venerdì 13 gennaio 2012

libro romanzo pascale ritorno alla città distratta

Ritorno alla città distratta
Antonio Pascale

A Caserta ci sono quei fumatori che hanno lo sguardo sbieco, e non perché il fumo gli ottunda i sensi, succede invece che camminano guardando di sbieco perché cercano quelli che vendono le sigarette di contrabbando. Quelli che vendono le sigarette di contrabbando sono i marocchini. E questi non sono (più) soli ti mettere il « bancariello» con le sigarette e sedercisi dietro. Se facessero cosi rischierebbero una denuncia. Anonima, però. A Caserta ci sono quelli che si lamentano, perché quei marocchini vendono la merce senza rilasciare la fattura e cosi facendo, sigaretta dietro sigaretta, un pacchetto dopo l' altro, mille lire dopo mille .lire, finisce che si fanno i soldi e non pagano le tasse e allora come dicono quelli che non sopportano i marocchini: stann' chili meglio 'e te e me e di tutt'e duje miss'assieme. A Caserta ci sono quelli che si indignano per queste cose e allora fanno la denuncia alla Finanza. Delle denunce bisogna prenderne atto e la Finanza lo fa con diligenza fino a che un bel giorno fa partire le sue volanti in cerca dei contrabbandieri, e quando li troovano gli autisti lasciano che i freni stridano fino a pochi centimetri dal bancariello con le sigarette, cosi che i marocchini si spaventino e indietreggino con le mani alzate e i passanti si voltino allarmati. I finanzieri scendono con il dito puntato: ferma là! Sequestrano la roba e portano i marocchini via per accertamenti, mentre ci sono quei passanti che dicono: meno male, altri che dicono: ma dài! e altri ancora che dicono: e mo' i finanzieri si fanno una bella scorta di sigarette.
Ma il fatto è che tutti noi, a Caserta, abbiamo un cugino o un parente che sta nelle forze dell'ordine, e se gli parliamo dei marocchini e del contrabbando ci sentiamo dire che spesso qualche colonnello dei carabinieri o qualche maresciallo della Finanza dice alle giovani reclute: guaglio', qua il problema non sono i marocchini, quelli là se non facessero il contrabbando farebbero di peggio, perciò voi chiudete un occhio, e non sprechiamo energie, perché qua i problemi veri sono altri.

A Caserta, ci sono quei casertani che spesso dicono: qua il problema è un altro. Quando entrò in vigore la legge che rendeva obbligatorio l'uso del casco, ci furono due giorni di controlli a tappeto. Ma, ciononostante, i motociclisti hanno continuato a non metterlo. Hanno preferito portarselo appresso, reggendolo, ad esempio, tra le gambe, oppure, è il caso del casco integrale, indossandolo solo per metà, in modo che in caso di posto di blocco sarebbe bastata una spinta sulla nuca per sistemarlo meglio. Tutto questo ingegno fa assumere ai motociclisti casertani strane forme asimmetriche, abbastanza ridicole. Queste forme di resistenza hanno avuto la meglio, dunque dopo un po' i controlli sono finiti e i casertani che possiedono la moto girano senza casco. Succede, allora, che di fronte a tutto questo c'è sempre qualcuno che dice: se si vogliono rompere la testa non sono affari nostri, anche perché qua, i problemi sono altri.

Però, i finanzieri non sempre possono chiudere un occhio e allora succede che i marocchini vengano incontro alle esigenze della Finanza, tolgano il bancarielo e al suo posto mettano dei segni di riiconoscimento che stanno a dire: qua c'è un banco vendita, c'è ma non si vede. E i segni di riconosciimento sono tanti e sempre diversi: un pacchetto di Marlboro inchiodato al muro, una scatola sfatta abbbandonata sul marciapiede, con su scritto a pennarello «Merit: o Camel», oppure una sedia vuota, di quelle da bar, o anche una poltrona lacera, che suggerisce: qui ci può essere seduto qualcuno, messa in corrispondenza di un bivio, là dove la strada mostra i suoi margini, assottiglia l'asfalto, fa apparire chiazze d'erba. Ma il segno è, anche, un marocchino che fuma sotto un lampione, in prossimità di un incrocio, o che se ne sta seduto sul ciglio di un marciapiede. Accade cioè che i segni del contrabbando invece di rafforzarsi si semplificano e anziché fornire ridondanza, accumuli di senso, insomma orpelli, si sottraggono a se stessi: diventano evocativi. Così dell'oggetto o del soggetto (del contrabbando) non resta altro che l'aureola. E le aureole non sono facili da cogliere, ci vuole un po' di esperienza e per questo i fumatori hanno lo sguardo sbieco, sono distratti, sedotti dalla ricerca del segno. E se ad esempio il fumatore trova il segno, metti che sta guidando la macchina e che ti precede, allora frenerà all'improvviso, a rischio di essere tamponato, e se è educato accosterà, se non ha creanza lascerà la macchina in mezzo alla strada, scenderà e si piazzerà vicino al segno. Farà solo questo, oltre a pagare. Il resto lo farà il marocchino. Spunterà e ti porterà le sigarette, oppure, se il contrabbandiere è uno scaltro del mestiere, non si mostrerà in prima persona, lascerà spuntare solo le dita, un fraseggio essenziale disciplinerà i suoi movimenti, dirà a qualcun altro di aprire un tombino, di spostare una pietra dal muro, oppure di salire su un muretto o di pescare dentro una siepe o ancora di fare qualche passo più in là per aprire il cofano di una macchina posteggiata, ma anche di aprire l'interruttore alla base di un lampione, insomma dirà di prendere le sigarette da uno di questi nascondigli e portarle al fumatore.
Quei casertani che temono gli extratomunitari cominciano a elaborare teorie estreme, dicono che si sono ormai impadroniti dei punti nevralgici della città e del suo sottosuolo e piano piano conquisteranno il centro e quel giorno non ci sarà più spazio. Bisogna resistere all'invasione, fare norme più severe, richiamare alle loro responsabilità le forze dell'ordine. E qualche volta mentre sostengono queste teorie si cominciano a innervosire, alzano la voce, sudano, cercano la complicità di chi gli è vicino, e tutto a un tratto sentono il bisogno di fumare ma si accorgono che sono rimasti a corto di sigarette e allora si mettono in movimento per cercare i marocchini. E camminano con lo sguardo sbieco alla ricerca dei segni.
Ma ci sono anche quei casertani che non temono gli extracomunitari. Si danno da fare per spiegare a quei casertani che non sanno cosa pensare sull'immigrazione che una società civile deve essere solidale con gli africani, preparare strutture di accoglienza, combattere per l'integrazione, non per l'esclusione. Per dire tutto questo si fanno dei dibattiti, e non solo nelle sedi pubbliche, ma dovunque capiti: nei locali, ai tavolini di un bar, in piazza. A presiedere i dibattiti sull'immigrazione sono generalmente gli ex sessantottini. Il fatto è che Caserta è piena di ex.

Gli ex casertani sono soliti cambiare le facce e non i vestiti. Un ex assessore alla cultura della giunta di centro destra vestiva ancora come quando era di estrema sinistra, si presentava, cioè, sciatta e trasandata, mantenendo inalterati gli stessi gesti e la stessa dialettica di un tempo. Generalmente la condizione di ex è accompagnata dal non pentimento per le cose fatte in passato. Così si fa sfoggio di coerenza e serietà, e si continua a governare pubblicizzando queste virtù. O meglio, ci si guarda bene dal dichiararsi pentiti, per evitare spiacevoli riflessioni che oltretutto sono solo delle inutili perdite di tempo.

Ci sono ex maoisti, ex democristiani, ex cattolici, ex comunisti, ex socialisti. Non ci sono, invece, ex fascisti. Ci sono solo fascisti. Ma non mancano ex preti, ex imprenditori, ex negozianti, ex impresari, ex atleti, ex sportivi. E quelli che non sono ancora ex sembrano sempre in procinto di diventarlo.
Non che a Caserta manchino giovani orgogliosi di non essere ex. Ci sono, ma se si preoccupano, mettiamo, del problema dell'immigrazione e decidono di fare qualcosa, accadrà che verranno, nella pratica, coordinati dagli ex. Ad esempio, nel 1987 i senegalesi cominciarono a stendere i tappeti con la roba sopra lungo il corso Trieste, e quei casertani che non sopportano i tappeti con la roba sopra, cominciarono a lamentarsi, dicendo: Caserta sarà rovinata dai negri. Successe che alcuni giovani pensarono di fondare un' associazione per occuparsi dell'integrazione dei senegalesi e dimostrare così che Caserta non sarebbe stata rovinata dai neri. Per fare un inciso, bisogna dire che Caserta ha sempre rischiato di essere rovinata da qualcosa: è stata rovinata dalle case popolari, infatti quando non c'erano le case popolari Caserta non aveva delinquenza; poi: Caserta è stata rovinata dalle cave, e ancora: la rovina di Caserta è cominciata con il crollo della Casertana o della Juve Caserta.
Questi ex dissero che erano venuti a portare la loro esperienza di ex, appunto. E spiegarono: per avviare un' associazione bisognava prima discutere sul da farsi. Cosi durante le domeniche mattina, ma anche negli altri giorni della settimana, spiegarono ai senegalesi le nozioni elementari del terzomondismo, del capitalismo e impartirono lezioni d'italiano. Poi, per il capodanno si decise di fare un pranzo tutti insieme, per conoscersi meglio. Si disse: ognuno porta qualcosa, cosi nessuno cucina per tutti. Accadde che quasi tutti portarono quello che avevano a casa. Allora i senegalesi si abbuffarono di insalata: semplice, condita con l'olio, mischiata con il mais, con il tonno, i pomodori freschi, con il radicchio, con la rucola. E di purè di patate. Dopo il pranzo per aspettare la mezzanotte si ballò tutti insieme, però dato che quegli ex non sapevano ballare e altri avevano voglia di fumare, fini che ballarono solo le donne e i senegalesi. Ma le donne bianche avevano vestiti corti e un po' provocanti e i senegalesi erano giovani e non sposati. Si rischiarono scene di libidine interrotte solo dalla mezzanotte, perché, dopo che si spararono i botti, ogni bianco decise di andare via: bisognava passare per altri veglioni. Una dell'associazione, lasciando la festa, disse: sono preoccupata, stasera ho scoperto che non mi piace 1'odore dei neri, però calma, non ci facciamo prendere dal panico, ragioniamo.
Il fatto è che a Caserta l'odore dei neri non si è davvero mai sentito, dal 1987 fino ai giorni nostri. I senegalesi non hanno mai, tranne per brevi inconsistenti periodi, invaso il centro. Per il resto del tempo si sono, spontaneamente, loro malgrado, relegati in periferia. Quello che i casertani non sono mai riusciti a scoprire, o perché occupati a fare altro o perché non interessati, è dove abitassero i senegalesi. Nel senso che ognuno di noi li ha potuti vedere - e li vede ancora .- solo nell' atto di vendere. Dunque, ce li troviamo davanti, quasi sempre negli stessi posti, generalmente nelle vicinanze di un luogo commerciale, come la Standa, oppure nei pressi del mercato; vediamo la loro merce, e qualche volta la merce ci rassicura, e allora contrattiamo con i senegalesi, forse compriamo pure qualcosa, poi andiamo via.
Tutti noi casertani contrattiamo, riuscendo a ottenere forti sconti. Parliamo, un po' bonariamente insultiamo, ce ne andiamo, ritorniamo, ricontrattiamo, rinsultiamo, e alla fine acquistiamo. Se poi impariamo i nomi dei senegalesi li storpiamo nella contrattazione, tecnica usata quando la resistenza allo sconto è alta. Siamo davvero indecisi se considerare questa strategia per ottenere lo sconto un gesto democratico, un modo per appianare le differenze di razza in nome della presunta qualità del prodotto, e cosi facendo evitare il patetismo e 1'elemosina; o al contrario un gioco di cui noi solamente abbiamo stabilito le regole.
Il fatto è che non sappiamo da dove vengono né tantomeno dove vanno una volta finita la giornata di lavoro. E fu per soddisfare questa sana curiosità che, quando nel 1987la città cominciò a essere frequentata dai senegalesi, quei casertani che non erano razzisti decisero di andare a scoprire la strada percorsa dai neri per tornare a casa. Ora, accade che i senegalesi lasciano la propria casa all' alba e tornano al tramonto. Si muovono, cioè, in condizioni di scarsa visibilità, o di buio completo. Si alzano presto perché devono raggiungere i mercati vicini, e se, ad esempio, vogliono recarsi al punto di raccolta di Villa Literno, dove i caporali del posto decidono chi lavorerà e chi no, dovranno farlo entro le 6.00 - il che vuol dire prendere il primo treno per Napoli via Aversa intorno alle 4.30.

Per molti anni, la stazione di Villa Literno è stata una delle più tristi d'Italia, perché costituita da una fatiscente struttura adibita a locale per il pubblico, che sembra non confinare con nulla tranne che con il vuoto spazio cosmico: ed è inoltre una stazione preceduta, e soprattutto seguita, da binari che si intersecano scambiandosi le linee attraverso una serie altissima di ramificazioni, cosi che, se li guardi, perdi continuamente il punto di vista e con esso, se qui arrivi di mattina presto e sei ancora avvolto dal sonno, anche la cognizione della tua identità. La sensazione di sperdimento totale e definitivo è ampliata da un sentimento di tristezza, dovuto al fatto che la maggior parte dei treni fermi sui binari sono vagoni merci, e questi ultimi o sono marciti da tempo, oppure sono blindati e piombati perché contenenti materiali radioattivi; o ancora, si tratta di vagoni pieni di bellissime merci, nuove e luminose, e siccome questa è una stazione di transito, ti rendi conto con un languore improvviso che quelle merci sono in esposizione provvisoria, non sono cioè destinate a quel luogo, e mai apparterranno a te.

E ritornano a casa tardi, per poter sfruttare fino all'ultimo momento la luce e cercare di vendere la mercanzia. In entrambi i casi, che si tratti di albe o di tramonti, i senegalesi, quando non vendono, appaiono (e sono) delle ombre. Si intravedono e si riconoscono solo supponendo che qualcosa si muova dentro quei vestiti. Se si aggiunge poi a questo il fatto che camminano rasente ai muri, come se la mezzeria non fosse ancora a loro concessa, si può affermare che il senegalese nel ritorno a casa, o nel percorso da casa verso il lavoro, rischia l'invisibilità. Se è estate, poi, la loro figura appare deformata dai raggi del sole, anche la loro ombra si allunga e si proietta senza selezione alcuna su ogni cosa, come a dire: da nero nasce nero. Tutto ciò spaventa quei casertani che temono gli extracomunitari; c'è bisogno, infatti, di stringere gli occhi per mettere a fuoco la figura, per pensare, quando si incontra una lunga ombra che intralcia il tuo cammino, se è il caso di cambiare lato della strada oppure no. Tutte operazioni fastidiose che creano solo preoccupazioni. Ma d'altra parte anche i senegalesi si trovano in difficoltà (certo diverse) quando partono da casa o quando rientrano. Abitano in periferia, in zone che nessun casertano frequenta più, o che non ha mai frequentato, dove una volta c'erano delle case e adesso ci sono solo abbozzi di muri e resti di tetti, insomma quel poco di costruzione abitativa che è rimasta è come se fosse stata sottratta all'idea stessa di decadenza. Perché i muri si sono indeboliti, hanno sviluppato crepe a croce che corrono dal soffitto al pavimento e spesso tremano se nei paraggi passa un autocarro; l'intonaco si è scrostato, ma non del tutto, il più delle volte si è aperto in più punti, evidenziando lamelle di calce sovrapposte l'una all'altra, come un bocciolo di rosa sbiancato e pallido. Il pavimento si è alzato, gonfiato dall' aria di tanto in tanto sfiata e si lacera. Gli igienici poi sono rigati dal calcare, e strisce di ruggine segnano i tubi. Si presentano cos1 male, e sono così maleodoranti, impregnati di sozzume da decenni, che i senegalesi hanno tentato inutilmente di pulirli, fidandosi dell' azione disinfettante e smaltante della varechina, ma si sono accorti che la puzza rimaneva invariata anche dopo molti lavaggi, e lo smalto non veniva più fuori perché sotto il calcare non esisteva più lo smalto. Eppure in queste case hanno dovuto abitare, sottraendo ai loro guadagni una cospicua parte di denari per pagare l'affitto (duecentomila lire a posto letto) e sopportando un tasso di densità abitativa di quattro persone per metro quadrato - densità difficilmente sopportabile anche per le galline ovaiole tenute in gabbia.

Però, molti specialisti in pollicoltura non concordano su quanto detto, ritengono infatti che la densità di quattro galline per gabbia sia quella giusta per ottenere il massimo della produzione. Se soffrissero, dicono sempre gli esperti, non sarebbero in grado di produrre un uovo al giorno. Se questo è vero, la similitudine tra galline ed extracomunitari appare terribilmente appropriata, quasi come fosse necessario ridurre lo spazio per concentrare al meglio la produzione manovale degli immigrati.

Ma si sono dovuti adattare, trasformando l'ingresso in locale deposito, accumulando le loro borse nere, di dimensioni enormi (un metro e cinquanta per quaranta centimetri) nell'ingresso, rendendo cosi ogni varco di soglia un'esperienza di alpinismo.

Le borse dei senegalesi, a parte il fatto che sono tristi perché sono sformate dai bozzi sia quando sono piene sia quando sono vuote, tanti bozzi che sembrano marchiare una condizione di sfruttamento a vita, sono, poi, cosi grosse da essere in molti casi vendute fuori commercio. Nei negozi del centro non è infatti possibile acquistare borse di simile grandezza, perché qui a Caserta sono tutte minute, adatte a viaggi di poche ore, oppure sono di marche costose, rigide e con copertura di pelle, pronte per essere utilizzate per i prossimi viaggi in aereo. Occorre, per trovarne di simile grandezza, rivolgersi a pochi negozi specializzati, ubicati-in periferia o nel napoletano, che trattano solo prodotti di dimensioni extra e sono frequentati da gente che trasporta molte cose perché la propria vita non si è ancora definita, e il disordine che regna nelle borse è un modo per comprendere varie opportunità che la vita potrà ancora offrire. Opportunità spesso ammantate di vaghe illusioni, perché più nessuna di queste cose ha la possibilità di dominare sulle altre: quindi il più delle volte si equivalgono, annullandosi.

Hanno dovuto avvicinare i letti il più possibile sottraendo spazio alle gambe una volta scesi dalla branda. Hanno rinunciato a leggere, o hanno delegato uno a leggere per tutti, perché l'elettricità costa e le lampadine da mezza candela dopo un po' stancano la vista. Hanno cucinato in grosse pentole, riscaldate da fornelli a gas, per risparmiare sul costo del contratto Italgas. Hanno fatto funzionare, durante l'inverno, stufe acquistate usate, ma siccome qualcuno li aveva avvisati della pericolosità, si sono arresi alla spiacevole necessità di dormire durante l'inverno con la finestra aperta, per difendersi dalle eventuali fughe di gas. Alcuni si sono ammalati di bronchite e in molti casi l'infiammazione, in mancanza di adeguati antibiotici, si è cronicizzata.
Se abitavano in campagna si sono meravigliati, e quasi mai si sono fatti una ragione del fatto che i campi d'intorno fossero puliti, sistemati e ben coltivati, mentre la terra che circondava la loro casa presentava una serie inspiegabile di avvallamenti e buche profonde, dannose per i già fragili ammortizzatori delle 131 Mirafiori, comprate spendendo dalle cinquecento mila ai due milioni.

Si sono visti parecchi affaristi casertani rottamare le loro auto con contributi ante litteram e parecchi affaristi imprenditori che hanno avviato un mercato delle auto usate, i cui ricavati non erano soggetti a tassazione, essendo le auto rubate e rivendute a senegalesi senza permesso di soggiorno. Generalmente i senegalesi guidano auto che un tempo sono state di moda presso la middle class. Oltre alle citate 131, abbiamo inoltre: Renault 9, Renault 5, Bmw 320, Mercedes 240 o 180, queste ultime passate di mano due volte: dagli zingari ai senegalesi.

Non hanno capito il perché della stragrande quantità di amaranti, cicorie, chenopodi, ortiche, rovi, tarassachi intorno alla casa, e alla fine sono stati coostretti a ignorare la loro invasione. È chiaro che i casertani che hanno visitato quelle case sono rimasti sulla soglia, oppure sono entrati con indifferenza, cercando di non far sentire il loro disagio. Però, poi, se sono entrati e hanno fatto un misero giro tra le stanze, mantenendosi rasenti al muro per non creare disturbo, hanno cominciato a tossire perché qualcosa di pungente entrava in gola, sporcava la saliva e rendeva acida ogni deglutizione. E una volta fuori quei casertani si sono convinti che bisognava cacciare i senegalesi da quelle case, sottrarli a quegli aguzzini (duecento mila lire per posto letto per venti occupanti fanno quattro milioni al mese per una catapecchia), Così non hanno esitato ad andare nelle agenzie immobiliari, forti dell'idea di proporre alle medesime la creazione di sportelli di solidarietà, attraverso i quali proprietari di buon cuore si potessero accordare con i senegalesi.

Il mercato immobiliare casertano tira parecchio. È per questo che continuamente si leggono annunci come questo; «Vuoi guadagnare fino a tre milioni al mese? Se sei automunito e milite sente, puoi presentarti il giorno ... alle ore ... per un colloquio». Vengono generalmente reclutati neodiplomati provenienti dalle frazioni di Caserta. I ragazzi hanno visi candidi, ancora macchiati dall' acne. Spesso assumono un atteggiamento adulto, muovendosi con gesti modellati sul parametro manageriale, ma che risultano fuori tempo, in quanto la divisa, completo grigio con camicia e cravatta, non è della loro taglia. Si capisce che hanno da poco lasciato i giornali porno e si sono fidanzati. Con una ragazza che però spesso devono lasciare (nonostante qualche volta l'assunzione sia stata considerata come una tacita promessa di matrimonio) in quanto gli orari di lavoro vanno dalle nove alle venti e oltre, e comprendono, ultimamente, pure la domenica mattina. Ora, siccome questi ragazzi passano dallo stazionamento improduttivo davanti al bar sotto casa o in piazza ad accompagnare incessantemente clienti su e giù per la città, spesso diventano nevrotici, soffrono di acidità di stomaco e di malinconia. Cosi durano poco. Anche perché nessuno di loro arriva a guadagnare nemmeno un quarto di quei tre milioni al mese, e considerato che non guadagnare vuol dire non vendere case, e dunque pesare sul bilancio dell' agenzia, molti di questi neoassunti non superano il periodo di prova, e spesso vengono licenziati in tronco.

Ma tutte le agenzie, tutte le reti in franchising, insomma tutte le grandi e le piccole agenzie, proprio tutti quelli incontrati, nelle persone di astuti proprietari, o dipendenti militesenti assunti con contratti a termine, proprio tutti hanno avviato un dialogo con i casertani dell' associazione, che pur sviluppandosi su varie linee tematiche, pur ammettendo prologhi e digressioni varie, aveva sempre come conclusione: no, è impossibile! Perché nonostante quelli dell' agenzia li invitassero a entrare e ad accomodarsi su poltrone belle comode, e lo facessero con un gesto della mano che predisponeva sempre al meglio e faceva ben sperare, nonostante cercassero di tenere il sorriso per tutto il tempo del discorso, alla fine dovevano allargare le braccia e disarticolare il sorriso e dire: no, impossibile.

Il sorriso forzato ma che appare spontaneo è una delle caratteristiche del terziario odierno. Ora, a Caserta può capitare che i neoassunti presso agenzie in franchising vengano edotti da esperti del Nord sulle modalità di comportamento in pubblico, sui modi di porgere la frase, di gesticolare e di sorridere. Eppure questi consigli sono seguiti solo a metà, e solo se risultano produttivi, cioè se portano alla vendita di un prodotto. E molto facile che i commercianti casertani e le commesse mantengano il sorriso fino al punto di rottura, per indurre a comprare e lo trasformino in un ghigno snobbato e schifato quando capiscono che il cliente, forse proprio a causa di quel sorriso tirato, non acquisterà nulla.

E siccome il dialogo continuava, perché gli aderenti all' associazione cercavano di spiegare tutte le ragioni che potevano spingere qualcuno ad affittare a prezzi equi l'appartamento, quelli dell'agenzia, alla fine, o un po' stanchi, o perché avevano qualche appuntamento da rispettare, guardavano negli occhi quelli dell'associazione e dicevano: ma voi, nelle vostre case, li mettereste i senegalesi? E quando quelli dell'associazione rispondevano: certo, che c'è di strano; quelli dell' agenzia dicevano: dite la verità, li mettereste? E a domanda si rispondeva, e a risposta si faceva la stessa domanda: dite la verità? Accadeva a volte che alla terza domanda, cioè alla terza richiesta di verità, qualcuno dell' associazione si alzava dalla sedia, lasciava i suoi amici intenti a discutere, faceva qualche passo e si dirigeva verso la soglia dell' agenzia. Da li guardava la città. La guardava facendo spaziare lo sguardo da destra a sinistra, vedeva senegalesi che vendevano, gente che camminava, donne con bambini. Sentiva il rumore del traffico, lo smog salire a onde verso l'alto, allora si sentiva triste e pensava che fra qualche anno si sarebbe potuto affacciare da quella stessa soglia e vedere lo stesso panorama. Poi smetteva di guardare, e si accorgeva che forse esisteva la possibilità che quel guardare largo, quello spaziare con gli occhi poteva essere un alibi per non rispondere. Si faceva tardi e bisognava tornare in tempo per la calata della pasta. Per strada avrebbe fatto di tutto per evitare i senegalesi conosciuti, cosi da non dovergli dire bugie sulla questione casa.
I senegalesi in quelle case ci sono dovuti tornare ogni giorno al tramonto, e ogni giorno da quelle sono usciti, all' alba. Ora, i senegalesi neofiti di Caserta all'inizio facevano finta di non badare alle condizioni delle stanze. Arrivavano in quelle case e trovavano sempre un letto libero, perché qualcuno da poco se ne era andato, magari perché aveva trovato un lavoro al Nord, o perché si era ammalato, e la bronchite lo rendeva suscettibile e nervoso a ogni respiro, e sentiva ancora pili forte la nostalgia di casa. Occupavano il posto lasciato libero e ringraziavano l'imam della comunità per averli accolti.
Correvano a Napoli e si inoltravano nei bassi, cercavano quelli che vendevano la merce e siccome erano neofiti e avevano ancora indosso i vestiti tradizionali, le tuniche colorate, preferivano acquistare mercanzia che riproduceva l'artigianato africano, perché pensavano: nonostante quelle giraffe e quelle statuette non simboleggino la magia della cattura di un animale, tuttavia possono essere di qualche interesse per i casertani, un modo per avvicinarsi alla cultura africana. E compravano giraffe ed elefanti di legno, intagliati un po' grossolanamente, bonghi che suonavano male perché la pelle del tamburo era striminzita e surrogata con la plastica, stendevano tutto su un panno e aspettavano.

Una delle prime cose che i senegalesi imparano appena arrivati in Italia è la disposizione della mercanzia sul panno. E essenziale lasciare i quattro angoli del panno liberi da ingombri di varia natura, affinché sia facilitata la presa dei lembi. In caso di necessità, infatti, i senegalesi chiudono immediatamente il panno come fosse un grosso fagotto e ripongono il tutto nella borsa. Al mercato, quando passa la Finanza e qualcuno avvisa camminando: , a finanz', statev' accuort'; è possibile vedere, come pedine di domino allineate, i senegalesi che via via chiudono il panno e depositano la merce presso qualche bancarella vicina, non abusiva e solidale con loro, per poi sparire dalla vista dei finanzieri.

Però i compratori si facevano attendere e più passava il tempo meno se ne vedevano, anche se qualche volta quei casertani che fanno gli alternativi toglievano un po' dei loro soldi alla marijuana per acquistare un bonghetto o un elefante, oppure una stoffa, insomma cose necessarie per arredare d'esotico la loro stanza in occasione della prossima festa. Allora i senegalesi per non rischiare il fallimento tornavano a Napoli, e vestiti questa volta con abiti occidentali compravano la mercanzia che piace ai casertani, le copie delle borse Vuitton o gli occhiali da sole che riproducono quelli alla moda.

Tra la mercanzia venduta dai senegalesi ci sono anche le copie dei cd pirata (diecimila lire) o della Playstation (diecimila lire). Ora, il mercato dei falsi cd è gestito dalla camorra. Dunque ci sono quei casertani che si sono posti un problema etico: è giusto acquistare un cd per aiutare un senegalese e nello stesso tempo alimentare un mercato illecito? La risposta più frequente è: qui il problema è un altro. Il problema cioè non è quello di arricchire la camorra, quello è un piccolo problema. Perché comprando un cd legale si arricchiscono le multinazionali che sono, a conti fatti, più dannose della camorra. A Caserta, cioè, c'è sempre una questione più grande che impedisce di risolvere una cosa più piccola.

Ci sono quei casertani che quando vedono le false borse Vuitton non mancano mai di commentare: sono proprio uguali alle originali, e detto questo maledicono Vuitton perché è uno speculatore, però poi, in occasione del Natale o di qualche festa, acquistano solo le borse Vuitton nei negozi del centro. Cosi i senegalesi ogni giorno al tramonto tornano a casa rasente al muro, oppure in sella a una bici Graziella, che qualche ex ragazzo, adesso padre di famiglia, ha venduto loro (cinquantamila-centocinquantamila lire), reggendo sulla spalla una borsa pesante di merci invendute, e sarà un po' per il peso, un po' perché il guadagno è misero, o anche perché non si ritrovano tanto a camminare con i jeans stretti, ma alla vista di quella catapecchia, nel sentire 1'odore dei bagni, si sentono molto tristi, e pensano che un giorno o l'altro lasceranno Caserta e andranno al Nord, per trovare lavoro in qualche fabbrica.

I senegalesi che vengono in Italia sono stanchi della vita provinciale. Per questo non si trovano a Caserta e sognano il Nord. Nella maggior parte dei casi quelli che vengono in Italia appartengono al ceto più colto o sono tra i più intraprendenti. Vogliono vedere il Nord e il progresso, e vogliono guadagnare, non solo per sé, ma anche per mandare soldi in patria, casi da costruirsi una casa vera e poter un giorno alloggiare la famiglia in stanze singole. Molti di loro dopo essere stati al Nord sono tornati, soprattutto perché stanchi, non solo di lavorare sottopagati in fabrichette, ma (stanchi) di essere considerati di volta in volta merce di scambio. Si sono posti, cioè, la seguente domanda: è giusto essere considerati, da sinistra, come «quelli di, cui il Paese ha bisogno, per continuare a produrre»? E, cioè; necessario aprire le porte ai lavoratori che fanno lavori che gli italiani non vogliono più fare (ci sarà pure un motivo, si sono detti i senegalesi) salvo, poi, ignorare i loro elementari diritti di cittadinanza? Insomma, meglio vendere all' aria aperta mercanzia varia. Perché, anche se si guadagna un po' di meno, si è in fin dei conti più liberi e pure più vicini alle care tradizioni mercantili. Allora ci sono quei casertani che si sono posti la seguente domanda: è giusto che i senegalesi vendano abusivamente la merce sui marciapiedi, visto, tra 1'altro, che la loro non è più un' occupazione temporanea, dunque soggetta a tolleranza, ma tendenzialmente fissa? E perché se si è poi tolleranti con i senegalesi non si deve esserlo con i contrabbandieri, con i venditori abusivi? La risposta è stata: però, il problema non è questo, ma un altro.

E un giorno se ne vanno per davvero e lasciano il posto libero a un neofita appena arrivato che andrà ad acquistare l'artigianato africano.
Comunque, l'associazione fini quando si decise di impegnare tutti gli aderenti in una tre-giorni di mobilitazione civile contro il razzismo, con mostre, canti, balli, solo che si scelse un ponte festivo, ottimo per i bianchi, sciagurato per i senegalesi che durante le feste vendono agli occidentali varia mercanzia. La tre-giorni multirazziale fu drammaticamente razziale, cosi l'associazione si sciolse e alcuni dei soci divenuti ex «Insieme» entrarono a far parte di «Nero e non Solo». Altri, divenuti ex, organizzano dibattiti sul tema: immigrazione, che fare? Oppure: solidarietà o ghettizzazione ?

In quell' occasione si cercarono casertani che avevano avuto un passato di emigrato, così che potessero raccontare quanto fossero simili le due esperienze. Purtroppo non si riuscì a trovare nessuno, né in città né in campagna: se ne dedusse che a Caserta !'immigrazione durante gli anni Sessanta avvenne dal Sud periferico al Sud centrale. Cioè dai paesi limitrofi verso Caserta. In verità si trovò solo un ex emigrato in Svizzera, ormai settantenne. Si era deciso di convocarlo lo stesso nonostante l'età, ma a sentirgli raccontare di come aveva fatto sue le regole svizzere, di come cioè ancora adesso, in Italia, non innaffiava le piante se non erano dotate di vaschette per il contenimento dell' acqua, e nemmeno per sbaglio gettava una carta per terra, insomma nel vederlo così costituzionalmente tedesco, e pure un po' intollerante verso qualsiasi episodio di disordine, si pensò che la sua dichiarazione potesse 110n sortire un buon effetto, né presso gli immigrati né presso i casertani.

È che a Caserta le cose finiscono. Siano cose di poco conto o importanti, feste o associazioni, teatri o cinema, locali alternativi o locali di lusso, terminano. Non che si spengano di morte naturale, fisiologica, al contrario: tutto si interrompe improvvisamente. Ci siamo abituati. Non fai in tempo a capire perché quella cosa è morta che già un' altra cosa è nata: non fai in tempo a riflettere che diventi un ex, e anche se non lo sai ancora devi portare la tua esperienza da qualche altra parte. E tutta questa inconsistenza fa dire ad alcuni casertani che la città è molle. Nel senso che le contraddizioni e i conflitti animano i paesi dell'hinterland e solo temporaneamente il centro. Perché un' anima nera scuote le periferie attorno alla città, ma Caserta sembra non accorgersene. Eppure, a ben vedere, questo non è esatto. Il fatto è che una simbiosi lega i due mondi, perché una sorta di travaso osmotico li mette in comunicazione, cosi che questa anima nera e rozza nel percorso verso il centro diventa puro effluvio, cambia la sua filigrana, come dire: si ripulisce, e si acquieta. Nello scambio contrario, invece, avviene un fenomeno di solidificazione, l'effluvio con i suoi torpori acquista carne e squame, produce chitina. Alla fine si ottiene un processo instabile, mutevole e contingente, e non sappiamo dire con certezza chi plasma cosa. Non siamo certi cioè di sapere dove è conservata la matrice, né possiamo identificare con certezza chi lancia il messaggio e chi lo raccoglie. Se la fonte centrale produce messaggi corretti che la ricezione periferica distorce. Oppure al contrario, se non sia proprio la fonte a emettere messaggi scorretti che la ricezione periferica mette in evidenza.

Ma ci sono quei casertani che credono nell'evoluzione e sanno che, prima o poi, quello che era palese e a tutti visibile finirà per scomparire e far posto a nuove forme di vita. Cosi quei casertani hanno smesso di comprare le sigarette di contrabbando e non perché improvvisamente sensibilizzati da qualche campagna antifumo promossa dal ministero della Salute o perché giunti alla conclusione che tutti quei marocchini all'angolo delle strade rovinano l'estetica della città, ma più semplicemente perché, da un giorno all'altro, il contrabbando è finito.
Ci sono quei casertani che una mattina sono usciti come ogni giorno con la macchina alla ricerca dei marocchini che vendevano sigarette di contrabbando e si sono trovati a girare per ore e ore senza individuarne alcuno. Inizialmente hanno pensato a qualche retata fatta scattare perché, forse, un personaggio importante, sia esso un cardinale o un ministro, era, per accidente, di passaggio per Caserta, e non era bello fargli assistere a quei traffici e quindi, quei casertani, hanno dapprima capito che bisognava aspettare il passaggio della nottata e nel frattempo andare dal tabacchi e acquistare sigarette legali.
Ma con il passare del tempo si sono resi conto che la nottata non accennava a passare, anzi perdurava, quello che stava invece finendo per sempre era il contrabbando di sigarette. Scomparsi i marocchini, scomparse le macchine in sosta in doppia fila in attesa che il fornitore recuperasse il pacchetto di contrabbando, scomparsi i segni di riferimento, i nascondigli segreti.
Via via i cartoni usati con bancariello si sarebbero ammuffiti e le sedie di plastica soggette alla legge entropica avrebbero visto aumentare attorno a sé il tasso di disordine.
La nottata non sarebbe più passata e via via i casertani, rassegnati, se ne sarebbero fatti una ragione.
E ci sono invece quei casertani che non ci potevano pensare, un po' perché qualcuno - non si sapeva ancora chi - gli aveva tolto le sigarette, un po' perché si erano presi una fissazione: dove erano finiti i contrabbandieri?
Il fatto è che a Caserta, ai tempi del contrabbando, c'erano diverse scuole di pensiero in merito alla qualità del tabacco venduto di contrabbando. Alcuni casertani esperti - perché ormai quarantennali fumatori - giuravano sul principio di equivalenza sostanziale: le sigarette legali e quelle di contrabbando sono la stessa cosa.
Altri, invece, dichiaravano che la qualità di quelle contrabbandate fosse nettamente inferiore e si impegnavano in lunghe arringhe durante le quali difendevano le coltivazioni di tabacco legalmente coltivate. Quei casertani si scaldavano molto durante le arringhe in quanto sostenevano che i terreni agricoli della Campania fossero particolarmente vocati per la coltivazione del tabacco, soprattutto per la specie Burley. Ora, questa specie è particolarmente adattabile, nel senso che trova le migliori condizioni pedoclimatiche negli areali di pianura con terreni di medio impasto, freschi e fertili con reazione neutra, ma vegeta anche in areali poco idonei con risultati produttivi e qualitativi modesti. C'era, quindi, la serie possibilità che le sigarette di contrabbando vendute dai marocchini derivassero proprio da queste produzioni.
Quei casertani che appartenevano alle due scuole di pensiero - equivalenza sostanziale vs sostanziale differenza - prima, durante e dopo la fine del contrabbando si sono scontrati più volte.
Se discutevano lungo il corso Trieste, magari la domenica mattina, c'era la seria possibilità che querelle oltrepassasse i meri confini agronomici di «tecnica e coltivazioni del tabacco» e invadesse altri campi; cosi si discuteva sulla difficoltà dell' economia campana o sulla necessità di valorizzare prodotti di qualità e aree vocate. E cosi, tra una sigaretta e un' altra, un caffè e un aperitivo finiva che si restava a secco di sigarette e allora, vista l'impellente necessità, sia gli appartenenti alla prima scuola sia quelli della seconda - dove si trovavano trovavano - compravano tabacco, legale o illegale, continuando a discutere sull'assoluta necessità di stabilire, una volta per tutte, una linea di demarcazione tra produzioni di qualità e tutte le altre.

Il tabacco Burley coltivato nelle specifiche aree vocate è indicato nei manuali di coltivazioni erbacee come «Itaalia» per differenziarlo dal tipo americano che viene cimato e raccolto a pianta intera. I suddetti manuali dedicano interi capitoli alla difficoltà per la clita del prodotto. I locali di cura, nei quali viene stipato il prodotto, sono serre dotate solo di aperture laterali che consentono una ventilazione naturale che regola entro certi limiti la temperatura interna e l'umidità. Per i noti problemi urbanistici e la cronica mancanza di terra - ragione per cui in alcune zone del casertano alle case sono affiancate le caratteristiche strutture sericole - questi i locali sono affiancati l'uno con l'altro o l'uno assieme a una struttura sorta per uno scopo differente, in modo troppo stretto, con la conseguenza di ristagni di umidità per mancanza di ventilazione naturale. Tuttavia il particolare ambiente climatico di buona parte delle zone tabacchicole campane, caratterizzato normalmente da alta umidità relativa dell' aria nei mesi di luglio agosto, rende possibile la cura del Burley anche con le suddette strutture rustiche. Come dire, la specifica vocazione e il buon clima, insomma la fortuna, portano a non interrogarsi a fondo sulle trasformazioni del territorio né a intervenire per sanare la situazione.

Con il tempo si è scoperto poi, che la prima scuola di pensiero, quella che difendeva la sostanziale equivalenza, aveva in fin dei conti ragione sulla seconda.
Dapprima, con l'inizio della guerra dei Balcani, quei casertani che assistettero da un giorno all' altro alla scomparsa dei marocchini e anche dei contrabbandieri, cominciarono a chiedersi quanto c'entrassero le rotte balcaniche in quei traffici. Giunsero alla empirica conclusione che c'entravano si e parecchio. Il fatto è che ci sono quei casertani, che per mestiere fanno i magistrati, e si sono presi la briga, un bel giorno, di entrare nelle discussioni che avvenivano nel seno delle due scuole per dire la loro: ovvero quello che le indagini della Dia stavano portando alla luce.
Quei magistrati orgogliosi di poter, una volta per tutte, risolvere il caso che si trascinava da anni e che qualche volta li aveva visti, durante le feste, magari un po' alticci, coinvolti in prima persona nel ruolo di «assaggiatori di sigarette» con lo scopo di giudicare l'equivalenza sostanziale o meno, questi magistrati si sarebbero buttati ora a pesce nelle querelle sostenendo le seguenti tesi e indicandole con le dita della mano, punto uno: per tutta la durata degli anni '90 le sigarette erano arrivate dal Montenegro. E fin qui. Punto due: fatto davvero particolare, le autorità montenegrine avevano accettato il traffico perché portava un sacco di denari alle loro casse, allora non pingui. Punto tre: le autorità internazionali erano a conoscenza del traffico ma non muovevano un dito perché se il Montenegro riempiva le casse poi come prima mossa si sarebbe armato per difendere la propria indipendenza e ciò voleva dire che, sullo scacchiere internazionale, il Montenegro avrebbe svolto una funzione antiserba, in quel momento funzionale e, da quasi tutti gli Stati internazionali, desiderata. Punto quattro: a produrre le sigarette di contrabbando sarebbero state le stesse multinazionali.

La Commissione antimafia, produsse una dettagliata relazione nella quale si ricostruiva la storia del contrabbando facendo però molta attenzione nel definire quest'ultima attraverso le dinamiche internazionali che ne avevano propiziato l'esito. In sintesi si apprese che le due maggiori multinazionali del tabacco, la Philip Morris e la Reynolds, curavano da Basilea l'esportazione dei tabacchi lavorati attraverso tre concessionarie con sede a Basilia. Questo circuito era gestito direttamente dalle multinazionali e costituiva il canale di rifornimento dei contrabbandieri.

Per contribuire all'abbattimento dei Monopoli che avevano fatto alzare i prezzi, le multinazionali del tabacco hanno pensato di agire su due livelli, uno ufficiale e legale, l'altro ufficioso. Con questo ultimo canale riuscivano ad abbassare il prezzo e a invadere il mercato, perché alla fin fine, sostenevano quei magistrati casertani, sempre di pubblicità subliminale si trattava.
Punto sesto: le multinazionali del tabacco perdevano esse stesse la differenza tra legale e illegale, perché incontravano i mediatori in luoghi dove il concetto di legale non esisteva: in gergo, trattavasi, infatti, di luoghi extraterritoriali e di pratiche trasnazionali.
Si era poi, con il tempo, persa ogni differenza tra legale e illegale, perché tutto il contrabbando si svolgeva secondo una particolare modalità moderna, praticamente a prova di sentenza e di giudizio: ogni attore che partecipava a questo gioco passava il testimone al suo compagno, senza chiedersi né in che mani sarebbe passato né, soprattutto, dove sarebbe arrivato il bastoncino. E raccontavano quei magistrati casertani, ogni attore nel passare il testimone aveva una buona scusa, a effetto retorico assicurato e cumulativo, cosi che nessuno dei protagonisti che partecipavano alla lunga filiera si sentiva in qualche modo responsabilizzato, o in fondo all'anima colpevole: a tutti era consegnata una scusa, tutti avevano la necessaria parte di oblio.
Cosi, dai depositi delle multinazionali con sede in Svizzera, partivano sui tir, o caricate sulle navi, casse e casse di sigarette. Partivano, e anonimi guidatori di tir o capitani di carghi facevano rotta verso est, fino ad arrivare nel Montenegro; qui scaricavano la merce e, in questi depositi, le casse di sigarette smettevano di essere tracciabili e di appartenere alla multinazionale.

In questo preciso momento, grandi. mediatori prelevavano, grazie alle loro società con sedi in zone extraterritoriali, una certa quantità di sigarette e subito dopo le affidavano a trafficanti più piccoli che si preoccupavano di scaricare la merce un po' più in là e di affidarla, a loro volta, a trafficanti locali che distribuivano le sigarette ai marocchini. Questi mettevano i bancarieli lungo le strade di Caserta e aspettavano tutti quei fumatori con lo sguardo sbieco (e non perché il fumo ottundesse i sensi) alla ricerca della stecca di sigarette che preferivano comprare di contrabbando, perché i soldi erano pochi e perché in fondo cosi conveniva a tutti; e soprattutto perché appartenevano alla scuola dell' equivalenza sostanziale e l'acquisto a tutti gli effetti andava rubricato sotto la voce: ottimo affare.
E, aggiungevano quei magistrati casertani, l'ottimo affare conveniva a. tutti: ognuno aveva una buona ragione o, vista da un altro punto di vista, un'ottima scusa, pronta all'uso, per giustificarsi. E allora gli Stati internazionali dichiaravano in camera caritatis che era di fondamentale importanza per tutta la diplomazia internazionale che il Montenegro accumulasse denari, non fa niente se questo avveniva tramite accordi sporchi, perché contava solo la possibilità che i denari rafforzassero l'indipendenza del Montenegro. Conveniva poi ai grandi mediatori che in genere erano latitanti, e nei Balcani si sentivano al sicuro e protetti, in quanto il loro ruolo era cambiato: non più ex appartenenti alla criminalità organizzata, in fuga, braccati, ma ora, a loro modo - e secondo la logica diplomatica - nuovi e particolari operatori di pace. Conveniva ai trafficanti medi, considerati da tutti alla stregua di benefattori infatti, grazie ai loro traffici lungo l'Adriatico con i carichi di bionde, contribuivano all'aumento dell'indotto: quanti cantieri per la produzione di scafi sono sorti in Toscana, in Abruzzo, in Salento e quanti capitali sono stati investiti in queste attività. Conveniva ai
disoccupati che trovavano lavoro al soldo della camorra che controllava la vendita al dettaglio e mano mano occupava sempre di più il territorio di competenza; conveniva ai ragazzini che davano una mano a scaricare, ai marocchini, ai fumatori con lo sguardo sbieC0 che compravano, ai finanzieri che ogni tanto uscivano per portare a termine una retata e visto che c'erano, a detta di tutti, si facevamo la scorta di sigarette, agli sceneggiatori che scrivevano i film con Mario Merola nella parte del contrabbandiere buono, ai musicisti che cantavano la vita dolce amara di chi per miseria è costretto a fare questo mestiere.

Fu pressappoco alla fine degli anni novanta che il mito di Mario Merola cominciò a scemare. Contrabbando di sigarette e film di Merola sono due dimensioni difficilmente separabili. Le persone che amavano, di cuore, Merola, e si commovevano quando interpretava ruoli del contrabbandiere buono, erano le stesse che avevano a che fare con il grande businnes delle bionde. Non erano pochi disperati e disoccupati. Allora erano in tanti. Una vera e propria economia che, a sua volta, per tempi, modi e gesti, fondava un'antropologia culturale e sociale. Ora, siccome con gradi più o meno di vicinanza eravamo complici di tutto questo, abbiamo rimosso il problema. A rappresentarlo in maniera edulcorata e blanda se ne sono occupati Merola e i suoi sceneggiatori. È stato lui il simbolo culturale e sociale di questa economia, la maschera, l'attore di quel periodo. Nei suoi film subiva un torto e doveva rimediare. Per sapere qual' era la giusta vendetta si appellava ai canoni antichi della sceneggiata che, a sua volta, però, era un tipo di rappresentazione già in agonia. Insomma, si è preferito ridere dell'agonia - un modo per dire: non preoccupatevi quello che vedete ogni giorno non fa male né inquieta più di tanto - piuttosto che provare a trattare narrativamente, con strumenti moderi, un problema complesso.

Quando quei giudici casertani dicevano queste cose, una delle prime reazioni dei sostenitori dellla scuola dell' equivalenza sostanziale era: ve l' avevo detto io.
Ve 1'avevo detto io, era una di quella affermazione che si pronunciava dapprima con orgoglio, poi poco alla volta si coglieva, giusto in fondo, un tono d'amarezza. Perché adesso quei casertani, passeggiando lungo il corso Trieste, orfani sia delle sigaretta sia delle discussioni sull' equivalenza sostanziale, davanti a una città, solo in apparenza più ordinata, perché senza misteriosi segni da interpretare, cominciarono a chiedersi: ma dove sono finiti gli enormi capitali ottenuti con il contrabbando?
E per qualche tempo la risposta non è stata a portata di mano, la città sembrava quella di sempre ma senza contrabbandieri, finché, poco alla volta, quei casertani che prima discettavano di equivalenza sostanziale si sono trovati di fronte a un nuovo prodotto dell' evoluzione: la cocaina. Qui non c'erano equivalenze da sottolineare, almeno per il momento.

E ci sono quei casertani che non hanno fatto in tempo a capire un problema, non hanno fatto in tempo nemmeno a vantarsi che loro, sull' equivalenza sostanziale, avevano visto giusto. La città era mutata, l'evoluzione nella quale credevano si muoveva rapidamente tanto da produrre specie di cui prima non si sospettava nemmeno l'esistenza.
E così, incerti su come muoversi, alcuni di loro si sono sentiti vecchi, e avrebbero cominciato a dichiarare a chiunque gli parlasse di sentirsi vecchi: il sistema criminale, quello SI che è giovane, dinamico, flessibile, tutto il contrario di noi che abbiamo strumenti vecchi e logori, come le sceneggiate di Mario Merola.
E allora?

Con la fine del contrabbando molti addetti al traffico delle bionde sono stati costretti a scegliere se ricollocarsi nel nuovo sistema produttivo, ossia il mercato della cocaina, oppure, per cosi dire, dimettersi dalla società e mettersi in proprio. La maggior parte dei lavoratori del settore ha optato, senza pensarci due volte, per il sistema cocaina, e in questo giro, quei lavoratori si sono prontamente inseriti, visto che tra 1'altro, conoscevano bene il territorio, e soprattutto, non cambiavano di tanto né le modalità lavorative né le loro effettive mansioni. Altri, pochi in verità, quelli più anziani con famiglia alla spalle, per paura di fare una brutta fine e di lasciare moglie e svariati figli, hanno pensato di farla finita con il sistema. Con il denaro accumulato si sono sforzati di aprire un' attività in proprio. Non sempre queste attività hanno fruttato, spesso quei contrabbandieri abituati a solcare il mare con gli scafi, o comunque a essere oggetto di rispetto nel quartiere, non hanno potuto fare niente altro che prendere un Ape 500 e provare a vendere mercanzia varia, abbigliamento dozzinale, nei mercati vicini. Lavoro in fondo umiliante, e ancor piu duro per quei contrabbandieri era tornare nel loro quartiere e incrociare lo sguardo dell' ex collega, ora nel giro della cocaina, che gli rimproverava continuamente la scelta: vendere mutande e lacci per le scarpe, calzini o grembiuli. Spesso, quegli ex contrabbandieri che avevano fatto questa scelta, erano stati poi contestati anche dai propri figli: questi ultimi, a loro volta, subivano gli attacchi dei figli di quei contrabbandieri passati nel sistema camorra. Tipo: tuo padre non ha le palle. Cosi gli ex contrabbandieri, ora venditori di merce varia, si erano trovati di fronte a un dilemma: per il bene dei figli è meglio smettere di praticare 1'attività illecita e farla finita con i pericoli a essa connessi o, al contrario, si deve aumentare il rischio e puntare a giocare ancora più sporco?

E allora ci sono quei casertani che dopo la fine del contrabbando, guardando la città, improvvisamente pulita, hanno creduto per un momento che la legalità sarebbe prima o poi tornata e di certo avrebbe contribuito a formare una società civile.
Ma, tempo un anno, e avevano già cambiato idea, su certe questioni; si sono detti, scoraggiati e depressi, non c'è più niente da fare. Ne ora né mai.
Cosi hanno cominciato a fare spallucce quando la polizia annunciava l'arresto di camorristi o quando i giornali riportavano, con molta enfasi, il sequestro di una notevole partita di cocaina. Quei casertani guardavano di nuovo la città e si accorgevano che il problema era più grande di loro: noi in mezzo che possiamo fare? Nel giro di poco quei casertani avevano rimpianto il contrabbando e i fumatori con lo sguardo sbieco. Ora, a Caserta e nell'hinterland, ci sono altri casertani che, a cominciare dal pomeriggio inoltrato, cercano il pusher che gli venda la dose quotidiana di cocaina.
Nelle aree del napoletano è facile sentire la descrizione di una nuovo modus vivendi: ci sono ragazzi che dormono fino alle due del pomeriggio, poi fino alle sei stanno davanti al bar a perdere tempo, dopo di che vanno a rubare per pagarsi la dose. A dose fatta, fino al mattino, girano per Napoli su e giù per sfogare in tutti i modi possibili l'eccitazione supplementare. Ma questi ragazzi, con la loro ricerca di picchi emotivi, non sono diversi dai tanti professionisti borghesi che si aggirano in città dopo il lavoro per comprare cocaina. Tutti prestanti, tutti eccitati, tutti uguali. Il paradosso è che quegli imprenditori cocainomani che si vantano delle loro prestazioni sono poi gli stessi che sono tartassati due volte dalla camorra. Praticamente, con il consumo di cocaina finanziano la criminalità che torna da loro, oltre che per smerciargli droga, anche per chiedergli il pizzo.
I prezzi sono cosi bassi, sentono dire quei casertani, che la gente viene a comprare la cocaina anche se abita a Roma o Firenze. Conviene.
Quando arriva il venerdi quei consumatori prendono la macchina, percorrono l'autostrada, arrivano fino alle porte di Caserta e fanno il carico di cocaina utile per tutta la settimana lavorativa. E se ne tornano nelle loro città, e se, per un accidente, le forze dell'ordine dovessero fermarli, loro confesserebbero: la cocaina è per uso personale non per lo spaccio. Le dosi che mi avete trovato addosso sono, è vero, superiori alla dose massima consentita per uso personale, ma solo perché, dovendo scendere da Firenze fino a Caserta, è necessario che mi procuri una buona scorta, altrimenti, considerati la benzina, il pedaggio autostradale, il vitto, non rientro con le spese e il viaggio si fa poco conveniente.
E ci sono 'quei magistrati che, quando esaminano questi casi, giungono alla stessa conclusione di quei cocainomani, effettivamente il prezzo della cocaina si aggira intorno ai 10 euro e cosi, fatti davvero i conti, si capisce che quel cocainomane fiorentino ha detto la verità: lui non spaccia, consuma solo. E se decide di venire da Firenze fino alle porte di Caserta deve per forza massimizzare il profitto. Cosi, seguendo questo elementare ragionamento da mero contabile, quei magistrati decidono di lasciare andare i fermati e si affannano a scrivere relazioni per giustificare il rilascio. Tra una motivazione e un'altra sottolineano come il commercio di cocaina stia formando una vera e propria economia parallela, molto più cinica di quella legale, perché ormai la gran parte dei consumatori non bada nemmeno più alla, per cosi dire, qualità della merce. Non imporrta con che cosa sia tagliata, quante anfetamine e altre sostanze contenga una dose. Non importa piti la quantità di prodotto puro, perché ormai il consumatore considera la cocaina alla pari di una griffe. Una sorta di simbolo, un attestato di appartenenza al club dei ricchi, di quelli che sanno campare. Quindi concludono quei magistrati: che ne parliamo a fare, in sostanza che volete da noi se rilasciamo un cocainome fiorentino, qui il problema è un altro.
Ci sono quei casertani ormai scoraggiati che sanno di combattere giorno dopo giorno una battaglia difficile da vincere: qua, dicono, il problema è grosso, che ne parliamo a fare. La camorra ha capito da anni che questo è il più grosso affare mai capitato, per questo non ha perso tempo, con i soldi ottenuti dal contrabbando è entrata nel mercato della droga, ha ristrutturato e abbassato i prezzi. Ora che il mercato si è formato e tira parecchio, ditemi voi, come si fa a spegnerlo, di certo non con i sequestri delle partite di cocaina. Una ne fermano, dieci ne entrano.

Come si dice in gergo, per saperne di più del fenomeno camorra e affini, è davvero molto utile leggere le relazioni semestrali della Dia, consultabili in rete. Il vantaggio, rispetto alla conoscenza del fenomeno che noi scrittori possiamo provare a mettere sulla pagina, è il seguente: le suddette relazioni sono documenti tecnici e analitici, privi di retorica, di romanticismo e d'effetti speciali, insomma, non troverete una parola di troppo. Sono poi dettagliate e particolareggiate, fanno riferimento cioè non alla camorra nel suo aspetto globale, ma alle singole zone dove la camorra opera. Mi rendo conto che questi dati, senza un cosiddetto intervento creativo, possano risultare noiosi al pubblico, eppure, sarei tentato di avanzare una proposta modesta: sarebbe il caso di premiare la solerzia dei funzionari Dia. I giornalisti, invece di impalmarsi tra loro nei vari premi, potrebbero premiare una volta ogni tanto anche gli estensori delle relazioni semestrali.

Il fatto è che tutta l'area settentrionale della città di Napoli (che comprende Secondigliano, Scampia, Miano, Piscinola, Chiaiano e San Pietro a Patierno), è zona di smercio di cocaina.
E sostengono quei casertani, convinti però di parlare a vuoto, senza effetto su nessuno, che la principale fonte di sostentamento della camorra di questa specifica area sia solo lo spaccio di droga, cocaina, eroina e droghe leggere. Non solo le indagini, ma tutto il sapere popolare che normalmente si produce sulla questione droga, tutto questo insieme di informazioni, mostra chiaramente che i gruppi camorristi gestiscono lo spaccio nel napoletano e fuori dalla Campania.
Ora, il fatto è che se la cocaina gira dappertutto, in maniera, come dicono i tecnici, efficace ed efficiente, vuol dire che la camorra ha bisogno di fortini, di zone franche, di luoghi inaccessibili e maledetti dove tutto è possibile. E che ci vuole, dicono quei casertani, depressi e incupiti, a capire che chi consuma droga, finanzia quei fortini?
Una pubblicità «sociale», girata in Colombia, mostra una modella che tira una striscia di coca; mentre la polvere sale su per le sue narici, un uomo in qualche parte del mondo muore - ucciso in uno dei soliti regolamenti di conti - proprio a causa di quella striscia. Questa lodevole pubblicità esprime una giusta chiamata in correità: non possiamo proclamare a pieni polmoni la nostra lotta alla criminalità organizzata se poi facciamo uso dei loro prodotti. Eppure, questa tematica, ovvero quella della nostra responsabilità, essendo i consumatori finali, nella filiera della droga, ancora non sembra chiara. Tutti i dati a nostra disposizione sono concordi nello stabilire che il ricavo ottenuto dallo smercio della droga raggiunge cifre astronomiche e naturalmente viene investito in svariate attività, non solo criminali. Per non parlare poi degli effetti del consumo della droga alla baase della filiera. Il commercio della droga presuppone l'esistenza di zone franche, di roccaforti, fortini, svincolati da ogni controllo se non quello criminale. Si vengono cosi a creare imbarazzanti somiglianze strutturali e urbanistiche tra le zone sotto il controllo della criminalità. Il complesso di Alemao, una delle più grandi favelas di Rio (150 mila abitanti) è parecchio somigliante a Scampia. Fatta eccezione per l'edilizia: quella del complesso di Alemao è abusiva e personalizzata, intendo dire che il sistema di regole che disciplina il traffico di droghe - codice d'onore, luoghi blindati, passaggi obbligati, assalti tra vari clan, scissioni varie per il controllo del territorio, abusivismo diffuso - è del tutto somigliante a quello camorristico. Nel caso del complesso di Alemao, la gestione del potere è più spietata, primordiale e crudele. Il traffico recluta parecchie persone tra le proprie fila già in età puberale. Così, adolescenti di 16-18 anni stazionano ore e ore ai check point, chiamati in gergo «bocche di fumo», imbracciando anzi ostentando i propri fucili (alcuni abbelliti da verniciature argentate o dorate). La loro vita presenta poche prospettive, generalmente due: o cercare di fare il possibile per accumulare capitale e poi uscire dal traffico, o andare incontro a morte certa, perché in quel sistema ogni sbaglio viene punito e nella vita di un trafficante gli sbagli sono all'ordine del giorno. Senza voler considerare, naturalmente, la povertà diffusa delle favelas; povertà che il traffico cerca di mantenere, perché controllare la povertà significa gestire un grande potere: è estremamente facile reclutare nuove leve nelle favelas, come in parte è facile cercare nuovi adepti all'impresa camorra nelle periferie napoletane. Zone siffatte, interamente gestite, almeno nelle strutture principali, dai trafficanti, sono naturalmente difficili da bonificare. Per la stessa polizia, entrare nel complesso di Alemao è difficile, quasi impossibile, ci sono troppe barricate, troppi cecchini appostati sulle colline e pronti a sparare. Bisogna o accordarsi con i trafficanti o promuovere una vera e propria operazione di guerriglia, gestita da corpi speciali, spesso abbastanza esaltati (altrimenti hanno paura a entrare) e pronti a sparare a vista. E nella maggioranza dei casi, a rimetterei. sono i civili che si trovano sotto il fuco incrociato. Insomma, il rimedio è quasi uguale alla malattia. Il clima di violenza che si respira alla base della filiera non arriva al consumatore finale, ergo, finché ci sarà richiesta di droga ci Saranno morti, povertà e favelas tutto attorno a noi, anche se, per l'eccitazione personale, tendiamo a non farei tanto caso.
Allora, dicono quei casertani, perché stupirci del male che la camorra produce se, in fondo, quello stesso male andiamo cercando? E a volte, presi dalla malinconia, gli viene da dire: come potete giudicare ... è inutile che ve la prendete con Caserta, perché la droga arriva in Campania grazie ad accordi con gruppi malavitosi trasnazionali, ossia le modalità del viaggio della droga, dalla fonte fino al consumo, presuppone un contatto diretto e costante con gruppi criminali stranieri, una miera lunga, difficile sia da spezzare che da incastrare (e incriminare). E c'è di più: si dice, spesso, che i gruppi camorristi veri e propri stanno sempre di più affidando alcuni segmenti della filiera droga a gruppi criminali di minore entità, vere e proprie bande. Si evidenzia così una struttura in franchising. Venendo a mancare una solida struttura di base, ovvero gli ordini non seguono una rigida linea discendente, la camorra deve intervenire spesso e con sempre più violenza per controllare i suoi referenti, visto anche che questi ultimi, non essendo dei veri e propri affiliati, e facendo riferimento a se stessi più che a una famiglia, spesso cambiano gestore, tendono a mettersi in proprio o a fare, insomma, quello che vogliono.

Non è possibile trovare una via d'uscita. È la frase che più spesso si sente pronunciare da tutti quelli che lavorano nei servizi sociali, specialmente nella zona di Ercolano e Portici. Insomma, la zona vesuviana. Si lamentano del circolo vizioso nel quale è caduta la città. In queste zone, lo spaccio di droga è ormai alla portata di tutti. Esistono delle vere e proprie raffinerie di droga a cielo aperto. I clan riescono a coinvolgere una vasta parte della popolazione nella spartizione dei proventi della droga, con il seguente criterio leninista: a ognuno secondo i propri bisogni, a ognuno secondo i propri meriti. Per esempio, io raffinatore ho un tot di droga a disposizione. Mettiamo che, prima di smerciare, devo conservare questo pacchetto per una decina di giorni. Per non correre rischi, insomma per non gestire le scorte, lo affido a una sorta di conto terzista occasionale: un negoziante, un impiegato, un disoccupato. Lui tiene il pacchetto sotto il bancone del negozio o nascosto dentro casa per una decina di giorni e in cambio riceverà una certa percentuale in euro. Altro esempio, devo partire per le vacanze, vado con i bambini a Mirabilandia. Insieme alle valige e alle borse mi porto un po' di droga. Riceverò per questo viaggio una certa percentuale in euro. Azionariato popolare, insomma. I proventi non sono soggetti a tassazione e, in pratica, le azioni hanno pochi rischi. Niente smaterializzazione del capitale, transazioni globali, ma soldi in contanti, in nero, che verranno messi in banca o spesi per beni di prestigio. Ovviamente, insistono quelli dei servizi sociali, in questo mondo dove i soldi vengono guadagnati semplicemente fornendo un servizio depositi bagagli, la cultura e la fatica non contano più tanto. Ci si chiede: per quale motivo devo mandare mio figlio a scuola, farlo sgobbare sui libri se per vivere bene mi basta aprire un locale deposito droga? Oppure, scelgo di mandare mio figlio a scuola giusto il tempo necessario. Che importa cosa e come impara. La scuola poi è un disastro. Ci sono solo insegnanti donne alle prime armi, impreparate ad affrontare la situazione. Quando vedono il caso difficile, si rivolgono ai servizi sociali e chiedono l'insegnate di sostegno. I ragazzi che usciranno da questa scuola di sostegno perenne, avranno poca voglia di cercare una strada diversa. Se fino adesso non c'è stata alternativa, né immaginazione, perché dovrebbe essercene in futuro. Meglio fare come i padri: locale deposito droga e percentuale a commissione. E un circolo vizioso. E una città dove si vive e muore senza preoccuparsi delle conseguenze future. Conta solo il presente. Anche perché i politici sanno bene che su questo speciale bacino elettorale fonderanno la propria carriera. Perché cambiarlo? Come dicono in tanti che si occupano giornalmente di questi problemi: non vediamo una via di uscita.

E da tutto questo nasce un paradosso, la camorra deve vigilare sulle bande criminali in franchising, dare ordine al disordine. E cosi, spesso spara e non importa l'età delle vittime, perché alcune di queste vittime sono, già in tenera età, parte di quel sistema cocaina.
Capita che se la camorra gambizza dei bambini non ancora tredicenni, quei casertani ossessionati dalla camorra non fanno una piega, al massimo allargano le braccia. A chi gli dice: come sei cinico, loro rispondono: come sei ignorante. E citano, a loro discolpa, tutti quegli scrittori e sociologi che da anni ripetono inascoltati le stesse cose: la camorra vuole dare il suo ordine al disordine familiare, e cosi è costantemente alla ricerca di ragazzini senza regole, figli di famiglie disagiate, perché in essi intravede dei potenziali affiliati. Questi ragazzi senza regole chiedono in realtà di avere delle regole, chiedono un codice di comportamento perché a quell' età è dura vivere senza regole; questo vale per i figli dei borghesi e per i figli di famiglie in difficoltà.
E la camorra, nello specifico, non potendosi occupare dei figli dei borghesi perché li considera consumatori di droghe, focalizza 1'attenzione su questi altri bambini', fornisce loro un codice d'onore. Il codice d'onore -1' onore che quei bambini tanto decantano nelle frequenti interviste e che stupisce i lettori - permette loro di proclamare la propria diversità: siamo orgogliosi di essere camorristi. Significa: siamo orgogliosi di appartenere a un corpo militare che ci fornisce, oltre ai soldi (pochi in verità), anche regole di comportamento grazie alle quali possiamo provare a orientarci e a vivere in queste zone franche.

I quartieri dove alcune famiglie camorristiche risiedono sono, a tutti gli effetti, zone degradate. Una strana caratteristica, questa. Potenti clan che fanno girare milioni di euro, vivono in quartieri di questo tipo, per cui la domanda che si sente fare più spesso è la seguente: ma come è possibile avere tanti soldi e stare in luoghi casi degradati? Quello che viene fuori da una lettura economica e antropologica di una certa camorra è che, in primo luogo, tutta la fascia di affiliati al clan - cioè quelli che in pratica ricevono ordini e si occupano delle operazioni di logistica connesse allo spaccio - tutti questi guadagnano poco. Certo più degli ormai classici mille euro al mese ma non tanto di più. A fare 11 camorrista, pare ormai certo, non si guadagna tanto. E probabile che alluni affiliati di basso rango ostentino simboli di prestigio, come Rolex o catene d'oro, solo per mostrare che stanno bene e che della qualità del loro lavoro ci si può fidare. Tutta apparenza, dunque. Il fatto è che gli scenari del traffico sono mutati. Le bande a cui è affidato parte della miera dello spaccio tendono a sfuggire al controllo del clan, a fare di testa loro, e il clan deve ricorrere alla violenza per esercitare il potere. Per far questo, per operare uno spietato controllo, il clan deve necessariamente ancorarsi a dei luoghi di riferimento e su questi operare una serrata dittatura. Finché gli affiliati al clan mantengono questo controllo, finché le persone del quartiere li percepiscono come «gente di potere», allora quellli del clan si sentono al sicuro, possono agire con violenza e spietatezza sui rivali, perché avvertono che la loro azione, pur sporca, è legittimata dall' amicizia che il quartiere gli offre. Un'altra ragione per cui i camorristi vivono in zone degradate è che possono fidarsi solo di poche persone, nemmeno gli amici vanno bene. Si fidano solo dei rapporti di sangue, ossia dei legami di parentela stretta. E spesso un clan parentale ascende o cade insieme, nascono e muoiono tutti insieme, a partire dallo stesso quartiere. Insomma, meglio un condominio squallido ma abitato da parenti solidali, che ville belle ma isolate. I camorristi desiderano essere considerati come persone disposte a dare una mano, che aiutano il prossimo, proteggendolo e offrendo possibilità di entrare nel sistema. Tanto è vero che spesso sono presenti nel quartiere, li trovi al bar, al biliardo, li vedi giocare a carte, svolgono cioè una vita parecchio ordinaria e provinciale. La loro costante presenza sembra dire a quei ragazzi figli di famiglie difficili o alle persone in genere: se vuoi, sto qua, mi potrò occupare di te, in cambio mi garantisci rispetto e fiducia. Questo sistema antropologico non è tipico solo dei quartieri del napoletano, ma è diffuso. I narcotrafficanti che operano nelle favelas di Rio maneggiano e accumulano parecchio contante eppure vivono stabilmente entro i confini della propria favela, spesso le loro case sono uguali alle case degli altri cittadini, mattoni traforati e lamiere ,come copertura. E dalla favela non escono quasi mai. E chiaro che per un camorrista o un narcotrafficante il lavoro sporco è uno strumento per ottenere si soldi, ma soprattutto visibilità e rispetto all'interno di un luogo, non importa se è bello o degradato. Qualsiasi camorrista tolto dal suo quartiere diventa immediatamente una persona sola, senza potere, senza riconoscimento alcuno. Ed è chiaro poi che molte persone di quel quartiere chiedono continuamente al camorrista di fare il camorrista, ossia di essere capace di esercitare anche con spietatezza il suo potere. La camorra non potrebbe esistere senza una diffusa complicità. Basta leggere qualche sentenza per costatare come per un magistrato sia difficile capire se, per esempio, un certo imprenditrice è vittima della camorra o è complice, tanto il rapporto è sfuggente e mutualistico.

E alla fine, concludono quei casertani, come potete giudicare, che ne sapete voi: a chi in queste zone non vive (e non muore) o a chi è abituato a comprare la cocaina in belle piazze italiane, può sembrare orribile tutto questo, e infatti lo è. E un sistema orribile che si perpetua. Ma tant'è. Il sistema droghe, come tutti i sistemi economici, si fonda sul consumatore e sul produttore. I produttori si danno regole orribili, ma le loro orribili regole si disciplinano in zone franche, in fondo abbastanza silenziose, e tutto questo per non turbare troppo le regole e la tranquillità del consumatore.
Solo se l'ultimo anello della filiera, quello affidato al consumatore, è tranquillo possono entrare i soldi. Solo se entrano i soldi si può creare un' economia parallela molto più cinica di quella legale più dissoluta e per niente interessata al bene comune. Soprattutto non soggetta a norme e controlli. Un'economia distorta e inquinante che, spiegano quegli economisti casertani, potrebbe avere ben presto ricadute pesanti proprio sulla fascia media della popolazione.
Dove vanno infatti i soldi accumulati con la droga, dove vanno gli innumerevoli proventi che i gruppi camorristi, i cartelli della n' dgrangheta e le famiglie mafiose si mettono in cassa ogni settimana, grazie ai consumi ottenuti sulle piazze milanesi, venete, bolognesi ecc?
Ci sono quegli economisti che sospettano che i guadagni vengano investiti in titoli di Stato, piti sicuri e più stabili. Che paradosso. Lo Stato paga ai grandi gruppi criminali interessi legali su soldi che non sono legali. Oppure, sostengono altri commentatori, che parte di questi soldi sono utilizzati per acquistare immobili. Investimento old style, sicuro.
Ci sono momenti, magari, certe domeniche pomeriggio, quando abbandonati su un divano si diventa lirici, in cui quei quei casertani dicono: com' erano belli i tempi in cui c'erano le vittime e i carnefici, un giorno le vittime avrebbero potuto sconfiggere i carnefici. Adesso tutto è confuso. Chi plasma chi? Un incubo perenne, tutto nero, anzi pegggio: grigio, indefinito, impalpabile.

E allora?
Mi è stato raccontato che lo scrittore Saviano, durante una presentazione in una scuola, ha fatto giustamente notare ai ragazzi che ogni volta che si fuma uno spinello si finanziano, non solo i clan del napoletano, ma anche tutta la filiera. I ragazzi, fatto strano, non c'avevano mai pensato e sono rimasti male nell' apprendere della loro complicità con il nemico. In realtà i primi a non pensarci affatto sono la maggior parte dei politici che, proprio secondo le confessioni espresse in .camera caritatis, sono tra i primi consumatori di cocaina. E impressionante la quantità di politici, al governo e all'opposizione, che ne fa uso ed è impressionante il rapporto che instaurano con il proprio pusher. Presi da un delirio di onnipotenza chiamano il primo spacciatore e lo fanno salire nelle sedi di comando e molto spesso nemmeno lo pagano, perché convinti come sono della loro potenza, sanno che lo spacciatore non parlerà. Ora, secondo alcuni psicanalisti, il politico tipo è vittima di una forte scissione, risulta cioè incapace di prendere coscienza di quello che fa, dunque non paga lo spacciatore, perché i soldi sarebbero la prova del suo peccato. Ciò nonostante, tra politico e spacciatore, si stabilisce un gioco di potere e nella partita alla fine ad averla vinta è proprio lo spacciatore che, in cambio di soldi, gli chiede favori per i figli, per i nipoti, per la famiglia tutta e spesso riesce a ottenere un pagamento in natura più conveniente.
E allora, se a Villa Literno, ma pure a Casal di Principe, Cancello Arnone, insomma nell'hinterrland, ci arrivi con la Ss 7 Quater e c'è vento, il paese e la campagna intorno ti appaiono sghembi, come piegati da un lato. Un po' perché i pioppi si curvano e un po' perché le case che fiancheggiano la Statale sono ancora in costruzione, e le fondamenta, i muri, il tetto sono in embrione e non immagini ancora che orientamento prenderanno una volta terminate. Se poi ci arrivi d'estate, magari in piena controra e c'è scirocco, fa caldo e i contadini hanno aperto gli irrigatori e lunghi getti parabolici segnano l'aria, allora Villa Literno ti apparirà non solo sghemba, ma pure evanescente. Sarà per via del caldo, per gli strati d'acqua che evaporano non appena toccano il terreno, o sarà per gli idrocarburi lasciati sulla strada che salgono e sfocano l'orizzonte, sarà per una di queste cose, o per tutte quante messe assieme, ma il paese sembrerà un miraggio. E infatti, nonostante le indicazioni stradali avvisino che l'uscita per Villa Literno è vicina, e i chilometri che ti separano dall'arrivo diminuiscano ogni minuto, il traguardo non arriva mai. Quando poi finalmente arrivi nel paese, giri intorno a una rotonda, imbocchi il corso Emanuele e miri al centro seguendo un cartello indicatore, succede che d'improvviso ti ritrovi al punto di partenza. Accade cioè che non solo il centro ti è sfuggito, ma che il paese è già finito. Sei di nuovo alla rotonda e devi ricominciare il giro. E se invece vai diritto, seguendo la strada principale, presto ti ritrovi a Cancello Arnone, perché hai oltrepassato la frontiera e non te ne sei accorto. Eppure il paese c'è, è li intorno a te, sai anche che ha un tasso di densità abitativa altissimo, ma è come se sfuggisse. Come se una parte del tempo e dello spazio non appartenesse alla toponomastica dei luoghi, non fosse iscritta nella struttura urbanistica del paese. Ora, se ci arrivi in piena controra, la luce sembra scoppiata, il paesaggio è tremolante e in giro non c'è nessuno. Quasi tutti i negozi sono chiusi, a eccezione dei caseifici. Le case però mantengono le porte aperte, ma nell'ombra si intravedono a stento gli arredi, e mai le persone. Poi, in piazza ci sono i circoli e una di fronte all' altra la sede dell'ex Pci e dell'ex Dc, ma queste hanno le soglie protette da tende di fili di plastica, che di tanto in tanto svolazzano per via del vento, ma è solo un attimo e non riesci a sbirciare all'interno. Villa Literno conserva dunque delle zone d'ombra, è un luogo dove tutto, dalle case alle persone, sembra sul punto di farsi, dove il detto vale meno del non detto, un paese che non è, perché è sul punto di diventare, un paese che attende. Attende di andare al mare, almeno a giudicare dai negozi che vendono prodotti per la spiaggia: gommoni, salvagenti, braccioli, pale e rastrelli, zoccoli e costumi, cuffie e prendisole, sdraie e lettini, oli solari, creme e lozioni. Tutti prodotti stesi al sole, appoggiati al marciapiede, quasi a invadere la carreggiata. I segni del mare sono cosi eccessivi e cosi invadenti che sembrano falsi, anch'essi un miraggio, un'illusione di tempo libero.

La maggior parte della vecchia generazione di contadini che possiede appezzamenti di terreno verso l'entroterra non ha mai visto il mare. Il fatto è che le loro aziende sono piccole e frammentate, e vengono sfruttate in maniera intensiva. Nel senso che il peso di tutta la catena alimentare dalla produzione al consumo, e cioè dall'impianto delle colture alla cura delle medesime, fino al trasporto dei prodotti in mercati lontani, viene sostenuto dal contadino stesso. Un carico di lavoro enorme e continuativo che lascia come uniche ore libere quelle necessarie per il riposo notturno. Ora, negli ultimi anni si sta assistendo a una netta frattura tra la generazione dei padri e quella dei figli: i soldi guadagnati e risparmiati dai primi sono stati spesi dai secondi, senza che questi sostituissero i padri nel lavoro in campagna. In sostanza, mentre i padri sono ancora morbosamente attaccati alla terra e si rifiutano di considerare altro, i figli vogliono vedere il mare, ma non possiedono più una terra dalla quale salpare.

Perché questo paese più realisticamente aspetta di produrre la mozzarella, e ai ritmi della caseificazione è inesorabilmente legato. COSI per due o tre volte al giorno, ogni giorno, senza rispettare i festivi né il Natale o la Pasqua, gli agricoltori mungono le bufale, prelevano il latte e lo consegnano ai caseifici. Qui operai regolari del luogo e mezzi operai irregolari senegalesi, per otto o dodici ore al giorno si danno da fare per assicurare la mozzarella fresca a Napoli, a Caserta e in tutta la provincia. Si lavora a cottimo, di notte e di pomeriggio, e all' alba. Il tempo libero, quando avanza, viene impiegato per curare i propri interessi, magari per aggiustarsi la casa. Perché anche le abitazioni attendono di essere sistemate. Sono case basse, messe in fila, una di seguito all'altra, un po' come i poderi o gli stessi paesi dell'hinterland, che si susseguono senza confini. Qualche anno fa queste case mostravano ancora i mattoni di tufo e tetti appena coibentati a catrame. Adesso le tinte degli intonaci si sono aggraziate, variano dal verde pisello al rosa, sembrano più curati i dettagli: finestre con davanzali e qualche intarsio. Il fatto è che Villa Literno è un paese affetto da sporogenesi, produce cioè materiale a partire da una stessa matrice. Succede allora che una casa generi un' altra casa. O meglio, in particolare: il tetto non è mai la vetta, ma una base di appoggio per strutture successive. Così, quando un figlio si sposa, il proprietario della casa chiama qualche suo amico muratore, oppure una ditta di sua conoscenza e, insieme a loro, nel tempo libero, comincia a portare sul tetto i mattoni, poi spiana il tetto con il cemento e da un giorno all'altro solleva i muri.

La gran parte delle ditte sono inesistenti, in quanto non detengono partita iva né sono iscritte alla Camera di commercio. L'inesistenza legale si sposa con l'onnipresenza contingente: la ditta, polverizzata, ridotta a particella, acquista velocità di fuga, arriva, costruisce, produce e finisce di vivere. In questo modo si è difficilmente soggetti a controlli, e si può assumere chi si ha voglia di assumere senza pagare contributi. D'altra parte, per un principio paradossale, principio sempre presente in queste zone, la velocità di esecuzione si lega con la staticità operativa degli operai della ditta, i quali, in mancanza di contributi, preoccupandosi del futuro, sono costretti a non pensare al proprio presente, accettando quello che c'è da accettare senza riflettere sulle altre e magari migliori opportunità che la vita può offrire altrove.

E la casa acquista altezza, finestre, e un nuovo tetto provvisorio. Il processo può avvenire con uguale dinamica a partire da qualunque parte dell'abitazione. Nel senso che è possibile abbattere un rare nell'hinterland significa entrare in contatto con idiomi sconosciuti che spesso cambiano nel raggio di qualche chilometro. Le zone dell'hinterland sono infatti vere e proprie isole autarchiche, ma capaci di operare innesti tra la tradizione e il moderno con una tale rapidità da stupire gli artisti popolari. Ora, per questa difficoltà di comunicazione, in queste zone le proposte illegali sono sempre accennate. Ad esempio: dotto', , ca 'u pozzo ... avete capito, dotto' ... verimm' che amma fa'

... Sono cioè proposte silenziose, piene di puntini sospensivi. All'esperienza del tecnico la capacità di interpretare le pause come richiesta di qualcosa o come negazione di qualcos' altro. Funziona quindi un meccanismo interpretativo che privilegia come valore affermativo il non detto, e sfrutta la conoscenza, anche marginale, dell'idioma di contorno come fulcro della comunicazione. E nostra convinzione che la mancanza di coscienza civile che caratterizza alcuni tecnici sia una conseguenza di questo abituale uso di punti sospensivi come momento fondante di una scelta. Di recente, comunque, anche la lingua della camorra si sta modificando. La globalizzazione, e dunque il contatto con la malavita balcanica, cinese, ghanese impone un confronto con idiomi differenti e diffonde l'uso di una lingua più morbida, ma piatta. Cosi, come accade nel Nordest italiano, attuale punto di fuga di interessi malavitosi e connivenze politiche, la lingua del Sud si stabilizza su un linguaggio semplice ed elementare, da tutti comprensibile, inframmezzato, però, da notevoli e gratuite bestemmie che marcano il ritmo e il tempo di un discorso.

Nel frattempo, mentre i funzionari passano, riflettono e poi vanno, qualche deposito si trasforma in abitazione, i muri continuano a produrre muri, i tetti pavimenti. Dunque, un continuo processo di sporogenesi che dà al luogo un' estetica postmoderna, caotica e frammentata, per cui se la strada si restringe d'improvviso e ti costringe a svoltare verso la mezzeria sfiorando la macchina che ti incrocia, o se imbocchi una strada comunale e finisci tra i campi, è perché un mutamento reversibile ha trasformato lo spazio: una stanza è stata prodotta da un pezzo di casa e ha invaso la strada, o una strada comunale è stata bypassata, o un' arteria del tutto somigliante all' originale è venuta fuori, magari spianata e asfaltata, per raggiungere meglio un campo vicino. Villa Literno si sviluppa cioè in orizzontale e mediamente in verticale; si distende come Los Angeles, sarà per questo che qui molti bar hanno nomi che ricordano le spiagge di Miami. C'è da riflettere poi sul fatto che su queste case, su queste mura, solo molto più tardi si passerà una mano di intonaco, perché qui la calce non svolge la funzione di abbracciare la casa e attutire il calore, ma dà invece un senso di chiusura al futuro, quasi come mettesse la parola fine all'abitazione. E in questi luoghi, mettere la parola fine alla casa significa per sillogismo simbolico decretare la fine della famiglia.

Perché la famiglia è importante. Numerosa, non tanto per la prole, ma per la capacità di affiliazione. Anche le generazioni, come le case, crescono a partire da una stessa matrice e non se ne distaccano, per questo l'architettura del luogo rispecchia la struttura a grappolo. Crescono, si moltiplicano, si confondono, si ramificano, ma con una particolarità: spesso il numero non evidenzia la visibilità, più vero è il contrario, la numerosità a Villa Literno è un paradosso. La quantità richiama l'invisibilità. Intuisci la presenza di persone ma di quei corpi vedi solo l'ombra, una falsa assenza domina il territorio.
Due elementi architettonici testimoniano quanto detto: i balconi e le porte.

Villa Literno conserva, nell'intima struttura delle case, le caratteristiche dei vicoli di Napoli, ma alienate di senso. Come se un rapido mutamento, quasi un' accelerazione inaspettata di benessere, avesse svuotato le dinamiche di socialità diffusa presenti nei quartieri, e lasciato al loro posto una traccia ombrata.

Se si tira su un piano si avrà cura di costruire un balcone che corre su un lato della casa. Non su di un lato qualunque, non su quello più favorevole al sole, meglio esposto, magari verso il giardino dietro casa, ma sempre sul lato della strada. I balconi sono fatti per guardare la strada, perché è sulla strada che passa la vita, e la vita va controllata.
Mentre i grandi boss passano la vita a casa, la piccola manovalanza se ne sta in strada. La differenza di grado tra camorristi si esprime in una maggiore o minore presenza sul territorio. Nel senso che la piccola manovalanza ha come luogo da conquistare la strada. Punti nevralgici della città, il bar, la piazza, la sede di partito, sono continuamente occupati dalla piccola manovalanza che staziona li, in attesa di ordini in base ai quali procedere. Man mano che si sale di grado si limitano le azioni sul territorio e si intensifica la presenza a casa. Alcuni camorristi, veri talenti nel proprio mestiere, già all'età di diciassette, diciotto anni, dopo essersi distinti per crudeltà omicida, sprezzo del pericolo, e soprattutto, senso di gestione aziendale, non svolgono più attività intimidatoria presso i cantieri edilizi, ditte o negozi, ma se ne stanno tranquillamente a casa propria aspettando che qualcuno gli porti quanto dovuto. Di tanto in tanto si fanno vedere, non per strada, ma al bar, o in qualche locale. Via via che accrescono il loro prestigio smettono quasi di intervenire nelle questioni pratiche, sviluppando un agire tutto teorico. Solo in rari casi si fanno vivi, quando ad esempio un taglieggiato si rifiuta di pagare, allora il taglieggiato viene condotto a casa dal boss in persona, il quale per un paio d'ore non farà che insultarlo, schiaffeggiarlo, offendergli la famiglia tutta, prenderlo a calci, insomma umiliarlo fino a quando il disgraziato non cede al ricatto. Ma questi sono casi eccezionali, per il resto del tempo i grandi boss si limitano a stare a casa in zoccoli e tuta da ginnastica, coltivando hobby svariati: pittura o letture dei classici del pensiero cattolico, Bibbia compresa.
Per questo spesso ingrassano, fanno poco moto, mettono su pancia, vestono male perché indossano roba di poco conto, non avendo l'obbligo di mettere la divisa aziendale per curare la" rappresentanza sociale, si tagliano poco i capelli e si fanno crescere la barba. Quando poi li prendono e mostrano sui giornali le loro foto, noi tutti ci stupiamo della loro sciatta normalità, cosi somigliante alla nostra.
Eppure questi balconi non sono frequentati. Sono li, quasi a piombo sulla strada, qualcuno ad altezza d'uomo, vuoti e inquietanti. Per questo una delle sensazioni che ti opprime quando percorri il paese è quella di essere sotto controllo. Non è detto che sia vero, è solo una sensazione. Le porte, quelle poi. Alcune sono di legno massiccio, pesante, sgraziato e se le case attendono di essere finite, se mostrano ancora buchi sui muri, se c'è ancora un piano da sopraelevare e il tetto sembra un cantiere, le porte, con i loro intarsi, le loro blindature mostrano già invece una presenza possente, un'identità: più che introdurre al di là della soglia, sembra che vogliano difendere l'ingresso, proteggere l'interno regolato dall' esterno caotico. Non si è mai sicuri se questa protezione sia una sorta di misura legale, serva cioè a distaccarsi dal clima di illegalità diffusa sul territorio, oppure sia una ipocrita cortina. La risposta probabilmente è duplice: è vero che per combattere bisogna distaccarsi ed è ugualmente vero che per delinquere bisogna proteggersi. I balconi e le porte dunque, come funzioni di una espressione di disagio: sappiamo che siete fuori, ma dietro queste porte siamo al sicuro; e, allo stesso tempo, di strategia camorristica: siamo qui, vi vediamo, ma siamo protetti. Abbiamo conferma di questa ipotesi ogni volta che leggiamo sentenze giudiziarie che riguardano la locale criminalità. Perché qui il problema dei Pubblici ministeri non è tanto svolgere una comune indagine su fatti, persone e comportamenti illegali, ma operare prima una ricerca archeologica, entrare cioè in quelle case, aprire le porte, e solo dopo svolgere un'operazione filologica sui reperti. Operazione ambigua, durante la quale il senso delle cose può continuamente slittare, rimandare a un altrove, sfiorare il paradosso: perché tutto è in accordo con la fisica quantistica, ogni cosa ha una doppia natura, ogni stadio è vero e contraddice l'altro. Allora occorre operare distinzioni di senso, ricostruire alberi genealogici, e non certo consultando l'anagrafe, ma trovando nessi grammaticali che accomunino i linguaggi tra famiglie, avvalendosi di sospetti, invidie e ripicche, sempre incerti se sfruttare questi vizi capitali per avviare una procedura penale a carico degli indiziati, o stigmatizzare questi elementi come impropri e garantire l'imputato. Insomma, occorre riportare l'invisibile nell'ambiguo regno dell'ottica. Solo dopo passare al codice penale.
Il rischio di redigere una sentenza è quello di vedere trasformato l'atto di accusa in un trattato alchemico, dove il senso slitta volta per volta verso qualcosa di lontano. E siccome questo rischio potrebbe invalidare il processo, i giudici devono comportarsi come gli uomini di scienza che fondarono l'età moderna, dare cioè un valore unico a ogni parola, e provare l'esistenza inconfutabile del nesso che fonda questo valore.
Operazione difficilissima, perché dietro quelle porte, dietro quel legno pesante, la moralità è alta. La famiglia camorristica si ispira a modelli cristiani onorevoli. Capita che i carabinieri addetti alle intercettazioni telefoniche si sollevino le cuffie dall'orecchio e si guardino sbiechi, perché, ad esempio, in una telefonata intercettata un presunto camorrista redarguisce pesantemente la moglie di un suo amico, anch'esso un presunto affiliato, perché lascia che il marito conduca una vita dissoluta, poco ispirata alle regole del buon vivere, ad esempio beve troppo, frequenta i locali notturni di Baia Domizia e ogni tanto rimorchia una prostituta. E la ramanzina è cosi scrupolosa, i consigli su come riportare a casa il marito sbandato sono cosi sensati e morali, che gli addetti alle intercettazioni chiamano il capitano e chiedono lumi, perché non capiscono bene se stanno spiando la telefonata di un camorrista responsabile di molti omicidi, di un addetto al telefono amico, oppure di un prete.
La moralità nel gruppo camorristico è davvero molto alta. Per mantenere viva la tradizione ed evitare contaminazioni con il resto della società i camorristi si sposano tra di loro, mettono su famiglia portando all'altare la sorella di un amico oppure la cugina, insomma preservano la propria famiglia dalle intrusioni esterne, in modo da avere il massimo controllo con il minimo sforzo, e la massima produttività con l'impegno di tutti. Un po' come avviene nelle grandi famiglie capitalistiche.
Ora, muovendosi intorno al paese, e di tanto in tanto inoltrandosi casualmente all'interno, insomma lasciandosi trasportare dal caos, è possibile vedere da vicino la terra che fonda Villa Literno. Bisogna vederla questa terra, bisogna seguire le strade che la delimitano, o 1'oltrepassano, occorre seguire il profilo, gli smottamenti, le sistemazioni agrarie. Perché Villa Literno e poi Casal di Principe, Casaluce, Casapesena, Marcianise sono fondati su una terra argillosa,' ruvida, spaccata se assolata, umida e vischiosa se bagnata dalle piogge, una terra inquinata dall'urea, povera di humus, seminata a monocoltura di mais, tabacco o pomodoro ormai da un' eternità, appesantita dalle bufale.

Villa Literno era chiamata Vico di Pantano. Dopo la bonifica bisognava trovare un nome che celebrasse la nuova era, dunque si optò per Villa Literno, in onore di Scipione l'Africano che aveva una villa nell' agro Liternum. Prima della bonifica, quel pantano era ricco di fauna e flora mediterranea e conservava una notevole carica di biodiversità. Più tardi, proprio la bonifica chiamata integrale per la sua violenza livellatrice ridusse a una quota vicina allo zero quella carica. Il territorio venne organizzato in lotti rigidi e rettangolari con il lato più lungo che dava sulla strada di bonifica e quello più corto che ospitava una o due case coloniche. L'ordine imposto rifletteva, però, una condizione di solitudine, simboleggiata soprattutto dalla distanza tra le case coloniche, alcune delle quali oggi sono di tanto in tanto ancora presenti in forma di rudere o di scheletro, e che ricordano un frutteto secco. Quei luoghi vennero abitati dagli stessi lavoratori della bonifica, lavoratori che da tempo avevano perso il loro status di occupati, in quanto la crisi bellica li aveva espulsi dal sistema produttivo. Negli anni quella trama regolare è stata scardinata, un po' per colmare la distanza tra le cose e le persone, un po' perché quello spazio siderale forniva a tutti l'illusione della conquista. In seguito ognuno ha conquistato un pezzo di territorio, ma troppo piccolo per potere essere sfruttato con la giusta fatica. Insomma il disordine nevrotico e sincopato della trama urbana ha generato un senso di rivalità che nel suo compiersi ha annullato il concetto di bene comune. Cosi, la modernità si è imposta con un velo. Eliminando la malaria e le sue visioni, eliminando il pantano e le specie che in esso abitavano ci si è ritrovati dopo nemmeno cinquant'anni con un'altra e più particolare febbre terzana, meno visionaria e periodica e più spinta e quotidiana, ormai difficilmente estinguibile perché agisce su un territorio monotono che ha perso nel corso del tempo le sue differenti e variopinte difese.
Un terreno che dipinge un paesaggio inquietante e uniforme, che sembra seguire il passo lento e rustico delle bufale, una terra affrancata dalle paludi ma che a esse, se non curata, potrebbe tornare. Qui gli aratri rivoltano grandi zolle di terra spigolose che le fresatrici fanno fatica a sminuzzare, gli erpici ad arieggiare. Bisogna passarci con le macchine agricole più volte del dovuto, e c'è da sperare che il sole o l'acqua arrivino al momento giusto. Altrimenti il suolo muta, i suoi componenti diventano estremi, si frantumano fino a polverizzarsi - e allora il colore vira verso il giallo e richiama il deserto - o si imbevono d'acqua e diventano parte di un acquitrino estemporaneo. Ancora una volta risulta evidente la doppia natura di questo luogo: materia grezza e polvere, pesantezza e leggerezza. Questa terra richiede fatica immane e va difesa continuamente. E detta la terra dei mazzoni. Nel suo processo per la sopravvivenza conserva non quello che rende utile, bella e varia la vita, ma solo quello che è essenziale per la produzione economica che più gli è consona. Sarà per questo che i campi adibiti alle coltivazioni sono puliti e ben sistemati mentre i margini, siano essi paesi, piazze o strade secondarie, sono invasi dalle erbe, micidiali erbe infestanti allungate nei fossi di scolina, superbe e arcigne regine dei bordi delle strade, piante erbacee dai portento si cicli biennali, come l'amaranto, il chenopodio o i canneti, che ormai, per una serie di inspiegabili mutazioni genetiche, sono resistenti ai diserbanti; e che sviluppano un fusto alto e foglie di un verde sporco e ruvido capaci di insinuarsi ovunque. Allora, ciò che è mio anche se è poco va difeso da tutti, c'è bisogno di essere avidi per trattenere quello che ci è dato, e mercantili per sfruttare quello che abbiamo trattenuto.
Eppure questa terra è capace di sublimare la sua durezza e la sua leggerezza, in pratica i suoi vizi estremi, in nome di un prodotto: la mozzarella. Se percorrete le strade di Villa Literno, vi capiterà di vedere i caseifici. Sono strutture rettangolari, assomigliano alle case che disegnano i bambini - e davvero in alcuni momenti, specialmente durante il tramonto, sembra di rivedere quei disegni infantili con la casa, il proprietario in primo piano e, alle spalle, un sole che tramonta tra i picchi di due vette. Bene, entrateci nei caseifici. Se potete, lasciate il bancone, sbirciate sul retro e individuate la porta di servizio, apritela ed entrate. Qui, dentro questo capannone di cemento compresso, su questo pavimento, c'è una parte di Villa Literno. Se fissate lo sguardo sui contenitori circolari di acciaio, avrete la possibilità di vedere una famiglia tipo. Perché la mozzarella la si produce tutti insieme, la testa bassa sul latte e le braccia immerse nel siero.
La similitudine tra il processo di lavorazione della mozzarella e la struttura urbanistica di Villa Literno, o dei paesi gemelli, è davvero evidente. Il nome «mozzarella» deriva da «mozzare». Il formaggio si produce, cioè, secondo un processo di sporulazione, o meglio da una struttura a treccia e filamentosa si producono singole teste che nascono dalla spinta delle mani dei mozzarellari e vengono poi dal mastro casaro, al momento giusto, mozzate. E, in fin dei conti, un processo di lavorazione violento e immediato però silenzioso, che richiede un' abilità istintiva, grezza ma efficace. Poi, la testa mozzata ancora calda viene subito immersa in acqua fredda, affinché prenda una forma molle. Ora, solo in questi posti poteva nascere un formaggio come la mozzarella. Perché come avviene per le case, a Villa Literno tutto si forma riformandosi in continuazione, cosi pure la mozzarella segue il ritmo di vita filamentoso ma monotono che anima questi luoghi. Nel senso che la conservazione di quanto prodotto e poi il processo di invecchiamento, dinamiche di lavorazione di formaggi come il Grana padano, non sono consoni a questi luoghi. Perché qui la natura è nemica e non accogliente come quella toscana, emiliana o umbra. Nessun prodotto può essere pazientemente conservato per un tempo superiore a quello necessario, pena la distruzione.
Si lavora tendendola e filandola, in silenzio. È lo stesso silenzio, intendiamo di voci, che si avverte entrando a Villa Literno, lo stesso silenzio che pare strutturi e domini l'interno di quelle case che non riusciamo mai a vedere perché serrate o perché raggiunte dall'ombra. Non è un silenzio totale, le macchine fanno rumore, in più scorre continuamente acqua, e il suo gorgheggio è sinistro. Alla famiglia, madre, fratelli, sorelle, parenti, sono affiliati operai extracomunitari. Sono i più fortunati, anche se trattati male, anche se non li vedi mai a figura intera, impegnati come sono a lavare per terra, o a curvarsi per sollevare pesi. Non sai neppure dire con precisione a che razza appartengono, perché gli stivali e le divise che indossano li uniformano agli altri, e in più sono bianchi perché unti dal latte, quasi costretti a una seduta di trucco, obbligati a essere dei bianchi surrogati. Ma sono fortunati, nonostante siano senza identità, nonostante siano bianchi in minore, sono pagati meglio rispetto ai loro connazionali - a volte, possono dormire presso i locali dell' azienda, e così svolgere anche mansioni di sorveglianza.
I marocchini sono quelli che più facilmente vengono assunti anche come guardiani di bufale. E strano come nel passaggio centro-periferia i marocchini si trasformino. Passano, cioè, da presenza che disciplina un oggetto etereo, sfuggente come il fumo, a controllore di un animale pesante e rustico quale la bufala. E un impiego extra, pagato un minimo a ore. I guardiani passano la maggior parte del tempo davanti alle finestre del locale per osservare ogni movimento sospetto tra gli animali. Oppure nei campi, con in mano un bastone, a guardare verso l'orizzonte. Dopo un po', forse per la tristezza o per l'aridità delle loro vite, assumono la stessa anatomia del bastone che reggono, diventano cioè magri e nodosi, con il tempo allampanati. A volte, quando meno te l'aspetti, si spezzano.
E guardando le bufale, si affrancano dalla costrizione della vita in comune con altri connazionali o dal caporalaggio - attività praticata in tutto l'hinterland casertano, complici gli stessi imprenditori che sono soliti rivolgersi ai caporali per acquistare lavoratori stagionali.

Non esiste nessun'altra organizzazione alternativa e legale che garantisca il collocamento della manodopera extracomunitaria sul mercato del lavoro, se non questa gestione fuorilegge, dotata di camion con rimorchio, usato come contenitore di merce umana. Ora, siccome la merce umana è tanta e pesante, si impone alla manodopera di non portare roba propria, di spogliarsi cioè delle cose inutili e tenere con sé solo l'essenziale: le braccia. Un addetto al caporalaggio spiega poi in un dialetto incomprensibile che ritroveranno la loro roba non appena saranno di ritorno. Ora, arrivare la mattina a Villa Literno intorno alle cinque è già di per sé un'esperienza estrema. Il paese è pianeggiante e circondato da colline. Quindi il sole non illumina direttamente la superficie perché i raggi vi arrivano distorti. Il contatto sbieco di questi con il suolo facilita due cose: l'evapotraspirazione dalle piante erbacee, tipo erba medica o mais, che contribuisce al formarrsi di una nebbia accecante; e, in seguito a questa, l’instaurarsi di uno sguardo miope che fa sembrare il paesaggio agricolo una sorta di miscuglio tra oniricità e cupezza da dopobomba. Bene, in queste condizioni atmosferiche particolari, vedere extracomunitari ma anche qualche italiano, vedere, insomma, giovani, adulti e, in non rari casi, anziani attendere l'arrivo del caporale, è come osservare una sorta di girone infernale. Perché ognuno conosce già la propria sorte, piegato su se stesso, lo sguardo fisso a terra. Ci si chiede cioè, a volte, strofinandosi gli occhi, come sia possibile che dopo anni e anni di lotte operaie, dopo decine di riforme agrarie, esistano ancora scene come questa. Il senso di frustrazione aumenta poi quando ti accorgi che dopo l'arrivo del caporale e dopo la cernita degli abili e degli inabili al lavoro, la postura di chi va a lavorare perché scelto e di chi resta a terra perché scartato è la stessa. Entrambi i gruppi, pur da separati, pur imboccando strade diverse, continuano ad avere lo sguardo verso la terra.

Da tutto questo silenzioso andare di braccia, dagli sguardi mancati, dall' assenza di parole e la puntuale presenza di interpunzione - che si traduce in accenni con il capo, alzate di sopracciglia, mezzi allunghi di braccia - viene fuori la mozzarella. Guardatela. E contraddittoria, come Villa Literno. Liscia solo per nascondere la vischiosità del grasso. Tenetela in mano, è cç>lue un liquido, si adatta a qualsiasi recipiente. E bianca, richiama l'idea di purezza, sembra immacolata, quindi incontaminata, tutta d'un pezzo, e invece il suo interno ha natura porosa, conserva la struttura del labirinto: percorsi obbligati e falsi cambi di direzione, strade chiuse, ombre. E il tipico prodotto che nasconde le sue ricchezze. Le buone mozzarelle sono flaccide e ridicole e non aspirano a mostrare l'interno. Le mozzarelle trasudano solo se spremute, altrimenti implodono. E qui molte cose e tante persone assomigliano a mozzarelle. Nel senso morfologico, e pili specificamente in quello antropologico. A volte le spalle sono piccole, e il ventre gonfio, la gambe grasse e ben puntate per terra. La fatica non li strema, piuttosto li gonfia. COSI la ricchezza non si ostenta, non si rappresenta, si nasconde. Si accumula per non finire mai la casa, di guidare il motorino, di utilizzarlo come se il manubrio, il telaio, le ruote e il motore facessero parte del proprio corpo. Il mezzo meccanico e il guidatore entrano in simbiosi perfetta e fanno si che il conducente potenzi i propri sensi, tanto è vero che in tutto il circondario periferico casertano i guidatori di motorini hanno la capacità di guardare, forse senza saperlo, al di là della macchina che li precede. Riescono cioè, come fossero in possesso di un algoritmo capace di misurare la complessità delle traiettorie, a indovinare sempre la giusta scia per snodarsi dentro il traffico. E nota, infatti, la difficoltà da parte delle forze dell'ordine, pure abituate alla guida veloce, a prendere gli scippatori mentre sono in sella al motorino. La leggerezza di questi ultimi nel condurre il mezzo, la capacità di attraversare gli incroci senza guardare, di incunearsi in spazi stretti senza urtare contro qualcosa, di sfiorare i margini, ha qualcosa a che fare con l'estetica del videogioco, qui intesa in senso affatto virtuale. Seguire la loro scia è sentire 1'affanno dell'inseguitore e la modernità di chi è inseguito. E il vuoto tra i due è la dimostrazione dell'esistenza di due tribù: quella che ha inventato le macchine e quella che è diventata essa stessa macchina.
hanno a che fare con irrigatori, trattori, mungitrici, e aspettano che finisca la giornata di lavoro per riunirsi insieme. Il barista, anch' esso un ragazzo, è dietro il bancone e se ne sta silenzioso a guardare il lavello pieno d'acqua. Gioca a spingere con le dita un oggetto di plastica in fondo all' acqua e ne calcola il tempo di risalita. Ora, nel bar il tempo è scandito dal rumore delle lancette di un vecchio orologio, e la sinfonia che traccia lo scorrere del tempo è composta dal gorgoglio dell' acqua che fa l'oggetto quando risale e dal pesante ticchettio delle lancette. Alla musica si aggiunge il rumore dei camion che cambiando marcia eruttano olio e combustibile, e quello degli Ape, sfiatato perché i guidatori spingono la biella ad alti regimi. Poi passa un motorino con su una ragazza e uno dei giovani avventori bestemmia. È un'imprecazione da innamorato più che un' oscenità. Allora mentre bevo una Coca-Cola Arnone chiedo al barista perché mai quella bestemmia. Il fatto è, mi dice, che a Villa Literno le ragazze non escono dopo una certa ora e allora se vuoi acchiapparle devi aspettare che passino e cercare di comunicare con loro. Ma la Coca-Cola Arnone è veramente disturbante e piuttosto che continuare a indagare sul coprifuoco, chiedo perché mai non hanno Coca-Cola o Pepsi, e mentre domando mi accorgo di aver detto una cosa stupida, e infatti sia i ragazzi fuori la soglia, sia il barista, mi guardano male, e uno di loro mi risponde: perché la Coca-Cola Arnone è cosa nostra. Allora anch'io esco fuori dal bar, e mi metto sulla soglia, resto li immobile per un po', fin quando non mi piego obliquamente, reggendo mi con il gomito che fa angolo poggiato a un palo. Cosi facendo assumo la postura dei giovani sulla soglia, anche loro come me poggiati a un palo. E ce ne stiamo li tutti e tre a guardare la strada, cosi simili ai pioppi pieegati dal vento che vediamo davanti a noi. Diventiamo fissi e strani, né seduti né in piedi, senza parrlare ma non completamente ammutoliti, qualche borbottio, molti sguardi e molti interrogativi inespressi. Materia irrequieta e cangiante che aspetta.
Sono commenti insensati. Saviano non ha inventato niente, ha descritto con forza e rabbia una situazione che i cittadini di questa specie di triangolo delle Bermuda nostrano, Caserta, Napoli, Villa Literno (e vari appendici), conoscevano bene e di cui parlava con tranquillità durante le passeggiate lungo il corso o al bar o in pizzeria. D'altra parte bisogna pure a un certo punto del nostro cammino fare un bilancio, evidenziare il male, altrimenti la seconda metà del percorso sarà lenta e vana. Adesso però, sostengono alcuni casertani, dovremmo fare un passo avanti: evitare che Casal di Principe e altri luoghi diventino, nell'immaginario italiano, «prodotti tipici». Il tipico paese camorrista. I prodotti tipici sono la morte dell'immaginazione e, inoltre, cosa importante, sono a tutti gli effetti il risultato di un ragionamento sbagliato. I prodotti tipici sono, scusate il bisticcio, il tipico prodotto partorito da quelli di fede creazionista: loro credono che tutto quello che vediamo sia stato creato una volta per tutte e da allora non si è più modificato. Né si può modificare, perché è tipico, appunto. Sono in tanti a dimostrarsi fedeli al creazionismo, mica solo i testimoni di Geova. Invece è assolutamente necessario, anzi rappresenta una vera operazione civile, essere darwinisti: il mondo che abbiamo sotto gli occhi è il risultato di una complessa interazione tra noi e l'ambiente: noi modifichiamo 1'ambiente e l'ambiente modifica noi, ovvero, tutto scorre e ogni rigagnolo che si forma rappresenta un nuovo percorso evolutivo. Sarebbe ora di dimostrare che Casal di Principe, Secondigliano ecc, sono fortezze camorristiche perché a una parte dei cittadini italiani conviene casi. La camorra e la criminalità organizzata sono forti perché noi siamo deboli; chi più chi meno, abbiamo vizi e difetti, e su questi la camorra spinge. Se una buona percentuale di italiani, senza distinzione di classe, di censo, di sesso e purtroppo di età, consuma cocaina e svariati altri tipi di droga, (contribuendo cosi a finanziare un impero economico che inquina la nostra già opaca economia), come possiamo, poi, non dico battere queste organizzazioni, ma lamentarci o dare la colpa a una maledetta genia tipiea? I milanesi che acquistano droga nelle piazze delle città non fanno altro che finanziare i clan camorristici e quelli della n' drangheta. Quindi, in qualche modo, la loro richiesta di cocaina contribuisce a fondare questi far tini camorristici, con le loro leggi militari, la loro particolare antropologia e tutto il resto delle cose che già sappiamo da tempo. Allora il passo successivo che dovremmo pur fare è quello di descrivere con più precisione il complesso gioco di relazioni (darwiniste) che gli italiani hanno con il triangolo maledetto. Solo se rifiutiamo i prodotti della camorra possiamo togliere alle organizzazioni criminali 1'ossigeno necessario - il proibizionismo del resto ha creato al Capone. Solo quando un valdostano o un milanese, ci dirà: è anche colpa nostra se tu cittadino di Casal di Principe sei chiuso nel fortino e non riesci a uscire, solo allora, probabilmente, avremmo fatto quanto nelle nostre possibilità per distruggere l'idea, cosi consolante, di prodotto tipico, una facile via per l' assoluzione.

Eppure questa anima nera e carogna, cosi visibile in periferia, a Caserta non entra, o meglio, entra solo il suo fantasma. La materia dura e grezza che arriva dalla periferia, con la sua grammatica sguaiata e sboccata, prima di entrare si sciacqua la bocca, fa i gargarismi e si ripresenta pulita. E Caserta sa come accoglierla. Gli urbanisti dicono la loro: non è vero che Caserta è stata rovinata dalle cave, dalla chiusura dei cinema, dalle case popolari, Caserta è stata rovinata dalla simmetria.
Una delle prime cose che i casertani hanno imparato da piccoli è che la città è quadrata. Per andare da una parte all' altra, qualunque lato si percorra si impiegherà sempre lo stesso tempo. Infatti, ci sono quei casertani che ogni qual volta danno un'informazione stradale, aggiungono una chiosa: comunque, Caserta è quadrata, tanto qualunque strada prendete ci mettete sempre venti minuti. Questa simmetria ha dunque costituito un limite civile, nel senso che prendere l'una o l'altra strada è una scelta indifferente, perché il tempo impiegato per raggiungere l'obiettivo e le modalità di percorrenza sono identiche in tutti i casi.
La pianta squadrata, gli incroci ad angolo retto, i palazzi con le facciate regolari, suggeriscono un'idea di ordine, un ordine accogliente, ogni cosa è al suo posto. Caserta ha la struttura del castrum, è una dépendance borbonica, costruita per alloggiare gli stallieri, i militari e quelli che gareggiavano per entrare a corte. Caserta che doveva essere costruita in rapporto simmetrico con la reggia e che poi si è sviluppata di lato. Caserta città chiusa e militare, dunque. Disciplinata, rispettosa del protocollo. Ordinata. Ma la struttura urbanistica simmetrica, cosi cara al barocco (e cosi noiosa) che Caserta ha adottato con duecento anni di ritardo, non fonda un'armonia, non struttura (ancora) un senso civico e conviviale che da quell' armonia dovrebbe nascere. E, insistono gli urbanisti, questa topografia gerarchica, senza spigoli, senza avviluppi, tantomeno ripulisce la città dai corpi estranei. Non li combatte, anzi li accoglie, li accudisce, a condizione, però, che siano presentabili, gradevoli, rispettosi di quest'ordine. E, se non lo sono abbastanza, gli dà una mano: li lucida, li illumina, insomma li accetta e li fa accettare.
Non tutti, però. Trasforma solo i corpi estranei che le sono utili. E se, mettiamo, il corpo estraneo è il denaro sporco, quello, per chiarirci, che proviene dalle periferie, la città sa come pulirlo, impacchettarlo, sistemarlo, investirlo.
Il fatto è che a Caserta ognuno di noi ha un amico che lavora in banca e ci dirà che in questa o in quella banca circola tanto di quel denaro sporco che non puoi avere idea, e forse per questo Caserta ha avuto e ha tante banche, quasi una proliferazione, una sporogenesi che confonde e rende difficile il manifestarsi di un'anomalia, e allora: Banca d'Italia, Banco popolare di Napoli, Banca popolare dell' Irpinia, Banca del Fucino, Banca nazionale del lavoro, Cariplo, Banco ambrosiailo veneto, Banco di Napoli, Banca commerciale, Banco di Roma, Banco dei pegni, Deutsche Bank, Banco di Santo Spirito, Banco San Paolo di Torino, Banca Fideuram, Banco ambrosiano, Monte dei paschi di Siena, American Banke ce ne sono ancora, sia perché ognuna di queste citate ha più filiali, sia perché spuntano a ritmo imprevedibile.

Come a Villa Literno si costruiscono case, casi a Caserta spuntano le banche. Sono tutte molto belle, protette da architetture postmoderne, blindate ma con gusto. Gli sportelli maggiormente frequentati sono quelli che trattano gli investimenti. Perché a Caserta ci sono parecchi lettori del «Sole 24 ore», e di conseguenza molti investitori, soprattutto commercianti e liberi professionisti. Ora, siccome ogni anno veniamo a sapere dal nostro commercialista di fiducia, dalle cronache dei giornali locali o dal chiacchiericcio di strada che il nostro dentista guadagna meno di noi che facciamo gli impiegati, o quel negoziante che piange miseria ma acquista la macchina nuova due volte all' anno dichiara un reddito più basso della sua commessa, allora sospettiamo che gran parte di questi soldi non dichiarati si sono trasformati in Bot o Cct, o in altre forme di deposito, e cioè con molto cinismo gli investitori casertani hanno affamato, e continuano a farlo, l'Italia due volte: una volta non pagando le tasse, e una seconda volta obbligando lo Stato a versare cospicui interessi su soldi che gli appartenevano di diritto. Il fenomeno prosegue tutt' oggi con densità vasta e preoccupante. Non è raro vedere banchieri, il più delle volte ex laureati in Economia e commercio, lasciare la banca, associarsi a uno studio di commercialisti e diventare agenti di cambio. Ovvero essere i confessori degli investitori, conoscere i loro peccati verso l'erario e redimerli investendo in eterei e sfuggenti titoli azionistici.

Capita sovente che passi per una strada e vedi una banca che l'altro ieri non c'era. Come se nessuna società bancaria volesse esimersi dall' aprire una filiale a Caserta.
Tanto di quel denaro sporco, dice il nostro amico, ma anche tanto denaro, denaro depositato, investito, convertito in giroconti esteri, giocato sui tavoli dei casinò internazionali, nazionali e locali. Denaro distribuito attraverso sportelli Bancomat accoglienti, illuminatissimi, sportelli dalle tastiere consumate per l'uso dopo appena un mese, che hanno il tasto «esegui» praticamente illeggibile a forza di batterci il dito per confermare le operazioni di prelievo e il tasto «annulla» (1'operazione) intatto, cosi come uscito dalla fabbrica. Ma anche denaro prestato, e, per inciso, di fianco alle banche ci sono le finanziarie, con nomi incredibili, lunghi e impronunziabili: in numero sono il triplo delle banche, hanno targhette dorate per presentarsi con creanza volantini pubblicitari per promuovere i loro prestiti a tassi agevolati, ne hanno chili e chili, da infilare nelle cassette postali, sotto il tergicristallo delle macchine posteggiate, o da buttare come fossero coriandoli per le strade. Finanziarie che aprono e spariscono, poi riappaiono, diventano ex, si rinnovano, si trasformano.
Tanto di quel denaro sporco, dice il nostro amico. E capita pure che ill)ostro amico sia un commercialista e, in camera caritatis, ci dica che quel negozio, o quel locale, proprio quello che ha aperto da poco, dove tu vai a prendere il tramezzino, e dove compri vestiti «veramente originali», svolge, in realtà, attività di riciclaggio di denaro sporco. Oppure il proprietario di quell'altro negozio, proprio quello bellissimo, dove tu vai sempre, si è indebitato con le finanziarie, perché alcune di queste hanno tassi da usurai, e una volta accettati non si possono denunciare.
Tanto denaro per tanti negozi, Caserta città di commercianti, da generazioni e generazioni, ma anche estemporanei, che aprono e chiudono, chiudono e riaprono un altro negozio. Caserta carissima che salassa chi compra, ma lo fa con gusto e con stile appena un gradino più in basso dei vari Armani, Versace. E per onorare questo stile, quei casertani che hanno studiato e viaggiato, magari a Londra, a Parigi, a New York, appena possono investono quella cultura nel commercio, cosi se hanno visto le opere di Philippe Starà:, il Louvre, o il Guggenheim Museum, mettono su un negozio postmoderno, un po' museo e un po' negozio, tutto vetrina e trasparenza, charme e seduzione. E cortesia inquinata di tanto in tanto da un dialetto sboccato. Oppure vendono oggetti di design e di lusso, lo fanno con voce bassa e sussurrata, quasi volessero differenziarsi da Concetta Mobili, che invece colta non è, e grida dal televisore in un tormentato dialetto demagogico per vendere l'invendibile ai novelli e poveri sposi dell'hinterland, a prezzi stracciati e rate infinite.
Il magazzino di Concetta Mobili lo trovi sulla strada nazionale Appia:

La via Appia nel tratto Caserta-Benevento si presenta come una delle strade più brutte d'Italia. La carreggiata confina per quasi tutto il percorso, tranne per brevi tratti, con costruzioni abusive. Solo che lungo 1'Appia questa pratica non riguarda la costruzione di case ma l'ampliamento di negozi e depositi preesistenti, dei quali si ignora se, a suo tempo, siano stati costruiti rispettando piani urbanistici. Se un commerciante ha un negozio, userà il marciapiede per esporre le merci, le sposterà giorno dopo giorno verso la carreggiata, le esporrà infine sul limite, tra il termine del marciapiede e il bordo della via. Avrà cura di proteggere la merce con tettoie di eternit, oppure circonderà 1'esposizione con una barriera di fili, di corda o metallo, e durante i periodi di festa si doterà di generatore elettrico e illuminerà il tutto. Dopo 1'estensione del negozio sorge il bisogno di pubblicizzare la nuova struttura. Quindi si elevano insegne in verticale. Sicccome 1'Appia è molto lunga e antica, chi installa un'inseegna ex novo avrà premura di alzarne una piti grossa di quella dei suoi vicini, cosi che sia visibile. Dunque, piti grossa e piti luminosa, e cioè colorata con toni cangianti: giallo papera, verde pisello acceso, fucsia da discoteca. La via Appia quindi introduce il concetto di speculazione in grande,  può essere un punto di osservazione dell' andamento del mercato piti esatto della Borsa di Milano.

«Appena usciti da Caserta Nord svoltate a destra, dopo cinquanta metri troverete il vigile luminoso: siete arrivati da Concetta», dice il testo pubblicitario. A giudicare dai mobili, nel magazzino di Concetta si respira aria di spazio. Tutti gli arredi sono enormi, costruiti in legno massiccio e pesante, eppure tendono a gonfiarsi, come volessero spiccare il volo.

A Caserta, a giudicare dai negozi di arredamento, la differenza tra cultura alta e cultura bassa è rappresentata da un saldo di volume. Nel senso che gli arredi venduti nei negozi del centro tendono ad assottigliarsi, quasi a sparire e nello stesso tempo sono più luccicanti, per via delle vernici brillanti o della copertura in alluminio_ Ci sono proprio nel momento in cui tendono a sparire, vivono cioè una natura paradossale rafforzata anche dal binomio austerità e rigore, si, ma da acquistare a prezzi esosi. Mentre via via che dal centro si passa in periferia, gli arredi tendono ad aumentare il proprio volume, e man mano che aumenta la vicinanza con i margini periferici, al volume già gonfiato aggiungono stucco brillante e fregi, in sintonia con un barocco manierato.

Sarà per questo che i comò presentano delle anne rigonfie. I letti hanno baldacchini enormi che si tendono ad arco, le sedie braccioli la cui stoffa si arrotola su se stessa più del necessario, tessendo ghirigori a vortice, quasi fossero cechi da ipnotizzatore che aggrovigliano 'le spire. E difficile spiegare la sinuosità di queste linee ricurve, che trasformano i piedi, il dorso e le pareti laterali dei mobili in anse. La rotondità come elemento etereo, come un grasso di animo leggero. Essere gonfi, cioè pieni, equivale, secondo ciò che i mobili ci suggeriscono, a impossessarsi dello spazio, un modo per proiettarsi nella vita verso plurimi punti di fuga. Oppure, i rigonfiamenti richiamano le linee delle mongolfiere e allora sottintendono la conquista del cielo tramite lenta ascensione. L'identificazione tra mobili e (potenzialità della) vita è in questo caso completa, della stessa Concetta non ricordiamo il cognome, essendo questo sostituito dal sostantivo Mobili. Chi compra da Concetta o è povero, e si indebita pure la terra - e da questi Concetta si fa chiamare mamma, ma consiglia di portare lo strumento - oppure è ricco ma non legge le riviste di designo In entrambi i casi compra volumi di spazio e non mobili funzionali, mette in scena una rappresentazione di agio e ricchezza. E Concetta che viene dai bassi di Napoli recita la napoletanità abbassata di tono, evocata dai continui spettacoli pubblicitari che le Tv locali mandano in onda, e che si fondano su rifacimenti di sceneggiate in chiave commerciale. Concetta sembra dire, con i miei mobili si dà agio ai bassi, e si dà spazio ai nuovi ricchi, ma tutto è fondato sul grande cuore di Napoli, perciò puro e sincero. La stessa Concetta assomiglia a un cuore scoperto, pulsante, solare e impulsivo, o a un cioccolatino. Ne consegue, quindi, una produzione autoctona non derivata dall' omologazione ai modelli correnti, ma dall' esasperazione di questi: l'agio è più agio dell' agio, gli armadi più grandi degli armadi comuni. Il volume è più ampio di tutti i volumi, è un ipervolume che avvolge e spesso costipa, spinge ai margini le persone. E Concetta deve intuire questa sensazione, perciò grida per vendere i suoi prodotti.
I commercianti del centro, invece, con quelle voci altere e sussurrate, a volte modulate su un tono francese, tanto basso che devi tendere 1'orecchio aiutandoti con la mano piegata a coppa, mescolano nel discorso «un attimino» con 1'architettura organica di Frank Lloyd Wright. E vendono il pregiato, il raffinato: cucine cosi originali che ce le hai solo tu. Vendono le Bulthaup, orgogliosi di dire che a Caserta c'è chi spende anche cinquanta milioni per una cucina. Città di ex barbieri, e di ex parrucchieri, che adesso sono diventati artisti o scultori del capello, hanno messo su atelier eleganti e ti accolgono in sale drappeggiate con rossi porpora, o arredate in high-tech, bianche, fredde, essenziali. E quando sei seduto sulle loro sedie, quasi sdraiato, comodamente massaggiato, incensato, rilassato dalla musica di sottofondo, con la coda dell' occhio scorgi la tariffa per un taglio di capelli e affondi le unghie nei braccioli di pelle della poltrona, sussurrando in corpo: Madonna, che prezzi. Giuri a te stesso che chiederai lo scontrino fiscale, ma quando sei li li per pagare e ti prepari a chiedere la ricevuta, accade che 1'ex barbiere ti dica: mi saluti suo nonno, suo padre, o sua madre, sua sorella, perché a Caserta, purtroppo, c'è sempre qualcuno che conosce qualche tuo parente, allora sorridi e dici: come no, grazie. E cedi, non rispetti la promessa: lasci perdere lo scontrino. Uscito dal negozio, ti arrabbi con te stesso, ti dai del coglione, ti senti complice del debito pubblico italiano, poi incontri qualcuno che ti dice: bei capelli, chi te li ha fatti? Tu sorridi ancora, pensi che in fin dei conti il tuo barbiere è un artista e senti di perdonarlo, magari la ricevuta la chiederai la prossima volta. Sicuramente. Pensi, in fondo in fondo, che un taglio cosi originale merita un comportamento altrettanto originale. Finché, giorno dopo giorno, per punizione, ti cresce una vertigine improvvisa, cosi arcaica e inestirpabile che non se ne va più via.

Ci sono quei barbieri casertani che camminano come modelle su passerella. Un braccio piegato ad angolo acuto e il gomito attaccato al bacino, conservano, cioè, movenze impettite a metà tra un dandy e un effeminato. Non appena entri ti squadrano e ti sanno dire chi sei ora e chi potresti diventare se gli lasci fare il taglio che vedono adatto a te. La loro eleganza, assemblata su pochi gesti esemplari e ordini dettati con voce melliflua, è rovinata durante le ore serali, quando, stanchi, lasciano spuntare i boxer dai pantaloni o addentano un'improvvisa rauca bestemmia, perché, ad esempio, dispiaciuti che il figlio non vuole più studiare e preferisce lavorare come parrucchiere. Dunque, invece di andare a scuola viene al negozio dalla mattina alla sera. Invece loro non vogliono. I ragazzi di fatica già li tengono, e il figlio a questo mestiere non si deve accostare. I ragazzi di fatica, invece, vengono assoldati con poco e niente e spesso licenziati. A Caserta gli aiuto barbieri non si trovano facilmente. Quelli disposti a lavorare vengono dai paesi dell'hinterland. La mattina presto prendono il pullman e tornano al paese dopo le nove di sera. Non ricevono contributi ma spesso sono assoldati al nero, perché ci sono quei barbieri casertani che hanno tutta una filosofia al riguardo. Il loro pensiero è che con i contributi versati all'erario i ragazzi non riusciranno a garantirsi una buona pensione per la vecchiaia. Quei barbieri casertani che invece sono generosi e hanno' esperienza delle cose della vita preferiscono datagli una percentuale maggiore sulle mance, così che, se i ragazzi sono previdenti e saggi, possono fin da giovani stipulare una buona polizza pensionistica privata. Altro che contributi statali. E poi, compilare i moduli per i contributi è abbastanza faticoso e dà seguito a tutta una serie di adempimenti difficili da tenere a mente, dunque meglio fare di testa propria. I ragazzi sono avvertiti che se un controllo da parte degli ispettori del ministero del Lavoro li dovesse sorprendere nell' atto di lavare i capelli o fare altro, devono rispondere che sono li nel negozio per caso: oggi non sono andati a scuola e sono venuti a perdere tempo dal barbiere. Non si sa se questa storia funziona o meno, ma certo è che davvero i ragazzi di barbiere perdono tempo. Accade, infatti, che il viaggio di andata e ritorno dal paese ogni mattina si fa stancante, dunque qualche volta i ragazzi si alzano tardi, perdono il pullman e arrivano in ritardo, cosìuna, due volte, finché la terza volta il barbiere non gli dice: e se devi venire a quest'ora è meglio se non vieni proprio più. Dunque il ragazzo di barbiere non verrà più, e la mancia, affinché possa continuare a stipulare la polizza privata che gli regali un futuro migliore, dovrà adesso chiederla a qualche altro barbiere.
Caserta che si vanta della sua merce, che dice in

coro: qui a comprare vengono addirittura da Firenze. Caserta che sa fare affari e se, ad esempio, acquisti un televisore e lo paghi, mettiamo, ottocentomila lire, e sei orgoglioso dell' acquisto, troverai sempre qualcuno che ti dirà: ma quale affare? Se venivi con me ti portavo da uno che conosco io e l'avresti pagato la metà. C'è sempre qualcuno che conosce qualcun altro che fa risparmiare la metà. Caserta che negozia, insomma, contratta. E che protegge la sua merce rivolgendosi alle ormai innumerevoli vigilanze private, che come prima cosa attaccano gli adesivi con il nome dell'agenzia di vigilanza sulle vetrine dei negozi, e sembra quasi un modo pulito per marcare il territorio. Agenzie i cui vigilantes percorrono il corso in sella a Yamaha 650 enduro, imbardati con giubbotti scuri, anche d'estate, caschi bianchi, guanti neri e occhiali Rayban da pilota
militare, smanettando gas a ogni incrocio, e guardando torvi lungo tutto il percorso. Vigilantes che illuminano, durante la notte, con fari potenti le vetrine dei negozi, e li puntano sui passanti che hanno la cattiva idea di stazionare, per un motivo o per l'altro, davanti a una vetrina. Una vigilanza a cui bisogna ricorrere, perché si dice: lo Stato è assente e non ci protegge. Ma si dice anche che qualche agenzia non protegge, taglieggia - sarebbe a dire che il pizzo si fa meno violento, si addolcisce, si fa istituzione, stato di cose.

Alcuni urbanisti e architetti casertani sostengono la validità di un certo esperimento empirico. Suggeriscono di chiudere gli occhi non appena si entra nel territorio periferico. Ebbene, seppur accecati, è facile provare a immaginare la grana del tessuto urbano - le strade che lo attraversano, il materiale che lo compone, la struttura delle case - semplicemente ascoltando la lingua di quei luoghi. Alla povertà linguistica di un dialetto ostile e di difficile traduzione corrisponderebbe una povertà architettonica, come se segni linguistici poveri generassero segni architettonici altrettando poveri: quel tessuto urbano ha ancora il sapore di un dialetto agricolo, violento e discriminatorio. Cosi . come una lingua inceppata anche alcuni elementi architettonici si ripeterebbero in maniera coatta e stanca, senza possibilità di fughe o diverse soluzioni Non farebbero eccezione le ormai famose case dei camorristi. Nel loro sfarzo sarebbero niente altro che la derivazione meno colta di tanti progetti di famosi architetti. In questo caso gli urbanisti e gli architetti casertani consigliano per avere un'idea delle case dei camorristi di leggere gli inserti settimanali, come «D la Repubblica delle donne», osservare i progetti e da questi derivare solo alcuni segni, i più sfarzosi, amplificando ancora di più il loro grado.
E se, invece, il nostro amico è un giudice, magari giovane e volenteroso, ci dirà che è stufo di camere caritatis, del «si dice che». E di accumulare mezzi sospetti, di non riuscire (sempre) a trovare le prove, e non solo per il clima di omertà, diffuso e capillare, ma perché quello che è proprio difficile da smascherare sono queste facciate senza spigoli, queste simmetrie, questi angoli retti. Queste facce pulite.
Qui, i vantaggi che questo comodo ordine porta più o meno a tutti sono enormi, e per conservarli, per accrescerli, si è disposti a lavorare di fantasia, a inventare look stravaganti, travestimenti impensati. A Caserta, siamo disposti a spendere un capitale per una faccia pulita e un'ideologia da benpensante.
Accade a volte che tutti i sospetti accumulatisi nel tempo comincino a essere oggetto di indagini. Vengono fuori elementi davanti ai quali non si può arretrare. Storie di connivenze tra camorra e politica elementari e diffuse. Dunque, può accadere che si prepari e, poi, si apra un maxiprocesso. Accade che ogni processo di camorra, in ragione della stessa struttura della camorra e soprattutto a causa dell' assenza di un linguaggio, per cosi dire, scientifico del pentito di camorra, ogni processo deve prima di tutto interpretare un linguaggio che non è stato né potrà mai essere codificato. Accade anche che il processo ragioni e discuta su eventi accaduti anni addietro. Eventi che spesso rappresentano e inquadrano situazioni ormai modificate o estinte per cause naturali. Per questo è impossibile limitare il danno al presente, perché quel fatto criminale ha già agito e modificato la struttura sociale in maniera irreversibile. La cosa preoccupante è che questo genere di maxiprocessi debba esaminare indagini sospese, prove incomplete e raffronti lontani, linguaggi di pentiti che alternano momenti linguistici visionari a momenti di realismo coatto e, ancora, documenti e ipotesi di lavoro diversi, duplicazioni di testimonianze tra loro discordanti. Secondo la procedura del codice penale, se un imputato ha subito due processi dal primo dei quali è stato condannato, mentre dal secondo è uscito assolto, vale per la giustizia quello in cui si è decretata l'assoluzione. Siccome, trattandosi di camorra, spesso l'imputato è il presunto responsabile di più atti criminali, incastrarlo diventa difficile. La stessa dinamica si può ripetere nel caso si tratti dei pentiti. Insomma, il Pubblico ministero deve esaminare tutto il materiale stratifiti le vetrine dei negozi, e li puntano sui passanti che hanno la cattiva idea di stazionare, per un motivo o per l'altro, davanti a una vetrina. Una vigilanza a cui bisogna ricorrere, perché si dice: lo Stato è assente e non ci protegge. Ma si dice anche che qualche agenzia non protegge, taglieggia - sarebbe a dire che il pizzo si fa meno violento, si addolcisce, si fa istituzione, stato di cose.

Alcuni urbanisti e architetti casertani sostengono la validità di un certo esperimento empirico. Suggeriscono di chiudere gli occhi non appena si entra nel territorio periferico. Ebbene, seppur accecati, è facile provare a immaginare la grana del tessuto urbano - le strade che lo attraversano, il materiale che lo compone, la struttura delle case - semplicemente ascoltando la lingua di quei luoghi. Alla povertà linguistica di un dialetto ostile e di difficile traduzione corrisponderebbe una povertà architettonica, come se segni linguistici poveri generassero segni architettonici altrettanto poveri: quel tessuto urbano ha ancora il sapore di un dialetto agricolo, violento e discriminatorio. Cosi come una lingua inceppata anche alcuni elementi architettonici si ripeterebbero in maniera coatta e stanca, senza possibilità di fughe o diverse soluzioni Non farebbero eccezione le ormai famose case dei camorristi. Nel loro sfarzo sarebbero niente altro che la derivazione meno colta di tanti progetti di famosi architetti. In questo caso gli urbanisti e gli architetti casertani consigliano per avere un'idea delle case dei camorristi di leggere gli inserti settimanali, come «D la Repubblica delle donne», osservare i progetti e da questi derivare solo alcuni segni, i più sfarzosi, amplificando ancora di più il loro grado.

E se, invece, il nostro amico è un giudice, magari giovane e volenteroso, ci dirà che è stufo di camere caritatis, del «si dice che». E di accumulare mezzi sospetti, di non riuscire (sempre) a trovare le prove, e non solo per il clima di omertà, diffuso e capillare, ma perché quello che è proprio difficile da smascherare sono queste facciate senza spigoli, queste simmetrie, questi angoli retti. Queste facce pulite.
Qui, i vantaggi che questo comodo ordine porta più o meno a tutti sono enormi, e per conservarli, per accrescerli, si è disposti a lavorare di fantasia, a inventare look stravaganti, travestimenti impensati. A Caserta, siamo disposti a spendere un capitale per una faccia pulita e un'ideologia da benpensante.

Accade a volte che tutti i sospetti accumulatisi nel tempo comincino a essere oggetto di indagini. Vengono fuori elementi davanti ai quali non si può arretrare. Storie di connivenze tra camorra e politica elementari e diffuse. Dunque, può accadere che si prepari e, poi, si apra un maxiprocesso. Accade che ogni processo di camorra, in ragione della stessa struttura della camorra e soprattutto a causa dell' assenza di un linguaggio, per cosi dire, scientifico del pentito di camorra, ogni processo deve prima di tutto interpretare un linguaggio che non è stato né potrà mai essere codificato. Accade anche che il processo ragioni e discuta su eventi accaduti anni addietro. Eventi che spesso rappresentano e inquadrano situazioni ormai modificate o estinte per cause naturali. Per questo è impossibile limitare il danno al presente, perché quel fatto criminale ha già agito e modificato la struttura sociale in maniera irreversibile. La cosa preoccupante è che questo genere di maxiprocessi debba esaminare indagini sospese, prove incomplete e raffronti lontani, linguaggi di pentiti che alternano momenti linguistici visionari a momenti di realismo coatto e, ancora, documenti e ipotesi di lavoro diversi, duplicazioni di testimonianze tra loro discordanti. Secondo la procedura del codice penale, se un imputato ha subito due processi dal primo dei quali è stato condannato, mentre dal secondo è uscito assolto, vale per la giustizia quello in cui si è decretata l'assoluzione. Siccome, trattandosi di camorra, spesso l'imputato è il presunto responsabile di più atti criminali, incastrarlo diventa difficile. La stessa dinamica si può ripetere nel caso si tratti dei pentiti. Insomma, il Pubblico ministero deve esaminare tutto il materiale stratificatosi negli anni. Un carico di lavoro che visti i problemi quotidiani e banali dei magistrati, spesso paralizza la loro capacità di vaglio e di indagine. Tuttavia, negli ultimi maxiprocessi si sono redatte sentenze di migliaia e migliaia di pagine. Si è preferito, allora, vista l'impossibilità di leggere, esaminare, provare tutto ciò che era da provare, puntare su un'accusa larga che coinvolgesse più imputati. Il processo si instrada, cioè, su una dimensione statistica, di grande effetto pubblicitario, ma, cosi facendo, elimina poi per la legge dei grandi numeri la disciplina di indagine sui singoli e più pericolosi atti. Eppure il maxiprocesso aveva in origine una funzione nobile. Rappresentava la necessità di una civile chiamata in correità. Si voleva cioè coinvolgere in un' accusa ampia più persone per evidenziare e stigmatizzare il clima camorristico. Era, ad esempio, necessario fare capire che in un certo ambiente il racket non agisce sempre per le vie classiche. Non sempre il camorrista richiede violentemente e direttamente il pizzo all'imprenditore. Non sempre c'è una prova diretta e un'accusa precisa a carico di qualcuno. In un certo ambiente, per via del clima di intimidazione diffuso, e di tutto il linguaggio confuso e ambiguo che lo fonda e lo nutre, a volte è lo stesso imprenditore che, per paura, chiede la protezione del camorrista. Dunque, come dire, è lo stesso imprenditore che regala soldi alla camorra. A volte l'imprenditore diventa complice, altre volte è solo vittima. Sono complicazioni che esigono una vista lunga e una propensione a esaminare con la stessa attenzione il contesto e l'atto singolo, il particolare e l'universale. Il risultato è che spesso i maxiprocessi allestiti da alcuni Pubblici ministeri, vengono in sede di dibattimento smontati pezzo per pezzo dai giudici e finiscono con molte assoluzioni, alimentando un clima di impunità diffusa. Accade inoltre che quei Pubblici ministeri che avevano avviato il maxiprocesso facciano carriera pur avendo fallito. Quello che resta paradossalmente a loro vantaggio non è il fallimento del maxiprocesso ma l'elemento statistico che lo ha fondato: se c'erano cento accusati e se di questi cento solo venti sono risultati davvero colpevoli, quello che passa a fondare la memoria collettiva e quindi giuridica sono i cento accusati.

Ci sono questi casertani che per anni si sono goduti con spensieratezza la città, hanno fatto la fila davanti ai nuovi locali, comprato vestiti nei raffinati negozi del centro, partecipato a vernissage, feste private e privatissime, giocato a carte, sono saliti in sella a potenti moto e su e giù per l'intera settimana hanno percorso gran parte delle strade della città, hanno consumato quello che potevano consumare, bevuto aperitivi alcolici, bibite energetiche, frequentato parrucchieri di grido ogni sabato mattina per farsi le piastre, comprato mutandine, «veramente simpatiche» da Intimissimi, si sono poi divertiti a prendersi in giro costruendo video del tipo «caserta burning» fatti apposta per youtube, hanno fatto questo oltre a partecipare alle inaugurazioni pomeridiane di nuovi locali arredati alla maniera «international style» mentre al calare della sera, per cena, sono andati a sedersi in quei ristoranti appena ristrutturati alla maniera neoborbonica.

A Caserta e nell'hinterland è di moda ristrutturare i locali alla maniera neoborbonica. Sembra siano in aumento le persone che vogliono mangiare e sposarsi, insomma festeggiare, nei locali (finto) neoborbonici. Questo interesse è politicamente trasversale, da destra a sinistra. Lo chiedono i ricchi e i poveri. In Campania il neoborbonico è di Stato, tanto è vero che la Sovraintendenza chiede che le ristrutturazioni vengano fatte alla maniera borbonica. Questo per due motivi, in parte per difendere una identità che bene o male ci fa da matrice; 1'altra per impedire che un architetto un pò più creativo sfiguri il paesaggio facendo «1' originalone». E tuttavia quello che si ottiene non è una lettura filologica dell' architettura borbonica. Non si preserva per cos1 dire un conio originale, ma si producono delle ridicole copie. Le pietre vengono chimicamente invecchiate, i colori devono per forza essere o grigio o rosa. Stessa cosa per quando riguarda le cornici e tutto l'apparato di scudi e stemmi. Se sei ricco puoi permetterti cornici in rilievo che spiccano fastosamente per cinque o sei centimetri; altrimenti ti devi accontentare di una cornice disegnata in bassorilievo. Ma non importa, basta che si conservi una vaga traccia borbonica.

Hanno fatto questo e altro ancora, quando all'improvviso si sono trovati coperti dai rifiuti.
Il fenomeno, in verità, non è sorto improvviso come un coniglio da un cappello di un mago, ma è stato spesso, e più volte, annunciato. Lungo le strade periferiche, di tanto in tanto, quei casertani che lavoravano fuori città potevano notare che dove c'era uno spiazzo vuoto, ovvero una accidentale rientranza o sporgenza della strada, li c'era una discarica. Passando e ripassando ogni giorno per quella stessa strada, notavano che la discarica occasionale andava via via crescendo; quando, poi, lo spazio non conteneva - per via del noto principio di impenetrabilità dei corpi - altri rifiuti, questi cominciavano a occupare la sede stradale e, come una linea continua, seguivano parallelamente la carreggiata. Si limitavano a chiedersi: ma non raccolgono? oppure commentavano scoraggiati: ma guarda che schifo!
Ora, il classico e noto sistema - ovvero la, periferia produce corpi estranei che il centro ripulisce
affinché tornino in periferia con più forza - questo sistema non ha funzionato, producendo nei casertani una sensazione strana: che stiamo forse diventando periferia?
Effettivamente, i segni del contagio si mostravano via via ovunque; e cosi, un bel giorno, in centro i cassonetti dell'immondizia si presentarono colmi e straboccanti. I sacchetti si disponevano in lunghe file o ammassi slabrati e le strade principali, quelle secondarie e terziarie (insomma l'intera rete stradale cittadina) erano caratterizzate dalla presenza di una sorta di trincea: i rifiuti.
Il contagio si è diffuso improvvisamente e c'è stato qualche casertano che ha telefonato ai vigili urbani perché, per l'eccessiva presenza dei rifiuti, aumentata dalla mattina alla sera, non riusciva più a uscire o rientrare a casa.

E ci sono quei casertani che, vista l'anomala situazione, hanno dichiarato: l'avevo detto io! se non si costruiscono termovalorizzatori, discariche a norma, se non ci occupiamo dei nostri rifiuti, poi, alla fine, questi ci sommergeranno e non riusciremo a rientrare nemmeno nelle nostre proprietà. Quei casertani erano stati a Vienna, magari in gita sul Danubio e avevano fatto caso a uno strano fenomeno: tra le offerte turistiche si poteva scegliere tra la gita sul Danubio, un giro al Kunsthistosches Museum e, cosa strana, una passeggiata all'inceneritore di Spitelau. Per quest'ultimo non bisognava andare lontano, si trova quasi al centro di Vienna. Nemmeno c'era la preoccupazione di vestirsi in modo appropriato, che so, con indumenti protettivi: anzi, i casertani notavano che si andava in gita all'inceneritore come se si andasse al parco. La struttura era allegra, bizzarra, sghemba, faceva simpatia, sembrava disegnata dai bambini. Si organizzavano perfino comitive scolastiche; e tutti a guardare (dalle ampie vetrate) come funzionava.
Cosi quei casertani tornavano in città e raccontavano di quello che avevano potuto vedere, di come, cioè, i viennesi imparavano, che il processo di smaltimento non nasceva da buone e astratte dichiarazioni di intenti ma da piccoli gesti quotidiani, gesti di responsabilità individuale. Il risultato è sorprendente, dicevano quei casertani, non solo dal punto di vista urbanistico. Perché la cosa importate non è tanto l'inceneritore in sé, ma che questo venga inserito tra il Danubio e il Kunsthistosches Museum. Che l'inceneritore faccia parte del paesaggio, non è solo un escamotage urbanistico, ma un progresso culturale, significa che il bello fuori di noi (piazze, palazzi, centro storico) e il brutto dentro di noi (rifiuti) non si escludono ma, anzi, questi due elementi fanno rima. Sono, infatti, fisiologicamente speculari: non si può rimuovere il più brutto dei due (i rifiuti) e confinarlo altrove, dove non dia fastidio. Anzi di più, siccome i rifiuti producono energia, produrranno introiti; questi ultimi, poi, torneranno alla comunità (scuole e asili costano meno che altrove).

E continuavano - perché dovevano per forza trattenersi in strada nell' attesa che i vigili liberassero almeno il portone dai rifiuti, - Vienna non è un caso isolato, ci sono inceneritori anche in altre città come Parigi, Milano, o in Basilicata.

Queste discussioni andavano avanti per molto tempo, sia perché nessuno veniva a liberare l'ingresso, e quei casertani erano costretti all'addiaccio, sia perché attiravano altri casertani che la pensavano in maniera perfettamente opposta: gli inceneritori non servono, sono pericolosi, producono diossina; il termovalorizzatore, poi, è solo un imbroglio linguistico, sempre di inceneritore si tratta. E contestavano i dati: non smaltiscono un bel niente, solo il 36 per cento dei rifiuti a Vienna.
C'erano anche quei casertani che nel sentire queste discussioni si avvicinavano incuriositi, ~ volte serravano un po' gli occhi quasi a volere mettere a fuoco quei dati che sentivano snocciolare. La quantità di diossina prodotta, l'inquinamento per lo smaltimento dei filtri, il rapporto costi benefici ... , ma, si chiedevano, come facevano a essere così informati sugli inceneritori e contemporaneamente così poco preoccupati dei sacchetti di immondizia che ostruivano le strade?
E se ne tornavano mogi mogi verso casa, con un sacco di domande irrisolte: come mai da noi è impossibile pensare a progetti simili (moderni, sicuri, civili) ? Forse, si dicevano tra sé e sé, guardandosi ogni tanto intorno (mentre il cielo si incupiva e la notte faceva un insolito pandan coi i rifiuti neri lasciati per strada) la risposta stava proprio nel territorio che si trovavano a percorrere.
Ripensavano ai loro nonni, a chi erano. Alla povertà diffusa, alla scarsa igiene, alla voglia di acquistare la casa di proprietà. Ma questa famiglia, si dicevano quei casertani, con la sua ricerca di autosufficienza (e con queste case) si opponeva all'idea di società civile. E arrivavano alla conclusione che l'abusivismo spinto e tollerato da una parte, . dall' altra parte le condizioni di mutuo agevolato (a compensare le debolezze del welfare italiano) hanno generato una particolare forma di cultura: mobilitazione personale e dunque assenza di progetto politico. La conseguenza è stata l'indifferenza al «fuori». Ci siamo preoccupati solo per il «dentro». E veniva in mente la cura degli interni, tra l'altro, cosi spesso fuori tono (giardino privato, stucchi, colonne di gesso, lampadari voluminosi). E, rapiti da una visione, gli apparivano davanti agli occhi intere zone dell' entro terra napoletano, dove sulla stessa linea si susseguivano chilometri e chilometri di case senza neppure un abbozzo di marciapiede, di piazza o di uno slargo.
Un libro fotografico, Orbit, uscito tempo fa - fotografie delle Terra vista dallo Shuttle - riportava una curiosa annotazione: in un orbita notturna, lo Shuttle si trovò a passare sulla nostra penisola e un astronauta americano fotografò dall'alto dei suoi 245 chilometri di distanza il Vesuvio e l'Etna. Poi scrisse sul diario di bordo: siamo rimasti stupiti nell'osservare la quantità di luci che si inerpicano sopra il Vesuvio e l'Etna. Ma non sono vulcani ancora attivi? Dunque, la speculazione edilizia si vede anche dall'alto, anzi si vede meglio dall' alto. La visione dal basso ci ha così abituati e annoiati che raramente ci stupiamo. Sarà per questo che a Caserta si sprecano gli aneddoti (veri o inventati) che raccontano della speculazione edilizia diffusa. In alcune zone dell'hinterland la pratica è così intensa, repentina, che modifica il territorio più velocemente di quanto ci si possa aspettare. Ci sono quelli giurano che di ave,r perso l'orientamento: capita che a Natale vanno in un posto, ci tornano a Pasqua e si vedono davanti un quartiere nuovo: da dove è uscito? Si chiedono, ma a Natale non c'era. O mi sbaglio? C'era o non c'era? Forse mi sbaglio, forse ho sbagliato strada. Altri sostengono che il navigatore satellitare in certe zone dell'hinterland non serva. A Caserta c'è sempre un amico che racconta quello che è capitato a un altro amico: stava in un posto vicino Napoli, aveva programmato il navigatore (ultimo tipo, regalo della fidanzata) per tornare sull' autostrada ... Andava tutto bene, le indicazioni erano giuste, finché la vocina metallica non gli ha detto di girare a sinistra e lui, diligentemente, l'ha fatto: ha dovuto frenare all'improvviso! C'era una casa, cioè c'era la strada e in mezzo una casa, non si poteva passare. La voce metallica gli diceva di andare diritto, sempre diritto, fino all'incrocio, ma diritto c'era la casa. E per di più un signore l'ha anche rimproverato: ma dove andate, non vedete che c'è una casa? Ma che è, non ci vedete bene?
Il fuori non esiste, è solo un elemento di disturbo, da eliminare oppure da occupare.
A tavola, tristemente, quei casertani mangiavano senza voglia, perché sentivano nelle narici la puzza dei rifiuti; in verità avvertivano l'ala nera della depressione avvicinarsi come una cappa, per avvolgerli. Un rifiuto, dicevano quei padri all'improvviso, richiamando i figli che facevano storie perché volevano uscire, non è solo un rifiuto da interrare fuori di noi, il più lontano possibile. Le esperienze civili degli altri stati dimostrano che è una parte di noi da riutilizzare al meglio.
Ma i figli alzavano la testa dal piatto e contestavano al padre i dati: l'inceneritore di Vienna riclicava solo il 36 per cento, lo sapevano tutti, qui da noi nulla è possibile perché di mezzo c'è la camorra, la politica in combutta con la camorra,  la camorra in combutta con gli imprenditori. E tutto una combutta, come ai tempi del contrabbando, è tutto un complotto, come avviene da sempre; e si andava avanti cosi finché non arrivava l'ora di uscire perché c'era l'inagurazione del nuovo locale arredato alla maniera neoborbonica.
E c'erano anche quei casertani che dopo tanto parlare, contestare, proporre, cercare conforto, all'improvviso, una mattina, davanti la trincea di rifiuti che sembrava crescere sempre di più, crollavano, si arrendevano. Cedevano le. armi come se avessero avuto una folgorazione improvvisa. Giuravano che prima o poi avrebbero lasciato la città per trasferisi in Umbria, un piccolo paese con i contorni definiti, con poche cose utili e prontamente raggiungibili, e soprattutto con bassa densità abitativa, così potevano evitare di sentire le opinioni e i dati di tutti.
Altri casertani decidevano di restare, restare, restare, ma si sentivano impazzire. Un attimo dopo la tregua si facevano afferrare per pazzi. Andavano per strada e si sfogavano; o magari si trovano al ristorante e bastava poco perché partisse il loro sfogo, anche una cameriera che domandasse: la vuole un po' di mozzarella di bufala?
E qui, dopo un attimo di esitazione, partivano: ci dobbiamo avvelenare dunque? Poi cominciavano con lo sfogo. Dicevano: come è possibile tutto questo? E cominciavano come se fossero a un comizio, decisi a dire la loro: qui o si fa Caserta senza rifiuti o si muore.
Andavano avanti, incuranti della cameriera che stava ancora li davanti a loro con il taccuino pronto a segnare l'ordinazione, incuranti degli altri commensali che erano venuti al ristorante solo per togliersi lo sfizio di mangiare in un locale neoborbonico da poco ristrutturato; quei casertani, ormai distrutti, avvelenati, puzzolenti, erano decisi, vista l'impossibilità di risolvere la situazione, almeno a dire la loro.
Punto uno: se proviamo a fare un riassunto delle principali linee tematiche che attraversano il problema rifiuti, dicevano, possiamo subito notare che ormai tutti sanno quello che bisogna sapeere. Qua a Caserta, chiunque incontro ne sa più di me. Il filosofo, il giornalista, il macellaio, il mio barbiere, mio padre, mia madre, parenti lontani e vicini, cugini di ogni ordine e grado, tutti sono a conoscenza della cause del problema, mi parlano con competenza degli imbrogli dei consorzi, della nullafacenza dei commissari straordinari, degli articoli di Saviano, dell'incredibile onnipresente Bassolino, della camorra e di quelle discariche di proprietà della camorra, di quelli che erano colluusi, ecc.
Punto due: tutti forniscono la medesima analisi, segno che le cause del problema sono a tutti note tanto che qualunque casertano può mettere a punto una brillante inchiesta, stile Pulitzer.
Nel film di Matteo Garrone, Gomorra, c'è un dialogo molto illuminate: un trafficante di rifiuti (Toni Servillo) sposta i rifiuti tossici illegalmente da Nord a Sud (<<basta che l'operazione sia clean, ovvero carte a posto» dice l'industriale) e poi provvede all'interramento in terreni agricoli nella zona di Mondragone. Il trafficante di rifiuti ha con sé un aiutante che alla fine deciderà di ribellarsi. Il dialogo è appunto tra il trafficante e il suo aiutante. Il primo sostiene che è solo grazie a gente come lui che si deve l'ingresso dell'Italia in Europa, altrimenti le aziende per smaltire legalmente i rifiuti tossici si sarebbero indebitate, compromettendo il bilancio collettivo dell'impresa Italia. Solo dunque grazie allo stoccaggio abusivo, le aziende possono tenere i conti in ordine. Questo dialogo, ma del resto tutto il film, è una magistrale chiamata in correità. Utilissima per farci capire che la provincia campana, non è solo una zona ad alta concentrazione camorristica ma è diventata una sorta di trincea che da una parte si occupa di produrre prodotti che tutti gli italiani usano, soprattutto cocaina, e dall' altra provvede a interrare i debiti delle aziende alle quali interessa solo che le carte siano in ordine. In questa: trincea ci siamo dentro un po' tutti, chi più chi meno, con diversi gradi di relaziol1e e complicità; ci sono dentro quegli imprenditori del Nord che preferiscono non vedere dove vanno a finire i propri debiti, quegli agricoltori che per soldi mettono a disposizione il loro terreno affinché diventi una discarica abusiva e ci sono dentro soprattutto tutti quei politici che sanno e non agiscono. Questo grado di complicità con quella che Saviano chiama trincea è quello più importante e tuttavia, stranamente, il più trascurato. Alla fine la colpa sembra andare solo e sempre su questa maledetta genia che è la camorra, quando poi questa si alimenta non solo con le nostre complicità quotidiane, ma anche grazie alle complicità politiche.
Punto tre: nonostante il primo punto, sono quattordici anni che ci si crogiola nella fase «dell' emergenza», che tutti, non solo i linguisti, definiscono ormai un ossimoro e tutti, pure il mio barbiere, il macellaio, tutti dico, sanno che cos'è un ossimoro.

Tempo fa, in occasione di un' altra emergenza rifiuti, il museo campano (per coincidenza) si era apprestato a in agurare una mostra di Manzoni. Ora, quest'ultimo è un' artista contemporaneo che spesso (e forse a torto) viene ricordato per una singolare opera. Si tratta di un barattolo chiuso, ben sigillato, che reca un'etichetta con su scritto: «merda d'artista». Tralasciando sia le questioni tecniche (è vuoto o pieno il barattolo) sia quelle estetiche (è una buona o cattiva provocazione), ci si è subito resi conto che una mostra del genere, a Napoli, era un invito a nozze per tutti gli umoristi, i comici, gli specialisti delle barzellette su Napoli e sui suoi abitanti: vai al museo campano e ti trovi di fronte alla merda d'artista, esci per strada e trovi la stessa roba; certo, quest'ultima più reale, più pericolosa. Ora, noi lettori di libri, esperti d'arte, comuni cittadini, sappiamo bene che l'arte riflette la vita vera, che essa, l'opera d'arte, è capace, quando funziona, di farci riflettere, a prescindere dal tempo e dallo spazio, sulla vita vera. Dunque ci si è chiesti: chissà, la suddetta opera di Mannzoni, suo malgrado, potrà ben rappresentare l'attuale stato di degrado? La coscienza artistica imporrà a noi tutti una riflessione coscienziosa su quello che abbiamo provocato? Però poi è anche vero che, nella fattispecie, le strade di Napoli erano così piene di immondizia, così sature in ogni angolo, che pure la geniale rappresentazione artiistica manzoniana rischiava di avere il fiato corto. A Napoli non c'era differenza tra il dentro di un museo e il fuoori. Le due dimensioni, strada e museo, non solo si toccavano, ma offrivano la stessa merce.

Allora, continuavano quei casertani sfatti e avviliti, tanto che la cameriera aveva preferito tornare dopo per prendere l'ordinazione, se cosi stanno le cose, se tutti noi sappiamo tutto sui rifiuti, cosa, dunque, ci impedisce di affrontare una volta per tutte il problema? Come Amleto, che può tutto tranne adempiere al suo compito: uccidere lo zio e vendicare il padre (da questa impossibilità all' azione ha origine la sua nevrosi, secondo la lettura di Freud), così noi possiamo parlarne quanto ci pare senza trovare nessuna soluzione.
Punto quarto - e qui gli astanti si rendevano conto che quel casertano stava semplicemente iniziando di nuovo, daccapo. Si, d'accordo: i politici hanno colpe enormi nella gestione dei rifiuti e lo sappiamo; si, la camorra non è da meno: lo sanno tutti, nomi e cognomi; si, i consorzi pure: in molti ce l'hanno spiegato. Però forse dovremo abituarci a prendere le misure con un metro diverso: ci vuole un'indagine antropolgica, personalizzata, Caserta sta irreversibilmente invecchiando. Non parlo naturalmente dell' età media, né degli anziani, parlo della seria mancanza di prospettive che gli occhi dei casertani e dei napoletani esprimono con forza. Quegli occhi si illuminano solo per far costatare agli altri e ai noi stessi che tutto è perduto, la speranza dissolta. Quando si invecchia, nel peggiore dei casi, si diventa cinici, nel migliore liberi.
A Caserta, per esempio, notavano quei casertani orami seriamente alterati, si sta invecchiando nel più strambo dei modi, liberi di essere cinici e strafottenti del prossimo e del mondo. Perché, secondo loro, faceva una certa impressione passeggiare per la città, per dire, lungo via Gemito, e vedere da una parte del marciapiede lunghi, estesi, orizzontali, onnipresenti cumuli di immondizia e, poco distante, una moltitudine di giovani di varie età che fumavano erba a più non posso, ridendo sguaiatamente, urlando o modulando il tono su bassi gutturali. Questo significava solo una cosa: il rifiuto (inteso come prodotto di scarto) e la beata strafottenza convivono con rispetto reciproco: io non tocco te, tu non ti avvicini a me. Cosi tu (rifiuto) ti accumuli e io (giovane spensierato) me la godo. La cosa strana e che fa pensare e fa rabbia è che, secondo quei casertani impazziti, Caserta non sembrava soffrire per disoccupazione o redditi bassi o via dicendo.
Il fatto è che quei giovani lungo via Gemito hanno parecchi soldi in tasca, possono ricaricare il telefonino, comprare erba, cocaina e pasticche, birre, aperitivi alcolici, liquori strong e bibite energetiche; prendono la macchina per fare le vasche su e giù per quattro strade diritte e consumare benzina, senza preoccuparsi troppo né dell'inquinamento dai rifiuti o simili, né di dove vanno a finire quei soldi spesi in fumo. Ci sono i rifiuti li a poca distanza e nessuno di quei giovani che si sforzi di vedere il collegamento tra droga e rifiuti.
Che popolo con poca dignità, dicevano quei casertani nei momenti peggiori della crisi rifiuti, ma che popolo, in fondo, fortunato, quello che riesce sempre a sopravvivere ai propri rifiuti. Si chiude in una macchina di buona cilindrata, con sedili in pelle e casse che mandano musica a tutto volume e poi gira, gira in tondo per la città; e ubriaco, fatto, su di giri, diventa ignaro di tutto, dimentico di se stesso, della propria responsabilità nello stare al mondo.
Il fatto è che a Caserta si spaccia a tutte le ore; giovani e adulti, borghesi e operai, comprano droga, contribuendo cosi a finanziare gli svariati clan, i quali accumulano patrimoni immensi che poi, poverini, dovranno in qualche modo mettere a frutto. Una massa di soldi che certo non creano ricchezza sociale, anzi, vengono spesi per terribili speculazioni finanziarie e immobiliarie che passano, naturalmente, per la cattiva gestione dei rifiuti, per l'inquinamento delle falde ecc, ecc. Che ne parliamo a fare, tutti a Caserta sanno tutto, nessuno compra più mozzarella, tutti prendono latte che viene da fuori della Campania; ma queste pratiche sona blande precauzioni.
A noi, dicevano quei casertani, tutto questo non importa per davvero, ci preoccupiamo senza risolvere niente. Non ci passa per la testa che comprare droga equivale a finanziare un sistema che ci avvelena. Perché questi vecchi casertani - questa grandeur abbiente, - vogliono continuare a faare quello che finora ha fatto, cioè ridere e non provare a ribellarsi, tanto, ci si dice fra di noi (nei bar, nei ristoranti, alle feste, a tavola, nei locali neoborbonici come questo), stiamo per morire, che ci importa di chi resta?

E nell' assolo, quei casertani cominciavano a coinvolgere un po' tutti gli astanti, non solo quelli seduti al tavolo (tanto che le mogli o le fidanzate gli facevano segno di calmarsi, stavano dando spettacolo e bisognava ordinare almeno i vini) ma si rivolgevano adesso a un auditorio più vasto. Preferiamo, dicevano, in questo gioco da sballati, prendercela con Bassolino (colpevole 'certo), con la camorra (colpevolissima), con i termovalorizzatori (poco colpevoli), ma mai, optiamo per un gesto di dignità, individuale o collettiva che sia; rifiutare quelle azioni che ormai abbiamo capito si ritorcono contro di noi. Mai che ci mettiamo d'accordo su questi benedetti termovalorizzatori per capire se vanno fatti e come vanno fatti, o semplicemente, per lasciar perdere e allora convenire che, siccome siamo un popolo di puri e nobili, siccome ci piace sfilare assieme a Caruso e gridare contro la camorra, contro Bassolino, contro gli intellettuali e contro i termovalorizzatori, siccome siamo cosi, almeno conveniamo su un fatto: non vogliamo rischi.
E allora, che questi rischi, (a volte quasi si alzavano dal tavolo) se li prendano i tedeschi, gli olandesi, e mandiamoli là i nostri scarti, tanto i soldi ce li abbiamo o no? E paghiamo! Noblesse oblige! Cacciamo i soldi! E battevamo il pugno sul tavolo: tassiamoci ancora di più e prendiamoci perlomeno il lusso di dire: non abbiamo termovalorizzatori, non facciamo raccolta differenziata, non ci importa di niente, tanto mandiamo tutto in Germania, dove ci sono impianti gestiti da un solo uomo che seduto su una sedia, divide la nostra munnezza, la seleziona e la brucia; fa tutto questo mentre noi casertani e napoletani discutiamo insieme a Grillo sull'impatto ambientale dei termovalorizzatori, di come inquinano, di quanto inquinano, e intanto che ci danniamo a discutere, a tavola, per le strade, o lungo il percorso di un corteo, molti di noi, gli stessi impegnati in nobili battaglie, o i nostri figli, cugini di primo e secondo grado, zii e zie, comprano e spacciano e conservano droga e usano la macchina più che possono, mangiano soddisfatti come davanti a un banchetto di fine impero, dicharando in fondo in fondo: lasciateci divertire! insomma, non metteteci alle strette con queste scelte quotidiane.
Suvvia un po' di coerenza. Non veniteci nemmeno a parlare di raccolta differenziata, tanto c'è la camorra e Bassolino e i commissari straordinari ed è tutto un magna magna - scusateci vogliamo partecipare anche noi - non provate nemmeno a dire che i termovalorizzatori possono essere buoni strumenti per bruciare i rifiuti, basta mettere in atto procedure di sicurezza.

Ecco indicate alcune procedure consigliate per il buon uso dei termovalorizzatori: eliminare dall' alimentazione quei rifiuti che generano inquinanti, in particolare i metalli; mantenere, per quanto possibile, un' alimentazione costante in termini di massa e di potere calorico; ottimizzare l'uso del carbone attivo per l'assorbimento delle diossine e del mercurio e vari modi per combinare le diverse soluzioni di smaltimento, coinvolgendo soprattutto la Pubblica amministrazione che dovrebbe dettare reegole chiare e disciplinare questi principi nelle realtà locali, controllare soprattutto le imprese di smaltimento che devono essere certificate a livello comunitario - qualità/ambiente - ISO 9001/vision 200/ISO 14001 e, soprattutto, emas IL

Prima di tutto perché stiamo morendo e dobbiamo goderci gli anni che ci restano, poi perché le soluzioni proposte, come vedete, sono complicate, scoccianti e noi abbiamo altro da fare, e poi c'è Bassolino, la camorra ecc, ecc.

Ma allora, concludevano ormai con affanno: se cosi stanno le cose, che futuro potrà avere Caserta se noi padri, commercianti, artigiani, operai, arrchitetti, ingegneri, avvocati ecc, non proviamo nemmeno ad assicurare un minimo di conoscenza, cioè di dignità, alle generazioni future? La vogliamo risolvere o meno questa situazione? Altrimenti saremo in futuro costretti a dichiarare: siamo nella merda, ma ci piace tanto.
Poi quei casertani, sfatti, depressi, rinunciavano perfino a mangiare.

A Caserta, i rifiuti sono poi scomparsi dalla città, quasi da un giorno all'altro, per opera di Berlusconi. Se prima d'allora c'erano quei casertani che si lamentavano dell' apocalisse che era li li per arrivare, perché la quantità di rifiuti era tale - e soprattutto, cosi variegata la loro composizione (plastica, carta, vetro, solido, umido, materiali ferro si e altri pericolosi) - che non sembrava affatto possibile provvedere alla loro raffinazione e, di conseguenza, a uno smaltimento, secondo i canoni di legge, regolare e controllato. Insomma, ora quei casertani dovevano constatare che la città, da un giorno all' altro, era stata ripulita.
Cosa che sembrava impossibile, anche perché per quindici anni i politici avevano cercato, attraverso strumenti eccezionali, come la presenza di commissari con poteri straordinari e quindi unici responsabili della corretta gestione dello smaltimento dei rifiuti, di risolvere il problema. Ebbene, se i vari commissari non erano riusciti a far fronte né all'invasione dei rifiuti né allo spreco di denaro pubblico, non si capiva come, partendo da questo blocco cosi pesante e carico di problemi, si potesse risolvere la questione in quindici giorni, circa.
Ci sono allora quei casertani che si sono rassegnati. La provvidenza esiste e di tanto in tanto si manifesta. L'importante è il risultato ed è meglio non fare troppe domande in proposito. Altri invece hanno cominciato a chiedersi: ma dove sono finiti tonnellate e tonnellate di rifiuti definiti come «intrattabili» e che nessuno voleva prendersi? Come mai ora nessuno indaga sulla loro destinazione? Quei casertani hanno cominciato a sostenere che Berlusconi abbia cambiato alcune norme, proprio quelle che stabiliscono il diverso grado di trattamento dei rifiuti, in pratica derubricando rifiuti difficilmente (e tradizionalmente) trattabili a rifiuti ordinari e quindi, ora, smaltibili secondo i metodi ordinari.

La vecchia normativa prevedeva che a ogni tipologia di rifiuto fosse assegnato un codice, cosi che il rifiuto potesse essere identificato per qualità e pericolosità. La nuova normativa invece prevede che tutti i rifiuti che escono dalla gestione del sottosegretario abbiano un codice unico. In questo modo si sancisce una sorta di zona franca, in nome della quale un carabiniere se dovesse fermare un camion con rifiuti «particolari» non possa bloccare il trasporto né un giudice può emettere sanzioni, in quanto ora, i rifiuti si classificano solo per provenienza e non per tipologia. Sono poi segretati i siti di stoccaggio.

Il dove e il come, fanno parte di quelle domande che nessuno ha più voglia di porsi, visto che ora si può entrare a casa propria, mangiare nei locali  neoborbonici e in quelli arredati secondo i canoni dell' «international style» senza sbottare a tavola, visto che, tra l'altro, ora si può bere tranquillamente l'aperitivo o la bibita energetica senza chiedersi più se è il caso di gettare o conservarsi la lattina, visto che la vita è ripresa e il consumo anche e che, insomma, siamo alle solite.
Ora, quei casertani di sinistra che magari sono stati un tempo apocalittici e seriamente alterati visto
che non riuscivano nemmeno a entrare a casa perché doveva scalare una montagna di rifiuti, tanto che non potevano fare altro che sfogarsi durante le cene, questi casertani si sono presi un' altra questione.
La loro ossessione era, ora, ben rappresentata da una domanda: e perché non ci abbiamo pensato noi? Come mai per anni ci siamo domandati che fare senza fare? Come mai, sostengono ancora altri casertani di sinistra, i nostri politici hanno dato ordini sottobanco ai loro sottoposti di fare sparire i rifiuti con ogni mezzo e non si sono preoccupati di legalizzare pubblicamente questi mezzi? Come mai nei momenti più atroci, quando l'emergenza aveva prostrato 1'animo e lo spirito di tutti, quando i roghi liberavano diossina, le discariche pressate oltre il possibile producevano percolati inquinanti, come mai, dicevano quei casertani di sinistra, tutti noi discutevamo, a cena, per strada, nei bar, della quantità di diossina o delle nanoparticelle che potrebbe produrre un inceneritore dichiarando questa percentuale pericolosissima per la salute collettiva e intanto, alterati, innervositi, ansimanti per la discussione, respiravamo la diossina dei roghi e probabilmente mangiavamo alimenti prodotti da una terra non più sana? Che cos'era questa discrepanza tra sogni e realtà, tra teoria e fatti? Come mai come soluzione auspicavamo l'abolizione di qualsiasi tipo di rifiuti, attraverso un' attenta opera di selezione alla fonte? Come mai nessuno si chiedeva: ma realisticamente è un modello che può davvero funzionare, o stiamo semplicemente accettando l'idea utopistica che i nostri sogni siano migliori di noi?
E se quei casertani di sinistra per mestiere facevano gli architetti o gli urbanisti si lamentavano sostenendo che la situazione pre rifiuti e quella post non era in realtà cambiata, perché, in fondo in fondo, tutti i casertani rimangono legati all'idea della cura non certo a quella della manutenzione; tutti i casertani aspettano il dottore che guarisca con creativa genialità i malanni, ma nessuno di loro si applica con costanza ordinaria alla prevenzione. La differenza, dicono quei casertani architetti, è tutta tra fisiologia e patologia. Preferiamo la patologia perché c'è più gusto a commentare il danno fatto, piuttosto che a indagare sulla fisiologia, cioè sul come funzionano le cose, in quanto, ripetono quei casertani, spesso è la nostra ignoranza sul buon funzionatnento a produrre il cattivo funzionamento.
E mentre spiegano (nei bar, agli angoli delle strade, alle cene a casa tra amici o nei locali neoborbonici) la differenza sostanziale tra patologia e fisiologia, mentre si affannano per fare capire ai casertani che bisogna lottare per la fisiologia, altrimenti le nuove generazioni cresceranno senza speranza, finiscono per tracciare un bilancio e per sottolineare che quel territorio non è cambiato in meglio, anzi è peggiorato, perché è un indistinto baluginio di luci, una città esplosa.

Non solo, il territorio casertano si può riassumere nell'espressione «città diffusa». A nord est da tempo la città è esplosa, la campagna ha raggiunto la città, proprio come avviene nell'hinterland campano. La cultura cattolica ch,e soprattutto a nord est, aveva voluto la separazione tra campagna e città, perché quest'ultima era luogo di tentazione, alla fine ha ceduto. Pian piano le case di campagna sono diventate villette a schiera e la campagna si è avvicinata alle tentazioni cittadine. La città diffusa ormai è un modus vivendi, tanto che sembra inutile opporsi più di tanto ed è poco produttivo.

Città diffusa, dicono quegli architetti casertani, una vera manna per i rifiuti. E, insistono gli architetti e gli urbanisti, alcune delle sue propaggini risultano cosi dense (non solo in senso abitativo) che è possibile parlare di insieme Q. Un concetto matematico. Si rappresenta con l'insieme Q un insieme tutto pieno. Il pieno è cosi pieno che nemmeno uno spillo può entrare. Ciò significa che su questi specifici insiemi non è possibile lavorare, costruire una spazio pubblico, un marciapiede, una villa comunale o un termovalorizzatore. Perché è difficile anche scavare una buca per sistemare una condotta dell' acqua, un cavo elettrico, perché non c'è spazio, perché il prossimo tuo non ti vuole e perché, ancora, il tuo prossimo ti vuole solo se intravede un beneficio economico per il suo singolo io.
E ci sono quegli architetti che di notte fanno cattivi sogni: vedono una serie d'insiemi Q che li tormentano. Cosi la mattina, al risveglio, si concentrano per trovare il modo di eliminare la possibilità che altri e più insistenti insiemi Q si formino nel tempo. Arrivano alla conclusione che l'insieme Q è il risultato di tre influenze nefaste: a) l'influenza nefasta dei napoletani, b) l'influenza nefasta degli americani, c) l'influenza nefasta delle villette a schiera.

Tranne eccezioni, là dove sono costruite villette a schiera, lo spazio pubblico si riduce a pura facciata. In alcuni luoghi ora periferici, come Vermicino, a sud est di Roma, potete assistere quasi dal vivo a una trasformazione antropologica: un territorio agricolo sta lentamente cedendo il posto all'urbanizzazione. Gran parte dell'edilizia è privata e composta da villette a schiera. Sui terreni agricoli si coltiva per la maggior parte uva da vino, allevata a spalliera o a tendone. A prima vista, Vermicino appare, a tutti gli effetti, come lieta campagna: si sente il cinguettino di merli, beccacce e tordi. Le ville private appaiono di tanto in tanto: sono tutte belle, isolate e illuminate, con lunghi viali che introducono alle case. I giardini privati sono ben curati, spuntano taxus bacata perfettamente potati, magnolie, cipressi e pini, ciliegi e nespoli, siepi di ligustro che ornano gli interni. Poi canestri da basket in cortile, mansarde e cantine. Boxer terrier e persone in pantaloncini che raccolgono le foglie dal viale d'ingresso. A Vermicino, il bello è chiuso all'interno della villa, il brutto è pubblico. Sembra strano, ma le uniche due cose pubbliche visibili sono la scuola e la posta. Credo per ironia, vicino alla scuola, qualcuno ha piantato un paio di aceri negundo. Alberelli che resistono bene alla siccità e alle gelate, crescono in fretta ma sono di altezza media. In genere vengono piantati nei giardini per nascondere muri fatiscenti o costruzioni in disuso. A Vermicino sono stati piantati proprio di fronte alla scuola e, insomma, non fanno una bella impressione. Perché la particolarità delle foglie del negundo è quella di sembrare li li per appassire. A giudicare dai negundo, la Cosa pubblica arriva in seconda battuta, con notevole affanno. Invece, dietro i cancelli delle ville a schiera, c'è un mondo fantastico; peccato che dallo Shuttle quest'ultimo non si veda.

Un territorio siffatto, dicono quegli architetti, non cade dal cielo, è solo il risultato di una serie di comportamenti che, sommati, hanno generano un'ordinaria indifferenza al pubblico. Ordinaria si, ma tuttavia cosi densa che non si capisce bene come lavorare per migliorare: come, infatti, modificare un insieme Q? Visto che la densità abitativa è cosi alta che non si può pensare a un cambiamento collettivo e, inoltre, ammesso che si lavori su un singolo manufatto e non sull'insieme, quest'ultimo non risulterà cosi stonato rispetto all' ambiente da non venire nemmeno preso in considerazione come modello da imitare?
Quegli architetti casertani, presi dalla discussione, finiscono cosi per diventare patologici e la tristezza si impadronisce fisiologicamente di loro. Diventano cupi, si chiedono in continuazione: ma io qui, come lavoro? .

Un interessante (e in un certo senso rivoluzionario) progetto di Beniamino Servino prevede, in un'area densamente abitata, quella di Ercolano, un' anomala soluzione al previsto interramento della ferrovia e alla costruzione di funzioni necessarie a quell' area: scuole, biblioteche, musei, alberghi. Vista la difficoltà (o l'impossibilità) di trattare con i molteplici soggetti che in quell' area avevano proprietà varie e quindi di contrattare l'esproprio per serre, pezzi di terra grandi come fazzoletti, piccole abitazioni abusive e svariate altre forme di proprietà, simboli di un degrado decennale e di singole storie stratificate e complesse che è impossibile modificare o orientare in un verso, Servino ha proposto la costruzione di strutture chiamate «pennate». Ovvero, strutture semplici con tettti spioventi e scheletro di calcestruzzo o metallo. All'interno di questo scheletro vengono posti a scorrimento dei gusci di rame ossidato che fungono da contenitore per scuole, biblioteche, uffici ecc. In questo modo le strutture passano sopra le ferrovia, sopra le case, sopra le serre, sopra le concerie, sopra le piccole fabbriche, sopra le strade. Sopra. Cosi sotto tutto rimane inalterato, la vita scorrre come sempre e con i suoi ritmi. Servino, dunque, è disilluso. Conosce molto bene il territorio che dovrebbe ospitare il suo progetto. Sa che non potrà combattere per ottenere altro spazio. Non potrà fondare una città ex novo, né spianare corsie tra le case, contrattare, insomma, quote millesimali con i condomini. Servino, inoltre, conosce il dolore che ha generato luoghi come questo; non solo, è ossessionato dalla matrice antica di questo dolore, vuole, architettonicamente parlando, dargli una misura, un peso, una struttura. Il suo interesse, non dunque la creazione tout court, ex novo, né la proclamazione di intenti, ma, più semplicemente, la rilettura, la riscrittura. Per questo studia la pennata. Un’ elementare forma di costruzione che nasce, appunto, dalla povertà. Se passeggiate per l'agro aversano, potete vedere le pennate, due falde spioventi, costruite con materiale di risulta con filo di ferro e chiodi e utilizzate come locale deposito. Le pennate sono il corpo elementare da rileggere, pena la rimozione. Le rimozioni generano nevrosi e questo territorio è colpito da un'implacabile forma di nevrosi. A forza di sfuggire a quella costruzione elementare, a forza di escluderla dai nostri ragionamenti, abbiamo costruito abitazioni, spazi insomma, che fingevano di essere altro. Non erano altro, bisognava saperlo: i nostri sogni non potevano essere migliori di noi. Le pennate di Servino hanno questa funzione: scoprire, analizzare e poi rileggere la materia che forma i nostri sogni.

E ci sono quei magistrati casertani che intervengono nelle discussioni, dovunque esse avvengano, nei bar, vicino al bancone mente si sorseggia un caffè o in piazza o seduti su un panchina e spiegano quello che, a proposito di quel territorio, dicono le inchieste. Perché quei magistrati alla fin fine sono d'accordo con gli architetti: non si può costruire nulla di nuovo e nulla che sia pulito e civiile, perché tutto quello che nasce, lo fa in un contesto già parecchio inquinato; c'è un insieme Q per tutti e visto che questo insieme annulla il collettivo in funzione del personalissimo tornaconto delll'io, gli svariati soggetti fanno a gara per partecipare. Quei magistrati, per esempio, elencano tuttte le norme contrattuali che una ditta aveva sottoscritto per aggiudicarsi la realizzazione di un termovalorizzatore. Le elencano una a una, comma per comma, come una vecchia poesia imparata a memoria e riescono a rispettare il testo, le rime, le assonanze, anche se stanno fumando o bevendo un caffè: punto a) obbligo di edificare sette impianti di produzione di combustibile derivato da rifiuti; b) obbligo di edificare due impianti per la termovalorizzazione del combustibile derivato da rifiuti nel pieno rispetto delle normative in materia; c) gestione degli stessi nell'osservanza delle prescrizioni dettate dalla normativa di settore richiamata nel contratto e negli elaborati progettuali facenti parte integrante del contratto stesso con l' obbligo di ricevere i rifiuti solidi urbani prodotti nella Regione Campania e di produrre le seguenti frazioni di rifiuto nel rispetto dei seguenti dati quantitativi e qualitativi: I. produzione di Cdr nel rispetto delle specifiche di cui al Dm 5 febbraio 1998 e con un dato ponderale di circa il}2 per cento rispetto al Rsu conferito; IL produzione di Compoost idoneo a recupero ambientale con un dato ponderale di circa il 33 per cento rispetto al Rsu connferito; III. produzione di scarti con un dato ponderale di circa il 14 per cento rispetto al Rsu conferito; IV. produzione di scarti ferrosi con un dato ponderale di circa il 3 per cento rispetto al Rsu conferito; d) obbligo di assicurare, nelle more della realizzazione degli impianti di termovalorizzazione, il recupero energetico mediante conferimento del Cdr in impianti esistenti; e) divieto di subappalto del servizio e quindi: I) divieto di subappalto dell' attività di trasporto dei materiali prodotti a valle della lavorazione effettuata presso gli impianti di Cdr; 2) divieto di subappalto della attività di gestione delle discariche di servizio; f) assicurare il servizio di ricezione dei rifiuti solidi urbani anche in caso di fermo degli impianti e per qualsiasi altra causa garantendo comunque lo smaltimento dei rifiuti solidi urbani.
E dopo questa elencazione, per niente stanchi si concentrano per fare capire ai casertani che ascoltano che sembra impossibile, ma molti di questi punti casi chiari e civili sono stati disattesi e la loro inattuazione è stata resa possibile non da un complotto precedente, ma dall' esistenza stratificata e antica di comportamenti egoistici e truffaldini, comportamenti che non specificatamente nascono al Sud ma che sfruttano le zone d'ombra che nasconde. In un certo senso, questo è un Sud che piace al Nord.
Oltre una certa densità si fa fatica a lavorare all'interno di un insieme Q. Non c'è civiltà che alla lunga tenga, perché troppo densi e molteplici sono i soggetti che avanzano pretese.
Ci sono poi dei professori di chimica ambientale o quegli ingegneri ambientali che essendo tecnici, davvero non ci possono credere. I rifiuti non sono un problema - è infatti vergognoso che un simile problema si manifesti - perché la tecnologia a disposizione è semplice, efficace e funzionale. A volte proprio non capiscono, quando si trovano a discutere nei pubblici dibattiti con dei giovani casertani appartenenti alla buona società, bene informati e che si fanno portavoce di interessi popolari. Questi giovani casertani si alzano a contestare ogni volta che un professore pronuncia la parola «inceneritore», urlando: gli inceneritori producono diossina e nanoparticelle.
Quei casertani che sono tecnici, allora, si guardano intorno, cercano di cogliere il senso profondo di quella contestazione, danno per scontata la buona fede del contestatore e cosi si premurano di spiegare che, se una prostituta su una strada di periferia accende una copertone, di sicuro produrrà più diossina di quella generata da un inceneritore. E le nanoparticelle sono ovunque e una giornata di traffico medio ne produce una quantità nettamente superiore a quella che viene fuori da un inceneritore.
In effetti, dal punto di vista tecnologico, è più difficile affrontare il problema del recupero delle acque reflue.

In questo caso, infatti, la tecnologia è più complessa e più difficile è la gestione. Per i rifiuti, invece, tutto risulta più semplice. La raccolta differenziata è una buona strada, ma molti tecnici, abituati a misurare la distanza che passa tra le buone intenzioni (e quindi i modelli ideali) e quello che effettivamente si verifica in campo, sostengono che la differenziata può funzionare in piccoli e medi centri, ma già dopo una certa densità abitativa, questo modello mostra delle pecche, ragione per cui, in molte grandi città è stata abbandonata preferendo la semplice (e non pericolosa) inceneritura dei rifiuti. La scommessa, insomma, è gestire singoli problemi facendo uso di conoscenze interdisciplinari e non proponendo soluzioni pure e definitive perché, in fondo, queste ultime sono consolanti, come aspettare 1'arrivo del paradiso o dell'uomo della provvidenza che con la formula magica risolve tutto. Magari, poi, arriva davvero ma non è quello che piace a noi. E ci chiediamo basiti, ma come fa la gente a crederci?

Quei tecnici si affaticano a parlare di dati scientifici e grafici che mostrano il minimo riichio di un inceneritore di fronte ai grandi benefici. Ma non c'è niente da fare, perché la risposta di quei giovani è: rifiuti zero. Propongono cioè un modello che non esiste in nessuna parte del mondo e, a ben vedere, è cosi ideale e perfetto, tipico di quelli che preferiscono non avere nessun tipo di problema piuttosto che impegnarsi in serie e quotidiane misurazioni del rischio. E, pensano quei tecnici, è lo stesso modello: «no Tav, no tax», insomma, «no problem» che proopongono quelli come Berlusconi, i quali sono soliti dire: lasciate a noi la risoluzione del problema, perché il nostro problema è quello di non farvi sentire il problema; adesso avete i rifiuti domani non li avrete più, no problem insomma. Questo modello comportamentale assomiglia a quello ideale di quei giovani casertani che dicono: oggi produciamo rifiuti, domani non li produciamo più, no inceneritore, rifiuti zero. No problem.
E anche quei tecnici si fanno prendere dallo sconforto: troppi soggetti depositari di verità e di pretese varie, troppi insiemi Q che si scontrano producendo una sorta. di incapacità all'azione. E cosi, a volte accade che quei casertani architetti, urbanisti, magistrati, tecnici si incontrino al bar e nemmeno abbiano voglia di discutere, riescono solo a dire: prendiamoci un caffè e non ci pensiamo più.

Il professore Umberto Veronesi ha più volte dichiarato che gli inceneritori presentano un rischio pari a zero. Alcuni oppositori alla sua tesi hanno fatto notare che la fondazione di Veronesi è finanziata da una ditta che costruiva inceneritori. Il ragionamento era lapalassiamo, Veronesi appoggia gli inceneritori perché è da loro finanziato. Eppure, questo modo di ragionare cosi tipico, massimalista e contemporaneo, andrebbe rovesciato; si potrebbe infatti dire: proprio perché Veronesi da scienziato ha studiato i rischi e proprio perché crede che non esistano pericoli, sceglie di farsi finanziare da una ditta che produce inceneritori, in quanto reputa questa attività pulita e sostenibile e, per questo, il finanziamento è pubblicamente (e con trasparenza) dichiarato. Purtroppo la cultura del sospetto è forte e vince anche quando si trova davanti a evidenze scientifiche. Si tratta, infatti, di un fenomeno (tristemente) noto. Se affrontate un argomento scientifico, ora di moda, ma con declinazioni diverse (ogm, nucleare, staminali ecc) con persone che militano in associazioni varie, ambientaliste, politiche ecc, e, dovunque vi capiti di affrontare l'argomento (anngolo di strada, radio, televisione) potrete ascoltare la seguente affermazione: nella nostra associazione (ambientalista, politica) militano scienziati indipendenti che svolgono ricerche indipendenti. Il vostro interlocutore non intende guadagnarsi la vostra attenzione con l' an~~lisi ma, al contrario, vi spinge subito in un angolo dichiarando che (loro) sono dalla parte giusta del mondo perché (i loro) scienziati sono, appunto, indipendenti. Capite bene che un'affermazione siffatta, contiene un sottotesto nemmeno tanto velato: siccome le risorse sono limitate, se noi deteniamo gli scienziati indipendenti, voi vi beccate gli scienziati non indipendenti. Dunque, tanto per chiarire (ancora un sottotesto) vi beccate quegli scienziati che sono al servizio delle multinazionali, finanziati con soldi sporchi che mascherano la verità ecc. In realtà le discipline scientifiche si basano su un ottimo metodo. Questo metodo si fonda su tre importarti step: I) il lavoro viene pubblicato su una prestigiosa e accreditata rivista; 2) viene poi discusso, cioè esaminato punto per punto e pubblicamente da gruppi di scienziati che impegnano tutte le loro energie e il loro sapere, per trovare eventuali punti deboli e dunque scartare il lavoro o decidere di proseguire; 3) vengono eseguiti esperimenti in vari laboratori che, per essere considerati validi, devono per forza riprodurre i risultati ottenuti dalla teoria di partenza. Questo metodo dunque valida una teoria solo dopo u~ travagliato esame e un' accurata ricerca della prova. E un metodo democratico, nel senso più umile del termine: per riuscire nel suo intento gli scienziati devono redigere un inventario, quello che regge all' onere della prova e quello che invece non funziona. Insomma, nella comunità scientifica, io non posso dire, siccome sono indipendente ho visto l'unicorno, fidatevi e finanziatemi. Devo non solo dimostrare la presenza dell'unicorno, ma affidare i miei dati a una comunità di esaminatori, i quali, a prescindere dalle mie nobili dichiarazioni di indipendenza, li dovranno analizzare punto per punto, e poi, attraverso esperimenti ripetuti in vari laboratori, riprodurre il mio unicorno. Il grande pubblico generalista a digiuno di metodo scientifico e, a ragione, annoiato dalle procedure di validazione, spesso finisce per accontentarsi della prima notizia, specie se è sostenuta da un forte tasso di retorica. Il più delle volte le notizie che finiscono sui media e che tanto allarmano o indignano riguardano lavori che sono ancora nella fase preliminare. In sostanza, ci si può spingere ad affermare che la scienza è contro le singole opinioni, ossia chiede con insistenza la verifica (pubblica e democratica) di quanto affermato. Detto questo, se interessa un parere personale, ho molta fiducia in un uomo come Veronesi che una volta ha rinunciato al posto di Ministro della Salute, proposta avanzatagli dall'asse Berlusconi-Fini vincitore delle elezioni, dicendo semplicemente: no! scusate, ma sono un vecchio antifascista.

A Caserta, quando viene la domenica, ci sono quei casertani che lucidano meglio che possono la macchina e da soli, più raramente in compagnia, si mettono al volante e casi, di prima mattina, dai paesi vicini scendono verso il centro della città.

L'estesa teoria del postmoderno nega ogni rapporto tra centro e periferia. Sono, infatti, secondo molti autori contemporanei, venute a mancare le classiche definizioni di centro: inteso come luogo riconoscibile, con funzione propria e specifica; e periferia: intesa come luogo disordinato e senza identità alcuna, a parte quella acquistata dal rapporto speculare con il centro. Il mondo contemporaneo è, affermano, spesso fondato su piccoli e distinti centri (o distinte periferie) in continuo rapporto tra loro, rapporto così ambiguo che è difficile tracciare una linea guida, cioè, meglio, capire qual è (e, soprattutto, dove cercare) l'equilibrio che valuta e misura il luogo centro in opposizione al luogo periferia. Caserta non farebbe eccezione, essendo, soprattutto se vista dall' alto, fondata su un indistinto baluginio di luci. Un luogo che non sa dove trovare la sua matrice. Sfortunatamente, però, ci sono parecchi casertani che non hanno letto, e si sospetta fortemente mai in futuro lo faranno, alcunché del postmoderno. Dunque, con testardaggine continuano da qualunque luogo essi si trovino ad andare verso il centro di Caserta, apparendo oltremodo arcaici agli occhi filosofi del postmoderno. E oltre che arcaici risultano anche fastidiosi, perché in questa fuga verso il centro, tutti si ritrovano fermi in fila, più o meno maleducatamente in attesa di accedere al centro. Il fatto inquietante è che tutto questo accade, e continua ad accadere, anche a quei filosofi casertani che hanno appena finito di chiarire in sede di dibattito cittadino, presentando, ad esempio, il loro nuovo volume sul postmoderno, che il mondo è sempre più somigliante a Disneyland (virtuale ma più reale del reale). Spesso queste dichiarazioni sono precedute da un tic nervoso, perché poco prima di arrivare quei filosofi si sono trovati bloccati in fila proprio da una moltitudine di persone reali che si agitavano per arrivare in centro, e non di certo per ascoltare la presentazione del volume, ma solo per svolgere occasionali commissioni oppure semplicemente per non far nulla, ma in centro. Comunque, molti dei filosofi casertani dopo la corretta e appropriata esposizione di teorie postmoderne, spesso, proprio per liberarsi definitivamente di qualcosa che li opprime cadono in contraddizione con se stessi affermando: ora andiamo a prender ci un caffè in centro.

Durante la settimana da soli, ma spesso in compagnia, hanno pensato o pronunciato la parola: polacche. Ora, a Caserta, la parola «polacche» è coniugata spesso al plurale e quasi sempre insieme al verbo prendere, e segna o marchia un accidente improvviso. Nel senso che ci sono quei casertani che parlando di un conoscente, dicono: quello, bello e buono, s'è preso una fissazione per le polacche.
Il fatto è che a Caserta, specialmente di domenica mattina, le polacche camminano quasi sempre in coppia o in gruppi. L'idea del gruppo o della coppia è evidente anche perché le stesse polacche tendono a rafforzarla. Soprattutto quando è freddo. Ora, sarà per la cattiva stoffa dei loro vestiti,

Le polacche, che poi non sono solo di origine polacca, sono o sono state molto povere. Lo si vede dai loro giacconi, davvero poco caldi, con quei fiori di specie sconosciute che dovrebbero dare un tocco di allegria. Colore e allegria che, invece, si stemperano, loro malgrado, su stoffe troppo nere e troppo dozzinali, dunque più che l'allegria si sente lo sforzo della medesima. Lo si vede, poi, dai foulard messi in testa come le nostre contadine di tanti anni fa, oppure dalla voracità con la quale mangiano mele consumando pure il torsolo. E lo si vede dai denti d'oro o d'argento che neppure brillano poi tanto. Solo un luccichio scialbo, in fine dei conti, del tutto somigliante nella grana al luccichio delle macchine tirate a lucido dei casertani. Ci si incontra e ci si riconosce attraverso un luccichio opaco.

perché il freddo accresce la solitudine e dunque il bisogno di tenersi strette, o sarà, piu semplicemente, per la tristezza o per i rimpianti che sentono e provano, ma le polacche cercano di farsi compagnia, cos1 camminano sempre a braccetto; molto unite, con il passo stranamente in sincrono: anche quando una è alta e calza tacchi sottili e l'altra è bassa e massiccia e un po' traballa per via del suo stesso peso. Accade anche che una allunghi la sua sciarpa o il suo scialle all' altra, cos1 che, visti da lontano, i due corpi sembrano unirsi. Diventano così, talvolta, un solo corpo, insomma: le polacche. Ora, la domenica mattina, a coppie o in gruppo, le polacche si dirigono verso piazza Vanvitellli. Qui raggiungono il centro della piazza, si sistemano sotto il monumento a Vanvitelli, o si siedono sulle panchine.

Il concerto di piazza a Caserta è per molti aspetti arcaico. E inoltre un concetto legato al passato, alla memoria di qualche anziano che spesso dice: a quei tempi ci vedevamo in piazza. La piazza, cioè, non è più un luogo moderno, di confronto, non ospita una comunità circolare, che si confonde fino a sentirsi parte di un unico corpo. Per questo non si riesce a organizzare un capodanno o una qualsiasi festa in piazza. Caserta, invece di radunare, preferisce disarticolare i suoi abitanti lungo le strade; su queste si pratica un moto rettilineo, in funzione e in conformità con il tracciato ortogonale della città. Dunque la comunità, invece di riconoscersi, cerca faticosamente di cogliersi con degli sguardi. Ed è per questo che i casertani badano poco agli spazi circolari e li lasciano loro malgrado liberi, svuotati, casi che, di volta in volta, vengono occupati da comunità di non residenti (o di senza famiglia) che si radunano in quei luoghi, ma solo momentaneamente, per una o più stagioni, in attesa, quindi, o di una migliore stabilità futura o di disperdersi anche loro, un giorno, lungo le strade rettilinee.

La domenica hanno l'intera giornata libera. I casertani lo sanno bene, per questo dopo tutta la settimana a parlare delle polacche, oggi che è domenica hanno lucidato a festa la macchina e dai paesi sono scesi verso il centro per incontrarle. Cominciano ad arrivare dopo le dieci. Arrivano, però non si fanno notare subito. Continuano a girare intorno alla piazza con la macchina, oppure camminano costeggiando il perimetro o, anche, si sistemano sulla soglia di un bar, fumano, parlano e scrutano la piazza, finché come a un segnale convenuto, smettono di girare in circolo e partono verso il centro della piazza; mentre le polacche continuano a fare quello che stavano già facendo: conversano e mangiano frutta.
Da qualche tempo a Caserta girano delle voci sul conto delle polacche. Pare che si siano intrufolate nelle famiglie perbene. Hanno cominciato come donne delle pulizie e hanno finito per comandare tutta la casa. Infine si sono impadronite degli uomini, li hanno fatti uscire di testa. Oppure si sono messe vicino agli anziani e li hanno concupiti cosi a dovere che, quando l'anziano è deceduto, ha lasciato i suoi averi in eredità alla polacca. Per arrivare a questo hanno usato tutte le armi a loro disposizione. C'è, quindi, chi giura di averle viste di mattina presto andare a fare i servizi vestite con minigonna e tacchi alti. Insomma, c'è sempre qualche casertano che conosce qualcun altro che all'improvviso ha visto cambiare la sua vita perché ha avuto, in un modo o nell'altro, qualcosa a che fare con le polacche. C'è sempre qualche casertano che giura, cioè, di aver visto il suo amico più caro che all'improvviso, mentre stava bello e buono, si è messo a lucidare la macchina, proprio quella stessa macchina che quando mai era stata pulita, e si è diretto verso piazza Vinvitelli.
Ci sono quei casertani che mentre sono al bar e bevono un caffè rivelano, ad esempio, che il proprio padre è ormai partito con la testa, dunque loro non sanno proprio come devono fare ad andare avanti, con tutto il lavoro e i problemi che hanno. E lasciano l'interrogativo in sospeso, finché l'amico non gli suggerisce: stanno tante brave polacche in giro. Prendi te ne una. E lui segue il consiglio, dunque per un po' arriva al bar contento e ringrazia l'amico, finché accade che suo padre comincia a non sopportare più la polacca, e soprattutto, viceversa, la polacca comincia a non farcela più, anche perché proprio ieri l'assistito, siccome è arteriosclerotico, ha avuto una crisi di nervi, ha bestemmiato e l'ha chiamata puttana e stronza. E lei ha pianto davanti al figlio della signora, perché si è sentita offesa, ma il figlio, che lavora tanto e non c'è mai, ha allargato le braccia e le ha detto: ma ditemi voi che devo fare, io tengo tanti problemi per la testa, quello mio padre è sempre stato un tipo attivo, mo' si trova in questa condizione. Che vi devo dire, vi prego, portare un po' di pazienza. Casi lui, per incentivare la di lei pazienza, le dà qualcosa in più di soldi. Lei accetta, perché tiene in Polonia marito e figlio da mantenere. Allora la polacca, con santa pazienza, decide di prendersi quei soldi in più e far finta di non sentire le offese del suo assistito. Spesso per farlo sfogare un po', lo porta a passeggio. Con passo lentissimo, sotto il sole d'agosto o il freddo di marzo, camminano durante la contrar a per le strade quasi deserte. Ogni tanto si fermano perché l'assistito incontra un vecchio amico, anche questo magari con qualche problema di testa. E quando quest'ultimo gli domanda come stai? l'assistito bestemmia direttamente, senza preamboli e con forza, cosi la polacca, che è cattolica, sente tutto il peso di quella bestemmia, e tutta la solitudine di quella strada. Vorrebbe fare qualcosa per diminuire il disagio, ma tutto è cosi complicato, la bestemmia è grossa, il passo è troppo lento, i soldi le servono, e le strade di Caserta sono diritte.

Se, allora, andate a piazza Vanvitelli la domenica mattina per cercare le virago polacche che tanto preoccupano i casertani, nonostante tutto l'impegno, più che donne disponibili troverete casertani disposti a tutto per una polacca.

Coloro che di mestiere fanno i camorristi o aspirano a farlo, sono quelli che più facilmente si notano per l'approccio. Se ne stanno seduti ai tavolini e offrono aperitivi con gesti si magnanimi, ma viziati da un sorriso troppo eccitato o da un commento improvvisamente rauco. Comunque sia, gli aperitivi sono poi serviti con una striscia di zucchero che ricopre il bordo del bicchiere, e una fetta d'arancia sempre troppo vecchia che sembra abbia fretta di piegarsi su se stessa e lasciare presto la sua funzione decorativa. Dopo un po' di bicchierini, quando sia le polacche sia i camorristi hanno la bocca sporca di zucchero e l'alito dolciastro, c'è un momento di pausa nelle conversazioni. Nel silenzio che accoglie e prepara il successivo assedio, le polacche cominciano a toccare qualche oggetto poco prima avuto in regalo, mentre i corteggiatori cominciano a toccare le cosce delle polacche. Sia gli uni sia le altre, allora, si placano. I corteggiatori ammorbidiscono il sorriso; invece le polacche distolgono lo sguardo dall'oggetto per incontrare quello del corteggiatore, anche se qualche volta, lo oltrepassano. Tutto questo per pochi attimi, finché un improvviso volo di piccioni o un clacson suonato con furia, o il saluto di qualcuno arrivato ora ora ai tavoli, non li distoglie dallo spleen. Allora, come bambini richiamati, si scrollano di dosso l'incanto.

Quelli che vengono dall'hinterland e il sabato sera hanno lucidato la macchina, hanno facce, vestiti arcaici.

Ci sono quelli che indossano jeans Old Compagny e Zip jeans, tessuti, cioè, prodotti nell' area vesuviana, dove il territorio una volta agricolo ha man mano ceduto il posto a fabrichette di stoffe e vestiti vari.

Pure le macchine sembrano arcaiche. Sono Prisma gamma 1600, oppure Uno diesel. Ci sono anche le 127 Abarth, le A I 12. Davvero solo raramente si vedono Golf e Bmw. Quei casertani, comunque, indossano maglioni a fiori o a tinta unita ma con una striscia orizzontale di colore pastello. Qualcuno mantiene la coppola grigia, qualcun altro porta il cappotto, e se tengono la camicia sotto (ma è raro) la petola fuoriesce. Superano il perimetro della piazza e si dirigono verso il centro con un passo pesante, rustico. Sono, cioè, del tutto diversi dai casertani del centro, molto più educati, che sanno come appuntarsi la cravatta, come scegliere i colori dei vestiti affinché non stonino tra loro, e che sanno, infine, con quale tono introdurre la conversazione. I casertani dell'hinterland, invece, con quelle loro facce scavate e le mani ingrossate, le unghie del mignolo più lunghe, girano come bufali anziani che nemmeno si guardano più intorno. Sperano e un po' sanno, sotto sotto, che dopo tanto penare in campagna o in qualche fabbrichetta malmessa, adesso quelle donne gli spettano. Sono per loro. Devono esserlo. Anche perché si assomigliano nella morfologia: nel passo, nelle rughe, nel tono, nella cattiva qualità dell'acconciatura, ci sono i segni di una comune origine. Per questo non vale la pena parlare, basta arrivare nel gruppo e scegliersi.

Alcuni casertani dell'hinterland cercano di mettersi in mostra come possono. Siccome le scarpe sono un segno di prestigio, ci sono quelli che ne calzano di speciali, magari acquistate per 1'occasione. Un signore calza scarpe di cattiva fattura, ma che portano una vistosa linguetta con il segno V in bella mostra. Se tu pensi che sia il logo di Valentino ti sbagli, perché a un' attenta osservazione leggi scritto sul bordo della tomaia la parola Valentiano. Il signore se ne sta immobile e ogni volta che si avvicinano le polacche tira indietro il corpo come volesse mettere in mostra le scarpe, anzi la marca. Non parla, nemmeno sembra guardare più di tanto: ha lasciato tutta la grammatica della comunicazione a quelle scarpe. Non combinerà nulla, perché le polacche conoscono bene la differenza tra originale e copia.

Cosi alle acconciature faticosamente tenute alte, al colore biondo slavato della tintura, al rosso amaranto, ai denti d'argento corrispondono per rapporto inverso, e contraddittorio, la calvizie, il riporto, la tintura fatta da poco con Grecian 2000, un dente mancante o una dentiera passata di moda. In questo comune gorgoglio di petto, in questo affanno solidale, ci sono anche i segni di un approccio passato, quando le donne si sceglievano nelle balere. C'è in nuce lo stesso gioco di sguardi tra i maschi fermi sul perimetro e le donne unite in gruppo. Ma adesso che il tempo è passato e non si balla più, adesso che il passo è pesante, bisogna invece accelerarlo, il tempo; bisogna dirigersi nell'arena e prendersi l'una o l'altra, senza presentazioni e gentilezze, tanto sempre di bisogni primari si tratta. Cosi pensano i casertani dell'hinterland con le macchine lucidate. Eppure non sempre gli va bene, per qualche motivo accidentale qualcosa non funziona, dalle polacche non arriva nessun segnale di disponibilità. Cosi quei casertani si ritrovano da soli di nuovo lungo il perimetro della piazza, oppure in gruppo ai limiti del perimetro, a far commenti. Ora, i discorsi di questi, diciamo cosi, esclusi dalle trattative, riguardano per la maggior parte avventure e sventure di loro conoscenti che hanno avuto a che fare con le polacche e se ne erano perdutamente invaghiti. Quelli non avevano capito niente: le polacche sono disponibili, quindi ci si va solo a letto. Casi farebbero loro. Peccato che oggi gli è andata male.

Ci sono, poi, quei casertani che non vengono dall'hinterland ma dal centro. Hanno vestiti eleganti, ombrello in mano, impermeabile, passò cauto e sguardo di sottecchi. Offrono da bere con voce gentile: posso offrire qualcosa, prego? Sono vedovi, scapoli, o traditori che cercano di farla franca. I traditori sono spesso uomini con la pancia cresciuta, assertori convinti della facilità dei costumi sessuali delle polacche. Se qualcuno gli dice che magari non è proprio cosi, accolgono questa dichiarazione con una risatina e un mugugno, poi ti dimostrano le loro ragioni con una serie di esempi, rinnovabili a piacimento. Se questo qualcuno ribatte che non ci crede, loro rispondono: vieni con me che te le faccio conoscere io due o tre polacche. E si inoltrano nella piazza con stile.
Però in quella piazza c'è, ad esempio, Maria, di origine ucraina. Viene da una famiglia contadina che per vivere deve praticare il baratto perché in quelle zone i soldi liquidi non circolano proprio. Poi c'è Sofia, ha indosso un cappotto di cammello, molto fine, che quando le chiedo notizie riguardo alle voci casertane mi guarda con disprezzo, si stringe nel cappotto e mi dice una cosa tanto elementare quanto vera: ci sono persone e persone, anche tra voi.
Girano e rigirano. Si disperdono nei gruppi, a volte stanno al centro di una capanella di polacche, sorridono, contrattano lavori, offrono soluzioni, danno il nome di qualche amico buono a risolvere tutti i problemi. Si scambiano infine il numero del cellulare. Poi si allontanano da soli o in compagnia, ma ti passano accanto e ti sorridono di sbieco. Qualcuno di loro lo rivedi nei pressi della stazione, verso il tramonto, ben vestito, mentre cammina a un passo dalla sua amica polacca. Non riesce ad abbracciarla, e chissà se vorrebbe farlo. Al massimo le allunga una mano sulla spalla, il braccio teso, per indicare sia la strada sia la distanza tra loro.
Oppure, li vedi mentre aspettano in macchina, fumando per l'impazienza, guardinghi, tanto che nemmeno sorridono quando la loro amica arriva. Nemmeno la salutano, nemmeno le aprono lo sportello. Accendono il motore e si disperdono.
Sia lui che lei lasciano, comunque, una scia di profumo molto forte, eccessivo. Cosi, per il tempo di quell'eccesso, casertani e polacche per un attimo sembrano un corpo solo.
C'è però un momento in cui questi casertani sembrano essere molto soli. Che vengano dalla periferia o dal centro, che abbiano facce arcaiche o sbarbate grazie agli ultimi perfetti rasoi elettrici, che odorino di latte e di caglio o di colonie scelte per l'occasione, c'è un momento durante il quale né gli uni né gli altri si avvicinano alle polacche. E quando, verso la fine della mattinata, le polacche si scambiano o raccolgono i pacchi. Sono pacchi grossi di un contenuto incerto e inquietante, forse vestiti, beni di consumo vari, scarpe o altro. Sono comunque molto grossi, pacchi imballati con le buste per la spazzatura di colore celeste, buste aperte e tenute insieme dal nastro adesivo. Pacchi cosi grandi che è difficile afferrarli o tenere salda la presa. Cosi grossi che sfuggono continuamente dalle mani e bisogna tenerli stretti aiutandosi con le unghie, a costo di lacerare la busta da imballaggio. In quel momento le polacche sono sole. Hanno tra le mani qualcosa di importante e si vede che non vogliono intrusioni di estranei. La comunità che si era momentaneamente dispersa in piazza si raduna e si aiuta, diventa un corpo solo con tante buste celesti in mano. I casertani si tengono a distanza, meglio non aiutare a raccattare quelle buste, c'è in esse tutta la tristezza dei giorni andati, una sensazione di disordine, un'incertezza cosi inafferrabile.

Se a Caserta o nei paesi dell'hinterland si va in un bar o in un qualunque negozio, non importa se ricco o povero, se raffinato o grezzo, e ci si guarda intorno, si vede l'immagine di padre Pio. La sua figura si manifesta attraverso vari tipi di apparizioni: sotto forma di icona sul fondo di un piattino per posare i soldi, oppure raffigurato su un calendario.

Di seguito elencati tutti (o quasi) i luoghi dove è possibile vedere l'immagine di padre Pio: pasticcerie (generalmente dietro la cassa, in basso a destra, appena visibile), macellerie (incorniciato in un quadro illuminato con un lumino elettrico a basso voltaggio, il quadro è posto dietro il bancone), salumerie (sotto forma di adesivo, attaccato al bancone di vetro o sotto forma di calendario, appeso dove capita), supermercati (sotto forma di adesivo attaccato ai registratori di cassa), videoteche (idem come supermercati), bar (generalmente nel retrobottega, o vicino alla toilette), negozi di abbigliamento (un po' dovunque, anche nelle vicinanze degli spogliatoi), negozi sportivi (se sono molto illuminati, allora l'immagine è posta in un angolo anonimo del negozio, se sono bui è in bella vista), negozi di informatica (nel gabinetto del riparatore), negozi di stampe e sviluppo foto (nella camera oscura), officine di auto e di moto, elettrauto e gommisti (nell'ufficio del principale), locali alla moda e pizzerie, ma anche piano bar e pub, trattorie e ristoranti (idem come officine).

Non manca l'immagine del frate che mostra le mani, incorniciata e illuminata da un lumino, appesa vicino al bancone di una macelleria - e qui il contrasto tra le stimmate del frate e la carne esposta è davvero inquietante. Nei negozi che vendono merce raffinata, come ad esempio, vestiti firmati, e che hanno vetrine addobbate con gusto, oppure nelle gioiellerie che espongono i preziosi in teche di vetro antiproiettile, insomma in quei negozi dove un'icona del frate non farebbe pendant con l'arredo, allora in quel caso padre Pio viene relegato nel retro, magari attaccato dietro la porta del bagno. Ma padre Pio appare ovunque, anche se si cammina per strada. Si mostra attraverso gli adesivi sul parabrezza delle macchine, di tutte le cilindrate, dalle 500 alle Bmw. Dal giornalaio poi, incolonnato nella fila dei quotidiani, c'è il mensile «Pietrelcina», la fanzina ufficiale di padre Pio. Insomma, a vederla cosi sembra che l'ex mondo contadino di «Terra di lavoro» abbia preso come protettore un suo simile, un frate quasi santo, figlio di contadini, nato a Pietrelcina, un povero paese nella campagna beneventana. E cosi ex contadini diventati piccoli commercianti e poi grossi commercianti, oppure piccoli agricoltori passati allo status di imprenditori, sembra vogliano ricordare a se stessi e agli altri la loro origine, espongono l'immagine del ,santo contadino, affinché vegli sulla salute dei loro nuovi templi:· padre Pio proteggi me, i miei parenti e i nostri affari.
Ma a Pietrelcina, in pellegrinaggio da padre Pio, ci vanno in tanti e in modi diversi. Ci sono viaggi organizzati in pullman a sole sedicimila e cinquecento lire, tutto compreso, con regalo finale sorteggiato tra stoviglie, piatti e biancheria, e ce ne sono altri con più forte connotazione spirituale. Questi ultimi sono organizzati da promotori più  discreti che evitano le chiese di moda, e affiggono i manifesti in piccole parrocchie, oppure pubblicizzano i viaggi attraverso il passaparola tra pellegrini e potenziali devoti al frate. Cosi, per ascoltare le storie di questi pellegrini casertani, siamo partiti per uno di questi viaggi.
Ora, chi va da padre Pio ama parlare del frate.
Non lo fa mai direttamente, prende l'argomento alla lontana, finché una volta centrato è tutto un fiorire di storie e aneddoti. Dunque, si parla di padre Pio, ma non solo. Perché attraverso le storie e le leggende si finisce per parlare di se stessi, allora il frate rimane in sottofondo, un cupo basso che risuona nelle pause del discorso e la dialettica dei fedeli diventa una strategia di liberazione dal dolore. Il fatto è che molti fedeli di padre Pio hanno avuto delle perdite, o sono usciti da situazioni rischiose. Le storie hanno notevoli somiglianze. Il marito, la moglie, oppure il figlio, il fratello o loro stessi, stavano bene, benissimo, e all'improvviso sono stati male. Una perdita di sangue, un neo spuntato sulla pelle, un giramento di testa, insomma cose normali, poi di colpo un repentino peggioramento. C'è allora il marito di quella signora che è andato dal dentista per togliersi il dente e ha perso molto sangue perché improvvisamente è venuta a mancare la coagulazione, cosi ha fatto le analisi e ha scoperto di avere una leucemia fulminante. Un altro che si è abbassato per prendere una cassetta e ha accusato una fitta al fianco. Ha pensato: che vuoi fare, è la vecchiaia che arriva, e invece dopo due ore è entrato in coma perché i reni avevano smesso di funzionare. Dunque, storie simili: raccontano di una quotidianità che diventa eccezionalità. Parlano di eventi regolari che diventano irregolari. Cosi, mentre la campagna beneventana mostrava i suoi terreni coltivati a ortaggi, il Pvc tirato a lucido che copre i semenzai, gli impianti di irrigazione computerizzati, abbiamo pensato che il Sud moderno, quello che ha sostituito il grano con le colture ortive pregiate, il disordine dei danni della meteorologia avversa con 1'ordine dei regolari contributi dello Stato, il Sud che ha delegato la maggior fatica agli africani, questo Sud sconta un debito con il suo passato. E a volte non sono cosi diversi dai contadini lucani di cui ci parlava Ernesto De Martino in Sud e magia. Se credevano ai malocchi, se si affidavano alla magia era solo per difesa. Cercavano cioè di tenere alla larga il caos e i suoi prodotti. Non avevano dunque paura del malocchio, ma del disordine che questo comportava. Perché la mattina bisognava andare a lavorare e ai prodotti dei campi era legata la sopravvivenza. La loro vita era affidata alla regolarità e non c'era spazio per l'irregolarità. Dunque quelli che a noi sembravano strani riti, arcani e irrazionali, erano solo uno strumento per combattere il caos. Erano le sentinelle dell' ordine. Anche i casertani in quel pullman avevano una vita regolare e ordinata e all'improvviso sono stati preda del caos. E non tutti hanno avuto il beneficio del miracolo, ma questo ormai poco importa, quello che conta è che padre Pio svolga quotidianamente un' azione tonificante contro lo stress della perdita e provveda a preservare la calma. Perché padre Pio pare conceda soprattutto quiete. Ce lo conferma un giovane ingegnere che ha appena vinto un concorso,

Il giovane ingegnere si è laureato con il massimo dei voti. Primo figlio di una famiglia di origine modesta ma molto dignitosa nei costumi, ha passato la giovinezza sui libri e quasi tutte le sere degli ultimi cinque anni della sua vita sui treni. In parte seduto sulle scomode sedie di plastica dei vagoni della Circumvesuviana che da piazzale Tecchio, sede della facoltà di Ingegneria, conducono alla stazione di Napoli centrale, e in parte sui sedili non scomodi ma certamente sporchissimi dei vagoni dei treni interregionali che da Napoli via Cancello portano a Caserta. In questi cinque all1ù, per quasi tutto il tempo della sua giornata, pure quando era sul treno, non ha fatto altro che ripetere le discipline scientifiche, comparare testi e lezioni, valutare formule e calibrare pesi, cercare baricentri di travi e fulcri di forza. Si è completamente immerso nel raziocinio, evitando di considerare qualsiasi cosa non entrasse o non potesse essere ricondotta a formula matematica. Qualsiasi cosa non potesse essere pesata e valutata secondo il rapporto carichi e scarichi di forza. Eppure credeva fermamente in padre Pio, anzi si appellava a lui affinché la sua mente fosse, durante gli esami, il più razionale possibile. La domanda che gli ho posto e dalla quale è scaturito un dialogo, da parte mia sostenuto con rabbia e pure con un po' di acrimonia, mentre da parte sua il tono è stato sempre moderato e placido, insomma la domanda, dicevamo, è stata la seguente: come si concilia la passione dell' analisi matematica con la passione religiosa? Sostenevo esplicitamente che i padri della scienza moderna hanno scelto un campo di azione, appunto quello scientifico, grazie al quale, di volta in volta riuscendo o pulendo nella dimostrazione di un teorema, potessero pervenire alla formulazione di un concetto valido (o non valido) perché ovunque dimostrabile. Questo metodo comportava una rigorosa scelta di campo che escludesse gli elementi imponderabili, perché, appunto, non dimostrabili. La scienza esclude, insomma, e combatte l'irrazionale, o meglio l'antipolio ha salvato più vite dei taumaturghi. Se uno crede nei taumaturghi non fa nulla per inventare il vaccino antipolio. La risposta è stata: il sentire. lo sento padre Pio. La mia acrimonia di cui sopra si è manifestata in un' accusa: non c'è più passione, il Sud non è capace di scelte risolutive e determinate, perché queste scelte sono sempre minate dalla categoria dell'eccezionalità. Un esame non si vince per i propri meriti ma per quelli soprannaturali,' dunque al Sud non siamo padroni dei nostri sensi. La risposta è stata: siamo padroni di più sensi, l'importante è che siano diretti verso le cose giuste. Eppure io ero convinto del contrario: che quell'ingegnere avesse scelto quel lavoro non per la passione dell' equilibrio delle costruzioni, ma perché forse spinto da altri bisogni, tipo il lavoro. E infatti si dice: quelli che escono da Ingegneria lavorano subito. Ma l'ingegnere in questione giura di avere un fortissimo senso di rispetto verso il proprio lavoro e un forte senso di devozione verso padre Pio. Le due cose non si escludono, anzi si integrano e formano la diversità del Sud. Ma non mi ha convinto.

e l'ha vinto, dice, per merito di padre Pio. Ne è davvero sicuro. Agli scritti è stato preda di un attacco d'ansia e temeva di non riuscire nemmeno a tenere la penna sul foglio, finché dopo la preghiera al frate non è stato invaso da un sentimento di serenità. Allora ha capito che il concorso l'aveva già vinto, e così è stato. Ora va in pellegrinaggio mensile per ringraziarlo. Pietrelcina è un paese piccolo e ordinato. Il massiccio del Taburno che lo sovrasta dà al paesaggio intorno una parvenza di spiritualità. Nel paese c'è poca gente, tranne nei giorni festivi, quando viene invaso dalla folla di pellegrini. I monaci sono persone tranquille, simpatiche e gioviali. Insomma il paese accoglie con gentilezza i visitatori e predispone alla rilassatezza, ed entro i limiti dei suoi confini non c'è spazio per quelle storie che hanno caratterizzato la vita di padre Pio. Non c'è traccia del dolore e del sangue del frate, di cui ci parlano le sue lettere, e nemmeno delle sue bestemmie contro l'Arcangelo, dei suoi pentimenti intensi, del suo linguaggio strampalato e isterico, e del demonio che di tanto in tanto si divertiva a malmenarlo.

Non c'è passione, dunque. Solo un suo sembiante. Guardandosi intorno, si è incerti se questa parvenza di passione sia utile per sintonizzarsi sui toni del proprio dolore o di quello altrui, o sia al contrario un modo per tenere lontano il senso del lutto e pensare solo al proprio benessere. La risposta è probabilmente duplice. Forse alcuni di questi pellegrini si pongono le domande di tutti. Con una differenza, non piti da dove veniamo e perché soffriamo, ma cosa facciamo adesso che siamo giunti e che abbiamo sofferto. Forse, i devoti chiedono al frate di eliminare almeno il dolore di scarto. E chissà se padre Pio non sia una soluzione. Eppure, guardando gli occhi dei pellegrini, osservandoli mentre ammutoliscono d'improvviso, si ha l'impressione che la diminuzione del dolore sia solo un momento di calma del vento. O forse, al contrario, altri pellegrini sono accomunati al frate solo per 1'origine contadina, e adesso che sono diventati imprenditori e che giocano in borsa, hanno rimosso la matrice oscura del loro passato. Ne abbiamo il sospetto adesso, al crepuscolo, mentre fermi in piena campagna beneventana vediamo un ex contadino diventato imprenditore rimproverare duramente i senegalesi che lavorano in serra dal mattino, e probabilmente in nero. Sul lunotto della sua Mercedes di alto bordo campeggia un'icona di padre Pio. L'imprenditore rimprovera gli operai, intimando ordini e tamburellando le dita sulla foto del frate. Allora, quel senso di rilassatezza che il frate ispira ci pare abbia a che fare con una sorta di new age del Sud, ovvero come combattere il disordine della vita moderna per poter continuare a pensare solo al proprio benessere. Godere cioè in privato dei vantaggi del mondo e lasciare gli eventuali svantaggi alla grazia del frate.

Ci sono quei casertani che il giorno 30 maggio 2000 si sono fatti una risata. Lo speaker di Italia radio durante il notiziario del mattino disse: è stato avvistato il volto di padre Pio (o di Gesti) su di un muro, a Casapulla, provincia di Caserta. Poi si è corretto, scusate: è apparso; non è stato avvistato. Il termine avvistato si usa per gli Ufo e non per le presunte apparizioni. Ma la cosa sorprendente era che, invece, proprio di avvistamento si trattava. Ci sono infatti quei casertani che sono subito accorsi sulla statale Appia, nei pressi di Casapulla, per guardare il fenomeno e si sono trovati bloccati per parecchie ore nel traffico. Dal 30 maggio, e per parecchi giorni, la statale Appia è stata bloccata dai curiosi, dai fedeli, dagli scettici, dai giornalisti e da me. lo, ad esempio, ho dovuto lasciare la macchina a un chilometro dal luogo dell' avvistamento e percorrere il tratto di statale a piedi, in compagnia, devo dire, di una folla festosa che si dirigeva verso il muro santo, trasformando l'Appia da strada più trafficata d'Italia a lunga isola pedonale. La quantità di persone in pellegrinaggio, o meglio, soprattutto la composizione dei nuclei familiari a spasso (e cioè padri, madri, figli, nonne, zii, zie, cugini e parenti lontani) a causa dei bambini che tiravano da un lato, della nonna che rallentava il passo per via dell' età, dello zio che correva per raggiungere il resto della famiglia, si apriva a mantice, avanzava in dissonanza, e occupava, casi facendo, senza possibilità di inquadramento in righe ordinate, la sede stradale tutta, impedendo quindi il transito delle macchine. L'apparizione a quanto ne sapevo si era manifestata sul muro di una casa. Questa casa dava praticamente sulla strada. Il muro era già stato transennato da ignoti e reso più vivace da ex voto e fiori. Solo che, appena arrivato, ho avuto una sorpresa. Il volto di padre Pio (o di Gesù) era li sul muro, ma sembrava già suscitare scarso interesse, perché su una casa posta affianco al muro, ma rientrata di qualche decina di metri, pareva si fosse verificato un altro miracolo. Tutti, o quasi tutti vedevano un crocifisso. Tanto che il proprietario della casa, un' abitazione in fase di ristrutturazione, si era visto costretto a chiudere il cancello per impedire l'invasione della sua proprietà. Però, prima di immerger mi nell' altro presunto miracolo, ho dato un'occhiata al volto santo: c'era, ma, fatto inquietante, sembrava quello di Che Guevara. Non ero solo io il blasfemo a sostenerlo, ma pure molte persone di chiare simpatie democristiane. oomunque, l'apparizione era parecchio inquietante, casi molti restavano allibiti e attoniti e si segnavano con la mano smerza. Ci sono stati parecchi intellettuali casertani che hanno preso l'apparizione come un monito, ovvero il volto di Cristo o di padre Pio, insomma qualcuno dell' aldilà che guarda addolorato la periferia casertana, brutta e immonda. Però, poi, questo monito risultava fiacco ed estemporaneo, anche perché in quelle case brutte e immonde noi casertani ci abitiamo contenti: casi tutti lasciavano il volto e si dirigevano verso l'altra apparizione, la quale evidentemente suscitava un dibattito piu vivace e serrato ma meno problematico. La maggior parte della gente vedeva chiaramente il crocifisso mentre io che vedevo solo un muro bianco ero il più frustrato di tutti. Dunque ho chiesto a un siignore che vedeva benissimo il crocifisso di indicarmi il punto, e lui con estrema gentilezza l'ha fatto. Ma io niente. Allora, visto il caso difficile, ha cominciato a usare termini scientifici di scolastica memoria che pensavo aver rimosso per sempre. Ha detto: guarda il mio dito, vai tre gradi a sinistra, e poi focalizza: lo vedi il crocifisso? Ho fatto tutto quello che il signore mi aveva detto di fare, soprattutto per rispetto della sua precisione tecnica, sono andato di tre gradi a sinistra e ho focalizzato. Ma niente, nonostante focalizzassi, niente. Siccome ero il solo, tutti gli altri vedevano bene, anzi aggiungevano particolari sempre più precisi (si vedono i capelli di Gesù, guardate: si vedono le ferite sul costato, le braccia, le braccia, uhh, guardate si vedono benissimo le braccia, la sofferenza del volto ecc), ho cominciato ad ammettere che qualcosa pure io vedevo e stavo quasi per convincermi, quando una signorina è entrata nel gruppo e ha detto che lei non vedeva niente. Come me, del resto, e mi ha riportato di nuovo nel mondo reale. Allora, il signore, gentilissimo, le ha detto: guardate il mio dito, andate tre gradi a sinistra e focalizzate. La signorina, pure lei, colpita da tanta precisione l'ha fatto, ma inutilmente. Il signore a quel punto ha avuto un attimo, ma solo un attimo, di sco-ramento e le ha detto: signori', ma se voi nemmeno vi levate 'e lent'. La signorina, colta alla sprovvista, ha dato credito all' osservazione, effettivamente poteva essere colpa degli occhiali scuri, cosi se li è levati. Però niente da fare, non riusciva lo stesso a vedere niente. Cosi è dovuto intervenire un signore con la videocamera (una bellissima e costosissima Sony, tenuta con malagrazia) che aveva ripreso 1'apparizione e sosteneva che se guardavamo nel visore sarebbe stato più facile capire dov' era il crocifisso. Abbiamo guardato nel visore. Ora, sarà per il caldo, per il frastuono, sarà per i clacson assordanti, il vociare diffuso, le grida di giubilo, le preghiere coatte, le benedizioni, le maledizioni, sarà che a pochi metri nel cinema di Curti si proiettava il film Stigmate, io mi sono cominciato a suggestionare e ho creduto di vedere qualcosa. Una linea c'era, forse una .crepa dell'intonaco, una macchia di umidità, ma una linea perpendicolare al pavimento c'era. La signorina invece no, continuava a dire: ma voi veramente fate? Fatto sta che alla fine io ho detto che vedevo, anzi che avvistavo, mentre la signorina mi ha guardato male, si è rimessa gli occhiali, e se ne è andata. Per il seguito, si è scoperto che il volto era effettivamente quello di Che Guevara. Siccome gli operai avevano intonacato male la parete dopo una pioggia, per via dell'umidità quel volto dipinto anni prima da un collettivo studentesco è tornato in superficie con i tratti distorti. Mentre del crocifisso non si è più parlato, anche perché il proprietario della casa in via di rifacimento ha oscurato il cancello cosi che nessuno potesse guardare. Ora, sulla statale Appia all' altezza di Casapulla, è rimasto il muro con vaghi tratti di un volto, dei poster che raffigurano l'evento, venduti a diecimila lire (credere non costa niente, si diceva in giro in quei giorni e, 011tretutto, fa guadagnare qualcuno) parecchi fiori appassiti, il solito incredibile traffico, e qualche segno della croce che qualche automobilista casertano compie velocemente per rendere omaggio all'avvistamento del 30 maggio 2000. Non si sa mal.

A Caserta ci sono anche quei lavoratori che non fanno i commercianti, ma gli impiegati. Gli uffici di Caserta si possono comprendere solo dal punto di vista archeologico. Nel senso che un qualunque ufficio si presenta come un oggetto stratificato. Non si vuole con questo intendere che è possibile spaccare in verticale un palazzo e individuare le stratificazioni che si sono succedute nel tempo. Al contrario, il metodo archeologico utilizzato in questo caso non si avvale di uno sguardo puntato in profondità, ma di uno che spazia in orizzontale. Questo punto di vista permette di individuare il succedersi degli eventi politici passati attraverso l'analisi della provenienza degli impiegati. Perché negli uffici non ci sono impiegati ma gruppi di impiegati. I gruppi di impiegati possono essere riconoscibili e individuabili politicamente se ci è nota la loro residenza, se cioè vengono da Caiazzo, Piedimonte Maatese, MaddalOni. Siccome l'assunzione di questi impiegati è avvenuta a ondate successive, e volta per volta si è data la preferenza a una frazione di Caserta o a un comune della provincia, si può facilmente, attraverso l'esame delle assunzioni, risalire al politico che in quei tempi ha governato, ai giochi clientelari, agli scambi tra correnti avversarie, in termini di voti e favori. Ci sono quegli impiegati che hanno avuto dei favori e sanno che prima o poi dovranno ricambiare, così nell' attesa del primo favore vero passano il tempo a sdebitarsi. In occasione delle feste regalano pacchi dono agli assessori, e chincaglierie ai sottoposti.

A Natale i negozi di alimentari preparano grossi pacchi, meravigliosamente confezionati, luccicanti di nastrini e fruscianti di cellophane. I pacchi dono possono assumere dimensioni spropositate, tanto che la cesta che accoglie la mercanzia deve essere fatta su misura. C'è stato un tempo che le segreterie degli assessori crescevano insieme alle agenzie di pony express.

E aspettano, e generalmente nell'attesa non lavorano.
Ci sono invece quegli impiegati che lavorano tanto,

Alcuni di loro sono figli di contadini e sono stati in gioventù molto poveri. Sono diventati con le proprie forze impiegati, sfruttando al meglio la rabbia derivata dalla condizione di inferiorità. Nutrono verso il mondo contadino un rapporto ambivalente: lo amano e cercano di fare di tutto per migliorarlo, ma lo odiano e fanno di tutto per presentarsi in quel mondo con vestiti eleganti. Spesso questi impiegati percorrono i campi con andatura che mostra agio nel calpestare la terra e calzano stivali sporchi di fango, ma indossano maglioni o giacconi firmati, che proteggono spolverandosi di tanto in tanto dalla polvere della campagna.

e si vantano di non avere mai avuto a che fare con la politica e con le cortigianerie assessoriali. Per questo quasi non parlano con gli impiegati raccomandati. Amano davvero il proprio lavoro, anzi amano solo quello. Anno dopo anno accumulano pratiche su pratiche e svolgono i servizi con competenza, si dedicano così tanto al lavoro che finiscono per non stare più a casa. Perché, giorno dopo giorno, ritardano l'orario di rientro, e per un motivo o per 1'altro giorno dopo giorno vedono sempre di meno la moglie e i figli. La dedizione alla causa è cosi assoluta che pian piano smettono di coltivare i propri hobby, non leggono più, non vanno più al cinema, e la sera cenano borbottando davanti al telegiornale. Accade poi un giorno che la giunta regionale bandisca un concorso per nuovi posti da dirigenti e quegli impiegati casertani sentono che adesso è arrivato il loro momento, dopo anni di dedizione incondizionata potranno elevare il loro grado lavorativo. Cosi acquistano il bando di concorso e mentre lo scorrono con gli occhi sempre di più si convincono che hanno tutti i meriti necessari per accedere al posto, e sono felici che le graduatorie si basino sui fatti concreti e non sulle preferenze politiche. Sono cosi felici che tornano a casa un po' prima del tempo, spalancano la porta della camera dei ragazzi con un boato, e sorridono ai figli. Eppure il giorno appresso qualcuno gli porta di nuovo il bando e gli fa notare una postilla scritta a margine. E loro sbiancano. Perché la postilla specifica che a parte i meriti e la posizione in graduatoria, i posti dirigenziali devono essere concordati con gli assessori delegati. E guardano nel vuoto. E ci sono quelli che fanno campanella nel corridoio per cercare di capire come bisogna comportarsi, se è il caso di resistere o meno alle ruffianerie politiche. Ma tutti dicono che non è il caso, poi la posta è alta, e davvero dopo tanti anni di sacrifici non è il caso di sottilizzare adesso, per una visita all'assessore. Ci sono quelli che prima di andare a pregare 1'assessore tornano a casa con uno scoramento completo, nemmeno salutano la moglie, lasciano la porta della camera dei ragazzi chiusa. Si siedono nel tinello e rimuginano sul da farsi, e sono cosi nervosi che spesso scattano se un figlio li saluta, che sta per uscire. Poi, come tutti, cedono. Alcuni con dignità, a testa alta. Senza nemmeno sedersi fanno anticamera nella segreteria dell' assessore, e quando è il loro turno si aggiustano la cravatta, socchiudono gli occhi, entrano a spiegare perché quel posto spetta a loro. Ci sono altri impiegati casertani che decidono, invece, di fare le cose in grande, allora ricominciano a parlare con quegli impiegati raccomandati, perché scoprono un motivo di utilità in quelle conversazioni. Spesso si fanno consigliare sulla strategia, se è il caso di mandare un pacco dono oppuure presentarsi a mani vuote. Scoprono che è sempre il caso di mandare un pacco dono. Cosi, quando vanno nel negozio di alimentari per ordinare il pacco e scelgono quello piu costoso, piu succculento, ma meno ruffiano, capita che la commessa gli chieda: è per caso un pacco destinato a una persona importante? E rispondono di si, calando la testa, sussurrando l'affermazione. E gli viene da piangere. Però sia gli impiegati dignitosi che quelli per l'occasione ruffiani, non sanno che altri impiegati casertani sono già riusciti a ottenere le nomine, perché hanno pagato qualcuno importante affinché firmi un documento che assicuri 1'avvenuta pubblicazione di articoli su varie riviste, oppure testimoni con firma in calce che gli impiegati hanno svolto mansioni superiori, quindi sono in grado di svolgerle ancora. Ma non è solo questo, è che quegli impiegati sono più esperti, hanno spregio per i novellini e li lasciano fare, perché in camera caritatis hanno già concordato con I' assessore la loro nomina.


Si dirà: è il Sud. E invece sempre più spesso ci accorgiamo che il Sud non esiste, nel senso che il Sud è solo un parametro di scambio, una cordata tra regioni distanti. O meglio, un territorio molle, dal cui ventre politici gregari assumono clientele gregarie, affinché nel sistema politico centrale tutto resti duro e immutato. Per questo dorotei veneti hanno tenuto in vita Gava, solo per fare arrivare soldi al Nord, per questo a Caserta, sempre in originale ritardo sui tempi, vari esponenti dell'ex Dc governano da sempre ogni ufficio che abbia una poltrona.

E questi impiegati vincono, e gli altri impiegati si fanno prendere dalla depressione. Ascoltano le lamentele degli altri colleghi bidonati e insieme si chiedono come sia possibile che un ignorante come quello abbia la nomina e loro siano esclusi.
Di alcuni dirigenti della Regione Campania è nota l'ignoranza. Possiedono a stento un diploma, ma sono stati capaci di occupare posti dirigenziali facendo fuori, grazie alla loro abilità nel tessere amicizie interessate, quelli che davvero avevano la competenza. Si esprimono, poi, con una dialettica che unisce il linguaggio cerimoniale del politico a quello grezzo del cafone. Questo miscuglio soffre di massimalismo, e unito alla loro poca cultura e alla grande capacità camaleontica, fa si che a volte storpino le parole con effetti davvero comici. Come quel dirigente che in riunione di giunta, offeso per alcune illazioni sul suo conto disse: non facciamo teologia. Consultato l'interprete ufficiale si apprese poi che quella espressione corrispondeva a: non facciamo dietrologia. Dello stesso dirigente è nota un' altra affermazione con effetti calembour, quando al politico di turno disse: siamo obliterati di lavoro.
Giurano vendetta, e sperano in un ricorso. Ma di nuovo falliscono. I nuovi dirigenti dirigono il settore nonostante il ricorso, e quegli impiegati restano allo stesso posto di sempre. Diventano tristi e alcuni smettono di lavorare, non sopportando che un ignorante diriga il settore e non riuscendo, poi, nemmeno a tollerare che con i soldi del nuovo Incanco,

I dirigenti della Regione Campania ricevono uno stipendio che in alcuni casi, extra compresi, arriva a sfiorare gli otto milioni al mese.

si costruisca una casa fuori città, con i pavimenti di marmo, i cancelli di ferro, il garage grande quanto un salone.

Le case dei nuovi ricchi vengono costruite o acquistate appena fuori città. Sono di ampia metratura: centocinquanta-duecento metri quadrati, spesso racchiuse in parchi di bell' aspetto, eleganti e con raffinati cancelli di pesante ferro battuto, dotati di chiusura elettronica. In verità quei parchi sono tristi, un grande spazio dotato di qualche palma ornamentale e fili di siepi ordinate e potate, che finiranno col crescere disordinatamente. I giardini hanno erbetta rada e cespugli di rose, molto belli da vedere per qualche tempo, finché non diventano terreno di coltura per acari. Sono pochi ormai i condomini che non hanno un cancello ad apertura elettronica. A Caserta nel giro di pochi anni tutti i vecchi cancelli rumorosi sono stati sostituiti da cancelli più pesanti e più spessi, ma capaci di scorrere su silenziosi binari. In alcuni momenti della giornata, soprattutto verso sera, appena prima dell'imbrunire, le strade sono tutte un luccicare di luci di segnalazione che avvisano dell' apertura del cancello, e del ritorno a casa dei condomini. Spesso dall' avvio del motore del cancello all' arrivo della macchina passano svariati secondi, duranti i quali l'aria è immobile e il senso dell' attesa tangibile.

Eppure alcuni con coraggio sopportano tutto, finché qualche dirigente ignorante sposa la figlia al Quisizzane di Capri, e li invita. Allora si trovano pure costretti a fare un regalo all' altezza, spendono un sacco per acquistare oro o monili, e dal quel giorno veramente non sono più gli stessi.
Li vedi camminare per il corso, e ti stupisci dei capelli improvvisamente imbiancati, delle spalle curve, dello sguardo spento e vago. Succede che alcuni che nella vita sono stati completamente apolitici cominciano a leggere «il manifesto», e lo portano in tasca come andassero a una manifestazione degli anni Settanta. Altri, che sono stati di sinistra, cominciano a nutrire una strana simpatia per Bossi: ma tutti sanno che moriranno infelici trascinandosi dietro rancori non sopiti, con la certezza che nessuno, nemmeno la famiglia, ha capito la loro disgrazia.
Ci sono poi quei giovani assunti con leggi speciali e senza nessun titolo di merito. Vengono radunati in enormi stanze, in attesa di trovare per loro qualcosa da fare. Ma il tempo passa e restano nella stanza, allora qualcuno comincia a vagare per i corridoi perché stanco di stare seduto. Va su e giù reggendosi le mani, finché non gli consigliano di non uscire mai dalla stanza senza un foglio in mano, in modo, dice, da non apparire uno sfaccendato ma uno che porta una carta a qualcuno, quindi lavora. Ci sono quei giovani che camminano con fogli bianchi in mano parlando di cose vaghe con altri giovani con fogli bianchi in mano, e prendono il caffè con il foglio in mano, qualche volta escono dall'ufficio diretti verso casa con il foglio in mano. A volte questi giovani si stancano e cominciano a lavorare per conto loro. Si informano sulle cose che mancano in ufficio e si danno da fare per reperirle. Fanno statistiche e disegnano grafici bellissimi, archivi ano dati nel database, e fanno tutto questo in attesa che qualcuno li richieda, così che possano lasciare sulla scrivania il foglio bianco.
All'Ispettorato agrario alcuni giovani assunti con la legge numero 285, stanchi di non far niente, hanno messo su un bellissimo museo entomologico. In bacheche di vetro attaccate al muro sono racchiuse centinaia di specie di farfalle. Molti dei neo assunti hanno adempiuto a questo compito con tale impegno che hanno finito per somigliare agli insetti, tanto da vestirsi con abiti colorati come le ali delle farfalle raccolte, altri invece, come falene, in giornate di pioggia stazionano dietro i vetri, alla ricerca della luce. Altri ancora si rianimano solo quando qualche papà porta il suo bambino in quella stanza a fargli vedere le farfalle. Allora quei giovani si sentono utili e svolazzano attorno al bambino raccontandogli i cicli vitali delle farfalle, soffermandosi sullo stadio di crisalide, per illustrare per bene il momento dello sfarfallamento.


Ci sono (stati) pure quegli impiegati che non lavorano a Caserta, ma a Roma, e per mestiere fanno i pendolari. Ora, per molti anni i pendolari casertani aspettavano il treno per Roma al binario numero uno. Lo attendevano però molto avanti rispetto all' entrata della stazione, là dove, cioè, il marciapiede si assottiglia, lascia intravedere le fenditure e si confonde con il pietrame. L'espresso 746 arrivava in stazione alle 5. 30 circa. Il treno nasceva a Bari la sera precedente, ed era sempre pieno. I viaggiatori erano soliti allungare il sedile e unirlo a quello di fronte, così da formare un abbozzo di branda, su questo stendersi e provare a dormire. Ora, quelli che salivano a Caserta non trovavano posto o se lo trovavano dovevano scavalcare quelli che dormivano, farsi spazio tra le gambe e cercare di prendere posto. Ma in quegli scompartimenti c'era sempre cattivo odore, di cibi consumati in fretta, di profumi in dosi eccessive. E non era solo questo, in quegli scompartimenti c'era tensione, un po' per via di quell' odore che pungeva, un po' perché gli occupanti non erano tranquilli, si stiravano, si accucciavano, cambiavano posizione, si lamentavano ma non riuscivano mai davvero a prendere sonno. Si capiva che avevano passato una notte agitata o che li attendeva una giornata difficile. Il fatto è che per molto tempo 1'espresso delle 5.3 o ha portato a Roma quelli che dal Sud cercavano lavoro nella capitale. Quelli che cercavano lavoro nella capitale non avevano 1'aspetto dei disoccupati, piuttosto di sottoccupati organizzati. Qualcuno giù al Sud aveva pensato a curare il loro aspetto, affinché facessero bella figura. Te ne accorgevi dai vestiti buoni, quelli utili per il colloquio, stirati, ripiegati e incellophanati, quindi deposti con cura, in alto, sopra la pila delle valigie, così da evitare sgualciture. Dai capelli ben curati, tagliati corti. Dalle gonne che arrivano un po' più in basso del ginocchio, così da non provocare ma nemmeno nascondere le gambe, dai beauty-case da viaggio, voluminosi e colorati. Te ne accorgevi perché quelli che cercavano lavoro si radunavano tutti negli stessi scompartimenti, facendo attenzione a non mischiarsi con i viaggiatori, o avevano grossi zaini e libri che somigliavano a bignami, e cinte lunghe che sembravano fondine, per nascondere appunti. Quelli che cercavano lavoro non erano giovani e basta, erano un gruppo eterogeneo, di varie età, ma solidale, e unito, quasi un gruppo di amici, ormai vecchi conoscenti per passate avventure tra concorsi e colloqui. I pendolari però il lavoro 1'avevano già, e non solo, si sentivano parte di un mondo a se stante, cioè provavano difficoltà la mattina presto ad avere a che fare con la gente. Figurarsi poi se si trovavano nello stesso scompartimento con albanesi appena sbarcati o neri, quelli davvero puzzavano, e non era per questioni di razza, questo nessun pendolare lo pensava, era solo sporcizia. I pendolari casertani non desideravano altro che viaggiare in pace. Così, dato che erano in tanti, fecero una petizione, chiesero alle Ferrovie di aggiungere al treno altre due carrozze, riservate solo ai pendolari casertani. Raccolsero le firme e avviarono la domanda, ma accadeva che ogni mattina il treno si presentava senza le due carrozze e i pendolari chiedevano al capostazione a che punto fosse la loro richiesta. Il capostazione allargava le braccia, ridacchiava e diceva: e a che punto volete che sia? E ferma. Finché un giorno il capostazione, un po' perché era mattina presto, un po' perché si era stancato di rispondere sempre allo stesso modo, disse ai pendolari: insomma, andate da un politico. E alcuni pendolari andarono da un politico democristiano, fecero anticamera, esposero il problema, qualcuno sotto sotto promise voti, e finalmente prima delle elezioni i pendolari videro accolta la loro richiesta: alla stazione di Benevento vennero montate le carrozze, cosi che, quando il treno arrivava a Caserta aveva due carrozze vuote in testa. Ora, quasi tutti i pendolari casertani erano (e sono) degli impiegati ministeriali, tranquilli e pacifici. Lo erano sempre, tranne all'arrivo del treno. Quando 1'altoparlante annunciava il treno, i pendolari si avviavano di corsa verso la fine del marciapiede, perché 1'espresso era lungo e le carrozze vuote erano in testa. Il treno si mostrava d'improvviso, 8.ccendeva il faro sopra la locomotiva e spesso fischiava un paio di volte. A questo punto poteva capitare che qualcuno, giovane o vecchio, basso, secco, muscoloso o grasso, veramente il fisico non importava, cominciava a correre verso il treno, e tu pensavi, oddio, adesso s'ammazza. E invece scoprivi che il pendolare era uno che praticava sport estremi. Perché saltava sul treno ancora in corsa, s'aggrappava alla maniglia, poggiava il piede sull' abbozzo di pedalina, apriva la porta e correva nel corridoio a occupare un intero scompartimento. Gli altri da terra assaltavano il treno, non c'era cavalleria verso donne o bambini, ognuno per sé, tutti che spingevano per salire. E se capitavi davanti alla ressa, potevi essere sollevato da terra e ritrovarti nel treno, poi spinto nei corridoi e quindi gettato nel primo scompartimento vuoto. Cosi che spesso ti ritrovavi seduto senza sapere come. Quando c'era folla, come di lunedi mattina, ed erano in molti a salire sulle carrozze, per buoni dieci minuti le uniche frasi che sentivi erano: occupato? Si! Al che seguiva una maledizione o una bestemmia da parte del ritardatario che subito correva altrove per cercare un posto libero, oppure ne seguiva una discussione: occupato, da chi? E da uno che mo' viene. E via con il litigio. Poi, a cose fatte, qualcuno andava in toilette, prendeva una ventina di asciugamani di carta e li distribuiva. I pendolari più esperti utilizzavano la carta come rivestimento per i poggiatesta. Con la scheda telefonica, infilavano i lembi di carta nella fessura tra il vano divisorio e il sedile, cosi trasformavano il poggiatesta in un cuscino. Altri si limitavano a sgrassare i sedili. Mostravano a chiunque fosse nello scompartimento il nerume che insozzava la carta, dicevano a voce appena sussurrata: guarda qui che schifo, poi buttavano i fazzoletti il più lontano possibile. Quindi appena il treno partiva, si spegneva la luce, si tiravano giù le tendine e si provava a dormire. Cosi, i neofiti o i viaggiatori occasionali si trovavano al buio improvvisamente e se avevano l'ardire di dire: ma ... venivano tacciati con la frase: qui si dorme! Si provava a dormire, ma non sempre ci si riusciva. Perché di tanto in tanto arrivava il controllore a gridare: biglietti! Qualcuno rispondeva: abbonamento; giusto un filo di voce, un tono tenue e stanco, sperando che il bigliettaio non dicesse: me lo fa vedere per favore? C'era qualcun altro che dormiva con 1'abbonamento in mano, cosi alla richiesta, senza neppure aprire gli occhi, lo sollevava quel tanto che bastava per farlo vedere al controllore. Poi si arrivava a Formia, e quelli di Formia entravano negli scompartimenti senza creanza alcuna, facevano rumore, svegliavano gli occupanti e dicevano: ma che buio qui, fuori c'è un bel sole, aprite. E se si resisteva all' assalto di quelli di Formia, si cedeva poi quando salivano quelli di Latina. Ormai il sole era alto e i passeggeri appena entrati aprivano le tendine, e capitava sempre che un raggio di luce colpiva negli occhi qualche pendolare che si svegliava come scosso da una tortura. Eppure quasi tutti, pure quelli di Formia e di Latina, si addormentavano dalle parti di Roma, solo qualche minuto, ma di sonno profondissimo, tanto che spesso capitava che qualcuno rimaneva addormentato, addirittura russava, nonostante il treno fosse già fermo in stazione. E bisognava scuoterlo per svegliarlo. Ora, il pendolare casertano è una persona normale, cerca di stare sempre con gli occhi aperti e di non mostrare la stanchezza, solo che in certi momenti della giornata si sente terribilmente triste. Può capitare che in alcune serate estive, dolci e lievi qualche amico o un parente lo inviti a uscire per un gelato o una passeggiata. E lui scuote la testa, si dice amareggiato, ma non può venire perché domani deve alzarsi alle 4-45. Poi nel letto, con le finestre aperte, sente lo sciamare lento delle auto e delle persone, e gli prende una malinconia casi forte da non riuscire piu a dormire. Oppure decide di andare, dice: non fa niente, stanotte dormirò poco, poi, una volta fuori, comincia a sentirsi fuori posto, passeggia a qualche metro di distanza dal gruppo, incerto se tornare indietro a dormire oppure proseguire la serata con gli amici. Accade anche che in qualche mattina invernale, con il freddo che secca la pelle, sale sul treno e non ha voglia di parlare con nessuno. Si accoccola nel sedile e cerca di dormire. Ma non ci riesce. Allora nei pressi di Formia solleva un po' la tendina e guarda il mare. Se il cielo è sereno, vede l'alba. E certe mattine il colore del cielo assomiglia a quello del sangue e pian piano si espande a colorare anche il mare. E genera una luce cosi malata che a guardarla gli occhi si feriscono. Se invece il tempo è cattivo e magari soffia la tramontana, allora il mare avrà un colore cupo e viscerale, come se il vento sollevasse la superficie delle acque e mostrasse il fondo. In quei momenti il pendolare si sente come scoperto e indifeso, si alza, esce dallo scompartimento e va in corridoio a fumare una sigaretta. Può capitare che incontri un altro pendolare anche lui con il medesimo spleen e allora i due si siedono sul sedi olino del corridoio e cominciano a confessarsi le loro tristezze. Sono sempre le stesse: la moglie che si vede poco, i figli che sfuggono. E la stanchezza che pesa. Davvero non si può più andare avanti. Ma tutti e due sanno che in fondo, in quel modo, per tanti anni ancora, continuerà la loro vita. Cosi, capita che d'improvviso smettano di parlare e stiano zitti, e per lunghi momenti si sente solo il rollio del treno. E soprattutto il pendolare cercherà di non parlarti mai di quando d'inverno lascia Caserta con il buio e torna in città con il buio, e negherà che d'estate, in alcuni momenti, quando si torna sotto il sole della controra, può venire in mente di assassinare quello che vuole chiudere il finestrino perché soffre di reumatismi, e teme il vento. Ma è successo che hanno soppresso l'espresso delle 5.30. Il fatto è che quello era il treno di un onorevole e quando questi, dopo tangentopoli, è andato via, il treno è scomparso. I pendolari hanno sperato nell'onorevole Tanzarella che era di sinistra, e Tanzarella ha fatto mettere un treno, ma intorno alle 7.00. Troppo tardi. I pendolari hanno ironizzato sulla Sinistra, incapace di capire i veri desideri della gente. E allora un gruppo di pendolari si è detto stanco di rivolgersi ai politici, ha cercato di spiegare agli altri che su questo populismo spicciolo la Dc ha costruito un immenso potere, e tutti noi ne abbiamo pagato le spese. Cosi hanno cercato strade diverse, si sono rivolti al vescovo, al sindaco, alla gente comune. Ma non è successo niente. O meglio è accaduto che le Ferrovie abbiamo messo due treni, un regionale e un diretto, alle 4.30 e alle 5.00. I treni vengono da Napoli, fanno quasi tutte le fermate, sono sempre pieni e non hanno carrozze riservate ai pendolari. Ma tant'è. A questo punto non resta che sperare nell' Alta velocità. Eppure quando ho parlato con un pendolare, m'ha detto che lui e gli altri ancora non si sono arresi, che continueranno a lottare, perché è un loro diritto viaggiare, e non capiscono perché le Ferrovie penalizzino crudelmente proprio loro, che ogni mese, regolarmente, danno milioni e milioni alle Fs. Cosi ha mostrato tutti gli abbonamenti, dal 1980 a oggi. Poi ha detto che la sua vita continua tranquilla, e anche se adesso deve alzarsi alle 3.30 del mattino continua a fare le sue cose normalmente, sul treno legge, al ritorno va a prendere i figli a .scuola, insomma come se niente fosse; davvero si sente in forma. Però mentre beveva il caffè, la mano gli ha tremato e il caffè gli è caduto sui pantaloni. Allora ci ha guardato tristemente e ha detto che in fondo lo sa che prima o poi il suo gruppo di pendolari si sfalderà e qualcuno andrà a fare anticamera da qualche assessore, promettendogli voti in cambio di un treno. Poi, alle diciannove si è allontanato, perché doveva cominciare a prepararsi per la partenza dell'indomani.
Con il tempo i pendolari casertani hanno visto sparire del tutto i treni espressi. Alloro posto sono comparsi i pendolini prima e gli eurostar dopo. Ora, alcuni pendolari casertani si sono fatti afferrare per pazzi quando hanno visto il prezzo dell' abbonamento. Ma, nonostante il sangue amaro, alla fine, hanno ceduto al treno veloce. Ora, è strano notare come il design degli eurostar stoni non poco con la figura intera del pendolare casertano. Gonfi dal sonno, oppure irrigiditi dal freddo, con la testa tra le nuvole a pensare ai soldi spesi ogni mese, i pendolari si siedono sulle raffinate e rigide poltrone con gesti indifferenti o screanzati. E siccome continuano ad aver sonno la mattina o crollano dalla stanchezza al ritorno, succede che ogni volta si fidano di quei poggiatesta appena incavati, con quella linea che si curva disegnando una sottile e non invadente rotondità. Una linea che fa pendant con la fusoliera del treno. Si fidano e fanno male. Perché quel design pur raffinato suggerisce l'idea di fretta, di arrivo immediato, dunque non è fatto per poggiare la testa e dormire, ma per tenere la testa alta, pronta per cogliere la visione della stazione d'arrivo. Ma il treno veloce impiega quasi lo stesso tempo dell'espresso, dunque i pendolari crollati per il sonno si abbandonano sulle poltrone e disegnano una figura malsana. Scapuzzeano in continuazione. Con la testa penzolante come se girasse attorno a una molla, un po' come quei pupazzi che qualche automobilista mette sul cruscotto, i pendolari sanno che il loro sonno è motivo di risa per qualcun altro e di disagio per loro. E tra un risveglio e un altro, succede che quei pendolari casertani rimpiangano l'espresso 546, abbastanza volgarotto e sporco, con sedili infossati, sfondati, ma almeno comodi, dove, una volta ricoperti con la carta i poggiatesta, quei benedetti poggiatesta, cosl poco raffinati ma ottimi per dormire; quando, insomma, una volta chiuso lo scompartimento, almeno era possibile farsi una mezz'oretta di sonno in pace. Quando non squillavano i cellulari e la voce del controllore era più umana, non certo come adesso, dove fuoriesce potente dalle casse acustiche, e tenta (la voce) con malagrazia di adeguarsi a un tono sibilante e composto, annunciando l'arrivo in stazione.

Cosi, accade che quei pendolari, in preda a uno strano quanto incosciente e arcaico rimpianto, a volte si fermano in un negozio di mobili sulla statale Appia e comprano un divano che piace solo a loro. Lo sistemano nel salotto e vi si sdraiano. E quando la figlia iscritta ad Architettura arriva in casa, vede quella cosa li, in salotto, con il padre sopra con la bocca aperta, in apnea, e va dalla mamma a lamentarsi, esclamando: ma che cafonata avete comprato? allora il padre si sveglia di soprassalto e dal salotto alza la voce per dire: ma vaffanculo a te e a tutta la facoltà di Architettura di Napoli. Aggiunge con un tono più conciliante: vedi di non farti fa' fa' scema nella vita; e pensa azzittendosi: non fare come me; prima di crollare, adesso più rilassato nel sonno, abbandonandosi nellle braccia di quella morbida e comodissima cafonata.

Ci sono quei casertani emigrati in altre città del Centro o del Nord che sono scesi per le feste di Natale in città. Visto che i saldi cominciano generalmente il due gennaio a Napoli, quei casertani hanno deciso prima di tornare nelle loro nuove città di residenza, poi di andare a Napoli, un pomeriggio, per fare shopping. Girando tra una vetrina e un' altra, seguendo la moglie o la fidanzata in un posto carinissimo che vendeva vestiti veramente particolari, questi casertani hanno perso l'ultimo eurostar e hanno maledetto lo shopping, la moglie e la fiidazata, e quindi, si sono trovati a dover prendere un normale treno espresso. COSI hanno scoperto con sorpresa l'esistenza di un mondo che nell'euforia dello shoping pensavano non eistesse piti. Fino a un'ora prima, quei casertani, confusi tra centinaia di persone, intenti a passaggiare riuscivano solo a dire: quanta gente, ma dove sta questa crisi! Camminando per le strade di Napoli, percorrendo il retti filo fino a via Toledo, allungandosi per via Chiaia fino a Piazza di Martiri, dalle 17 fino alle 21, quei casertani, avevano l'impressione di essere nel bel mezzo di una manifestazione. Erano in tanti per le strade, accalcati. Marciavano a file serrate, come in un corteo, in attesa di raggiungere un fatidico punto di raccolta, una piazza.

Il fatto è che quando la massa è compatta è difficile capire qualcosa, anche individuare dei volti su cui riflettere risulta un processo complicato. Allora, quei casertani, chiedevano aiuto alla statistica, da tutta questa gente che marcia per le vie del centro, possiamo ricavare un indice di riferimento che ci dia il polso della situazione? Rispondevano: SI, perché la prima impressione è quella di una città lontana dai soliti aggettivi. Una Napoli dove tutto sommato si vive bene, le persone passeggiano ben vestite e spendono senza eccessivi problemi per la testa. Gli indici soliti: decadenza, camorra, disoccupazione, scarso spirito civile, speculazione e altro, questi indici, anche a volerli cercare, non venivano fuori. In sintesi: sembravamo in tanti, in marcia, e tanto contenti.
Finché quei casertani hanno perso l'ultimo eurostar e per aspettare l'espresso, hanno perso un po' di tempo in stazione. E hanno cambiato già giudizio. Non per la presenza dei barboni e, diciaamo cosl, della povertà manifesta, ma di una speciale tipologia di persone di cui quei casertani aveevano dimenticato l'esistenza: l'emigrante.
Nulla a che vedere con gli anni' 50, si intende.
Eppure sul treno espresso delle 2 I -44 con destinazione Torino e fermata intermedia a Roma, c'erano volti così somiglianti a quelli dei nostri nonni.
Il treno era un espresso, con carrozze solo di seconda classe non molto costoso e perciò pienissimo: erano occupati anche i predellini nei corridoi.
Quei pendolari in seconda classe, viaggiavano di sabato perché in tanti erano consapevoli di fare il viaggio in piedi, dunque per riprendersi sarebbe stata necessaria la giornata di domenica. Metà dello spazio era occupato dalle valige. Quei casertani di casi grosse non ne vedevano da tempo, grosse e piene di bozzi, si capiva che erano state riempite forzando tutti i limiti fisici. Chi erano queste persone che andavano in notturna a Torino? Operai e impiegati in marcia verso i luoghi di lavoro del Nord. Singoli e intere famiglie sistemati alla meno peggio sui sedili.
Non solo italiani, ma arabi, albanesi, rumeni, manovalanza a basso costo. Questi ultimi si erano sistemati nei corridoi e li si preparavano a passare la notte. Quei casertani si sono trovati ad ascoltare delle storie che avevano lo stesso ritornello: le vacanze erano finite, si tornava al lavoro. E il lavoro è possibile trovarlo solo al Nord, perché qui c'è solo disoccupazione, camorra e scarso spirito civile.
C'era un giovane con una pesantissima valigia rossa che parlava al cellulare con la ragazza: le diceva di resistere, perché Pasqua era vicina e poi ci sarebbe stato anche un bel ponte festivo tra aprile e maggio. Ma mentre le parlava guardava la valigia, cosi enorme. E si capiva che non ci credeva nemmeno lui, di tornare presto. Due anziani genitori si davano da fare affinché la figlia trovasse un posto a sedere e siccome aveva valige pesanti si informavano se qualcuno, una volta a Torino, avrebbe potuto essere così gentile da darle una mano. Poi si sono abbracciati, come se fosse l'ultima volta. Altri, che facevano il viaggio in piedi, si lamentavano e i casertani tendevano l'orecchio per ascoltare: gli affitti, anche nella periferia di Torino, erano impossibili e si poteva sopravvivere solo grazie ai soldi dei genitori pensionati.

A quei casertani, stipati in un vagone, improvvisamente sembrava di viaggiare nel tempo e non per Torino; sembrava loro che non fossero poi passati tanti anni dal boom dell'emigrazione. E dalle parti di Formia, quando il mare appare a volte cupo e inquieto, quei casertani, presi da un improvviso spleen si chiedevano se lo shopping natalizio a cui avevano partecipato poco prima con moglie o fidanzata, fosse solo un modo per rimuovere 1'angoscia del ritorno. Fare finta di percorre le strade tutti insieme a file compatte, contenti, prima che un treno li riportasse alla vita vera. Anzi: alla sopravvivenza vera.

È strano d'altra parte notare come i treni siano sempre più frequentati. Non le tratte locali, quelle sono frequentate oltre la cosiddetta soglia critica: passeggeri in piedi, affollamento. Sono sempre più frequentati i treni del genere Es e Av fast, anche se le tariffe risultano alte, anche se ogni gennaio l'aumento dei prezzi è nootevole, anzi, nonostante tutto questo, spesso i passeggeri fanno la corsa per prenotare i posti in prima. Alcune tratte, come quella Roma-Milano della mattina, ospitano un ceto medio-alto che trasforma la propria postazione in una sorta di ufficio; si tolgono la giacca, lavorano al pc, fanno telefonate di lavoro. In fondo l'ambiente, voglio dire, la carrozza, il sedile con il design raffinato, la voce gentile del personale di bordo, i frequenti annunci del capotreno che ci invita a comportarsi civilmente, il dover abbassare la suoneria del celllulare, il parlare a voce bassa per non infastidire il tuo prossimo, tutto questo è accogliente, rilassante. Questa nuova antropologia del viaggiatore Es, Av fast, fa pensare che il treno va, risulta preferibile all' aereo. Però, a un' analisi più attenta, meno emotiva, c'è qualcosa che non torna. Questi treni veloci, tanto e giustamente decantati, non vanno affatto veloci. Alcuni dati parlano chiaro: per esempio, il treno notturno che collegava nel 1997 Milano a Reggio Calabria, meno suggestivo degli Es, quel treno, certamente più sporco e disordinato, impiegava per percorrere la tratta, tredici ore e cinquantacinque minuti. Oggi impiega quindici ore e cinque minuti. Alte anomalie, il treno alta velocità che corre sulla linea Napoli-Roma impiega a oggi un'ora e ventisette minuti. Il famoso treno arlecchino negli anni '60 percorreva la tratta in un'ora e venticinque minuti. Ognuno di noi viaggiatori può compilare il suo elenco di esempi di ugual segno, tanto che a questo punto purtroppo viene obbligatoria la metafora: questo treno veloce diventa simbolo di un'Italia piena di buoni propositi e a volte di roboanti dichiarazioni di intenti, ma che poi, a un' analisi piu approfondita, risulta essere un'Italia che copre la sua stanchezza affidandosi al solo bel aspetto esteriore. I prezzi poi risultano, fatti i conti, in linea con quelli europei, ma a voler fare un paragone, uno soltanto con la Germania, ne usciamo perdenti (i confronti si potrebbero fare anche con la Francia e la Spagna). Ne usciamo perdenti per tre ragioni. La prima: la Deutsche Bank concede la possibilità di acquistare un abbonamento molto conveniente il cui possesso, in alcuni casi, dimezza il prezzo del singolo biglietto. Inoltre parte dei profitti ottenuti dalla ferrovie tedesche saranno destinati a creare nuovi investimenti nel settore, cioè verranno usati per investire nell' ammodernamento del trasporto locale e nell'acquisto di nuovi treni - si punta, per esempio, ad alzare la puntualità dal91 per cento attuale a194 per cento. Infine, quei treni tedeschi corrono per davvero - così come corrrono davvero quelli francesi - 574 km/h l'ultimo record di velocità, con grande vantaggio di tutti - almeno per quelli che non subiscono il fascino dei treni a vapore. Quelle aziende europee cercano di alleviare i disagi di chi si deve spostare e così facendo di migliorare l'efficienza collettiva della rete ferroviaria. In Italia, visto e considerato la situazione treni, ci viene da fare invece una seconda metafora: il nostro paese finge sempre più del necessario. Si finge capace di occuparsi del benessere della collettività usando gli strumenti della modernità (alta velocità, puntualità, servizi integrati, strutture rinnovate), ma a ben vedere sono solo parole, sotto non c'è nessun piano, serio e condiviso, volto all'utile collettivo, tanto è vero che l'ultima finanziaria ha tagliato 324 milioni di euro per i collegamenti ferroviari locali (in parte recuperati con un Dllgs). Insomma, si punta giustamente sulla velocità, ma poi questa velocità si raggiunge solo in alcuni tratti - declamando il risultato a pieni polmoni - e lo si fa a discapito .di tutti quelli che vari motivi, soprattutto economici, non rieescono a usufruire della velocità. Il contrario di quello che dovrebbe accadere. Altrove, si avanza gradualmente, cercando di andare tutti insieme; da noi si finge di avanzare e si abbellisce il cammino con bei discorsi, ma poi in realtà si scaricano i cos ti su quelli che sono costretti, non per vocazione ma per condizione sociale, ad andare più lenti.

A Caserta, ci sono quei giovani politici che quando erano più giovani non si sono mai occupati di politica e, dopo l'adolescenza, tutto d'un tratto, si sono candidati per un (qualsiasi) partito di centrodestra. Accade che poco prima delle elezioni mentre cammini per strada incontri qualcuno che, tra una cosa e un'altra, ti dice che quel tuo ex compagno di scuola si è candidato. Se tu ribatti: ma chi? quello? e perché?, la persona che hai incontrato farà la faccia vaga, risponderà: non lo so, tutto all'improvviso, bello e buono, si è candidato. Può capitare, pure, che dopo qualche giorno ti arrivi la telefonata del tuo ex compagno di scuola. Mentre ti saluta calorosamente e ti domanda notizie della famiglia tutta, ti chiedi da chi mai abbia avuto il numero visto che non lo senti e non lo vedi da dieci anni. Cosi, durante la conversazione cominci a inseguire dei flashback che ti riportano in una dimensione adolescenziale, dimensione, tra 1'altro, che volevi rimuovere per sempre. Quel tuo ex compagno che adesso ti sta raccontando la novità, e cioè la prossima sua candidatura per un partito di centrodestra, è proprio quello che quando si era ragazzini, e si intavolava una discussione politica, proprio mentre ti facevi venire il sangue amaro perché il tuo interlocutore aveva espresso
un giudizio che ti aveva fatto toccare la nervatura, quel tuo ex compagno, dicevamo, si era messo in mezzo: guardate che state dicendo la stessa cosa. Come la stessa cosa? Stiamo da due ore a discutere. Ma lui ribatteva che la pensavamo proprio allo stesso modo. Dunque non c'era ragione di prendersela tanto. Cosi, tu e il tuo contendente avevate smesso per un momento di discutere e lo avevate guardato. Solo un attimo di complicità, prima di riprendere la discussione.
Adesso, mentre ti comunica che si è candidato e ti chiede il voto, fai fatica a credere a quello che stai ascoltando: come fa il tuo ex compagno a non ricordare quelle discussioni politiche, come fa a non ricordare che tu voti dall' altra parte?

Comunque, in tempo di elezioni sono tanti a chiederti il voto. Ora, a Caserta quelli che si candidano per la Destra sono spesso medici o commercialisti, quelli insomma che hanno già garantito un bacino d'utenza fondato sulla necessità, dunque interclassista. Può capitare, allora, che ti telefoni il tuo medico generico per chieder ti il voto. E un buon medico, è molto simpatico ma proprio non te la senti di dargli la fiducia come politico, dunque sei costretto a fare uno sforzo per dirgli di no, con tutto il rispetto, ma no. Nei mesi successivi, però, ogni volta che ti rechi da lui perché hai un piccolo malanno, sei colto da inquietudine. Perché il tuo medico ti visita, fa la faccia preoccupata e decide di prescriverti delle analisi strane. Siccome pensi che potrebbe essersi offeso per la questione del voto, non capisci mai bene se quelle analisi sono davvero necessarie, oppure sia solo un modo per vendicarsi. Nonostante tutto !'impegno, non riesci a scrollarti di dosso quella sensazione e qualche volta cambi medico, reclamando protezione da quello che ritieni essere una strana e personalissima specie di conflitto di interesse.

Quando, poi, smetti di parlare con il tuo ex compagno, quando cerchi di fargli capire che non è cosa insistere, perché, anche se usa un tono dolce, con la politica non si scherza, insomma, quando tutto questo finisce, tu esci e cerchi di rincontrare quel tuo contendente rimasto fascista per chiedergli: se davvero vi alleate con uno cosi, come farete, poi?

Quando succedono queste cose, a Caserta, ci sono quei casertani che si pigliano proprio una malattia. Non riescono a farsi capaci. Perché uno cosi si è candidato? Incontrano altri ex compagni e cercano di capire se quell'ex compagno avesse manifestato un segnale di interesse per la politica. Ma nonostante il tanto indagare, tutti gli intervistati ricordano sempre lo stesso fatto. Era uno che interveniva nelle discussioni per dire: state dicendo la stessa cosa, proprio la medesima cosa.

Ci sono, poi, quei casertani che sono diventati politici di centrodestra e che da giovani sono stati tuoi compagni di banco. Erano svelti e avevano una buona parlantina e spesso venivano eletti come rappresentanti di classe. Riuscivano a imparare tutto a memoria e sapevano copiare tutto quanto c'era da copiare, ma con grande eleganza, pure alla cattedra riuscivano a portarsi dietro il materiale da consultare. Si erano per un po' interessati alla filosofia, finché filosofo dopo filosofo, un giorno, durante un' accanita discussione, avevano seriamente sostenuto che la filosofia fosse solo una presa in giro: non si faceva in tempo a imparare una cosa che già era vecchia. Dunque, tutto era inutile. Cercare un valore assoluto che misurasse le scelte della vita non valeva lo sforzo. Meglio lo sport, almeno II si sapeva quando si vinceva e quando si perdeva. Avevano lasciato perdere la filosofia, cioè l'avevano imparata a memoria. Senza convinzione alcuna avevano preso la maturità con buoni voti, e, contemporaneamente, erano diventati sportivi e tali erano rimasti, finché un bel giorno, tutto all'improvviso, non si erano candidati alle elezioni. Ci sono quei casertani che sono rimasti ore e ore incantati davanti al televisore per guardare le tribune politiche alle Tv locali, durante le quali l'ex compagno di banco con foga da oratore, citando una miriade di filosofi, proponeva la sua candidatura. Quei casertani a un certo punto della trasmissione hanno creduto di vedere un foglietto nascosto, cosi hanno chiamato la moglie per mostrare quell'ex compagno di banco ora candidato che copiava allora come adesso. Ma la moglie con tutto l'impegno possibile non riusciva a scorgere il foglietto e comunque sosteneva che in fin dei conti, con o senza foglietto, copiando o no, diceva delle cose condivisibili. Forse 1'avrebbe votato.
Altri ricordano che l'ex compagno era uno che non perdeva tempo, e infatti mentre alcuni casertani si davano improduttivamente da fare su tutte le delicate e dolorose vicende del mondo, lui studiava.
Studiava, e leggeva i libri di scuola. Non leggeva altro né andava mai al cinema. Anzi, guardava solo alcuni film. Era uno che amava i film di Lino Banfi, tanto è vero che l'ultima volta che lo si era incontrato al cinema era stato a quattordici anni quando, barando sull'età, si cercava di vedere una commedia erotica italiana. Oppure vi eravate incontrati, e seduti pure uno vicino all' altro, durante la proiezione del Tempo delle mele o di Flashdance, però con tutto l'impegno, adesso, non ricordi se quei film gli erano o meno piaciuti. Qualcun altro lo ricorda alla sua festa dei diciotto anni, nella villa, proprio ai confini della città. Tra begonie, bougainvillee, siepi di cupressacee e alberi di arancio, alcuni casertani erano entrati nella stanza del futuro politico e avevano scoperto che non c'era nemmeno un poster alle pareti. Solo parati intonsi, di un bel colore giovane. A fianco del letto non c'erano né fumetti né libri, sulla scrivania un testo di scuola. In un angolo una chitarra. Ma se qualcuno, contento di aver trovato, finalmente, qualcosa, avesse tentato di suonarla, si sarebbe accorto che mancavano due corde: il do maggiore e il re. Poi si erano perse le tracce dell'ex compagno, fin quando non era diventato commercialista e aveva aperto uno studio nel centro della città. Uno studio arredato in maniera semplice come semplice e spoglia era stata un tempo la sua cameretta, solo che in un angolo, assieme agli attestati di laurea e specializzazioni varie, l'ex compagno aveva appeso uno stemma dei Barboni.

A Caserta ci sono quei professionisti che mentre parlano del calcio o di qualunque faccenda, dicono: a noi ci ha rovinato Garibaldi. Cosi, cominciano a parlare e diventano improvvisamente borbonici. Sembrano quegli estremisti cattolici che quando meno te 1'aspetti ti ricordano tutte le possibili tentazioni del diavolo. Quando entri nei loro studi li trovi tappezzati di quadri raffiguranti dinastie borboniche, oppure ritratti di Carlo III o Ferdinando di Borbone in pompa magna. Quei professionisti sono capaci, quindi, di illustrarti a menadito tutte le onorificenze ricevute dai re borbonici. Altri studi professionali, poi, sono di suprema eleganza, con parquet e librerie in radica di noce, arredamenti tenuti sempre lucidi da polacche che per ragioni di creanza hanno i capelli raccolti dietro la nuca ma la schiena curva sul pavimento. Il fatto strano è che in questi studi, nonostante siano arredati con oggetti di lusso o grazie al design più spregiudicatamente moderno, in questi studi, dunque, si fa fatica a trovare un giornale decente. Si trovano, infatti, solo giornali cittadini, noti per la loro tendenza a titolare con cadenza giornaliera fattacci camorristici, fattacci strillati e mai analizzati. E come se questa borghesia di liberi professionisti fosse interessata in modo morboso a tutto quello che avviene in città e del tutto disinteressata a quello che c'è fuori, fatta eccezione, ovviamente, per i beni di consumo. (Ci sono, allora, alcuni direttori di giornali non locali che nonostante facciano un buon lavoro, proprio non riescono a vendere come vorrebbero il loro giornale, cosi si innervosiscono non poco, e passano la domenica mattina sul corso di Caserta a guardare quante sono le persone che leggono il giornale e quante quelle che leggono i giornali cittadini. Non riescono a tornare a casa sereni per il pranzo domenicale).

Avresti scoperto a breve che quello stemma rappresentava tante cose: un punto di riferimento, un hobby, un attestato di appartenenza a un élite del Sud, un puntiglio, una fede, un vanto.
Giorno dopo giorno, l'ex compagno di scuola era diventato sempre più un buon commercialista. Aveva impostato la voce su un tono calmo e cordiale; tono che riusciva a mantenere su quelle note, dalla mattina presto fino a sera tardi. A ogni controversia, quando il modello della dichiarazione dei redditi proprio non tornava, quel commercialista riusciva sempre a spiegare che non c'era problema, che tutto si risolveva, che tanto, alla fine dei conti, nonostante le apparenze, loro e l'Erario stavano dicendo la stessa cosa. Con questa storia della stessa cosa, 1'ex compagno di scuola aveva raccolto un sacco di clienti. Cosi, arrivato il tempo delle elezioni, qualche politico scafato 1'aveva individuato, o meglio aveva individuato 1'apprezzabile serbatoio di voti, e l'aveva proposto per la candidatura.
I politici scafati, che mantengono pose assolutistiche, scelgono i candidati per il loro collegio in base alla debole personalità del potenziale prescelto. Sono infatti alla ricerca di persone in grado di obbedire, non per adesione alle scelte da attuare, ma per totale mancanza di un metro di giudizio sulle medesime. Insomma personaggi che da soli, senza le giuste direttive, non potrebbero mai racimolare un solo voto, dunque incapaci di candidarsi autonomamente e, casi facendo, dar fastidio al capolista.
La proposta di candidatura era stata preceduta da una riunione dove il politico scafato gli aveva fatto un sacco di complimenti per la sua pacatezza e il bon ton, gli aveva fatto conoscere la sua signora e la prole, l'aveva invitato a incontri mondani durante i quali si era mangiato meravigliosamente bene. Infine, il politico aveva individuato un nemico comune da abbattere e gli aveva affidato l' abbattimento. Cosi, il giovane commercialista si era sentito investito di un riconoscimento non solo formale: lo si richiedeva per una missione importante e gli si prospettava un buon futuro in quel settore.
Per inciso, si deve dire che se la proposta al giovane commercialista fosse stata fatta da un politico di sinistra il risultato avrebbe potuto essere lo stesso, perché, in fin dei conti, le modalità di reclutamento nei due schieramenti sono identiche.
Dunque, l'ex compagno era diventato un possibile candidato e per questo, siccome un tempo avevate frequentato la stessa classe, ti aveva telefonato chiedendoti il voto. Ma non solo a te, a tutti. Con la voce pacata e accomodante aveva risposto a ogni tua osservazione, dicendo che di sicuro avevi ragione anche tu, e dunque si sarebbe battuto per sostenere le tue idee. Durante la campagna elettorale, poi, siccome ciascuno aveva ragione su qualche caso specifico, l'ex compagno aveva cercato di accontentare tutti e con tutti aveva parlato e a tutti aveva detto che in fin dei conti si pensava tutti la stessa cosa, cosi tanto valeva non disperdere il voto e concentrarlo su una sola persona: lui.
Ci sono quegli ex compagni di scuola ed ex commercialisti che vengono eletti e diventano portaborse di qualche ex politico scafato diventato assessore con le ultime elezioni. Anche se non si sono mai occupati di politica, e non sanno bene da - dove iniziare né quali idee sposare e quali respingere, si fidano delle direttive dei superiori. Siccome sono molto ferrati nelle cose pratiche e siccome le cose pratiche hanno valori relativi che dipendono dalle circostanze, dunque non fanno leva su una coscienza politica, quei portaborse si danno da fare per risolvere tutti i problemi scottanti senza disturbare 1'assessore con inutili travagli di coscienza. Sanno bene, grazie anche alla loro esperienza di cose pratiche, quotidiane, che alla fine l'importante è che i conti tornino, un po' come per la dichiarazione dei redditi.
Capita che la politica gli prenda molto tempo, anche perché le questioni scottanti sono molte, così devono affidare lo studio a persone di fiducia che scelgono dopo apposite riunioni, durante le quali valutano 1'affidabilità dei candidati, e cioè il loro modo di porsi, meglio di non porsi, davanti a determinate questioni scottanti. Prendono pure delle segretarie molto belle che colorano l'ambiente con vestiti attillati, segretarie che poi, molto spesso, vengono allontanate dalla moglie dell'ex commercialista, la quale, considerato che adesso il marito è una persona importante, e il potere, unito alla compagnia di una bella ragazza, potrebbe farlo uscire di testa, la moglie, dicevamo, prende in mano baracca e burattini e si cura di scegliere personalmente segretarie più brave e meno belle, selezionate con attenzione tra quelle che hanno studiato bene a scuola e che sanno parlare con un minimo di classe.
Nel frattempo i giovani portaborse hanno il duro compito diplomatico di mettere tutti d'accordo su ogni questione. Dunque intervengono molto spesso in sede di gabinetto legislativo, quando sono varate delibere comunali e piani d'attuazione. Ma pure quando si richiedono proposte di intervento, proposte di modifica e integrazioni di un intervento precedente, modifiche in corso d'opera di un intervento iniziato venti anni prima. Siccome le ragioni dei tanti sono impellenti, si avverte il bisogno di accontentare tutti. Se si comincia a litigare su una questione scottante e non ci si riesce a mettere d'accordo subito, 1'assessore, una volta pronte le bozze della delibera, affida al portaborse il compito di sentire le parti. Quando si comincia a litigare su ogni cavillo, il portaborse interverrà con la sua voce calma e dirà: la pensiamo, in fin dei conti, allo stesso modo.
A questo punto, il portaborse fa battere alla sua segretaria la bozza, chiedendole, però, di impaginare il documento in due colonne: una con il testo, l'altra in bianco, così da accogliere tutte le modifiche e le integrazioni alla proposta di legge regionale.

Qualche volta, quando la segretaria sa usare bene il Word si compila la bozza evidenziando le correzioni e sottolineando le modifiche, cosi che tutti i contendenti abbiano chiara, su carta, la situazione provvisoria e quella definitiva: sappiano, cioè, quanto gli è stato concesso, e dunque quanto contano le loro parole. Però, siccome le modifiche e le correzioni richieste e riportate sono tante, spesso l'operazione richiede molta memoria, e il Pc va in panne.

Il portaborse andrà dalle singole parti a mostrare la bozza, sulla quale si possono scrivere le modifiche. La faccia pacifica e il tono conciliante del portaborse, saranno in grado di opporre resistenza elastica alla foga invettiva di qualunque avversano.

Alcuni portaborse, con il tempo, cominciano a prendere coscienza delle potenzialità delle loro facce. Grazie a quelle, sono capaci di diventare amici di tutti e pian piano di introdursi nell' animo di ognuno. Prendono o copiano da ciascuno quello che a loro appare utile e funzionale in quel determinato momento, poi riescono a mollare tutti quelli con cui avevano fatto comunella, e a organizzare una cordata contro gli stessi ex amici. Sanno, allora, come costruirsi una solida cerchia di amici e sanno come abbandonare gli stessi ex amici senza per questo scontentarli più di tanto. La loro vaga ma pratica cultura sui costumi del mondo fa si che non sia difficile trovare, di volta in volta, una buona giustificazione per non sentire la responsabilità di un tradimento, o non sentirsi a disagio se si fa una scelta fino a un attimo prima criticata. Dunque (non 1'analfabetismo ma) la cultura di ritorno, invece di promuovere il senso di responsabilità individuale, disciplina al meglio la flessibilità individuale.
Il suo compito, cioè, non sarà quello di fare ragionare l'avversario secondo un principio valido, ma farlo sfogare, senza suscitare nessuna reazione di sorta. Quando, dopo, l'avversario vedrà l'impassibile faccia candida del portaborse, candida e soprattutto stupita, perché non c'è ragione di prendersela tanto: la pensiamo tutti alla stessa maniera; e vedrà sul foglio quella colonna bianca, potenzialmente tutta per lui, allora si calmerà. Si renderà conto che potrà apportare delle modifiche, non di sostanza ma di principio. Ma tanto basta. Si intende che più che ragionare sulla validità della legge, ci si propone di conservare il principio contrattuale, ovvero rappresentare gli interessi del proprio serbatoio di voti. Siccome a Caserta gli interessi non solo sono piccoli ma sono diffusi e vari, il portaborse viaggerà da interessi piccoli a pic" coli interessi, evitando di contraddire e facendo notare che lo spazio nella colonna bianca è limitato, dunque le modifiche devono essere contenute. Alla fine del suo lungo, estenuante lavoro, dopo che perfino la sua faccia pacata conserverà dei segni di turbamento, evidenziando magari, di tanto in tanto, piccoli tic ancestrali, la bozza ritornerà in giunta. Vista dall'alto sembrerà adesso un confuso geroglifico dove a ogni comma scritto a sinistra del foglio corrisponderà, dalla parte destra, un: si integra con ... o: si aggiunge il seguente punto. Integrando e puntualizzando, la bozza sarà riscritta. A cose fatte lo spirito della legge sarà evaporato mentre quello della rappresentanza dei singoli interessi si sarà conservato.
Questo lavoro crescerà man mano sempre più, cosi il giovane portaborse comincerà a impegnarsi full time, tornando a casa intorno alla mezzanotte. Non è che sarà stato in Comune fino a quell'ora, al contrario: sarà andato magari a cena con qualcuno che voleva, o da cui si voleva, qualcosa. Ora, quando si vogliono molte cose da qualcuno o ci sono tante cose che qualcuno richiede, il giovane portaborse non riesce a organizzare al meglio la sua agenda, troppe cene, troppi appuntamenti da fissare, troppe persone inutili da ascoltare, dunque per regolare meglio la sua agenda e stabilire incontri più produttivi richiederà e otterrà l'aiuto di un giovane portaborse in seconda.

A Caserta, ci sono anche quei portaborse che davvero non fanno altro che portare la borsa. Quando, ad esempio, durante una festa di gala arriva il politico di turno, questi sarà seguito a due o tre passi di distanza dal suo portaborse che gli porterà la borsa. C'è da chiedersi a che serve una borsa con dentro chissà cosa se il politico durante la festa non ne richiederà l'uso. La borsa, dunque, potrebbe restare in macchina, dove sarebbe al sicuro, considerato pure che in macchina c'è 1'autista che aspetta.

Invece resta per tutto il tempo in mano al portaborse che beve o mangia palleggiandola da una mano all' altra. A volte l'espressione dei loro visi tirati da un lato dal peso della borsa stona con i completi grigio fumo così impeccabili. Altre volte, invece, il giovane portaborse avrà un luccichio cinico negli occhi che risalterà al meglio quanto più il viso è sbarbato e giovane. Si capisce che spera di essere un giorno al posto del politico che in questo momento sta parlando al centro di una capanella di persone, e tutti quelli intorno annuiscono a ogni sua frase. Anche lui a qualche passo annuisce, e non si capisce se sta pensando di essere d'accordo con il capo o se pensa che un giorno, imparato quanto c'è da imparare, gli farà la festa.

Il giovane portaborse in seconda farà in modo che il portaborse principale non sia subissato di inutili fastidi. Man mano che crescono gli interessi e la rappresentanza allarga la sua base, il giovane portaborse in seconda dovrà, cioè, restringere il cerchio, selezionando solo gli interessi e la rappresentanza di quelli che veramente possono tornare utili al portaborse in prima e dunque, salendo via via di grado, al politico di riferimento. In questo enorme lavoro di selezione e restringimento, piano piano, prima il portaborse in seconda, poi il portaborrse in prima, infine il politico subiranno un vuoto di esperienza. A forza di analizzare, di eludere, di scremare, di stendere verbali rispettando solo alcune istanze e non altre, invece di ascoltare tutto quello che arriva dal mondo di fuori, il portaborse in seconda poi quello in prima e infine il politico, dovendo sentire solo quello che interessa alloro piccolo mondo, si allontaneranno sempre più dalla vita e sempre più spesso vivranno in un luogo che è il surrogato del mondo politico.

A Caserta, poi, i politici di destra sono tra i meno colti al mondo. Si sono formati nell'etica del pragmatismo propria dell' ambiente culturale dei pragmatici casertani, ossia fare solo le cose pratiche più velocemente possibile senza chiedersi troppo, ma poi difficilmente si confrontano con altri mondi. A fine giornata, stanchi, quando proprio si vogliono divertire, non trovano altro da fare che riunirsi in gruppo, tra l'altro lo stesso finora frequentato, fare comunella e andare in qualche locale a bere birra o a mangiare panini imbottiti e scaldati alla griglia. Quando la serata va bene è perché qualcuno di loro, il più spiritoso, avrà raccontato delle barzellette a doppio senso veramente divertenti. Quando va male si sarà parlato in dettaglio delle caratteristiche dello stereo, della macchina, del telefonino e del computer o del rasoio elettrico. Quando va male, avranno visto uno spettacolo di macchiette napoletane, spettacoli di cui i cartelloni teatrali casertani sono sempre ben forniti. Usciranno dallo spettacolo con la faccia divertita e l'animo annoiato, dunque si recheranno in un pub per bere birra e cercare di riprendersi.

Per questo succede che un giorno, di mattina presto o di sera tardi, incontri l'ex compagno di scuola ora portaborse. E con i suoi amici di centrodestra e sta ascoltando qualcuno che parla. O almeno tenta, perché lo vedi che tende l'orecchio e alza un sopracciglio. Così la sua faccia sempre impassibile ora si turba e assume un' espressione più brutta ma sicuramente più umana. Il portaborse non riesce ad ascoltare bene quello che il collega sta dicendo. La voce dell' altro gli arriva flebile e si perde strada facendo. Poi prova a dire qualcosa e la lingua si ingarbuglia, la voce esce stridula e deve schiarirsi la gola più volte. Forse in quel momento ha un'idea sua che spinge per uscire perché in contrasto palese con quello che sta ascoltando; forse, siccome è mattina presto o sera tardi, il mondo surrogato dove finora è vissuto si è screpolato, a causa del candore di quel mattino o per l'usura della giornata passata. Dunque l'altro mondo, quello più ingenuo e più brutto, ma più vero, si fa prepotente e vuole entrare, e forse, per questo, il portaborse prova un senso di disgusto. O forse, chissà, probabilmente vorrebbe abbandonarsi al ricordo delle cose che prima gli erano familiari: quando seduto alla sua scrivania riceveva i clienti, spiegava il da farsi. Adesso, mentre gli accade di essere in balia di un' emozione, proprio perché rimpiange i suoi clienti e il suo studio che ha ancora e funziona meglio di prima, anzi più lui è assente meglio funziona; quando insomma il portaborse prova tutto questo, può succedere che abbandoni il suo interlocutore e con disagio cominci a guardarsi intorno. E cosi che ti vede. Ti sorride, fa un saluto un po' grasso che va contro tutti i canoni del suo bon ton, chiede scusa agli amici, esce dal gruppo e ti viene a stringere la mano. Siccome in fin dei conti non vi siete mai sopportati né stimati, non riuscite a dirvi niente di fondamentale, però per la prima volta senti che quella conversazione basata sul nulla e su alcune frasi fatte che pure tu pronunci con vigore, quella conversazione fatua è un'esperienza che non porta a niente, ma che senti, in ragione di questo sentimento gratuito, piena di vita vera. E l'unico momento in cui siete davvero d'accordo su tutto, per questo non sentite il bisogno di dirvelo. Per la prima volta ti è quasi simpatico. Cosi, adesso che hai appena lasciato l'ex compagno di scuola diventato portaborse, adesso che ti è quasi simpatico perché l'hai visto umano, ti fermi per strada, chini la testa e pensi: non è che davvero aveva ragione lui, non è che davvero dicevamo tutti a stessa cosa? Sei colto da un brivido che un po' ti scuote.
Ci sono, poi, quei giovani che sin da piccoli hanno fatto politica ma non si sono mai voluti iscrivere a un partito. Alcuni sono di buona famiglia e abitano in un appartamento con mansarda. Nel salone grande e spazioso, pieno di luce, ci sono tavolini e mensole che ospitano le foto di quei gioovani assetati di passione politica. Li raffigurano bambini sorridenti mentre sono spinti in aria dal papà che aspetta il loro ritorno con le braccia aperte. Hanno capelli lunghi e pieni d'aria. Sotto il televisore ci sono almeno dieci cassette che raccolgono i filmini super 8, ora riversati su nastro magnetico. Qualche filmino fa vedere il giovane assetato di politica, non ancora adolescente, mentre segna un bellissimo gol di testa, e la telecamera comincia a tremare perché il padre, che sta riprendendo, urla di gioia e di emozione e corre ad abbracciare il suo bambino. Quel salone non è stato sempre il loro salone, perché prima, quando anche il padre era ancora un ragazzo, abitavano in una villetta condominiale alla periferia della .città. Il padre tornava a casa dopo le cinque e passava il resto della serata in compagnia dei bambini, e quelle foto non sono ingannevoli. Rappresentano una gioia non illusoria. Poi, siccome quei giovani padri erano pieni di ambizioni e di rabbia, siccome si erano liberati a fatica da un padre contadino burbero e gran lavoratore, siccome volevano altro dalla vita, e lo volevano soprattutto per i loro figli, allora quei padri hanno cominciato a lavorare sempre di più, e sempre più di frequente hanno ottenuto ottimi risultati. Qualcuno è diventato dirigente di una grossa azienda, e molti hanno cominciato a guadagnare un sacco di soldi. Hanno cambiato casa, si sono spostati in un' altra periferia che però era considerata una periferia di lusso. Hanno arredato la casa con gusto e lasciato l'ultimo piano vuoto, cosi che un giorno i ragazzi potessero farci quello che desideravano. E i ragazzi sono diventati grandi. Quando gli anni Ottanta erano appena iniziati, quei padri hanno visto i loro figli trasformarsi. Adesso non facevano pili sport e quei palloni acchiappati al volo con slancio e inventiva rimanevano a terra e presto si sgonfiavano. Quei figli leggevano «il manifesto» e dal Club degli editori del quale quei padri erano soci arrivavano pacchi di libri strani. Pacchi con dentro Marcuse o testi di Fromm. Cosi erano iniziate le prime discussioni. Quei padri erano entrati nella stanza del figlio e l'avevano trovato sdraiato sul letto, ai piedi ancora le ciabatte, immerso nella lettura di Avere o essere? Avevano cominciato a dirgli: ma che significa avere o essere, come fa l'uomo a essere senza avere, tu ad esempio come faresti ad avere questo libro se non te lo pagassi io? Avevano preso a litigare, prima con discrezione poi con violenza', ogni giorno, e ogni santo giorno la moglie doveva mettersi in mezzo cercando di sdrammatizzare con una battuta o con una carezza affettuosa al figlio. Ma presto, le battute divenntarono stupide e le carezze fastidiose. Le discussioni iniziavano sempre con la frase: bello fare il comunista con i soldi in tasca, e finivano con la variante: bello fare il comunista con i soldi in tasca.

Molte delle discussioni tra quei padri e quei figli casertani riguardavano le canzoni dei cantautori. Un giorno capitava che mentre il figlio stava seduto nel salotto di casa a guardare una rara apparizione di Guccini in televisione, il padre arrivava e cambiava canale. Si era dunque avviato il seguente discorso: ma che cazzo di musica senni? I lamenti di un ubriacone. Uno che canta di suo nonno e della sua famiglia, allora pure io posso mettermi a fare il cantautore. Alla risposta del figlio: ma questa è arte, il padre si era fatto afferrare per pazzo. Arte? Questi sono lamenti. La canzone deve essere divertente, si deve poter cantare a squarciagola, altrimenti che canzone è. E quando il figlio ribatteva che lui, il padre, di Guccini non sapeva un cazzo, allora il padre diceva che sapeva quanto gli bastava di sapere. E gli citava Canzone per un' amica, perché voleva proprio vedere se aveva il coraggio di difendere una canzone come quella. Uno che esce a farsi una passeggiata con un' amica per andare a fare 1'amore al mare e va a sbattere contro un albero, insomma ti viene voglia di grattarti. Queste discussioni sono andate avanti per anni, fino a quando un giorno il figlio diventato a sua volta padre, dovendo far spazio nella casa ha fatto una cernita di tutti i suoi dischi. E quelli di Guccini non li ha salvati.

Capitava pure che il figlio se ne andava di sopra in camera e si chiudeva dentro. Pieno di sconforto si metteva a scrivere una lunga lettera a nessuno. Venivano quattro pagine di scoramento. E siccome il dolore era troppo forte per non parlarne con nessuno e siccome per cena era sceso giù e aveva trovato il padre in cucina che, tutto indaffarato e preso, faceva i calcoli su come investire i soldi, allora quel figlio aveva ridotto la lettera a due sole pagine mettendoci dentro tutto quello che di brutto pensava sulle cose e sul mondo, e 1'aveva spedita a Linus. La lettera era stata tagliata ma restava integra nelle sue parti fondamentali: il mondo mi fa schifo, c'è chi muore per un'idea e chi muore perché non sa come investire i soldi. Col tempo, poi, quei giovani avevano fondato parecchie associazioni e parecchie volte queste associazioni dopo un po' erano fallite. Avevano allora provato a fondare una cooperativa culturale e si erano dati da fare. Ma il padre un giorno a tavola gli aveva detto: con quegli imbecilli con i quali ti metti non otterrai mai nulla, sono troppo scemi e il mercato è una cosa seria. Cosi il figlio aveva risposto che il padre era un conformista. Per questo lavorava in un' azienda che produceva prodotti tutti omologati, buoni per i veri imbecilli. Al che il padre rispondeva con il sangue agli occhi che al contrario lui produceva prodotti differenziati e che l' omologazione dei prodotti era un concetto vecchio, che la fabbrica era cambiata, che la catena di montaggio fortunatamente era cambiata, che l'alienazione degli operai non c'è più: forse c'è quella dei manager come lui. E che comunque si era rotto di parlare con un ignorante che non sa nulla di mercato ma vuole fare la cooperativa, e infine: che è troppo facile fare il comunista con i soldi in tasca. Cosi le strade di quei padri e di quei figli si erano a un certo punto divise e non si incontravano più. Il figlio aveva studiato Scienze politiche e passava molto tempo all'università a discutere o organizzare gruppi di lavoro interdisciplinari, il padre si era comprato un pezzo di terra e quando poteva stava li, ad arare, erpicare, concimare, a far venire su un orto. A Natale il figlio se n'era andato in un lontano agriturismo biologico e il padre si era fatto venire il sangue amaro, perché la casa in campagna il figlio già ce l'aveva, in più ristrutturata, completamente gratis, e sicuramente biologica, anche perché ci lavorava con tutto l'impegno del mondo e metteva il verderame o la poltiglia bardolese. Durante il pranzo di Natale, quel padre casertano aveva continuato a chiamare il figlio sul telefonino (che gli aveva regalato) senza ottenere risposta. E più chiamate senza riposte otteneva, più beveva, malediceva e insultava il figlio. Spesso, poi, era successo che il padre e il figlio avevano litigato di brutto e il figlio aveva davvero giurato che in quella casa non ci avrebbe più messo piede. Non appena possibile se ne sarebbe andato. Ma il possibile si faceva attendere, anche perché nonostante la laurea il lavoro non arrivava e capitava pure che quel figlio si rivolgesse, così tanto per sondare il terreno, a quell'ex compagno di scuola ora diventato portaborse di un noto politico, affinché provvedesse a una raccomandazione. Ne aveva ottenuto qualche buona promessa, poi avrebbe scoperto che il portaborse quella promessa con quello stesso tono l'aveva fatta anche ad altri. Così, quel padre e quel figlio continuavano ad abitare nella stessa casa, anche se adesso proprio non si incrociavano più. Il figlio occupava la mansarda, il padre passava ore in campagna. Qualche volta capitava che un amico del figlio rimanesse in città ad agosto e un giorno, di prima mattina, sotto un sole cocente, si avviasse a prendere il giornale. Era solo per strada quando cominciava a sentire uno scalpitare di passi, si girava e vedeva il padre del suo amico che correva. Sotto il sole, sudato, invecchiato, con le gambe secche secche, i capelli bianchi e la nuca completamente pelata. Il padre del suo amico lo salutava con forza: ciao, scusami non posso fermarmi; poi scompariva, trotterellando nella luce del sole. Colui che aveva assistito a questa scena rinunciava pure a comprare il giornale e dalla prima cabina libera telefonava al suo amico, perché voleva sapere se suo padre stesse bene; insomma, correre con trentacinque gradi, sotto il sole, in pieno agosto, non è proprio una cosa che fa bene alla salute. Avrebbe anche voluto dirgli che il padre era molto invecchiato, che una volta era un bell'uomo e adesso sembrava un vecchietto, ma questo non aveva il coraggio di dirglielo. Otteneva la seguente risposta: è tutto normale, se è per questo faceva anche di peggio, pedalava in bicicletta ogni giorno per quaranta chilometri, dopodiché si recava in campagna a lavorare. Da quando era andato in pensione non trovava pace. Però, quel figlio diceva tutto questo con la ooce assonnata, quindi l'amico gli chiedeva se l'aveva svegliato e si sentiva rispondere che da almeno sei mesi soffriva di insonnia, prendeva pure qualche psicofarmaco.
Ci sono allora quei padri e quei figli casertani che non trovano pace finché il figlio non trova lavoro e una buona compagna, cosi decide di sposarsi. La politica, le cooperative, le associazioni, le riunioni, il volantinaggio, la raccolta delle firme, tutte queste inconcludenze stancano, e non c'è niente da fare: a Caserta non riescono, perché tanto vincono sempre gli ex compagni di scuola con la faccia indifferente; dunque, meglio pensare alle poche cose proprie da fare che alle tante cose del mondo. Allora il padre gli regala la casa intera come dote, e siccome a suo tempo avevano comprato dei Bot, adesso che quei soldi avevano fruttato più di quanto sperato potevano spenderli per l'arredamento. Loro, i genitori, si sarebbero trasferiti in un altro appartamento, più bello e più in periferia. Il figlio insieme alla moglie avrebbe guardato la casa rimasta vuota e avrebbe detto: qui dobbiamo togliere tutto. E avrebbero davvero tolto tutto.
Ma lui niente, diceva che aveva una sua strategia, suscitando l'ilarità di tutti. Pure l'ex compagno di scuola, ora portaborse, pure lui che non si era mai occupato di politica e pensava che tutti dicessero la stessa cosa, anche lui, quella sera, durante la partita a Risiko aveva detto: una cosa è attaccare da un territorio che ha due carri armati un' altra è attaccare da un territorio che ha dieci carri armati. Ovviamente, la strategia non aveva funzionato. Cosi, dopo qualche tempo, quando il suicida del Risiko si candiderà con Rifondazione comunista, alcuni suoi ex amici, e ora nemici di opposto schieramento, si divertiranno a ricordare quando una sera, durante una partita a Risiko, costui aveva attaccato con due carri armati un territorio ben fornito di mezzi. Dunque che ne parliamo a fare. Pure quelli che avranno la sua stessa sensibilità politica si ricorderanno di quella sera, perché c'erano anche loro, o perché qualcuno glielo avrà raccontato, e concluderanno che non si finisce in Rifondazione per caso: c'è sempre un triste motivo. La voce girerà e pochi si fideranno dunque di quel politico. Lui capisce allora che questa città gli aveva dato l'occasione di essere qualcuno quando lui non voleva essere nessuno, perché tante cose erano più importanti del Risiko, e ora che non si gioca più a fare la guerra perché il tempo del gioco è passato, ora che quel politico di Rifondazione aveva pensato di riproporre due o tre di quelle cose belle, ebbene, avendo quel pomeriggio, accidentalmente, scelto di essere nessuno, adesso non potrà più sperare di diventare qualcuno.
Caserta, in buona sostanza, è sempre stata democristiana e la democrazia cristiana ha gestito il potere elargendo favori e promettendone di nuovi.
Un'illusione personale diventa un sentimento collettivo. Il caro buon vecchio mimetismo. Alla fine, la mia macchina potrà portare dieci persone. Certo solo teoricamente, ma intanto il valore sale. Berlusconi ha mutuato questa strategia dalla finanza e finora è riuscito sempre nel suo intento, ha aumentato il proprio valore. Nel mondo politico di Berlusconi è possibile far rimare gli opposti, è. possibile che Milano, la città più europea d'Italia, voti Lega, o che il Movimento per l'autonomia del Sud registri un ottimo successo e si imparenti simbolicamente, con la Lega di Gentilini che di certo non ama il Sud. Le promesse sono infatti un grande contenitore masscult, l'ingresso è ampio e tutti possono aggiungere il loro contributo. Se poi un giorno si scoprirà che la promessa era appunto un inganno e gli azionisti di base perderanno soldi, per risanare il tutto, basterà ricominciare daccapo con le promesse, rincarare la dose per casi dire.
Ora, il fatto è che a Caserta ci sono delle ragazze molto belle ma tanto ipocondriache.
Alcune di loro, in tenera età, sono davvero meravigliose, quasi un'utopia. Camminano sul corso e sentono dietro di loro una scia. Ma non si girano mai a vedere la quantità di flutti, se sono spumeggianti oppure muoiono dopo un lento schettinare, perché sono a conoscenza della natura della scia, sanno con precisione quanti sono e quali sono i ragazzi che parlano della loro bellezza, e ne intuiscono le argomentazioni. Capita che alcune di loro si tengano a distanza dagli uomini, sono cortesi e gentili, ma la loro voce arriva silenziosa ai maschi. COSI diventano eteree e dopo un po' miti. E anche se nessuna lo ammetterà mai, sentono in sé una purezza d'altri tempi e vivono accordandosi con lo sciabordio della scia. Ma durano lo spazio di qualche Natale, perché dopo tanto bel rinunciare, durante le feste, quando sul corso tutti camminano con le mani penzoloni impegnate a mantenere i regali, si accorgono che la scia dietro di loro si rompe subito e i flutti diventano acqua, poi pozzanghera. Allora si sentono sole e Natale dopo Natale capiscono che è arrivato il momento di scegliere un fidanzato. Alcune fanno i conti e si sistemano con uno ricco, altre fanno una scelta sentimentale e passano da miti a fidanzate innamorate. Ma spesso, sia le une che le altre rinunciano a lavorare, perché qualcosa dentro di loro risponde ancora all'idea di purezza, si sentono ancora giovani e di tanto in tanto, quando indossano un pantacollant attillato, sanno che per un po' la scia si riformerà. E si risentono miti, quindi che possono fare tutto, meno che lavorare. Eppure non importa, perché il marito sa come mantenerle, e sa come tenerle occupate, come ingentilirle con un regalo. Ma il Natale torna sempre e con la festa la solitudine, e quelle ragazze si appesantiscono, un po' a causa della tristezza, un po' per l'età. A volte si trasformano e non ritornano mai più quelle di una volta. La pelle sotto gli occhi diventa insensibile alle costosissime creme alla vitamina A. Cosi gli zigomi si gonfiano, si crepano. Lo stesso avviene con la pancia che sviluppa una prominenza acuta, quasi come fossero in attesa. In verità non attendono più nulla. Le gambe si inflaccidiscono. E sempre durante il Natale qualche ex ragazzo che un tempo le aveva ammirate adesso passa accanto a loro, con una sensazione di déja vu. Solleva un po' la testa come se questo lo aiutasse a ricordare. E dopo qualche passo capisce e si rigira. Vede l'ex mito che cammina e stenta a riconoscerlo. Qualche volta, stupito di tanta scoperta, cerca la complicità di qualche passante, certo che anche lo sconosciuto abbia in quello stesso momento la medesima sua sensazione. Poi smette di pensare, perché la moglie dall'altro marciapiede lo chiama e attraversando la strada per raggiungerla, schivando le macchine, sente di amare la donna che ha sposato e non vede l'ora di raccontarle del mito diventato ex mito.
Ci sono invece quelle ragazze che miti non lo sono mai state. Ma hanno creduto nella primavera e nella vitalità, finché un giorno si sono accorte che la primavera ha la stessa luce dell' autunno. Prima di quel giorno sono cresciute, hanno relegato nell'ultimo scaffale della libreria Il piccolo principe e hanno capito che Isabel Allende non vale poi tanto. Sono passate da De Gregori alla musica sudamericana, hanno amato più o meno appassionatamente tanti uomini ma molto relativamente li hanno lasciati. Hanno studiato discipline umanistiche c quando il fotografo le ha immortalate dopo la seduta di laurea conseguita con il massimo dei voti, hanno pensato e sentito che quella foto che le rilraeva sorridenti insieme alla famiglia raffigurava un quadretto destinato a svanire. Perché per anni quelle ragazze hanno riempito le loro stanze con cartine geografiche del mondo, colorato e vario. Sono state sensibili alle variazioni climatiche dei monsoni perché già sintonizzate su un clima esotico. Hanno avvertito come un sobbalzo alla pancia il decollo di un aereo intravisto casualmente e sono state pronte a scommettere che su quell' aereo un giorno sarebbero salite. Per questo hanno mandato curricula in tutto il mondo, elencando con grafia in corsivo e bordi dalle linee marcate tutte le proprie competenze, hanno puntualizzato la conoscenza delle lingue e hanno segnato con una x rossa la casella «disponibilità a viaggiare», talvolta hanno aggiunto a penna la postilla «ovunque». E hanno atteso. Ma hanno atteso invano. Cosi, nonostante la spedizione puntuale dei curricula in ogni angolo della Terra, e nonostante il fascino di quelle cartine appese nei migliori angoli delle proprie stanze, quelle ragazze si sono viste camminare avanti e indietro per la casa. Sono entrate in cucina più volte in un' ora e più volte hanno aperto il frigorifero ben sapendo che non c'era nulla da mangiare. Hanno fumato a letto durante i pomeriggi d'attesa, hanno fumato e basta, senza leggere più i libri e hanno scoperto come la musica sudamericana con quella saudade rendeva teoricamente possibile il suicidio e più concreto il pianto. Si sono sentite grasse e hanno giurato a loro stesse di non mangiare più schifezze, per questo hanno imposto alla madre una cucina salutare, o carboidrati o proteine, ma ogni volta che sono andate al cinema non hanno mai mancato di prendere le patatine, cosi come ogni volta che sono uscite dal cinema

A Caserta i cinema per molto tempo non sono esistiti.
Per vedere un film bisognava andare nelle frazioni vicine. Culturalmente, la periferia è pi importante del centro. Eppure una volta la città aveva cinque sale cinematografiche e la metà degli abitanti. Ma lo sfacelo era prevedibile. I ricordi di tutti noi che abbiamo frequentato il cinema San Marco sono legati a una scritta pubblicitaria, soffusa di rosso, «Cuccaro mobili», che si intravedeva in trasparenza dallo schermo quando le luci erano accese. Sembrava l'approssimarsi di un'invasione, un commercio sfavillante che di 11 a poco avrebbe invaso le sale. E casi è stato, i cinema sono diventati ex sale, e il loro posto è stato occupato da banche e negozi. Poi, da poco, hanno riaperto molte sale e hanno inaugurato pure una multisala. Solo che, siccome quest'ultima detiene anche il monopolio della distribuzione in Campania, spesso, soprattutto durante i festivi, impone una scelta limitata di film, casi che non si possa creare concorrenza pericolosa. Dunque, adesso a Caserta abbiamo sei sale e un solo film.

lo stomaco sempre in disordine e i soldi che scemavano, giorno dopo giorno, hanno smesso di leggere il «Corriere lavoro», non hanno più creduto nei product manager, e si sono recate dal giornalaio per comprare «L'abc dei concorsi». Eppure si sono scocciate. Perché al Comune la fila per l'autentica delle domande cresceva ogni giorno di più, e loro, poi, avevano poco da spartire con quella massa di persone che cercavano il posto fisso. Non avevano raccomandazioni perché credevano solo in se stesse, e sapevano che un posto fisso a quelle condizioni è impossibile da agguantare. E fila dopo fila, bollo dopo bollo, quando l'impiegato del Comune ha cominciato a salutarle, a volte pure a provarci, tanta era l'intimità, un giorno si sono accorte che la primavera aveva lo stesso colore dell'autunno, e siccome le mamme non ce la facevano più a sentire il cigolio del frigorifero che si apriva e si chiudeva, a vedere la figlia fumare a letto durante il pomeriggio quando c'era da stirare o lavare, allora hanno posto un ultimatum: qualunque lavoro, e facciamola finita. Alcune di queste ragazze diventano segretarie personali di un grande avvocato o di un commercialista. E quando la sera chiudono la porta blindata dello studio e si avviano verso casa, può capitare nel silenzio che precede l'ora di cenadi sentire un aereo che passa. Alzano la testa per guardarlo ma sono costrette a riabbassarla, per non capire veramente se quell' aereo sta decollando o sta atterrando. E si sentono tristissime.
E ci sono quelle ragazze casertane che si sentono tristissime ma non sanno qual è il motivo della malinconia. Siccome sono del Sud devono apparire solari, allora scherzano e sorridono sempre, sono amiche di tutti e sentono le lamentele di tutti. Ma un giorno mentre sono intorno a un tavolino si incantano a guardare il bicchiere, a casa cominciano a mostrare segni di pazzia, piccoli e discreti, poi non si vedono più in giro e si perdono le loro tracce finché qualcuno ti dice che hanno avuto un esaurimento nervoso. E da questo non si riprendono più, perché anche se adesso stanno meglio, ogni volta che passano per il corso o che si siedono intorno a un tavolo, c'è sempre qualcuno che dirà: la vedi quella? E impazzita.
Però a Caserta si fa anche 1'amore, lo si fa tutti insieme per strada, un amore collettivo. La strada che porta all' ex macello comunale è lunga e larga. Da un lato costeggia il muro di una caserma. E un muro spesso, che finisce in alto con il filo spinato. Lungo questo muro, dalle diciassette e trenta se è inverno, e dalle ventuno se è estate, fino a notte inoltrata, stazionano le macchine. Se percorri la strada e guardi alla tua destra, vedrai una lunga fila di auto posteggiate, una accanto all'altra, per più di un chilometro. E vedrai altre macchine che, in periodi di affollamento, fanno il giro alla ricerca di un posto. Macchine in fila, con i finestrini coperti da giornali. Auto che si muovono, dondolando, quasi mai in sincrono. Nelle sere di vento puoi ascoltare i gemiti o i litigi degli occupanti. Con un po' di esperienza impari a conoscere lo stato sociale ed economico delle coppiette: perché è chiaro, chi va al macello non ha lavoro, non ha casa propria, vive con i suoi. Però dalla cilindrata della macchina, dalla musica che ascolta, dalla velocità con la quale arriva, consuma e parte, puoi capire se il proprietario è un figlio di papà ed è già pronto, da grande, a seguire le orme paterne, a fare 1'avvocato, il commercialista, e quella sistemazione è solo temporanea, oppure se è uno studente, uno squattrinato, uno che viene da qualche paese vicino. E capisci che in quel luogo, accodato ad altri, farà l'amore per una buona parte della sua vita. Lo impari a capire dalla calma con la quale attacca i giornali, dal taglio netto praticato al nastro adesivo, dalla rassegnazione con la quale elimina, dopo l'amore, la copertura cartacea, non per buttarla, ma, anzi, per ripiegarla in formati di foglio A4, e riponendo infine il tutto nel cofano.
E ci sono quei casertani che dopo aver fatto 1'amore al macello tornano a casa con una tristezza completa. Ciondolano per la stanza e giurano a se stessi che ne hanno le scatole piene di questa città. Arriverà quel giorno nel quale andranno via. Per alcuni di questi quel giorno non arriva mai, ma proprio mai. E allora si comprano una moto, una Harley Davidson, e si uniscono ad altri che ne possiedono già una.

Lo stesso fenomeno ma con risultati diversi avviene con le jeep. Perché Caserta è piena di fuoristrada, guidati da giovani e giovanissimi. Sono tutti costosi e molto grossi, hanno attaccato al parabrezza l'adesivo Camel Trophy, solo che nessuno dei proprietari li usa per farsi una scampagnata fuori città, ma per percorrere le intasate vie del centro. E paradossale vedere una serie di fuoristrada, con più file di fari, lucidati a crema, dotati di gancio traino ed enorme portabagagli, bloccati insieme a comuni autovetture in una lunghissima fila sul corso. Il fatto è che i casertani amano le file, forse è l'unico popolo al mondo che nelle file si trova a suo agio, non si innervosisce, anzi, a giudicare dall'allegria che domina gli abitacoli, dallo stereo a palla, dai vestiti eleganti degli occupanti, da qualche movimento di danza accennato con il corpo e la testa, si ha la sensazione che 11 dentro si divertano molto. E forse, per questo fanno di tutto affinché si formino le file. Riescono a crearle, ad esempio, durante le ore notturne, lungo strade dove non ci sono né locali né ristoranti, strade cioè che non hanno nessuna ragione di essere percorse, ma che sono, in ragione della loro inutilità, spazi deserti da occupare e trasformare in passerelle.

Indossano un casco e un giubbotto di pelle e tutti insieme, la domenica, se ne vanno. Se ne vanno, ma non lontano. Percorrono il corso, via Gemito, via Gemito e ancora il corso. Percorrono Caserta su e giti, sgasando, smanettando, non guardando in faccia nessuno. Di tanto in tanto si fermano, posteggiano le moto davanti al bar e bevono l'aperitivo. Poi se ne rivanno. E ogni volta che accendono la moto, ogni volta che salgono in sella, ogni volta che inforcano gli occhiali, ogni volta che percorrono le vie sgasando, quei casertani sembrano dichiarare: un giorno o l'altro noi da qui ce ne andremo, lasceremo questi negozi, questi bar, questo ozio, questo strazio domenicale, lasceremo tutto questo, poi saranno fatti vostri. Ma a giudicare dalla puntualità con la quale ogni domenica il rumore della loro moto fa suonare un antifurto, sempre lo stesso, tutti quelli che li guardano passare pensano che quel giorno tarderà ad arrivare.

Invece altri casertani vanno via per davvero, quel giorno arriva e se ne vanno. Ma accade anche che la nuova città non li accolga e vengano colti dalla tristezza. Escono per le strade e non incontrano nessun amico, entrano in un bar e nessuno li saluta. Si sentono soli. E alcuni di loro fanno di tutto per ritornare, giurano che un giorno ritorneranno. E quel giorno arriva per davvero, e ritornano. Può capitare che qualcuno di loro rivada al macello, e per un attimo, prima di mettere i giornali al finestrino, come confuso per un eccesso di déja vu, senta quell' amarezza che credeva aver perduto per sempre. Ma è solo un attimo, dura il tempo di piazzare per bene i giornali al finestrino.

Non mancano quei casertani che vanno via e davvero non tornano più, scendono a Caserta solo per le feste o per le grandi occasioni, magari per un matrimonio o una comunione. Quando tornano fanno di tutto per non incontrare nessuno dei vecchi amici. E se ne incontrano qualcuno, fanno finta di non conoscerlo. Ma se proprio li incontrano e questi li prendono sottobraccio e gli raccontano le ultime novità della città, allora quei casertani che sono partiti e non hanno più voglia di tornare fanno finta di starli a sentire. Poi finisce che si incuriosiscono per davvero, allora domandano, chiedono, traggono conclusioni. Ma giunge il tempo di andare via e si congedano, sorridoono e dicono: ci vediamo. E forse ci credono per davvero. Tuttavia c'è un momento, appena voltaate le spalle, che entrambi avvertono uno strano sentimento, cosi vicino all' amarezza. Ma, pur voolendo, nessuno ha voglia di indagare sul quel sentimento, perciò uno dei due sentirà il desiderio di allungare il passo per raggiungere la stazione, mentre l'altro si distrarrà, immobilizzandosi da~ vanti a qualche vetrina.
Ci sono, invece, quei casertani che dopo aver fatto l'amore al macello si riuniscono in gruppo e se ne vanno per locali.

Il fenomeno dei locali ha dinamiche misteriose. Un locale può essere frequentatissimo per parecchi mesi, far diventare ricchi i proprietari, poi, all'improvviso, non essere più frequentato. Può bastare poco per determinare il capovolgimento, ad esempio una momentanea chiusura per ristrutturazione. Cosi che una marea di giovani che stazionava davanti a un locale si trasferisce di colpo verso altri locali. A Caserta ci sono proprietari di appartamenti che si trovano ad avere negozi sfitti sotto casa, che temono come la peste la probabile apertura di un locale per giovani. In quel caso potrebbe verificarsi che la loro strada fino a oggi tranquilla diventi come piazza della Repubblica a Roma in occasione di qualche manifestazione sindacale. A volte, quando si apre un nuovo locale, i proprietari che hanno casa ai piani di sopra si affacciano alla finestra per controllare il flusso delle persone. Ci sono momenti durante i quali la strada è vuota, e nel locale non c'è nessuno. I condomini scrutano 1'orizzonte e guardano l'orologio, e quando è mezzanotte pensano che il pericolo è passato. Cosi vanno a dormire, ma mentre indossano il pigiama sentono un calpestio sull'acciottolato, via via più insistente, poi un brusio che si alza di tono, diventa borbottio, finché riescono a distinguere frasi intere, poi pezzi di discorso. Allora quei casertani nuovamente si riaffacciano e non riescono a credere ai loro occhi: il quartiere si è trasformato in un accampamento. Alcuni di loro si fanno afferrare per pazzi, chiamano la polizia e si accorgono che è inutile. Fanno petizioni a tutti, giornali e varie Tv private, sindaco compreso, e si accorgono che è inutile. Alla fine, qualcuno svende la casa, qualcun altro monta i doppi vetri, e finisce per non sentire più niente.

I locali per numero sono più delle banche e meno dei negozi. Di giorno quando sono chiusi, tengono l'insegna accesa, di notte devono chiudere la porta per disciplinare la fila davanti all' entrata. Ce ne sono alcuni che hanno successo nel giro di pochi mesi, richiamano persone a frotte. Ma durano poco, perché a Caserta i locali sono come quelle farfalle variopinte e splendenti che muoiono presto, dopo un po' finiscono e addio a tutti. Il sabato sera quei casertani fanno il giro per bar, osterie o locali fino a notte fonda, e se nel peregrinare ci si perde, se un locale muore all'improvviso e non sai dove andare, allora ci si ritrova tutti in un posto che ha un' aureola di eternità: la cornetteria. Come i santi appaiono avvolti dalla luce, cosi alcune cornetterie si annunciano con fari luminosi. E in quella luce ci si raduna. Capita che avvolti dalla luce si parli a voce alta, come protagonisti di una recita illuminati dallo spot, oppure si sta zitti. Quando si fa silenzio, c'è sempre qualcuno che indugia nel mangiare il cornetto, perché si mette a guardare gli altri che stanno zitti, ne prova stupore e talvolta fa una battuta. Può succedere che tutti ridano, e un attimo prima che la risata finisca in un gorgheggio aspirato, poco prima del sospiro finale e del nuovo silenzio, si chiudano gli occhi e ci si senta felicissimi, di quella serata, di quella luce, di quell'ennesimo cornetto alla Nutella.

Eppure ci sono anche quei casertani che non vanno al macello, non ci sono mai andati e mai ci andranno. Quei casertani odiano Caserta, le cornetterie e i locali, i negozianti, i motociclisti, gli affaristi. Odiano anche i sabati sera. Preferiscono aggirarsi nei dintorni della città. Ci sono dei paesi, dicono, che sono bellissimi, veri gioiellini. Qualche volta, nei pellegrinaggi notturni, finiscono con l'andare tutti a Caserta vecchia e si radunano sul belvedere. Se la nottata è limpida, ci si affaccia per guardare e ci si accorge che il panorama è bellissimo. Si vede il Vesuvio, Napoli, gli aerei che atterrano o decollano, e si vede Caserta: sembra distesa come Los Angeles, ma placida e sensuale. Allora, se la nottata è bella, c'è la luna, e magari un vento leggero, capita che qualcuno dica: ma lo sapete che Caserta è veramente bella - e sembrano belle anche le periferie, quelle enormi spianate di cemento che d'estate raggiungono i quaranta gradi all' ombra. Sembrano persino belle le insegne dei negozi delle banche e delle pompe di benzina: azzurre, gialle, rosse, violacee. Succede che qualcuno dica proprio questo: Caserta è veramente bella; e tutti, sia che parlino o siano distratti, si girano dalla sua parte e annuiscono con la testa. Succede questo, veramente. Qualcuno poi dirà: si, è bella, certo, se non fosse per le cave, o se non fosse per la mancanza di cinema, ma anche: se non fosse per i napoletani, se non fosse per le case popolari, se non fosse per le caserme, se non fosse per i democristiani, per i comunisti, per i negozianti, per i benpensanti, per il traffico. E per il vescovo.
Poi, in macchina, mentre si ritorna a Caserta, quando il panorama perde consistenza, qualcuno dice che è giunto il momento di fare qualcosa per questa città, e non ci vuole poi molto: basterebbe confiscare due caserme per avere bellissimi parchi, o si potrebbero fare le piste ciclabili, un'isola pedonale più estesa, o affittare un garage e trasformarlo in un cineclub di qualità, basterebbe insomma avere le idee chiare su una o due cose al massimo. Si concorda sempre su questo: è vero, basterebbe fare una o due cose al massimo. E soprattutto bisognerebbe che i casertani smettessero di essere casertani. I casertani dovrebbero fare come loro: guardare Caserta dal di fuori o dall'alto, per perdere il senso della minuzia che frena e ottunde e acquistare il senso di insieme, che fa pensare in grande. I casertani dovrebbero diventare ex casertani.

E si discute molto animatamente, perché il problema non è questo ma un altro, tanto che qualcuno si innervosisce e gli viene voglia di fumare, si tasta sulle tasche e scopre che non ha più sigarette, allora comincia ad avere lo sguardo sbieco, e prima o poi dirà al guidatore di frenare all'improvviso perché ha visto un marocchino che vende le sigarette di contrabbando. Inspirando ed espirando, la notte se ne va, la discussione termina e il sonno, pian piano, arriva.


Intermezzo floreale

I fiori che crescono attorno alle case dei senegalesi appartengono generalmente alle seguenti specie: Fumaria officinalis, Diplotaxis muralis (senaape dei muri), Rumex acetosella (romiceacetosellla), Rumex acetosa (acetosa), Parietaria officinalis (l'erba di muro).
Le fumarie danno l'impressione di essere piante che sprecano le loro risorse. Sia perché le foglie sono numerose ma esili e profondamente divise, sia perché portano sugli steli tanti fiori di colore rosa, cosi somiglianti a quelli di alcune drupacee. Ora, i fiori delle fumarie sono dotati di uno speerone, all'interno del quale viene contenuto il nettare. Nonostante l'iperproduzione di fiori, pratiicamente da gennaio a settembre, e l'abbondante produzione di nettare, le fumarie sono scarsamennte visitate dagli insetti, per cui il nettare non svolge funzione di richiamo né ha altro compito che non sia quello di disperdersi improduttivamente al vento. Spesso, allora, i fiori si autoimpollinano. Ai botanici sfugge il motivo di questo strano e anomalo comportamento: infatti, per questioni di seelezione naturale avrebbe dovuto selezionarsi e imporsi sugli altri il carattere che consente il minor dispendio di energia. E invece le fumarie sembrac


no proprio comportarsi come volessero disordinatamente disperdere quanto di buono posseggono. Queste piante, pur tentando di averlo caparbiamente a ogni fioritura, mancano cioè di qualsiasi rapporto con l'esterno, e nonostante questo limite, cercano a ogni fioritura di assomigliare alle altre piante. Con il tempo poi si ingrigiscono, cominciano a sviluppare un portamento strisciante e spesso ricoprono il terreno, togliendo sole e nutrimento ad altre piante. Diventano cosi arcigne e selvagge che fanno sentire la loro presenza anche quando vengono estirpate. Difatti, una volta estirpate, le radici, prima di abbandonare per sempre la terra, emettono acido nitrico: allora un olezzo gassoso e lercio ricopre come una fitta nuvola di fumo il terreno. Diventano puro spirito e prima di dissolvere i loro vapori ci ricordano che hanno seguito la via contraria a quella delle altre piante pili nobili: le quali sono state piante e si sono sforzate, spesso riuscendoci, di essere essenze spirituali, per la nostra poesia e il nostro diletto. Le fumarie invece sono sempre state puro spirito e sono diventate, pur con tutti gli sforzi, malerbe, per il nostro disgusto.
Ce ne sono altre invece, come la romice acetosella, che hanno da secoli rinunciato a produrre fiori visibili e colorati: sono piccoli, opachi e insignificanti. Queste piante non hanno nessun rapporto con l'esterno e si autoimpollinano senza nessuna illusione; pure i frutti sono piccoli e senza nessuna protuberanza. L' anonimia è paradossalmente il carattere tassonomico che fa riconoscere questa specie dalle altre. Il succo delle foglie è tossico, e pure le vacche, che sono note per la loro resistenza, possono avere alterazioni febbrili se ingeriscono le foglie di acetosella. Eppure la medicina popolare ha sempre considerato le foglie di acetosella utilissime per spegnere la sete e per curare lo scorbuto ma, ai tempi d'oggi, più nessuno ha sete e quasi nessuno si ammala di scorbuto.
La Rumex acetosa, parente prossima dell'acetosella, un tempo è stata una nobile insalata servita in banchetti regali. Utilizzata per le sue proprietà smacchianti, se ne faceva ricorso soprattutto perché anch'essa spegneva la sete di chiunque ne masticasse le foglie. Ma tutte queste qualità sono oggi inutilizzate. Pur tuttavia, l'acetosa ha ancora una qualche cura di sé e della sua progenie futura: infatti, i tre petali si curvano fortemente verso l'interno per proteggere l'ovario. Verso la fine dell'estate, poi, le piccole foglie e i fiori si tingono di rosso, allora scintillano al tramonto, ma solo per qualche ora, poi ritornano nel grigio attendendo l'autunno.
L'erba di muro infine è la pianta più soggetta a equivoci. Per la sua straordinaria capacità di adattamento e per la sua facilità a germinare dovunque, pure tra gli interstizi dei muri, questa pianta è stata creduta forte, e per via di interpretazioni medioevali capace di scacciare i calcoli della vescica. In verità, la parietaria è una pianta che si è diffusa grazie all'uomo e alla sua attività edilizia. Ci ricorda, procurandoci allergia, ogni abusivismo edilizio e ogni sfregio ambientale.
I botanici sanno bene che dopo un cataclisma questa e le altre piante sopra citate, a differenza di molte altre specie, possono, sole fra tante, trovare una via di scampo.

Verso il mare

Mentre a Caserta i segni del mare ormai sono poco visibili, nel senso che i casertani spesso non sanno dove comprare oggetti marini - se non quei capi come costumi o parei, oppure creme contro il sole, che si possono acquistare nei negozi del centro - in periferia, invece, a cominciare dalla primavera, il mare è spesso evocato: gommoni, salvagenti e quanto altro galleggi, poi pinne, fucili, reti, giocattoli da spiaggia, scarpe di gomma e zoccoli, inomma tutto l'armamentario vacanziero è steso, come una sfilata, lungo i marciapiedi o, se questi ultimi per malcostume urbanistico non sono presenti, allora la merce è stesa lungo il ciglio delle strade. Ciglio che i proprietari dei negozi hanno avuto cura di proteggere dalla sosta di occasionali vetture o da quanto altro rechi intralcio all'esposizione, con due sedie in precedenza sistemate una poco distante dall' altra, in modo da bloccare chiunque abbia intenzione di posteggiare o sostare. Una lunga esposizione di cose marine, così che, quando cammini, nel momento in cui sei circondato dalla campagna o assordato dal traffico, pensi che la salvezza dal logorio della vita moderna, dallo stress della Terra, è a pochi passi da qui, così non resta altro da fare che acquistare qualcosa, poi andare al mare. Per fare un inciso, e per spiegarci meglio, diciamo che i casertani del centro non sognano più di tanto il mare vicino, e magari aspettano di vederlo occasionalmente quando scalano qualche collina intorno alla città. Una volta sulla vetta si guardano attorno e cercano di individuare la linea del mare. Spesso, però, si accorgono che la foschia ha annebbiato l'orizzonte, allora tornano a valle e se qualcuno gli domanderà: com'era il panorama? risponderanno: c'era un po' di foschia.
Perché il mare, visto da Caserta e dall'alto, è sempre annebbiato. In periferia invece il mare è davvero una cosa concreta e forse un' aspettativa legittima, come dire: un modo per sopravvivere alla ristrettezza e alla bruttezza di quei luoghi con la speranza del mare e cioè dello spazio, perché tutti sanno che oltre il proprio balcone, un po' più in là della casa del vicino, dando le spalle al sole che sorge e andando verso Ovest, c'è il mare. Perché dai paesi dell'hinterland la via verso il mare è breve e tutti sanno che basterebbe prendere la macchina, ma pure il motorino, e qualcuno pensa addirittura di usare la bicicletta, per raggiungere in meno di mezz'ora la spiaggia. Ora, però, succede che tutte le strade che dai paesi portano al mare sono strette, sconnesse e parecchio frequentate da persone che non hanno nessuna intenzione di andare verso il mare, perché le percorrono i camionisti o gente che guida furgoni pieni di merci, le percorrono gli agricoltori mentre si spostano da un'azienda all'altra, le percorre gente che lavora davvero dal mattino alla sera, perché qui, al Sud, nonostante il mare sia vicino, lo svago è sempre lontano e il lavoro continuativo e avvilente. Tutte le strade comunque sono anche tortuose e mal costruite, ricche di anse inspiegabili che fanno curvare la macchina d'improvviso verso i fossi di scolo. Se tu le percorri, a causa delle alte canne e dei potentissimi rovi che dominano il bordo della strada ti accorgerai che il cielo sopra di te è un tratto di luce, mentre attorno c'è solo ombra.
Eppure di tanto in tanto, dopo una curva stretta e ombrosa si apre il cielo, e puoi seguire la sua linea per chilometri, vederla mentre si amplia, dilatandosi come se il cielo riacquistasse coraggio e potere sulla luce. Quando questo accade ti rendi conto che al Sud il senso dello spazio e della vastità forma ancora la filigrana delle cose, filigrana con il tempo purtroppo sempre meno visibile. Eppure c'è stato un tempo in cui il Sud aveva orrore della perfezione, perché inabitabile, e costruiva opere non perfette ma rigorose, sempre accoglienti. E il caso di ricordare i templi greci, strutture che quando furono costruite in patria ellenica presentavano simmetrie fredde e rapporti di scala che non permettevano ai visitatori di percorrerli, e per questo le cerimonie si svolgevano tutte fuori dal tempio. Quando i coloni greci raggiunsero le coste del Sud, i rapporti di simmetria cambiarono: ad esempio, il corridoio divenne più largo e finalmente percorribile.
Questa combinazione fa scoppiare la luce e le particelle vagano come impazzite, sono tremolanti e quasi costringono il guidatore a mantenere lo stesso ritmo. Per questo motivo lungo queste strade si accelera sempre, c'è bisogno di giungere al più presto al mare, oppure in un punto dove il mare si vede, cosi da potersi fermare a guardare il panorama. Lungo queste strade strette, dove spesso le piante erbacee invadono la corsia e non sai mai dove inizia il fosso, sei costretto a sfiorare la mezzeria, qualche volta pure a superarla per sentirti sicuro.

Dalla periferia verso il centro, percorrendo le strade che congiungono questi due punti ipotetici, ci si accorge che qualcosa ti spinge dai lati verso la mezzeria in maniera repentina, a volte oscura, quasi sempre violenta. Lungo queste strade, pur quando si è dotati di occhio attento alle misure, si ha paura di affondare o di sparire in un fosso senza poter compiere nessuna manovra. Per questo si è disposti ad accettare lo scontro frontale con un' altra vettura che almeno è visibile davanti a te. O meglio, i tuoi sensi, all'erta e di continuo titillati dall'idea del pericolo, ti spingono a lanciarti lontano dal luogo che ora percorri, sicuro di due cose: a) non ti importa di trasgredire il codice della strada, b) chi ha redatto il codice non ha pensato a queste strade.

Lungo queste strade, e precisamente nei punti dove 1'asfalto si assottiglia e la carreggiata, per un motivo non necessario alla viabilità, si allarga a formare un'ansa, oppure nel luogo d'innesto tra l'asfalto e la terra, in questi punti, qui e là, sparse sotto i canneti o in prossimità dei rovi, oppure isolate sotto stampi di luce provenienti da insegne, ma sempre sedute lungo strisce di sporcizia, stazionano le nigeriane.

Le nigeriane sia quando si siedono sia quando stazionano in piedi sono quasi immobili. Per questo di esse alcuni esteti della prostituzione dicono: sono delle bellezze statuarie. Questa affermazione contiene una rimozione, e cioè le nigeriane prima ancora di essere belle e poi statuarie, sono profondamente infelici. O meglio, sono statuarie poiché ogni movimento significa una tensione verso l'esterno e cioè, lungo queste strade ogni movimento, sia pur sognante o ideale, tende al mare, quindi verso la fuga. Forse perché le nigeriane sono arrivate fuggendo, investendo cioè tutta la loro persona, comprensiva di corpo, anima, esperienza passata e sogni futuri, nel gesto di mollare ogni cosa.

Stazionano in luoghi situati in prossimità di fabbriche o lungo cantieri aperti, quasi a ricordare il rapporto che intercorre tra sesso e produzione. È inoltre strano notare come, nonostante lungo queste strade ci siano parecchi olmi ombrosi e alcuni olivi centenari, le nigeriane preferiscano sedersi sotto pioppi esili che proiettano un limitato e stupido cono d'ombra, oppure rifuggano totalmente dall'ombra e si sistemino nelle vicinanze di rovi o di folti strati di gramigna, illuminatissimi dal sole e spesso dalla sua forza macerati; quasi come fuggissero da ogni cosa della natura che potrebbe ricordargli la bellezza della vita o, al contrario, come volessero far notare ai clienti che entrambi gli attori, sia prostitute sia compratori, incontrandosi in quei luoghi, più che il sesso comprano qualcosa da sempre appassito.

E ora che la fuga le ha portate a stazionare in questi luoghi, a pochi chilometri dal mare, le nigeriane non possono pensare più alla vita, perché si rendono conto di appartenere alla sventura. Lo sventurato fa di tutto per non pensare a come potrebbe essere la sua vita se non fosse sventurato, poiché ogni pensiero di libertà non farebbe altro che riportare la mente a come si è infelici adesso, e questo pensiero non sempre porta alla ribellione, ma più spesso conduce all' avvilimento, e avvorticandosi di continuo, ruotando attorno a sé, ci si dispera. Cosi, per evitare la disperazione, ci si concentra solo sulla propria vita di adesso e si tralascia quella che potrebbe essere stata, e per far questo c'è bisogno della pratica dell'immobilità.

Una conferma della pratica dell'immobilità ci viene dall' osservazione dei secchi di vernice usati come camino, per poter accendere il fuoco e riscaldarsi. Secchi di vernice che hanno soppiantato i tradizionali copertoni. Ebbene quegli stessi barattoli che sono stati usati da molti nigeriani come tamburi per battere il tempo, adesso sono oggetti dove il tempo, o quello che resta, brucia, lasciando non il senso del ritmo che rimbomba e rincuora, ma il fumo che si assottiglia, e nemmeno forma uno strato casi potente che ascende, casi da potere almeno guadagnare il cielo.

Quello che sorprende e che addolora è il frenetico movimento che lungo queste strade si svolge perennemente, movimento che le nigeriane sono costrette a guardare, senza potere esse stesse farrne parte; ma al contrario, si limitano a essere parte delle pause altrui.

L'idea di un movimento alienato le nigeriane lo forniscono indossando capi colorati di viola, di rosso cinabro o di giallo, e in qualche caso di nero. Sono, cioè, tutti colori dotati di movimento centrifugo, tendono ad assalire chi guarda, ma nello stesso tempo sono colori la cui energia è sempre prossima all'implosione, quindi a bruciare: come il giallo canarino che ricorda la dissipazione dell'energia poco prima dell' autunno, o il rosso cinabro, colore che segna il momento prossimo alla fine della passione, oppure i colori che si votano al lutto come il viola o il nero. Sembra una coincidenza, ma i vestiti colorati che indossano le nigeriane sono in sintonia con i colori delle insegne che si vedono lungo queste strade. I colori, più che reclamizzare un luogo o un prodotto, sembrano evidenziare la natura selvaggia del desiderio. Dopo essere stato assalito da questi colori, non puoi non pensare al senso di spazio che le periferie richiedono e nello stesso tempo alla condanna che le periferie si infliggono, dissipando tutta l'energia in un movimento violento ma rotatorio. Un po' quello che avviene nei loro paesi d'origine, dove spesso le nigeriane guardano il movimento degli occidentali. Non è raro che qualche multinazionale compri interi pezzi di terra per estrarre il petrolio. Quindi i villaggi guardano il fuoco alzarsi e il fumo salire corposo, il cielo cambiare colore e gli animali migrare. Succede che quando gli abitanti dei villaggi si ribellano, l'esercito accorre per difendere la multinazionale, e spesso i soldati, con armi fornite dalle stesse multinazionali, sparano sui contadini. Questi ultimi a poco a poco sono costretti a trasferirsi, a lasciare cioè la loro terra. Casi qualche nigeriana decide che è ora di andare lontano, via da questi fuochi e da questo olezzo, e mentre incontra qualche intermediario affinché prepari i documenti validi per l'espatrio e magari prenda accordi con una ditta desiderosa di assumere personale, mentre si muovono per fare tutto questo, le nigeriane non hanno nemmeno il minimo presentimento di essere state ingannate, o meglio condannate. Ecco perché quando vengono in questi posti a fare la vita evitano qualsiasi movimento non necessario, e preeferiscono rimanere immobili come statue, perché nel movimento e nella tensione verso il centro hanno trovato solo la sventura.

Molti di quelli che lungo queste strade rimorchiano le prostitute, hanno un carico da trasporrtare, carico che improvvisamente pesa e non si ha più voglia di portare. Queste strade partono idealmente e idealmente si congiungono con Capua, città nei cui pressi si è presi dall' ozio. Accade, cioè, che i camionisti arrivano da Roma e hanno percorso tutta la fettuccia di Terracina, continuamente badando allo spazio che separa due auto articolati mentre si incrociano, e sono stati, quindi, attenti e concentrati, attenti e presenti a se stessi, finché non sono arrivati lungo queste strade, e mentre le percorrono si sentono confusi, come se, all'improvviso, non appartenessero più a nessun luogo e il proprio io fosse una cosa da ricercare. Per questo sperdimento sentono il bisogno di consolazione e mettono la freccia non appena intravedono un'ansa e lasciano stridere le ruote del camion fino a pochi passi dalle nigeriane, che quasi mai si spostano di un passo.

I camionisti che generalmente percorrono queste strade costeggiando il mare, trasportano materiali leggeri come insilati oppure pietrame, ma anche materiale agricolo: sementi e anticrittogamici, diserbanti e concimi, non portano cioè, quasi mai, prodotti finiti e pronti all'uso, ma elementi che contribuiscono al processo produttivo. Anche questo contribuisce al processo di straniamento, in quanto i camionisti si sentono trasportatori di cose non complete: incompletezza che pesa e che genera l'intolleranza delle persone comuni, le quali non sanno che farsene di un camion pieno di pietrame, che oltretutto gocciola sull' asfalto fastidiosi sdruccioli di breciolini e, allora, sorpassano l'articolato facendo segnacci osceni. Spesso i camionisti non possono trovare nessun referente se non in un altro essere anch'esso incompleto. Ora, anche se capita che tra il camionista e la prostituta nasca un raporto duraturo, cioè a dire che due incompletezze fanno un'unione, il piti delle volte le due metà rimangono tali e capita che la prostituta pianga dalla disperazione senza che il camionista comprenda, o che il camionista prenda a parlare solo per sfogarsi senza che la prostituta abbia ancora assimilato la nostra lingua al punto giusto per comprenderlo.

Ci sono poi quegli agricoltori che lavorano dalla mattina al tramonto nei campi, e verso la controra prendono l'Ape oppure il furgone e si dirigono dalle nigeriane e le caricano, il più delle volte senza nemmeno capire cosa uno voglia dall' altra, perché tra il dialetto del posto e il nigeriano ci passa molta incomprensione. Eppure ci sono quelli che escono dalle fabbriche e lo fanno al tramonto quando le ombre degli olmi si sono unite in fasce serrate, allora questi operai e questi impiegati credono che la vita a venire sia segnata da qualcosa di irreversibile, cosi diventano cattivi e cercano le prostitute mgenane un po per scopare ma soprattutto per umiliarle. Sanno che sono sporchi e se sono stati cattivi l'indomani possono percorrere queste strade che portano verso il mare con lo stesso spirito di oggi, possono percorrerle incrociando i fari delle altre vetture che corrono avvicinandosi alla mezzeria, mantenendo il polso fermo e la guida sicura, possono percorrerle senza avere paura di svanire in un' ombra o dissolversi al prossimo raggio di sole dell'indomani: possono cioè resistere alla vita perché sono dei duri che trattano cose dure. Solo che ognuno è un duro al momento sbagliato, quando cioè la sera cala e nessuno, proprio nessuno, neppure quello che ti passa accanto, si avvede della tua scorza. Nessuno, tranne le nigeriane che dopo aver provato la durezza degli impiegati, a sera, se ne ritornano a casa, portate dal protettore, si incuneano nelle stradine e, intanto che percorrono un acccidentato fondo stradale di terra battuta sentono il freddo, cosi cercano di allungarsi la gonna, si coprono con il giaccone e si alzano il bavero, il corpo retrocede e pure le labbra spariscono, restano visibili solo le treccine. Camminano a testa bassa e con le mani in tasca, e camminando scavalcano rovi e gramigna, piegano da un lato fusti di canna e infiine entrano a casa, lo fanno con un movimento consueto e ordinario, entrano a casa pur sapendo che mai si sentiranno a casa.
Le case delle nigeriane sono quasi tutte in mezzo ai campi e spesso circondate da una fitta savana italiana. Sono cioè isolate dal resto del paese e pure difficili da raggiungere per via delle strade fangose e piene di pozzanghere, buche che, per le falde acquifere superficiali, risultano spesso colme d'acqua putrida, pure se il tempo è caldo e l'ultima pioggia è caduta molti giorni addietro. Oppure le nigeriane sono alloggiate nei pressi di Castellvolturno, al villaggio Coppola, un insediamento costruiito anni addietro sul demanio dello Stato, e cioè circa trecento ettari di terreno, una volta coltivato a pineta, che ora è colmo e ricolmo di cemento. Cemento e suoi derivati concretizzati e stampati nella forma di enormi palazzi che da anni hanno perso l'intonaco, evidenziando mattoni che sembrano ferite ancora sanguinanti, palazzi e torri per la maggior parte privi di vetri e ricchi di nastro isolante a mo' di copertura. Il comprensorio del villaggio, per ironia forse studiata o forse involontaria, è ricco di sale giochi e discobar: le prime, intitolate a spiagge californiane, ma che presentano invece dello spazio dell'oceano le ristrettezze del vicolo, sono infatti tutte con il soffitto basso, graffiato a calce: un impatto soffocante. I discobar e i locali notturni hanno invece le pareti rivestite di stoffa rossa, stoffa qui e li, soprattutto negli angoli, staccate e cascanti. In queste abitazioni, da qualche tempo poste sotto sequestro dalla magistratura, vivono un numero imprecisato di nigeriani, di americani in forza alla Nato e terremotati privi di abitazione, allora come adesso. In questo villaggio tutto ricorda la fragile esistenza degli abitanti comparata all'inutile possanza del cemento e all'abbondanza del ferro: paragone ancora piu struggente se si pensa che le catene che fungono, qui e là, da recinto, sono straordinariamente enormi, come se dovessero trattenere l'ancora di un transatlantico, piuttosto che proteggere un marciapiede dal parcheggio delle macchine. Ferro e cemento, strettoie e budelli, divertimento soffocante, banchine cementate e passaggi al mare interrotti. Un comprensorio ricco di strutture che volevano suggerire l'idea della potenza affaristica e che adesso pesano sulle persone fisiche degli abitanti stranieri, ai quali è concessa una ristretta vista sul mare.
Eppure d'inverno, se percorri queste strade è più facile raggiungere il mare. Puoi prendere l'autostrada e uscire a Capua, da li imboccare l'Appia e dirigerti sulla via Domiziana. Oppure, partire dall'hinterland e seguire il dedalo di stradine che si congiungono ad altre, si formano e si sformano, generando si e annullandosi, prima di raccordarsi con la Domiziana. Puoi anche scegliere quale località visitare, se Baia Domizia, Baia Murena o Mondragone, puoi, se vuoi, arrivare in questi luoghi in breve tempo, posteggiare senza problemi la macchina sul lungomare, scendere sulla battigia, camminare fino al mare e inginocchiarti a pochi centimetri dalla sabbia bagnata per aspettare l'onda che schiuma e si ritrae. Se lo fai, se fai tutto questo, ti accorgerai, anche senza compiere una rivoluzione intorno al tuo asse, che sei solo. Sei solo davanti al mare e hai intorno a te lo spazio. Quindi sarai inquieto. Eppure non è il vuoto che ti preoccupa, perché lo sciabordio dell'onda anche se si coniuga con il vento non sposta 1'orizzonte e la luce che si riflette tra mare e cielo non dilata lo spazio: al contrario, qui in inverno la luce sembra restringerlo. Tu puoi, se vuoi, alzare pure gli occhi al cielo, seguire le nuvole contorcersi o cercare con lo sguardo un aereo, puoi provare a correre sulla sabbia, puoi cioè provare ad accelerare il movimento dei tuoi pensieri, ma non riuscirai a toglierti dalla testa la sensazione che quel mare davanti a te e quel cielo sopra di te, abbiano a che fare con la finitudine. Qui, in inverno, se vai al mare, se passeggi sulla battigia, avverti il paesaggio frammentato, come se, a forza di riprodurre stagione dopo stagione gli stessi riti, fosse invecchiato, fosse li a un passo dalla cancellazione e tu con esso.
D'estate, invece, è lo stesso. Il fatto è che le periferie vanno al mare tutte insieme. Capita che una domenica esci di casa e per strada non trovi nessuno. Succede ogni anno verso la fine di maggio. Esci dal portone e cammini verso il centro, ti guardi intorno e non vedi nessuno, tendi l'orecchio e l'unico rumore che senti sono i tuoi tacchi, finché man mano che ti avvicini alla piazza avverti oltre i, tuoi tacchi anche il motore di qualche macchina. E un effetto doppler. Senti, appena accennato, il suono in lontananza, poi via via aumenta e davanti agli occhi vedi sfrecciare un'auto, per un attimo, poi la visione si sfoca e resta solo una scia rumorosa che si estingue. E di nuovo ti guardi intorno e non vedi nessuno, ti ritrovi da solo a sentire i tuoi tacchi. Quindi le periferie vanno al mare e ci vanno tutte insieme, insieme e d'improvviso, così che, se qualcuno del tuo gruppo ha dimenticato di avvertirti, resti in città da solo e succede che ti senti perduto. Ma imboccare contemporaneamente la stessa strada alla medesima ora, comporta il formarsi di lunghe code prima di arrivare al mare. E tutti in macchina si innervosiscono perché la fila sembra eterna e c'è bisogno di concentrare lo sguardo sulla macchina che ti precede, non c'è tempo di guardare intorno, non si ha voglia di pensare perché un solo desiderio occupa il registro dei pensieri dei gitanti: appena arrivo in spiaggia faccio una corsa e mi butto a mare.

Se ascoltate Isoradio siete portati a credere che gli ingorghi italiani siano solo nel tratto Bologna-Borgo Panigale, oppure lungo 1'Adriatica o ai valichi di frontiera. Ebbene, provate a percorrere la Domiziana durante i mesi estivi. Vi colpirà la fila lunga decine e decine di chilometri, dall'ultimo lido utile di Minturno all'innesto con la strada. La fila poi si spezza in vari tronconi a seconda che ci si diriga verso Caserta o verso Napoli, o in qualche caso verso i paesi limitrofi. Nessuno, nemmeno chi conosce le sperdute e molteplici strade secondarie che innervano il territorio, è immune dalla coda. Intèri quartieri periferici del napoletano e del casertano si trasferiscono di botto al mare. Sembra, a giudicare dalle modalità del trasferimento coatto, ma ricco di oggetti quotidiani, a volte poco consoni con lo stile marino, di assistere a una proiezione di vecchi filmati che mostrano gli italiani al mare nel periodo del boom. In realtà non è il caso di parlare di alienazione e di omologazione. Solo se non siete mai stati a Scampia o a Secondigliano durante i mesi estivi, potrete permettervi di fare facile ironia. Se invece avete un vago sentore di come è la vita nelle degradate periferie dell'hinterland casertano o napoletano, allora saprete perché di colpo intere famiglie decidono di passare la giornata al mare. In questo caso assisterete alla visione della fila di macchine completamente ammutoliti, certi che non state contemplando degli allegri gitanti, ma il procedere di un funerale, dove il defunto si manifesta, appunto, nella figura assente del mare.
Così, quando si arriva si lascia la macchina lontanissimo dalla spiaggia e si corre verso il mare; capita però che l'acqua è un catino e i bagnanti sono in tanti, tutti dentro il catino, quasi spalla a spalla, occhi negli occhi altrui, e tu da lontano li vedi, e non appena inizi a correre ti senti soffocare, decidi di lasciare perdere il tuffo dopo qualche passo, diminuisci la frequenza della falcata, pian piano deceleri ed entri in mare per inerzia, smorzando quel grido che fino a ora avevi creduto liberatorio e sussurrando un flebile rauco lamento. Allora pensi che al mare non bisogna andarci in estate ma a settembre, quando c'è poca gente, oppure in inverno quando non c'è nessuno, e solo allora potrai goderti lo spazio. Ora, d'inverno, arrivare al mare è effettivamente più facile. Ci vai, ma ti senti morire. Perché durante l'inverno nessuno ci va, la strada davanti a te è vuota, così il tuo sguardo vaga da sinistra a destra e dall'alto in basso, e quello che vedi è tutto, ma non è il mare.
Il fatto è che la Domiziana dovrebbe costeggiarlo, invece quella linea d'acqua che segue la carreggiata disegna solo i bordi di acquitrini. Eppure all'inizio sembra tutto un effetto ottico, perché, se arrivi da Napoli, la tangenziale per innestarsi sulla Domiziana scende, cala di altitudine, così l'orizzonte del mare via via si restringe, acquista consistenza di terra, e con esso pare si rimpicciolisca pure l'acqua. Invece davvero il volume diminuisce, lo strato d'acqua si assottiglia, la profondità pure. Spuntano solo pozzanghere, piatte e senza mai un'onda, e siccome gli acquitrini introducono al mare, anche quest'ultimo, per una sorta di sillogismo visivo, acquista lo spazio ristretto di una bacinella. E la luce che si riflette si frantuma nei singoli specchi d'acqua, prende la sporcizia della palude, per questo si alza pesante, a strati sovrapposti, ridondanti. Il fatto è che il mare, o quello che ne resta sulla Domiziana, pesa. Pesa sulla terra che ormai ha sgretolato, perché a forza di insabbiare rifiuti tossici, a forza di scavare buche per tumulazioni varie, si è spesso raggiunta la falda acquifera e il livello si è abbassato ancora più in profondità, la falda ha sminuzzato il terreno, si è spinta sotterranea e tortuosa fino ai monti limitrofi.
Il territorio che la Domiziana delimita è stato dichiarato dall'Onu uno dei tre esempi di maggiore devastazione ambientale al mondo. Caso unico in Italia, quel territorio presenta il fenomeno della subsidenza, ovvero la terra frana sotto il livello del mare. Quindi il bacino si amplia, perché, contrariamente alle leggi sui liquidi, non è il contenitore che delimita il liquido ma il contrario. Passeggiando sulla battigia qualcosa ti dice che tutto quello che avviene in quei luoghi, dal divertimento estivo alle costruzioni abusive, è stato fatto e continua a esistere grazie alla carogna di qualcos' altro.
Quando 1'acqua riappare è mutata, non è più corrente tirrenica, solo palude. E pesa come un'inquietudine, come un' ombra, perché basterebbe una mareggiata nemmeno tanto forte per far moltiplicare gli acquitrini, magari formandosi su di una matrice elementare: una pozza d'acqua allargatasi per la pioggia, una misera mistura di acqua e terra che potrebbe attirare altra acqua, e ulteriormente gonfiarsi. E proprio li, dove c'è un palazzo, una corrente osmotica metterebbe in comunicazione il mare e la pozzanghera, porterebbe acqua all'acquitrino, e questo ribollirebbe erodendo il cemento, abbassando lo strato del terreno, e piegherebbe da un lato il palazzo. Pesa, perché il mare trascina tutto verso il fondo, ignorando il principio di Archimede, tutto giù, risucchiato. Succede infatti che in prossimità degli acquitrini, dei laghetti artificiali la sabbia assuma un portamento innaturale: si muove pesante come un elefante, ma con la lentezza di un verme.
Sono circa cento i laghetti artificiali sorti in prossimità del litorale domizio, acqua paludosa in innaturale lotta contro il mare per la conquista del territorio.
È molle e dura. Cosi se ci capiti dentro potresti fare molti metri prima di accorgerti che il tuo piede è sprofondato di qualche centimetro, e se fai affidamento sulle tue forze, sulla capacità di resistere alla vischiosità, allora potrebbero passare molti minuti prima di accorgerti di essere insabbiato fino al ginocchio. Sarà per questo che la via Domiziana richiama il senso dell'ansia, è cupa, oppressiva; nonostante questo, da quel luogo non perviene mai nessuna richiesta d'aiuto. Oppure sarà vero il contrario, tutte queste trasformazioni hanno tempi geologici lunghi, sono lente, nessuno le vede.

D'estate soprattutto. Perché d'estate le spiagge sono stracoline e quello che colpisce la tua attenzione è la gente. Perché non si può dire che i bagnanti che frequentano i lidi di Cancello Arnone o Mondragone siano tutti uguali. Anche se sono distesi a prendere il sole, o in mare a bagnarsi, oppure se è sera e si passeggia per il lungomare, se si è al bar del lido per bere una bibita, anche se tutti fanno le stesse cose allo stesso momento, nessuno è uguale all' altro. Il fatto è che questa gente è eterogenea. Di primo acchito può sembrare strano. Chi viene al mare in questi posti ha appena lasciato le periferie del napoletano o quelle del casertano, ha appena, cioè, lasciato dei ghetti, intesi in senso più genetico che culturale.
Più precisamente c'è da dire: i casertani e i napoletani, diciamo cosi, borghesi, ricchi, falsi ricchi, raffinati, intelligenti o snob detestano frequentare il litorale domizio con la motivazione che questo è un posto frequentato da tamarri. Si dice proprio cosi, cioè non si motiva la scelta adducendo ragioni di maggiore inquinamento del mare, ma si sostengono presunti parametri di bruttezza dei frequentatori del litorale, in ragione dei quali non sarebbe il mare a essere sporco ma l'aria, intesa nella sua accezione più ampia. I casertani e i napoletani di classe, dunque, si dirigono verso il litorale laziale, dove possono rifugiarsi nei costosissimi lidi nei pressi di Sperlonga, oppure nelle spiagge selvagge nei pressi di Terracina. Funziona, cioè, in maniera traslata, lo stesso incredibile effetto ghetto che divide, a Napoli, i quartieri Spagnoli da via Toledo: esistono paradossalmente due mari che pur contigui non sono comunicanti.
Perché, nei ghetti, la possibilità di incroci misti fra popolazioni fra loro lontane è bassa. Sopravvivono gli incroci con i vicini e con i partner di ghetto, e cioè il tasso di omozigosi dovrebbe aumentare, i caratteri simili venire alla luce, piano piano la popolazione dovrebbe uniformarsi, i geni recessivi e letali diventare dominanti, la parentela dovrebbe tendere al declino: fisico, morfologico, intellettuale. Invece no, questo non accade. Non completamente. D'estate lo noti. Se passeggi su queste spiagge vedi 1'avanzare degli estremi, come se i caratteri si formassero a partire da geni lontani, dimenticati e arcigni, e si manifestassero, poi, in fenotipi selvaggi, aggettivo inteso nell' accezione estetica: in questi luoghi, il bello e il brutto hanno un che di arcaico.
Dal punto di vista genetico, le popolazioni vegetali selvagge sono quelle che presentano caratteristiche pili interessanti, in quanto portatrici di geni recessivi utili all'adattamento ambientale, nel senso che spesso costituiscono una riserva di varietà e di molteplicità, per non parlare poi della resistenza alle malattie. Queste popolazioni sono però quasi o totalmente improduttive. Vengono allora sfruttate per realizzare incroci intergenetici allo scopo di trasferire i loro caratteri.

I

In questo mare-ghetto le vedi: le donne gonfie.

Di un gonfiore strano, pallido. È chiaro, non è il grasso che ti sorprende ma l'atipicità del tessuto adiposo. Perché si gonfia e si arrotonda il collo, ma anche il ventre, così che tra seno e pancia la differenza non salta agli occhi, si gonfia in rotoli adiposi la schiena, e cuscinetti crescono con frequenza discendente dal fondoschiena all' attacco delle cosce. Si gonfia l'interno delle cosce, e alle anziane si gonfiano le caviglie poi i piedi e le dita, perfino le unghie si sollevano dall'epidermide, come se una mano dall'interno le sollevasse in prossimità del baricentro, verso l'alto. Queste donne somigliano a un punto e sono silenziose.
Però accanto a loro vivono e si articolano donne variopinte, a volte bellissime. Di alcune di loro puoi seguire con lo sguardo la linea che unisce le scapole, meravigliandoti, perché la retta non subisce nessuna curvatura, nemmeno dopo il più balzano movimento. Puoi guardarle mentre inarcano la schiena e mostrano il sedere corposo e bello, o mentre camminano su gambe perfette, così perfette che ti dispiace sapere che gli aggettivi: lunghe, nervose e sode, generalmente usati per descrivere le gambe, siano così abusati nella letteratura da risultare ormai inadeguati. Non immaginavi, prima di averle viste, fino a che tonalità potesse spingersi il nero degli occhi, e quello dei capelli, e che perfezione potesse assumere l'arcata dentaria. Eppure accanto a loro si muovono donne insane e spente, consumate, nei confronti delle quali non vale un giudizio d'insieme perché quello che attira la tua attenzione è un particolare anatomico che può essere un naso, una guancia segnata, dei capelli sfioriti; particolari, insomma, che risultano brutti e avvilenti, perché spietatamente visibili.
Per gli uomini poi f1 discorso non cambia: accanto all' ombrellone staziona più che una persona una pancia enorme, più che una testa un ciuffo di capelli irti o pettinati il casco di banana, oppure un gigante allampanato che comincia ora ora a piegarsi su se stesso come un punto interrogativo. Se puoi vedere tutto questo, non mancherai di notare bellezze maschili orgogliosamente lontane dai così composti modelli pubblicitari, asimmetriche quanto nervose, scattanti, pronte a rompere ogni regola armonica per il gusto di un sorriso. Se ti muovi in questa massa, ti accorgerai che qui la genetica pesca tra cromosomi estremi e dopo che questi hanno generato esseri umani con caratteri compiuti, mantiene molta cura nell'abbellirli o nell'imbruttirli.
Passeggiando sulla battigia, t'accorgerai che i tuffi a mare sono sempre spettacolari e mai completi: un mezzo carpiato terminato di fianco, un salto mortale di culo nell' acqua, e le voci che accompagnano i gesti sono tenute più alte dello sfrigolio di una puntina sul vinile,
Mi è stata riferita da un amico scrittore la seguente scena marina: una bambina che giocava con I' acqua con malagrazia è stata redarguita dalla mamma con la seguente frase: posa' o secchiello mo' mo', votta l'acqua, Ilaria! Ora, a parte il fatto che, pare, il grido di rimprovero superasse per intensità il fastidio che la bambina stava probabilmente dando ai vicini, quello che colpisce è lo scordinamento della frase. A rigor di logica, la frase avrebbe dovuto comporsi secondo un diverso ordine temporale, e cioè: Ilaria, butta l'acqua e posa il secchiello. Questa mancanza del senso del tempo legata a un' azione è un fatto non raro per alcuni abitanti delle periferie, i quali perceepiscono si il bisogno di essere al passo con i tempi, ma non riuscendo ad afferrarli secondo i canoni a noi noti, subiscono non il tempo in sé ma il ritmo moderno che porta con sé. Cioè, la mancanza di sintonia tra desiderio e vita reale si manifesta in atteggiamenti disordinati o in discorsi composti da frasi che si accavallano nell'urgenza di manifestarsi, tutte con uguale vigore e quindi non in grado di ordinarsi secondo delle priorità definite.

se annuserai l'aria sentirai il puzzo di frittate coi maccheroni, di cipolle mangiate come mele, di angurie scuoiate a freddo, guarderai picnic estesi come baccanali, rutilanti di gorgheggi per gas di coca-cole bevute fredde e di colpo, o per birre Peroni ingollate.
E siccome c'è sempre uno stereo che suona ad alto volume o il rimbombo di un grido, un trillo di telefonino, acuto come un antifurto durante la notte, tutto questo anomalo andare di corpi e di sguardi, di energia alimentare dissipata e vagante nell' aria, di odori avorticati tra le spire di allacciamenti serpentini tra amanti, e solitudini incomparabili di nonne ammuffite, tutto questo fiorire di speranze nella fattispecie di adolescenti vizioose e ridanciane o sprofondamenti all'interno del proprio corpo di megere, vaiasse e capere, siccome, dicevamo, c'è sempre uno stereo che suona o un grido che irrompe, mai come su questa spiaggia l'idea di decadenza e quella di splendore raggiungono una vicinanza cos1 violenta, abbagliante e martellante nel suo procedere al tempo dell'Onda su onda. Ma tra i due estremi, tra la decadenza e lo splendore risuona un'armonia incompiuta. Tutti qui, su questa spiaggi2c, cercano lo spazio, e la voce alta come il gesto magniloquente non è altro che un tentativo di puntellare dei confini, stabilire l'appartenenza a un territorio Nonostante questo, tutti si ritrovano ingabbiati nei loro stessi estremi.
Il problema degli spazi è stata spessa affantata dall'edilizia popolare can risultati catastrofici. E ;1 casa delle Vele di Scampia a della Zen di Palermo.. Gli architetti hanno. in quel casa affrontata i progetti can teorica razionalità. Nel casa delle Vele hanno. tentata di riprodurre lo spazio. e il senso. di socialità presenti nei quartieri Spagnoli: negli edifici ci sana ballatoi condaminiali, scale all' aperta, andrani carne piazze, sala che la vita nelle Vele è, can tutta la buana volantà degli architetti, insopportabile nan tanta per la mancanza di spazio. ma per !'isolamento degli spazi, nel senso. che gli accupanti hanno circondata quelli di loro proprietà e non sala quelli, anzi hanno. utilizzata luaghi condaminiali per affari privati, ciaè: balllatoi recintati can cancelli di ferra, garage utilizzati carne deposita di matarini rubati, facendo. venire mena tutte le occasioni di incontro che alcuni luoghi presenti nelle Vele valevano. offrire. Qui i casi sana due: a la nastra ragione nan ha capita davvero. casa sana i quartieri Spagnoli, a non è giusta riprodurli in chiave moderna. Diversa è il casa della Zen, dove si è tentata di costruire un organismo abitativa razionale, simmetrica nel sua andamento. e inscatolata nella giustapposizione degli elementi architettonici, quasi carne se ci si valesse difendere dalla natura lussureggiante e troppa selvaggia della Sicilia.

Questa massa sciama frenetica verso la sera. Per prepararsi allo struscio, le signore smuovono i loro capelli, costruiscono pettinature a onda, lavorano il cuoio capelluto come fosse un batuffolo d'ovatta, lo gonfiano, lo aggiustano, sollevano la frangetta a mo' di cavallone marino e ne arrotondano la punta in un ricciolo che ne smorza il frangersi. E mèches, strisce colorate, striature di bianco che imbiancano le basette, colpi di sole che ingialliscono i capelli in una versione di qualche tono più in basso e più sbiadito del colore dell'oro, infusi alle erbe che fanno brillare i capelli in tenui luccichii ramati. E camminano dietro i loro uomini, in compagnia delle amiche, un occhio ai figli e l'orecchio alla chiacchiera, mentre gli uomini le precedono, pantaloncini e maglietta, barba non sempre curata, pancia spesso sporgente, sigaretta accesa ... Le giovani donne, invece, lisciano i capelli e ne fermano il naturale fluire oltre l'orecchio con mollette d'alluminio fissate poco sopra la fronte, oppure li tengono lunghi e li liberano e li spolverano di tanto in tanto con le dita.
Scelgono top di due numeri in meno rispetto alla grandezza del seno, accrescono il potere seduttivo delimitando o scoprendo del tutto l'ombelico. Sollevano le gambe su scarpe con le zeppe, annodano le caviglie in stretch sintetici, rigonfiano il culo nei fuseaux, e tutto quello che questo offre, compreso grasso, cellulite e smagliature, è semplicemente contenuto dall'incavo di un cavallo tirato su, in mezzo alle cosce, senza pudori, rotondità, fondoschiena dalle linee armoniche ma pure quadrate, trapezoidali, strutture alte o basse. Tutto questo sembra emergere prepotente dal corpo, rompendo i confini dei canoni estetici.
In periferia nessuna donna indossa vestiti larghi o pantaloni con il cavallo basso, nessuna si avvolge in parei messicani, a nessuna viene in mente di indossare maglioni larghi o magliette cascanti sotto l'inguine. La repulsione verso l'esposizione del corpo che raggiunge l'acme con alcune mode in voga al centro (quante ragazzine imbronciate con il collo nascosto in sciarpe, o sprofondate in tessuti caldi indossati a mo' di tuniche, hanno fatto innamorare adolescenti borghesi) sembra non interessare la periferia. Quasi come se gli abitanti della periferia usassero il corpo come unico luogo di comunicazione e lo modificassero camaleonticamente per afferrare le prede, o per difendersi dai predatori.

Li incontrano maschi che affinano la loro figura acuminandosi verso l'alto, grazie a capelli irti e radi, magliette nere d'assalto pirata, scarponi pesanti calzati pure d'estate che dilatano la base del corpo, o scarpe da ginnastica messe ai piedi pure se si è incapaci di fare sport, illuminate da fosforescenze, per marcare non solo la presenza del passo ma rendere visibile il suo incedere, fluorescenze viola, verde, rosso, unite talvolta in un caleidoscopio, e raggruppate in una insenatura, in basso, vicino al tallone, scarpe roboanti per le numerose onde aerodinamiche che fa la gomma nel suo estendersi dalla punta al tacco. Poi, ancora, per meglio gestire la salita del torace e lo sfilacciamento dellla testa, vanno indossati jeans neri duri e ispessiti, adatti a qualsiasi stagione.
Le scarpe Footloose o le Reebok sono quelle più usate dai giovani delle periferie. E non solo nostrane. In America, specialmente nei ghetti, le uniche scarpe che si vedono ai piedi dei giovani e giovanissimi sono queste. Un grande del basket, Michael Jordan, ha più volte firmato serie di scarpe. Il nero che viene dai ghetti, che è stato povero e adesso è miliardario, che si è fatto da solo, consiglia ad altri neri poveri di usare le sue stesse scarpe, per avere le ali ai piedi ed essere come lui. Cosi, milioni di ragazzi poveri spendono (o rubano per spendere) qualche centinaio di dollari per acquistare le scarpe di Jordan. In questo caso il ciclo economico che collega il centro alla periferia è fortemente nocivo per quest'ultima. I poveri spinti da ex poveri acquistano dai ricchi oggetti che contribuiscono maggiormente a impoverirli. Sarà per' eliminare questo dubbio che parecchie scarpe hanno il tacco sottovuoto o presentano effetti fosforescenti. Ci si impoverisce splendidamente o con trasparenza.

Camminano tutti, uomini e donne, giovani e vecchi, sul lungomare, una banchina di cemento senza alberi e con molti lampioni, adulti e ragazzi, con il mare annerito dalla notte, appena spumeggiante se sotto la luna, sempre silenzioso e quasi mai ondoso.
Tuttavia un flusso inarrestabile, gaudente, che si allarga a onde concentriche, verso Sud e verso Nord, Est e Ovest, ma sempre tenendo presente il centro di ogni punto cardinale, o sviluppa capacità di spinta laterale forzando i margini delle ali, dal lungomare si incunea nei lidi, si siede ai tavolini, oppure pervade le piazze, entra a gruppi nei locali, entra ed esce con lo stesso passo, solo un po' più appesantito, ma con ricambio costante, cosi che la densità dello sciame non viene meno.
Migrano verso una gelateria, un bar, sempre mantenendo la spinta verso i luoghi centrali, siano essi piazze, corsi principali, locali alla moda. Non deviano mai per strade secondarie, sono coatti per inerzia, prolifici e rumorosi, cangianti, allegri, ma anche adombrati, nervosi, tesi ad addentare una bestemmia, girano, vorticano, si raccolgono in capannelli poi nuovamente si spargono in onda, finché dopo tanto spazio respirato ma non goduto, dopo questa appropriazione simbolica del centro, torneranno tutti insieme in periferia, incastrati in fila, cercando di sfruttare al meglio la fase di sorpasso per avanzare di posizione, occupando la corsia opposta ben oltre la mezzeria, spingendo le macchine che vengono lungo i margini della strada, quasi costringendole a sfiorare le costruzioni sul ciglio, una spinta un po' simbolica e un po' reale dal centro verso la periferia, eseguita da chi lascia il centro per la periferia. E sorpassano e rientrano, cosi che il serpentone di macchine ondeggia a destra e a sinistra, riprende e riconosce nuovamente i margini, calpesta la polvere, sbalza sulle buche, rallenta il cammino, si innervosisce per una partenza sbagliata allo scattare del semaforo verde, assiste con una fitta al cuore e la tensione del piede premuto sull' acceleratore alla comparsa del rosso, si adagia, insomma, nella lentezza, nell'affanno, nella rinuncia, e cioè implode man mano che ci si avvicina alla periferia, cosi, tanto per riabituarsi alla costrizione. Ma tutto questo avverrà qualche ora più tardi; adesso, a sera, camminano e fluiscono sul lungomare come la risacca, con l'unica accortezza, prima di uscire, di aspettare che la sera nasconda la sabbia, i lidi, gli ombrelloni, i muretti di cemento, i piloni abbandonati, le strade invase, e le case intorno; nasconda tutto quello che fa da sfondo alle loro persone. Perché qui, su questo mare, verso sera, il sole tramonta con una lentezza innaturale e allunga tutte le ombre, cosi tutto si immalinconisce, acquista una dimensione oblunga che trasforma i lidi, pure quelli dai nomi più poetici ed esotici, da luoghi spensierati e balneari a catapecchie inquietanti, per via del cemento armato, mica poi tanto armalo, anzi, quasi sempre sul punto di cedere alla rottama; una dimensione oblunga, favorita dal tramonto, che mostra le cose nella loro filigrana, un crepuscolo del mare che riguarda sia lo stesso molo marino, di volta in volta più stanco, sia le cose che sul mare vivono. Si allungano i contorni, le cose si accartocciano e si comprimono, cosi tanto che le onde si ingobbiscono come rantolassero, e il 100l'O rumore diventa simile al suono ottuso che fuoriesce dalla conchiglia, e gli squilli dei juke-box insieme a quelli dei telefonini, dei clacson, suoni un attimo prima sibilanti, si rivoltano nel tono opposto: perché tutto tace di botto, un suono di basso greve risuona al tramonto, cosi che tutto sembra non solo ovattato ma gorgheggiante, certo non proprio ribollente per eccesso di fuoco passionale, ma al contrario, ti arriva un suono simile a quello che segue 1'affondamento di un corpo a mare, la voce nasale di una cornamusa che si appesantisce per il catarro del musicista.
Questo avviene d'estate, poco prima della sera, per pochi attimi, poi di nuovo tutto risplende.

Nota

Ho cominciato a scrivere La città distratta nel 1998. La mia preoccupazione, allora, era quella di raccogliere la massa di informazioni sulla città di Caserta, quasi tutte di derivazione orale, riassumerle, analizzarle e provare a fornire un'interpretazione che fosse, perlomeno, se non neutrale, orientativa. Per questo motivo, ossia per rispettare la matrice orale, ho usato spesso degli elementi ritmici come: «ci sono quei casertani che», oppure: «si dice che». Desideravo in questo modo dar conto sia alle voci (cioè il sapere orale) che sulla città giravano in maniera ricorrente sia a una conoscenza (una sorta di autocoscienza), diciamo cosi, popolare e ancora non canonizzata in un linguaggio di genere. Il libro infatti - almeno secondo me - non è catalogabile come reportage in senso stretto, né come saggio di urbanistica o di antropologia. Né tantomeno è scritto come se fosse un romanzo, anche se esiste un protagonista sui generis che è appunto la città di Caserta. Il libro poteva (ma sempre secondo me) essere ascritto al genere reportage popolare, nel senso più stretto del termine. Si trattava insomma di lavorare sul «già scritto» e sul «già detto», sul «già sentito» , e da questa sorta di confronto, cioè di riscrittura, ne scaturiva l'abolizione dell'idea di autore edi creatività tout court - o almeno esisteva in me la preoccupazione di raffreddare questi due elementi. Tempo dopo, dovendo aggiungere capitoli per la nuova edizione mi sono trovato a ragionare su nuovi elementi. In questi anni, infatti, sono stati pubblicati dei fibri (per me importanti) che ragionano oltre che sulla cultura popolare anche sulle fonti giudiziarie. Si sono infatti svolti dei processi fondamentali che hanno chiarito alcune dinamiche, sociali e criminali, fondamentali per chi oggi vuole parlare di città, e non solo di una città del Sud, come Caserta. Questa formula mi è sembrata più completa, onesta e per cosi dire, scientifica, proprio perché si trattava di mettere in narrativa notizie vagliate e passate in giudicato, un maniera più esatta (secondo me) per filtrare gli elementi «popolari», dargli corpo o escluderli del tutto dalla narrazione, in quanto incongrui. Per questo motivo, ho, nei capitoli aggiuntivi, introiettato alcune di queste fonti giudiziarie. Tuttavia per non rovinare completamente la partitura originale ho continuato a usare elementi ritmici come «si dice che» o «ci sono quei casertani che». Uso allora questa nota finale e fuori partitura per specificare che le fonti di alcuni nuovi capitoli (contrabbando, rifiuti, camorra) non sono tipicamente orali, ma sono state prese in parte da libri che si basano su fonti giudiziarie, come per esempio, 1'ottimo (e purtroppo non molto conosciuto) Le male viite di Alessandro Leogrande (L'Ancora del Mediterraneo) in parte traducendo in linguaggio orale le (precise e innovative) relazioni semestrali della Dia, la misura interdittiva per il processo a carico di Impregilio e informazioni basate su elementi giudiziari di amici magistrati, giornalisti e psicanalisti.


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