuffare Pacificamente all'arte moderna

Dove è la valle dei cani,

Notorio luogo di incontro tra i padroni Di setter e terrier.

Ma torno spesso in Lombardia, e a volte la sorvolo:

Una lunga sfilata di monti Mi separa dai diritti

Pensavo l'altro giorno osservando Il lago Maggiore e le Alpi

Nel volo tra Roma e Parigi

(Dove dal 1966 un single può adottare un minore). Da Barcellona a Berlino oggi in Europa

Ovunque mi sento rispettato

Tranne che tra Roma e Milano

Dove abito e sono nato.

5. Culturalmente, per le ragioni che ho detto prima, continuo a pensarmi nell'identità italiana. Politicamente (e aggiungerei anche: eticamente) preferisco pensare che sul mio passaporto c'è scritto Comunità europea. Questo mi fa sperare che prima o poi l'Italia sia costretta - come per le quote latte - a piegarsi a Strasburgo e a Bruxellles anche per quanto attiene i diritti civili. Per esempio applicando l'arto 13 del Trattato di Amsterdam che condanna <<i commenti diiscriminatori formulati da dirigenti politici e religiosi nei confronti degli omosessuali».

6. Per non allargare troppo il campo mi richiamo ai due personaggi che ho già menzionato. Marsilio da Padova, al quale dovremmo dedicare vie, piazze e università. Invece egli è molto, molto più conosciuto e studiato in Inghilterra ... Cito solo un passo dal Primo Discorso del suo Defensor Pacis (capitolo quinto, paragrafo undecimo), in cui viene considerata l'importanza della <<invenzione» delle religioni: «Sebbenealcuni filosofi che stabilirono tali leggi o religioni» - afferma Marsilio nel 1324 - «non  credessero a quella vita futura che chiamavano eterna ed alla resurrezione umana, nondimeno finsero e persuasero gli altri che questa vita esistesse, e che in essa i piaceri e le pene fossero proporzionali alla qualità degli atti compiuti in questa vita mortale».
TI Lorenzo Valla, col quale la ragione fondata e pacata, come in età classica, torna a prevalere. Ricordo la mia esaltazione di studente adolescente (senza particolari maestri a promuoverla) per il De falso eredita et ernentita Constantini donatione. Ancora oggi per me la lettura della declamatio di Valla è fonte di una emozione sconvolgente: di quell'emozione è impastata la mia crescita, la mia ribellione al falso, e per contro l'amore per la ragionevolezza e dunque per la filologia. Quel documento aprì la via al ritorno della prevalenza della ragione umana come unico parametro del vero. Le falsificazioni culturali non sono poca cosa: solo studiando e divulgando come tali le falsificazioni del passato si possono riconoscere e contrastare ragionevolmente quelle del presente ...

7. No.

8. È uno degli elementi. Per gli altri rimando ai versi manzoniani prima citati. Tuttavia non dimentichiamo che l'unità linguistica della penisola è un fatto molto recente. In vaste zone si parla un italiano lessicalmente povero e senza alcuna vivacità: sono zone dove si è fatto di tutto per soffocare le lingue sorgive, i dialetti.

9. Spero che possa mutare nel tempo. Per esempio, io credo sia dannoso indurre un bambino a basare la propria etica su una nascita «divina» e sulla «resurrezione» di un uomo. Perché glielo si insegna da piccolo, costruendogli un'etica su due eventi che deve accettare in modo dogmatico. Mandandolo incontro a due pericoli: accettare anche altre ingiunzioni di tipo dogmatico, oppure diventare' cinico, amorale, sprovvisto di un' etica. Infatti, quando - crescendo - gli frana, alla luce della ragione, l'impianto etico basato sui dogmi, è ben difficile che l'ex giovane sia in grado di configurarsi in un'altra etica radicata e profonda. Anche da questo - secondo me - viene molto del cinismo, dell'opportunismo, della schizofrenia, delle ipocrisie, delle piccole e grandi astuzie che caratterizzano gli italiani.

lO. Italiani, purtroppo, si è.

Errico Buonanno (Roma 1979)

1. Mi sento assolutamente italiano, e in modo del tutto scontato. Non attribuendo alla nazionalità, a nessuna nazionalità, colpe o meriti particolari, non sono mai arrivato a compiere quello sforzo mentale e retorico che consiste nel dichiararsi «non italiano». Affermare qualcosa del genere può valere come atto ideologico o politico, può significare rifiutare una certa retorica, certi valori. Ma dunque, allo stesso tempo, significa attribuire alla parola «Italia» quella retorica e quei valOri. lo non lo faccio: vedo l'Italia semplicemente come il paese che mi è toccato in sorte, e perciò non ho bisogno di una reazione così paradossale.

2. Non ho mai avuto difficoltà a usare nessuno di questi tre termini, ma· forse bisognerebbe ristabilire tra loro un certo ordine. L'identità esiste, ma è qualcosa di ovviamente variabile, un work in progress continuo. Mi sembra scontato ricordare che i romani discendono da Enea (troiano, turco), traggono parte della loro cultura dagli etruschi (forse fenici, nordafricani), accettano il cristianesimo (una setta mediorientale) e diventano italiani e letterati in Sicilia; tra la dominazione araba, presso una corte tedesca, e con un'influenza decisiva della poesia francese. Ripetiamo questo fino allo sfinimento, lo so, è diventata una banalità; eppure diamo sempre più spesso un valore sacrale alla parola «radici». Potremmo dire che l'identità deriva dalla tradizione, se per tradizione intendiamo il complesso di esperienze che un paese via via accumula. Perciò: la tradizione cresce, e dalle nuove esperienze acquisite si forma una nuova identità. Quanto al territorio, riesco a dargli solo una valenza geografico-politica. Che è naturalmente rispettabile ma convenzionale.

3. È una parola che vorrei ripulire dalle scorie della Storia. Dal fango di chi l'ha usata in senso aggressivo, guerrafondaio, colonialistico, brutale, e dal miele del Libro Cuore. È una parola che vorrei tornasse ad avere il valore che aveva in momenti come la Repubblica Romana, quando si riconosceva il diritto dei popoli ad avere una nazione, ma per quella nazione, sorella tra nazioni sorelle, erano pronti a battersi patrioti di tutta Europa. Vorrei insomma che tornasse ad avere il senso; familiare ma non fanatico, di «nazione genitrice».

4. È come se mi chiedessero se voglio più bene a mamma o a papà. Non stiamo parlando di una scelta, non stiamo parlando di una fede. L'identità, lo ripeto, è solo il frutto delle esperienze e della cultura in cui ci siamo sviluppati. Per dire chi sono, non posso prescindere da nulla. Non posso escludere tutto ciò che di nazionale c'è in me (la Storia che ho condiviso con gli altri italiani, il Dante e il Manzoni che mi sono stati insegnati a scuola, la memoria che mio nonno condivideva con il nonno di un ragazzo di un'altra regione). E non posso escludere i miei ricordi e gli stimoli che mi sono venuti dal fatto di essere cresciuto in un luogo specifico. Sento di essere un romano, certo, e in questa parola dovrebbe essere implicito il mio essere italiano. 5. In questo caso ragiono anche io per contrapposizione. Così fan tutti, o almeno credo. Da romano, sento naturalmente qualcosa che mi

LUCA CANALI
Luca Canali (R.oma 1925)

1. Neutro, una sensazione puramente percettiva. Sento che non saaprei vivere altrove, ma solo a Roma.

2. Meglio queste definizioni che altre, retoriche.

3. Quasi nessuno.

4. L'identità cittadina, ma limitata ai quartieri dove ho vissuto, lavoorato, amato.

5. Non sento legami, tanto meno con l'Europa.

6. La Resistenza.

7. No, mi emozionano le belle prestazioni sportive, indipendenteemente dalla nazionalità.


lia, naturalmente, ma anche i quartieri di Eritrea, Etiopia, Libià e perrfino Egitto, quelli toccati dal genio italiano, sono Italia. Anche quallche pezzo di Istanbul è Italia. Molta Italia si ricava dalla Romania. Nelle Arneriche e in Oceania c'è l'Italia. In Cina, poi. Tanta Italia, innfatli, c'è nella Terra di Mezzo. Laddove c'è universalità c'è Italia. Annche in Sicilia, per esempio, c'è traccia d'Italia.

3. Quando non avremo più vincoli d'obbedienza allo straniero, anzi, al nemico, ritroveremo la patria.

4. Mi ripeto: un'identità quanto più profonda da essere universale.

5. Trovo estranea l'identità europea. Piuttosto euroasiatica. Senza l'abbraccio con la Turchia e la Russia non potrà darsi l'Europa. E coomunque, qualcosa di veramente grande e profondo di nome Europa ebbe una sua esistenza solo in quei tempi che, gli sciocchini, chiamaano ancora oggi Secoli Bui.

6. Mi riservo di non rispondere per non incorrere in un reato o in una grave offesa alla Costituzione.

7. Mai.

8. Altro che, ma senza l'istinto universale si perde la partita. Non si fa festa nelle scuole il 21 aprile, né vacanza, e non si studia più il laatino. Neppure il Santo Padre lo sa parlare.

9.   L'unico carattere nazionale italiano accuratamente tenuto sotto scopa è il genio. Si è, solitamente, geni per caratteristica genetica. Fosse pure per decadere, anzi, piombare nell' oblio delle periferie.
10. lO. Si diventa. Gli italiani migliori, infatti, sono gli immigrati. Dai legionari di Roma, passando persant' Agostino, ha funzionato sempre così. Ottimi soldati, infatti, erano gli ascari. Ancora oggi, nei raduni in Africa, mungono lacrime grandi come anfore nel sentire la parola Italia.

Luca Canali (R.oma 1925)

1. Neutro, una sensazione puramente percettiva. Sento che non saprei vivere altrove, ma solo a Roma.

2. Meglio queste definizioni che altre, retoriche.

3. Quasi nessuno.

4. L'identità cittadina, ma limitata ai quartieri dove ho vissuto, lavorato, amato.

5. Non sento legami, tanto meno con l'Europa.

6. La Resistenza.

7. No, mi emozionano le belle prestazioni sportive, indipendentemente dalla nazionalità.



GIANRICO CAROFIGLIO

8. Sì, anche se permangono forti cadenze vocali, sia regionali che provinciali, sotto la pronuncia omologata d'uso.

9. No.

lO. Tutti gli italiani sono registrati in un' anagrafe italiana. Il resto è chiacchiera. Solo uno straniero può diventare italiano con opportuni procedimenti lavorativi, burocratici, e sempre anagrafici.

Gianrico Carofiglio (Bari 1961)

1. Certo che mi sento italiano ma rispondere alla seconda parte della domanda non è facile. Ci sono momenti - capita all'estero soprattutto - in cui questa sensazione è molto forte ed elementare. Piacevole ma difficile da spiegare.

2. Beh, sul territorio italiano non avrei troppi dubbi. L'Italia è un paese con confini naturali poco opinabili. Le parole «tradizione» e «identità» invece mi mettono a disagio, siano riferite all'Italia o a qualsiasi altro soggetto. Sono categorie sfuggenti che definiscono poco e si prestano a ogni tipo di manipolazioni, consapevoli e inconsapevoli.

3. Altra parola che mi piace poco. La associo a retoriche insopportabili. La patria, etimologicamente, è la terra dei padri. A me piace molto di più pensare alla terra dei figli.

4. Con l'identità nazionale.

5. Con l'identità europea.

6. I partigiani e la guerra di liberazione.

7. Sì. Lo sport è molto più appassionante, molto più divertente da vedre se possiamo parteggiare per uno dei contendenti, individuali o collettivi che siano. La ragione fondamentale, che agisce ovviamente sotto il livello della consapevolezza, è questa.

8. Probabilmente sì.

9. Non credo all' esistenza dei cosiddetti caratteri nazionali. lO. Si diventa, credo. Spero.

Alberto Casadei (Forlì 1963)

1-2-3. Quando si parla di identità-patria-territorio ecc. spesso crediamo ancora di muoverci all'interno di concetti abbastanza stabili, definiti, concreti, e invece tocchiamo sempre più con evidenza i limiti della loro semantica. È chiaro per esempio che molte delle implicazioni che adesso ci sembrano ovvie sono il portato del movimento nazionalistico sette-ottocentesco, mentre dalla fine della seconda guerra mondiale in poi dovremmo semmai parlare di zone di influenza geo-economico-culturale: in questo senso, l'Italia attuale è uno strano mix di cultura tardo-cattolica e di ideologie varie, in genere tutte piuttosto fuori tempo (dal falso liberismo berlusconiano ai progressismi più o meno edulcorati alle frange estremiste).
e quindi molto difficile appassionarsi a un'idea d'Italia se non per questioni di nascita, di lingua e di tradizione culturale in senso lato. Ma il tratto unificante dell'evoluzione della nostra identità è stato, negli ultimi decenni (diciamo a partire dagli anni Ottanta), quello della sua scarsa coesione, della sua manchevolezza, sin dalle origini risorgimentali, del suo essere inutile per creare una solidarietà, tanto è vero che l'attuale scenario è proprio quello della ricerca di radici alternative, locali o regionali al massimo. La concretezza delle piccole patrie, ovvero dei luoghi della nascita e della vita vissuta, supera in appeal qualunque ideale elevato, come la collocazione dell'Italia in un contesto davvero europeo, dove invece potrebbe trovare una nuova dimensione, derivata da una tradizione nobile, più forte dei localismi.

In sostanza, direi che attualmente la domanda montaliana «tutto per nulla, dunque?» sintetizza il sentimento di un italiano che si sia adoperato e si adoperi nel combattere le logiche di potere ancora in gran parte vigenti, se non altro perché portano al continuo disprezzo per la giustizia e la legalità a favore del nostro genus più duraturo, quello dell'astuzia che trionfa anche a scapito della correttezza e del rispetto civile. Ecco, davvero non si sente adesso la possibilità di usa-o re il termine «civiltà» per l'Italia, l'unieo che forse potrebbe sostituire i troppi ormai vuoti o abusati.

4-5. In parte ho introdotto la mia risposta nella domanda precedente, ma qui posso forse chiarire. Attualmente noi non abbiamo una vera identità nazionale, abbiamo molte realtà locali scarsamente comunieanti al di fuori di territori più o meno ristretti, e non abbiamo modo di pensare all'Europa se non in termini generici, più che altro economieo-politici. Si potreqbe ipotizzare che il movimento verso un'integrazione europea sia necessario e inevitabile, ma personalmente non sarei affatto sicuro che ciò avvenga. È palmare la differenza fra l'Unione europea attuale e una federazione come quella degli Stati Uniti che, dopo divisioni anche asprissime, si unisce per alcuni obiettivi condivisi (l'espansione della propria supremazia ai danni di poteri contrapposti, prima il comunismo e ora i fondamentalismi). In realtà, l'Europa ragiona per ora in termini difensivi, prioritariamennte in ambito economico-monetario, mentre nell'immaginario collettivo non emergono ideali comuni.

È allora molto più facile surrogare l'apertura culturale, il confronto con altre civiltà, la creazione di nuove idee forti sul ·futuro, che pur-· troppo dobbiamo reinyentarci, con piccole e a volte meschine vanaglorie locali, spacciate come <<identità»: il rispetto della tradizione non sta nell' essere passivamente (o convenientemente) tradizionalisti, bensì nel ritrovare i motivi profondi che hanno generato una forma culturale condivisa, per proporli in modi adatti ai nuovi tempi e alle nuove condizioni sociali. Viceversa, movimenti politici adesso fortissimi, al Nord ma anche al Sud, non hanno creato nessuna nuova cultura, se non quella dell' ostracismo e dell' opportunismo, con l'italicissima capacità di faare affari con tutti e su tutto, purché in maniera illecita. Roma forse è un po' meno ladrona perché molti soldi sono stati rubati alla fonte.
Per fare un esempio concreto: quando mai si riesce, ancora adesso, dopo decenni di iniziative nate un po' in tutti i comuni almeno di medie dimensioni, a pensare a progetti economici o a attività culturali durature che uniscano con efficacia microrealtà diverse fra di loro, per avere nuove prospettive? Il localismo splendido del Quattrocento è insieme la nostra forza e la nostra condanna attuale: ma nell'ultimo periodo solo condanna, direi, visto che negli ultimi decenni sono state bruciate molte risorse in progettini ed eventini, ma pochissime sono state le occasioni di pensare in grande, acquisendo un respiro davvero europeo, primo passo per assumere un' «identità» all'altezza dei tempi.

6-7. Queste domande presuppongono addirittura aspetti antropologici. Dobbiamo chiederci: quanto l'orgoglio patrio o l'azione di sportivi o di squadre nazionali italiane corrispondono a un retaggio di «masse» (iuxta Canetti), di gruppi che dovevano lottare per imporsi e per stare uniti? Quanto dipende dal desiderio di rivalsa, frutto ancora delle lunghe fasi di lotta che hanno scandito la storia europea e poi mondiale tra Otto e Novecento? Tutto questo corrisponde poco a un vero sentimento «identitario», se non appunto come «distinzione dagli altri»: ma questo è stato uno dei princìpi dei nazionalismi, e in genere non ha portato molto bene.
D'altra parte è innegabile che gli eventi «nazionali» chiamano a una partecipazione, per ritrovare una superiorità che, nella vita di ogni giorno, ormai certo nessun italiano può provare se si confronta con le altre nazioni europee e con molte di quelle di tutto il mondo. Si tratta di movimenti di riscatto, di autoesa1tazione, ma spesso non sono legati se non a fasi del tutto transitorie. More italico, in genere abbiamo in scarsissima considerazione la lunga durata e soprattutto evitiamo di considerare sino in fondo le implicazioni delle nostre azioni.

- Mi permetto qui di inserire una parte di un mio testo, Il compiersi della vittoria, che parte proprio da riflessioni di questo tipo, tra euforia della vittoria (poco dopo il 2006 e molto prima del 2010) e tentantivo di capire (con ['aiuto di Leopardi) cosa significa davvero, per le biologie e le culture odierne, il vincere:

Guardavo il ragazzo dalle pelle butterata

alzare la coppa di polistirolo verniciato

d'oro, mentre migliaia di migliaia cantavano

nella notte: siamo i campioni del mondo. E

il sentimento della morte si allontanava

dai corpi al loro apice, certi del

proseguire dopo la vittoria, non più

cinici, come da sempre tutte le classi

italiane, ora unite qui, in un gesto

semplice e assurdo, un'onda collettiva

un saltare totale, per un attimo

felici.

Piuttosto, va aggiunto, sarebbe davvero ora di proporre studi seri sulla cosiddetta «creatività italiana», che ancora ci contraddistingue all'estero, e forse è il frutto tipico di un lungo processo di adattamento per la sopravvivenza, a tutti i livelli, anche quello culturale e artistico.

8. Certamente la condivisione linguistica è stata la prima causa di aggregazione nelle epoche antiche. Se abbiamo una base comune europea, come già notava Eliot, la dobbiamo alla lunga fase della latinità e quindi del latino come «lingua universale»: che era tale, però, dopo una conquista militare e per garantire una supremazia.

Dunque, la lingua è un elemento di identificazione e di unione, ma di per sé non è sufficiente a creare un'identità nazionale (con tutte le riserve che ho sopra espresso su questo concetto). L'identità si crea grazie a imprese fondative (i momenti epici delle varie storie nazionali), a un lavoro comune (il senso dell'operare anche per gli altri), a grandi opere condivise, a cominciare da quelle letterarie e artistiche.

La lingua, in Italia peraltro ancora estremamente variegata nelle sue espressioni regionali, dovrebbe quindi essere un fattore di autoconsapevolezza, ma non certo un ostacolo all' apertura verso gli altri.

La traduzione, più ancora del mero dialogo, come ha detto Paul Ricceur, è il vero mezzo per accorgersi del sé come altro, degli aspetti che sono comuni a coloro che parlano italiano cosÌ come a qualunque altro essere umano. Le varietà linguistico-culturali non dovrebbero insomma dare luogo a un'idea identitaria fondata sulla chiusura, bensì a una continua traslazione dall'io-noi di una nazione al tu voi di tutte le altre.

9-10. Per quanto detto sinora, in generale non credo che esista un «carattere nazionale»: esistono insiemi di fattori, storicil'ali, che creano delle aggregazioni più o meno forti, più o meno durature. Nelle varie epoche, sono state in genere esaltate le differenze tra nazioni, per motivi difensivi o offensivi in campo politicore, poi economico in senso capitalistico. Il concetto di nazione è stato utile in determinati momenti per superare vincoli localistici eccessivi, ma ha prodotto guerre che ora ci sembrano del tutto orrende.

A fronte di tutto questo, da tempo esistono proiezioni verso il cosmopolitismo, l'affinità culturale mondiale, e in particolare verso la Weltliteratur: è davvero gratificante lo scoprire che ci sono importanti intellettuali di tutto il mondo (da Heaney a Walcott a Oe, per citarne solo alcuni) che indicano in Dante un loro modello, al di là delle differenze di cultura nazionale. Si tratta però di concetti troppo lonhmi dalla prassi, dalla pesantezza del vivere quotidiano, che per forza risente dell'andamento complessivo dello Stato in cui si vive. Pootrei dire che oggi l'italianità, qualunque sia la sua essenza, non la viviamo, la subiamo.
Ecco perché, in questo momento, gran parte degli intellettuali italiani più attivi sono impegnati in un' opera di riscatto: dare una spiegazione ai tanti misteri della nostra politica, una visibilità alle storture, una risposta alle ingiustizie è forse l'atteggiamento più italiano che ora ci resti. Ma si tratta di un' opera difensiva, che mira a portare il nostro apparato politico-burocratico-giudiziario almeno a uno staadio di dignità, ormai perduta a livello di sistema (i singoli, in questo caso, subiscono appunto la condizione comune).
Ora più che mai gli intellettuali dovrebbero anche produrre uno sforzo per proporre una visione diversa dell'Italia, per indicare prospettive inedite, possibilmente pensando a un destino comune assieme alle grandi nazioni europee. Dovrebbero ripensare ai motivi della grandezza duratura di un Dante, di un Michelangelo, di un Galileo o di un genio universale come Leonardo: ripensare senza però procedere ancora sulla scorta di uno stanco storicismo, che è uno dei limiti più forti dell'accademia italiana oggi, e senza nemmeno conti-

LUCIANA CASTELLINA
Luciana Castellina (Roma 1929)

1. Mi sento italiana per via della storia, del cibo, degli odori, del clima,. del modo di rifare i letti.

La mia storia e quella delle persone che mi sono più legate - familiari e la maggior parte degli amici - è strettamente legata alla storia dell'Italia e quando parlo con amici, pur cari, di altri paesi, avverto sempre una distanza, perché non sanno o sanno in modo approssimativo cose che per me sono fondamentali. La storia è la narrazione di una avventura e se tu non l'hai vissuta sei estraneo. Per questo gli . italiani, anche se eventualmente lontani dalla mia esperienza di vita, sono pur sempre meno estranei dei più a me simili stranieri.
Mi piace il caviale e il fois gras, ma non potrei fare a meno delle verdure e della pasta e;he sono il cibo italiano. Infatti, per qualsiasi popolo, l'attaccamento al cibo del proprio paese è quanto rimane di più radicato anche se uno vive da generazioni in un altro paese e non sa più, magari, nemmeno parlare la lingua della propria patria d'origine. Negli altri paesi gli odori sono diversi, non saprei dire perché, ma è così. Il clima è ovvio: è la cosa che più fa parte della persona; e poi il clima in Italia è il più bello del mondo, basterebbe questo per sentirsi italiano. I letti in Francia, Germania, Austria, Inghilterra sono diversi: le coperte non si rimboccano, oppure i materassi sono troppo molli e i cuscini troppo piccoli, ecc. Insomma: io mi trovo a mio agio solo nei letti italiani.

2. Mi sembra una grande sciocchezza pretendere che tradizione, identità, attaccamento al proprio territorio siano irrilevanti, perché il declino dello stato nazionale avrebbe ormai determinato un felice cosmopolitismo (e qui di solito si esaltano l'Erasmus e i voli low cost). Ogni tentativo di considerarli superati sfocia, non a caso, in melanconico sradicamento, nella rincorsa ad illusorie difese identitarie, l'altra faccia della subalternità alla identità dominante. Che per altro non è più nemmeno legata ad un territorio dato, ma determinata dalla centralità assunta dal consumo che opacizza tutte le altre appartenenze, ormai definite innanzitutto da quanto e da cosa si consuma.
Per questo ogni tentativo di piatta integrazione è sbagliato, anche perché solitamente è legato alla presunzione della maggioranza di chi vive sul territorio di rappresentare un livello più alto di civilizzazione, un punto d'arrivo di un processo evolutivo lineare. (C'è sempre un integrato e un integrante). Altrettanto sbagliato è però, in nome del rispetto della cultura e dell'identità dell'altro, confinarlo in un ghetto dove potrà procedere, in isolamento, all'autoconsumo della propria cultura identitaria. Anche i nostri migliori (non razzisti) amministratori locali oscillano fra queste due, ambedue sbagliate, attitudini: o pretendere di integrare l'altro, generosamente considerandolo proprio simile anche se giallo o nero; oppure costruirgli un recinto dove possa conservare intatta la propria cultura.
Le culture, e le identità, non sono infatti rigide, e non vanno conservate come sono così come si fa con le sementi in nome della biodiversità. Le culture o sono dinamiche, o vengono meno alla loro funzione antropologica. Per questo il problema sta nel tener ferma la propria identità ma assumere quella dell'altro - come diceva il grande Edward Said - come risorsa critica di se stessi. Il meglio che un nostro sindaco potrebbe fare è dunque facilitare la reciproca conoscenza. Cosa che non sua. Nessuno si preoccupa in Toscana, dove i cinesi sono migliaia, di insegnare cosa è la Cina ai nativi, o cosa sia davvero - per fare un altro esempio -l'Islam. Esiste presso i Comuni una figura istituzionale: il mediatore culturale, di solito un immigrato che sa l'italiano. Ma il suo ruolo è unidirezionale: aiutare gli immigrati a capire 1'11talia, mai aiutare gli italiani a capire arabi asiatici sudamericani.
3. È una parola carica di sangue. Tuttora, anche nelle più prestigiose file democratiche, c'è chi dice che la patria italiana si è forgiata nella prima guerra mondiale, che è stata un colpevole orrendo massacro. Quelli della mia generazione hanno imparato a scuola a scrivere la nuare a rimanere ancorati a dimensioni culturali già superate (le tarde ideologie novecentesche, i cascami della psicanalisi ecc.). Si tratta di delineare un'idea di Italia che sia innanzitutto contro le ristrettezze politico-Iocalistiche, contro la paura del nuovo e !'ideologia dell'innovazione senza novità, contro i residui di un umanesimo di facciata e a favore di un umanesimo profondo. Tutto questo dovrebbe partire dalla scuola e dall'università, che proprio nel momento di loro maggiore crisi dovrebbero trovare la forza di pensare a nuovi contenuti, a nuove forme di lettura della cultura italiana nel suo insieme. È lì che potrebbero nascere nuove idee politiche oltre che artistiche: e da lì potrebbe nascere anche una nuova cultura comune, che superi le due grandi «idee vigenti» attuali, il particolarismo e il godimento del presente. Forse questo ampio sforzo contribuirebbe a formare un «carattere italiano» riconoscibile in tutto il mondo per affinità e non per differenza negativa.
Concludendo, se si nasce in Italia, attualmente ci si dovrebbe soprattutto impegnare a non essere italiani di oggi, per diventare italiani-in-Europa (e nel mondo) domani.
l

l." ~ '

LUCIANA CASTELLINA

GIUSEPPE CONTE

parola con la P maiuscola e ci hanno messo parecchio per liberarseene. Perché quella maiuscola stava a simboleggiare la sacralità del doovere, del sacrificio, e quant'altro. lo, dopo la fatica compiuta per riimuovere quei simboli, ho però via via ritrovato un senso alla parola: patria, con la p minuscola, come comunità, collettivo, solidarietà e responsabilità condivisa.

4. Quella nazionale perché la mia famiglia viene da parti d'Italia diverse e le regioni e le città che mi hanno formato sono molte. Ma confesso che sopporto meglio il romanaccio che il dialetto lombardo o l'accento torinese.
5. Non credo all'identità europea, ormai labile e impossibile da defiinire. Quanto in Europa abbiamo in comune, nel bene e nel male, è piuttosto la cultura americana, che veicola i rapporti fra di noi e disegna la nostra identità occidentale. Di specificamente europeo c'è, io credo, solo una certa storia del suo movimento operaio, della sua sinistra, di come hanno segnato lo stato e la società. A questo pezzo di identità mi sento legata, ma sono anche consapevole che va sempre più perdendosi.
6. Trovo straordinaria l'antica Roma e mi pare impossibile che l'abbiano fatta gli antenati degli italiani di oggi. E poi, naturalmente, la Resistenza, che in Italia è stata un fenomeno unico: non solo la Resistenza militare, ma quell'insieme di cose che è stata chiamata la «società partigiana». Di questo mi sento molto orgogliosa. Ma anche, debbo dire, di essere cittadina di un paese dove c'è stato il miglior partito comunista, una esperienza importantissima e senza uguali.
7. Questo è vero per tutti i popoli. Ma non c'entra con la patria, oramai il tifo si fa per il «brand» dello sponsor, quale che sia. Casomai si può dire che il fenomeno rappresenta il bisogno di appartenenza che si applica a quanto si trova sul mercato visto che quella nazionale si è impallidita.
8. Sì, lo penso, la lingua non è un dato tecnico, è - come scriveva Gramsci - la nostra pelle. Per questo ritengo importante conservare le lingue, anche se il fatto che non parliamo tutti l'inglese rende più difficile il commercio.
9. Il carattere cambia più di ogni altra cosa. E però credo che il sole lo influenzi. In Italia c'è molto sole.
lO. Si diventa, ma la storia non si annulla, e se uno è diventato italiano ma la sua storia comincia in Afganistan è bene che di questo rimanga traccia. Anche perché l'Italia stessa diventa assai più interesssate sc la sila idcnlllà ~i apre al confronto con quella di altri. Per questo non vorci che tutti diventassero italiani doc, ma che tutti quelli che vivono su questo territorio sviluppassero una identità multipla e più ricca.
E tuttavia, per concludere, diffido molto degli abusati termini di «multiculturalismo», «dialogo multiculturale» ecc. Come ha scritto Alfonso Maurizio lacono: «Un dialogo fra diversi è cosa assai differente da un dialogo fra disuguali». Anche nello scambio culturale ci sono relazioni di potere, oggi più che mai, tant'è che l'occidente continua a considerare universale solo quanto ha unilateralmente definito, sebbene gli altri non possano riconoscervisi perché hanno contribuito poco o niente a disegnare l'immaginario collettivo che ne è il presupposto. Non dico che bisogna rinunciare all'universale e cadere nel relativismo estremo, ma soltanto che questo può essere solo il risultato di un lungo e difficile processo dialogico e di un mutamennto dei rapporti di forza sociali nel mondo.

Giuseppe Conte (Porto Maurizio 1945)

1. Semplicemente il destino mi ha fatto nascere in Italia, da padre siciliano e madre ligure, in una zona di frontiera a due passi dalla Francia. Ho passato gli anni della formazione a Milano. Negli anni della maturità, ho vissuto molto a Nizza, dove avevo comperato casa. Qualche volta nei ristoranti mi dicevano: «Monsieur, vous avez un accent italien ... » E io mi ritrovavo a rispondere: «Mais, je suis itaalien ... » Non capivo mai se lo dicevo rivendicando con leggero orgoglio le mie origini, o scusandomene un po'.
Mi sono sentito italiano quando, in viaggio per leggere miei testi poetici in Festival internazionali, mi è capitato di parlare di Ungaretti e di sentirne versi recitati a memoria da interlocutori colombiani, centroamericani, svedesi, turchi. Mi sento italiano per aver bruciàto tanto della mia vita obbedendo al demone e alla passione della poesia.
2. Territorio è un termine dolcemente circoscritto. Legato a memorie individuali, al clima, al paesaggio, alla vegetazione, alla cucina, ai saapori, ai vini. L'Italia ha una diversità di territori che ne fanno la ricchezza. Ma in Italia la speculazione edilizia, ·vero potere assoluto e inattaccabile, connesso con quello della malavita organizzata, ha sconciato gran parte del territorio, lo ha inquinato, avvelenato e imbruttito.
Il mio personale territorio, oggi a rischio, è la costa tra Cervo e Nizza. Il mare, le montagne, i promontori, le terrazze di ulivi, i fichi, i pini, il barocco, il Liberty, le verdure ripiene, la farinata, i vini bianchi come il Pigato.

GIUSEPPE CONTE

GIUSEPPE CONTE

La tradizione italiana è prima di tutto umanistica, letteraria, artiistica e musicale. Una tradizione così non è fatta per essere presa in considerazione da una classe politica appiattita sul presente, mediamente incolta e balbettante, involgarita oltre ogni sopportazione. Quanto all'identità, non è qualcosa di statico o peggio ancora di ettnico, è qualcosa che si definisce ogni volta, che si rilancia e reinventa. Guai a pensare di averne una fissa. Come pensare di avere radici. È orribile. Meglio viaggiare e cercarle.
3. Non ho mai avuto occasione di usare questa parola con enfasi. e partecipazione. È il secondo elemento della proverbiale triade conservatrice: Dio, Patria, Famiglia, che per me andrebbe riformulata in:
Sacro, Madre Terra, Persona. La mia patria, se proprio devo usare questo termine, è la mia lingua madre. L'Italia è una realtà linguistica e poetica che va da Dante e Petrarca a Ungaretti e Pasolini. Se morisse davvero la poesia italiana, come certi miserabili pensano e desiderano, morirebbe l'Italia.

4. Il mio legame con Porto Maurizio, la cittadina di mare dove sono nato, e con la Liguria, è un legame prevalentemente sentimentale. Di amore e qualche volta di insofferenza e di odio. Ho anche uno strano rapporto con la Sicilia. Il suo dialetto, i suoi colori, i suoi sapori. Anch' esso incontrollabile dalla ragione e fonte di una commozione assurda ogni volta che atterro a Catania. Sul piano intellettuale, i miei legami maggiori sono con Milano e Parigi, che è stata inoltre tramite per i miei contatti con il mondo arabo.

5. Da ragazzo ho vissuto una stagione di amore fortissimo ed esclusivo per i classici. Passando prestissimo da quelli italiani, greci e latini a quelli europei. Conservo ancora quadernetti di quando ero quindicenne con tentativi di traduzioni da Shelley e Goethe, con tentativi di opere teatrali che imitavano Shakespeare e lo Sturm und Drang, con un abbozzo di romanzo alla Laurence Sterne. Nel 1962, scrissi il mio primo diario di viaggio (in Inghilterra, naturalmente) direttamente in inglese. Ormai adulto, ho fatta mia la visione di una Euroopa Unita dal Mediterraneo alla valle del Reno come la prefigura in maniera visionaria e potente Victor Hugo. Pur avendo rifiutato l'eurocentrismo, mi sento italiano, francese, tedesco, tanto più quanto più mi apro al resto del mondo, al pensiero islamico, induista, taoista. Sogno una rinascita politica e culturale dell'Europa, so che solo una Europa rinnovata potrà contare ancora nel mondo e soprattutto farvi contare i suoi principi inalienabili: libertà, eguaglianza, diritti dell' uomo.
( altro periodo italiano che leggermente mi inorgoglisce è quello tra la fine del Settecento e gli inizi dell'Ottocento, che per me ha la voce, oggi da tutti inascoltata, di Parini, Alfieri e Foscolo. E sono sempre stato affascinato da due grandi liguri come Garibaldi e Mazzini, perché sono affascinato dal mare e dalla ribellione in nome dello spirito.
7. Sin da ragazzo, dal 1954, sono stato ammiratore della nazionale di calcio tedesca. Non mi emoziono in genere per i nostri azzurri, non posso farci niente. Mi annoiano, li vedo lenti, mosci per come sono super pagati, demotivati, fragili di muscoli e di nervi. L'unico campione italiano che ho davvero amato è stato Gigi Riva. Grande calliatore e grande uomo. A lui auguravo sempre di vincere, con il Cagliari e con la nazionale.

Devo essere sincero: trovo disgustoso (e anche un po' straccione) che ci si ricordi del proprio paese e che si sventolino in modo commulsivo bandiere soltanto in occasioni calcistiche, mentre ricordo con gioia la miriade di tricolori francesi in piazza a Parigi nel 2003 per dire no alla guerra in Iraq. Mi è più facile e spontaneo simpatizzare per atlete e atleti italiani, corridori, maratone ti, salta tori, nuotatori, tuffatori, canottieri, ginnasti, schermitori, sportivi più autentici, le cui vittorie mi fanno pensare, queste sÌ, all'Italia migliore.
8. La spina dorsale di una nazione è la lingua. Il midollo spinale la letteratura. L'Italia è stata inventata, sognata, pensata, voluta dai suoi poeti, creatori, custodi e innovatori della sua lingua.
9. Non vorrei che il carattere italiano fosse quello che immaginano gli stranieri di bassa cultura. Quante ne ho viste in giro per il mondo. Italiani descritti come vanitosi, canterini, superficiali, abbagliati dalll immagini, esuberanti, ciarlieri, dongiovanni, incapaci di combattere, vili, inaffidabili, cultori del proprio interesse particolare, ladri e imbroglioni. Purtroppo la cosiddetta commedia all'italiana e, cosa ben più grave, lo spettacolo di certi politici non smentiscono questi luoghi comuni. Molta parte della gente comune sì.
Credo che il carattere nazionale non sia un dato immodificabile, al contrario che si modifichi e si sviluppi in forme nuove, in base a progetti culturali e spirituali.
lO. Tutte e due le cose. Spero che lo diventeranno tanti migranti, tanni bambini maghrebini, turchi, albanesi, sudamericani che vedo per le


ANDREA CORTELLESSA

nostre strade, che sceglieranno l'Italia per vivere e l'italiano per esprimersi, portando, all'Italia e all'italiano, nuove linfe vitali, nuovi sogni e prospettive. Un futuro, insomma.

Andrea Cortellessa (Roma 1968)

1-6-7-9-10. Ahimè sì; sono «italiano», senz'altro. Molto spesso vorrei non esserlo. Uno statement spesso citato è quello di Alfonso Berardinelli che una dozzina d'anni fa apriva la sua antologia, Autoritratto italiano, con la frase «Mi sono accorto tardi di essere italiano». Ma sento citare meno spesso (o mai) la seconda frase, che completa e invera - per quanto mi riguarda - la prima (al di là di come prosegua il ragionamento di Berardinelli nelle pagine seguenti), e cioè «Avevo più di trent'anni quando ho capito che questo era un problema». Berardinelli intende dire che è un «problema», per lui, l'essersi accorto tardi della propria italianità (cioè l'aver sottovalutato questa identità, essersi a lungo illuso di poterne prescindere). Per me invece, più allla radice, è un «problema» proprio il sentirmi italiano: il che non mi capita da quando avevo trent'anni ma da molto prima. Non mi sono mai concesso il lusso intellettuale di pensare di poter prescindere da una serie di caratteristiche che vedevo dominanti attorno a me e che, contro la mia volontà, finivo per riscontrare in una certa misura anche in me stesso.
Negli ultimi cinque anni sono stato molte volte in Sicilia. E ho scooperto che c'è qualcosa, nei siciliani quando parlano della Sicilia, che fa parte anche di me. L'ho visto negli occhi di una giovane donna che ho visto intervistata, a Gibellina, in un documentario di Davide Ferrario.che uscirà l'anno prossimo ma le cui riprese grazie all'autore ho potuto vedere in anteprima; s'intitola Piazza Garibaldi e, come in precedenza La strada di Levi che ripercorreva al presente l'itinerario della Tregua appunto di Primo Levi, racconta il nostro paese rifacendo l'itinerario dei Mille. Con questa giovane donna ho vissuto per due anni, in passato, e so bene cosa vuoI dire quel suo sguardo. C'è tutto l'amore per la propria terra e insieme - non la vergogna, no - l'auutentico sdegno per se stessi: a causa di quell'amore, avvertito come inngiusto. Anch'io amo l'Italia, malgrado tutto .. Ma so che non è un amoore «giusto» (se mai l'amore lo è).

Per esempio, ci sono poche cose che mi ripugnano quanto il tifo calcistico. Non c'è stato bisogno di attendere la Società dello spettaacolo per rendersi conto che è il Calcio il vero oppio dei popoli. Epppure, malgrado tutti lo sappiano benissimo, è difficile ormai inconntrare persone di cultura che non siano anche «tifosi» di una qualche squadra di calcio; malgrado vedano bene come le «curve» degli staadi siano da tempo lo sfogatoio pubblico, socialmente tollerato, di tuttti i peggiori istinti tribali (nòn è un caso che vi facciano appello i moovimenti politic~ più spregiudicati). Questa specie di doppia coscien-

Franco Cordelli (Roma 1943)

1. Sì, certo. Come mi dovrei sentire? Mi sento italiano poiché parlo e scrivo in lingua italiana.

2. Il territorio italiano mi lascia del tutto indifferente. La tradizione italiana è racchiusa nella storia della sua lingua. L'identità nazionale è quanto di più convenzionale o aleatorio si possa concepire.

3. Dio, patria, famiglia erano le tre parole d'ordine del mio maestro dellla scuola elementare Regina Elena in Roma. Tutte e tre oggi, e da lunngo tempo, mi appaiono concetti ingombranti, a volte incomprensibili. 4. Be', sono nato a Roma, Roma è la mia grande abitudine; Il suo orizzzonte, tuttavia, è per me l'Europa: un orizzonte più storico che geoografico.

5. Piuttosto passivamente mi sono sentito italiano finché non ho coominciato a girare in macchina per l'Europa. In questo senso (anedddotico, autobiografico, esistenziale) il mio orizzonte europeo è più geografico che storico.

6. Orgoglio patrio è un'espressione esagerata. Ma più d'una volta ho scritto che Risorgimento e Resistenza sono stati per l'Italia due buooni momenti. Potrei aggiungere l'Alto Medioevo, il Rinascimento, il Settecento di Alfieri e di Beccaria.

7. Una sola volta, nei Mondiali di calcio del 1970. Il motivo è che aveevo ventisette anni. Mai ho tifato per un corridore ciclista solo perché era italiano. Il mio corridore preferito oggi è l'australiano Cadel Evans.

8. Mi sembra di aver già risposto (implicitamente) in modo affermaativo. Non per questo la letteratura italiana mi appassiona più di quellla che non lo è. Se poi da lingua e letteratura passiamo a cultura, alllora preferisco la cultura inglese, quella boema, quella francese, quellla svizzera, quella brasiliana e, forse, quelle a me ignote delle piccoole tribù che consistono nelle loro tradizioni secolari.

9. Sono due domande di tipo meta fisico. Impossibile rispondere.

lO. It:aliani si nasce, di sicuro. Si cerca di diventare qualcosa di più, se 11011 qllalcosa eli meglio. Ma forse avrei risposto nello stesso modo perfino se (os:;i nAlo n l.ondra o a Brighton.
Ma proprio perché sono italiano anch'io, purtroppo, è capitato in passato che - appunto contro ogni mia consapevolezza - abbia a mia volta «tifato» per quallche Nazionale. Magari più volentieri per rappresentanti di sport meno socialmente egemoni, e meno impresentabili, del pallone.

Non si nasce italiani né lo si diventa. Come tutto il resto che si è, <<italiani» si diventa nascendo. Sin dai primi anni di vita si assorbono caratteri che sono «culturali» solo nel senso in cui sono «sociali» (già all'interno di quella società minima, e terribile, che è il nucleo famigliare). Più esattamente si tratta dunque di caratteri antropologici. Il «problema» consiste nel fatto che tutte o quasi tutte le marche antropologiche che in genere (e più o meno genericamente) vengono attribuite al concetto di «italianità» sono, per quanto mi riguarda, una tabe dalla quale vorrei emendare almeno me stesso (non illudendomi di poter fare granché per mondarne i miei concittadini). È un problemail «sa perla lunga» (la strafottenza, il misoneismo, il fare i suffficienti, il far spallucce, lo strizzare l'occhio, il dar di gomito: tutti caratteri peraltro - proprio in senso «mimico», prossemico - ancora più specificamente romani che italiani). È un problema quello che è staato definito «familismo amorale» - in luogo del senso dello Stato e, più in generale, della cosa pubblica. È un problema la costitutiva, demolitoria, nichilistica mancanza d'entusiasmo in ambito culturale (e non solo in quello). È un problema l'ossessione del «realismo» in ambito politico (e non solo in quello) - la programmatica deficienza di idealità, di progettualità, di fascinazione del futuro. È un problema il «buttarla in caciara» -la strutturale predominanza del comicosco sull'ironico-gelido (se ne vedano esempi eloquenti nella sintassi semiotica dei talk show televisivi). Eccetera. È un problema, insomma, il nostro cinismo.

Naturalmente questi sono caratteri generali e, in forte misura, generici. Le nazioni, e diciamo pure i «popoli», sono sempre la sommatoria di tante identità che è arbitrario semplificare e, appunto, geeneralizzare. Contano i tratti maggioritari, certo, ma contano (o dovrebbero contare) anche quelli minoritari. E nella fattispecie c'è tutta una tradizione di «anti-italiani» - dagli illuministi siciliani e napoleetani a Leopardi e Nievo, da Gobetti a Gramsci, da Pasolini a Manganelli (tanto per citare autori fra loro distanti e magari avvertiti come contrapposti) - che in realtà sono stati italiani minoritari: italiani "problemalici», che culturalmente nori hanno fatto altro che battersi, ('illl,wllno Il SIIO modo, per un'Hall" diversa. Restando sempre, naturalmente, sconfitti. Ha detto una volta Giuseppe Pontiggia che la tradizione della narrativa italiana ha la particolarità di essere dominata da coloro che l'hanno contraddetta (citando Savinio, Gadda, Delfini, Landolfi, Morselli ... ); ma mi pare che lo stesso si possa dire, in geneerale, per tutta la modernità italiana in arte e in letteratura (se, appunto, «modernità italiana» non è in sé avvertito come un ossimoro). Se al di là dell'anagrafe, come credo, sono stati e sono «italiani» Allberto Burri e Michelangelo Antonioni, Gianfranco Con tini e Andrea Zanzotto, Luca Ronconi e Claudio Abbado, allora anch'io posso dirmi italiano - o almeno lo spero - senza dovermene vergognare.

2-8. Sull'«identità» credo di aver risposto. Se i termini (e i concetti) di «territorio» e «tradizione» venissero impiegati nel loro senso specifico, geografico e storico, non farebbero problema (appunto): sono dati di fatto e talmente ricchi e vari da rendere impossibile, ridicolmennte sguaiato, un loro (pure così diffuso) impiego generalizzante e generico. Pensiamo per un attimo al «territorio italiano». È più «Italia» Pantalica o Luzzara? Non credo esista un paese europeo dal «territorio» altrettanto «plurale» del nostro, così variegato nell'estensione geografica e stratificato nella profondità temporale. Il che vale anche per la lingua italiana, naturalmente: la cui ricchezza deriva proprio dalla varietà di inflessioni regionali, marche dialettali, strati sociali. È proprio per la lingua, in gran parte, che non posso non dirmi italiano: !'italiano è l'unica lingua in cui mi senta completamente a mio agio, la cui letteratura possa godere a tutti i livelli. Leggere un testo in una delle due o tre lingue straniere che mastico comporta sempre uno sforzo, una riserva mentale che riduce il mio godimento, e dunque la mia effettiva comprensione. Né capisco come si possa pensare di aver «letto» davvero un testo letterario se non è scritto nella noostra stessa lingua (o comunque in una lingua che si conosca quanto la propria): invidio molto la leggerezza di critici e saggisti - per non parlare degli scrittori - che fondano i propri sistemi di valori, i proopri «canoni», su testi letti in traduzione. Per parte mia, dico spesso che il mio narratore preferito è Ervino Pocar, e il mio poeta Giusepppe Bevilacqua: perché so di non av~r mai letto «davvero» Kafka e Ceelan (il che costituisce uno dei miei crucci maggiori).
Il guaio è che, a destra prima ma da un pezzo ormai anche in quella che si definisce «sinistra» (e che ideologicamente - come si vede proprio dall'adozione di questo genere di retoriche - altro non è che una pallida imitazione della destra), i concetti, e i termini, di «territorio» e di «tradizione» sono impiegati come dispositivi ideologici. In quanto tali, sono i capisaldi di un'idea «maggioritaria» di nazione
MAURIZIO CU,CCHI

e di popolo che, come ho detto, è la mia antimateria. Nel duplice sennso che so far parte di me e che so di doverla combattere sino alla fi-

ne dei miei giorni. '

4-5. Più si riduce la scala (ma fino a quale scala è possibile ridurla? È concepibile un'identità di quartiere, lo so bene, ma lo è altrettanto un'«identità» di condominio? di appartamento?), più i miei «probleemi» aumentano. Di converso, più la scala aumenta più mi sento a mio agio. Come lettore, per esempio, so di essere eurocentrico (arbiitrariamente annettendo all' «Europa» le Americhe, l'Oceania e il Sud Africa). Ma se non fosse un'immagine usurata preferirei dichiararmi cittadino del mondo; e a un'ipotetica (ma storicamente, come sapppiamo, non inedita) domanda «Razza?» risponderei ovviamente «Umana». (Tra le idealità poco amate dagli italiani, e da ultimo pure dalla sinistra che pure nacque nel suo nome, c'è anche l'universaliismo). Meno genericamente, e soprathJtto meno retoricamente, mi piacerebbe adattare all'identità italiana un concetto che trovo molto bello di Étienne Balibar, il quale vede l' <<identità europea» come fruttto di una lunghissima, sanguinosa conflittualità interna. E che, lungi dal cancellare questa memoria traumatica in nome del dogma à la paage della «riconciliazione», si faccia forza proprio di questo travaglio, di questa via lunga e stretta che malgrado tutto è stata percorsa, per darsi statuti non fondamentalistici, non razzistici, non «tradizionaliistici» (nel senso ideologico suddetto). Il nazionalismo, e diciamo puure il patriottismo, «debole» di paesi che hanno alle spalle un analogo travaglio interno - come la Germania, oltre all'Italia - è uno dei pochi tratti (finora) maggioritari, dell'italianità, nei quali mi riconosco apppieno. Non è un caso che sIa nella Costituzione italiana ad essere preesente un articolo come il numero 11 (<<L'Italia ripudia la guerra», con quel che segue), anche se negli ultimi anni scandalosamente calpeestato dai nostri governanti, di destra come di «sinistra». L'Italia che «ripudia la guerra» è la mia Italia.

3. Posso solo ripetere: «l'ai horreur de la patrie».

Maurizio Cucchi (Milano 1945)

1. Mi sono sempre sentito, naturalmente, italiano, e senza troppo pensarci, devo dire, tranne quando sento certe sciocchezze localistiche o quando sento parlar male in generale del nostro paese.

ELISA DAVOGLIO

2. Il concetto di identità è un concetto abusato in genere, che cosÌ com'è trattato denota insicurezza e desiderio difensivo. L'identità dev'essere, ed è, composta, mobile, cangiante, aperta. Purtroppo l'iitaliano non ha un forte senso della comunità nazionale, e questo è dovuto a ragioni storiche, ma non solo.

3. La parola, in se stessa, non mi piace molto. È troppo carica di inncrostazioni retoriche, purtroppo, di cui sappiamo le origini.

4. Mi sento italiano, soprattutto, ed essendo nato a Milano ho il sennso delle radici. Come credo chiunque, più o meno sentite, più o meeno considerate importanti.

5. Il senso dell'identità europea un po' mi sfugge, lo sento un po' laabile o forzato. Dunque italiana.

6. Tutti i grandi dell'arte, della letteratura, della musica, del pensiero in genere. Ma senso di orgoglio patrio è forse espressione un po' forrte, o retorica.

7. Direi di no, con una eccezione: i Mondiali di calcio dell'82.

8. Ho in parte già risposto sopra. Quindi sÌ, sicuramente.

9. Non è domanda a cui si possa rispondere con poche battute. Ma è chiaro che, comunque, come ogni cosa, muta nel tempo.

10. Si nasce e si diventa.


Elisa Davoglio (Livorno 1976)

1. Mi sento italiana nella misura in cui sento il bisogno di riconoscermi in una identità comune. Anche se forse quest'identità può apparire grottesca quando si riduce agli stereotipi sempre peggiori con cui viene rappresentata. La mia italianità consiste in mia nonna, nel mio dialetto, nei pesci del porto e nella campagna. Ogni dimensione locale mi porta a concepire l'italianità, prima ancora che l'appartenenza ad una regione, a una città, a un piccolo paese.

2. Credo che tali concetti vengano depauperati del loro significato apppena vengono espressi, sia a destra che a sinistra. Riempiono i vuoti dei discorsi, quando si vuole dire qualcosa di forzatamente «giusto».

3. Mia nonna, il mio dialetto, i pesci del porto e la campagna.

4. Credo di avere già risposto a questo quesito, in merito alla prima domanda. Ribadisco che per me questi termini si riferiscono a concetti strettamente correlati, tanto da non poter distinguere un differente legame tra me e gli stessi.

5. Indubbiamente sento più forte il primo. Non ho mai realmente compreso !'identità europea e all'epoca non avrei fatto un gran tifo per i carolingi. Di fatto anche la Chiesa è stato un discutibile e potente elemento «collante» per le popolazioni ·europee, forse addirittura il più importante. Per questo, da laica, l'identità europea mi lascia indifferente.

6. Parecchi. Forse sono proprio questi a popolare e a rendere viva la mia identità. Come il «Tiremm innanz» di Salvatore Sciesa.

7. Mi è capitato spesso di tifare sportivi italiani solo per il fatto che erano italiani, soprattutto negli sport dove sono meno gli sponsor e quindi minore la circolazione di denaro. Il mio tifo deriva da posizioni più etiche che identitarie.

8. Non credo, visto che l'Italia rappresenta un coacervo di idiomi e non credo che solo il «volgare» fiorentino medievale abbia dato origine all'italiano parlato di oggi.

9. Non penso che esista il carattere nazionale italiano. Sfato la rapppresentazione classica dell'italiano medio, anche perché di tali rappresentazioni abbonda l'immaginario comune e nessuna di esse finisce per essere credibile.

lO. In Italia si può nascere e si può diventare italiani, ma né l'una né l'altra circostanza rendono scontata l'appartenenza ad un' identità comune. Senza essere nati in Italia e senza essere diventati italiani si può vantare un'identità che, nel momento in cui viene messa in dialogo con altre identità, produce una dimensione comune e tanto ba- . sta ad escludere la «clandestinità».

GiancarIo De Cataldo (Taranto 1956)

1. Confesso che lavorando sul .Risorgimento (come scrittore e sceeneggiatore) mi sono ri-sentito italiano. O sono forse un italiano riisentito: consapevole dei pregi e difetti del carattere nazionale, e della necessità di adottarli tutti, perché coesistenti sempre in ogni sinngolo italiano. Mi danna l'anima constatare, però, che nel corso del tempo continua a prevalere l'Italia degli avidi e opportunisti, dei gretti e traffichini, a danno dell'altra Italia, quella dei giusti e dei vaalorosi, che pure hanno fornito fulgidi esempi nella storia passata (e continuano ancora, nel presente).

2. Oggi «identità» è una parolaccia, perché esclude ciò che non coincide con la «mia» identità, geografica o politica che sia.

Ma, in astratto, identità è il complesso di ciò che si è, e se la si intende in senso dinamico, come spinta a migliorarsi e a non lasciarsi vincere solti1nlo di1i propri i1spetti più discutibili, può essere una rii~Iorsn. 'I(;rrilorio ilnlinno è un concetto geografico: basta non mettersi in I('sla di conqllislflrc qll;"l1chc colonia, e non pretendere di sostituire a «italiano» padano o altri aggettivi sconvenienti. Tradizione, infine, è l'uomo quieto del proprio non-essere, come la carpa del saggio omonimo di Elémire Zolla, l'uomo schiavo delle paure e tendente all!'inerzia, e in questo senso sono antitradizionalista. Ma tradizione è anche la lezione del passato, l'esempio dei grandi, la riflessione sui loro errori (per non rinnovarIi). E allora, in ognuno di noi deve neecessariamente esserci una parte di tradizione.

3. Patria per me è il titolo della rivista dell' Anpi. La patria migliore, fatta dagli italiani migliori: i partigiani resistenti.

4. Ho riscoperto, dicevo, l'italianità che si annidava, remota e nascosta, in me. Mi piacerebbe potermi sentire legato alle tante patrie che esploriamo quotidianamente, in una sorta di diritto naturale al nomadismo, dove, però, la tradizione (nel senso sopra spiegato) e la Patria partigiana costituiscono i punti fermi.

5. Dunque, alla luce di quanto dicevo, con tutte e due.

6. Mi ripeto: la Resistenza. E aggiungo: il Risorgimento dei cospiratori democratici, radicali, mazziniani, republicàni e socialisti.

7. Sì, confesso. Per lo stesso moto spontaneo e insopprimibile che spinge Nino Manfredi travestito da svizzerotto biondo in Pane e cioccolata di Brusati a smascherare la sua italianità davanti a un gaI della nazionale ...

8. Dovrebbe esserlo. Se, fra l'altro, riprendessimo a considerare i dialetti come lingue particolari, e non universali, l'intera unità linguistica ne uscirebbe arricchita. '

9. Ci sono aspetti decisamente immutevoli del nostro carattere: in positivo, la generosità spesso figlia della disperazione, in negativo l'opportunismo sempre figlio dell' agio e della diffidenza dei furbi.

lO. Si nasce e si diventa. Oggi mi domando come si faccia a diventare (e restare) «bravi italiani». E confido, per trovare risposta e rassicurazione, nei nuovi italiani. Magari colorati.

Roberto Deidier (Roma 1965)

1. È una domanda alla quale oggi, credo, sia divenuto più difficile ri- spandere. A volte vado nei grandi centri commerciali, con lo sguarrdo dell' antropologo, e osservo i comportamenti nei fine settimana, nei giorni pre-festivi, nelle ore di maggior traffico di persone e mi chiedo davvero cosa sia la sindrome da «sabato del villaggio», se quello che guardo anche nei documentari o nei film stranieri è lo stesso identico scenario. Dico questo perché mi sarebbe venuto da riispondere che non mi sento un italiano da «sabato del villaggio», in-
,~

ERRI DE LUCA

TULLIO DE MAURO

me se avessimo questa speciale qualità, di sentirci"profondamente raadica ti in un luogo e di lasciare comunque libero di vagare il nostro immmaginario: siamo un po' Dante e un po' Ariosto, un po' Colombo e un po' Galileo, poeti, esploratori e scienziati, contemporaneamente:

10. Ho incontrato stranieri venuti a vivere in Italia che sono diventaati più italiani di noi ... Ma forse erano predisposti.

8. L'italiano come lingua nazionale è recente, non costituisce colla sufficiente. Prevale ancora l'identità dialettale. Se sento parlare itaaliano all' estero non mi volto, se sento parlare napoletano sì.

9. Ignoro l'articolo.

lO. Solo il suolo per nascita assegna la nazionalità per me, perciò connsidero italiano qualunque figlio di immigrati nato tra di noi.

Erri De Luca (Napoli 1950)

1. Sono italiano per via di lingua, mi considero un residente in italiano. La mia madrelingua è stata il napoletano, l'italiano è venuto secondo in principio stava zitto nei libri e a bassa voce a casa dove mio padre voleva che parlassimo con lui quella seconda lingua, senza accento. Nato nel dopoguerra in mezzo alle macerie del nazionalismo catastrofico ho avuto un' educazione sentimentale che respingeva ogni manifestazione di patriottismo. Perciò non mi commuove l'inno né lo sventolìo del tricolore. Mia appartenenza è la lingua in cui leggo, parlo, canto, scrivo, sogno.

2. Il territorio è una variabile storica. Non sono affezionato ai confini. Se una comunità del nord vuole costituirsi indipendente mi separo volentieri e celebro la nascita di una nuova repubblichetta suballpina. Tradizione e identità da noi sono multipli di dialetti e cucine perciò più vive del semplice formato di nazione.

3. Patria ha a che vedere con il padre, un allevatore. Non ha nessun senso per un emigrante, uno scacciato di casa dagli stenti in cui lo lascia il padre che non lo riconosce come figlio legittimo, degno di cura e di uguaglianza. Patria per me è la lingua di mio padre che abita in me e io in lei.

4-5. Appartengo al sud d'Italia e del Mediterraneo, il resto è mondo. 6. Sono stato contento di essere italiano negli anni '90 durante la guerra di Bosnia. Il ritorno della guerra in Europa spinse molti di noi a orrganizzare viaggi di soccorso. Gli italiani in Bosnia sono stati decine di migliaia in quegli anni, non una delle tante agenzie di aiuti a fondo perduto ma postini che recapitavano puntuali e diretti soccorsi nelle mani bisognose di aiuti e anche di strette di altre mani. Gli italiani sono stati popolo accanto a un altro popolo, i migliori e i più efficaci proprio perché senza apparati centrali, senza gli sprechi osceni delle successive Missioni Arcobaleno. Dopo di quello sono orgoglioso solo di olcuni, uno per lutti Cino Strada e i suoi di Emergency.

7. Cli cvcnl'i Hporlivi Aono fcslival comc San Remo, una botta e via,

Tullio De Mauro (Torre Annunziata 1932)

1. Mi pare che la domanda già implichi una parte di risposta. La domanda Lei non me la rivolge in hopi o inglese, ma nella lingua che Lei suppone, e giustamente, che io usi. È la lingua che da poco meno di cinque secoli non solo in Italia ma in Europa si è chiamata italiano, usando per la lingua lo stesso aggettivo etnico con cui da tre secoli ci si riferiva alle popolazioni, politicamente divise eppure ricche di somiglianze che suggerivano di trovare una denominazione comune, cercata ma non ancora stabilitasi ai tempi di Dante. Erano le popolazioni che si raccoglievano e raccolgono in confini fissati da Roma nel I secolo a.c., accettati nel Medioevo dagli imperatori di nazione germanica e dai geografi arabi, richiamati da Dante, da Ugucccione, da Boccaccio e dal Quattrocento ritenuti buoni in tutt'Europa e anche nei mappamondi seicenteschi giapponesi conservati al museo di Ueno a Tokyo. Il dato geografico (ed etnico-linguistico) così persistente e così diffusamente accolto merita tuttora attenzione. I patrioti italiani del 1848 rimproverarono a Metternich di avere asserito che «l'Italia è solo un'espressione geografica». In realtà Metterrnich scrisse in un suo dispaccio diplomatico qualcosa di simile ma svolgendo un ragionamento assai più complesso e nient'affatto offensivo, che coinvolgeva, con l'Italia, la Germania. Metternich non intendeva negarne l'unità storica, culturale e nazionale, richiamava solo l'attenzione sulle difficoltà di unificare politicamente due aree europee di riconosciuta unità, ma divise in stati eterogenei. In certo modo non contestava, ma anzi evidenziava !'identità delle due entità nazionali e però da buon absburgico non condivideva l'idea della necessaria corrispondenza tra nazione-lingua e stato. Ma torno alla Sua domanda. Nel rivolgermela nella lingua di questo nostro paese Lei stesso sta dando per presupposto e certo che io sia in possesso di questa lingua e quindi, almeno per quest'aspetto, io sia italiano. Naturalmente potrei essere marocchino o polacco o tedesco, dal cognome e nome però non si direbbe. Lei dunque assai ragionevolmente mi ritiene italiano. E in effetti, comunque io possa dichiarare di «sentirmi", non mi resta che essere italiano. Sbaglio? Quanto al modo, se Lei allude agli stati d'animo che accompagnano questo dato di fatto, mentirei se tacessi che a volte avverto difficoltà e difetti nella nostra comune vita di italiani. Ma tutto il mondo è paese e per quel che capita di sentire e conoscere di altri paesi del mondo si vede che un po' dappertutto, se c'è informazione e consapevolezza critica, matura il desiderio di voler migliorare condizioni e modi di vita e affiorano quindi i rilievi su difficoltà e difetti nazionali. Basta questo per dirsi «stranieri in patria» come, con varia connotazione, si è detto dall'Ottocento?

2. Credo di averlle già risposto. Forse vale la pena aggiungere, come faceva Cattaneo e ha fatto Fernand Braudel, che un tratto storico caratteristico dell'identità italiana è il policentrismo delle città capitali. 3. In un buon dizionario il valore più generale della parola è definito così: «terra propria di un popolo, a cui ciascuno degli abitanti sente di appartenere come parte di una collettività per esservi nato o per vincoli affettivi o culturali". Credo di norma di attenermi a questo significato se mi accade di usare la parola.

4. Condivido la tesi di chi vede ogni essere umano come un nodo di tanti legami che nel tempo variano e vengono in primo piano a seconda delle circostanze. Personalmente mi sento molto legato a Napoli e a Roma, ma anche alla Sicilia, ma anche ad amici fiorentini e di Scandicci, con cui ho lavorato per dieci anni e passa, o di Torino, con cui ho lavorato intensamente per una quindicina d'anni. Ma se mi trovo in Giappone o a Stoccolma mi ritrovo assai simile ad altri italiani, di tutt' altre regioni, che incontro.

5. Dipende: in Francia o Germania mi capita di sentirmi molto italiano, ma a Tokyo o a Santiago (del Cile!) mi sento molto europeo.

6. Orgoglio patrio? L'espressione suona enfatica o ironica. Se sono «orgoglio patrio» la memoria, l'ammirazione e l'affetto per altri italiani di ieri e di oggi, sì.

7. SÌ, mi fa molto piacere se in una gara o partita vincono italiani. Anche questo è uno dei tanti legami che uniscono me, e non solo me, agli altri connazionali.

8. Dipende dai paesi e dalle epoche storiche. Certamente l'uso di una stessa lingua crea legami assai forti, anche preterintenzionali, tra quanti la praticano abitualmente. Ma i confini degli usi linguistÌci non sempre hanno coinciso e coincidono con i confini delle nazioni. 9. Ereditiamo da millenni una forte e stabile differenziazione tra le popolilzioni che si sono stanziate e raccolte nelle diverse aree del pne:-;e. I momenti ed eventi unificanti non l'hanno mai cancellata. Il policentrismo idiomatico, culturale, antropologico continua a essere forte. Questo si connette ci una certa diffidenza verso le istituzioni pubbliche nazionali e a una loro debolezza, effetto e causa di quella diffidenza. E ne discende una forte propensione al «fai da te».

10. Non mi sembrano opzioni contrapposte (vedi la definizione di patria al punto 3). Nella grande maggioranza dei casi - mi pare - e si nasce e, di conseguenza, si diventa, si è e si resta italiani. Ma da Miilano a Ururi, da Marsala a Torre Pellice e al Chiantishire, da Napoli a Trieste la nostra storia è ricca di nativi svizzeri, inglesi, albanesi, spagnoli, austriaci diventati italiani. Italiano era diventato, quasi, annche James Joyce.

Antonio D'Orrico (Cosenza 1954)

1. Conoscevo due, marito e moglie, genere radical-chic, che quando si trovavano all' estero accanto a degli italiani si mettevano a parlare in francese o in inglese per non essere confusi con i compatrioti. Ecco, sono italiano nel senso che non farei mai una cosa del genere. Nemmeno sotto tortura.

2. L'Italia è una, nessuna e centomila. È un paese singolare perché è plurale. Credo che qui stia la sua bellezza e la sua dannazione. Aveeva ragione il principe di Metternich quando diceva che siamo un' espressione geografica ma non c'è nulla di più bello del fatto di essere un' espressione geografica. La geografia conta più della storia, della politica, dell' economia, della letteratura. La geografia è tutto.

3. Se è un libro è il Libro Cuore. Se è una persona è mio padre e mia madre. Se è una commedia è Filumena Marturano di Eduardo. Se è una canzone sono due: Volare di Modugno e Bartali di Paolo Conte. Se è un film è La dolce vita di Fellini, ma anche La prima notte di quieete di Valerio Zurlini. La patria, insomma, è un sentimento.

4. Come certe boutique di abbigliamento potrei scrivere sulla mia veetrina «Cosenza-Firenze-Milano»,le città dove mi è capitato di vivere. Ho legami forti con questi luoghi ma il legame più forte che sento è quello con Napoli, forse perché fu la capitale del mio regno nano, il Regno delle Due Sicilie. A Napoli non ho mai vissuto da vivo ma mi sembra di aver soggiornato a lungo da quelle parti prima di nascere. Pasolihi diceva che Napoli non è italiana, nel senso che è una cosa a sé, autosufficiente (un po' come New York per l'America). Aggiungerei solo che la non italianità di Napoli è, in verità, l'italianità allo stato puro. Ripeto, è difficile essere italiano, bisogna saper coltivare l'arte impervia del principio di contraddittorietà.
 Le loro differenze culturali, umane e religiose arricchiiscono il patrimnio del paese.

tutta l'esistenza. Eppure possiamo anche fuggire da questa patria, raggiungere un luogo elettivo, una patria diversa. lo sono nato una seconda volta nel novembre 1973, con la patria delle pile e dei cubettti. Alla fine della terza media ho dovuto buttare pile e cubetti; ma non mi hanno mai abbandonato.

5. L'Europa, finora, è soprattutto un grande mercato, una valuta. La cosa che più unisce gli abitanti europei è la musichetta della Champions League e il piccolo pallone stampato sulle divise. La musichetta della Champions League di calcio - un remix anni Novanta da Hindel - sembra la colonna sonora di un raduno berlusconiano. Evoca l'epica del centro commerciale, benché la merce abbia perso molto fascino, e milioni di persone sentano questa menzogna, sappiano di essere ingannati. Ma come è possibile smettere di fingere di credere?

6. Le persone che hanno lottato contro il fascismo, anche con piccoli gesti. Le persone impazzite nel vedere la trasformazione, l'opportunismo del dopoguerra. E quelle che non sono impazzite, sono andate avanti, anche per noi.

7. Di solito cerco di vedere lo sport dimenticando la nazionalità. Tra tanti eventi sportivi, dico la vittoria di Mennea nei 200 metri, alle Olimpiadi di Mosca, nel 1980. Mennea aveva un cognome perfetto, unisex, si adattava anche alle ragazzine, durante le ore di educazione fisica, a scuola. Mennea era chiunque. Mennea è partito dalla corsia più esterna, l'ottava, la peggiore che possa capitare sui 200 metri. Quando corri lì sei il punto di riferimento per tutti gli altri, che parrtono dietro. Entri in curva credendo di avere un grande vantaggio, poi vanificato dal fatto che comunque, sempre 200 metri devi percorrere, mica 180! Quindi Mennea, per alcuni metri,'ha corso contro se stesso, senza punti di riferimento davanti a sé. Vedeva solo il traguardo. Ma è stato superato da Allan Wells che correva nella corsia di fianco, e da Don Quarrie, in mezzo. Mennea annaspava, sembrava risucchiato dal bordo inferiore del televisore, Wells o Quarrie avrebbero vinto l'oro, benché Mennea fosse il primatista mondiale. Alle Olimpiadi di Mosca, gli atleti statunitensi non parteciparono a causa del boicottagglo. Mancava Carl Lewis, forse Calvin Smith era troppo gioovane, avrebbe gareggiato i duecento metri con quel movimento ciondolante del collo, che sembrava si staccasse dal resto del corpo, per assecondare meglio la curva. Eppure Mennea recuperò negli ultimi cinquanta metri. «Mennea cerca di recuperare. Recupera. Recupera. Re$:upera. Recupera. Recupera. Ha vinto!» disse il telecronista. Credo che avrebbe vinto anche contro gli statunitensi. Ovviamente, manca

Giorgio Falco (Milano 1967)

1-10. Sono nato e cresciuto tra Milano e l'hinterland sud ovest. Quando ho compiuto sei anni, nel novembre 1973, i miei genitori hanno comprato un appartamento, nel quartiere abitavano famiglie della piccola borghesia operaia e impiega tizia, quasi tutte lombarde, parlavano anche in dialetto milanese. Scendevo in cortile per giocare, gli altri bambini ripetevano: «i nostri genitori dicono che sei di origine meridionale.» Ritornavo a casa, giocavo da solo, alle pile e ai cubetti. Utilizzavo le pile scariche, di marche differenti, scarti che non buttavo. Ogni pila era un personaggio. I cubetti erano più bassi delle piile, ma più larghi, parti di un puzzle da comporre. Su ogni cubetto c'era il frammento di una figura. Non mi bastava ricomporre l'immagine imposta. Inventavo storie con le pile e i cubetti. Le pile e i cubetti erano - e sono - parte integrante del mio essere italiano.

2. Non sono d'accordo con l'uso che se ne fa. Purtroppo una parola teoricamente neutra come territorio è stata conquistata dai politici della Lega Nord. Non volendo identificarsi dichiaratamente con la zolla nazista, hanno preferito il territorio. Hanno ripetuto questa parola per anni, soprattutto negli studi dei network televisivi lombardi, il luogo, anzi, il territorio che più hanno frequentato. La nostra gente. Il nostro territorio. Giorno dopo giorno hanno avvelenato il linguaggio e la mente di milioni di persone. Hanno creato una falsa identità del nord, attraverso azioni accolte altrove, molto spesso, con ironia. lo non ci trovavo nulla da ridere. Una tradizione, a differenza di una consuetudine, si crea anche in pochi anni. Ogni tanto i leghisti hanno abbandonato i divani televisivi per ampolle con gocce dei fiumi, feste pseudo celtiche, gazebo al mercato il sabato mattina. In meno di trent'anni i leghisti hanno inventato un'identità forte, attraverso la propaganda televisiva e azioni rituali, simboliche, che hanno tratto senso da una inesistente tradizione e continuità con la Storia. Hanno creato un passato differente dal resto della nazione.
PAOLO FEBBRARO

la controprova. Così quella vittoria di Mennea assomiglia a tante alltre vicende italiane. Pur nella sua grandezza, manca sempre qualcosa per potersi godere la vittoria. Beh, mi pare una cosa salutare.

8. Quando, raramente, vado all'estero, faccio a meno della lingua, vivo molto più di immagini. Per quanto le immagini siano fondamentali, mi sentirei svuotato senza appartenenza linguistica.

9. Non so quale sia il carattere. Credo che l'identità sia molto plasmabile, soprattutto quando vedo il lavoro fatto dai leghisti.

Paolo Febbraro (Roma 1965)

1. Provo a dire ciò che sento e vedo: vedo la Cina, l'India e il Brasile alla conquista del benessere; vedo un mercato globale che consuma riisorse ambientali come mai prima; vedo gli Stati Uniti cercare di tener testa alle nuove potenze, e spostare i propri interessi verso l'Oriente; vedo gli stati europei ormai ai margini, impauriti da un'immigrazione di portata storica e perciò in mano a governi egoisti e miopi, che tagliano le spese insostenibili di un welfare novecentesco, con la gente in piazza a difendere diritti e redditi finora garantiti dallo sfruttamento del Terzo Mondo; vedo pochi speculatori finanziari decidere le sorti di quei governi, volatilizzando a comando le rendite puramente virtuali immaginate da operatori di borsa e agenti immobiliari; vedo le materie prime scarseggiare e costare sempre più, e le automobili a benzina come mostri antidiluviani cui nessuno rinuncia. Difficile capire, visto il contesto, cosa significa sentirsi italiani. Alfonso Berardinelli ha scritto, tempo fa: «Mi sono accorto tardi di essere italiano». lo invece me ne sono accorto prestissimo, e ora me lo sto dimenticando. 2. Il territorio, la tradizione, l'identità italiane, se usate ogni volta al singolare, mi dicono poco. L'Italia è il Campo dei Miracoli a Pisa e insieme il quartiere di Scampia in Campania. Roma stessa, dove vivo, è via Giulia ma anche le decine di automobili che vi sono parcheggiate, e i sampietrini sconnessi in cui incespichi. Un territorio è qualcosa da meritare, come una tradizione: ma di territori e di tradizioni italiane ce ne sono molte, alcune incomparabili, altre terrificanti.


PAOLO FEBBRARO

paesaggi e le storie che mi fondano, che mi governano. Molto di ciò ha a che fare con l'Italia: ma chiamo patria anche La tempesta di Shakespeare e un dipinto di Bosch. D'altro canto, non esiste la tabula rasa, la mia impronta è italiana, ed io traduco tutto ciò che vedo in una sensibilità sempre più vasta, spero, ma di radice italiana. Il mio amore per l'Irlanda, ad esempio, è l'amore di un italiano. E anche il mio disprezzo per gran parte dell'Italia, è italiano. Insomma: la mia patria è il mosaico di esperienze che fluidamente mi costituisce, e che io criticamente, affettivamente scelgo.

4. Ho un legame forte con i luoghi in cui mi sento bene. Alcuni di essi, in buon numero, sono sul territorio italiano. 'Un'identità nazionale italiana, presa nel complesso, mi sfugge e forse non mi interessa, perché è troppo ossimorica - dunque indecidibile - e troppo astratta. 5. Coerentemente, con quella europea: che paradossalmente, essendo un concetto più ampio, è meno astratta. Sono un grande sostenitore dell'Europa unita in una forte federazione di comunità (più che di Stati). Vorrei che molte leggi continentali si estendessero automaticamente all'Italia e sono vicino al Partito Radicale, il più anglosassone e il meno italiano dei partiti politici. Le tradizioni forti dell'Europa, dal Dioniso-Apollo dei Greci all'Umanesimo e all'Illuminismo, mi appassionano, ed io le chiamo dentro la mia identità, cercando di essere alla loro altezza.

6. Facile rispondere: i grandi italiani, il Rinascimento, la Resistenza al fascismo ... Ma i due più grandi poeti italiani, Dante e Leopardi, furono fieramente anti-nazionali; dopo il Rinascimento ci fu un'italianissima Controriforma; prima della Resistenza ci fu il fascismo, e subito dopo 45 anni di Democrazia Cristiana ... Se sono orgoglioso, sono anche scoraggiato: e ritorno al mosaico di cui dicevo sopra.

7. ,Se chi vince è il più bravo, mi fa piacere che il più bravo sia italiano piuttosto che slovacco. Ma se l'italiano in gara non è granché, non sento nessun motivo per tifarlo. Sarà un caso, poi, che la squadra di calcio che seguo fin da bambino si chiami Internazionale?

8. Bisognerebbe chiederlo a un trentino o a un siracusano. Oppure a un magnifico poeta dialettale come il lombardo Edoardo Zuccato. lo parlo in italiano, sogno in italiano, e anche le mie espressioni romanesche sono comprensibili ovunque, perché la lingua italiana è di fattto il tosco-romano. Per me è più facile, dunque. Ma quanto all'identità linguistica, l'Italia è stata politicamente unita da . un ometto (re Vittorio Emanuele II di Savoia) che parlava francese o piemontese. Azzardo un concetto, o una previsione: nella comunicazione interpersonale, l'italiano d'uso è stata una parentesi durata fra il 1861 e questi primi decenni del XXI secolo. Con il prossimo assetto federale e con !'irresistibile rafforzamento dell'inglese (e del cinese?) come lingua delle transazioni internazionali, un imprenditore milanese tenderà a parlare una lingua sempre più diversa da un impiegato comunale di Ragusa. Resisteranno i mass media e la scuola, per un po': ma parleranno una lingua sempre più spenta, anche se autorevole. E la letteratura? Me lo domando.

9. Degli italiani i luoghi comuni dicono che sono geniali e malfidi, improvvisa tori e disorganizzati, generosi e superstiziosi; c'è chi ha detto che sono anche poeti, navigatori ecc. Com'è noto, i luoghi comuni sono quelle cose che vanno combattute anche se in segreto si ammette che hanno un po' ragione di essere. Se siamo famosi nel mondo per essere stilisti, cuochi e tenori ci sarà un motivo, che può anche sfuggire al nostro amor proprio e al nostro legittimo desiderio di non generalizzare, o meglio di non tipizzare troppo. Ma di perfetti italiani ne incontro tantissimi. Forse è un'illusione ottica, o un mio tasto dolente. Se muteranno? Tutto muta.

10. Non ho capito la domanda.

 Grave errore è stato quello della sinistra, che non ha saputo né voluto fermare il becero localismo della Lega; grave boomerang quello del tanto decantato federalismo, che sarebbe stato meglio contrastare con serie ragioni culturali. Ma ora la frittata è stata fatta.

5. Non riesco a concepirle separate: ma quando vedo tante cose che nel mio paese fanno schifo e quando vedo certi comportamenti dei miei connazionali, mi consolo pensando che ciò che può salvare 1'11talia è proprio l'Europa, la sua cultura, a cui il nostro paese ha conntribuito in modo così essenziale. E siccome l'Europa contiene tutto, è ovvio che mi sento italiano in quanto europeo, che il mio essere itaaliano sta dentro il mio essere europeo.

6. Non parlerei di orgoglio, ma di passione: allora certo i personaggi sono tantissimi e, dato che sto dentro la letteratura, grande passione patria mi suscitano poeti come Dante, Leopardi (che tra l'altro in vari modi criticano aspramente gli italiani), ma anche Garibaldi e !'immpresa dei Mille. Ma altrettanta passione di patria europea sento, che so io, per Shakespeare, per Molière, per Mozart, per Baudelaire ...

7. La questione dello sport è molto particolare: esso suscita passioni particolari, abnormi, legate a condivisioni irrazionali, a sussulti patriottici che non sempre coincidono con posizioni politiche. C'è insomma negli atteggiamenti del tifo sportivo un residuo infantile che resta anche quando si è cresciuti: allora, specialmente nel calcio, mi trovo a fare il tifo per la nazionale e così in altri sport. Ma ci sono distinzioni: nel ciclismo ero uno sfrenato coppista, ma poi ho fatto il tifo per il lussemburghese Gaul, per lo spagnolo Bahamontes, per il belgaMerckx; e per le competizioni dei club calcistici, da la zia le non vorrei mai che vincesse la Roma e da antiberlusconiano non vorrei mai che vincesse il Milan.

8. Si tratta del dato più assoluto e determinante, il solo effettivamente verificabile: sono italiano perché parlo in italiano e so pensare solo in italiano (beati quelli che pensano in più lingue!)

9. Triste questione: non credo che esista un carattere nazionale italiano, ne esistono molti, ma alcuni sono molto diffusi, invadenti, deprimenti. Purtroppo c'è qualche carattere che si impone su tutti gli altri, che in molti momenti storici (come in quello attuale) dà luogo ad una perversa «autobiografia della nazione»: è l'italiano senza coscienza civile, tutto teso alla coltivazione del proprio minimo «particulare» (quello di Guicciardini era altra cosa), a deformare la realtà secondo

Giulio Ferroni (Roma 1943)

1. Mi sento italiano, italianissimo, forse troppo italiano, anche perché sto immerso in una lingua e in una letteratura che amo e perché sennto l'Italia come un' apertura al mondo, come un antico crocevia di cultura, di bellezza, di ragione: ma temo che la maggior parte dei miei connazionali abbiano perduto il senso di questo essere italiano. 2. Sono tre termini che hanno le loro buone ragioni ma che sono davvero inflazionati e ideologizzati: spesso vengono usati in modo restrittivo, sono strumenti di chiusura e di distinzione da ciò che è considerato «altro»! Ha senso usarli se li si considera «aperti», esposti a molteplici contraddizioni spaziali e storiche: attenti a chi parla di territorio e lo devasta, a chi parla di tradizione e ne nega la ricchezza, a chi parla di identità e nega le identità altrui.

3. Non la uso molto: la sento viva soprattutto storicamente, per le passioni che ha suscitato in passato, per quanto è stato costruito nel tempo da quelli che l'hanno amata.

GIORGIO FONTANA

il proprio illusorio tornaconto, a passar sopra alle regole e alla ragione, ad ada~tarsi al potente di turno, a sollecitare complicità per 'gli atti più egoistici, sempre pronto a perdonare e a perdonarsi. Ma di questo italiano ci sarebbe troppo da dire: don Abbondio è uno dei suoi più formidabili emblemi: ma oggi questo italiano si specchia nell' apparenza televisiva ed è diventato molto peggiore di don Abbondio. 10. Si nasce e si diventa: ma forse soprattutto si diventa: ma oggi la degradazione televisiva e pubblicitaria ci fa diventare peggiori di come siamo nati.

nione di differenze: calabresi, pugliesi, siciliani, lucani, campani, emiliani. In quel momento, per fortuna, ho perso la presunzione di unicità.

4. Esattamente come detto prima: Sardo, Italiano, Europeo.

5. Mi sto educando a quella europea, quella italiana mi spetta, la sarrda è genetica.

6. Il Nobel alla Deledda; Il Tamburino Sardo che inaugura i racconti mensili del Libro Cuore; la divisa di fante di mio nonno custodita in un baule; il pianto del 2 agosto 1980; la sede del New York Times a NY; il Don Giovanni di Mozart ascoltato nell'italiano di Da Ponte a San Pietroburgo; la posizione dell'Italia rispetto alla Francia nei medaglieri olimpici;

7. Mah, questo è un problema che ho soprattutto rispetto alla Franncia ... Non so esattamente perché, ma il mio rapporto con i cugini d'oltralpe è sempre stato piuttosto agonistico. Quando l'Italia vince qualcosa di sportivo in genere sono fiero di quanto siamo straordinariamente capaci, come popolo, di eccellere nonostante l'inesistente interesse per lo sport, eccetto il calcio, del nostro governo.

8. Ti dico ,solo che potrei rinunciare all'Italiano, ma mai al sardo ... In italiano comunico con molte persone, ma in inglese potrei comunicare con molte di più ... In sardo penso. Può bastare?

9. Sono per un'identità mutevole, sono anche dalla parte di chi un'identità se la sceglie: meglio decidere di essere un buon lombardo che un pessimo sardo non trova? È meglio non indagare troppo sul caarattere nazionale degli italiani contemporanei. ..

10. Alcuni lo nascono, io lo sono diventato ... Anche.

Marcello Fois (Nuoro 1960)

1. Credo che questa Nazione mi spetti di diritto, molti dei miei avi hanno combattuto per essa... E alcuni sono morti per essa. Loro l'hanno pagata cara anche per me, quindi direi che questa Patria è anche mia. Come questa lingua con cui comunichiamo. In che modo mi sento italiano? Come la maggior parte dei sardi mi sento anche italiano ... Anche. E ho imparato presto che in generale i sardi amano l'Italia più di quanto l'Italia abbia mai amato i sardi, ma il punto è che siamo tremendamente testardi e non riusciamo a rinunciare a quanto ci è costato tanto ...

2. Identità è un concetto che non sopporto, quando se ne parla vuol dire che già non c'è più. Non ho mai avuto bisogno di identificarmi in quanto italiano o in quanto sardo, so di essere entrambe le cose e so che identità è quanto fai, quanto pensi. Mi considero atzenianamente Sardo, Italiano, Europeo. Qui ci sono le matrici che mi hanno costruito in quanto individuo strutturato, essere pensante, figlio e poi padre. Nessuno mi spaventa di più che chi considera l'identità come un motivo per essere speciali. Sviste di questo tipo hanno mandato sei milioni di ebrei nei forni. Sono Sardo, Italiano, Europeo, ma non per questo mi sono mai sentito autorizzato a ritenere migliori i Sardi, gli Italiani, gli Europei.

3. Sono uno scrittore, e sono stato un bambino in Barbagia durante la stagione caldissima dell' Anonima Sequestri: allora per me Patria erano i caschi blu che venivano paracadutati dagli elicotteri e che ci tiravano fuori di casa nel cuore della notte per eseguire perquisizioni' a tappeto, eravamo tutti conniventi allora, questa Patria aveva i dennli ogll7.zi. Sono :-:toto adolescente nel '75 quando Cossiga, sardo, si scrìvev;l l'on le esse del 111 Reich, allora per me la Patria era un caniile l.:\IHlodilo da guardinni HonJi come me, Sono stato giovane a Boloolé.lìll COli gli indiani metropolitani, Il la patria si è trasformata in un'u-

Giorgio Fontana (Saronno 1981)

1. Mi sento italiano in alcuni modi estremamente minimali: sono naato in Italia, ho la cittadinanza italiana, parlo italiano, e condivido una serie di abitudini e modi tipici di questo paese (es. la dieta mediterranea o la passione per il calcio). Oltre a questo non c'è niente.

2. Sul concetto di <<identità italiana» c'è molto da riflettere. Sia per quelli che vedono acritica mente una continuità dai tempi di Machiavelli a oggi, sia per quelli che negano qualsiasi tipo di tipicità nazionale. L'Italia ha innanzitutto una connotazione geografica: le Alpi a nord, la forma peninsulare, l'hanno separata naturalmente dal resto dell'Europa. Tuttavia, per ragioni storiche, è stata per molto tempo un mero ideale intellettuale: e probabilmente lo è ancora, prima di essere una realtà radicata socialmente. In questo senso, preferisco lasciare da parte qualunque retorica della tradizione. Il passato dell'Italia - al di là della sua espressione geografica - è troppo incasinato e complesso per delineare una tradizione comune.

3. Quasi nessuno. Non sento alcuna appartenenza patriottica in senso forte.

4. Sono tentato di rispondere «Nessuno dei due». Vengo dalla provincia, ma è una provincia industriale, nordica, fredda e disumanizzata: l'esatto contrario dell'immaginario comune, e di certo non un posto che genera appartenenza. Questo sentirmi senza radici è un po' triste, ma mi ha anche reso libero. E autocritico, spero.

5. Con l'identità europea senz'altro.

6. Luigi Barzini, nel suo bellissimo Gli italiani (uscito quasi cinquant'anni fa), scriveva: «Una delle principali cause di perplessità [. .. ] è l'assurda discrepanza tra l'eccellenza di gran parte degli italiani singoli e il destino generalmente sciagurato del loro paese attraverso i secoli.» Ecco qua: gli italiani si identificano volentieri nei singoli, ma non hanno memorie condivise cui attingere davvero (e il caso 'più eclatante è il periodo della Resistenza). Pensate al programma diretto da Francesco Facchinetti: «Il più grande degli italiani»: con il solito mix populista di san Francesco, padre Pio, Gariballdi, Laura Pausini, Silvana Mangano, Puccini e cosÌ via, e il solito mix populista di giurati e voto da casa.

La metterei così: per gli italiani l'Italia è fatta da quegli individui che sono stati ben poco «italiani»: che non hanno, cioè, incarnato alcuno dei vizi tipici del nostro paese. Per nulla profeti in patria, hanno subito molto spesso dei destini orrendi, o sono emigrati ante littteram (da Dante a Salvemini). Nessuno di loro è riuscito a dàre un canone al nostro Paese, o il nostro Paese non l'ha ricevuto e compreso. Questo fa il paio con l'assenza di eventi connotanti dal basso. Non abbiamo rivoluzioni popolari dove identificarci. Nessun 1789 per noi. Nessun autentico movimento che abbia dato un profondo all'unità.

7. Senz' altro. Sono un grande tifoso di calcio e ricordo ancora còìi" emozione la vittoria ai Mondiali del 2006. Perché? Perché fa paftidl una di quelle «componenti morbide» di appartenenza nazionale in cui quasi tutti gli italiani si riconoscono. E se questo è sinonimo di una forte passione comune, c'è anche un risvolto triste - che è appunto il sentirsi popolo di fronte a un evenro irrilevante dal punto di visti! civico.

8. Più che un elemento costitutivo, è un elemento che è andato affermandosi nel tempo, almeno per quanto riguarda l'Italia. È stato un motore di unificazione esso stesso, qualcosa di non dato: almeno fino alla prima guerra mondiale l'italiano come lingua comune era sepolto dai dialetti. Non avere una lingua popolare antica, come la Francia e la Germania, ma solo una sua stilizzazione letteraria, è un altro dei fattori che ha rallentato di molto il senso di coesione interna del paese. E lo si vede chiaramente ancora oggi.

9. Come dicevo sopra, la questione è molto complessa. Senz' altro un carattere immutabile nel tempo è una pura costruzione mentale (che spesso è servita solo a intenti retorici o politici, come mostra bene Silvana Patriarca nel suo saggio L'identità italiana per Laterza).

Insistere sugli elementi di continuità che sembrano andare da Petrarca a oggi significa dimenticare i numerosi ed enormi mutamenti storici che ha avuto l'Italia in questi secoli. Ci sono però degli elementi comuni che disegnano un percorso comune di sottofondo _ cause storiche, concrete, che portano a una visione non banale del concetto di «italianità» almeno dal fascismo in poi. Rispondere in poche righe non ha senso, ma sto lavorando a un saggio che parla anche di questo.

lO. Non si nasce nemmeno italiani: i ragazzi di seconda generazione - con madre e padre stranieri ma nati sul suolo italiano - non hanno diritto automatico alla cittadinanza tout court. Ma io credo che la coosa più importante ora come ora sia (re)imparare a diventare cittadini, soggetti etici, abitanti responsabili di una nazione. Non a diventare italiani - qualunque cosa questo voglia dire.

Mario Fortunato (Cirò 1958) Breve notizia bio poco patriottica

Sono nato nel Sud d'Italia. Cirò, provincia di Crotone, Calabria. Famiglia borghese e laica da varie generazioni, con qualche venatura ebraica sottotraccia. Il paesaggio - non ancora deturpato dalla speculazione edilizia, ma al contrario ben conservato dalla miseria _ suggeriva in ogni senso silenzio e sobrietà. Era un paesaggio aspro, piuttosto ruvido. Anche il mare (lo Ionio) possedeva queste caratteristiche: per raggiungerlo, tremende odissee di pochi chilometri su strade non asfaltate; sulla spiaggia, neanche l'ombra di un baretto scalcinato; niente cabine; solo quell'azzurro bellissimo e minaccioso.

GIORGIO FONTANA

il proprio illusorio tornaconto, a passar sopra alle regole e alla ragioone, ad adattarsi al potente di turno, a sollecitare complicità per 'gli attti più egoistici, sempre pronto a perdonare e a perdonarsi. Ma di queesto italiano ci sarebbe troppo da dire: don Abbondio è uno dei suoi più formidabili emblemi: ma oggi questo italiano si specchia nell' appparenza televisiva ed è diventato molto peggiore di don Abbondio. 10. Si nasce e si diventa: ma forse soprattutto si diventa: ma oggi la degradazione televisiva e pubblicitaria ci fa diventare peggiori di coome siamo nati.

4. Esattamente come detto prima: Sardo, Italiano, Europeo.

5. Mi sto educando a quella europea, quella italiana mi spetta, la sarrda è genetica.

6. Il Nobel alla Deledda; Il Tamburino Sardo che inaugura i racconti mensili del Libro Cuore; la divisa di fante di mio nonno custodita in un baule; il pianto del 2 agosto 1980; la sede del New York Times a NY; il Don Giovanni di Mozart ascoltato nell'italiano di Da Ponte a San Pietroburgo; la posizione dell'Italia rispetto alla Francia nei meedaglieri olimpici;

7. Mah, questo è un problema che ho soprattutto rispetto alla Franncia ... Non so esattamente perché, ma il mio rapporto con i cugini d'oltralpe è sempre stato piuttosto agonistico. Quando l'Italia vince qualcosa di sportivo in genere sono fiero di quanto siamo straordiinariamente capaci, come popolo, di eccellere nonostante l'inesistennte interesse per lo sport, eccetto il calcio, del nostro governo.

8. Ti dico ,solo che potrei rinunciare all'Italiano, ma mai al sardo ... In italiano comunico con molte persone, ma in inglese potrei comuniicare con molte di più ... In sardo penso. Può bastare?

9. Sono per un'identità mutevole, sono anche dalla parte di chi un'iidentità se la sceglie: meglio decidere di essere un buon lombardo che un pessimo sardo non trova? È meglio non indagare troppo sul caarattere nazionale degli italiani contemporanei. ..

10. Alcuni lo nascono, io lo sono diventato ... Anche.

Marcello Fois (Nuoro 1960)

1. Credo che questa Nazione mi spetti di diritto, molti dei miei avi hanno combattuto per essa... E alcuni sono morti per essa. Loro l'hanno pagata cara anche per me, quindi direi che questa Patria è anche mia. Come questa lingua con cui comunichiamo. In che modo mi sento italiano? Come la maggior parte dei sardi mi sento anche italiano ... Anche. E ho imparato presto che in generale i sardi amano l'Italia più di quanto l'Italia abbia mai amato i sardi, ma il punto è che siamo tremendamente testardi e non riusciamo a rinunciare a quanto ci è costato tanto ...

2. Identità è un concetto che non sopporto, quando se ne parla vuoI dire che già non c'è più. Non ho mai avuto bisogno di identificarmi in quanto italiano o in quanto sardo, so di essere entrambe le cose e so che identità è quanto fai, quanto pensi. Mi considero atzenianaamente Sardo, Italiano, Europeo. Qui ci sono le matrici che mi hanno costruito in quanto individuo strutturato, essere pensante, figlio e poi padre. Nessuno mi spaventa di più che chi considera l'identità come un motivo per essere speciali. Sviste di questo tipo hanno manndato sei milioni di ebrei nei forni. Sono Sardo, Italiano, Europeo, ma non per questo mi sono mai sentito autorizzato a ritenere migliori i Sardi, gli Italiani, gli Europei.

3. Sono uno scrittore, e sono stato un bambino in Barbagia durante la stagione caldissima dell' Anonima Sequestri: allora per me Patria eraano i caschi blu che venivano paracadutati dagli elicotteri e che ci tiiravano fuori di casa nel cuore della notte per eseguire perquisizioni' a tappeto, eravamo tutti conniventi allora, questa Patria aveva i dennli ogll7.zi. Sono :-:toto adolescente nel '75 quando Cossiga, sardo, si scrìvev;l l'on le esse del 111 Reich, allora per me la Patria era un caniile l.:\IHlodilo da guardinni HonJi come me, Sono stato giovane a Boloolé.lìll COli gli indiani metropolitani, Il la patria si è trasformata in un'u-

Giorgio Fontana (Saronno 1981)

1. Mi sento italiano in alcuni modi estremamente minimali: sono naato in Italia, ho la cittadinanza italiana, parlo italiano, e condivido una serie di abitudini e modi tipici di questo paese (es. la dieta mediterrranea o la passione per il calcio). Oltre a questo non c'è niente.

2. Sul concetto di <<identità italiana» c'è molto da riflettere. Sia per quelli che vedono acritica mente una continuità dai tempi di Machiaavelli a oggi, sia per quelli che negano qualsiasi tipo di tipicità nazioonale. L'Italia ha innanzitutto una connotazione geografica: le Alpi a nord, la forma peninsulare, l'hanno separata naturalmente dal resto dell'Europa. Tuttavia, per ragioni storiche, è stata per molto tempo un mero ideale intellettuale: e probabilmente lo è ancora, prima di essere una realtà radicata socialmente. In questo senso, preferisco lasciare da parte qualunque retorica della tradizione. Il passato dell'IItalia - al di là della sua espressione geografica - è troppo incasinato e complesso per delineare una tradizione comune.

3. Quasi nessuno. Non sento alcuna appartenenza patriottica in sennso forte.

4. Sono tentato di rispondere «Nessuno dei due». Vengo dalla proovincia, ma è una provincia industriale, nordica, fredda e disumanizzzata: l'esatto contrario dell'immaginario comune, e di certo non un posto che genera appartenenza. Questo sentirmi senza radici è un po' triste, ma mi ha anche reso libero. E autocritico, spero.

5. Con l'identità europea senz'altro.

6. Luigi Barzini, nel suo bellissimo Gli italiani (uscito quasi cinnquant'anni fa), scriveva: «Una delle principali cause di perplessità [. .. ] è l'assurda discrepanza tra l'eccellenza di gran parte degli itaaliani singoli e il destino generalmente sciagurato del loro paese atttraverso i secoli.» Ecco qua: gli italiani si identificano volentieri nei singoli, ma non hanno memorie condivise cui attingere davvero (e il caso 'più eclatante è il periodo della Resistenza). Pensate al proogramma diretto da Francesco Facchinetti: «Il più grande degli italiaani»: con il solito mix populista di san Francesco, padre Pio, Gariballdi, Laura Pausini, Silvana Mangano, Puccini e cosÌ via, e il solito mix populista di giurati e voto da casa.

La metterei così: per gli italiani l'Italia è fatta da quegli individui che sono stati ben poco «italiani»: che non hanno, cioè, incarnato allcuno dei vizi tipici del nostro paese. Per nulla profeti in patria, hannno subito molto spesso dei destini orrendi, o sono emigrati ante littteram (da Dante a Salvemini). Nessuno di loro è riuscito a dàre un canone al nostro Paese, o il nostro Paese non l'ha ricevuto e commpreso. Questo fa il paio con l'assenza di eventi connotanti dal basso. Non abbiamo rivoluzioni popolari dove identificarci. Nessun 1789 per noi. Nessun autentico movimento che abbia dato un profondo all'unità.

7. Senz' altro. Sono un grande tifoso di calcio e ricordo ancora còìi" emozione la vittoria ai Mondiali del 2006. Perché? Perché fa paftidl una di quelle «componenti morbide» di appartenenza nazionale in cui quasi tutti gli italiani si riconoscono. E se questo è sinonimo di una forte passione comune, c'è anche un risvolto triste - che è apppunto il sentirsi popolo di fronte a un evenro irrilevante dal punto di visti! civico. Qllando Prodi ha accolto la Nazionale a Roma, di ritorrno doltl'Ìonfu dcl2006, ha eletto alla squadra: «Grazie per averci uniilo», MI Acmbl'O che qllesto episodio sia il commento migliore all'intera questione. Il presidente del Consiglio ringrazia dei calciatori per avere realizzato un'unità.

8. Più che un elemento costitutivo, è un elemento che è andato afferrmandosi nel tempo, almeno per quanto riguarda l'Italia. È stato un motore di unificazione esso stesso, qualcosa di non dato: almeno fiino alla prima guerra mondiale l'italiano come lingua comune era seepolto dai dialetti. Non avere una lingua popolare antica, come la Francia e la Germania, ma solo una sua stilizzazione letteraria, è un altro dei fattori che ha rallentato di molto il senso di coesione interrna del paese. E lo si vede chiaramente ancora oggi.

9. Come dicevo sopra, la questione è molto complessa. Senz' altro un carattere immutabile nel tempo è una pura costruzione mentale (che spesso è servita solo a intenti retorici o politici, come mostra bene Sillvana Patriarca nel suo saggio L'identità italiana per Laterza).

Insistere sugli elementi di continuità che sembrano andare da Peetrarca a oggi significa dimenticare i numerosi ed enormi mutamenti storici che ha avuto l'Italia in questi secoli. Ci sono però degli eleementi comuni che disegnano un percorso comune di sottofondo _ cause storiche, concrete, che portano a una visione non banale del concetto di «italianità» almeno daI fascismo in poi. Rispondere in pooche righe non ha senso, ma sto lavorando a un saggio che parla annche di questo.

lO. Non si nasce nemmeno italiani: i ragazzi di seconda generazione - con madre e padre stranieri ma nati sul suolo italiano - non hanno diritto automatico alla cittadinanza tout court. Ma io credo che la coosa più importante ora come ora sia (re)imparare a diventare cittadiini, soggetti etici, abitanti responsabili di una nazione. Non a divenntare italiani - qualunque cosa questo voglia dire.

Mario Fortunato (Cirò 1958) Breve notizia bio poco patriottica

Sono nato nel Sud d'Italia. Cirò, provincia di Crotone, Calabria. Faamiglia borghese e laica da varie generazioni, con qualche venatura ebraica sottotraccia. Il paesaggio - non ancora deturpato dalla speeculazione edilizia, ma al contrario ben conservato dalla miseria _ suggeriva in ogni senso silenzio e sobrietà. Era un paesaggio aspro, piuttosto ruvido. Anche il mare (lo Ionio) possedeva queste caratteeristiche: per raggiungerlo, tremende odissee di pochi chilometri su strade non asfaltate; sulla spiaggia, neanche l'ombra di un baretto scalcinato; niente cabine; solo quell'azzurro bellissimo e minaccioso.

MARIO FORTUNATO

Il paese? Ovunque lavori in corso e pozzanghere. E tutti cattolici, cattolicissimi, con l'abitudine, parecchio tipica da quelle parti, di abbbordare grandi discorsi e massimi sistemi, mentre il soffitto di casa se ne viene giù. Pochi i giovani: chi poteva scappava, o meglio, emigraava. Tanti, invece, i vecchi in attesa di altri mondi.

Se il contesto invitava a stare zitti per squagliarsela al più presto, la famiglia no. La famiglia parlava tanto: la lingua dell'ironia e della discrezione. Lingua che, a conti fatti, mi è parsa nel tempo quella di tutti i réfugiés - e si può esserlo, eccome, anche in patria.

Dunque: un padre avvocato, liberaI e spiritoso; una madre casalinnga con una sincera passione per l'ipocondria; due fratelli già adulti, volati subito a studiare altrove e a sposarsi; una sorella timida ma soolida; e lunghi, memorabili pomeriggi a leggere di tutto, non di rado su consiglio della famiglia medesima. Ma perlopiù con preferenze per le letterature europee: gli inglesi, i francesi, i tedeschi. E, complice un nonno centenario di vasta ed europea cultura, alto, un po' snob, mi chiedevo: vivrò a Parigi, Heidelberg o Londra? Certo, non a Budapest e neppure a Praga: sono sempre stato di sinistra, ma con un sincero disprezzo verso tutte le dittature, compresa quella del proleetariato. Ecco: per me l'identità era uno spazio mentale. Uno spazio da percorrere in lungo e in largo con la fantasia.

Ma con questo che cosa voglio dire? Che, per origini ed estrazione, del concetto di patria, nel tempo dell'infanzia e adolescenza, sapevo in realtà molto poco, né mi importava. Anzi, a dirla tutta, ogni volta che sentivo parlarne, pensavo di sicuro a qualche imbroglio. La paatria era quella strana cosa con la P maiuscola in nome della quale, inntorilO ai diciotto anni, ti sbattevano per dodici mesi dall'altra parte della Penisola, a Trento o Aosta, a servire l'esercito. Oppure (ma qui il concetto sfumava in quello più luciferino di Stato) era ciò che immponeva di pagare tasse e sovrattasse, gabelli e balzelli, mentre si pootevano contemporaneamente vantare: una vasta disoccupazione con relativa emigrazione (al Nord o in Germania), servizi pubblici preiistorici, scolarizzazione au dégré zéro, ospedali pericolosissimi e un'alllegra malavita molto organizzata e sintonica col ceto politico, allora perlopiù democristiano.

Insomma, da ragazzo il concetto di patria non mi piaceva granché.

Era qualcosa che suonava estraneo e sospetto. E devo dire che, anndando avanti negli anni, continuai a pensarla così.

Alla maggiore età, non vivevo più nel Sud povero e profondo, ma un passo in qua verso il primo mondo. Sbarcai a Roma per studiare filosofia. Però, a guardarla dall'osservatorio privilegiato delle mense

universitarie o delle case dello studente, la Capitale non è che mi 'esaltasse. Anche qui nulla sembrava funzionare. All'università, non una lezione che cominciasse in orario e con sufficienti posti a sedere; le biblioteche erano bivacchi; aule vetuste; burocrazia sovrana. E fuoori dalla città universitaria, una metropoli imbarbarita dal terrorismo, dove chiunque scaricava le proprie colpe sul vicino più scemo.

Intanto, conclusi gli studi e avendo compreso già allora che l'accaademia italiana era in larga misura una morta gora, popolata da barooni e loro congiunti (di sangue o di partito), vedevo nascere l'epoca della televisione. Il mezzo esisteva da un pezzo, ma solo adesso staava dispiegando la sua geometrica potenza. Era la tv il vero collante degli italiani? La nuova patria a dodici pollici?

Di colpo, archiviati i morti per strage, messe da parte le rapine prooletarie, senza uno straccio di riflessione politica su quanto era appeena accaduto, si sentiva dire che tutto era spettacolo, finzione, irrealtà. Nulla esisteva al di fuori del piccolo schermo. Grazie alla tv commmerciale, il nuovo pubblico degli utenti poteva democraticamente portare sotto i riflettori le proprie miserie e su quelle aprire il dibatttito. Indici d'ascolto, audience, share: tutte parole che facevano rimmpiangere i bei tempi in cui zie, genitori e figli non si scannavano anncora in diretta, davanti alle telecamere, ma dignitosamente a casa propria. E, se non erano tossici da almeno una decina d'anni a chiaarire due volte al dì «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo», erano intellettuali e politici a fare sfoggio di turpiloquio e insulti.

Questa era quindi la patria: un cazzo (metaforico) tra un frizzo e un lazzo.

Mi convinsi perciò che era tutto un gran disastro, benché molto commentato dai media. Fra cavolate di costume studiate pensosaamente e crisi economiche risolte a colpi di licenziamenti e deregulaation, c'era da scoprirsi sempre più spaesati e confusi. Così, anche graazie a qualche buon libro, mi aggiustai a vivere in un «Paese senza». Da cui fuggire il più possibile e a ogni occasione: in autostop, in treeno, in aereo. Comunque via: esterofilo come tutti i veri provinciali e scoprendo con 'qualche raccapriccio che il nostro modello di svilupppo andava estendendosi e dilagando in tutta Europà.

Perciò, dopo le prime infatuazioni continentali sulle metropolitane efficienti e sui teatri bene organizzàti, mentre correvo a destra e a manca pur di sottrarmi alla patria e ai suoi unici fasti calcistici, coominciai a fare i conti con la Londra sinistra e minacciosa della Signoora Thatcher, con la Berlino unificata ma economicamente a pezzi di Kohl, con la Parigi che ti faceva la predica e intanto votava per Le Pen, mentre.,a New York la gente veniva sfrattata da casa se qualcuuno si ammalava di Aids.

Tramontati insomma, nel volgere di poche stagioni, i tempi in cui andavo cercando e inventando nuove patrie in Europa e nel mondo, mi scoprii intrappolato sempre e ovunque. Sempre a disagio. E ovunque: come del resto avevano avvertito Christopher Isherwood e tutta una letteratura molto amata.

Dunque, nessuna patria. Non in Italia, né in Europa e neppure Altrove - anche perché, detto per inciso, 1'Altrove non si trovava più da nessuna parte, e infatti si parlava già di globalizzazione. In altri termini, la stessa pappa dappertutto. Con una novità storicooculturale, però: se a Bangkok si producono le stesse sete che a Coomo, invece di prendere a modello le conquiste civili del lavoro saalariato occidentale, si fa il contrario, esaltando la mano d'opera innfantile e schiavizzata dell' estremo oriente, che risulta più competiitiva sui mercati.

Sradicamento, quindi. E un certo preconcetto per quei discorsi del tipo la-mia-patria-è-la-scrittura. Troppo fumosi, per i miei gusti. Deevo dire la verità: non me ne importa un fico della parolasilenzio. Preso da più sordide incombenze (bollette, affitti, conti da pagare), ho sempre scritto per divertimento, sapendo che qualche volta si viene ben pagati e tante altre no. Come si scherzava col veccchio Tondelli: se vuoi diventare ricco e famoso, dimentica la letteraatura e fai piuttosto la sarta.

Nel frattempo, i migliori se ne sono andati. Moravia, Giulio Eiinaudi, la Ginzburg, Sciascia, la Morante. Non alludo solo ai loro liibri, per me tanto importanti. Penso al fatto che sono stati tutti, in un modo o nell'altro, modelli etici: autorevoli e fraterni. Dopo la loro scomparsa, non so bene che cosa sia successo: la civiltà letteraria di questo Paese si è come spappolata. Ci sono eccellenti scritttori anche oggi, in Italia, ma è come se a nessuno fosse più riconosciuto altro che il proprio status di autore di libri. In altre parole: scrivi i tuoi romanzi, vendili il più possibile e per il resto non rommpere le scatole.

Così, vivendo a lungo a Londra, poi a Milano e ora nella campagna laziale, mi è sorto infine il dubbio che non di patrie bisogna andare in cerca, ma di un po' di semplice, bella e buona civiltà, molto carente in giro. E ho preso a vederla, giusto in qualche amico fidato, qualunque sia la latitudine da cui provenga. Perché in fondo, sospetto sempre di più banalmente, l'identità e l'appartenenza non sono che questo: l'afffetto che ci iega alle persone, agli animali, alle cose.

Emesto Franco (Genova 1956)

1. Sì, mi sento profondamente italiano, o, se si preferisce, mi sento italiano per ragioni di profondità, il che non significa sempre quallcosa di piacevole, e non per ragioni di superficie, la qual cosa non deenota comunque sempre qualcosa di spiacevole. Vedo in me, da una parte, la potenza dell' orrore nero del cinismo e, dall' altra, quella forrma laica della pietà che è la transigenza.

2. Detesto, con tutte le forze, i modi in cui si utilizzano oggi, 2011, le parole territorio, tradizione, identità. I modi, che sono ideologici, e non le parole, che sono strutture complesse. Territorio, tradizione, iderrtità vengono utilizzate oggi, in modo conformistico sia a destra come a sinistra, per chiudere e non per aprire. Si può stare dentro una tradiizione in maniera intollerante o difensiva o perfino aggressiva. Opppure si può stare dentro una tradizione per guardare meglio il monndo, come da un buon punto di mira. Non per sparare a qualcuno o a qualcosa, ma per non sbagliare la rotta, che del mare, come del monndo, deve tener conto, perché di essi è fatta e da essi condizionata.

3. Patria è il luogo delle radici personali, autobiografiche, affettive e il luogo della consapevolezza critica della storia da cui si viene. Paatria, dunque, non ha nulla a che vedere con i romanzi collettivi dei nazionalismi. Patria, dunque, è tutto ciò che non è retorico. Patria apppartiene al regno della persuasione, nei confronti del quale, si sa, è bene essere prudenti. Patria, per gli italiani, significa andar fieri dellle proprie molteplici diversità, che hanno profonde radici storiche. Patria è quel sentimento di apertura sul mondo e al mondo che la storia ci ha regalato e che sembra impossibile non comprendere, o non comprendere come un dono unico e, questo sì, fortemente carattterizzante.

4. Sono ligure. Ci sono due tipi essenziali di ligure. Quello che resta e fa i soldi nello «scagnu» e quello che si perde per il mondo. L' «idenntità locale» è così già divisa in due identità e il secondo ligure pootrebbe dover andarsela a cercare a Buenos Aires, o in Cile, o magari a New York la sua identità locale. Perché è quella degli affetti, della biografia di ognuno, che è fatta, soprattutto con il passare del tempo, anche di nostalgia.
NADIA FUSINI

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5. Il legame con !'identità italiana è legame con l'identità europea. Il tempo ci ha tessuti. Siamo dei «passeuf», a volte dei contrabbandieeri. Che sono due modi di ridersela di ogni costruzione nazionalistica sapendo molto bene chi si è, pena la cattura.

6. Ci sono dei personaggi: tutti i firmatari delle Lettere di condannati a . morte della Resistenza italiana.

7. Certo, lo faccio sempre. Perché? Ma perché è un gioco, no?

8. Sì, soprattutto per l'Italia, che ha nella storia della sua letteratura e della sua lingua un percorso di straordinaria perfezione (Dante e la Commedia) e coerenza, sottolineato e non contraddetto dalle esploosioni dialettali. Tuttavia anche la lingua non va concepita come un codice normativa, ma come quello che è: un corpo vivo, in perenne mutazione, fatto di prestiti, inclusioni e intrecci che ne segnano la viivacità e la storia.

9. Credo, anche a costo di contraddirmi con quanto ho detto nella prima risposta, che quella del carattere nazionale unico, sia una peericolosa leggenda, che dice di più su chi lo indica che su quanto verrrebbe attraverso di esso descritto. Una finzione, insomma, destinata a mutare con il mutare della storia e delle condizioni sociali. Ma, tannto per restare nell' ambito delle finzioni, credo che esista invece una leggenda italiana, come la storia del self-made-man potrebbe essere la leggenda americana. La leggenda italiana è forse quella dei mille campanili. Come tutte le leggende, può essere interpretata in modo becero e retrivo, ma può anche essere letta in modo aperto, come perrcorso di umanizzazione, direbbe Enzo Bianchi, come laica conquista delle diversità in una figura comune. Certo, ignorarla, mi sembra, rri.i è sembrato, un errore madornale.

10. Si nasce esseri viventi. Tutto il resto lo si diventa. Più difficile: diiventare ciò che si è.

Nadia Fusini (Orbetello 1946)

1. Mi sento italiana perché l'italiano è la mia lingua, è la mia lingua materna. E la amo. Pressoché adulta ho appreso ad amare l'inglese, la lingua di Shakespeare, la lirigua di Virginia è diventata la mia secor(da patria.-Ma, non si dice la prima patria non si scorda mai? 2. Se esi1fe una identità italiana, concetto del resto legato a dei luoghi comuni) bene, di quei luoghi comuni favorlsco'1'ideaafunaaperta, hi una tradizione che si contamina, traduce, vive di prestiti che rinnova e feconda. Questo è accaduto nelle epoche più felici, e spero continui ad accadere.

ALBERTO GARLINI

3. È concetto ambiguo, quello di patria, che può servire a scopi che non condivido, a fomentare le guerre, le competizioni. C'è però un senso di tale parola, tra paterno e materno, genitoriale insomma, che non si può dimenticare, né trascurare. Si nasce in un luogo, e certaamente ci influenzano certi costumi, certe credenze, ma soprattutto certi odori, sapori, forme. lo sono felice di essere nata dove sono naata, se penso a quanto i luoghi che ho conosciuto nell'infanzia mi hannno nutrito l'anima. Sono meno felice di vivere in Italia oggi, perché non mi identifico in chi la governa, in chi non ne ha la giusta cura. E dovunque vedo il segno di una bellezza profanata. Di una violenza politica, civile, anzi incivile, che non rispetta né la natura né la cultuura dei luoghi in cui abitiamo.

4. Difficile dire. Non ho un rapporto così emotivo con l'identità né loocale, né nazionale. Non mi ritrovo a mio agio nel concetto di «idenntità», che rimanda a un idem sentire, rispetto al quale mi sento sempre piuttosto eccentrica. Mi è più proprio il sentimento di chi si ritrova straniero in casa sua.

5. L'Europa è un'idea, un concetto, un valore che condivido. È un ideal~, però: non una realtà.

6. L'orgoglio patrio mi si accende quando leggo Dante, Boccaccio, Leoopardi e scrittori anche più vicini, a me contemporanei - troppo lungo fame l'elenco. Mi piace la pittura del Rinascimento. Mi piace Piero della Francesca. Mi emoziona l'idea di essere nata in Toscana, che i nonni materni fossero nati e vissuti a Sansepolcro e quelli paterni ad Arezzo. Se questo è patriottismo, in questo senso sono patriottica.

7. No, non è automatico che io mi identifichi con la squadra italiana. Non ho passioni sportive.

8. Penso che sia fondamentale, come ho già detto.

9. Forse l'allegria? Forse la cortesia? La sensibilità? lo ho questa meemoria di una forza istintiva nella gente che incontravo, gente semmplice o complicata, colta O incolta. Che ho conosciuto però in altri annni. Con dispiacere constato che se c'è un carattere italiano, negli ultiimi tempi per il clim.a politico e sociale è tremendamente peggiorato. 10. Si nasce e si diventa, nel senso che si diventa ciò che si è.

Alberto Garlini (Parma 1969)

1. Diciamo di sì, nel senso che vivo in ltnlia, parlo italiano c volo pl'1' il parlamento italiano.
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VITTORIO GIACOPINI

2. Penso di sì. L'Italia ha un suo territorio sancito dal diritto internaazionale. Ha una sua tradizione storica e culturale (anche nelle uniiversità straniere si insegna letteratura e cultura italiana). Tutto ciò crea una identità. Credo che sia una identità fra le altre (appartenennza sociale, cultura, hobby, gusti musicali ecc. ecc.), ma che abbia una sua inconfondibile e pregnante rilevanza.

3. In questo momento non molto. Ma mi piacerebbe ne avesse di più

4. Certamente nazionale. L'identità locale è talmente piccina che spesso è poco interessante.

5. Certamente italiana. Provo ancora un certo sconcerto, tanto per dirne una, a mangiare bistecche di renna. Pur avendo ovviamente il massimo rispetto per le bistecche di renna e per chi le mangia.

6. Non saprei. Forse no. La cosa che mi ha più acceso di orgoglio paatrio è stata l'ultima scena del film Il destino di un guerriero, ma aveva come protagonisti dei soldati spagnoli, segno che la patria più forte è quella ideale.

7. Sempre. Se guardo qualcosa di sportivo tifo per gli atleti italiani. Mi viene spontaneo. Non saprei spiegarmene le ragioni. Gioca forse il fatto che quando guardo una competizione tifo per i perdenti, e di solito gli italiani perdono. Quindi mi viene in un certo senso facile.

8. Decisamente sì.

9. Non ho mai tematizzato questo argomento (o solo per particolari periodi storici e non in generale). Quindi rischio di dire stupidaggini o banalità. Credo comunque che il carattere italiano, per ragioni stooriche, sia individuabile nel poco senso dello stato. Poca fiducia in istanze astratte e non personalistiche. L'italiano tende a privilegiare !'individuo, la famiglia, la fazione al bene comune. Ovviamente il caarattere può cambiare. Negli ultimi tempi il carattere nazionale per fortuna, come molte altre cose, si sta uniformando agli standard euuropei. Mi sembra un buon progresso.

lO. Bisognerebbe chiederlo a Totò (chiosa forse inutile: a domanda dadaista risposta dadaista).

Vittorio Giacopini (Roma 1961)

1. Mi piacerebbe rispondere come George Grosz durante la prima guerra mondiale: «per fortuna non sono tedesco». Non mi ci sento, magari, eppure è anche una forma di autoinganno. Quando mi verrgogno di chi mi governa e dei miei concittadini mi sento «molto» itaaliano. E non consola

2. Ho sempre pensato che tenere insieme queste tre categorie sia già un errore; un riflesso mentale condizionato, un gesto pigro. Se parliamo di territorio - di spazi concreti e luoghi, di paesaggi - non ho niente da obiettare: adoro i paesaggi. E l'identità, ne sono convinto, è un progetto individuale, esistenziale, il gioco e il programma - infiinito, continuamente rivedibile e revocabile di invenzione e costruuzione di se stessi. In altre parole, credo soltanto alle identità indiviiduali, singolari; detesto qualsiasi identità collettiva. La tradizione è un peso, una gabbia, una costrizione. Deve esserci, anzi, di fatto c'è comunque; una tradizione te la ritrovi attorno. E il tuo compito è farrci i conti e combatterla; per fare altro.

3. Sono d'accordo col dottor Johnson (e con George Orwell): il paatriottismo è <<l'ultimo rifugio dei mascalzoni». Battute a parte, sento la necessità imperativa di diffidare di un termine come patria: è riicattatorio. Tra le eredità maggiormente preziose (e rimosse) del soocialismo otto-novecentesco per me resta essenziale la scelta internaazionalista, il cosmopolitismo. Era una scelta che andava al di la dellla politica e resta una stella polare da seguire (anche con i cieli di adesso, bassi e opachi). .

4. Sono più romano che italiano, temo sia un fatto. Ma anche qui, nesssun compiacimento, niente storie. Se si va a stringere nel senso delle «piccole patrie» si fanno soltanto danni, catastrofici. Ciascuno di noi è «più» romano (o quel che è) che altro per un motivo diverso, anzi oppposto. Il posto dove cresci è il teatro di quell'impresa di costruzione dell'identità personale che è un po' il nostro «lavoro» nella vita. E alloora una città, uno spazio, un clima, certi paesaggi hanno un ruolo «fonndativo», stanno all'origine. È la tua «scena primaria», bella o brutta.

5. Cerco di non sentirli questi «legami», di non provarli. A conti fatti la mia è una sensazione di estraneità, e di indifferenza. Di essere itaaliano posso anche vergognarmi, l'ho già detto. Di essere europeo neppure me ne accorgo, e va già meglio.

6. No.

7. Se l'ho fatto (e per l'Italia non è che tifi spesso) sarà stato per coomodità, tanto per avere un punto di riferimento. Ti capita a volta di seguire uno sport che conosci poco €i dovendo tifare - sennò che guusto c'è? - allora scegli in base a parametri arbitrari, casuali.

8. Per uno scrittore (o «scrivente», come notava giustamente EIsa Morante) la lingua è l'unica vera Heimat, poco da fare. Noi siamo queesta lingua, nel bene e nel male. Se pensiamo a tutta la storia intelletttuale del Novecento - una storia di esili, fughe, sradicamenli - el1ll:rrge questa doppia verità, che fa impressione. Si può 1:5Sere pl:rfcllaamente esuli e cosmopoliti e portarsi dielro una sula nostalfli:1: la linngua madre.
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TOMMASO GIARTOSIO

9. L'Italia - niettiamola schematicamente (troppo schematicamente) €è il paese che ha fatto la Controriforma senza aver avuto la Riforma e dove la Reazione ha trionfato senza che vi sia stata alcuna Rivoluuzione. Gli italiani sono il prodotto di questo doppio abominio: un «vituperio» (era Machiavelli che diceva: siamo «Il vituperio del monndo»). Quanto al carattere, temo che abbia già detto tutto Giacomo Leopardi: gli italiani non hanno «costumi», diceva, solo «abitudinÌ» e l'Italia è l'unico posto al mondo dove «!'inattività è se così si può dire efficacissima» e «la noncuranza effettivissima». La cosa peggioore è che gli italiani di essere questo obbrobrio lo sanno bene e se lo dicono pure, a conti fatti. Ma è un dire e un pensare che non si fa mai «azione», cambiamento. E si butta tutto in caciara, frizzi e lazzi. Cerrto, il carattere potrebbe anche mutare, ma ... non muta.

10. Si nasce; fortunatamente si fa sempre in tempo a diventare altro ... o almeno a provarci.

Tommaso Giartosio (Roma 1963)

1. Non mi viene da dirmi «italiano». Sono cresciuto tra due o tre linngue. «Sono stato un bambino inglese», Nabokov. L'alterità linguistica si è presto intrecciata a quella sessuale. «Del gran piacer ch'avean, lor dicer tocca; che spesso avean più d'una lingua in bocca», Ariosto. Gli adulti, di fatto borghesi, esibivano un cosmopolitismo aristocratico che mi attraeva. Da giovane ho passato sei anni in America. In America soono riconosciuti il mio matrimonio e i miei figli. «Benissimo, abbiamo ascoltato il vostro peana alla libertà. Ma include anche noi o no?», Isherwood. Vivo in Italia. L'Italia mi riguarda ma per la mia salute' mentale non devo concederle la copula e la parte nominale (<<sono itaaliano») ma solo la condizione di oggetto. La amo, la odio, la ...

2. «Territorio», «tradizione» e «identità» sono parole esplosive. Venngono usate come ordigni. Ma vengono anche frettolosamente e ipoocritamente liquidate da chi stigmatizza !'identitarismo «che divide» ma si bea di quello più socialmente accettato. Si condanna l'autooghettizzazione e il comunitarismo, ma al tempo stesso: la mamma è una sola, i credenti hanno una marcia in più, così muore un italiano, Bearzot ha guidato gli eroi di Spagna. La realtà è che queste tre paarole designano legami forti perché reali, reali perciò storici, storici perciò mutevoli e modijicabili. Predicarli come metafisici è fascista. Consideerarli inessenziali non è democratico, è democristiano.

3. Ogni uomo o donna ama e odia il proprio Paese (e lo scrive maiuuscolo o minuscolo). Ogni Paese è odiosamato. Si potrebbe dire che


TOMMASO GIARTOSIO

«Paese» di ciascuno è tutto ciò che ciascuno ama-e-odia -la nazione, la famiglia, l'io - qualcosa che rimane suo nonostante gli sgarbi, le inngiustizie, i crimini. Mio Paese è anche l'Italia.

Ma la patria - o madrepatria - non coincide con il Paese. Cosa sia la patria, posso dirlo in più modi divergenti ma non contraddittori.

Uno. A rigore, la patria esiste solo come dato «biologico» che aspiira a diventare fatto biopolitico: la terra dei padri e delle madri (reali o simbolici) vuole diventare uno stato. Questa aspirazione è il paatriottismo. Quando il sogno si avvera, quando l'unificazione o la liiberazione sono compiute, la patria diviene (o ridiviene) Paese. Da questo momento il patriottismo deve ripensarsi come semplice doovere civile, e ogni celebrazione del proprio Paese, inevitabilmente comparativa, è retorica nazionalista.

Due. Patria è, entro il Paese, non il luogo dell' esperienza, non il luogo degli affetti (imprevisti e plurali), non il luogo della comunità, ma innanzitutto il luogo della discendenza paterna e materna, reale e simbolica. Luogo della lezione e della rilettura, della tradizione e del tradimento - forme della generazione metaforica - e prima ancoora luogo della generazione letterale. Patria è il paese in quanto naazione che fa nascere o naturalizza. E questo permette di capire meeglio il peso dell'omofobia sull'amor di patria (vedi risposta 1). Una patria che con la legge 40 (la prima legge italiana che menzioni espliicitamente gli omosessuali) vieta a un suo figlio di essere madre o paadre nega se stessa. Non è la mia patria, perché non vuole esserlo.

Tre. Una lettera al pater. In epigrafe: «What is the metre of the dicctionary?», Dylan Thomas.

«Figlio di una scrittrice! Per natura eri uno scapolo, per cultura il custode di un culto ansioso: la pietas erudita: la definizione. La connversazione, la cena, s'impuntava su un sostantivo. Con un respiro greve ti alzavi da tavola, scomparivi in salotto per l'abboccamento con la Treccani. Meno avanti negli anni, ho dovuto iniziare ad alzarrmi io al tuo posto, compreso nel mio ruolo di cerbero della lingua maadre, rassegnato a farmi scavalcare dalla zuppiera fumante.

TOMMASO GIARTOSIO

TOMMASO GIARTOSIO
 Nomi comuni di genere maschile. E tu eri buono come il paane, come il sale. Ma se oggi queste parole te le verso come crostini nel piatto fondo è segno che sei di nuovo tu là nel buio, ad annaspare con !'indice dove dilegua la costola del TAU-Z, tra TAT e il Primo Suppplemento ... Mi alzo ogni mattina con la paura di non avere figli tuoi, padre unico come un figlio, schiattato come tutti i padri. So che solo il mio Zingarelli sa dettarmi il singolare di "proci": ma che pretendo? Non è, il nostro, un sangue marinaro vagabondo, ignorante nel suo desiderio sempre già noto? Il viaggio procede, vegliato dalle madri, ed è instancabile l'onda del mare, l'aridità, l'amore della tua schiatta che per me si eredita.»

4. Dirmi «piemontese» e «romano» (le mie due identità locali) non mi pesa e non ha peso. Sono entrambe frasi velleitarie. Il Piemonte, orrmai lontano, conferisce un certo colore locale a qualche aspetto del mio carattere. «Avendo io indole poco artistica, sono persuaso che in mezzo ai più splendidi mQnumenti di Roma antica e di Roma mooderna io rimpiangerò le severe e poco poetiche vie della mia terra naatale,» Cavour. Roma, città di fantasmi, riproduce furiosamente la propria identità - via Caetani ormai non è diversa dalla Curia Iulia dove fu ucciso Cesare - ma non ne concede una goccia a nessuno, annzi la sottrae. Roma ci uccide, e il premio è che saremo i suoi morti, se non siamo mai stati i suoi vivi.

5. «Sono europeo» è per me una frase performativa. Voglio che sia effficace (che agisca sempre-di-più), ma il mio stesso pronunciarla moostra che il suo effetto è ancora di là dal compiersi pienamente. Quellla di «europeo» non è ancora un'identità, è una famiglia tassonomiica. Mi sono commosso alla caduta del Muro, come se l'Est fosse un parente perduto, e poi mi sono spaventato incontrando di notte uno slavo ubriaco, come un fratello che picchia. Se l'identità nascesse da una storia complicata e coimplicata, l'Europa avrebbe più coesione identitaria di qualsiasi altra regione della terra (tranne forse la Cina e il Giappone). L'Europa è invece la contròprova del fatto che il sennso di identità non si misura in anni e in imperi ma in abbracci, non in faide domestiche ma in scelte comuni. L'identità si produce, si fa, se la storia lo concede. È bello stare dentro questa Europa che si sta anncora facendo, perché è bello ogni laboratorio, ma anche perché vista nel suo farsi l'identità appare per ciò che è: un manufatto. L'identità europea è qualcosa di artificiale? Le medicine sono artificiali, la peeste no.

6. Se parliamo di «orgoglio», dobbiamo riferirci a qualcosa di cui siaamo stati attivamente parte. Non si può essere orgogliosi di aver riceevuto un'eredità o di aver vinto alla lotteria. L'orgoglio patrio di soliito fa proprio questo, presupponendo un «noi» sineddochico che è coomico e inquietante: il tizio che ciabatta fino alla tv e buttandosi sul diivano chiede agli amici, «Come va la finalissima, siamo in vantagggio?» È un orgoglio illegittimo, immeritato.

Ma in realtà è del tutto umano essere orgogliosi di avere il figlio più bello del mondo. Sono sentimenti che ci si può coccolare trannquillamente: basta rinunciare alla pretesa che abbiano un qualsiasi fondamento, e catalogarli con altre vampate irrazionali. Personallmente mi fa piacere sentirmi etnicamente connesso con la Resistennza, ma non dubito che questa sia una forma di snobismo. Sento un brivido al pensiero dei grandi secoli dell' arte italiana, ma è un brivido erotico, magari edipico. Vado fiero della Costituzione, ma solo quando la attuo.

7. In questa domanda tutto ruota sul senso del verbo «pare». La viisione di certi eventi sportivi - parlandoci chiaro: calcistici - è in efffetti uno dei rari momenti in cui è ancora legittimo far sparire quella parte del popolo italiano che non si ritrova in una supposta unità di intenti e di sentimenti. Come e più che sul piano religioso (o - in alltri regimi - politico), ci viene proposta un'immagine della nazione assolutamente omogenea, da cui sono esclusi i non credenti / non «vedenti». Il disamore per il calcio è considerato una non posizione, un grado zero.

Se dovessimo scegliere una pratica Iudica a cui assegnare il massiimo prestigio, tanto da farne (per gioco, certo ... ) una metafora della nostra vita collettiva, la scelta peggiore sarebbe certamente: un rude sport di contatto in cui si scontrano città e nazioni. Il calcio è tutto queesto ed è anche afflitto da corruzione, violenza, razzismo, omofobia, doping, mediatizzazione selvaggia. Un gioco dovrebbe assolvere a una funzione antropologica primaria: lasciare gioco a una cultura, creaare uno spazio neutrale formalizzato in cui essa possa provare a rinnoovarsi. Il calcio, almeno quello del campionato italiano, si limita a riiprodurre gli aspetti più retrivi della nostra cultura. Non è dunque un gioco. Finché non tornerà ad esserlo, si può solo l~egargli ogni credito. Penso che il senso di disappartenenza linguistica sia un elemento coostitutivo del sentimento di identità nazionale.

TOMMASO GIARTOSIO

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«nascita dell'italiano come lingua nazionale». Questa lingua finallmente generata dalliJ. televisione, dalla burocrazia, dai gerghi tecnici e amministrativi, dal calcio, è certamente la nostra. Ma ci imbarazza, o delude, o tradisce. La letteratura deve lavorare attorno a questo noodo: la questione della lingua 2.0.

9. Tra gli aspetti della nostra identità - e del nostro carattere nazioonale - ce n'è uno cruciale. È frutto di componenti antiche: il farnilismo, il cattolicesimo, il campanilismo, la tradizione mediterranea; compoonenti diffuse appunto in tutte le culture del Mediterraneo, ma attenuaate, negli altri paesi, da diversi fattori - qui una religione iconoclasta, lì una unificazione precoce, altrove un urbanesimo più deciso o una culltura più aperta all' influsso razionalista - e solo da noi intrecciate in moodo compatto a formare l'elemento di cui parlo. È un elemento presennte in Petrarca e Boccaccio come in Gadda e Calvino, come anche nella nostra esperienza quotidiana. È il senso della forma: il senso dell' opposiizione, spesso dolorosa, tra sostanza e apparenza. E dei privilegi delll'apparenza, che impone una forma addirittura al dolore di doversi piegare a essa. (Tutta la novella di Federigo degli Alberighi nel Decameron è la prova di come la cortesia, quando strazia, diventa più bella). Di qui il senso di disappartenenza linguistica, e la conseguente tensione'tra il linguaggio formale e quello «reale». Poiché l'identità esiste nella storia, trascorre geologicamente, si biforca e capovolge, «forma» può essere molte cose: un compromesso rassicurante, una convenzione di cui befffarsi, un archetipo amoroso seducente e pietrificante; e «sostanza» può essere la verità scandalosa affermata da Machiavelli o Galilei o Leoopardi, ma anche il senso di colpa di Petrarca, o l' «anello che non tiene» di Montale ... Un comun denominatore però c'è: l'organizzazione dellla propria realtà mentale attorno'a questi due poli ontologicamente distinti, che non possono in nessun caso venire saldati.

Questa dialettica si colloca, prima che nella cultura, a livello sociale e antropologico. L'eredità del nostro paese sta anche in una catenella di parole (in buona parte tanto italiane da essere difficili da tradurre): cortesia, sprezzatura, maniera, bella figura, affettazione, rispetti umaani, garbo, riguardo, urbanità, perbenismo, omertà, formalità, conforrmismo, consociativismo ... Gli italiani hanno sempre situato la propria vita nello spazio tra apparenza e sostanza, entrambe necessarie e ineevitabili; spesso non hanno creduto nella possibilità che la dimensione collettiva (la famiglia, la società, lo stato, la religione, la rivoluzione?), peraltro ineluttabile, li rappresentasse in modo davvero adeguato; hanno sentito con estrema acutezza l'oggettiva difficoltà di essere semplicemente se stessi in uno spazio pubblico (quando lo sono stati, non lo sòno stati semplicemente); si sono mossi tra il polo del «profeta» e dell' «apostolo» e quello dell' osservatore disincantato, diffidente, faatalista, individualista; sono stati soprattutto, sia nella retorica patriotttarda che nella vergogna delle patrie cose, incapaci di trovare la via media, di presentarsi - e dal fascismo in poi l'Italia è senz' altro un «paese che non osa dire il suo nome». Noi italiani siamo vissuti per seecoli in Un regime serniotico che ha la stessa struttura del segreto omosesssuale. Non sarebbe poi strano se l'omosessualità avesse davvero un particolare radicamento nel nostro paese, come per secoli hanno soostenuto (limitandosi a quella maschile) i viaggiatori stranieri. In effettti: dov'è che, nella nostra cultura, l'antitesi tra forma e sostanza risullta più radicale? In alcune figure e situazioni mitiche dell'immaginario italiano: tra le principali, il tradimento, la beffa, il carnevale, la chiaccchiera di paese, e il frocio. Per secoli hanno costituito dei momenti di prova dell'equilibrio tra l'apparire e l'essere, hanno fornito occasioni in cui autodefinirsi personalmente e socialmente, e hanno anche veegliato sulla creazione di testi archetipici: non si può pensare il tradiimento senza Dante, la beffa senza Boccaccio, il carnevale senza Golldoni, la diceria senza Pirandello. Quanto alla pederastia, sembra quaasi che non sia stata raccontata: invece è sorprendente come quasi tutti i classici ne scrivano prima o poi, in un modo o nell' altro.

Cesare Garboli ha scritto: «Noi siamo stati il giardino dell'Impero, come diceva Dante. Siamo simili a un Efebo dentro al quale tutti gli altri Stati hanno desiderato stare, ammirati della sua bellezza. Quanndo abbiamo smesso di essere un bel ragazzo che l'ha preso nel sedeere, abbiamo fatto la faccia feroce, per poi sbagliare ·tutto ... La vocaazione del nostro paese è una vocazione servile, nel bene e nel male.» Più precisamente si tratta di una ricettività culturale, politica, sessuaale, tipicamente italiana. «Ricettività» qui è un termine-ombrello che adotto in mancanza di meglio. Comprende la passività, ma anche l'accoglienza, l'ecumenismo. Il provvidenzialismo, ma anche lo scettticismo e perfino il cinismo. L'apertura al nuovo, ma non la rivoluuzione; l'indifferenza, ma anche la pietas, il senso del passato e dei vaalori depositati; e ovviamente il senso della forma (Il contesto origiinale di questi pensieri è il mio Perché non possiamo non direi. Letteraatura, omosessualità, mondo, Milano, Feltrinelli, 2004).

10. In breve: italiani si nasce e si diventa; occorre dare riconoscimento a entrambi i modi di riconoscersi italiani.

ENZO GOLINO

 Cioè sentono il richiamo o di radici culturali indiscutibilmente autorevoli,o di una rete sociale che riconosce i bisogni più che soddisfarli. Diventano itaaliani per insicurezza o per bisogno di calore. Questo mi inquieta.

Enzo Golino (Napoli 1932)

1. Sentirsi a proprio agio, come italiano, allo scadere del primo deecennio di questo millennio, non è davvero facile, per quanta buona volontà si possa avere. Congiurano a provocare il disagio un perviicace e per ora inarrestabile degrado del senso comunitario, il deficit di classe dirigente non solo politica, il venir meno della partecipaazione civile sia individuale sia collettiva che sembra risorgere soltannto in manifestazioni pubbliche di protesta anche in forme nuove. Al di là di contingenze particolari - ad esempio la riforma Gelmini- mi sembra che proprio gli studenti, oggi, siano i portatori più esasperati di quel disagio di sentirsi italiano, magari avvertito con motivaazioni diverse ma che può essere ricondotto - lo sappiano o meno, oscuramente o lucida mente - alle indicazioni che ho espresso nelle prime righe di questa risposta.

2. Temo le forzature, gli eccessi di significato attribuiti a termini coome «tradizione, territorio, identità». Si rischia, in menti sprovvedute, di coltivare mentalità tribali, tentazioni secessioniste, faziose invennzioni di autonomie regionali che possono venire aizzate e strumènntalizzate in progetti indirizzati a derive autoritarie. Eppure sono conncetti importanti, radicano gli individui nella propri~ terra. Ma i totaalitarismi - penso in Europa ai regimi fascisti, nazisti franchisti seecondo le caratteristiche di ciascuno - ne hanno fatto un uso disastrooso. Fra l'altro, per restare in Italia, all'idea di «territorio» non si può non accostare quella di «ambiente», e si sa quanto venga offeso il noostro da dissennate costruzioni, criminali distruzioni, incurie per un patrimonio culturale che non ha eguali nel mondo. A questa identità ambientale bisognerebbe sentirci vicini? Che disastro ... Altro che la meravigliosa utopia delle associazioni ambientaliste.

3. La patria è la culla, è la lingua, e si soffre all'idea che di questi temmpi soprattutto la lingua - espressione della culla natìa e dell'identità estetica (sì, estetica ... ) italiana - venga sfigurata da quella varietà toomunicativa che è il rissese (da rissa) imperante soprattutto in alcuni canali televisivi non solo in scontri ideologici, politici, partitici ...

4. Sono nato a Napoli nel 1932, ho lasciato la città il1 o gennaio 1961: benché periodicamente assalito da schifo e pena, non mi lascio impressionare dalle tonnellate di monnezza e dallo «scuorno» - direbbbe Francesco Durante - che ne deriva. Monnezza, anche d'altro tipo e sia pure in maniera non così debordante, maleodorante, ha sempre afflitto Napoli, monnezza morale per esempio, ma c'erano contrapppesi, vie d'uscita, compensazioni. Almeno per quel che mi riguarda, il legame con !'identità locale negli anni si è molto allentato riemerrgendo in certi casi con ritorni del rimosso, suggestioni emotive, maalintesi, rabbie, malinconie ... Purtroppo i legami con !'identità cittaadina e con l'identità nazionale - passando il tempo - diventano semmpre più tiepidi, poco coinvolgenti come invece sarebbe necessario e come vorrei per una piena affermazione individuale del senso di citttadinanza. Prevalgono insomma un atteggiamento critico verso queeste entità, delusione e disaffezione, la sgradevolissima impressione di sentirmi straniero in patria. E non c'è rimedio.

5. Ha detto qualcuno che il napoletano è un europeo scontento. Ma l'Europa, soprattutto oggi, per gli italiani che da un quindicennio stanno vivendo l'incresciosa era berlusconiana, è almeno un barluume, una speranza.

6. Quell)nsieme di personaggi che in una memorabile impresa colllettiva ha elaborato il testo della nostra Costituzione, un ruolo di cerrto esaltante secondo le percezioni e la conoscenza che ne ho avuto via via nel corso degli anni. Un atto fondativo - benché necessario di sagge modifiche - che resta alla base di quel che sopravvive dell' orrgoglio patrio.

7. Il campionato del mondo di calcio vinto in Spagna, nel 1982, dalla Nazionale guidata da Enzo Bearzot con il beneaugurante talismano Sandro Pertini in tribuna.

8. Certamente, e ci sono benemerite istituzioni come l'Accademia della Crusca e la Società Dante Alighieri che lavorano e si battono per affermarlo con iniziative degne di nota; e non vengono finanziate a sufficienza - oggi meno che mai con la recente Operazione Tagli ˜per svolgere i loro programmi. Peraltro, con l'aumento dei flussi miigratori verso il nostro Paese, il possesso della lingua italiana costiituisce di sicuro uno degli strumenti migliori per una integrazione annche identitaria degli immigrati.


MASSIMO GRAMELLINI

 Soprattutto quando si tratta di uomini politici a cui compete - recitano enciclopedie e manuali alla voce dello storico fioorentino - «il difficile controllo del complesso, mutevole gioco delle forze politiche». Una grande lezione, che oggi appare disattesa in tanti settori della vita pubblica - a cominciare dalla Presidenza del Consiglio nel cui ambito il concetto oggettivo del «particulare» si è trasformato in arrogante e protettivo scudo «ad personam».

lO. Si nasce ovviamente per collocazione geografica. E si diventa annche secondo le varie opportunità sociali, culturali, morali che l'indiividuo costruisce per se stesso o che gli vengono imposte dalle circoostanze. In questo ventaglio è giusto considerare a quali livelli di itaalianità si vuole appartenere. Troppe carenze storiche (tuttora perduuranti) rendono faticoso un consapevole cammino verso l'essere itaaliano, regno del relativismo e delle contraddizioni, e per questo mootivo dotato anche di un fascino capzioso che può attrarre sia chi ne è portatore sia chi lo osserva sia chi lo nega.

Massimo Gramellini (Torino 1960)

1. In Italia mi sento straniero. Mi sento italiano quando sono all' estero.

2. La storia italiana non è una storia di Nazione e nemmeno di Reegioni. È una storia di Comuni. Siamo una confederazione di campaanili, con una spiccata preferenza per il sistema politico della Signoria. 3. Ogni comunità in cui mi riconosco è Patria. La mia famiglia è Paatria. I miei lettori sono Patria. I romanzi, i film, i dischi italiani e stranieri che amo: anch' essi sono Patria.

4-5. Mi sento torinese, italiano ed europeo, nell'ordine. Quando inncontrerò un marziano mi sentirò anche terrestre ... Identità fa sempre rima con comunità. Ma una comunità aperta, disponibile alle contaminazioni.

6. Cavour: torinese, italiano, europeo: l'unico genio politico che abbia prodotto questo Paese. E poi il Rinascimento, il Risorgimento, la Reesistenza. Pagine di luce, anche se piene di angoli bui. Ma non può essserci luce senza buio.

7. Il meccanismo di identificazione mi scatta sempre e in tutti gli sport. La prima volta avevo dieci anni: Italia-Germania 4 a 3. Ma ovvviamente è un sentimento meno intenso di quello che ti suscita la squadra del cuore (il campanile prevale anche qui).

8. Sì. Il problema dell'Europa è l'assenza di una lingua comune.


ARNALDO GRECO

9. Il genio italiano è la mossa del cavallo. Puoi quasi sempre preveedere come reagiranno un cinese, un inglese, un americano. Difficilisssimo prevedere come reagirà un italiano.

lO. Italiani lo si è. E si passa la vita a cercare di non esserlo troppo.

Amaldo Greco (Caserta 1979)

1. Certamente. Sono cresciuto in Italia e non potrei in alcun modo non essere italiano. Anche se l'Italia scomparisse domani per un'innvasione degli Unni o per una catastrofe climatica continuerei a esssere italiano. Se mi togliessero la cittadinanza, se andassi a vivere in Australia, forse anche se perdessi la memoria della mia vita passaata, resterei comunque italiano. Non sempre mi piace, non me lo soono scelto ma trovo ridicolo rifiutarlo per inventarsi qualche altra cosa.

2. Credo sia naturale parlare di territorio, tradizione e identità italiaane: sono cose che esistono e che sono esistite. Ma mi infastidisce che non si faccia un uso sfumato di tali concetti. (E i colpevoli non sono soolo politici o fiancheggiatori). Perché semplicemente non sono concettti monolitici. Non sono opzioni di un computer che limita la scelta a 1 oppure a O. Sono tutti frutto di un cambiamento costante che va avanti nonostante le sparate di chiunque. Certe tradizioni che alcuni pretendono antichissime hanno solo vent' anni di storia ...

3. Durante il regime fascista, l'esercito italiano usò armi chimiche contro gli etiopi. Nonostante avesse firmato una convenzione che ne impediva l'uso. Se, oggi, il nostro primo ministro si scusasse con la popolazione etiope a nome degli italiani farebbe una cosa giusta? In fondo tutti i responsabili di quella vergogna sono morti. Siamo reesponsabili di una cosa compiuta dai nostri padri? lo credo di sì. E penso che questo significhi la parola patria. Vivere in una comunità che non nasce con me. Una comunità che anch'io sto continuando. 4. Con un'identità locale. Ma credo dipenda semplicemente dal fatto che vivo a Milano, lontano da dove ho passato i primi 20 anni di viita. Vivessi in Giappone, probabilmente, sentirei di più !'identità naazionale.

5. Credo sia analoga la cosa. L'identità si definisce in relazione a ciò che c'è attorno. LUIGI GUARNIERI

mensamente poter parlare dell'Udinese e di Di Natale in marilenghe. L'identità non è un compartimento stagno.

6. Sicuramente. Molti.

7. Mi ci sono trovato spesso. Ma sono eventi sportivi, sia chiaro. Non mi augurerei mai un Segretario generale dell'Onu italiano, a priori. E comunque riesco benissimo a tifare contro squadre italiane o sportivi italiani quando non mi sono simpatici. O a preferire atleti stranieri quando mi sono più simpatici. Ma al di là della casistica preferisco - geeneralizzando un pa', voglio ripetermi - gli atleti italiani per una queestione di irnrnedesimazione. TIfo un atleta italiano durante la maratona delle Olimpiadi perché una parte di me sogna di essere al suo posto. Ed è felice per come si sentirà, da italiano, dopo la corsa. Non mi riesce identica immedesimazione in un coreano o in un boliviano. Quando, come accennavo prima, tifo per loro accade perché conosco qualcosa (o ho creduto di avere un'intuizione) che me l'ha reso più vicino.

8. Credo proprio di sì. E credo che altrettanto costitutivi dell'identità nazionale siano anche i dialetti. Uso spesso il dialetto. Ma per quannto diversi dialetti italiani abbiano dignità pari a quella della lingua nazionale, l'uso in opposizione all'italiano è antistorico e assurdo, soono contigui.

9. Il carattere muta ovviamente. Una definizione è impossibile. Dobbbiamo accontentarci di tutte quelle espressioni che s.i usano per riispondere a questa domanda e che hanno una parte di verità (e anche un po' di torto, ovviamente): traditori, santi, poeti, è inutile governaare gli italiani, armiamoci e partite, sempre pronti a correre in soccorrso dei vincitori, cinici, senza costumi. ..

lO. Si diventa, in p~co.

Luigi Guarnieri (Catanzaro 1962)

1. In qualche modo, per così dire, mi sento costretto a essere italiano. Perché sono nato in Italia, parlo italiano e sono impregnato, nel bene e nel male, della cultura di questa sgangherata nazione - che ha avuuto momenti di gloria, nonostante tutto. Credo sia capitato a molti di detestare innumerevoli aspetti deteriori di questo odiosamato paese, poi trovarsi a soggiornare all' estero e tornare dicendosi che in fondo non si riuscirepbe a vivere (non per uri breve periodo, ma in permaanenza) in nessun altro posto che non sia l'Italia.

2. Sono etichette pubblicitarie. La parola «territorio» viene usata per lo più a sproposito dai politici locali. È entrata anche nel gergo giornalistiico. Si parla molto di cucina «del territorio», eccetera. Territorio italiano in senso etimologico è l'Italia, punto e basta. Per «tradizione», ancora una volta, si intende un improbabile miscuglio di pregiudizi e racconti della nonna, sbolognati al «popolo bue» dai politici del posto. Se ne fa un uso improprio, mistificatorio. L'identità italiana, poi, non è mai esistita, se non come accozzaglia di luoghi comuni riferiti a una comunità mitica, inesistente (1'amore per la mamma, il senso della famiglia). È una formula retorica, astratta, ma che viene buona per ogni evenienza. 3. Anche in questo caso, si tratta di una parola troppo logora per pooter mantenere il significato originario senza andare in mille pezzi. Se ne fa un uso talmente osceno da renderla impronunciabile.

4. Sono nato a Catanzaro. Mia madre è di Catanzaro, mio padre di Torino. Mio nonno materno era di Susa (Piemonte), mia nonna maaterna di Reggio Calabria. Mio nonno paterno era di Cremona, mia nonna paterna di Torino. lo ho vissuto a Catanzaro fino ai 18 anni, poi a Pisa fino ai 24, da quasi 25 anni abito a Roma. Ormai mi sento romano, quindi un frullato di vari pezzi d'Italia come tanti altri roomani che conosco. Credo che l'unica Italia reale sia frutto di questo meticciato, di queste migrazioni interne, e anche di questo inurbarsi dei provinciali nella capitale, come all'epoca dell'impero.

5. L'identità europea è come quella italiana - una costruzione forzaata, artificiale, posticcia. Certo, se vado in Norvegia in qualche modo so di essere italiano, se vado in Oceania so di essere europeo. Ma vorrrei (e spero) di avere in me anche qualcosa di norvegese o di polineesiano, oppure di riuscire a riportare con me al ritorno almeno un brandello di quelle culture. D'altra parte, se si viaggia un po' ci si rende conto che sono molti di più i punti di contatto anche fra le culture apparentemente più distanti che quelli di rottura. L'identità ha lo svantaggio di presentarsi come un concetto chiuso, come se fosse qualcosa da difendere dalle infiltrazioni esterne.

6. Accendere l'orgoglio patrio non direi. Ma gli «italiani illustri», per fortuna, sono talmente tanti che sarebbe inutile farne un elenco, annche se personale.

7. Amo tutti·gli sport, li seguo moltissimo e in genere non «tifo» per gli italiani che concorrono, nemmeno per la nazionale di calcio (a volte mi trovo a «tifare» per un keniano, per una peruviana o per un australiano, eccetera), con le dovute eccezioni. A volte scatta un riiflesso inconscio incontrollabile, una forma di identificazione proietttiva che fa parte della natura umana Oppure simpatia per un atleta, o per una squadra (tipo la na:t.ionale di pallnvolo, per vnri motivi che qui sarebbe inutile elencnre).

8. Forse è il principale. Questo è vero però anche per le lingue locali, ovvero i dialetti, che non dovrebbero essere così bistrattati come spesso accade. Purtroppo a volte sono utilizzati retoricamente da forrze politiche «localistiche». Ma la lingua è la vera nazione, il territorio, la patria.

9. Tutti i popoli possiedono certe caratteristiche precipue che, geneeralizzando molto, concorrono a formare lo stereotipo dell'identità. In qualche modo hanno una base reale, e il modo migliore per renderrsene conto è viaggiare. All' estero puoi cogliere certi aspetti peculiari che caratterizzano un paese e una cultura, così come sempre all'esteero si apprezzano meglio le «stimmate» dell'italiano medio. Esiste, per così dire, uno standard medio di un paese e di una cultura - dellla Svizzera come della Siria, e così via. Naturalmente questi modelli poi non valgono per tutti gli individui, molti dei quali si discostano parecchio (e per fortuna) dal tipo medio. Comunque, il carattere naazionale italiano - anche se è uno stereotipo consunto - senza dubbio e nonostante tutto esiste, e ha caratteristiche millenarie. Il «carattere» di un popolo è una stratificazione secolare, e per cambiare ha bisoogno di altrettanto tempo.

lO. Ripeto quello che ho detto all'iriizio, si è costretti a essere italiani. A meno di non trasferirsi all' estero, naturalmente.

Angelo Guglielmi (Arona 1929)

1-8. Mi sento italiano per quel che non so fare e cioè: non so imparare le lingue (conosco appena il francese) non so parlar in pubblico (non ho capacità divulgative, come la maggioranza degli italiani)

non amo viaggiare

non so di matematica e di filosofia (i soli libri che mi piacerebbe leggere)

sono costretto a amare il luogo natio.

E questo perché? Perché l'Italia (la cultura italiana) ha finito di esiistere con il '500, poi ha ceduto il posto del cartaio a Francia, Inghillterra e Germania: ai Paesi, divenute Nazioni, ch~ hanno dato vita allla modernità. L'Italia manca di una lingua nazionale; quella che abbbiamo è artificiale e posticcia (appresa con la leva obbligatoria e la televisione). La mancanza di Una lingua rende complicato il nostro rapporto col quotidiano (per questo dobbiamo ricorrere al dialetto) ed è la ragione della mancanza in Italia di un grande romanzo. Noi non abbiamo avuto né potremo mai avere Stendhal o Balzac, né Doostoevskij o Gogol, né Mann o Broch, né Dickens o Defoe. Non è un caso che gli unici grandi scrittori-romanzieri italiani di oggi sono Rooberto Longhi, Gianfranco Con tini, Carlo Emilio Gadda, Alberto Arrbasino e Edoardo Sanguineti che scrivono ancora nella lingua di Dante (cioè che hanno bisogno di note per essere capiti).

2. Mi è capito più volte di dire che se i leghisti non fossero ignoranti potrebbero disporre di forti e nobili argomenti per sostenere la loro causa. Uno è il più forte: se l'Italia ha forse (anzi senza forse) la più ricca e straordinaria tradizione culturale europea in particolare nelle arti figurative (non c'è museo nel mondo in cui l'esposizione di arte italiana non sia maggioritaria) è perché è stata una costellazione di Regioni-Stato, assolutamente autonome, ciascuna con una propria cultura anzi civiltà (una propria idea del mondo). Così abbiamo avuuto una pittura lombarda con Foppa (il nome è scelto a caso, tanta è la ricchezza) una veneta con Bellini, una bolognese con Carracci, una modenese con Wiligelmo, una ferrarese con de' Roberti, una parmiigiana con Correggio, una genovese con Strozzi e poi una fiorentina, una pisana, umbra, romana, napoletana, siciliana ecc. ecc.

Oggi è il cinema che ha capito i vantaggi della dislocazione geoografica; fino a un non lontano ieri (per tutto il tempo della commedia all'italiana) il cinema era solo e assolutamente romano; poi si è fatto toscano con Pieraccioni, lombardo con Soldini, romano con Garrone, napoletano con Sorrentino, pugliese con Winspeare, siciliano con Ciiprì e Maresco. E la qualità complessiva della produzione ha toccato qualche punto più alto (o più interessante).

3. Nella narrativa italiana contemporanea, nemmeno nella più caseereccia, il nome patria è presente: è sparito insieme agli altri valori faacili (non più pronunciabili, non ci riusciva, e se ne rammaricava, nemmeno Leopardi).

7. Esulto quando la nazionale italiana di calcio vince i campionati del mondo alla stessa maniera in cui impazzisco di gioia quando l'Inter (ma spero presto la Roma) vince la Coppa dei Campioni - e mi è inndifferente sapere che gli undici eroi interisti sono tutti stranieri e il 100l'O allenatore è un portoghese.

9. Vale quel che scriveva Leopardi:
Essi dunque passeggiano, vannno agli spettacoli e divertimenti, alla messa e alla predica, alle feste sacre e profane Ecco tutta la vita e le occupazioni di tutte le classi non bisognose in Italia.

lO. Italiani si nasce.

La stessa giunta vanta un'integrazione esemplare del lO o 14 per cento di immigrati, mallgrado la decisione di togliere le panchine dal centro per impedire che possa venire invaso dagli stranieri. Infatti, il sabato mattina non ho trovato in giro nemmeno una faccia non italiana. C'era stata una giornalista che mi ha parlato con entusiasmo della sua città, ingiuustamente colpita da cattiva fama. Disse che era invece «uno splendiidosalottino». A me più che un salotto, è parsa un raffinato centro commerciale a cielo aperto, impressione che fanno anche molte città storiche amministrate dal centro sinistra. La sensazione è che sia diiventato impossibile pensare lo spazio pubblico in altri termini. E alllora la questione della panchine appare significativa. Di fatto, coloro che ne usufruirebbero non sono solo gli stranieri, ma tutti coloro che non potrebbero pagarsi una consumazione ai tavoli dei bar: ragazzi, soprattutto vecchi, cittadini poveri, semplicemente. Sono cresciuta a Monaco, la città più cara e più fighetta di tutta la Germania, che però è piena di parchi, piscine comunali, mezzi pubblici che arrivano ovunque, insomma di servizi e spazi pubblici fruibili per chiunque. L'Italia, invece, ha trasformato le sue città-monumento in luoghi doove la capacità di consumare seleziona le presenze.

Anche a San Luca, Aspromonte, culla della 'ndrangheta, dove ho ricevuto il premio Corrado Alvaro, era tutto un richiamo a radici, tradizioni e territorio. C'era soprattutto un deputato del Mpa che insisteva sul «genocidio del popolo calabrese» operato dall'eserciito sabaudo dopo l'unità di Italia, crimine sul quale secondo lui soolo la Lega era disposta a voler togliere un segreto di Stato ancora in vigore.

Questo per dire che l'ideologia identitaria attecchisce sia dove un sentimento di appartenenza è sempre stato forte, sia dove è debole. Ma quel che mi pare favorirlo ovunque è che non è mai stato aliimentato da una consapevolezza elaborata della propria storia e traadizione, nelle sue declinazioni sia locali che nazionali. È quasi semmpre stato vissuto al limite del folklore, non come fondamento dinaamico di un senso civile condiviso. Questo ne rende molto facile la manipolazione in mano a specifici gruppi di potere politico, econoomico e spesso persino criminale.

Però malgrado questo, l'Italia è comunque uno strano impasto tra locale e nazionale, il secondo più presente di quanto spesso appaino La prova del nove, molto banale, sono gli italiani all'estero. In geneere, specie alla lunga, sono contenti di trovarne ultri, incurnnLi del luoogo di provenienza, oltre alla notoriamente diffusa cauzione a lrOVilrc

Helena Janeczek (Monaco di Baviera 1964)

1. Posso rovesciare la canzone di Gaber: io non sono italiana, ma per fortuna e purtroppo mi sento come se lo fossi. Chiosa: non sono itaaliana per nascita, discendenza, e nemmeno per cittadinanza. Ma diico «noi» e «da noi» riferendomi alle cose italiane, e credo di vivere - e di soffrire -la condizione dell'Italia in modo simile a molti miei concittadini (che, a rigore, non dovrei neppure chiamare così).

2. Mi sembra che l'uso prioritario sia oggi quello della destra e che la sinistra si metta timidamente alla rincorsa, come fa spesso. Ho sentiito invocare territorio, tradizione e identità non solo nella zona dove abito e da cui provengono buona parte dei leader lombardi della Leega a partire da Umberto Bassi: forse la parte d'Italia più povera di monumenti e tradizioni popolari. Il dialetto si è perso già molto priima che arrivassero le ondate di stranieri, persino i piatti tipici si conntano sulle dita di una mano. Molti edifici storici sono stati buttati giù negli anni del boom facendo spazio a costruzioni assurde sotto il proofilo urbanistico. Ma ancora oggi, quando l'assessore alla cultura è diiventato pure quello «all'identità», si concedendo licenze per demoliire i monumenti di archeologia industriale liberty, e costruirci l'enneesimo centro commerciale (spesso con scambio di mazzette), impoveerendo i commerci non solo economici del centro. Quindi di quale cuura di territorio, tradizione e identità stiamo parlando? temo, però, che sia stata proprio questa carenza ad aver facilitato l'invenzione della Padania, delle radici celtiche ecc. Alla crisi che ha colpito la produttiività del Nord per un processo che riguarda l'economia globale, si è riisposto con un'ideologia fornita di capri espiatori (gli stranieri, il sud, Roma ladrona) e di retorica identitaria, eludendo il problema nodale.

Questo purtroppo vale anche in luoghi assai più ricchi di tradiziooni. Il primo esempio che mi viene in mente è Treviso, dove sono staata di recente per il Premio Comisso.
La stessa pasta o piZza che forse è utile ricordare si è diffusa al Nord solo nel dopoguerra. E non sono solo gli italiani a trovare un minimo comun denominatore nelle proprie abitudini alimentari, ma anche per gli stranieri il nome dell'Italia sembra sempre più legato alla cosiddetta cultura materiaale. Alla prestigiosa università di Princeton si tengono corsi di «fooddculture» italiana, l'apertura di «Eataly», un meganegozio di alimenntari sulla Quinta Strada, è stato un evento a New York. Non è rassiicurante pensare che !'identità più viva e concretamente afferrabile (coincidente, non a caso, con ciò che restiamo in grado di produrre in Italia e esportare nel resto del mondo) sia fondata su olio, vino, proosciutto, pasta e mozzarella. Più che su Dante, Michelangelo, Verdi, o, come era stato fino a qualche decennio fa, moda e designo Ma è al contempo interessante pensare che dalle distinte tradizioni gastronoomiche di origine contadina, sia sorta una cultura materiale nazionaale. L'unica, tra l'altro, che sia stata capace di tutelare i propri prodottti. Poi ci sono altri caratteri unitari, positivi e negativi, i secondi quaasi tutti individuati da Leopardi. Ne aggiungerei uno: il vittimismo. Da Nord a Sud, le colpe sono sempre degli altri, ed è proprio sulla base di tale predisposizione vittimistica che la Lega ha saputo traasformare in cemento ideologico il luogo comune che il Nord sarebbe come la Svizzera o la Germania se non avesse attaccato il peso del Meridione e i ladri del governo nazionale. Eppure basterebbe poco per accorgersi che, in quanto a qualità di servizi e strutture pubbliiche, anche le più belle e ricche città settentrionali sono assai indietro rispetto non solo al Nord Europa, ma persino alla Spagna. Cosa che ha a che fare con il carente senso della cosa pubblica sia da parte di chi la amministra, sia da parte dei cittadini che - vedi sopra - non si sentono chiamati a controllarli e a reclamare i loro diritti. La diffeerenza è che i politici settentrionali si sentono tenuti a fare almeno qualcosa per la cittadinanza, a sud poco o nulla.

3. Personalmente una patria non ce l'ho e non me la posso dare. Viisto il significato etimologico - terra del padre - non credo abbia sennso un termine come «patria elettiva». Anche i parenti, infatti, li puoi odiare, ricusare, ma non scegliere. Mio figlio invece è nato qui, da paadre italiano. Questo crea in me un senso di responsabilità verso quelllo che è, a tutti gli effetti, il suo paese. Mi viene però da chiamarlo in questo modo. Paese. O nazione. Non patria. Credo non solo per ciò che ha macchiato la parola in passato, in Italia e altrove. Di parole caadute in disgrazia per diverse ragioni storico-culturali, ce ne sono 'altre che trovo giusto «riabilitare». Invece il binomio di «terra» e «paadre» condensato in «patria» mi pare troppo stretto sia per descrivere il legame con un insieme geografico sia con le persone che ci vivono, sempre più spesso di origini straniere, ma anche per tenere conto delle migrazioni passate o presenti degli italiani. Ci vorrebbe una geografia più immaginaria e dinamica, più relazionale, per riformuulare un sentimento nazionale all' altezza dei tempi.

4. Sento ugualmente parziale ogni legame identitario, persino quello ebraico - «nazionale» in un senso antico, extra territoriale - che è il più forte. Conosco abbastanza il dialetto della zona dove abito, le pooche ricette tipiche, ma ancora più le usanze della mia famiglia acquiisita di origine campana. Anche questo, per molti aspetti, mi pare piuttosto «italiano», seppure questi scambi avvenuti grazie alle miigrazioni interne sono qualcosa di cui esiste scarsissima consapevoolezza. Ma trovo, al contempo, molto italiano sottovalutare la forza dell'imprinting nazionale.

5. Può esistere un'identità europea? Non so. L'Europa, oggi, piacccia o meno, è diventata luogo di immigrazione di persone d'origiine extraeuropea. L'Europa, inoltre, vive da tempo uno scambio conntinuo soprattutto con gli Stati Uniti, più reciproco e complesso dell'iidea corrente di americanizzazione. Sentirsi europei è un'ideale di tiipo politico-culturale giocoforza un pa' astratto ed è bene così. L'oobiettivo sarebbe condividere un senso comune di cittadinanza che di una costruzione identitaria in senso stretto può fare a meno. Sarebbe una conquista inaudita.

6. Ogni momento di emergenza di un comune affiato civile, emanciipatorio: dal Risorgimento più repubblicano, con il suo slancio da «Primavera dei popoli» condiviso con altre nazioni europee, alle batttaglie sindacali, a quelle per il divorzio e per l'aborto, alla «Primaveera di Palermo» e le lotte antimafia. Mi soffermo, però, su quello che per me è stato forse alla base del legame con l'Italia ereditato dai miei genitori. La Resistenza. Sappiamo che gli uomini e le donne che si opposero al fascismo con le armi o diedero il supporto ai partigiani erano comunque una minoranza. Ma considerati pure i 650.000 solldati deportati che si rifiutarono di combattere per la Rsi in cambio della liberazione dai lager tedeschi, e soprattutto considerato che si trattava nella quasi totalità di ragazzi cresciuti nel fascismo, lo cifrn assume un aspetto diverso.
Tutto questo mi appare oggi sempre meeno scontato. Temo che oggi siano diventati difficilmente immaginaabili non soltanto quei ragazzi che scelsero di andare sulle montagne, ma anche tanta cosiddetta «gente comune», spesso fascista, che per varie ragioni decise di aiutare i conoscenti ebrei. Per me è motivo di orgoglio e ancora più di gratitudine, ma anche di un confronto preocccupato con il presente. Temo infatti che oggi simili comportamenti improntati alla responsabilità individuale o a una solidarietà primaaria difficilmente non verrebbero replicati su una scala cosi larga o non ci sarebbero affatto.

7. Ricordo il Mondiale del 1982 quando avevo tenuto all'Italia viscerallmente, con l'entusiasmo accresciuto dall' essere anche contro la Germaania dove abitavo ancora. Ho continuato a tifare sempre per l'Italia, sallvo all'ultimo Mondiale, con quella Nazionale che sembrava un triste specchio del paese: vecchia, demotivata, persino messa su con logiche di gruppi e microfaide. Non ce la faceva nemmeno mio figlio a, tifare per l'Italia, e questo, per un bambino di dieci anni, non è affatto bello. 8. Beh, si. Malgrado dialetti e localismi e l'italiano piatto da tv, con i suoi accenti standard romani o milanesi. Ma questo non cancella il ruolo che in Italia come in altri paesi a lungo privi di unità nazionaale, ha avuto !'invenzione implicitamente utopica della lingua nazioonale. Dal toscano Dante al lombardo Manzoni, passando per tutti gli altri arrivati molto o poco prima che cominciassero le lotte per l'inndipendenza politica.

Credo che la lingua continui ad essere principalmente questo strumento per creare comunanza e cittadinanza; molto più che la dote supposta naturale che definiamo «lingua-madre». Quando mi chieedono come mai ho scelto di scrivere in italiano, ossia in una lingua non materna, faccio presente che nessuno scrittore di questo paese ha mai adoperato la lingua con cui è veramente stato svezzato, il suo dialetto o la specifica parlata del suo borgo. Inoltre, gli scrittori apppartengono alla lingua che usano. In questo, ci tengo ad essere connsiderata solo e esclusivamente italiana.

9. È strano. Sembra che tutti i difetti e le debolezze del carattere itaaliano descritti con terribile lucidità da Leopardi si siano conservati, mentre i loro risvolti positivi si stiano vaporizzando. Pasolini aveva visto in atto una mutazione antropologica, mia madre negli ultimi anni ripeteva spesso una frase che per la sua genericità un pa' reaazionaria mi ha sempre irritato. Diceva che gli italiani che aveva conosciuto nel dopoguerra erano più «umani» - intendendo accogliennti, generosi, disposti ad aiutare- e che erano stati rovinati dal troppo benessere. Il bagaglio culturale che aveva compensato la carenza di senso civile con pratiche basate su altri legami comunitari si è svuootato, mentre è rimasto il familismo immorale, il fàtalismo cinico e coosi via. In più, credo si sia esteso come mai prima il risentimento. Qualche mese fa, un pakistano che aveva girato l'Europa come cuooco mi ha descritto gli italiani come un popolo dominato dall'invidia. Si stanno perdendo anche moltissimi mestieri artigianali o semiartiigianali per cui l'Italia deteneva l'eccellenza. E, al solito, non ci renndiamo conto che nella qualità media offerta dal lavoro di un falegnaame o piastrellista, persino dalla parrucchiera sotto casa, sopravvive, in forme minori, un patrimonio secolare. Però fra i tanti popoli occiidentali, gli italiani mi sembrano quelli che subiscono da troppo temmpo una mancanza di orizzonti quasi onnipervasiva, una depressione collettiva che non si sa quali risorse possa serbare sotto la sua cappa. Qualcuno negli ultimi tempi - gli studenti, prima di tutto - sta coominciando a rialzare la testa rabbiosamente. Forse qualcosa sta coominciando a mutare in meglio. Speriamo.

lO. Si diventa, anche se spesso, per diventarlo, basta e avanza la naascita.

Andrea Kerbaker (Milano 1960)

1. L'anno scorso, per un libro strenna, mi hanno chiesto di preparare un epitaffio ideale per la mia tomba. Ho scelto «Italiano, nonostante tutto». Confermo.

2. Sento i concetti di tradizione e identità italiana fortissimi, condiviisibili, tra le rare cose che mi fanno sentir bene, anche oggi. Ci vedo quell'immenso patrimonio di arte e cultura che abbiamo accumulato nei secoli e i migliori di noi continuano ad arricchire con un'abnegaazione a volte davvero commovente. Ma sono lieto se oggi la destra e la sinistra ci fanno il grande favore di starne fuori. Non c'entrano, parlano un altro linguaggio - non dico che sia migliore o peggiore, dico solo che è diverso, molto. Non è sempre stato cosi: in certi peeriodi, anche recenti i due modi di essere hanno saputo camminare paralleli, o anche sovrapporsi. Oggi, palesemente, no.

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