venerdì 13 gennaio 2012

libro V: scotti l'Italia corta

L’ITALIA CORTA
Vincenzo Scotti

Una premessa
C'ERA UNA VOLTA LA QUESTIONE MERIDIONALE

Da quando mi sono dimesso, tanti anni fa, nel 1968, dall'incarico di Segretario generale del Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, dopo dieci anni d'ininterrotta collaborazione con Giulio Pastore, Ministro Presidente di quel Comitato, mi sono sempre riproposto di scrivere qualche riflessione intorno alla "questione meridionale ".
Ero stato partecipe, in quei dieci anni, di una delle fasi più intense e creative della politica a favore del Mezzogiorno e avevo avuto la fortuna di incontrare e di collaborare con uno straordinario gruppo di meridionalisti riuniti intorno a D-e "cenacoli": la Svimez, fondata nel 1946 dagli esponenti del "nuovo meridiona1iismo", il Centro di Economia Agraria di Portici e la rivista "Nord e Sud" legata all'Istituto Storico di Napoli. Con questi "cenacoli" si erano confrontate due riviste, espressioni di culture diverse: "Cronache Meridionali"sostenuta dall'impegno intellettuale di Giorgio Amendola, Giorgio Napolitano e Gerardo Chiaromonte e il "Nuovo Osservatore" diretta da Giulio Pastore, cui collaboravano non solo esponenti della cultura cattolica, ma anche laica e socialista.
Quando lasciai il Comitato dei Ministri, pensai subito, anche per non disperdere il "materiale" che avevo accumulato in dieci anni di lavoro, di pubblicare un breve saggio sul Mezzogiorno e sullo sviluppo dell’Italia moderna.
Avrei voluto approfondire l'intreccio tra la crescita del Nord e quella del Sud fin dalla formazione dello Stato unitario e, soprattutto, leggere criticamente gli effetti della politica per il Mezzogiorno, avviata nel 1950, su quello che è stato chiamato "miracolo italiano".
Non sono riuscito a portare a termine l'impresa che, così, è rimasta incompiuta per tanti anni. E ciò non per un'improvvisa pigrizia ma perché proprio in quegli anni andava modificandosi il quadro economico internazionale con profonde ripercussioni sul nostro Paese e sul Mezzogiorno, in modo particolare. Tutto questo mi consigliava di attendere per capire come avrebbe reagito il nostro Paese al Gunbianlento esterno.
Quello che però già mi appariva chiaro era che il cambiamento esterno stava mettendo in crisi non solo il tipo d'industrializzazione avviata alla fine degli anni cinquanta, ma tutto l'insieme delle politiche per il Mezzogiorno dell'età degasperiana. Eppure nel Sud si stava radicando una struttura produttiva moderna e si era già manifestata un'inversione significativa nella crescita dei divari tra Nord e Sud. Qualcosa si stava muovendo: Pasquale Saraceno ne prendeva atto nel suo saggio "L'Italia verso la piena occupazione".
Per questa ragione furono veramente in pochi a intravedere nei mutamenti del quadro internazionale i segni di una nuova e pesante emarginazione del Mezzogiorno, soprattutto per il modo con cui la classe dirigente del paese, quella politica ma anche quella imprenditoriale e sindacale, stava operando.
L'inedito mix di stagnazione e inflazione portò a una prima conseguenza nel Mezzogiorno: cominciarono ad andare in crisi gli impianti siderurgici, petrolchimici e meccanici localizzatisi nel Mezzogiorno sulla base della doppia convenienza dei bassi prezzi delle materie prime e dell'energia e dell'ubicazione in vicinanza del mare.
Le politiche interne adottate per fronteggiare tale crisi ebbero sul Mezzogiorno un duplice effetto negativo. Da una parte, non fu colla la crisi come occasione per uno spostamento verso il Sud del baricentro industriale e si concentrarono le risorse pubbliche quasi esclusivamente al sostegno della ristrutturazione industriale delle aree forti, lasciando il Mezzogiorno industriale al suo destino di declino. Dall'altro, la politica di deflazione spinse a un contenimento della spesa pubblica e questa riduzione riguardò essenzialmente la spesa ordinaria nel Mezzogiorno.

Al Sud restava unicamente la spesa straordinaria della Cassa, alla quale era richiesto, con sempre maggiore insistenza, di realizzare opere pubbliche "ordinarie" e non più quelle strategiche e funzionali allo sviluppo. La Cassa veniva in tal modo a mutare la sua "missione", in altre parole veniva meno quella, strategica, di realizzare "complessi organici di opere" destinati a dotare il Mezzogiorno delle specifiche economie esterne per rendere conveniente la localizzazione nel Sud di
nuove attività produttive e per elevare la produttività dell'agricoltura.
Ancora una volta la classe dirigente del Mezzogiorno non percepiva che le due conseguenze accennate mettevano in crisi l'intera costruzione strategica dello sviluppo del Mezzogiorno che era stata avviata nel 1950. Non bisognava, infatti, attendere molti anni per capire che la politica di ristrutturazione industriale adottata avrebbe portato alla sparizione non solo degli impianti di base ma anche di quei nuclei d'industria manifatturiera insediatisi nel Mezzogiorno.
E non si dovrà neanche attendere il referendum per abolire l'intervento della Cassa perché la Cassa avrebbe cessato, in breve tempo, di essere lo strumento straordinario di politica di sviluppo per diventare ente ordinario di spesa a pioggia, volta a intervenire per ogni fabbisogno, anche semplicemente clientelare.
La crisi generale, alla quale avevano concorso molte cause a partire da quella della decisione di Nixon di chiudere l'era della convertibilità del dollaro, influì anche su quel cambiamento della cultura economica e politica che va sotto il nome di "individualismo liberista". Nelle università, nei "think tank" politici del mondo e nelle cancellerie dei grandi come dei piccoli paesi, si consolidava il pensiero liberista.
La messa in discussione dei fondamenti teorici e delle politiche di sviluppo portò alla cancellazione dei grandi progetti d'investimento infrastrutturali e d'industrializzazione per lasciare alle forze del mercato di operare il riequilibrio tra Nord e Sud del mondo.
Fu l'epoca del "Washington consensus", condizione perché la Banca Mondiale e il Fondo Monetario
internazionale intervenissero per sostenere i paesi sottosviluppati strozzati dal debito e dagli squilibri della loro bilancia dei pagamenti.
All'interventismo dello Stato era attribuita la responsabilità del permanere del sottosviluppo. Nel nostro Paese parlare di problema del Mezzogiorno divenne quasi un atto temerario e meglio sarebbe stato considerare chiusa la "questione meridionale".

PUO’ RITORNARE LA "QUESTIONE MERIDIONALE"

Nel 2008, una crisi economica più violenta di quelle precedenti, ha portato ad un mutamento del clima culturale e politico; ciò ha reso possibile, almeno, di poter riprendere a parlare della "questione meridionale". Sono riapparse le condizioni per ritenere possibile trasformare il Mezzogiorno da "problema" nazionale a "risorsa" nazionale e per consentire al Paese di affrontare, in modo unitario, le sfide dei cambiamenti economici e politici planetari generati dallo sviluppo tecnologico, dalla crisi finanziaria e dal modo stesso con cui il mondo sta uscendo dalla crisi.
Riflettendo sull'esistenza o meno di questa possibilità ho deciso di riprendere le carte degli anni settanta e di scrivere questo breve saggio che si rivolge, innanzitutto, a chi rifiuta ancora oggi di sentire parlare di Mezzogiorno o a chi, seppur in buona fede, ne abbia un'idea esclusiva e falsa di "regno dell'illegalità e dell'inefficienza". Scrivendo, penso però soprattutto ai più giovani, come le mie figlie o i miei studenti, che hanno realmente voglia di sapere e che sono capaci di non cedere alle mistificazioni, alle esaltazioni o alle demonizzazioni; penso a quei giovani del Mezzogiorno che sentono il bisogno di conoscere criticamente i processi avvenuti e di credere che si possa cambiare per preparare un futuro migliore.

DA DOVE COMINCIAMO?
Nel 1973, ero, da pochi anni, entrato nel Parlamento Nazionale e già avevo sperimentato una legislatura sciolta un anno prima della sua scadenza naturale: segno del malessere politico del Paese e, soprattutto, degli eletti, nel gestire questa Italia. Si stava esaurendo anche l’impulso innovativo dell’alleanza di centro sinistra e la divisione bipolare del mondo impediva un'evoluzione del sistema politico italiano verso una compiuta democrazia dell’alternanza.
Erano gli anni del (dopo" contestazione operaia e studentesca del 1968 ed era sopraggiunta la crisi petrolifera. Tutti si rendevano conto che Fintero sistema economico nazionale era attraversato da profondi cambiamenti; percepiva che nei nuovi settori industriali non c'era bisogno di tanta manodopera, che le nuove occupazioni tardavano e che se ci fossero state avrebbero richiesto diverse professionalità e diversi modelli di vita. La gente, che pur sapeva che la tecnologia era ormai il centro propulsore di tutto il sistema economico e sociale, restava tuttavia impaurita di fronte a questo pacifico ma inesorabile sconvolgimento nei rapporti di produzione, di comunicazione e di potere.
Nel Mezzogiorno, impennata dei prezzi del petrolio e delle materie prime stava provocando non solo un'inversione del ciclo economico ma anche l’interruzione di que1rincipiente trasformazione moderna del Sud, che aveva portato alla creazione di un’economia e di una società industriale (la nascita di una grande industria di base e robomeccanica). Si era instaurato un equilibrio geoeconomico caratterizzato da un centro e da una periferia, in cui il primo aveva costruito il suo sviluppo moderno su di una ineguale ragione di scambio tra materie prime e prodotti finiti, conseguenza di quattro secoli di colonie.
La risposta delle classi diligenti del Paese ai nuovi problemi che venivano posti al Sud, nel giro di poco più di un decennio, portò alla cancellazione della (questione meridionale" dell’agenda politica nazionale, riducendo Il Mezzogiorno a una somma di tanti problemi locali e all’emergere di una “questione settentrionale", come problema centrale del Paese.
Tra le tante analisi sulla fine della politica per il Mezzogiorno, manca l'approfondimento sul nesso tra questa e l’evoluzione del sistema economico mondiale. Un vecchio assetto secolare lasciava il passo ad uno nuovo fondato su quello che avremmo chiamato globalizzazione dei mercati. Si faceva anche strada il superamento dell’antica dipendenza della periferia del mondo (i paesi del Sud produttori di materie prime e di energia) dal centro del mondo. Non possiamo dimenticare che a questa trasformazione concorreva, non solo la forza innovativa delle nuove tecnologie, da quelle informatiche a quelle genetiche e alle nanotecnologie, ma anche la caratteristica del tempo presente: la velocità con cui tutti i nuovi fenomeni si presentano.
Quando, dopo la seconda guerra mondiale, irrompe nella vita politica italiana il tema del "divario" tra le due grandi aree del Paese e la "questione meridionale" è assunta come la questione nazionale, il pianeta, aldilà della grande contrapposizione politica bipolare, era caratterizzato da una netta divisione tra il Sud e il Nord del mondo.
Il Nord (il Nord dei paesi dell'Europa occidentale e poi transatlantica), da oltre cinque secoli, costituiva il centro del mondo e il resto del pianeta (il Sud) era stato progressivamente assoggettato dal centro per rifornirsi di risorse naturali e umane. Gli imperi coloniali avevano costituito il meccanismo di governo dell'economia mondiale descritto dai grandi storici e, in particolare, da Braudel eWallerstein.
I paesi del Sud, un giorno colonie, con la fine dell'epoca coloniale sotto lo stimolo degli Stati Uniti, cioè del Paese leader delle economie industriali avanzate, erano, nel frattempo, diventati stati indipendenti e premevano alle Nazioni Unite perché il tema dello sviluppo fosse posto al centro dell'azione dell'Onu. Era sorta anche una branca della 1Ìcerca economica dedicata al "Dopo la grande crisi del 1929"; scriveva Keynes, nel capitolo conc1usivo della sua Teoria generale, che "la teoria tradizionale non presentava crepe, ma c'era il dato che quasi mai si verificavano le condizioni previste per il suo funzionamento e che una volta ristabilite, dopo un'azione dello Stato, le condizioni ipotizzate, il meccanismo dell'equilibrio con piena occupazione sarebbe tornato a funzionare". La breccia introdotta dal pensiero keynesiano aprì la strada a una nuova branca della teoria economica (l'economia dello sviluppo) focalizzata sulla spiegazione del sottosviluppo e sulle politiche necessarie ad avviare un processo di sviluppo capace di autoalimentarsi.

La scienza economica si interrogava se l’arretratezza, il sottosviluppo dei paesi del Sud, costituissero uno stadio attraverso il quale erano già passati i paesi con più elevati saggi di crescita o piuttosto fossero la conseguenza della loro dipendenza dai paesi del Nord, per l'iniqua divisione internazionale del lavoro e della ragione di scambio tra materie prime e prodotti manifatturieri.
Dopo la fine della seconda guerra mondiale e degli imperi coloniali la divisione Nord Sud continuò a persistere lungo la direttrice dei secoli precedenti all'interno di una più generale derisione bipolare capitalismo, socialismo, democrazia, totalitarismo. La periferia continuò a essere subordina&1, "gli Usa concentrarono la loro attenzione sulla finanza, i servizi, l'informatic tecnology", l'egemonia scientifica, lasciando progressivamente agli Europei della nascente Comunità Europea il predominio nella siderurgia (Francia, Germania, Benelux, e da ultimo Italia), nell'auto (Francia, Germania, e Italia) nella meccatronica (Germania e Italia), nell'industria del lusso (Francia e Italia). "Gli europei seppero approfittare alla grande di tale divisione del lavoro dando vita a una non solo trasformazione economica, ma anche sociale, senza precedenti". (Ipalmo - Roma 2009 - ricerca su Italia e America latina).
Le caratteristiche degli equilibri economici globali, le elaborazioni teoriche e le pratiche dello sviluppo non potevano non influenzare, a partire dagli anni '50, le scelte e i comportamenti dell'intervento a favore del Mezzogiorno. Infatti, i due obietti"i strategici adottati dalla politica di sviluppo del Mezzogiorno furono coerenti con i condizionamenti esterni e con le dominanti teorie dello Sviluppo.
La scelta fu duplice: in primo luogo, far leva sulla forza di quello che si poteva definire un ({big push) (come diceva Rosestain Rodan), cioè di una spesa pubblica straordinaria per realizzare complessi organici di opere pubbliche, fondamentali economie esterne dello sviluppo produttivo. In secondo luogo e in connessione con la scelta primaria, si puntò sull’industrializzazione promossa dall’industria a partecipazione statale e da grandi imprese multinazionali nei settori della siderurgia a ciclo integrale, della chimica e della meccanica. La localizzazione nel Mezzogiorno di tali impianti di base offriva il vantaggio della vicinanza al mare, dove le materie prime potevano arrivare direttamente alla fabbrica e i prodotti finiti potevano raggiungere più facilmente i mercati delle industrie utilizzatrici. Fu anche considerata la possibilità che i prodotti di base potessero dar vita - in loco - a nuovi processi di trasformazione innescando veri e propri poli di sviluppo.
La Commissione della Comunità Economica Europea, in quel periodo, elaborò uno studio sulla fattibilità  di possibili poli di sviluppo, in particolare quello di Bari/Brindisi/Taranto, che faceva leva appunto sui prodotti del centro siderurgico di Taranto, su quelli del petrolchimico Montedison di Brindisi e su quelli meccanici del Pignone e della Breda a Bari.

EPPURE QUALCOSA SI MUOVE

Agli inizi degli anni settanta, pur alla presenza di alcune incoerenze tra politiche economiche generali e incoerenze nel Mezzogiorno, si era avviato un processo di trasformazione strutturale del sistema economico meridionale.
Il grave punto debole de1findustrializzazione stava nella sottovalutazione della forte dipendenza dalle forniture e dai prezzi dell'energia e delle altre materie prime che rendevano fragili i conti economici delle imprese. Perciò, al mutare strutturale della ragione di scambio dell'energia e delle materie prime, sarebbero saltate molte delle convenienze che avevano portato a scegliere la localizzazione meridionale. E questo fu quello che puntualmente avvenne. L'Italia di Mattei e l'Europa del nucleare e del Giappone non riuscirono, nel loro assieme, ad allentare il vincolo estero.
Nonostante questi dati, resta ancora un mistero il modo frettoloso con cui furono dismessi o profondamente ridimensionati tutti gli impianti industriali, mettendo in discussione la stessa possibilità dello sviluppo industriale del Sud e lo spostamento del baricentro dell'industria italiana verso il Sud. Non è difficile collegare quanto avvenne nel Mezzogiorno a quel processo di deindustrializzazione dei settori innovativi che fu portato avanti sul finire del secolo scorso (Luciano Gallino).

Analogamente, resta in spiega bile come dinanzi al forte decentramento della piccola e media industria manifatturiera italiana nei paesi in via di sviluppo e nei paesi dell'ex-impero de11'Unione Sovietica, nei Balcani,  in quelli del Centro Europa, non si sia utilizzata alcuna politica per attrarre nel Mezzogiorno la localizzazione di tali impianti.
Questi fatti vengono a confermare proprio il rifiuto e la difficoltà con cui i governi e l'imprenditoria italiana hanno saputo cogliere le opportunità offèrte dai cambiamenti globali, per diventare industrie internazionali ieri e globali oggi (si può leggere con questa angolatura la storia della nostra industria automobilistica e la strategia di Sergio Marchionne).
Con la fine degli anni settanta, comunque, appare progressivamente chiaro che gli equilibri economico-produttivi stanno mutando e con estrema rapidità si pensi al rapido passaggio dal sottosviluppo alla grande espansione produttiva di quei paesi chiamati emergenti (India, Cina, Brasile, Sud Africa per non parlare di molti altri).
È la debole e troppo difènsiva risposta del nostro Paese e in gran parte dell'Europa che fèce venir meno la tenuta della politica di sviluppo del Mezzogiorno: ci si accontentò di rafforzare l'area forte del Paese lasciando al Sud la gran parte dell'era del "sommerso". Mi ricordo di aver letto con grande tristezza varie tesi sull'impossibilità di uno sviluppo industriale del Sud fino a mettere in discussione la stessa ut1Jità di un intervento straordinario e limitarsi a portare a casa, per i propri collegi elettorali, robusti stanziamenti delle varie finanziarie t'l'assalto alla diligenza"). Per le classi dirigenti fu quasi un suicidio collettivo. Le regioni meridionali, quasi balcanizzate, erano ormai tutte ripiegate su loro stesse. Non c'era più un'idea, una "visione" del futuro del Mezzogiorno e quindi di una strategia e di una politica: a prevalere erano i sogni dei tanti progetti di "sviluppo locale" che cercavano di accaparrarsi i tanti fondi comunitari.
A dare dignità a questa scelta ci pensò il mutare della cultura economica e politica che, come ho accennato, segnò il ritorno al liberismo e la demonizzazione di ogni pratica dello sviluppo fondata su un ruolo propulsivo e su un intervento diretto dello Stato. Nelle Università, nei centri finanziari internazionali (Banca Mondiale, Fondo Monetario Internazionale, banche di sviluppo regionale) e nelle principali cancellerie del mondo scomparve la politica di sviluppo (si utilizzavano ormai altri termini: "politica di coesione", etc.) con un’universale ricetta “liberalizzazione, deregolamentazione e privatizzazione”.
Ci ha pensato la crisi finanziaria del 2008 a provocare un cambiamento nei comportamenti (i tanti interventi diretti degli Stati per sanare le economie dal collasso generale) scoprendo improvvisamente la necessità di un multilateralismo e dovendo chiamare al superamento della crisi anche i paesi che a quella crisi non avevano dato origine e che erano stati considerati, fino a quel momento, ininfluenti. Ci sono poi state anche le tante conversioni fulminanti sulla via di Damasco, si è cominciato a reintrodurre i reprobi "dello sviluppo" nel salotto e a chiedere loro pareri e suggerimenti. Negli anni passati, prima della crisi, avevo tentato di sollecitare una riflessione strategica sul Mezzogiorno, (ricordo il confronto con Vincenzo Viti su un quotidiano economico) denunciando l'inutilità e i pericoli provocati dai tanti progetti scollegati fra loro, dai tanti patti, intese, accordi (è troppo lunga la lista partorita  dalla fantasia dei troppi consulenti del principe) alimentati dai tanti fondi comunitari, anche essi frutto delle giornate grigie di Bruxelles. Non esiste un rigoroso bilancio economico dei risultati raggiunti da ogni singolo progetto e dalle azioni regionali nel loro insieme. Comunque sia, gli andamenti delle diverse grandezze economiche, a partire dal reddito e dall'occupazione, non hanno dato segni di mutamenti significativi. L'unica cosa certa è la crescita dei consulenti e dei fantasiosi programmatori.
Nel Sud non ci si rese conto che questa scelta portava alla conclusione di liberare le classi dirigenti nazionali dal «peso" della questione meridionale e di attribuire, alla responsabilità esclusiva di quelle locali, la scarsa valorizzazione delle risorse comunitarie e il non saper far fronte alla pressione mafiosa. A trasmettere all'opinione pubblica del Nord questo messaggio hanno anche ampiamente provveduto le immagini sul disastro dei n"fiuti, quelle sulla condizione di molti ospedali e di molti servizi pubblici, quelle, infine, sulle opere inutili e in utilizzate.
IL CAMBIAMENTO RADICALE DEGLI EQUILIBIU DEL PIANETA

Mentre i singoli localismi del Sud si chiudevano nel proprio cortile senza avere una strategia di sviluppo che tenesse conto delle mutate condizioni della competitività globale, a partire dalla fine degli anni ottanta, si determinò un'accelerazione del cambiamento planetario che cominciò a essere percepito proprio alla fine della guerra fredda con la simbolica caduta del muro di Berlino.
Ai molti osservatori distratti, Cianni De Michelis ha ricordato che alla fine della guerra fredda si verificò una situazione simile a quella che si ha al momento dell'innesco di un'esplosione atomica. Scrive De Michelis: «Il repentino allargamento della logica dell'economia di mercato all'intero pianeta ha prodotto lo stesso fenomeno che avviene quando la quantità di uranio arricchito raggiunge la cosiddetta massa critica capace di provocare la reazione a catena che innesca il processo di fissione nucleare; ciò ha prodotto, anche grazie all'incapacità delle istituzioni sovranazionali di fornire una «governance" adeguata al fènomeno della «globalizzazione ".
Tra queste situazioni nuove, i paesi industrializzati europei fortemente ideologizzati, come lo sono stati gli Stati Uniti nell'epoca Bush, hanno prima sottovalutato e poi visto con grande preoccupazione quei paesi che, avvalendosi di accorte politiche pubbliche, fortemente pragmatiche che nulla avevano a che fare con le rigidità ideologiche delle politiche economiche dell'Unione Europea (preoccupata di dover rendere conto ai banchieri e agli accademici liberisti), avevano raggiunto elevati tassi di sviluppo con radicali cambiamenti della struttura produttiva. Erano paesi come il Brasile, l'India e la Cina, emersi nel pieno periodo della globalizzazione, diventata ormai incontrollabile e incontrollata. Accanto a questi paesi emergenti - oggi - si sono allineati, sia pure con minori intensità di crescita, anche alcuni paesi dell'America latina e della stessa Africa, che mostrano un significativo dinamismo, notevole capacità d'innovazione e una forte presenza sui mercati internazionali. Il mondo è venuto fuori dal bipolarismo ideologico e, al tempo stesso, sta passando dall'assetto della divisione centro/periferia, Nord/Sud, verso un sistema economico disarticolato, multipolare ma sempre più interdipendente.
Gli Stati Uniti d'America si sono dimostrati, nonostante gli effetti della crisi e la loro dipendenza dalla finanza cinese, pienamente in grado di svolgere ancora un ruolo guida, avvalendosi della propria indiscussa potenza militare, del proprio potenziale tecnologico, del proprio dollaro, moneta di pagamento pressoché universale nelle transazioni internazionali. Un paese che per tutte queste ragioni ha avuto la possibilità di assicurare ai propri cittadini un tasso di crescita dei consumi di gran lunga superiore al proprio prodotto interno. Mario Baldassari aveva analizzato con glande lucidità questa anomalia ben pJ1ma che essa provocasse una crisi finanziaria ed economica planetaria tra le più drammatiche della storia contemporanea.
E come tutte le crisi, questa del 2008, è stata una rivelazione e non una rivoluzione: già Bush senior aveva parlato alle Nazioni Unite nel 1991 della necessità di un nuovo ordine mondiale e nessun presidente succedutogli, sia Clinton sia Bush Junior hanno tentato di avanzare proposte, consapevoli forse di dover mettere in discussione il proprio livello di benessere e il tipo di leadership esercitata dagli USA. Poi, nel 2008, l'urgenza è diventata assoluta e ben tre summit del G20 hanno lavorato a disegnare una nuova architettura della "governance" globale in grado di rimettere ordine nel disordine dei mercati finanziari e produttivi.
La trasformazione degli equilibri economici planetari (che chiamiamo "globalizzazione") è andata comunque avanti: ne è prova, sia l'apporto della Cina al sostegno della finanza pubblica americana, sia la capacità dei paesi emergenti e di alti, compresi alcuni paesi latino americani ed anche qualche paese africano, di fronteggiare tale trasformazione senza cadere nella depressione.
Usciremo dalla crisi con una vera novità: la consapevolezza che neppure i grandi paesi industrializzati sono in grado di risolvere da soli né i problemi planetari che quelli del proprio paese.
Non molti anni fa, prima cinque, poi sette e poi otto paesi pensarono di avere un potere decisionale planetario; quest'anno al G8 dell'Aquila, con grande intelligenza politica, si è deciso di aprire la strada a un coinvolgimento di almeno venti paesi, il G20, per far fronte alla crisi e rilanciare la crescita.

IL NUOVO ASSETTO?

In questo sconvolgimento di secoli di storia il vecchio "centro" del mondo deve riconsiderare le sue strategie politiche ed economiche perché nel nuovo assetto planetario le difficoltà maggiori si pongono proprio per i paesi che hanno costituito per secoli il "centro" del mondo. Quel centro era costituito dal Nord America - in primis gli Stati Uniti - , dall'Europa occidentale e dal Giappone.
La periferia di un tempo oggi si è certamente ristretta, con la novità che molti tra questi paesi puntarlo a essere sempre più soggetti politici internazionali per nulla "minori o marginali" nel contesto della "globalizzazione ".
Tra i paesi del centro, gli Stati Uniti stanno ridisegnando, con la presidenza Obama, i loro rapporti con il resto del mondo ma soprattutto con i paesi emergenti e, specificamente, con la Cina.

I paesi dell'Europa occidentale, da cinquanta anni, con grande lungimiranza, hanno dato l'avvio alla costruzione di un "soggetto politico ed economico" unitario, l'Unione Europea, che è venuto a costruire un riferimento per tutti quei processi d'integrazione regionale che, dall'Africa all'America Latina, si vanno sperimentando.

A prima vista sembrerebbe che l'Europa sia la "regione" meglio attrezzata a fronteggiare la sfida del cambiamento globale. Essa, invece, si mostra debole proprio perché non è in grado neanche di utilizzare il potenziale costituito dal suo "know how" in tema d’integrazione economica e di gestione di una moneta unica.

Questo "know how" è fondamentale soprattutto in Afi1ca e nell'America latina e nei Caraibi, se si tiene conto che un mondo mu1tipolare (non più centro/periferia) è obbligato a seguire la strada di forme d'integrazione regionale per poli omogenei che possono presentare al proprio interno anche forti sperequazioni. Gli Stati Uniti, come ho accennato, sono ancora una superpotenza con uno specifico ruolo planetario da assolvere, anche se, oggi, con nuove forme di 1eadership.

Gli altri paesi europei e il Giappone sono di fronte alla sfida di fronteggiare il cambiamento di 1eadership. Il Giappone potrebbe scegliere un destino asiatico senza porsi eccessive preoccupazioni per un'eventuale egemonia cinese. Questa sembra essere anche la scelta del nuovo governo Fukuoka dopo le recenti elezioni che hanno segnato un cambiamento radicale nella strategia complessiva del Paese verso il resto del mondo e verso i grandi paesi dell'area.

In una lucida analisi condotta dall'I palmo, e già citata, sono delineate per il futuro dell'Europa due possibili alternative.

La prima potrebbe essere quella di chiudersi in difesa "tentando di resistere alla nuova configurazione del mondo e di difendere il proprio ruolo con l'unico obiettivo di ritardare il più possibile l'inevitabile conseguenza di allentare il vincolo lnll1satiantico e di introdurre conseguentemente tensioni che alla lunga risulteranno insopportabili anche nel proprio processo d’integrazione.  

La seconda, che appare la più realistica e la più ricca di prospettive positive, è quella di "andare oltre la logica della cosiddetta coesione esterna e della politica di promesse, puntando decisamente sulla costruzione di un'area euro mediterranea integrata, coinvolgendo in tale costruzione anche la Russia e mettendo insieme la regione del Mar Nero, il Medioriente, i paesi del Golfo spingendosi fino ai confini di Iran e Asia Centrale, una scelta strategica di questa portata porta immediatamente alla necessità dell'allargamento dell'Unione Europea ai Balcani e alla Turchia, puntando a una centralità dell'Unione per il Mediterraneo a1Jargata all'area balcanica e mediorientale e, quindi, a uno stretto coinvolgimento dei paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo e a una definizione formale dei rapporti con i paesi dell'ex Unione Sovietica a partire, ovviamente, dalla Federazione Russa.

Questa strategia metterebbe l'Europa in un certo vantaggio rispetto ai paesi emergenti sotto il profilo della competizione nei confronti dell'Africa subsahariana, che vede già molto presenti sia la Cina sia il Brasile, e, nel frattempo, potrebbe anche essere una via per rafforzare Transatlantico Nord e anche il cosiddetto asse Tansatlantico Sud, ossia il rilancio dei rapporti tra Europa e il mondo Latino Americano e Caraibico. Una Europa non conservatrice e non sulla difensiva, come oggi essa appare, potrebbe utilizzare fino in fondo il suo “know-how" rispetto ai processi d'integrazione regionali, e, al tempo stesso, l'esperienza sul terreno monetario, tenendo conto che, presto o tardi, il dominio del dollaro dovrei essere posto in discussione.
CI PUÒ ESSERE  UN'INIZIATIVA ITALIANA?
Dinanzi ad una tale possibile e positiva strategia per l'Europa, l'Italia deve giocare tutta la forza che le deriva innanzitutto dall'essere padre fondatore dell'Unione Europea e dalla sua consolidata capacità di dialogo con il mondo culturale e religioso della sponda Sud del Mediterraneo.

L'Italia non ha un passato di grande potenza coloniale ed ha avuto il coraggio e la capacità di riconoscere anche le sue pur minime responsabilità.

Tutte queste potenzialità dell'Italia, all'interno dell'Europa, nell'ipotesi di una svolta politica dell'Europa verso il Mediterraneo allargato, potrebbero ridare finalmente, com'è avvenuto nel diverso contesto internazionali degli anni cinquanta, un obiettivo e una strategia allo sviluppo del Mezzogiorno anche se non esente da rischi e difficoltà di gestione.

Il Mezzogiorno, infatti, fuori da ogni retorica tradizionale, costituisce oggi una fondamentale possibile area strategica (qualcuno dice una piattaforma) dell'integrazione euro mediterranea non solo per la sua collocazione geografica al centro del Mediterraneo, ma anche per la sua storia, che ha visto sul suo territorio il dialogo e la convivenza tra le culture monoteiste presenti per tutto il Mediterraneo.

Il  dato nuovo che apporta concretezza ad una tale strategia è che il Mediterraneo, dopo secoli di decadenza, tornato a essere determinante per i traffici con i paesi emergenti e dell'estremo oriente.


E’ POSSIBILE UNA NUOVA POLITICA NAZIONALI PER IL MEZZOGIORNO

Una  nuova politica nazionale di sviluppo del Mezzogiorno deve avere una seria prospettiva e trovare finalmente, dopo anni di assenza, una sua forte ragione per chiedere al Paese uno sforzo straordinario per fare del Mezzogiorno la nuova locomotiva della crescita dell'economia nazionale: una tra le più importanti piattaforme scientifiche, logistiche e produttive dell'Europa come leva dell'integrazione euro mediterranea.

E’ questa la straordinaria occasione per il Mezzogiorno, dopo anni di silenzio e di assenza d'iniziative innovative, di tornare a parlare - al Nord - non solo d'immondizia, illegalità e inefficienza ma sopratutto di nuove prospettive di sviluppo e di crescita di tutto il Paese. Essa ha come obiettivo non il semplice superamento dei divari, quasi fine a se stessi, ma quello di consentire al nostro Paese di essere il perno nel processo d'integrazione euro mediterraneo. Anzi, in questo contesto, il Mezzogiorno può diventare la risorsa strategica che il paese ha per affrontare le sfide del cambiamento demografico, economico e politico della globalizzazione.

Ciò significa riprendere il filo spezzato, nella seconda metà degli anni settanta, della politica meridionalista, seppure in un contesto esterno profondamente modificatosi.

Nel 1950 il «nuovo meridionalismo" avanzò una proposta che faceva del riscatto del Mezzogiorno un obiettivo dell'intero paese, considerati gli effetti che esso avrebbe avuto nella crescita complessiva dell'economia italiana. E negli anni cinquanta gli investimenti nel Sud e gli uomini del Sud ebbero un significativo effetto moltiplicativo per l'economia del Nord.

HO RIPRESO A SCRIVERE
Da queste considerazioni è stata motivata la mia decisione di ritornare a riprendere gli appunti lasciati incompiuti e rileggere criticamente il passato per delineare alcune strategie per l'immediato.

Ho piena consapevolezza della difficoltà dell'impresa: i pregiudizi, la sfiducia e la rassegnazione sono tanti; ma non è possibile restare prigionieri della paura.

Bisogna osare, anche se la battaglia non è semplice. Ci sarebbe da arrendersi se solo si pensa alla questione dei fondi FAS sottratti al Sud, al loro utilizzo da parte delle regioni o se si guarda al terribile ritardo del sistema di telecomunicazione (banda larga), di trasporto e di logistica moderni, o, ancora, se si ha presente la pressoché inesistente internazionalizzazione delle università, della scuola ed, infine, se si guarda al degrado Urbano e alla crisi delle città.

Queste pagine vorrebbero stimolare attenzione da parte del Nord del Paese, sollecitare l'apertura di un dibattito con gli imprenditori, i sindacati e tutta la società civile.

La Camera di Commercio di Milano, con il generoso impegno di Stefania Craxi, ha promosso il Forum del Mediterraneo per fare incontrare, su progetto" concreto", operatori delle due sponde. È un'iniziativa lodevole alla la sua efficacia dipende dalla capacite1 dei milanesi del saper coinvolgere il Mezzogiorno, proprio per fare (/cl Mezzogiorno la vera risorsa nel processo di integrazione euro-mediterranea.

Nel 1993 Umberto Bossi mostrò in un'intervista al "Nuovo Osservatore" una simile lungimiranza, anche se oggi dopo tanti anni di veleni sul Sud mi sembra ardito riuscire a convincere i suoi elettori e la sua classe dirigente. Forse il ministro Giulio Tremono" potrebbe riuscire a convincerli, se lui stesso trovasse il coraggio di cambiamento, non solo culturale. Si tratta, oggi, di imporre la stessa logica ma con obiettivi e contenuti differenti, nel primario interesse del Paese e dell’Unione Europea.

La paura del cambiamento concreto, non di quello verbale, caratterizza ormai il nostro Paese. Una risposta alla questione  meridionale è una delle opzioni fondamentali per una politica bipartisan che voglia rafforzare l'identità e l'unità del Paese, così come continua a invocare con grande generosi ti l il Presidente Giorgio Napolitano. E potrebbe essere l'obiettivo forte nel ricordo del Risorgimento, che pure ha avuto i suoi limiti e le sue debolezze.

Queste pagine non vogliono essere il monologo di chi formula nuove astratte teorie: il Mezzogiorno è di fronte ad un'occasione che non può perdere se non vuole cadere nella trappola del ribellismo, della rassegnazione o del trasformismo.

Qesti sono i reali pericoli politici cui porta la mancata risposta al dramma del Sud.

Sarei appagato se queste pagine fossero lette da qualche cittadino del Nord che, con il reddito pro capite più elevato in Europa e una condizione di sostanziale piena occupazione, pensa al Sud come ad una palla al piede del suo benessere, a qualcosa di cui sarebbe bene disfarsi. Se questo cittadino, leggendo queste pagine, ricordasse come suo padre o suo nonno capirono che senza una grande Europa non avrebbero potuto crescere e non avrebbero avuto la possibilità di contare nel mondo, forse prenderebbe, anch'egli, consapevolezza di come le sfide della competizione globale richiedano nuove forme d'integrazione regionale: le sole in grado di avere la forza necessaria per potenziare e per far crescere le proprie imprese.

QUESTA È LA SFIDA DELL'ITALIA NEI PROSSIMI ANNI

In un secolo e mezzo le classi dirigenti della politica, dell’'economia e della società civile non sono riuscite a portare a compimento l'unità economica del Paese. Nei passaggi difficili dello sviluppo a prevalere sono stati sempre gli interessi di corto respiro delle aree forti, che hanno anche ostacolato le azioni positive avviate con lungimiranza.

Nel 1950, quando si cominciò a parlare di industrializzare il Mezzogiorno, si fece ricorso alla paura dei doppioni per bloccarla. Negli anni sessanta, quando si fece si rada l'idea di accelerare il processo di trasformazione del Sud, si fece ricorso alla teoria dei tempi lunghi suggerendo, nell'immediato, il rafforzamento dei poli produttivi al Nord e l'emigrazione di mano d'opera al Sud. Negli ultimi anni, alle richieste d’intervento nel Sud nei settori strategici dei trasporli e delle reti informatiche,  si è di fatto sostenuto che nel Sud era veramente il tempo della valorizzazione delle risorse locali e delle infrastrutture si sarebbero progressivamente adeguate alla possibile crescita del mercato.

L'Italia non può essere «corta" e non si può continuare a cancellare il Mezzogiorno o far finta che non esista, perché questa è utopia e spreco che, nel mondo globale, non possiamo permetterei.

Una riflessione

IL SUD MILIONARIO

Non era mai accaduto che una somma così imponente, sessanta miliardi di euro, fosse disponibile per il Sud e che nelle regioni meridionali, invece della speranza, si diffondessero lo scetticismo e la paura. Lo scetticismo è legato alla convinzione che le somme effettivamente destinate dall'Europa alla ristrutturazione dei territori in crisi (perciò in gran parte al Sud) potrebbero essere dirottate verso altri obiettivi, come in qualche misura è già accaduto, per fronteggiare le urgenze degli impegni elettorali in materia fiscale, l'abolizione dell'ici sulla prima casa e le necessità suscitate dalla grave crisi economica globale.
Alcuni stimano possibile una prossima stagione di tanti piccoli interventi locali e tanti sussidi a pioggia, inutili ad attenuare gli squilibri tra Nord e Sud, e utili invece a foraggiare piccole clientele destinate ad ingrossare la massa dei delusi dopo il 2013, quando i rubinetti degli aiuti europei si chiuderanno per sempre.
Il Sud manca di una idea, di una speranza, di un "sogno concreto" su cui scommettere per il proprio futuro. Per le giovani generazioni non è solo questione di occupazione: c'è un male più profondo, ambientale e strutturale, che porta i migliori a lasciare il Sud. La Svimez, uno dei nostri migliori centri di studio sul Mezzogiorno, stima intorno al trenta per cento i laureati con il massimo dei voti che abbandonano la propria terra. Cresce comunque la rassegnazione sulla possibilità di cambiare, anche se a tratti si scatenano passioni civili (i tanti giovani che marciano contro le mafie) o esplode la rabbia e la violenza nelle forme più imprevedibili.

OLTHE IL NOSTRO ORIZZONTE

Oltre il nostro orizzonte scorgiamo cambiamenti radicali. Tutti i tradizionali equilibri saltano come pure le antiche e consolidate abitudini insieme alle teorie che hanno animato, nel bene e nel male, la vita degli ultimi due secoli.
La caratteristica di questi cambiamenti è la velocità con cui si manifestano.
Sono trascorsi solo venti anni da quando, dopo la caduta del muro di Berlino, si era pensato che sotto quelle macerie non fosse stata sepolta solo un'ideologia, ma la stessa "politica" e la sua funzione come strumento ultimo di regolazione della convivenza umana. Da quelle macerie era nato un mondo diverso, nel quale alla sovranità della politica si sostituì, con esiti disastrosi, la dittatura di un mercato senza regole.
Negli Stati Uniti, per impedire che l'industria automobilistica svanisse, insieme con gran parte del "sogno americano", il Governo attuò una sorta di nazionalizzazione acquisendo, sia pure per un tempo limitato, la maggioranza dei pacchetti azionari di imprese come Chrysler e General Motors.
Così si vide che le sole forze del mercato non erano in grado di fronteggiare una crisi epocale come quella suscitata dalle spericolate scorribande del capitalismo finanziario.
L'intervento pubblico, e quindi l'ingresso della politica nella "stanza dei bottoni" dell'economia, sembrò inevitabile anche ai teorici più convinti del liberismo.
In quest'ultimo anno, alla politica si è cominciato a chiedere ancora una volta di riassumere la sua sovranità e di uscire da un lungo letargo. Si sono moltiplicati gli incontri al vertice, le iniziative più diverse con la richiesta di regole perché l'etica torni nella vita degli "affari" e l'attività degli uomini risponda a un i interesse generale che chiamiamo bene comune, cui la politica deve provvedere, e non a una razionalità astratta e invisibile.

I L PRIMO PHESIDENTE AFROAMERICANO

Il fatto è avvenuto sotto i colpi di una improvvisa, anche se prevedibile, crisi che ha scosso il mondo. U n anno fa, il primo fallimento di una grande banca americana fece tremare Wall Street. Quel che mise in discussione l'egemonia dell'estremismo liberista, fu l'intervento concertato fra la Federal Reserve e la Casa Bianca per pompare liquidità nel sistema e impedire un crollo generale del medesimo. Non è inutile ricordare che in quel momento l'inquilino della Casa Bianca era ancora il Presidente George W. Bush, considerato l'erede del reaganismo e del thatcherismo, e, quindi, il leader culturalmente più ostile all'intervento della mano pubblica nell'economia. Ma mentre la crisi gettava ombre livide sul futuro, emergeva la lezione del vecchio e inossidabile pragmatismo americano. Bush lasciava cadere le ideologie e, con realismo, si piegava alla lezione dei fatti.
Da ormai più di un anno gli Stati Uniti hanno eletto un Presidente afroamericano: il Presidente che è entrato nella scena politica di un mondo ormai completamente fuori dal dominio delle grandi ideologie che hanno condizionato la vita degli ultimi due secoli. L'ultima di queste ideologie era l'estremismo liberista, con la sua carica d'individualismo esasperato e di antipolitica. Obama ha colto e rilanciato la domanda di "politica", di "visione", di futuro.
Ha cominciato a farsi strada la consapevolezza del comune destino del globo.
Sviluppo e sottosviluppo appaiono due condizioni non contrapposte ma interdipendenti: sviluppo economico, cambiamento climatico, democrazia e diritti umani possono essere solo il frutto di azioni coerenti da parte di tutti.
Nord-Sud, centro-periferia, lasciano improvvisamente il posto a una visione di interdipendenza piuttosto che di contrapposizione.
La visione manichea del mondo e della storia, dei b u o n i e d e i c a tt i v i, d e g l i a m i c i e d e i nemici, è andata in soffitta insieme con la bandiera rossa, ammainata dalla torre più alta del Cremlino.
Le conseguenze non sono state ancora del tutto studiate e spiegate. Raimondo Panikkar parla di una crisi della "cultura" che, nelle diverse espressioni, ha dominato gli ultimi millenni di storia.

Il mondo è alla ricerca di un'uscita dalla paura, dalla (-risi e dalla diffidenza reciproca; sembra sperare in lilla guida "politica" che sappia cogliere la sfida del cambiamento. Nessuno da solo, fosse anche il leader della più grande potenza del mondo, ce la può fare a rilanciare la crescita, il benessere e la giustizia: "The time has carne for the world to move in a new direction. We must embrace a new era of engagement based on mutual interest end mutual respect, and our work must begin now, ha detto Barack Obama alla Assemblea Generale delle Nazioni Unite.
Forse solo un dialogo vero tra le diverse culture (in primo luogo oriente e occidente) può aiutare una reciproca fecondazione e, al tempo stesso, può insegnare a superare i propri limiti di fronte al cambiamento epocale del mondo: la scoperta che "l'altro" non è un diverso ma soltanto "l'altera pars" di me.
Lo scetticismo, a ben guardare, costituisce  l'ostacolo maggiore per poter rispondere adeguatamente alle grandi sfide. Eppure, eventi epocali hanno introdotto cambiamenti rapidissimi nella struttura stessa del potere mondiale. La diarchia, gravida di minacce, che ha caratterizzato gran parte del Novecento dopo la fine della seconda guerra mondiale, si è dissolta senza che nascesse, al suo posto, un nuovo equilibrio politico in grado di garantire una qualche stabilità al sistema globale.


VICINO AL CAMINETTO

Diversi tentativi sono falliti. Come ho già accennato, solo venti anni fa i leader dei cinque Paesi più industrializzati pensavano di potersi riunire intorno ad un caminetto per decidere il corso della storia. Poi si vide che quella cerchia ristretta non ci riusciva e si pensò di allargarla, a tappe, ad altri Paesi. Nei mesi scorsi, nemmeno gli otto rappresentanti dei Paesi più potenti sono sembrati in grado di far fronte politicamente alla crisi economico-finanziaria più grave degli ultimi cinquant'anni. È emersa l'esigenza di coinvolgere nelle discussioni e nelle scelte i principali venti Paesi, includendo i nuovi giganti dell'economia mondiale, dal Brasile, alla Cina, all'India. Tutto ciò era prevedibile Del resto, proprio nessuno aveva previsto che gli Stati Uniti, la più antica e grande democrazia del mondo, e la Cina, lo sterminato sub-continente del comunismo di mercato, avrebbero creato un intreccio delle loro finanze ed economie così stretto da prefigurare, almeno nel medio periodo, un destino comune.

CHE C'ENTRA LA GLOBALIZZAZIONE

C'entra il richiamo allo scenario globale per proporre una discussione e qualche idea sullo sviluppo del Sud d'Italia? lo credo di sì, perché non sarà possibile avviare nessuna riflessione seria sul futuro del nostro Mezzogiorno senza tener conto degli accadimenti che hanno cambiato i confini dell'Europa e i problemi del mondo. Le politiche meridionaliste attuate nell'immediato dopoguerra ebbero successo, almeno in una prima fase, perché legarono il destino del Sud a quello dell'Italia tutta e dell'Europa. Allo stesso modo è oggi impensabile l'adozione di politiche per il Mezzogiorno immaginate fuori dal contesto degli interessi e dei valori europei e non coerenti con i nuovi equilibri planetari.
Nella premessa ho fatto cenno ai nuovi scenari della globalizzazione e indicato quella che dovrebbe, o meglio dovrà, per l'Europa per fronteggiare le sfide che da quegli scenari verranno. Ed è proprio con riferimento a questi che si può giungere alla conclusione che il nuovo "spazio" dell'Europa è in primo luogo nel Mediterraneo, nonostante gli ostacoli di carattere geopolitico costituiti, in primo luogo, dalla tragedia medio-orientale. Il Mediterraneo (insieme al nostro Mezzogiorno) è il punto di congiunzione tra l'Africa e l'Europa. E l'Africa non è più soltanto miseria, sottosviluppo, esotismo e corruzione. tra contraddizioni abissali, il prodotto interno lordo dell' Africa, nel suo complesso, è aumentato a ritmi elevatissimi anche nel tempo della crisi globale. I cinesi immaginano addirittura ma, con l'acquisto di sterminati territori in diversi Paesi africani, di trasformare una fetta del continente simbolo della fame nel mondo nel fornitore di energie l' di materie prime: il loro "granaio". Infatti, i cinesi soo110 i principali importatori di petrolio dai Paesi africani. C'è una grande ricchezza in Africa che l'Europa può valorizzare ed è costituita dall'immenso patrimonio umano africano che il vecchio continente, con le sue tecnologie, con le sue Università, con le sue ricerche, può contribuire a far crescere nell'interesse comune dello sviluppo del Mediterraneo.
Nel Mediterraneo, l'Europa e l'Africa hanno la sede della loro naturale integrazione (in termini politici, culturali ed economici), giacché l'alternativa a questa possibilità è l'invasione di masse crescenti di immigrati disperati che nessuno saprà come fermare. Se vi sarà una politica europea per l'Africa, dovrà necessariamente includere un rinnovato sviluppo del Mezzogiorno. E allora avrà un senso immaginare che il Sud possa essere il luogo dei grandi centri di ricerca europea, in grado di produrre idee e di attrarre capitali italiani e stranieri.

UN PROGRAMMA ELETIORALE O UNA PROPOSTA STRATEGICA

Un'esigenza diventa prioritaria: bisogna decidere se si vogliono scrivere dei programmi elettorali per il Sud allo scopo di attrarre qualche voto o se, invece, si vuole aprire una riflessione sullo stato di abbandono nel quale versa ormai il nostro Mezzogiorno. A sua volta l'Europa non può continuare a ignorare la grande questione del Mediterraneo, che ha una sponda europea e una africana.
Non esistono alternative al "dramma" di un Mezzogiorno in gran parte ripiegato su se stesso, spinto al ribellismo per poter dar voce al bisogno di lavoro; costretto a pagare alti costi all'inefficienza delle strutture pubbliche e al controllo mafioso del territorio e delle attività produttive. Un Mezzogiorno che ha sperimentato in modo fallimentare anche la strada di uno "sviluppo locale" fuori da un progetto di sviluppo unitario l'integrato, non solo nazionale ma, come oggi è necessario, internazionale.
Sono quindi i cambiamenti cui ho fatto cenno che aprono per il Sud le nuove e reali occasioni di sviluppo all'interno di un'integrazione mediterranea e africana dell'Europa che potrebbe trovare proprio nel Sud il punto di forza.
Mi limito a un solo esempio concreto: il Mediterraneo non è solo il crocevia delle risorse energetiche tradizionali, petrolio e gas, ma è potenzialmente il luogo dove può nascere ed espandersi tutta la gamma delle energie pulite, quella "green economy" che molti esperti indicano come la nuova frontiera dello sviluppo economico mondiale.

DOPO LA CADUTA DEL MURO
L’ emozione suscitata dalla caduta del muro di Berlino appartiene alla mia generazione ma le sue conseguenze coinvolgono i ragazzi che nel 1989 non erano ancor nati e che oggi preparano a fatica il loro avvenire nelle nostre Università, troppo spesso senza conoscere le ragioni storiche che hanno portato ai giorni che stanno vivendo. Oltre l'emozione, per noi europei c'era in (1llegli anni una via obbligata: la politica di integrazione e di sviluppo verso quella parte dell'Europa che lo stalinismo era riuscito tragicamente a separare dalla "casa comune". Uno dei grandi tecnocrati dell'Europa di allora, il francese Jacques Delors, si soffermò con ampiezza - in particolare nel suo Libro bianco - anche sulle prospettive di crescita generale che egli intravedeva con la nascita del più grande mercato di consumo del mondo. In seguito, tutta la politica infrastrutturale europea si uniformò a quel disegno. Mancò, invece, un progetto di attenzione e di integrazione verso il Mediterraneo e il continente africano. Oggi si può convenire che l'Europa fu in qualche modo costretta a ripiegare su se stessa e a farsi carico degli enormi problemi legati alla riunificazione tedesca e all'ingresso nella modernità dei Paesi, dalla Polonia alla Repubblica Ceca, "pietrificati" dall'economia collettivista imposta dal Cremlino.
L'Europa, finalmente unita, ha il suo spazio, la sua missione, la sua prospettiva nel Mediterraneo.

Fino ad oggi l'Europa ha mostrato una grande incertezza nelle sue scelte mediterranee. Nei confronti del Mediterraneo non solo si sono registrate alternanze d'interesse e di presenza politica, ma una certa "vacuità" e retorica per quanto riguarda la cooperazione e l'integrazione economica.
Per stare agli anni più recenti, c'è da registrare il sostanziale fallimento del processo di integrazione euromediterraneo (noto come processo di Barcellona) e, ancora, la "inconsistenza" dell'Unione per il Mediterraneo voluta dal Presidente francese Sarkozy: dopo più di un anno dalla sua proclamazione, siamo ancora ai preliminari di una compiuta ed efficace organizzazione.
Esiste infine il "fantasma" che da anni si aggira nel Mediterraneo: l'attivazione di una zona di libero scambio euro-mediterranea che, nei propositi originari, sarebbe già dovuto essere realizzata.
Negli ultimi decenni l'Europa ha mantenuto il ruolo di junior partner degli Stati Uniti. Oggi gli Stati Uniti sono indotti e, in qualche misura, costretti a guardare al ruolo dei colossi emergenti, il Brasile, l'India, la Cina. L’asse trans-pacifico tra l'America del Nord e l'Asia dell’Est è già una realtà in grado di influenzare fortemente il corso del mercato globale. L'Europa sembra, i più pessimisti, spettatrice inerte del proprio declino e di certo corre il rischio di rimanere tagliata fuori dalla nuova competizione che già s'intravede alla fine del tunnel della grande crisi.

LA SVOLTA VERDE

La nuova competizione comporterà un parziale mutamento dei modelli di sviluppo produttivi. La svolta verde coinvolgerà il settore delle materie prime, in primo luogo della produzione dell'energia, ma si estenderà rapidamente anche alle imprese manifatturiere. La centralità dei dossier ambientali non può essere più negata da nessun Governo e già adesso sta comportando - nei Paesi in grado di progettare il loro futuro – crescenti investimenti pubblici e privati nella ricerca ,scientifica e nelle cosiddette tecnologie pulite.
I fatti impongono all'Europa di lavorare per un’effettiva integrazione dell'area euro-mediterranea, intesa come una realtà allargata ai Paesi della regione del Mal' Nero, del Medio Oriente compreso l'Iraq e che, in prospettiva, sia capace di attrarre i Paesi della regione del Golfo Persico e della Penisola Arabica e, ovviamente, i Paesi del Nord Africa.
Sia pure con grande ritardo, e con iniziative scoordinate, alcuni leader europei, in Francia e in Spagna sembrano guardare al Mediterraneo con un interesse nuovo.
L'Italia, poi, ha ripreso solo di recente la sua politica mediterranea, dopo averla abbandonata per molti anni. In mancanza di una tale politica, è difficile immaginare una vera soluzione per la cosiddetta "questione meridionale" .

"COSA RESTA DELLA QUESTIONE MERIDIONALE"

La cosiddetta "questione meridionale" si può riassumere nella semplice considerazione che, in una parte del nostro Paese, il meccanismo di sviluppo non solo si è inceppato ma si è perfino imbarbarito giacché, al suo interno, ci sono anche le zone grigie del lavoro sommerso e quelle nere della camorra, della 'ndrangheta, della mafia e della sacra corona unita. La crisi mondiale si è abbattuta sulle regioni meridionali, già piegate da sot1erenze antiche. Indagare sulle cause di questo fenomeno è operazione complicata e chiede la rinuncia a ogni forma di retorica. La storia e la sociologia hanno offerto su questi argomenti visioni diverse e sempre controverse.
Come scrive Gian Maria Fara, sociologo e presidente dell'Eurispes, nel rapporto Italia del 1995, "Il Sud è il nodo cruciale, anche se trascurato, della crescita del Paese. In esso, i grandi problemi sociali ed economici dei quali soffre l'Italia sono presenti nella forma più acuta: la criminalità, l'arroganza della pubblica amministrazione, la lentezza della giustizia, la rete dell'usura, e soprattutto la disoccupazione.
Il Sud insomma si presenta come il punto di incrocio di tutte le grandi questioni nazionali e come il simbolo del fallimento di politiche senza progetto".

Uno dei pochi fatti certi è che ci fu una politica repubblicana per il Mezzogiorno negli anni di Alcide De Gasperi, di Ugo La Malfa e di Giorgio Amendola. Le grandi forze politiche e culturali del Paese, i cattolici democratici, i laici liberali e i comunisti gramsciani e crociani, pur dividendosi sulle soluzioni, concordavano nell'idea che la questione meridionale fosse una grande questione nazionale. Seguirono gli anni dell'intervento pubblico, degenerato alla fine nello spreco imperdonabile di risorse.
La politica meridionalista fu figlia di una visione della burocrazia italiana che, anche se alla fine mal gestita, produsse comunque un'importante stagione di sviluppo.
Negli ultimi quindici anni le cose sono cambiate. I due partiti che si sono alternati alla guida del governo del Paese non hanno mai avuto una politica meridionalista; hanno anche messo in campo qualche intervento, più che altro per sussidiare gli insediamenti sempre vacillanti di qualche grande impresa del nord, ma nella sostanza - hanno convenuto sull'idea che la questione meridionale fosse una roba da Prima Repubblica e che, nella nuova Italia dei poteri regionali, il Sud potesse trovare il suo slancio nel cosiddetto "sviluppo locale". La mancanza di un punto di riferimento politico e  culturale di carattere nazionale, che supportasse i Processi di sviluppo locale, ha reso ancora di più prigioniere della grande criminalità le regioni meridionali.

SULLA VIA DI DAMASCO
Adesso molti, dai banchi del governo e da quelli dell'opposizione, ripropongono il Sud come problema nazionale. Quali che siano i motivi di questa" conversione" essa va presa sul serio, senza attardarsi su sterili polemiche sul carattere strumentale o improvvisato che possono avere tali prese di posizione. È invece decisivo aprire la discussione sui contenuti di una politica meridionalista capace di cogliere i rischi e le opportunità dell'al1ìJale periodo storico.
È inevitabile che si parta dalla fotografia del nostro Mezzogiorno. Girando nei Paesi del Sud non si sentono più i toni lagnosi e rassegnati del passato: si avverte, invece, una rabbia che nasce dalla paura.

La paura che lega spesso tre generazioni: i nipoti che campano con la pensione del nonno; i figli che soopravvivono con lo stipendio o con la pensione del padre; gli ex ragazzi ultratrentenni parcheggiati nelle famiglie monoreddito e i giovani ben istruiti, magari laureati con il massimo dei voti, che la stessa paura spinge a fuggire dal Sud. La disoccupazione giovanile ha ormai superato in molte zone il 40 per cento, benché in parte sfugga ai censimenti perché nascosta da una sorta di schermo familiare.

Nel Sud dilaga l'economia sommersa che falsa tutte le rilevazioni statistiche ufficiali e che consolida l'arte di arrangiarsi per poter sopravvivere.

Finora l'economia sommersa ha evitato che esplodesse la "rivoluzione" ma adesso potrebbe non bastare più.

La paura è cresciuta negli ultimi anni, alimentata da un sentimento di abbandono, giacché la segregazione topografica del Sud è diventata più visibile e più aspra I !l'gli ultimi quindici anni. L'Alta Velocità e l'Eurostar si fermano alla stazione di Napoli. Dopo, l'Eurostar rimane tale soltanto nel nome e, avanzando lentamente, diventa un treno dell'ottocento che, in molti casi, viaggia su un unico binario. Migliore, comunque, dell'autostrada  Salerno-Reggio Calabria, dove il caos è interrotto  per brevi periodi solo di notte. È certo un’impresa trasportare le persone e le merci da Ragusa, Catania, Palermo, Reggio Calabria a Milano, ma può essere ancora più difficile viaggiare da Reggio Calabria Bari.

Un piano ragionevole per adeguare il sistema dei trasporti del Mezzogiorno a un progetto di integrazione Euro-mediterranea sarebbe un evento epocale in grado di cambiare alle radici le prospettive dell'economia meridionale.
Non dovremmo però ripetere l'errore fatto a suo tempo, quando l'Italia presentò all'Unione Europea sessantasei programmi per concorrere alla distribuzione delle risorse destinate alla ristrutturazione dei territori in crisi.

Ai sessantasei programmi avrebbero dovuto seguire i paini di attuazione, veri e propri coriandoli di una miriade di interventi, privi quasi sempre di una logica comune.
Per frenare il proliferare dei piani e mettere ordine nei progetti il Governo nazionale istituì il Comitato per lo sviluppo del Sud; fu quasi il riconoscimento del vuoto lasciato dalla soppressione del Ministero per gli interventi nel Mezzogiorno.
MERDIONALISTI D'ACQUA DOLCE
Da qualche tempo circola l'idea di un Partito per il Sud. Qualcosa di diverso e di più ambizioso, nelle intenzioni di chi lo propone, del piccolo "Movimento per le autonomie" fondato da Raffaele Lombardo. Si sente dire che il nuovo Partito dovrebbe fare da contrappeso all'influenza che la Lega Nord esercita sulla maggioranza e sul Governo. lo oso credere che il Movimento di Lombardo abbia svolto un ruolo positivo non solo in Sicilia e che, proprio per questo, si è cominciato a parlare di Partito per il Sud. Penso anche, al di là di ogni considerazione particolare, che ci sia soprattutto l'intuizione della necessità di legare la questione meridionale a quella, mai del tutto risolta, della classe dirigente meridionale (ma forse non solo meridionale) .

Già Guido Dorso aveva ammonito a non sottovalutare il ruolo della classe dirigente locale e a verificare la sua autonomia intellettuale e morale rispetto agli interessi delle formazioni politiche dominanti per evitare che si formasse una schiera di "meridionalisti d'acqua dolce", inadatta ad affrontare i pericoli e le sfide del mare aperto.

Il problema è letteralmente deflagrato negli ultimi anni, dopo che l'abolizione del voto di preferenza ha depositato nelle mani dei leader nazionali la lista dei deputati e dei senatori, determinando un Parlamento di "nominati" e non di "eletti". Gli inconvenienti legati al voto di preferenza non erano e non sarebbero pochi, giacché la competizione per il voto medesimo comporta certamente l'aumento dei costi della politica, la proliferazione delle clientele personali e, non per ultimo, il rischio di più facili inquinamenti mafiosi. L’abrogazione del voto di preferenza non implica che "i debba scivolare necessariamente nelle "liste bloccate” compilate dalle oligarchie di Partito.

Il ricorso al sistema a collegio uninominale nelle versioni anglosassoni o francesi, ad esempio, mette direttamente nelle mani degli elettori la scelta dei parlamentari. In entrambi i sistemi, i parlamentari sono espressione del territorio e rispondono alle esigenze vere dei cittadini.

L’Italia, invece, il nuovo sistema elettorale è stato utilizzato dalle nomenclature dei partiti, grandi e piccoli, per azzerare le classi dirigenti locali e sostituirle con fiduciari dei leader, privi di qualsiasi legame culturale e pubblico con il territorio. Gli elettori non hanno più i loro rappresentanti in Parlamento e quindi non esprimono più, con il voto, un giudizio sull'attività dei lavoratori e dei deputati. Ne consegue che questi ultimi sono al servizio del leader che li ha nominati, determinando, così, la riduzione della politica alla scelta di una sola persona, il capo del partito. Possiamo fare finta che non sia vero, ma le modifiche introdotte nella legge elettorale hanno cambiato la nostra costituzione per la semplice ragione che hanno concentrato nella figura del leader la rappresentanza assoluta delle scelte popolari.

I due maggiori partiti, l'uno di maggioranza e l'altro di opposizione, non hanno avuto su questo argomento opinioni e condotte sostanzialmente diverse. Ricordo che anche Pier Ferdinando Casini e l’Udc furono costretti ad accettare la riforma elettorale con la quale furono abolite le preferenze. Analogamente, la concezione della democrazia leaderistica, una versione berlusconiana del centralismo democratico, è stata la caratteristica dominante del Partito Democratico di Walter Veltroni. lo considero positivo che il segretario del Partito Democratico, Pierluigi Bersani, abbia posto con forza la questione della legge elettorale come un problema ineludibile. E considero altresì positivo che Gianfranco Fini e lo stesso Pier Ferdinando Casini abbiano mostrato di condividere, in più occasioni, l'idea che la scelta dei parlamentari debba essere rimessa nelle mani dei cittadini.

GLI UFFICIALI DI NELSON

Naturalmente la questione della classe dirigente meridionale non si esaurisce nella scelta dei parlamentari. I dirigenti locali dei partiti nazionali, grandi o piccoli che siano, si sono spesso comportati negli ultimi anni come gli ufficiali coloniali dell'Ammiraglio Nelson, soffocando di fatto ogni timido tentativo di dare ai territori un peso nelle scelte legate alloro destino.

È sorprendente che, proprio dopo la riforma del titolo V della nostra Costituzione, che ha attribuito alle Regioni compiti di grande rilevanza e alla vigilia dell'attuazione del federalismo fiscale, si sia accentuata nel Sud la percezione che le decisioni strategiche siano sempre più centralistiche e che non solo il potere ma anche le idee abitino in esclusiva nel quadrilatero cinquecentesco della Roma politica.

A questa logica hanno dato l'impressione di piegarsi anche i sindacati, che pure ebbero un ruolo strategico nelle politiche meridionaliste, ed anche - pur con alcune rilevanti eccezioni - gli imprenditori, gli intellettuali e il mondo delle Università.

In un modo o nell'altro le classi dirigenti locali sono svanite o hanno perso l'autonomia culturale di cui diedero prova nel passato.

E’ possibile che uno dei motivi che hanno condotto all’inaridamento del ruolo delle classi dirigenti nel Mezzogiorno sia stato l'avvento dell'estremismo liberista, con la sua natura di anti-politica aggressiva, giacché - in tale visione - vi è la convinzione che tutte le scelte e tutti gli equilibri siano decisi esclusivamente dal gioco delle forze spontanee del mercato. In una parola, non era necessario che esistessero classi dirigenti politiche locali.

LIBERALI E LIBERISTI

Il mito liberista è diventato quasi un culto, praticato sorprendentemente anche da forze che affondavano le loro radici nella grande tradizione liberale o nella cultura del socialismo gramsciano e salveminiano.

Alcune delle pagine più belle di Benedetto Croce sono volte a diradare l'insopportabile confusione "tutta italiana” tra liberalismo politico e liberismo economico. Il mito dell'estremismo liberista è stato confutato del resto, già prima della grande crisi finanziaria, da economisti come Paul Samuelson e Paul Krugman. E in Italia, da Carlo Mongardini ("Capitalismo e politica nell’era della globalizzazione") e da Guido Rossi ("Il I Il C reato d'azzardo").

I pensatori liberali moderni hanno messo a fuoco la scienza della "geografia volontaria", volta a modificare i territori per aprire la strada allo sviluppo. Tutta la strategia delle grandi infrastrutture europee si è ispirata a una cultura che assegnava alla politica, e non certo alle forze spontanee del mercato, il compito di colmare gli squilibri settoriali e territoriali che rendono fragiili le democrazie.

IL CAPITALISMO FINANZIARIO

Comunque, negli ultimi anni in particolare, il mercato non è stato in grado, da solo, di produrre le risorse necessarie per evitare che la frattura tra le due Italie divenisse più profonda. La crisi mondiale ha svelato tutte le illusioni costituite dalla "dittatura liberista" e dalla sua fatale invenzione finale, il capitalismo "finanziario", che - con la sua ingegneria slegata dall' economia reale - ha riempito di bare i forzi eri delle banche di mezzo mondo. Cadute le illusioni su uno sviluppo slegato dalla produzione di beni e servizi, l'inventario dei guai suscitati dalle distorsioni del capitalismo "finanziario" riguarda in egual misura l'economia e la politica e, perciò, la vitalità stessa dei sistemi democratici. Calcoli della BIRS, la Banca dei Regolamenti Internazionali, studi dell'Ocse e quelli del Fondo Monetario Internazionale concordano nel denunciare una perdita del potere di acquisto dei salari nei quindici Paesi più industrializzati, con punte talmente gravi negli Stati Uniti da aver suscitato un'insolvenza diffusa nel pagamento dei mutui immobiliari: il detonatore che ha fatto deflagrare la crisi e che ha spinto Barack Obama alla precipitate al ventitreesimo posto, dietro di quelle dei greci e degli spagnoli e precedono, nell'Europa dell’Ocse, solo quelle dei polacchi e dei portoghesi. Le disuguaglianze sociali si sono accentuate in tutto l’occidente, tornando talvolta ai livelli registrati negli anni successivi alla seconda guerra mondiale. È ovvio che nel nostro Paese, come nell'intera economia globalizzata i riflessi di una crisi così profonda si avvertano di più nelle zone meno prospere e meno dinamiche, perciò nel Mezzogiorno. L'ascensore sociale, che consentiva a tanti operai di diventare piccoli imprenditori, si è praticamente bloccato.

LE TENTAZIONI NON FINISCONO MAI

Nell'economia stagnante di un territorio dolente, la tentazione di ricorrere all'assistenzialismo e di trasformare il settore pubblico, ivi incluse le miriadi di società miste locali, in fornitori di posti e di sussidi può essere forte: ma è una tentazione che va contrastata con assoluta durezza. Come pure forte deve essere il rifiuto di ogni forma di protezionismo o di suggestione statalista, magari come reazione disperata al fallimento del liberismo esasperato sperimentato negli ultimi quindici anni.

E’ una follia pensare che la crisi dell'estremismo liberista possa riportare in auge, sotto qualsiasi forma, il protezionismo e lo statalismo. Il protezionismo è stato il tetto che l'Italietta ottocentesca si era imposto: un riparo sotto il quale far vivacchiare un'industria gracile e assistita. L'Italia riuscì a liberarsene definitivamente con la liberalizzazione degli scambi con l'estero decisa da Alcide De Gasperi e attuata. da Ezio Vanoni e Ugo La Malfa.
Lo statalismo, concepito come la gestione diretta da parte dello Stato delle imprese manifatturiere o di servizi più disparate - dai panettoni alle agenzie di viaggio - produsse sacche di inefficienza e di corruzione, oltre che spreco di risorse pubbliche. Cose ben diverse dal sano sistema delle partecipazioni statali degli anni cinquanta. Ma anche in questo caso, riproporre quei modelli degenerati sarebbe demenziale. Essere contro lo statalismo non significa avversare l'intervento pubblico che è, invece, necessario per assicurare, attraverso regole trasparenti, il corretto funzionamento del mercato e per dotare il "sistema Paese" di politiche industriali e, perciò, di progetti di sviluppo di lungo periodo, come giustamente chiede con insistenza, anche per il Mezzogiorno, la Presidente di Confindustria Emma Marcegaglia.

L'INTERO PAESE?

Non ci sono scorciatoie: è l'intero Paese, con la sua politica, i suoi imprenditori, i suoi sindacati e le sue Università, che deve assumersi la responsabilità di fare del Mezzogiorno una risorsa preziosa nell'ambito di una politica europea che veda nel Mediterraneo e nell' Africa il luogo del futuro Rinascimento. Se faremo questa scelta non saremo soli: la Francia e la Spagna si stanno dando una politica mediterranea. Avremo, dunque, due competitori e dovremo fare in modo che si tratti di una competizione ad armi pari.
Non è, del resto, una prospettiva lontana.
Il Governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, ha indicato più volte negli ultimi mesi lo "spazio euromediterraneo" come il luogo di una straordinaria occasione di sviluppo. Ho già ricordato che in passato, nel 1993, lo stesso leader della Lega Umberto Bossi si era detto convinto che il Mezzogiorno fosse di interesse vitale per il Nord proprio perché sarebbe potuto diventare il corridoio che avrebbe unito l'Europa al Mediterraneo. Forse è più facile vedere lo sviluppo futuro del Sud da Milano di quanto non lo sia da Reggio Calabria e, infatti, è a Milano che si è tenuto il "Forum economico per il Mediterraneo". E anche questo è il segno della crisi delle classi dirigenti meridionali: un problema che non può più essere eluso, giacché l’attuazione probabile del federalismo fiscale costringerà gli amministratori pubblici a fare i conti con i problemi da risolvere e con le risorse disponibili. Già oggi i conti, bisogna dirlo con franchezza, talvolta non tornano.


CROCEVIA DI DOLORE E DI SPRECHI

E’ innegabile che la sanità funzioni nelle regioni del Nord e spesso anche in quelle del Centro e diventi invece un crocevia di dolore e di sprechi nel Mezzogiorno.

Medici di straordinario valore, e tecnici preparati, vengono umiliati quotidianamente dalla gestione burocratica e clientelare imposta dalla politica. Non si può dimenticare che la sanità costituisce oggi, di gran lunga, la spesa pubblica maggiore nella disponibilità delle Regioni e che, a parità di risorse (spesa per abitante), la Lombardia, il Veneto, l'Emilia Romagna, la Toscana funzionano mentre la Campania, la Puglia, la Calabria accumulano deficit paurosi e grondano di insopportabili contraddizioni.
Certo, le amministrazioni pubbliche meridionali hanno avuto anche difficoltà aggiuntive nei rapporti con le imprese private che operano nel settore della sanità giacché gli interessi della criminalità organizzata si sono fatti sentire. N é si può trascurare il fatto che i grandi gruppi privati che operano nel settore sanitario hanno spesso avuto negli amministratori pubblici meridionali interlocutori più fragili rispetto a quanto è accaduto di norma nelle regioni del Centro-Nord.
In una parola, la questione della sanità nel Mezzogiorno non si esaurisce nelle assunzioni clientelari di matrice partitica e nell'inefficienza delle Pubbliche Amministrazioni, ma comprende l'intreccio tra potere politico - assai debole - imprese private e criminalità organizzata.
Generalizzare è ingiusto e fuorviante, perché nel privato operano talvolta imprenditori che si muovono con trasparenza e capacità e contribuiscono allo sviluppo delle realtà locali. E tuttavia non può essere ignorata la grande questione della devianza affaristica e criminale emersa in più occasioni nella gestione della sanità. N on mancano nel Mezzogiorno uomini politici, in tutti gli schieramenti, animati da passione civile e in possesso di capacità di governo del territorio: anche se
spesso non hanno vita facile, apparendo come eccezioni in una situazione degradata.
Le giuste critiche al sistema, tuttavia, non dovrebbero debordare in un'alterazione dei fatti, come quella, piuttosto diffusa, che considera le risorse destinate alla sanità eccessive, quando invece sono sotto la media degli stanziamenti europei. Nella sanità non si spende troppo, si spende invece male, soprattutto nelle regioni meridionali.
Bisogna prendere atto (con qualche tristezza per chi scrive) che la crisi della classe dirigente nel Mezzogiorno rischia anche di sfociare in una sorta di "balcanizzazione" del Sud, nell'ambito della quale ogni Regione pensa a una sua sopravvivenza slegata dal destino dei vicini. È un fatto che la Regione Campania e la Regione Calabria, per fare un esempio, pur avendo problemi in comune non abbiano immaginato di collaborare mettendo in campo una strategia concreta e condivisa.

La politica meridionali sta degli anni '50 era cosa ben diversa. Ebbe pure diversi poli: a Napoli, attorno ai liberali democratici di Francesco Compagna e ai cattolici democratici che s'ispiravano a Pasquale Saraceno e a Giulio Pastore; a Portici, nella scuola del socialista Manlio Rossi Doria; a Bari, con il figlio di Tommaso Fiore, Vittorio, e gli intellettuali della Fiera del Levante; a Palermo, con Leonardo Sciascia, Pio La Torre, Piersanti Mattarella, Emanuele Macaluso. E a Torino, dove il polo meridionalista era vivo nelle stanze del quotidiano "La Stampa" e tra le aule della grande università piemontese. Era, però, una politica figlia di una fitta comunicazione fra questi poli che, in tal modo, costituivano una rete culturale in grado di ispirare le grandi scelte del Paese.

Adesso, invece, abbiamo sotto gli occhi la realtà delle regioni meridionali, che la pasticciata riforma del titolo V della Costituzione ha investito di nuovi poteri e che non riescono a dar vita a una riflessione e a scelte comuni.

L'ACQUA, IL TALLONE D'ACHILLE

Un'altra scelta comune imposta dai fatti, dovrebbe essere quella legata alla gestione delle risorse idriche nel Mezzogiorno. L'acqua - bene prezioso e "finito" - è, insieme con l'energia, alla base della vita e di qualsiasi ipotesi di sviluppo umano (economico e civile). La scarsità d'acqua è stata una delle piaghe storiche del Mezzogiorno. Oggi, moderne tecnologie consentono di utilizzare l'acqua marina dissalata per l'irrigazione e di sfruttare "giacimenti" sotterranei a grandissima profondità per gli usi civili. L'ingegneria più evoluta può essere utilizzata per costruire invasi e reti infrastrutturali mettendo fine, o almeno limitando, l'incredibile spreco di un bene così prezioso. Le regioni meridionali dovrebbero essere particolarmente interessate a una collaborazione più stretta su questo argomento. Benché abbiano spesso la necessità di gestire in comune le risorse (e gli acquedotti), le regioni del Sud non sono ancora riuscite a darsi un piano comune per l'approvvigionamento idrico e per la distribuzione. Ora si dice che il problema sarebbe superato dalla legge che nel novembre del 2009 (il cosiddetto decreto Ronchi) avrebbe privatizzato l'acqua. Non è esatto.
Le nuove norme, decise per consentire l'ingresso dei privati nella gestione dei servizi locali, ribadiscono che l'acqua è un bene pubblico e che i privati potranno prendere in gestione dagli Enti locali le reti di distribuzione e il servizio idrico. È inutile negare che, in un modo o nell'altro, si tratta di una legge controversa: il principio della cosiddetta liberalizzazione dei servizi pubblici locali è certamente da condividere ma bisogna evitare che, nei fatti, ai piccoli monopoli pubblici si sostituiscano grandi monopoli privati. Questo potrebbe essere il caso dell'acqua. E proprio perciò occorre che la gestione della liberalizzazione che, sia ben chiaro, lascia le risorse idriche nella proprietà pubblica, venga condotta con prudenza, con intelligenza e con assoluta trasparenza, in primo luogo dagli Enti locali. Bisogna ricordare che la futura gestione della rete verrà decisa attraverso gare d'appalto alle quali potranno partecipare anche società miste a capitale pubblico-privato.

UNA PROPOSTA CONCRETA

Le Regioni del Mezzogiorno, insieme agli Enti locali, dovrebbero assumere l'iniziativa di costituire una grande società per la gestione delle risorse idriche, un'impresa nella quale il settore pubblico dovrebbe mantenere una quota del 30% del capitale mentre il rimanente 70% dovrebbe essere collocato sul mercato, chiamando a sottoscrivere quote di azionariato le piccole banche locali del Mezzogiorno, le piccole e medie imprese private e le associazioni di categoria (artigiani, industriali, agricoltori). Se le Regioni meridionali riuscissero a realizzare tutte insieme - un'impresa come quella che ho proposto potrebbe nascere la prima grande "public company" del Mezzogiorno; un'impresa in grado di rinnovare la rete di distribuzione dell'acqua, mettendo in campo investimenti che difficilmente potrebbero essere realizzati attenendosi soltanto alla logica del profitto a breve termine.

Si stima che l'acqua che oggi si perde nella "groviera" della rete nel Mezzogiorno oscilli tra il trenta e il quaranta per cento: è un "assurdo" che il Mezzogiorno e l'Italia non possono permettersi. Ed è fantasioso pensare che i privati impieghino i loro soldi per ricostruire la rete: potrebbero farlo soltanto aumentando a dismisura le tariffe oppure programmando investimenti che verrebbero ripagati solo dopo alcuni decenni. In quest'ultimo caso chi pagherebbe il costo finanziario dell'investimento? Bisogna scongiurare il rischio che si faccia finta di caricare sulle imprese costi che queste sarebbero costrette a eludere. Solo una grande "public company" potrebbe progettare e attuare investimenti di lungo periodo.
C'è di più. Un'impresa come quella che io propongo avrebbe la dimensione necessaria per entrare nel campo dell'alta tecnologia ed essere in grado, ad esempio, di dissalare le acque marine per rilanciare l'irrigazione agricola nel Mezzogiorno. In Israele l'impiego dell'acqua marina "lavorata" a fini agricoli ha dato straordinari risultati; perché non pensare a una collaborazione fra le regioni meridionali dell'Italia e Israele in questo campo? Ancora una volta, ragionando sul nostro Mezzogiorno, vediamo le straordinarie opportunità che ci offre il Mediterraneo. Naturalmente, lo abbiamo già detto, occorre una politica italiana per il Mediterraneo nell'ambito di una scelta europea.

LA SOTTERRANEA "BALCANIZZAZIONE"

Forse serve, prima ancora e più di tutto, una classe dirigente del Sud, nelle Regioni e nei Comuni, nei partiti e nei sindacati, nelle università e nei giornali, che sposi l'idea della collaborazione e della progettazione comune tra le regioni del Mezzogiorno.

Duole dirlo: finora molti dirigenti locali si sono dimostrati inadeguati o impreparati a fronteggiare la sotterranea "balcanizzazione" delle regioni meridionali. Mi chiedo se sia possibile immaginare, per esempio, una collaborazione tra le regioni del Mezzogiorno nel campo dello smaltimento dei rifiuti, in quello degli interventi di sistemazione del territorio e dell'ambiente, dei depuratori e della bonifica delle coste. Si tratta di settori nei quali le inadempienze di una regione vengono pagate anche da quelle confinanti. Mentre una collaborazione attiva potrebbe limitare le inefficienze. L'idea di una sorta di Agenzia (non di una nuova Cassa per il Mezzogiorno), frutto della collaborazione tra le regioni del Sud e aperta ai capitali privati, dovrebbe essere studiata con attenzione dai dirigenti meridionali c!te dovrebbero, ovviamente, abituarsi a dialogare tra loro anche quando non militano nello stesso schieramento politico.

E’ accaduto, anche, in questi anni, che Presidenti di regioni del Sud, eletti sotto la stessa bandiera, non siano riusciti a collaborare concretamente fra loro per provare a risolvere problemi comuni.

QUALI PARTITI?

Un colpo durissimo alla crisi delle classi dirigenti del Mezzogiorno è stato inferto dalla trasformazione dei partiti politici italiani negli ultimi quindici anni.
I partiti italiani non riuscirono mai, neanche negli anni entusiasmanti della costruzione repubblicana, ad attuare del tutto lo spirito e la lettera della Costituzione che, all'arto quarantanove, li definisce strumenti attraverso i quali i cittadini possono concorrere a determinare la politica nazionale. C'era, in chi concepì quell'articolo (ricordiamo la lucida e appassionata lezione di Piero Calamandrei), l'idea della democrazia moderna: la necessità di organizzare la rappresentanza in modo da determinare un canale di comunicazione sempre aperto tra gli eletti e gli elettori. Ed è in tal modo che avrebbe dovuto realizzarsi una partecipazione continua dei cittadini alla vita della democrazia. Questo disegno non si realizzò compiutamente mai. Tuttavia, pur con i loro limiti ed i loro insopportabili difetti, i partiti svolsero - nel Mezzogiorno in particolare - la funzione di scuole, dove si formò e si affermò una classe dirigente locale.
Non condivido, anzi giudico pericolosa, la continua, quasi petulante, polemica contro i partiti.

La polemica sarebbe fondata se fosse indirizzata contro la degenerazione dei partiti e non coinvolgesse indiscriminatamente uno strumento che, non a caso, la Costituzione indica come il luogo della partecipazione democratica.

Oggi, di fronte alla trasformazione in senso leaderistico di molti partiti di entrambi gli schieramenti, c'è da chiedersi se la polemica contro i partiti non sia stata utile a chi immagina la personalizzazione della politica come uno degli approdi della cosiddetta "modernità". Proprio il partito leaderista, tristemente trasversale, e la politica ridotta a mera personalizzazione, hanno avuto un esito nefasto soprattutto nel Mezzogiorno: l'abolizione della possibilità per gli elettori di scegliere i propri rappresentanti in Parlamento e la "riduzione" dei partiti a semplice "logo elettorale" del leader hanno prodotto congiuntamente la colonizzazione dei dirigenti locali e la scomparsa di una classe dirigente culturalmente autonoma nel Mezzogiorno.

Penso che i nostri costituzionalisti e i nostri politologi dovrebbero riflettere sulla necessità di inserire nell'agenda delle riforme la piena attuazione dell'arto quarantanove della Costituzione, sotto forma di una legge applicativa che fissi le regole per la vita democratica dei partiti, compreso eventualmente lo svolgimento delle cosiddette primarie; una legge che renda trasparente il tesseramento e l'uso del finanziamento pubblico.

Una legge del genere gioverebbe a lutto il Paese ma, per il Mezzogiorno, potrebbe essere uno degli strumenti per la sua liberazione dalla cappa delle varie forme di leaderismo che hanno soffocato in questi anni le sue potenziali energie.

LE PINNE DELLA SIRENE1TA

Timothy Garton Ash, un osservatore acuto e brillante delle cronache contemporanee, ha scritto che l'Europa somiglia ormai alla sirenetta di Copenaghen: la statua di una splendida fanciulla che scruta l'orizzonte da uno scoglio senza potersi alzare e correre perché i suoi piedi sono in realtà soltanto una pinna.

L'Europa è, in effetti, bellissima e grande, sede di un immenso mercato, di Università prestigiose, di centri di ricerca all'avanguardia, di industrie manifatturiere che competono in tutto il mondo. È grande ma è costretta a stare ferma. Non può diventare un vero ed autentico protagonista della politica mondiale giacché ognuno, tra i ventisette Governi dell'Unione, rivendica la sua autonomia ed è disposto a cedere solo una parte minima della propria sovranità. Ma se non riesce ad essere una potenza politica, l'Europa è invece, malgrado tutto, un'autentica potenza economica: ma potrà difendere il suo ruolo, la qualità della vita dei suoi abitanti, senza darsi un vero Governo comune?

Per gli europei questo è il punto critico del loro destino. Devono riuscire a darsi un'unica strategia, una missione, anche senza avere raggiunto l'unità politica e dando per scontato che questo obiettivo non è diventato più vicino negli ultimi tempi: anzi, si è allontanato ed è ora più complicato da raggiungere. Le nomine delle nuove figure della "governance" europea, in attuazione del Trattato di Lisbona, danno proprio l'impressione di questo allontanamento e di una più salda tenuta del potere da parte dei singoli governi dei maggiori paesi.


IL DIFFICILE NON È IMPOSSIBILE

E tuttavia non bisogna pensare che ciò che è difficile sia impossibile.

I padri fondatori dell'Europa riuscirono a invertire il corso della storia, quella storia che aveva portato nel giro di mezzo secolo gli Stati europei a intraprendere due tragiche guerre.

Adenauer, De Gasperi, Shumann, Spaak sfidarono le opinioni pubbliche dei rispettivi Paesi quando diedero vita alla Ceca, la Comunità del carbone e dell'acciaio, che fu il primo gradino verso la costruzione dell'Europa. Il Presidente del Consiglio italiano, Alcide De Gasperi, incaricò il Ministro per il Commercio Pietro Campilli (uno dei fondatori del Partito Popolare di Luigi Sturzo) di sondare i grandi sindacati operai e le organizzazioni degli imprenditori per ottenere il loro assenso al primo nucleo del mercato comune. Campilli riferì sconsolato al Capo del Governo che industriali e sindacalisti (esclusa la Cisl) erano uniti nel giudicare avventato, contrario agli interessi nazionali delle imprese e dei lavoratori, il mercato comune.

Se si fosse svolto un referendum è probabile che il volo degli italiani avrebbe bocciato la Ceca, come del resto due anni più tardi fecero i francesi affondando, nel 1954, la Ced, la Comunità europea di difesa, di cui oggi più che mai avvertiamo la mancanza e il bisogno.

In una parola, i leader dei sei Paesi europei avevano lilla strategia chiara e la misero a fondamento della costituzione comunitaria.

LA MISSIONE NON È COMPIUTA

Non è scontato che quel miracolo politico non possa ripetersi. Le celebrazioni per il ventesimo anniversario della riunificazione tedesca sono state un' occasione anche per un bilancio sullo stato della integrazione tra le due Germanie ed io penso che si debbano sottoscrivere le parole di Angela Merkel: "la missione non è compiuta". Troppe le differenze economiche, ma anche quelle sociali e culturali, che sopravvivono alla caduta del Muro.

È giusto ed è necessario immaginare che nel futuro l'Europa debba risolvere gli squilibri territoriali aperti nel suo Est, non solo di quello tedesco ma di tutto l'Est liberato dal comunismo. Questo compito storico è complementare alla politica mediterranea che l'Europa deve darsi per contribuire alla nascita di un nuovo ordine economico mondiale che non sia basato soltanto sulla diarchia tra Stati Uniti e Cina.

In una parola, è l'Europa che deve far sorgere nel Mediterraneo un'area di sviluppo, pur nelle differenti dimensioni, paragonabile a quella del Pacifico. E questo è nell'interesse di tutti, anche della Cina e degli Stati Uniti, giacché è impensabile che, nell'epoca dei mercati senza barriere, ci sia una vasta parte del mondo ripiegata. su se stessa. Basta guardare le rotte degli oleodotti, oppure riscoprire il Dostoevskij della nostra giovinezza, o pensare ai palazzi italiani di San Pietroburgo per capire che nell'Europa e nel Mediterraneo, che immaginiamo, non potrà non esserci anche la Russia. Mi ostino a pensare che, se questa idea dell'Europa e del Mediterraneo prendesse corpo, anche la pace in Medio Oriente diventerebbe più vicina.

Sono convinto che nessuna politica meridionalista concreta ed efficace possa prescindere dalla strategia mediterranea dell'Europa. Su questo sfondo mi sembrano francamente sterili e provinciali certe diatribe che riaffiorano con qualche frequenza tra Nord e Sud: tra un Nord laborioso e proiettato nel futuro e un Sud inetto e addormentato sul passato.

I CENTOCINQUANTA ANNI DELL'UNITÀ

Non sappiamo se le celebrazioni del centocinquantesimo anniversario dell'unità d'Italia saranno una festa di popolo, oppure l'ennesima occasione per riaprire polemiche che sembrerebbero futili o fuori dal tempo, se - a volte - non diventassero pretesti per uno scontro politico permanente che caratterizza la cosiddetta seconda Repubblica.

Già alla vigilia delle celebrazioni è tornata la disputa sull'inno nazionale, subito seguita da varie proposte sull'introduzione dei dialetti come lingue obbligatorie nelle scuole. Esponenti della Lega contrappongono all'inno di Mameli il "Va pensiero" di Verdi: un'aria molto bella del Nabucco legata alla riconquista di Gerusalemme e all'epopea del popolo ebraico: nostalgia e nazionalismo. Nel 1842 i patrioti lombardi la cantavano sfidando gli austriaci e sognando Roma. Più di un secolo dopo Giorgio Almirante scelse l'aria di Verdi come colonna sonora delle manifestazioni del MSI. E’ chiaro che la pretesa di opporre Verdi a Mameli è lilla finzione. Mentre invece (ahimè!) è autentica l'avversione di alcuni per i simboli dell'unità nazionale: l'inno, la bandiera e ora perfino la lingua.

I dialetti e l'italiano non si sono mai scontrati: convivono dai tempi di Dante che fece dell'italiano una lingua elegante e dalla sintassi esigente. Alessandro Manzoni usava con piacere il dialetto milanese ma, per scrivere i suoi capolavori, dovette (così racconta) fare lo sforzo di "sciacquare i panni nell'Amo". D'altra parte i dialetti, che nell'ottocento "la borghesia educata" cercò di nascondere sotto i tappeti, restarono vivi nelle famiglie e ripresero vigore e dignità culturale nel '900, anche come reazione alle tendenze spersonalizzanti della cosiddetta civiltà industriale. Se ne occuparono, tra gli altri, Benedetto Croce e Antonio Gramsci. Molti di noi ricordano i bei versi friulani di Pier Paolo Pasolini o i versi napoletani di Salvatore Di Giacomo o quelli romani di Gioacchino Belli, tra i massimi poeti del '900. In una parola, in Italia, come in gran parte del mondo, i dialetti raccontano fiabe e talvolta pezzi di autentica storia, ma non confliggono con la lingua nazionale. Al contrario la arricchiscono.

Non vedo, ad esempio, come un attacco all'ortodossia l'introduzione dei dialetti nelle canzoni del festival di Sanremo. Proprio la ricchezza dei dialetti e la loro diversità richiamano l'esigenza di una lingua nazionale comune. La Padania è un' espressione vaga e fantasiosa: l'unica certezza è che al suo interno (se esistesse) si udirebbe il suono di molti dialetti diversi.

Così è anche per il Sud. Già Alexis de Toqueville annotò nei suoi taccuini che napoletani e siciliani, "parlando nelle loro lingue", non si capivano. E tuttavia le dispute sui simboli (l'inno, la lingua e anche la bandiera) non sono astratte: nascono, inutile negarlo, dall'unità vissuta (da molti?) come un vincolo pesante, un prezzo alto a fronte di vantaggi sottostimati perfino da economisti famosi.

Per dire: il "made in ltaly" è un brand, un marchio, un traino di valore incalcolabile, malgrado tutto. E il mercato interno italiano, da nord a sud, è una fetta importante del mercato europeo. Eppure i valori dell'unità sembrano da tempo messi in dubbio in alcune zone del Nord: la novità è che, adesso, anche nel Mezzogiorno, l'unità è vissuta con sostanziale indifferenza. Abbiamo già ricordato come l'isolamento geografico del Sud sia cresciuto negli ultimi anni. È cresciuto anche l'isolamento morale, giacché la cultura meridionalista ha perso il pre-stigio che le derivava dall' essere una costola del moderno pensiero democratico italiano.

I MAL DI PANCIA DEL FEDERALISMO FISCALE

La grande crisi dell'economia mondiale ha prodotto i guasti peggiori nelle zone più deboli: così il Sud d'Italia sta pagando il prezzo più alto della stretta crediti zia decisa dalle banche ai danni delle imprese.

Il federalismo fiscale risolverà tutti i mal di pancia? Al Sud come al Nord? Il federalismo fiscale è una buona ricetta contro l'eventuale irresponsabilità delle classi dirigenti locali nella gestione delle risorse. Il federalismo è uno strumento utile per combattere gli sprechi legati alla gestione centralistica della spesa pubblica.

Il federalismo fiscale non è tutto. E non sarà lutto. Negli Stati Uniti il federalismo fiscale esiste fin dalla loro fondazione. Eppure la più antica e solida democrazia federale del mondo sente il bisogno di adottare politiche nazionali e di aspirare ad una strategia economica globale.
Dopo la caduta dell'estremismo liberista, inveratosi nella finanza d'assalto, tutti, nel mondo, sono stati indotti o costretti a riscoprire il valore insostituibile dell' economia reale: le imprese e le persone e, quindi, le politiche utili alla loro crescita: l'istruzione, la ricerca, i trasporti, l'energia, la tutela dell'ambiente. Insomma, la dissoluzione dell'esasperata illusione liberista ha indotto i Governi a rimettere in ordine i rispettivi progetti per i loro Paesi.
USCIRE DALLE EMERGENZE
Quel modello prevedeva la mutazione completa dell'Italia da Paese agricolo a sede di una delle più vitali industrie di trasformazione dell'Europa. Risvolti di quella scelta furono la liberalizzazione degli scambi con l'estero, la scolarizzazione di massa, la promozione sociale degli artigiani che diventarono imprenditori e dei figli dei contadini che salirono nell'ascensore sociale fornendo i quadri burocratici del nuovo Stato democratico.

UN DISEGNO DEL SISTEMA PAESE
Dentro questa stessa visione c'era la questione meridionale e la sua soluzione era vista come il necessario completamento della modernizzazione del Paese. Purtroppo quel progetto si esaurì prima che potesse essere risolto il problema del Mezzogiorno.

Il progetto si esaurì per i mutamenti profondi delle ragioni di scambio sui mercati internazionali: le sfide della competizione globale avrebbero richiesto un salto di qualità nella ricerca scientifica, nella produzione "d alto valore tecnologico, in una scuola più selettiva e, più in generale, in un apparato statale e in un sistema normativo e legislativo meno burocratizzato e opprimente.
L’ Italia avrebbe avuto le energie intellettuali necessarie per immaginare e per realizzare un disegno del "sistema Paese" che prendesse il posto di quello esaurito. Non fu possibile perché la crisi politica degli anni '90 orientò tutti gli sforzi (e tutte le battaglie) sugli schieramenti che si sarebbero fronteggiati in un bipolarismo senza pace.
La distruzione dei partiti tradizionali, per certi versi inevitabile considerando il processo degenerativo che avevano subito, privò il Paese dei luoghi del dibattito politico.
I GIORNI DELLA RIFLESSIONE

Ora stanno tornando i giorni propizi alla rit1essione e alla discussione, ma i problemi nel frattempo si sono incattiviti. Faccio ricorso a un esempio: trenta anni fa sarebbe stato più semplice fare decollare i giacimenti turistici del Mezzogiorno: autentiche miniere dello sviluppo possibile.

Intorno al 1980 da Ministro dei beni culturali, insieme al mio collega del Mezzogiorno, lanciammo la proposta degli itinerari turistico culturali del Mezzogiorno con un lavoro congiunto tra studiosi, tecnici e operatori; ma tutto si arenò per l'inerzia delle Regioni e la loro incapacità di gestire un progetto che richiedeva un lavoro "sistemico" con lo Stato, le università, gli studiosi dell'ambiente e dell'arte, gli imprenditori.
Ora il degrado del territorio, l'abusivismo minuto e di massa, rendono tutto più costoso e difficile. Non impossibile; giacché, l'adozione di un progetto euromediterraneo potrebbe riportare d'attualità i giacimenti turistici del Mezzogiorno nel contesto, più ampio, di quelli mediterranei, legando la loro rinascita a una profonda bonifica del territorio che, proprio nel riscatto delle risorse del Mediterraneo, potrebbe trovare nuove occasioni di lavoro e di sviluppo.
LA SUBCULTURA DELL' APPROSSIMAZIONE

Duole dirlo ma, negli ultimi anni, analisi superficiali hanno diffuso in Italia una subcultura basata sull'approssimazione. Per non restare nel vago, ricorro ancora al metodo dell' esempio: ne scelgo uno, la criminalità, che suscita in genere più indignazioni che riflessioni. In anni ormai lontani fui ministro dell'Interno ed ebbi sul tavolo i rapporti della polizia, dei carabinieri, della guardia di finanza, che segnalavano come nuove generazioni di famiglie mafiose cominciassero a infiltrarsi nel Nord dell'Italia e dell'Europa, dove stavano riciclando gli ingenti guadagni realizzati con i traffici illeciti nell' economia pulita: l'edilizia, il commercio, la ristorazione, il terziario e perfino le industrie manifatturiere. Oggi sappiamo che la 'ndrangheta è più potente a Milano di quanto non lo sia a Reggio Calabria.

La mafia, la 'ndrangheta, la camorra, la sacra corona unita, non sono più soltanto problemi del Mezzogiorno e non si combattono più soltanto nel Mezzogiorno: fu questo il motivo che indusse Giovanni Falcone a lasciare Palermo per assumere, al Ministero della Giustizia, a Roma, la Direzione degli Affari penali: lilla scelta che pagò con la vita. Questo è stato il senso delle scelte compiute dalla legislazione e dell’organizzazione giudiziaria e investigativa che hanno puntato a strumenti nazionali (Dna e Dia) per un coordinamento tra le diverse procure e dei diversi corpi di polizia e a una cooperazione internazionale ,a livello non solo europeo.

Mentre il crimine si è più rapidamente impossessato delle possibilità offerte dalla globalizzazione e dallo sviluppo tecnologico, non altrettanto sono riusciti a fare gli Stati cooperando tra loro. Infatti, pur di fronte agli allarmi lanciati dalla magistratura e dagli investigatori, non si è raggiunta, negli ultimi anni una, strategia internazionale adeguata alla sfida di combattere concretamente ogni possibile infezione delle nostre economie a causa dei capitali mafiosi.

In una parola, tutti i problemi del Mezzogiorno, criminalità compresa, sono in un modo o nell'altro, parte di una grande "questione nazionale" ed europea.

Le cosiddette élite del nostro paese, le classi dirigenti della politica, dell'economia, della cultura, dovrebbero capire che l'Italia o riprende a correre unita oppure si ferma ad attendere, litigando, il suo inevitabile declino.

LO "SPOIL SYSTEM" IN GABBIA
Non ho mai condiviso le nostalgie acritiche per il passato. Nella mia lunga militanza politica ho visto le trasformazioni del territorio e delle persone che le scelte dei Governi e del Parlamento hanno determinato, nei decenni scorsi, soprattutto nel Mezzogiorno.

Non è su questo punto che si sofferma ora la mia riflessione. Penso che l'obiettivo prioritario che dobbiamo fissarci consista nel far cadere i nuovi pregiudizi che si stanno formando attorno all'ipotesi che si voglia e si debba rilanciare una politica per lo sviluppo delle regioni meridionali. Il pregiudizio che, riportando d'attualità la questione meridionale, si finisca, in un modo o nell'altro, per distruggere ricchezza e quindi a far pagare costi ormai insopportabili ai contribuenti di altre regioni.

Questi pregiudizi possono essere battuti definitivamente solo affermando che la nuova politica meridionalista (il progetto euro-mediterraneo che io e altri immaginiamo) non può neppure cominciare senza che si chiarisca bene che occorre riportare la spesa pubblica del Mezzogiorno in un rapporto corretto tra spesa corrente e spesa per investimenti.

N on è falsificante sostenere che la regione Calabria spenda, nella sanità e per ogni suo abitante, molto di più e molto peggio della regione Lombardia. Né è comprensibile che proprio nelle regioni più povere del Mezzogiorno siano fiorite negli ultimi anni miriadi di piccole società pubbliche senza arte né parte, adatte solamente a nutrire infinite clientele.

LA BAROCCA COSTRUZlONE DELLE ISTITUZIONI POLITICHE


lo non credo che potremo continuare a persistere nel mantenere in piedi la barocca architettura istituzionale, resa confusa come la torre di Babele, dalla riforma del Titolo V della Costituzione. Non è possibile continuare a mantenere in piedi tanti livelli di "governo" (municipi, comuni, città metropolitane, comunità montane, province, regioni e poi Stato, lasciando da parte le miriadi di comprensori, autorità varie ecc.) con competenze anche concorrenti e quindi con un sostanziale diritto di veto; e non solo per la spesa necessaria che non può essere più sostenuta, c'è qualcosa di più: secondo la legge di Parkynson ciascuna istituzione ha bisogno di legittimare la sua esistenza e accrescere nel tempo le sue competenze e i suoi interventi. 'Tutto alla fine ricade sulle spalle degli operatori e dei cittadini che vedono ogni giorno crescere il bisogno di autorizzazioni, permessi, bolli, firme con dilatazione dei tempi e dei costi. Ogni tanto viene fuori la brillante idea dello sportello unico che non fa altro che aggiungere una nuova burocrazia a quelle esistenti. Nel Mezzogiorno la situazione è diventata insopportabile e costit-uisce la ragione prima perché gli imprenditori stranieri cancellino il Sud dalle possibili opzioni di localizzazione delle loro attività. In media, i tempi che precedono la realizzazione di un' opera, di una casa, di una fabbrica, di una qualsiasi altra attività sono di gran lunga più ampi di quelli della loro realizzazione e della messa in funzione.

La nuova politica meridionalista non può essere disgiunta da un incisivo intervento sulle Istituzioni. Quando si afferma, per esempio, che i manager della sanità non devono più essere nominati dai partiti si pone un problema legato al corretto funzionamento della pubblica amministrazione in tutta Italia. Per un insieme di circostanze, che sarebbe pura ipocrisia negare, il vantaggio maggiore lo trarrebbero le regioni meridionali dove spesso i partiti e i pubblici amministratori non sono in grado di resistere alle pressioni esterne, anche di carattere mafioso. È un fatto che l'adozione del cosiddetto "spoil system" si è tradotto spesso, nelle regioni meridionali, in una spartizione selvaggia degli incarichi direttivi della pubblica amministrazione; che anche per questo la classe dirigente è diventata meno professionale e meno efficiente. Questo inconveniente può essere lamentato in varie parti del Paese ma nel Sud sta mostrando il suo volto peggiore.

Guido Dorso ci aveva insegnato che la questione meridionale diventa un labirinto complicato se la guardiamo isolandola dalla storia complessa del nostro Paese. È questa impostazione cult-urale che m'induce a essere più che scettico sulla proposta di reintrodurre le "gabbie salariali" nel Mezzogiorno: credo che tutta la questione dei salari e della contrattazione a essi legata debba rientrare in una politica dei redditi che sta diventando ineludibile in tutti i Paesi dell'Occidente e in Italia più che altrove. E che, ovviamente, comporta anche una revisione delle aliquote fiscali, l'introduzione del quoziente familiare, una valutazione accorta non solo delle differenze nel costo della vita fra una zona e l'altra del Paese ma anche del numero degli occupati per nucleo familiare. E tuttavia una tale ricognizione può risultare sommaria se non si affronta prima, nei limiti del possibile, la grande questione dell' economia sommersa nel Mezzogiorno.

IL SOMMERSO AUMENTA CONTINUAMENTE

E’ opinione degli studiosi più scrupolosi che sarebbe fuorviante un'analisi sulla situazione del Mezzogiorno, o anche una sua semplice fotografia, senza mettere a fuoco il lavoro sommerso, e quindi la parte nascosta, e a volte anche più oscura, della sua economia. È bene chiarire subito che tutte le ricerche e i dati su questo fenomeno ci dimostrano la sua ampiezza, anche se non riescono a concordarne l'esatta dimensione.
C’è un sommerso ancora più nascosto di quello che, fatica, economisti e sociologi. sono riusciti a individuare.
È il sommerso strettamente intrecciato con gli affari della criminalità organizzata: in primo luogo il traffico di armi e di droga e, subito dopo, quello legato alla prostituzione. Il sommerso gestito dalla criminalità è, tuttavia, equamente diffuso su tutto il territorio nazionale e coinvolge soprattutto le grandi aree urbane, le città, dove i mercati della droga e del sesso sono più ampi.

Il Mezzogiorno mantiene invece il triste primato del sommerso legato all' edilizia, all'agricoltura stagionale, e a certi con parti dell'industria manifatturiera. Si è consumato, in vaste zone del Mezzogiorno, il concetto di legalità e la logica dell'irregolarità è diventata spesso la condizione per la sopravvivenza di vasti settori dell'imprenditoria. Evasione fiscale, elusione dei contributi previdenziali e delle norme sulla sicurezza nel lavoro, retribuzioni al di sotto di quelle contrattuali, orari di lavoro prolungati arbitrariamente: tutti questi fattori consentono all'economia sommersa di esercitare una concorrenza sleale sulle imprese che rispettano i contratti e le leggi. È in questo modo che si è prodotta una crisi della cultura della legalità e del senso civico: si è diffusa l'idea, soprattutto tra i giovani, che l'irregolarità sia la norma e la frode sia una componente quasi naturale dell'attività economica.

Secondo studi e inchieste recenti (particolarmente meritoria quella di Saverio Fossati e Gianni Trovati per il Sole 24 Ore) l'economia sommersa ha raggiunto una dimensione pari al 17% del prodotto interno lordo del Paese. L'Istituto di ricerca Eurispes, che da anni indaga sul problema del sommerso, stima tra i 200 e i 250 miliardi di euro la ricchezza negata al sistema fiscale e contributivo ogni anno in Italia: un livello che supera

di almeno due volte quello della Germania, della Francia e del Regno Unito. Il Ministero dell'Economia asserisce che il sommerso sottrae allo Stato una somma superiore ai 100 miliardi di euro l'anno, pari al 15% della raccolta fiscale.

Tutte le cifre disponibili dimostrano in modo inequivocabile che le politiche volte all'emersione progressiva del sommerso, iniziate nel 2001 con la legge 383, si sono rivelate di scarsa efficacia.

Ciononostante, credo che l'impostazione seguita dall'Italia sia condivisibile giacché si basa su un insieme di norme volte a favorire l'ingresso graduale delle imprese nella legalità del mercato del lavoro. Sono stati previsti sconti fiscali, moratorie previdenziali e alle generose facilitazioni, utilizzate solo in minima parte. Che cosa, allora, non ha funzionato?

Si può pensare che la carenza di controlli abbia indotto molti a ritenere inutile, e in ogni caso costosa, la regolarizzazione; né si può trascurare che altri abbiano potuto scoraggiarsi di fronte al sempre troppo lungo percorso burocratico-amministrativo che avrebbero dovuto compiere con le proprie imprese.

Gli studi sul lavoro condotti da autorità pubbliche e da ricercatori indipendenti attribuiscono al Sud il 45% del lavoro irregolare, contro il 18% del Centro e il 37% del Nord. I livelli d'irregolarità più alti vedono la Calabria al primo posto, con il 26,9%, seguita da Sicilia, Basilicata, Campania, Sardegna, Molise e Puglia. Come si vede, è l'intero Mezzogiorno a essere in vetta alle classifiche sul tasso d'irregolarità nel lavoro. La media nazionale è comunque altissima e si stima che abbia superato il 17%, contro 1,5% dell'Austria, il 6,5% della Francia.

UN DIPENDENTE PUBBLICO OGNI 14,4 ABITANTI

Emerge, dall'esame dei fatti, l'insoddisfacente funzionamento del mercato nel Sud connesso alla modesta qualità dell'azione pubblica. Colpisce la circostanza che, a partire dagli anni '90, i dipendenti pubblici nel Mezzogiorno siano costantemente aumentati fino a diventare, nel caso limite della Calabria, uno ogni 14,4 abitanti, contro uno ogni 22,6 della Lombardia.

Negli ultimi quindici anni la percentuale della spesa corrente sul totale della spesa pubblica è salita nelle regioni del Sud tino, e in alcuni casi oltre, 1'80%.

Ciò vuol dire che per ogni 100 euro di denaro pubblico speso nel Sud, solo 20 euro vengono assorbiti da impieghi produttivi.

È naturale, anche se preoccupa, che il livello dei servizi pubblici sia peggiorato e che in Campania, per esempio, sia diventata indecente la gestione dei rifiuti prima dell'intervento del Governo.

Uno studio recente di Banca d'Italia dimostra che le regioni del Sud nel loro complesso sono sostanzialmente tornate ai livelli di reddito di trent'anni fa. Il Pil, la ricchezza lorda prodotta per abitante, è inferiore al 60% di quella del centro nord.

Le conseguenze sulla realtà sociale sono devastanti: la disoccupazione, nei dati del 2008, è tre volte più alta di quella del centro nord. I salari sono invece più bassi di circa il 12-13%, una percentuale che risulta addirittura più elevata esaminando le retribuzioni dei lavoratori diplomati e laureati. La bassissima richiesta di lavoratori particolarmente istruiti, infatti, costringe molti giovani del Mezzogiorno, diplomati e laureati, ad accettare, come una regola, la loro dequalificazione professionale e retributiva.

L'alternativa, come abbiamo già scritto, è l'emigrazione. Questo è però un dramma che riguarda il destino di tutta l'Italia.

Lo spiegano tre studiosi, Luigi Canari, Marco Magnani e Guido Pellegrini nella già citata ricerca condotta, con assoluto rigore scientifico. "Quasi tutte le debolezze dell' economia del Paese", scrivono i tre studiosi, "si manifestano soprattutto nel Sud. Partecipazione al 11Icrcato del lavoro, povertà e disuguaglianza, capacità di competere sui mercati internazionali, grado di concorrenza, infrastrutture materiali e immateriali, qualità del capitale umano e del capitale sociale, efficienza della pubblica amministrazione: in tutti questi ambiti il Paese nel suo complesso è in grave ritardo rispetto alle altre economie avanzate; ma in ognuno di essi i problemi sono molto più acuti nel Sud.

Questa considerazione e la rilevanza macroeconomica del Mezzogiorno rendono evidente l'importanza del Sud per le prospettive di crescita del Paese e per le azioni di politica economica rivolte allo sviluppo.

Senza abbattere il cronico sottoutilizzo delle risorse umane e materiali nelle regioni meridionali, l'obiettivo di uscire dal ristagno dell'ultimo decennio, elevando stabilmente il tasso di crescita dell'economia italiana, appare del tutto velleitario".

I MIRACOLI DI DE GASPERI

Centocinquanta anni: l'anniversario è vicino e stimola aggiornamenti storiografici tra gli intellettuali delle nuove generazioni che non hanno vissuto personalmente il fascismo e gli anni del dopo guerra. L'accostamento quasi automatico tra "il primo e il secondo Risorgimento", l'unità d'Italia e la Resistenza al nazismo, è oggi sottoposto a revisioni non sempre convince n ti.

È bene sottrarre la storia e gli storici alle polemiche della politica.

È utile che la politica si interroghi sulle origini del dualismo italiano e sulle cause storiche delle debolezze dello Stato unitario, giacché esse pesano, eccome, sui giorni che stiamo vivendo.

È un compito davvero difficile perché alle antiche letture diverse della storia patria si è aggiunta, a partire dagli anni '90, una sorta di demonizzazione degli anni della Ricostruzione che, alla luce dei fatti, sembra sia tornata utile, ad alcuni, per dare legittimità all'avvento di una nuova classe dirigente.

Noi non abbiamo dimenticato che fìno a qualche anno fa era impossibile ricordare l'azione di governo della Democrazia Cristiana senza attirarsi accuse e polemiche di ogni genere.

E proprio quel clima ha avuto una certa influenza nel rallentare il processo di beatificazione di Alcide De Gasperi aperto in Vaticano. Ora, certe divisioni sembrano superate ed è forse più agevole guardare al nostro passato con animo sereno.

L'ITALIA DI CAVOUR

Non è superfluo ricordare che il nostro Stato unitario è nato sul modello della monarchia sabauda che aveva, a sua volta, adottato il centralismo napoleonico venato dagli echi della democrazia giacobina.

Cavour fu certamente uno straordinario statista ma non aveva ascendenti nella cultura dei liberali inglesi e praticava una discreta ma ferrea censura sulla stampa. Si oppose con successo all'idea che lo Stato italiano si formasse per via federale (sul modello della grande democrazia americana) attraverso la cessione di quote di sovranità degli Stati italiani, allora esistenti, allo Stato unitario. L'opzione federale rimase un'aspirazione di poche menti illuminate, laiche e cattoliche, e non divenne mai l'espressione di un sentimento o di un desiderio popolare.

Lo Stato risorgimentale si mosse subito nella direzione di rafforzare l'unità politica e amministrativa del Paese ricorrendo a una rapida e assoluta uniformità normativa, non lasciando nessuna traccia delle antiche diversità di ordinamenti, culture e tradizioni e favorendo l'integrazione anche attraverso l'invio di servitori dello Stato dal Piemonte al Sud.

La "piemontesizzazione" venne tentata anche a Roma con la nascita dei nuovi quartieri "moderni", costruiti lungo l'itinerario dei bersaglieri, da Porta Pia a Termini fino a lambire, fermandosi di colpo, la Roma antica e vera, stesa sulle rive del Tevere.

In questa logica, decisiva fu l'istituzione della leva militare e l'adozione di un'educazione nazionale che, nel tempo, trovarono un alleato nella "unifìcazione" della lingua e dei costumi degli italiani da parte dei grandi mezzi di comunicazione di massa e del nascente cinema italiano.

UNA PIÙ EQUILIBRATA DISTRIBUZIONE DEI POTERI

Dopo la caduta del fascismo, i Padri costituenti della nuova Repubblica democratica di formazione cattolica proposero, con qualche successo, un' evoluzione della forma dello Stato accentrato verso una più equilibrata distribuzione del potere tra quest'ultimo e nuove istituzioni politiche amministrative identificate con le Regioni che, tuttavia, non corrispondevano spesso, nei loro confini, a precise identità storico-culturali. Al tempo stesso, la Costituzione del 1948 ribadiva il ruolo insostituibile delle comunità locali, centro dell'aggregazione dei cittadini. È straordinariamente attuale l'articolo cinque della nostra Costituzione che voglio ripetere per esteso: "La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi e i metodi della sua legislazione alle esigenze dell'autonomia e del decentramento".

Nonostante il dettato costituzionale si spingesse fino a disegnare veri e propri nuovi modelli di governo, le innovazioni hanno tardato a essere attuate. Pesò come un macigno la cosiddetta "guerra fredda", la divisione del mondo in due blocchi ostili: da una parte, l'America, il Giappone e le democrazie occidentali; dall'altra, l'Unione Sovietica e i suoi Paesi satelliti. Nelle Regioni del centro Italia il Partito comunista, legato a Mosca, aveva la maggioranza assoluta dei voti (che, a distanza di oltre settanta anni, è stata lasciata in eredità dal Pci al Partito democratico). Il timore che in Italia centrale si formassero delle "repubbliche rosse" governate dai comunisti, in rotta di collisione con lo Stato centrale, ritardò la formazione delle Regioni. E consolidò le caratteristiche dello Stato accentratore, nel quale il potere dei prefetti era volto a garantire non solo l'unità ma I:t sopravvivenza della democrazia italiana.

l.A PAURA DEL CAMBIAMENTO

C’è un filo rosso che lega molte vicende della storia del nostro Paese ed è la paura del cambiamento. Di fronte alle sfide, le nostre classi dirigenti, incapaci di coglierle, si sono chiuse nelle loro antiche sicurezze. Lo storico Pietro Melograni in un incisivo saggio dal titolo "La paura del cambiamento" ha analizzato le congruenze negative sulla modernizzazione del Paese subite dalla ritrosia diffusa ad accettare le innovazioni. Tra queste paure potremmo annoverare proprio quella legata alla nascita del federalismo. Così, il naturale sviluppo delle autonomie locali è diventato un percorso tortuoso, fatto di avanzamenti e di ripensamenti, come hanno determinato una forma di statuale confusa, inefficiente, piena di duplicazioni e di sovrapposizioni, sfociate anche nella creazione di tante materie concorrenti fra Stato e Regioni.

Nelle giovani generazioni e in certe improvvisate analisi storiografiche, non si intravvede la conoscenza e la consapevolezza del significato delle strategiche scelte politiche effettuate all'alto della ricostruzione del Paese, dopo la fine della seconda guerra mondiale: scelte volte a favorire un intenso sviluppo industriale, basato sulla competizione e perciò in grado di accettare la sfida del mercato aperto, costituita dalla liberalizzazione degli scambi e dalla conseguente concorrenza frontale dei sistemi industriali più antichi e robusti d'Europa.

In Italia abbiamo pagato, e in una certa misura continuiamo a pagare, un altissimo prezzo per il ritardo con cui siamo arrivati all'industrializzazione del Paese e a una moderna cultura "industriale". E questo ritardo ha concorso a determinare anche il dualismo tra Nord e Sud.

L'EQUILIBRIO AGRICOLO MERCANTILE DI CAVOUR

Esiste una vasta letteratura sulla questione meridionale. Tra le tante cause che sono state evidenziate, anche alla luce delle nuove teorie sullo sviluppo, non ha ancora trovato adeguata esplorazione quella relativa alle conseguenze provocate dalle scelte economiche del Regno piemontese in funzione dell'unificazione politica del Paese. Scelte che portarono ritardo nella trasformazione industriale moderna e che frenarono l'incipiente sviluppo industriale del Sud.

Il dato da esplorare sono i ritardi e i limiti della trasformazione industriale dell'Italia unita nella seconda parte dell' ottocento e le conseguenze che essi hanno determinato sulla stessa cultura moderna della "piccola" Italia.

Il più acuto stratega politico del Risorgimento, Camillo Benso Conte di Cavour, ebbe un obiettivo prioritario su tutti gli altri: realizzare l'unità d'Italia sotto le insigne della dinastia sabauda. Cavour era stato un abile amministratore della tenuta agricola di famiglia: una competenza che gli aveva consentito di svolgere brillantemente il compito di Ministro dell'Agricoltura, il suo primo incarico politico. Il suo europeismo politico e culturale era dovuto in parti uguali all'educazione familiare (la madre era l'aristocratica ginevrina Adelaide de Sellon) e alla convinzione che solo la protezione delle grandi potenze europee avrebbe potuto garantire il processo di unificazione dell'Italia.

Agli inglesi e ai francesi, che avevano sistemi industriali già sviluppati e consolidati, Cavour offrì la prospettiva di un'Italia aperta al libero scambio e strettamente alleata nella politica estera e nelle imprese militari. La partecipazione del Regno di Piemonte e Sardegna della guerra franco-inglese in Crimea, in difesa della Turchia e contro la Russia, fu il grande capolavoro della politica cavouriana: il momento di legittimazione della dinastia sabauda, come futura monarchia d'Italia.

CAVOUR E NAPOLEONE

Cavour servì con intelligenza e lealtà la corona ma il suo vero punto di riferimento fu certamente Napoleone I1I, al quale era legato da stima e da amicizia. Sul Mezzogiorno non poté avere le idee chiare: l'obiettivo che perseguiva era quello dell'annessione rapida e ad ogni costo. Fra la fine del 1860 e i primi del 1861, la legislazione piemontese si affianca a quella borbonica senza sostituirla: l'unità reale sembra quasi temeraria e irraggiungibile. Storici di cristallina fede risorgimentale, penso a Giovanni Spadolini o a Rosario Romeo, non hanno nascosto le difficoltà e la confusione che accompagnarono il processo unitario. I rappresentanti di Torino trattarono perfino con i capi della camorra. Cavour (Giovanni Spadolini, "Gli uomini che fecero l'Italia", Milano 1993) non mancò, qualche volta, di usare espressioni ingiuriose verso Garibaldi, "il selvaggio guerriero", o verso i patrioti repubblicani, "il canagliume mazziniano". Una lettura attenta e appassionata dei carteggi cavouriani compiuta da Spadolini mostrerebbe che il grande piemontese avvertiva i rischi legati a un'unificazione non maturata e imposta al Mezzogiorno; è più probabile che pensasse a un sistema di autonomie locali in grado di temperare il centralismo dello Stato piemontese.

Bisogna rileggere Piero Gobetti, le pagine della sua "Rivoluzione liberale", per capire che al Risorgimento manncò un soffio spirituale e un'ambizione politica che andasse oltre la pura unificazione di pezzi del Paese. Non ci fu un progetto culturale e politico che avesse l'ambizione di condurre l'Italia unita nella modernità europea. Il Risorgimento, secondo Gobetti, è una rivoluzione mancata: le insufficienze del centralismo burocratico, la fragilità delle false élites di notabili, le insidie insite nell'esclusione sociale di vasti strati della popolazione, la piaga dell'analfabetismo, faranno crescere, all'interno del nuovo Stato, masse nemiche.

L'esclusione del proletariato dallo Stato fu certo una caratteristica del processo unitario e questo ebbe un peso


nella crisi del regime liberale e nell'avvento del fascismo. L’Italia unita restò un Paese agricolo e depresso mentre l'industrializzazione aveva già cambiato il resto dell'Europa. Non è inutile ricordare che le macchine a vapore fecero la loro comparsa massiccia in Inghilterra e in Francia verso la fine del settecento. Grazie all'industrializzazione, ci ha spiegato Max Weber, l'Occidente conobbe un'età del lino, un'età della lana e, infine, del cotone: l'industria tessile fu al tempo stesso industria di prima necessità e industria del lusso e attorno ad essa ruotò lo sviluppo in Inghilterra, in Francia, in Germania. In Italia, invece, l'industria tessile l'Ia piccola, malferma e in cerca di sussidi statali: il (:onte Crespi, per assicurarsi che i "lamenti" dei suoi I dai si udissero fino a Roma, diventò 1'editore del .. Corriere della Sera".
LA RIVOLUZIONE BORGHESE

I .'industrializzazione in Europa venne favorita dalla stabilità dei sistemi politici e dagli equilibri garantiti dalla rivoluzione "borghese". Tutto cominciò in Inghilterra, ma poi si estese all'Europa continentale man mano che essa si distaccava dai vecchi regimi delle monarchie assolutiste. Negli anni che precedettero 1'Unità d'Italia, si delineò in Francia e in Inghilterra, per la prima volta nella storia del capitalismo, l'avvento del "capitalismo finanziario".

I miei amici economisti obietterebbero che un certo capitalismo finanziario è sempre esistito sin dall'antica Babilonia in cui banchieri e mercanti avevano già inventato la cambiale, gli assegni e anche i derivati. Ferrnand Braudel dice che la storia del capitalismo va "da Hammurabi a RockefeIler".
Il capitalismo finanziario moderno si caratterizzò per l'insof1erenza verso tutte le frontiere.
In Italia, i capitali delle banche d'affari inglesi avevano finanziato la nascita d'imprese d'avanguardia nel Mezzogiorno, compresa la famosa prima ferrovia italiana da Napoli a Portici.

Carlo Luigi Farini, nominato luogotenente del Re a Napoli, era un medico di Ravenna famoso per aver dato, per la prima volta, ai ducati di Parma e di Modena il nome di Emilia. Non si occupò mai dei problemi legati alla nascente industrializzazione del Mezzogiorno e di Napoli, non sapeva praticamente nulla. Si appplicò, invece,con straordinario vigore, all'impresa di riorganizzare la burocrazia borbonica e cercò di dare uno stile più dignitoso a tutta la macchina amministrativa: riuscì a cambiare soltanto gli stemmi sulle livree degli uscieri. E non certo per colpa sua.
L'EQUILIBRIO AGRICOLO MERCANTILE
Tutta l'impostazione del gruppo dirigente cavouriano affidava lo sviluppo dello Stato al miglioramento dell'equilibrio agricolo-commerciale tradizionale. Appassionati e moderni agricoltori furono anche Betttino Ricasoli e Urbano Rattazzi, successori di Cavour e come lui convinti della necessità di non frapporre vincoli o limiti all'importazione di prodotti industriali dalle potenze amiche europee, la Francia e l'Inghilterra.
Nell' opzione per il libero scambio e l'equilibrio agricolo mercantile, Francia e Inghilterra, ha scritto un acuto storico dell'economia, Mario Romani, videro "il fattore determinante per orientarsi definitivamente a favore dell’interpretazione cavouriana del costituzionalismo piemontese e dello scioglimento della questione d'Italia".
Il completo successo politico, diplomatico e militare piemontese va visto, appunto, solo come il frutto di "una completa subordinazione tra l'esperienza economica e le grandi mete politiche dell'azione stessa".
Bastano infatti poche righe del pensiero di Cavour sul rapporto tra politica ed economia per capire la sua azione volta a risolvere i nodi fondamentali dell’indipendenza nazionale e dei prezzi che egli fu disposto a pagare. Cavour scrisse su "Il Risorgimento" del 15 dicembre 1847: "Stabili ordinamenti politico rappresentativi legiferano abolendo privilegi e protezioni, consacrando eguaglianza e libertà di tutti, portando al solo e vero progresso economico
Questa visione di Cavour contribuì in modo decisivo a ottenere l'appoggio della Francia e dell'Inghilterra ;dl'unità d'Italia.
Allo  storico Mario Romani sembra difficile stabilire se Li scelta di Cavour dipese anche "da una consapevole analisi e non soltanto da un'intuizione di tutte le oggettive difficoltà da superare per muoversi decisamente verso l'alternativa dell'industrializzazione". Tuttavia, è innegabile che i ritardi nell'industrializzazione furono il frutto di consapevoli scelte politiche e che il Mezzogiorno non riuscì più a recuperare il tempo perduto.
L'ETÀ DEL PROTEZIONISMO
Solo nell'ultimo decennio dell'ottocento prenderà corpo in Italia quello che poi diventerà il "triangolo industriale", concentrato tra Milano, T'orino e Genova. Sono gli anni in cui fioriscono nel nostro Paese i partiti politici in senso moderno: nel 1892 nasce a Genova il partito socialista; nel 1895 nasce a Forlì il partito repubblicano. Sono partiti della sinistra e dell'estrema sinistra; il partito popolare di Luigi Sturzo prenderà la luce nel 1919 che è anche l'anno nel quale Mussolini fonda il movimento fascista.
Vincenzo Saba, lo storico del movimento sindacale italiano, ha scritto pagine fondamentali sulla debolezza della nascita dell'Italia industriale.
La storia del Mezzogiorno sembra diventata già in quegli anni la storia di un'Italia minore che non è protagonista nell'economia e nella politica e che lo Stato liberale in piena crisi affida ai notabili e ai prefetti. Quegli anni della fine dell' ottocento hanno segnato certamente una trasformazione della struttura economica e sociale, ma sono stati anche gli anni in cui si videro le difficoltà dell'ingresso ritardato della nostra economia nel novero di quei sistemi industriali europei che avevano realizzato la loro rivoluzione industriale almeno cinquanta anni prima di noi.
Si è visto soprattutto il limite delle classi dirigenti della politica e dell'impresa ad affrontare i problemi della trasformazione industriale del Paese. La crisi dello stato liberale diventò drammatica al termine della "grande guerra '14-'18" che De Gasperi definì la guerra civile esplosa nel cuore dell'Europa. N ella povertà delle classi dirigenti spiccano forse due sole vere eccezioni, Giovanni Giolitti e Filippo Turati: il vecchio liberale che introdusse il suffragio universale e il socialista riformista che tentò invano di fermare la deriva massimalista e populista della sinistra. Giolitti e Turati furono i due leader che, soli, temevano che lo sforzo militare, industriale ed economico della guerra piegasse l' Italia, troppo esile e troppo composita per sopportare i sacrifici di un conflitto che si preannunciava come lilla lunga tragedia.

Ì': stato un maestro del liberalismo, Luigi Einaudi, a sottolineare la coraggiosa campagna liberale del socialista , 1'urati contro i monopoli che impedivano la concorrenza e la nascita di un tessuto d'imprese come stava accadendo nel resto d'Europa. Le conseguenze della prima guerra mondiale, comunque, furono ancora peggiori di quanto avessero immaginato Giolitti e Turati.
UNA STAGIONE OSCURA
Sulle macerie della guerra avanzarono Benito Mussolini e il fascismo. Nel 1922, la marcia su Roma. anni dopo, le ultime elezioni democratiche. Seguirono venti anni di dittat-ura. Una stagione oscura nella storia del Paese ma anche un periodo nel quale si formarono le future classi dirigenti della democrazia italiana. Quale dunque sia il giudizio che si voglia dare sul fascismo (la mia condanna è sempre stata netta e confesso di non amare certi revisionismi superficiali oggi di moda non c'è dubbio che il Paese si impigrì intellettualmente in quella stagione e si diffuse anche tra gli imprenditori una sorta di estraniamento che impediva perfino di cogliere la portata rivoluzionaria delle nuove tecnologie.
Resta illuminante il racconto che il Presidente di Mediobanca, Enrico Cuccia, un uomo dalla proverbiale riservatezza, fece qualche anno fa a Francesco Cossiga. Cuccia svelò che nel 1936 Mussolini chiese a suo suocero, Alberto Beneduce, all'epoca Presidente dell'Iri, di offrire ai principali industriali italiani le partecipazioni che lo Stato possedeva nelle industrie telefoniche. Il Duce pensava che la privatizzazione dei telefoni avrebbe potuto dare alle imprese italiane una straordinaria opportunità di sviluppo. Beneduce trasmise a Mussolini un rapporto nel quale riferiva con parole desolate che tutti i grandi capitalisti interpellati avevano rifiutato l’offerta sostenendo che i telefoni fossero un affare senza futuro. Mussolini restituì a Beneduce l'appunto con un’annotazione. Questa: “Sono dei soldi…”
L'ITALIA MODERNA
È solo avendo presenti i limiti e i ritardi delle scelte dell'Italia post-risorgimentale, prima, e fascista, dopo, che si può comprendere pienamente quale sia stata l'eredità ricevuta dalle classi dirigenti democratiche uscite dalla fine della seconda guerra mondiale. Oggi mi sento di affermare che il merito principale delle nuove classi dirigenti della politica si può riassumere nella capacità che ebbero di mobilitare tutte le energie del Paese. Questo riguardò i partiti di maggioranza così come quelli di opposizione.
Ragion per cui, lo scontro politico, che fu particolarmente aspro, lasciò intatta la volontà di entrambi gli schieramenti di contribuire alla ricostruzione del Paese. Ed è anche per questo che la ricostruzione non fu soltanto materiale ma anche morale.

Su questo sfondo svetta la figura di De Gasperi negli anni cruciali che vanno dalla fine del 1945 alla metà del 1953. Ragionando sulla ricostruzione si capisce che nella concezione di De Gasperi questa non significava rimettere in piedi l'Italia pre-fascista ma fondare lilla nuova e diversa democrazia basata sul capitalismo sociale di mercato e sullo sviluppo delle autonomie locali. De Gasperi ebbe alleati e avversari all'interno e ,di'esterno del suo partito.

Queste scelte fecero parte di un insieme di strategie volle alla trasformazione industriale e moderna del Paese. Un Paese i cui addetti all'agricoltura superavano la metà degli occupati; un Paese con una struttura industriale autarchica e in gran parte distrutta dalle operazioni belliche; un Paese con un'inesistente mobilità territoriale anche a seguito delle leggi fasciste contro l’urbanizzazione; un Paese con una società segnata da netti equilibri classisti e, infine, un Paese con un Mezzogiorno che aveva fatto scrivere a Carlo Levi che Cristo si era fermato a Eboli e che aveva portato un duro montanaro trentino come De Gasperi a piangere di rabbia di fronte ai cittadini italiani costretti a vivere nelle caverne dei "sassi" di Matera.
Il riformatore Alcide De Gasperi non puntò semplicemente a elevare le condizioni di vita dei braccianti ma li trasformò in coltivatori diretti, proprietari della loro piccola impresa: la riforma agraria, come ho già detto, fu il primo passo per la modernizzazione del Mezzogiorno. Il latifondo, una delle piaghe storiche del Sud, dove i braccianti stentavano a guadagnarsi il salario della sopravvivenza, venne espropriato e diviso in poderi. Nacque la potente organizzazione dei coltivatori diretti, cattolici, che costituì per molti anni una riserva di voti sicuri per la Democrazia Cristiana.
Non c'è dubbio che la riforma agraria sottrasse ai comunisti gran parte del voto delle campagne. Essa fu soprattutto il primo grande ascensore sociale che la politica riuscì a costruire in zone dove i figli dei braccianti morivano braccianti, quasi fosse scritto dal destino. Un piccolo particolare può testimoniare lo spirito quasi missionario di De Gasperi e della sua squadra. Il ministro dell' Agricoltura che attuò la riforma era Antonio Segni, il quale firmò, insieme con la legge, anche il decreto di esproprio del suo latifondo in Sardegna.
Giulio Andreotti, più volte Presidente del Consiglio, fu l'esponente democristiano più vicino ad Alcide De Gasperi: Sottosegretario alla Presidenza negli anni della ricostruzione, è certamente il testimone più autorevole del meridionalismo dello statista trentino. Il punto centrale delle preoccupazioni di De Gasperi (Andreotti, Intervista su De Gasperi, Bari, 1977) era il superamento della spaccatura Nord e Sud. Se c'è stato un tema sul quale De Gasperi ha insistito sempre, con grande chiarezza, è stato quello dello sviluppo del Meridione. Non si illudeva di poter superare il dislivello tra Nord e Sud in pochi anni, ma l'importante, per lui, era che la distanza andasse rapidamente diminuendo invece di aumentare.
 L’EUROPA CHE C'È
Una rilettura necessariamente veloce degli anni della cosiddetta ricostruzione e delle politiche volte alla trasformazione del Mezzogiorno non può ignorare le singolari figure di Giulio Pastore e di Giuseppe Di Vittorio. Furono i leader dei due grandi sindacati operai del nostro Paese, quello d'ispirazione cristiana e quello di matrice comunista. Pastore, genovese, faceva l'operaio a dodici anni e, alla stessa età, Di Vittorio era bracciante nella tenuta dei marchesi Rubino-Rossi di Cerignola. Entrambi autodidatti: Pastore era diventato giornalista e scrittore politico alla scuola dell' Azione cattolica e del sindacalista Achille Grandi; Di Vittorio era salito fino ai gradini più alti della gerarchia comunista superando la dura selezione imposta dalla lotta clandestina negli anni del fascismo. Tutti e due in prigione per antifascismo.
A entrambi va riconosciuto il merito di avere schierato, restando senza ambiguità su sponde politiche opposte, le grandi organizzazioni operaie in favore dell'industrializzazione e della modernizzazione del Mezzogiorno. Nel 1958, Amintore Fanfani, nel suo secondo Governo, volle Pastore come Ministro per l'intervento pubblico straordinario nel Mezzogiorno. Per il Sud fu probabilmente la stagione migliore. Ho già ricordato, nella premessa, quel periodo. Furono gli anni d'oro delle partecipazioni statali, vale a dire delle imprese a capitale pubblico, soprattutto dell’iri e dell'Eni.
MATTEI  E SINIGAGLIA

Serve molto rigore per esaminare il ruolo che il sistema delle imprese a partecipazione statale ebbe nella trasformazione dell'economia italiana. Sono sempre stato iscritto, per cultura e per scelta politica, al "partito" dei sostenitori dell'impresa privata e della libera iniziativa economica ma credo che sia un errore sottovalutare la funzione insostituibile che le imprese pubbliche hanno avuto nella ricostruzione del Paese. E che, in parte considerevole, continuano ad avere ancora oggi; pensiamo all'Enel, alla Finmeccanica, all'Eni: si tratta d'imprese che posseggono tecnologie d'avanguardia e producono utili e continuano a formare manager in grado di competere, con successo, sui mercati internazionali. Del resto è difficile negare che Enrico Mattei, nel settore dell'energia, e Oscar Sinigaglia, in quello dell'acciaio, furono straordinari imprenditori, innovatori coraggiosi e, forse, nel caso di Matttei, perfino temerari. La Finsider, di cui Sinigaglia era Presidente, seppe cogliere tutte le opportunità offerte dall'ingresso dell'Italia nella Comunità europea del carbone e dell'acciaio per ammodernare gli stabilimenti di Cornigliano, Bagnoli e Piombino e, infine, per costruire Taranto e fare della Finsider, che raggruppava le imprese facenti capo all'Iri, il principale fornitore della produzione di acciaio a ciclo integrale necessario per lo sviluppo del sistema economico italiano.

La produzione di acciaio, che nel 1951 arrivava appena a tre milioni di tonnellate, superò, in pochi anni, gli otto milioni di tonnellate. Uno sforzo produttivo di queste dimensioni poteva essere assicurato, in quel momento, solo da un'impresa a capitale pubblico. Alla fine della seconda guerra mondiale, l'industria privata, dopo aver vissuto per venti anni in regime di autoarchia, non aveva infatti le risorse necessarie e neppure la mentalità giusta, nei manager, per affrontare il mare aperto della concorrenza internazionale. L'Iri e l'Eni funzionarono anche da "scuole" di alta formazione e fornirono, alle imprese private, manager imbevuti di moderna cultura industriale.
Adesso è chiaro che Enrico Maltei rese un grande servizio alle rinascenti imprese private italiane assicurando l'approvvigionamento energetico di cui quelle imprese avevano bisogno a costi accessibili: per questo sfidò con successo i grandi oligopoli mondiali. Combattendo Mattei per una sorta di scelta quasi ideologica, le grandi imprese private combattevano in realtà contro loro stesse. È una ricostruzione romanzata quella che attribuisce a Mattei il ruolo di "padrone" della politica italiana. È certamente vero che l'Eni (come hanno fatto e fanno tutte le grandi imprese quando possono) organizzò e finanziò una lobby che agì trasversalmente nel Parlamento italiano a protezione dei piani di Mattei.
La strategia era di De Gasperi, proseguita con una personale interpretazione da Amintore Fanfani: attuare quella rivoluzione industriale che l'Italia aveva mancato nel secolo precedente.
NASCE LA COMUNITÀ EUROPEA
L'ideazione della Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio (CECA) venne colta da De Gasperi (che l'aveva pensata insieme al Ministro degli Esteri francese, Robert Shuman, e al Cancelliere tedesco Konrad Adenauer, entrambi cattolici) come la grande occasione per spingere l'Italia nel cuore dell'Europa industriale. La Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio coinvolgeva quelle zone un tempo roventi della Francia e della Germania (il bacino della Ruhr, l'Alsazia e la Lorena) che erano stati i teatri sanguinosi delle due guerre mondiali. Nell'accordo vennero coinvolti anche gli Stati del Benelux, anch'essi forti produttori di carbone e di acciaio. L'Italia non aveva miniere di carbone e neppure grandi altiforni da portare in dote. Semmai, alla produzione di carbone, l'Italia aveva contribuito con le migliaia dei suoi emigranti meridionali che erano andati a lavorare nelle miniere, soprattutto in Belgio (impossibile dimenticare la tragedia di Marcinelle dell'8 agosto 1956 nella quale morirono, bruciati, 136 minatori italiani).
Da un punto di vista economico l'apporto dell'Italia a quel trattato era irrilevante ma acquistò un grande significato politico giacché riuniva in un'impresa comune Paesi che erano stati nemici mentre era ancora fresco il ricordo degli orrori della seconda guerra mondiale. La CECA gettò le basi di quella che sarebbe divenuta l'attuale Unione Europea. Pochi ricordano che due italiani, il marchigiano Piero Malvestiti e il milanese Dino Del Bo, entrambi cattolici e militanti antifascisti, furono Presidenti della CECA dal 1959 al 1967; tali incarichi evidenziavano il prestigio politico dell'Italia in Europa.
Scelta europeista e politica meridionalista, costituiscono i due cardini del progetto degasperiano. Giustamente, quando si parla di Europa, si ricordano Altiero Spinelli e il Manifesto di Ventotene. Era il 1941, l’anno dell'attacco giapponese a Pearl Harbor, che diede alla guerra una dimensione davvero mondiale. In Europa, le truppe naziste erano all'offensiva su tutti i l'rol1ti. Fa riflettere che, proprio in quei giorni, un gruppo di confinati politici anti-fascisti, costretti nell'isola di Ventotene, immaginassero la nascita di una federazione tra i popoli europei. Una Federazione che, nella visione di Spinelli e dei suoi amici, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, avrebbe dovuto essere annullata da un socialismo in grado di superare il capitalismo e di sperimentare nuove forme di democrazia. Era un'utopia fondamentale per animare le coscienze degli antifascisti. L'Europa che prenderà corpo sarà quella dello stato sociale, del capitalismo mitigato dalla solidarietà, dell'economia sociale di mercato. L " Europa della concretezza di De Gasperi, di Adenauer e di Shuman che si ispira ai solidi e sperimentati valori dell'umanesimo cristiano.

Il FALLIMENTO DELLA COMUNITÀ EUROPEA DI DIFESA

Nella nostra storia, non sono mancate le battute d’arresto, le grandi delusioni. La delusione più grande, 1'occasione storica persa, resta il fallimento della Comunità Europea di Difesa nel 1954. Furono i francesi ad affossare la CED.
De Gasperi né soffrì anche fisicamente. Il nostro grande statista sapeva che se la Comunità Europea di Difesa fosse nata l'unità politica dell'Europa sarebbe stata rapida e inevitabile per tutti. Le cose sono andate diversamente e oggi molti lamentano che l'Europa, intesa come un'unione politica, è ancora incerta e lontana rispetto a quanto avevano immaginato i Padri fondatori. Noi non sottovalutiamo i punti di debolezza dell'edificio europeo, frutto anche dei numerosi e faticosi compromessi che si sono sviluppati nel suo cammino e tuttavia l'Europa rappresenta una straordinaria costruzione istituzionale, diversa dai modelli storici degli Stati federali e di quelli nazionali. E resta soprattutto l'unica possibilità per affrontare con efficacia le sfide del mondo globale e per costruire un realistico multilateralismo.
E per questo, l'ho constatato personalmente nel mio attuale incarico istituzionale, il modello europeo rappresenta un punto di riferimento per i processi d'integrazione possibili in Africa e in America Latina, la condizione per lo sviluppo e per la pace. In questi ultimi tempi, andando oltre la Carta costitutiva delle Nazioni Unite, si comincia a prendere in seria considerazione - pur fra molte opposizioni - una riforma del Consiglio di Sicurezza imperniata non sull'ampliamento di seggi permanenti nazionali ma su rappresentanze regionali, con rotazione tra i Paesi membri delle stesse, a partire proprio dall'Unione Europea. Sarebbe un modo realistico e democratico per superare le scelte e le logiche adottate nella costruzione dell'Onu nel 1946, all'indomani della seconda guerra mondiale, l'oggi certamente inidonee a garantire rappresentanza, democrazia ed efficienza nel nuovo mondo.
Anche nella sua attuale dimensione e con il suo carico di contraddizioni, l'Europa resta l'unica sede, dove sia possibile dar vita a progetti di straordinaria importanza, il grado di coinvolgere centinaia di milioni di persone, dal Baltico al Mediterraneo. Resto convinto che il dualismo, relativamente recente, dell'economia tedesca, suscitato dalla riunificazione e dall'arretratezza delle regioni dell'Est, si può risolvere con la stessa ricetta utile ;J(l affrontare il dualismo, molto più antico, dell'economia italiana gravata dagli storici ritardi del Sud.

LA CASSA DEL MEZZOGIORNO
Nel triennio che va dal 1950 al 1953, presero corpo le grandi riforme che cambiarono davvero il volto e il destino dell'Italia: la riforma agraria sulla quale mi sono già soffermato, la legge per l'istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, la legge sulla perequazione tributaria, l'istituzione dell'Eni.
L’economista, il grande tecnico, al quale De Gasperi; affidò la regia della politica economica in quegli anni cruciali fu Ezio Vanoni, un valtellinese che aveva perfezionato i suoi studi in scienza delle finanze in Germania e che vedeva nello Stato un'entità morale prima le politica. Vanoni era stato uno dei pochi professori universitari a non iscriversi al partito fascista. Il suo maestro fu Sergio Paronetto, uno straordinario intellettuale cattolico amico di Alcide De Gasperi e di Guido Gonella. Fu Paronetto a presentare il giovane Vanoni a De Gasperi e a indurlo in quella ristretta cerchia di cattolici anti-fascisti che avevano il privilegio di frequentare allora il signor De Gasperi, impiegato addetto alla Biblioteca Pontificia, nel suo esilio dentro le mura vaticane.

IL RUOLO DI DE GASPERI
Sono convinto che la svolta dell'economia italiana, iniziata nel 1947, è da attribuire a una sorta di egemonia politica e culturale degasperiana protrattasi, per alcuni anni, dopo la morte di De Gasperi, almeno fino al 1962: dalla ricostruzione al cosiddetto boom economico all'oscar delle monete attribuito in quegli anni alla lira. Questa egemonia si fondò su un'alleanza, tra mano pubblica e mano privata, che consenti di realizzare una fase di espansione senza precedenti. Voglio solo ricordare che nel 1951, a pochi anni dalle distruzioni della seconda guerra mondiale e dalla sconfitta disastrosa, i disoccupati rappresentavano, in Italia, il 7,3% della forza lavoro disponibile (per chi avesse dei dubbi, suggeriamo la lettura de ((Storia economica d'Italia" di Valerio Castronovo, Torino, 1995): una percentuale perfino leggermente più bassa rispetto al numero dei disoccupati attuali.
La riduzione della disoccupazione è il nocciolo del progetto degasperiano ed è alla radice del cosiddetto "Piano Vanoni" che, di fatto, determinò un sistema di economia mista "pubblico-privata", volto a colmare, quanto più rapidamente possibile, il vuoto lasciato dal mancato sviluppo dell'industria privata. Sotto la regia di De Gasperi e di Vanoni, le imprese pubbliche favorirono la nascita delle nuove industrie private.

LA NAVE OSPEDALE
L’iri era sorta nel 1933 come una specie di "nave ospedale", dove le banche private, gravemente malate, vennero ospitate e rianimate dopo la prima grande crisi del capitalismo finanziario italiano alla quale il fascismo aveva dovuto far fronte. Negli anni '50, l'Iri divenne uno dei più cospicui e vivaci gruppi industriali europei.
La fondazione dell'Eni, nel 1953, non riguardò soltanto il settore strategico dell'approvvigionamento petrolino, ma si estese alla chimica fine, alle materie plastiche, ai fertilizzanti e all' energia nucleare. Il primo impianto nucleare in Europa sorge in Italia, alla fine degli ,anni cinquanta, per iniziativa di Enrico Mattei.
La priorità delle imprese pubbliche era lo sviluppo economico e l'occupazione mentre, giustamente, i primi dovevano mettere in cima ai loro scopi il profitto a breve termine. Citiamo ancora da Castronovo: "Quasi, senza rendersene conto - osservava nel 1962 il Presidente della Banca Commerciale, Raffaele Mattioli – l’Iri, consolidando e allargando il campo d'azione dell’economia controllata dalla mano pubblica, ha protetto l'esistenza e assicurato la sopravvivenza, effettiva e duratura, dell'economia privata". Il rapporto di collaborazione tra De Gasperi e Mattioli costituì l'esempio della proficua intesa che si instaurò in quegli anni tra
esponenti di due culture, quella laica e quella ,cattolica, che si erano guardati in passato con diffidenza se non con ostilità. Mattioli era un banchiere umanista, di origini abruzzesi, amico e discepolo di Benedetto Croce. Aveva militato nell'ala liberale e lamalfiana del partito d'Azione e godeva di grande considerazione negli ambienti finanziari americani. Mattioli sperava che in Italia si sviluppasse, finalmente, una vasta e solida imprenditoria privata ma questo non gli impedì di essere il primo banchiere che finanziò, nell'interesse del Paese, l'Agip di Enrico Mattei, quando la prima gracilissima impresa petrolifera nazionale sembrava destinata al fallimento.

LA DEMOCHAZIA CHISTIANA E LA CASSA l'EH IL MEZZOGIORNO
In questo contesto politico e culturale si colloca la svolta del meridionalismo degasperiano, che vedeva nel Sud una delle risorse fondamentali per la ricostruzione e per lo sviluppo dell'Italia. Si è molto parlato negli anni scorsi del contrasto che avrebbe opposto De Gasperi a Giuseppe Dossetti e ad Amintore Fanfani. Si è detto e si è scritto che i dossettiani avrebbero voluto una politica economica basata più decisamente sull'intervento pubblico, ma la famosa "terza via" di Dossetti, fra capitalismo e comunismo, fu frutto in gran parte di un' esagerazione giornalistica. Anche allora, del resto, i giornali non erano proprio fedelissimi interpreti della realtà. È vero, invece, che le correnti democristiane ebbero, prima di degenerare in puri e semplici centri di potere, una grande funzione nell'alimentare e provincializzare il dibattito politico. Ricordo di aver letto, quando da studente militavo nell'Azione cattolica, su "Cronache sociali", la rivista di Dosetti, di Fanfani e di Giorgio La Pira e diretta da Giuseppe Glisenti, gli articoli di un giovane economista, Federico Caffè, sulle teorie di John Maynard Keyll'S che avevano ispirato il New Deal del Presidente Roosvelt e salvato l'America dalla grave crisi finanziaria del 1929. Il modello del neo-capitalismo americano ci sembrava compatibile con il capitalismo sociale di mercato di derivazione cristiana.
Forse  pochi ricordano che nel 1950 la creazione della Cassa per il Mezzogiorno era ispirata anche agli statuti della roosveltiana Tennessee Valley Authority.
La Cassa nasceva per finanziare opere pubbliche: strade, ferrovie centrali elettriche, acquedotti nell'intento di offrire condizioni ambientali adatte all’insediamento di attività produttive. Attraverso moderne infrastrutture di  trasporto, si volevano avvicinare Palermo e Napoli a Milano e a Dusseldorf. "Fare l'Italia corta" (in senso opposto a quello che si è fatto oggi, quando si è cancellato il Mezzogiorno), realizzando il sogno di Giustino Fortunato, l'intellettuale meridionalista. di Rionero in Vulture che aveva addebitato alle classi dirigenti post-risorgimentali di avere "allungato" l'Italia facendo invecchiare le infrastrutture del Sud. "L'unità d’Italia - aveva scritto Fortunato in una lettera allo storico Pasquale Villari, senatore del Regno - è stata purtroppo la nostra rovina economica. Noi eravamo, nel 1860, in floridissime condizioni dopo un risveglio economico, sano e profittevole. L'unità ci ha perduti.
E come se questo non bastasse, è provato, contrariamente all'opinione di t-utti, che lo Stato italiano profonde i suoi benefici finanziari nelle province settentrionali in misura ben maggiore che nelle meridionali". Ho riportato queste parole perché mi sembra che diano l'idea delle fratture e dei rancori che si erano diffusi nel Sud dopo l'unità e che il fascismo aveva in qualche modo coperto senza risolverli. Così forse si capiscono meglio, anche adesso, tutti i motivi che ispiirarono la creazione della Cassa per il Mezzogiorno.

I COMPLESSI ORGANICI DI OPERE

Nel dibattito culturale e politico di questi anni, e particolarmente in questi ultimi tempi, l'intervento pubblico nel Mezzogiorno viene identificato esclusivamente con  l’opera della Cassa per il Mezzogiorno. Invece la Cassa fu solo uno degli strumenti, anche se il più incisivo, di una più complessiva strategia di sviluppo.
A partire dagli anni sessanta, l'assenza di coerenti politiche del Paese volte a ridurre gli squilibri territoriali e settoriali lascerà unicamente alla Cassa per il Mezzogiorno il peso e la responsabilità di tutti i fallimenti in termini di sviluppo e di occupazione e attribuirà alla medesima Cassa un lungo elenco di sprechi. Così, alla fine, si confonderanno la corruzione e le inefficienze, che pure negli anni della decadenza ci furono, con lo strumento dell'intervento straordinario, appunto la Cassa, che si era rivelato innovativo ed efficacissimo prima di essere corroso e distorto dalla crisi generale della politica. La Cassa, che era nata dentro una visione strategica dello sviluppo produttivo, venne ridotta a uno strumento utilizzato per supplire alle lacune e alle deficienze dei poteri locali nella gestione ordinaria del territorio e delle relative opere pubbliche.
Così oggi è fin troppo facile accanirsi nel denigrare la Cassa, sciolta definitivamente nel 1992.
Dopo quarant'anni d'intervento straordinario era lecito chiedersi se non fosse giunto il momento di voltare pagina.
Si lamentava che la Cassa si fosse trasformata, lungo la strada, in un erogatore di capitali a pioggia o a fondo perduto che avevano finito con il frantumare la spesa pubblica secondo, gli interessi della politica e delle pressioni elettorali. E c'era, in queste critiche, molto altro. Si trascurava di ricordare che, nel periodo in cui la politica di sviluppo del Mezzogiorno e l'azione della Cassa avevano funzionato bene, un trentennio circa, il livello di vita nelle regioni meridionali era sensibilmente migliorato, tanto è vero che una fonte insospettabile, lo storico dell'economia Valerio Castronovo, sostenne che "in tre decenni il reddito medio pro capite si era più che triplicato".
Il bilancio fatto alla vigilia del referendum, pur comprendendo il tempo della crisi e dell'involuzione, senza tacere gli sbagli compiuti, avrebbe comunque dovuulo tener conto delle condizioni storiche di arretratezza e di abbandono del Mezzogiorno nel quale prese il via l’esperienza della Cassa.
Alla fine, anche la configurazione del Mezzogiorno era cambiata in quanto non si presentava più come un territorio sostanzialmente omogeneo, ma come un complesso di realtà diverse tra loro e non integrate.

UN DESTINO COMUNE
Il disegno della Cassa nei primi trenta anni, era stato quello di condurre tutto il Mezzogiorno verso un destino comune. Ho già detto, e insisto, che ritengo la sostanziale mancanza di dialogo e di progetti comuni tra le Regioni meridionali uno degli ostacoli da rimuovere per avviare la nuova stagione di un meridionalismo efficace. Questa non sarà comunque possibile senza passare attraverso una rigorosa riflessione sulla nascita, l'evoluzione e la conclusione del disegno riformatore che prese corpo nel 1950.

Una prima considerazione viene suggerita dall'esame dei fatti. Le politiche meridionaliste, quando impostate correttamente, hanno arrecato benefici non trascurabili anche alle Regioni del nord. Fu subito così, a partire dai mesi che seguirono la conclusione della seconda guerra mondiale.

Gli aiuti degli alleati all'Italia, lacera e affamata (l'European Recovery Program), comprendevano un piccolo programma di spese per riattivare alcune infraastrut11.1re dei trasporti nel Sud. Il materiale necessario venne fornito dalle fabbriche e dalle officine del nord che ottennero commesse allora vitali. Accadde la stessa cosa, su scala molto maggiore, dopo la decisione degli Stati Uniti di varare un piano straordinario di aiuti economici e finanziari all'Europa e quindi anche all'Italia, il cosiddetto Piano Marshall, che prese il nome dell'allora Segretario di Stato americano, Generale George Marshall. Una quota importante degli aiuti, che il piano del Generale destinava al sud dell'Italia, venne fornita dalle imprese del nord che riattivarono i loro impianti anche grazie agli ordinativi del Sud.

Il Piano Marshall fu una scelta dell' America che si rivelò, come poi si vide, particolarmente efficace nel contenimento dell'espansione comunista in Europa. Fu un atto di straordinaria generosità e diventò anche un prezioso strumento della politica. Gli americani non volevano che si ripetesse la tragedia di Weimar, la morte della democrazia tedesca strozzata nella culla (Lilla crisi economica suscitata dalle conseguenze della prima guerra mondiale. Il Sud costituiva il punto più debole della neonata democrazia italiana e, proprio per questo, il nuovo meridionalismo suscitò simpatie nelle correnti democratiche del nord. I capi delle grandi imprese del nord avevano due motivi, uno economico e l'altro politico, per identificarsi nelle battaglie meridionalistiche. De Sica, Rossellini, i grandi illustri del neo-realismo cinematografico italiano, suscitarono grandi simpatie verso il sud rappresentandolo povero ma ricco di grandi risorse umane. Il Sud sembrava il riassunto di tutte le difficoltà italiane. I movimenti separatisti di carattere conservatore e di natura oscura si agitavano in Sicilia sullo sfondo dello scontro, che caratterizzava tutto il Mezzogiorno, tra agrari latifondisti e braccianti disperati. Il sud costituiva, per la democrazia italiana, l'eredità più pesante lasciata dai vecchi regimi.
La parola Cassa fu scelta su suggerimento di Donato Menichella da De Gasperi in persona dopo la visita che Egli fece ai "sassi" di Matera.
Di fronte a quelle famiglie sofferenti, che vivevano in condizioni simili a quelle degli animali, De Gasperi comprese che bisognava immaginare una struttura in grado di realizzare ingenti opere infrastrutturali senza essere sottoposta alla lunghissima trafila burocratica che la legge imponeva. Una Cassa alla quale si potesse attingere, senza indugi, per realizzare in tempi rapidi un piano preciso. A distanza di molti anni, e malgrado non siano poche le critiche che si possono fare alla Cassa della decadenza, essa resta un modello per rendere veloce ed efficace l'intervento pubblico.
IL MERIDIONALISTA DELLA VALTELLINA
L'economista che di più lavorò per dare att-uazione al progetto degasperiano fu Pasquale Saraceno, per molti anni il principale teorico del meridionalismo d'ispirazione cristiana. Saraceno partecipò, nel 1946, alla fondazione dell'Associazione per lo Sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno (Svimez) e fu il consulente più ascoltato di Vanoni.

I primi Presidenti della Cassa furono due giuristi, entrambi provenienti dal Consiglio di Stato, Ferdinando Rocco e Gabriele Pescatore. Pescatore, avellinese di Serino, restò alla guida della Cassa per più di vent'anni, dal 1955 al 1976. In quegli anni sembrò chiaro, come si vede dalla lettura della prima relazione al Parlamento sull'intervento pubblico nel Mezzogiorno (aprile 1960), presentata dal Ministro Giulio Pastore, che il superamento del dualismo storico dell'Italia era necessario anche per evitare che fossero pregiudicate le possibilità di espansione dell'industria del nord che "presto o tardi avrebbe avvertito il danno che le derivava dall'operare su di un mercato, ben più ristretto  di quanto i confini geografici del Paese facessero supporre. In questa logica, l'intervento pubblico non era volto solo a elevare le condizioni di vita delle popolazioni del Mezzogiorno ma corrispondeva a un interesse generale del Paese.

E senza l'opera della Cassa - si spiegava ancora nella citata relazione - "qualsiasi nuova iniziativa produttiva nel sud poteva diventare una rischiosa avventura".
La cassa doveva caratterizzarsi per la sua capacità di garantire una visione globale dell'intervento e, quindi, non la realizzazione di singole opere, sparse a caso sul territorio, ma un complesso integrato di opere strettamente connesse fra loro. Avrebbe dovuto intervenire nelle infrastrutture fondamentali con la realizzazione di complessi organici di opere nei settori dell'acqua, della viabilità, della bonifica e della trasformazione agraria, in particolare irrigua, delle infrastrutture necessarie agli insediamenti produttivi industriali, con una programmazione strategica intersettoriale. Il suo compito non poteva, per questo motivo, essere svolto dalle amministrazioni ordinarie dello Stato, organizzate per materie o per rigide competenze territoriali e appesantite da regole ottocentesche. La Cassa, al contrario, doveva poter seguire procedure del nuove.  La spesa della Cassa doveva sempre avere carattere straordinario ed essere, quindi, addizionale rispetto agli stanziamenti posti in essere dalle amministrazioni, operando sulla base di una programmazione ,a lunga scadenza.
Nel 1950, uno stanziamento decennale di mille miliardi di lire costituì la dotazione finanziaria della Cassa che venne anche autorizzata, da un'apposita legge, a fare ricorso a prestiti esteri. E infatti la Cassa, nel corso della sua vita, ottenne prestiti dalla Banca Mondiale, dalla Banca Europea degli Investimenti e anche da diverse banche private, tra le quali la Morgan & Stanley. Utilizzando tali finanziamenti internazionali, lo stanziamento complessivo pluriennale poté essere immediatamente erogabile, indipendentemente dalle somministrazioni semestrali del Tesoro. Questo segnò una svolta rispetto alla norma dell'annualità degli stanziamenti del Bilancio dello Stato, da impegnare ed erogare: un autentico salto di qualità nella gestione della spesa pubblica.
Scrive Gabriele Pescatore in un saggio pubblicato da Svimez nel 1976, una sorta di bilancio della sua ventennale esperienza: "I compiti straordinari che lo Stato si è assunto, vengono a essere realizzati attraverso un modo di essere straordinario dello Stato stesso".
FUORI DALLE INVADENZE CLIENTELARI
Mi sembra doveroso restituire alla Cassa la sua vera fisionomia e il carattere quasi rivoluzionario che ebbe nel determinare una sostanziale rottura nell'assetto burocratico dello Stato italiano. Non esito a dire che uno strumento come quello della Cassa, tenuto rigorosamente al riparo dalle invadenze clientelari e delittuose dei partiti, potrebbe essere oggi prezioso per realizzare le infrastrutture di cui il Paese, e particolarmente il Mezzogiorno, ha bisogno.
Uno dei nostri più autorevoli esperti di diritto amministrativo, Manin Carabba, sostiene che la Cassa fu il frutto di una elaborazione tecnocratica, propizia ad affrontare, senza inciuci, il problema dell'intervento in favore di un'area storicamente depressa, dove le strutture burocratiche e amministrative tradizionali avrebbero fatto fatica ad operare con efficacia. L'autonomia di cui godeva il consiglio di amministrazione e le modalità stesse del suo funzionamento erano senza precedenti. Per esempio, il controllo di legittimità sugli atti del consiglio veniva effettuato dal collegio dei revisori in tempo reale, giacché i suoi componenti partecipavano ai lavori del consiglio senza confondere il loro ruolo con quello dei manager e degli amministratori. Era un modo per accorciare le procedure e per garantire la trasparenza e la legalità degli atti incompiuti.
La guida e l'intervento della politica avveniva nell’ambito del  Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno,presieduto dal Presidente del Consiglio o da un Ministro senza portafoglio da lui delegato a esercitare anche compiti di vigilanza sulla Cassa. L'elaborazione tecnica dei piani, la loro gestione, la loro realizzazione era di esclusiva competenza della Cassa e dei suoi tecnocrati economisti, ingegneri, geologi ai quali, almeno nel primo ventennio di attività, venne garantita una forte autonomia professionale. Quando si parla oggi della cassa per il Mezzogiorno, si trascura, in qualche caso deliberatamente e per puro pregiudizio politico o ideologico, di distinguere tra gli anni cinquanta e settanta e quelli successivi. Nei primi due decenni la Cassa contribuì, davvero, a cambiare il volto del Mezzogiorno, dotandolo almeno delle infrastrutture di base, proprie di una civiltà moderna, che non aveva mai avuto: l'acqua, l'energia elettrica, un minimo di arterie stradali. Cristo si è fermato a Eboli era, infatti, proprio il ritratto fedele del Mezzogiorno in quell'epoca, compiuto da un grande pittore del neorealismo italiano.
La Cassa fece parte di un complesso di scelte politiche che portarono al passaggio dalla piccola Italia all'Italia moderna: fiJ la "punta di lancia" di quella che Francesco Compagna, straordinaria figura d'intellettuale e di politico liberale, definì sulle colonne di "Nord e Sud":

"La via meridionalista per lo sviluppo nazionale". Uno storico acuto delle vicende del sud, Sergio Zoppi (Il Mezzogiorno delle buone regole, Bologna, 2000), ha ricostruito il dibattito che sfociò alla nascita della Cassa e ha rintracciato i documenti che testimoniano l'ampia discussione che ci fu nella Democrazia Cristiana e che coinvolse Giuseppe Dossetti, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira.

Un dibattito nel quale anche Don Luigi Sturzo fece sentire la sua voce. De Gasperi rese possibile la grande convergenza della DC con le correnti riformiste liberaldemocratiche e socialdemocratiche e, per questo, la politica meridionalista fu l'asse portante della politica democratica in tutto il Paese.

Il nostro amico Vittorio Bachelet (caduto come un martire per mano delle Brigate Rosse il 12 febbraio del 1980), uno boa i più fini giuristi cattolici italiani e consigliere giuridico di Giulio Pastore, con Giovanni Marongiu e Massimo Annesi, mostrò in suoi diversi scritti le potenzialità insite nell'architettura istituzionale della Cassa e sottolineò come quel modello avrebbe potuto essere utile per definire la riforma generale del1'amministrazione pubblica e i rapporti tra burocrazia l' direzione politica. Un suo allievo, Giovanni Marongiu, ha visto nella Cassa una stagione "etica" della pubblica amministrazione.
LE SINISTRE E DI VITTORIO
Le sinistre non furono in grado di cogliere neanche gli di rottura, rispetto alla concezione del capitalismo ottocentesco, che la Cassa rappresentava né il carattere innovativo delle politiche meridionaliste. Francesco De Martino, per i socialisti e Giorgio Amendola, per i comunisti, nei loro discorsi alla Camera, si arroccarono sulla loro utopia e chiesero irrealizzabili riforme di struttura "per il passaggio dal capitalismo al socialismo. La Cgil di Giuseppe Di Vittorio, con il suo piano del lavoro", riscontrò motivi positivi, sia pure parziali e insoddisfacenti, nelle politiche meridionaliste del governo ma Amendola oppose, "al critico distinguo di De Vittorio, la linea di un'opposizione globale che vide come un Lutto unico, da contrastare senza riserve, la politica del blocco industriale agrario anti meridionale, identificato nella linea di politica economica degasperiana, che doveva essere contrastata in ogni, anche parziale, misura d'intervento".
Non bisogna dimenticare che il mondo era nel pieno della Guerra fredda e che in Italia era assai dura la contrapposizione  tra la parte democratica "centrista" e il blocco delle sinistre. In seguito, Amendola rivide le sue posizioni e guidò, con vigore e lucidità, l’evoluzione del PCI ,fino all'approdo riformista. Negli anni d'oro della Cassa, le sinistre puntavano ancora a superare il capitalismo e certo la loro abile campagna propagandistica di denigrazione verso la Cassa ha lasciato un' eco di cui, molti anni dopo, si sente ancora il richiamo.
LA VALIGIA DI CARTONE  
Il segnale più evidente dell'estremo disagio del Mezzogiorno è rappresentato, in quegli anni, dall'emigrazione. Oggi, le questioni legate all'immigrazione tengono banco nelle polemiche dei partiti e alimentano il dibattito dei media. Ma per più di due terzi della sua storia, l'Italia è stata alle prese con il dramma inverso: di fatto la fuga, quasi un'espulsione, di milioni di persone dal proprio territorio. Nel primo secolo dello Stato unitario, quasi nove milioni di persone sono emigrate dal nostro Paese. Fu un fatto epocale: è come se si fosse spostata l'intera popolazione attuale dell'Austria e più di quella della Svizzera.
Le conseguenze furono di enorme portata. Basti pensare che tra il 1881 e il 1961 i maschi scesero da 100,5 per ogni 100 femmine a 96, con una diminuzione del 4,5%. In grandissima prevalenza, gli emigrati erano maschi, tra i 16 e i 45 anni, tutti fisicamente validi giacché le commissioni mediche, poste alle frontiere dei Paesi ospitanti in Europa e in America, scartavano tutti coloro che risultavano, per motivi di salute, inidonei a svolgere un lavoro efficiente. Questa emigrazione, che coinvolse dapprima anche alcune zone del centro nord, in particolare il Veneto, il Friuli e il Piemonte, investì successivamente soprattutto il Mezzogiorno.
E si accentuò, negli anni della ricostruzione, con il declino delle industrie del nord e la loro richiesta di manodopera. Basta ricordare che nell'anno di fondazione della Cassa per il Mezzogiorno partirono dalle regioni meridionali verso il nord d'Italia e d'Europa 755,876 persone.
IL RACCONTO DI GIOVANNI RUSSO
E’ un luogo comune, lontanissimo dalla realtà, l’affermazione che la politica della Cassa abbia favorito solo il sorgere di clientele che diedero alla Democrazia Cristiana un decisivo vantaggio nelle scadenze elettorali. Non nego che le clientele ci siano state e che alla lunga abbiano anche corroso la politica fino a infettare il partito che deteneva la maggioranza relativa nel Paese. Ma la verità storica è che la DC portò nel sud, negli anni degasperiani un soffio nuovo, che metteva la persona e la comunità al centro di ogni progetto di sviluppo. La Cassa fu lo strumento più innovativo di questo disegno, ma la nuova classe dirigente, meridionalista e democristiana, era nata nel Mezzogiorno già prima del 1950.

C’è un racconto molto bello di uno scrittore meridionalista formatosi alla scuola della sinistra liberale de "Il Mondo" di Mario Panunzio: Giovanni Russo, un intellettuale intransigente e inquieto, che ha raccontato il Sud in libri e in inchieste condotte per il "Corriere della sera".
In una di queste inchieste ("L'Italia dei poveri", Venezia, 1981) Russo racconta un suo viaggio a Savoia di Lucania, nell'estate del 1955. Savoia era in realtà l'antica Salvia, che aveva mutato il suo nome per omaggiare la monarchia, dopo che uno dei suoi figli, l'anarchico Passanante, aveva tentato, senza riuscirei, di uccidere Umberto I. Giovanni Russo arriva nel paese abitato da povera gente e con sua sorpresa, scopre che i comunisti sono pochissimi. Questo dipende dal fatto scrive - che i giovani del ceto medio, studenti universitari, maestri, geometri hanno dimostrato, a differenza della generazione passata, di interessarsi dei problemi del paese e di voler aiutare i contadini a migliorare la loro situazione. E un vecchio dice: Ci hanno offerto l'aiuto della loro istruzione, hanno migliorato le condizioni economiche e ci rispettano. Questi giochi (prosegue ancora il racconto di Russo) hanno organizzato a Savoia la Democrazia Cristiana, e amministrano il comune dal dopoguerra. Molti, pur essendo trasferitisi per necessità professionali a Salerno o a Potenza, ogni settimana, la domenica, tornano in paese e si incontrano per discutere le faccende del comune e le iniziative da prendere nell'interesse della popolazione. Così la Democrazia Cristiana vince le elezioni. "
Il successo dell'intervento pubblico nel Mezzogiorno fu intenso finché venne sostenuto da una classe dirigente locale che era l'espressione del territorio e che sapeva rappresentarne i bisogni e gli interessi. Nel corso del suo primo ciclo (il decennio che va dal 1950 all'aprile del 1960) la Cassa aveva approvato progetti per 1.419 miliardi di lire: 967 per opere pubbliche e il resto per finanziare progetti di privati. Alla fine del 1960, l'importo dei lavori eseguiti risultava pari a 1.251 miliardi di lire. Le opere eseguite avevano consentito di restituire 248 milioni di giornate lavorate, fra settore pubblico e settore privato.
IL MIRACOLO ITALIANO
Nel 1961, l'occupazione industriale in Italia rappresentava il 37,4% della popolazione attiva totale e quelli nei servizi il 32,2%. Guardando queste semplici cifre risulta evidente che la trasformazione del Paese, da agricolo a industriale, si era ormai realizzata. La bilancia dei pagamenti era, nel frattempo, passata in attivo per 745 milioni di dollari. In una parola, l'industria manifatturiera italiana, basata sulla trasformazione di materie prime importate, aveva già reso possibile il famoso"miracolo economico". "Al volgere del 1962 - citiamo l'autorevole Castronovo - il saggio di sviluppo (italiano) era inferiore soltanto a quello tedesco e largamente superiore ai tassi di crescita di ogni altro Paese dell'Europa occidentale".
Dietro questa sorta di rincorsa alla modernità si addensano molti fattori: la disponibilità di mano d'opera a buon mercato, l'affermazione di tantissimi  prenditori privati portatori d'idee nuove, ma anche le politiche industriali attuate dal Governo e, in questo ambito, il massiccio intervento pubblico per lo sviluppo del Mezzogiorno.

Ho sostenuto che la politica degasperiana di fatto Tuttavia, non posso essere certo io a tacere che, nel 1953, De Gasperi venne battuto. De Gasperi aveva capito perfettamente che il sistema elettorale proporzionale, mentre garantiva il massimo di rappresentatività, rendeva difficile la formazione di solide maggioranze di governo. Nel 1953, gli italiani votarono non solo per eleggere il Parlamento ma anche per ratificare l'adozione di un sistema elettorale maggioritario, sia pure molto blando, giacché avrebbe fatto scattare un premio di maggioranza soltanto se un partito o una coalizione di partiti avesse raggiunto il 50% dei voti. La riforma venne definita dalle sinistre e dalle destre "legge truffa". Nel corso di una campagna elettorale infuocata, democristiani, socialdemocratici, repubblicani e liberali, che si erano coalizzati, vennero accusati di voler costruire un regime. Persero per pochi voti. E quella sconfitta segnò di fatto il ritiro di De Gasperi.
OPERAI NELLE FABBRICHE INDUSTRIALI DEL NORD
Fu allora che si aprì, dentro e fuori la Democrazia Cristiana, un dibattito decisivo per le sorti del Mezzogiorno. Si discuteva se fosse possibile o auspicabile realizzare la piena occupazione in Italia, spingendo i contadini meridionali a diventare operai nelle fabbriche del nord, oppure se fosse più utile e realistico promuovere un'industrializzazione di massa nel Mezzogiorno. Per la prima volta fece irruzione, nel dibattito politico e culturale italiano, la questione urbana, legata al sorgere delle nuove periferie industriali a Torino, a Milano, a Genova e anche nelle città più sviluppate dell'Emilia e della Toscana. Si trattava di problemi che venivano dibattuti in tutti i partiti e che nella Democrazia Cristiana diventarono particolarmente acuti perché, contemporaneamente, si era aperta la questione dell’inevitabile  ricambio della classe dirigente. In realtà erano stati per primi proprio gli economisti degasperiani, Vanoni e Saraceno, a intuire che si stavano affievolendo le ragioni che avevano reso possibile una crescita così rapida del reddito italiano. Sarebbe stato indispensabile compiere scelte nuove e questo avrebbe richiesto una maggioranza politica più ampia e più solida di quella centrista. Il Congresso di Napoli della democrazia Cristiana del 1954 aveva in agenda l’adozione di un progetto adatto ai tempi e della individuazione una nuova classe dirigente. Il Presidente della Camera (e futuro Capo dello Stato), Giovanni Gronchi, delinea la cosiddetta "apertura a sinistra", lo schema volto a suscitare il distacco dei socialisti dall’alleanza con i comunisti per coinvolgerli nel governo comune del Paese.
I TEMPI LUNGHI
Il Paese sta per raccogliere i frutti dell'europeismo degasperiano: il 25 marzo 1957 viene firmato a Roma il trattato che istituisce il MEC, Mercato Europeo Comune.  Per le imprese più vivaci e innovative si aprono scenari entusiasmanti. Lo stile diventa "made in Italy". Si impone il partito di chi pensa che bisogna cogliere le nuove occasioni, rafforzando il sistema nel centro-nord rinviando, a tempi più lunghi, la soluzione della questione meridionale. Nel 1962, Pasquale Saracena capisce che il clima sta cambiando e lancia un monito dal valore, ancora oggi, inalterato. "Quando si parla di tempo lungo - avverte - bisogna guardarsi dal pensare che una soluzione del problema del Mezzogiorno possa avvenire automaticamente con il passare del tempo. Al contrario - dice ancora Saraceno la stessa intensità e rapidità del progresso del nostro sistema economico, progresso che si concentra ancora oggi nelle zone già sviluppate, fa sì che il problema del Mezzogiorno debba essere affrontato in tempo breve ove si voglia che le distanze non si accrescano a un punto tale da porre del tutto fuori mercato le nostre regioni meridionali".

Pochi minuti prima di morire, Ezio Vanoni era tornato a spiegare, in un discorso, le motivazioni umane e politiche del suo piano, il cosiddetto "schema Vanoni". In quel discorso, che oggi ci appare come un bilancio venato da una certa delusione, l'economista di De Gasperi notava che gli obiettivi del suo piano, sui punti essenziali che riguardavano il reddito e l'occupazione complessiva, si stavano raggiungendo ma non per quanto concerneva il Mezzogiorno. C'è, in quelle parole, un severo richiamo alle forze politiche: lo Stato non può ricordarsi del Sud e degli emarginati della sua Valtellina, solo quando spedisce ai suoi abitanti la cartolina di precetto per il servizio militare.
QUANDO IL SUD FECE CRESCERE IL NORD
Le parole di Vanoni suscitarono una profonda impressione. Non bisogna dimenticare che il suo "schema", (al quale avevano lavorato con grande passione civile gli "uomini" della Svimez, da Saraceno allo straordinario giovane Nino Novacco, approdato a Roma dalla lontana Sicilia, ad Alessandro Molinari, a Giorgio Ceriani Sebregondi, a Gian Giacomo dell'Angelo (' Claudio Napoleoni) anche in un momento di aspro scontro politico, aveva indotto o costretto le opposizioni a una riflessione densa di significato. I socialisti parlarono di un'occasione offerta "alla classe operaia e ai suoi partiti di tornare a discutere del piano del lavoro del 1950, quello di Di Vittorio. E Giorgio Napolitano, su "Cronache meridionali", ammise l'interesse “alle impostazioni e ipotesi che si riferiscono al Mezzogiorno". Ma la situazione politica italiana, dopo la bocciatura della "legge truffa", entrò in una sorta di vicolo cieco. La ricerca di un'alternativa stabile al quadripartito durò praticamente dieci anni, dal 1953 al 1%:'), anno di formazione del primo Governo di centro-sinistra.
Forse proprio per questo lo sviluppo del Paese divenne tanto impetuoso quanto disordinato e ricco di contrazioni.
Nel 1960, la politica meridionalista visse giornate decisive di cui fui testimone diretto; ero stato incaricato, insieme a Giovanni Marongiu e Sergio Zoppi, di coordinare il lavoro di stesura della relazione che il Ministro Giulio Pastore avrebbe presentato in Parlamento nel mese di aprile. Il fondatore della Cisl presiedeva da due anni il Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno. Ci aveva chiesto di preparare un documento che desse conto, in maniera rigorosa, dei successi, degli insuccessi e delle prospettive della politica meridionalista. Mobilitammo il centro studi della Cassa diretto da uno dei più importanti economisti italiani, Giuseppe Di Nardi, accademico dei Lincei e consulente del Governatore della Banca d'Italia, Domenico Menichella. Chiedemmo anche all'lstat di realizzare, per la prima volta nella storia della Repubblica, una stima attendibile sul reddito delle tre grandi circoscrizioni economiche del Paese. I dati raccoltilecero emergere l'indiscutibile efficacia dell'intervento della Cassa nella progettazione e nella realizzazione delle opere.
Ma soprattutto ci fu possibile misurare l'effetto moltiplicativo che la spesa straordinaria nel Sud aveva avuto sul sistema produttivo del Nord. Potemmo anche constatare, e venne scritto chiaramente nel rapporto, che vi era, nel Mezzogiorno, una debolissima capacità tecnica e amministrativa degli enti affidatari o concessionari delle opere.

Già allora non sottovalutavamo i limiti e le distorsioni degli indicatori del reddito rispetto alla valutazione del grado effettivo di sviluppo di un'economia o di una regione. I dati sull'andamento del reddito nelle tre grandi aree del Paese mostravano che il divario tra queste era cresciuto a sfavore del Mezzogiorno.
Oggi, noto con piacere che non si attribuisce più acriticamente al PIL il potere di fotografare esaurientemente la realtà socio-economica di un territorio. In quegli anni, invece, era assunto come l'indicatore fondamentale, se non esclusivo, delle dinamiche economiche.

A noi era però già chiaro che, in una situazione così complessa, si sarebbero dovuti prendere in considerazione altri indicatori, così come poi è avvenuto in tutti gli studi sullo sviluppo, elaborati dagli organismi di ricerca delle Nazioni Unite.
L’INTERVENTO STRAORDINAIUO NON CE LA FA
Intanto, la vera novità della Relazione consistette nella documentazione che gli interventi infrastrutturali, sia ordinari sia straordinari, non erano in grado, da soli di trasformare la struttura produttiva e ridurre i divari, in primo luogo quello della disponibilità pro-capite dei beni e dei servizi.
Pastore avvertiva che la cultura meridionalista stava , entrando in una fase per così dire di "stanchezza"e voleva, con quel rapporto, "sferzare" le forze politiche degli imprenditori e gli stessi sindacati affinché si rendessero conto che, senza coerenti politiche industriali nazionali per il Sud, si sarebbero vanificati i risultati fino a quel momento raggiunti. E che comunque, senza una coerenza nazionale rispetto all'obiettivo dello sviluppo del  Mezzogiorno, l'intervento della Cassa rischiava di  vedere frustrati i suoi obiettivi strategici.
Non ebbe fortuna. Il Governo di Fernando Tambroni ottenne la fiducia con i voti determinanti del Movimento Sociale Italiano, considerato, allora, l'erede del partito fascista. Pastore si dimise prima che avesse luogo il dibattito parlamentare sulla sua Relazione. Poi, però, tornò al suo posto nel Governo delle cosiddette “convergenze parallele", un paradosso al quale fece corso Aldo Moro per definire il primo appoggio parlamentare dei socialisti a un governo democristiano, dopo la breve collaborazione dell'immediato dopoguerra.  Presidente del Consiglio era tornato ad essere Amintore Fanfani e Ministro del Bilancio Ugo La Malfa.  Tra Pastore e La Malfa c'era una sintonia perfetta, agevolata anche dalla salda amicizia tra i più stretti   collaboratori dei due Ministri. Il Capo di Gabinetto di La Malfa era Antonio Maccanico, avellinese e giurista come Gabriele Pescatore e legato a noi da affinità culturali ed umane.
Nel 1962, Ugo La Malfa, d'intesa con Pastore, in una nota aggiuntiva al bilancio dello Stato alla cui stesura aveva lavorato la Svimez con Saraceno e Novacco, denunciò che una parte cospicua della ricchezza prodotta dal Paese era ormai assorbita dai consumi individuali, mentre si assottigliavano le risorse disponibili per gli investimenti pubblici.

Fu in quella fase che La Malfa, d'accordo con Pastore, pensò di trasformare la Cassa per il Mezzogiorno da organismo dell'intervento straordinario nel Sud a strumento operativo della programmazione economica del Paese. Il suo obiettivo era duplice: affermare che l'intervento straordinario nelle regioni meridionali era parte integrante delle politiche globali di intervento pubblico e dotare queste politiche di uno strumento, la Cassa, che si era rivelato efficiente e prezioso oltre ogni previsione. Per La Malfa e per Pastore la Cassa era il modello di una prof'onda e moderna riorganizzazione della amministrazione pubblica.
MEZZOGIORNO E POLITICHE NAZIONALI
Quello che emerge dalla lettura che abbiamo tentato, sia pure per grandi tratti, è l'intimo legame tra quello che, nel Mezzogiorno, era stato fatto con le opere della Cassa per il Mezzogiorno, e quanto avrebbe dovuto essere fatto dalle politiche generali e dalla coerenza dei comportamenti delle imprese e dei sindacati. Come avevano intuito gli uomini del "nuovo meridionalismo", questo nesso era fondamentale, perché se si fosse manifestata una contraddizione tra l’azione nell'area e le politiche generali, non sarebbe stato possibile raggiungere gli obiettivi della trasformazione dell'economia del Mezzogiorno e quindi la riduzione dei divari.
Questa fu l'impostazione dello Schema Vanoni: le opere realizzate dalla Cassa dovevano costituire le infrastrutture (le economie esterne) di un sistema economico "industriale" autopropulsivo che solo una coerente politica generale era in grado di promuovere. Lo Schema aveva raccolto, al livello d'indirizzi di politica economica, le indicazioni emerse dalla riflessione meridionalistica (e in particolare dal lavoro condotto (dalla Svimez dopo la creazione della Cassa). Senza questa svolta dello Schema, come vedremo quando affronteremo il tema specifico dell'industrializzazione a partire dal 1957, gli effetti della politica di sviluppo avrebbe continuato, comunque, a concentrarsi nel Nord.

Allo  stesso tempo, soprattutto gli esperti della Svimez, in particolare Pasquale Saraceno, continuavano a sottolineare come il raggiungimento dell'obiettivo della piena occupazione poteva essere raggiunto con la soluzione della questione meridionale in loco, cioè con l'aumento dei posti di lavoro nel Mezzogiorno attraverso l'emigrazione.
Come ho accennato, gli anni che seguirono la presentazione della proposta di Vanoni furono caratterizzati dall’elevata crescita dell'economia nazionale e da un alto tasso di accumulazione, che scontava una moderata dinamica dei salari, inferiore al tasso di crescita della produttività. A tale crescita parteciparono in modo diverso le due grandi circoscrizioni del Paese e crebbe la forbice del divario.
Saraceno fu il primo a riconoscere, già dal 1957, che l'andamento dell'economia italiana, se pure si muoveva con la dinamicità prevista, lo faceva però in direzioni qualitative diverse rispetto alle indicazioni e agli obiettivi dello Schema.

"In sostanza, scriveva Saraceno, la congiuntura ha introdotto ne1Feconomia italiana potenti impulsi addizionali non previsti dallo Schema e tali da dar luogo, specie nel settore industriale, a elevati saggi di aumento degli investimenti e del reddito; ma la distribuzione regionale di questo progresso non è stata quella prevista dallo Schema, e, ciò che è più grave, l’esperienza compiuta sembra indicare che, prolungandosi l'alta congiuntura attuale, non può nascere nel Sud, ove manchino misure appropria te, un meccanismo di sviluppo adeguato alle esigenze di progresso della popolazione che vi n"siede".
Questi andamenti furono presi a supporto dell'idea che bisognasse riconsiderare i tempi dello sviluppo del Sud puntando nel breve periodo sull'emigrazione e, solo nel lungo termine, su uno sviluppo produttivo. Dai dati della prima relazione sull'attività di coordinamento, presentata al Parlamento da Pastore, venne la conferma che gli interventi infrastrutturali, sia ordinari sia straordinari, non erano, da soli, in grado di favorire una trasformazione della struttura produttiva. Gli investimenti nelle infrastrutture avrebbero potuto provocare effetti positivi di crescita nell'area interessata solo alla presenza di una capacità produttiva inutilizzata o di una contestuale crescita di nuova. In assenza di queste condizioni la spesa infrastrutturale avrebbe avuto la conseguenza prevalente di far aumentare l’importazione dall' esterno dell' area.
Coerentemente,  l'analisi della Relazione portava a questa conclusione: "La messa in moto di un meccanismo di sviluppo nel Mezzogiorno si appalesa sempre più come il risultato di una politica economica generale del Paese che la assuma come suo obiettivo primario e diretto".
Nonostante tutte le dichiarazioni solenni non si riuscì mai a  raggiungere una coerenza tra quanto era realizzato dalla Cassa e gli indirizzi generali delle varie politiche nazionali. L'idea dei "nuovi meridionalisti" non trovò accoglimento,  ma la tematica rimase nell'agenda della politica per lungo tempo con fasi e con soluzioni diverse.
Infatti, proprio la gestione della legge di proroga dell’intervento straordinario della Cassa, del 1965, mise a dura prova la possibilità e la capacità di addivenire a un’azione di sviluppo del Mezzogiorno che utilizzasse in modo coordinato tutte le politiche e tutti gli interventi.  Il piano di coordinamento, frutto di una stretta collaborazione tra ministeri diversi, costituì il primo e l’unico tentativo di arrivare a un' azione unitaria e coerente dello Stato nei confronti del Mezzogiorno.
Proprio questo tentativo più impegnativo dimostrò l'estremo difficoltà di arrivare a quel salto di qualità dell’azione dello Stato nei confronti del Mezzogiorno verso cui, fin dal 1950, ci si era incamminati. Da una parte, si dimostrò quasi impossibile far prevalere la priorità dello sviluppo del Sud rispetto agli interessi delle aree forti, senza continuare a rinviarne l'accelerazione secondo la logica dei tempi lunghi. Dall'altra, si pagò il ritardo di una riforma della Pubblica Amministrazione lungo le linee strategiche che avevano portato alla creazione della Cassa per il Mezzogiorno.
MIRACOLO FINITO

La riduzione del dualismo dell'economia italiana si stava bloccando. Ma la produzione automobilistica del Paese, anche grazie alla grandiosa rete di autostrade costruita dalla mano pubblica, era cresciuta dalle 113.000 unità, dell'anno del 1952, a oltre un milione di auto, prodotte nel 1963. Ma è proprio a partire dall'autunno 1963 che la macchina produttiva comincia a perdere colpi. Un anno dopo il saggio di crescita del PIL si dimezzò e l'inflazione, che era rimasta sempre al di sotto di quella francese, tedesca e britannica, toccò il 7,9%. Miracolo finito? Sulle cause di quella sorta di "piccola crisi" gli economisti hanno fornito versioni diverse: la fine del basso costo del lavoro, l'aumento troppo rapido dei consumi privati, il timore suscitato in una parte del mondo imprenditoriale dalla formazione del primo Governo di centro-sinistra.

La diffusione e l'intensità del dibattito culturale, all'interno dei partiti e sulle colonne dei grandi giornali, tuttavia, raccontavano che il Paese aveva la vitalità necessaria per superare quelle difficoltà. In effetti, la crisi del 1963 fu di breve durata. Il reddito riprese a crescere anche se non ai ritmi di prima. Il tasso di sviluppo del PIL continuò a essere superiore al 5%, fino al 1973, l'anno della prima crisi petrolifera mondiale. Sociologi ed economisti ci hanno dato la descrizione precisa dei mutamenti che intervennero, in un tempo breve, nel modo di vivere e di sognare degli italiani. Dalla Vespa alla Seicento. In un decennio, dal '61 al I '71, il parco macchine passò da 2,5 milioni a 10,2 milioni di automobili. I valori e la cultura della vecchia Italia rurale si affievolirono e poi svanirono, forse troppo rapidamente, nell'impatto con la nuova società di Massa. I salari aumentarono, ma si alzò anche la produttività e la capacità di innovazione delle imprese, lanciò la competitività internazionale del sistema industriale restò assai forte, fino agli inizi degli anni ottanta. Ma l'epoca d'oro, "il trentennio glorioso" dello sviluppo mondiale (e italiano) dopo la guerra, era alle nostre spalle. Il lungo conflitto est ovest aveva lentamente sfibrato l'economia mondiale; lo squilibrio tra il Nord e il Sud del mondo era diventato più marcato; le fiammate inflazionistiche e le crisi monetarie si erano susseguite dal 1971, da quando il governo americano aveva deciso di sospendere la convertibilità del dollaro in oro.
LA DEMOCRAZIA BLOCCATA
Su questo sfondo le contraddizioni italiane si facevano sempre più visibili. La nostra democrazia era di fatto bloccata dalla incapacità delle sinistre di costruire un'alternativa possibile. In Germania, il partito socialdemocratico aveva abbandonato l'idea della distruzione del sistema capitalistico fin dal Congresso di Bad Goderberg del 1959. In Italia, gran parte della sinistra restarono a lungo prigionieri di una sorta di "vetero marxismo" dal quale riuscirono a liberarsi, molto più tardi, con l'ascesa al vertice del Partito di Bettino Craxi e l'avvento di una nuova generazione di giovani dirigenti riformisti (Gianni De Michelis, Claudio Martelli). Negli anni sessanta, gli uomini di punta della politica economica del Psi furono Antonio Giolitti e Giovanni Pieraccini, ideatori di piani ambiziosi ma purtroppo anche astratti. Giolitti tentò invano di spingere le grandi imprese private a farsi carico dell'industrializzazione del Mezzogiorno; in assenza di risultati caldeggiò l'intervento massiccio delle partecipazioni statali, che furono obbligate a dislocare nel Sud il 40% dei loro investimenti.

Rispetto alla impostazione degasperiana venne introdotta una distorsione, giacché la libertà delle imprese pubbliche di operare sul mercato venne condizionata da un pesante e diretto intervento governativo. Insisto e mi spiego: De Gasperi e i suoi economisti Vanoni e Saraceno non avevano mai pensato che il modello delle partecipazioni statali italiano dovesse confondersi con le imprese statali delle economie colletti viste e neppure che dovessero somigliare alle imprese nazionalizzate dai governi socialisti in vari paesi d'Europa. L'impresa a partecipazione statale, pur avendo un azionista pubblico, doveva muoversi seconde le regole dell' economia di mercato, giacché, diversamente, non avrebbe neppure potuto affacciarsi sui mercati internazionali. Alle partecipazioni statali era affidata un'autentica missione: anteporre, alla logica del profitto ad ogni costo, gli interessi globali del paese e, nel Mezzogiorno, svolgere una funzione di stimolo volta a far nascere un tessuto di piccole e medie imprese private. Questo doveva avvenire con la formazione del cosiddetto indotto, le imprese satellite dei grandi insediamenti pubblici nei settori strategici della petrolchimica, della siderurgia e della meccanica.
Saraceno precisò in più occasioni che la spesa pubblica sarebbe stata orientata a coprire gli oneri impropri che le imprese a partecipazioni statali avrebbero dovuto sopportare nel Mezzogiorno per la carenza delle economie esterne. Ma il potere politico non avrebbe dovuto interferire nei loro progetti operativi che avrebbero dovuto, sempre, ispirarsi a criteri di mercato.
GLI ONERI IMPROPRI
Il punto delicato dello strumento "partecipazioni statali", in effetti, stava proprio nel rischio insito nella questione degli oneri impropri. Che la problematica degli apporti di capitale da parte dello Stato, a condizioni non di mercato e valutata approssimativamente a seconda degli oneri impropri che le aziende avrebbero dovuto sostenere per una localizzazione svantaggiata, destava una seria preoccupazione, soprattutto se la valutazione fosse stata affidata ai diretti gestori delle aziende, senza un rigoroso controllo. Questa prassi, scrisse Saraceno, avrebbe potuto generare una sorte di privilegio che può compromettere nel modo più grave lo sviluppo di un'economia di mercato e la stessa possibilità di vita alle industrie private; infatti, se le aziende pubbliche, alimentate da capitali direttamente dal Tesoro dello Stato o occultamente con altre fonti, perdono la nozione del costo del capitale e del rendimento che da esso si deve ottenere per sopravvivere, il loro comportamento sarà del tutto imprevedibile e tale da turbare e anche stravolgere il sistema dei criteri di mercato in cui operano. E se il settore delle aziende pubbliche, operante su basi così malsane, assume poi dimensioni di un certo rilievo, un'economia di mercato proclamata in linea di principio, non riuscirà, di fatto, a stabilirsi. Per di più la mancata nozione del costo del capitale potrà fare delle aziende pubbliche un centro di Costituzione politica".
In realtà, nel tempo successivo i vincoli e le direttive della politica mutarono l'impostazione culturale dell'intervento pubblico di matrice degasperiana. Si aprì la strada alla stagione della dilatazione delle partecipazioni statali e alla subordinazione di queste imprese al potere politico: nacque anche un Ministero, quello delle Partecipazioni Statali che, con i suoi poteri di vigilanza, soffocò l'autonomia imprenditoriale dei manager. Ricordo perfettamente che Pasquale Saraceno, spalleggiato da Raffaele Mattioli, cercò di evitare che le imprese elettriche fossero statalizzate e cercò di convincere i partiti di governo che la formula della "irizzazione", con una forte presenza di capitale privato, avrebbe corrisposto meglio alle esigenze di sviluppo, in senso moderno, dell' economia italiana.

Negli anni successivi, la degenerazione del sistema delle partecipazioni statali aprì la strada alle privatizzazioni e, quindi, all'abolizione progressiva di uno strumento fondamentale della politica economica, come l'esperienza di tanti altri paesi europei e le difficoltà poste dalla crisi attuale ci dimostrano. Vi sono state anche decisioni frettolose, come la privatizzazione della rete telefonica fissa e le poco oculate svendite, le cui ragioni e modalità restano ancora incomprensibili. l)i fatto, in qualche caso, i monopoli pubblici sono stati sostituiti con monopoli privati, senza benefici per l'economia nazionale e per i consumatori.

Oggi, da una parte, le società industriali a partecipazione statale fanno capo direttamente al Ministero del tesoro, destinatario di cospiqui utili (Eni, Enel, Finmeccanica) e responsabile della scelta degli amministratori. Dall'altra, le migliaia di società pubbliche regionali e locali, con le poche eccezioni nei settori dell'energia e dell'acqua, rappresentano l'interventismo pericoloso e inutile.

IL PROGRAMMA ECONOMICO NAZIONALE

Il Primo programma economico nazionale per il quinquennio 1967-1971, proposto al Parlamento dal ministro socialista Giovanni Pieraccini, è ricordato nei suoi diari da Pietro Nenni come una straordinaria vittoria del Psi (I conti con la storia, Milano 1983). Il leader socialista annotò anche: "Il difficile comincerà quando si tratterà di applicare il Piano". Infatti, i traguardi stabiliti da Giolitti, prima, e Pieraccini, dopo, rimasero in larga parte sulla carta.

La programmazione socialista si era trovata di fronte a un paese che stava attraversando una fase nuova rispetto a quella con la quale si era misurato lo Schema Valloni. Il disegno riformista socialista tuttavia non colse a pieno queste sfide ed entrò anche in conflitto con il "nuovo meridionalismo".

Oltre ad aver bisogno di far ricorso al tradizionale armamentario delle nazionalizzazioni, per poter affermare la propria attendibilità (vedi l'immediata nazionalizzazione della produzione e distribuzione dell'energia elettrica), il disegno socialista guardava, con una visione illuministica, alla necessità di porre rimedio, attraverso la spesa pubblica, a determinati squilibri sociali, insostenibili in un' economia e in una società industriale avanzata, con un rapido incremento dei consumi collettivi. Così facendo, non considerò le caratteristiche di disomogeneità e d'inadeguatezza delle stesse basi materiali, produttive e culturali del nostro sviluppo economico, nella sua espressione storica; caratteristiche che, se non modificate, avrebbero compromesso, come, di fatto, è avvenuto, lo stesso sforzo riformista. E per questa carenza il piano trovò il disaccordo dei meridionalisti e di Ugo La Malfa. Conciliare la necessità di una consistente crescita dei consumi, sociali e collettivi, per i cittadini, in specie per i lavoratori nelle aree forti del paese, e l'urgenza di una rapida accumulazione produttiva nel Sud, per creare in loco una domanda di lavoro adeguata. all' offerta, si era già dimostrata operazione complessa se tentata contestualmente.

Nessuno poteva e può negare né sottovalutare la grande complessità della questione di dover risolvere problemi che appartengono a stadi di sviluppo diversi senza avere una strategia complessa e concreta di bilanciamento. Fare scelte radicali e contrapposte non porta da nessuna parte.

Un importante giornalista italiano scriveva in quegli anni: "Noi abbiamo nello stesso tempo la pressione del ceto operaio tradizionale e le prime agitazioni di tipo svedese di un ceto intermedio che non accetta le tendenze a un livellamento economico. Nel Sud, abbiamo ancora l'alienazione pre-industriale e pre-salario che, per essere superata, ha bisogno di uno stimolo all'industrializzazione, ricca di entusiasmo e di vigore; fila, nello stesso tempo, al Nord, abbiamo una sottile e l'asta pubblicistica sull'alienazione postindustriale. Da Roma in giù abbiamo avuto anche la più massiccia inurbanizzazione prima che nascessero le industrie, ('on uno sviluppo psicologico e sociale della sovrastruttura in grande anticipo sulle trasformazioni della struttura economica come nell'America meridionale".

La programmazione socialista assunse la razionalizzazione delle infrastrutture, sociali e civili, e la regolarizzazione del successivo sviluppo di esse come condizione pregiudiziale al necessario sviluppo delle attività produttive e degli agognati processi di riequilibrio territoriale: ossia come elemento necessario di modifica dei meccanismi economici. All' opposto, le condizioni reali del Paese, anche alla luce dei cambiamenti che si profilavano nel sistema produttivo mondiale, postulando profondi processi di trasformazione produttiva dell’agricoltura e una rapida industrializzazione del Sud: ciò avrebbe dovuto dar luogo a un'ampia domanda di beni capitali che si sarebbe posta come termine di riferimento dell'evoluzione del sistema, determinando, in conformità, una diversa direzione dello sviluppo del reddito e dell' occupazione.

L’Italia non poteva ancora considerarsi, nonostante il rapido sviluppo industriale del dopoguerra, un paese a economia industriale matura e, pertanto, il miglioramento del nostro sistema economico, dal punto di vista dell' occupazione e del reddito pro capite, richiedeva un notevole accumulo di capitale nelle infrastrutture, nell'industria manifatturiera, nei servizi pubblici e nell'agricoltura. Per i meridionalisti quella del piano fu un' occasione perduta.

LO SMARRIMENTO DELLE FORZE POLITICHE
In questo contesto di politica economica, la spesa corrente cominciò a crescere a un ritmo pauroso e a prosciugare le risorse di bilancio. In quel tempo prese anche corpo, in un primo tempo silenzioso, il processo di erosione della legittimità delle forze politiche. La crisi partì dalla sinistra messa sotto tensione dalla competizione-scontro tra comunisti e socialisti e dalle frange che via via si staccavano da questi ultimi per alimentare i gruppi dell' estremismo extraparlamentare. Ormai, in molte fabbriche nelle assemblee si urlava:

"N é capi né poteri delegati". Per i partiti della sinistra ogni visione d'insieme risultava impossibile. "Il ricatto della sinistra extraparlamentare - scrisse Ugo La Malfa sulla "Voce Repubblicana" nell' estate del 1974 - sta condizionando, dal 1969, tutti gli sviluppi dell'economia e della politica italiana".

Nel 1973, mentre l'economia italiana attraversava ancora una fase di sviluppo, il disavanzo degli enti locali superava i 10.000 miliardi di lire (traduco per i lettori più giovani: circa 5 miliardi di euro di oggi), una somma pari all'ammontare presunto della tassa sul rientro dei capitali, varata nel 2009. E a questa cifra andava sommato il deficit delle aziende municipalizzate che era pari a 1,5 miliardi di vecchie lire.

La corsa cieca all'indebitamento cominciò quasi in "ordina nelle amministrazioni locali, con una miriade d'interventi caritatevoli e di assistenza, del tutto estranei alla visione moderna dello Stato Sociale che aveva caratterizzato la politica di De Gasperi.
Talvolta diventarono opprimenti, non sarò io a negarlo, le richieste di clientele politiche, sempre più inquiete e inappagate. Mentre si attenuava il disegno riformista e la politica imboccava la strada del velleitarismo più astratto, prendeva corpo, soprattutto in periferia, la corsa al debito pubblico e il rubinetto della spesa fu lasciato aperto, con conseguenze che duramente pesano ancora.
La vera politica meridionalista non ha avuta alcuna responsabilità  nella cosiddetta "caporetto" economica che subì l'Italia negli anni ottanta/novanta. Anzi, sostengo che il rigore dello Schema Vanoni, se non fosse stato vanificato dalle politiche successive, avrebbe fatto nascere nel Sud un sistema economico autopropulsivo lontano da ogni forma di assistenzialismo. Non credo che si sia trattato di una pura coincidenza: l’abbandono, di fatto, delle politiche volte a sanare il dualismo coincise con la crescita della spesa pubblica. L’individualismo più esasperato, che condusse a trasformare i consumi da bisogni in desideri, fece connubio con la spesa pubblica allegra. Quando, poi, il debito straripò, ci fu chi pensò di trovare uno sbocco nelle politiche del "tassa e spendi". Con la conseguenza d i fare ottenere all'Italia due primati: uno dei livelli di tassazione più alti d'Europa e un debito pubblico tra i più alti del mondo.
Ho sempre pensato che Giorgio Amendola avesse ragione quando sosteneva che il cosiddetto "sessantottto", il vento impetuoso della contestazione studentesca che proveniva dai campus americani e dalla protesta contro la guerra nel Vietnam, fu una rivolta destinata a incidere profondamente sui costumi e nei rapporti di forza tra le generazioni ma che il suo impatto sull'economia italiana fu assai modesto, mentre risultarono dirompenti le rivendicazioni operaie generalizzate del 1969. In una parola, non fu la sociologia di Herbert Marcuse ma il rifiuto della politica dei redditi da parte della base operaia ad aprire la strada alla crisi del nostro sistema produttivo.
LA FUGA VERSO L'UTOPIA
Per una singolare ventura, proprio di fronte al profilarsi delle difficoltà interne e internazionali che si aggravarono con la crisi economica del 1973, si manifestò un fenomeno, per così dire, di smarrimento delle nostre classi dirigenti, nelle quali vanno inclusi non solo i leader della politica e dei sindacati, ma anche gli intellettuali, i professori nell'Università e nella scuola, i capi d'impresa e perfino alcune frange della Chiesa. Non voglio generalizzare, ma ricordo che ci fu una specie di abdicazione collettiva rispetto alle responsabilità. E questo favorì la fuga verso i regni dell'utopia di una parte del sindacato e delle sinistre e la lievitazione sotterranea, sul versante opposto, di una subcultura nella quale si fusero elementi dell'anarchismo
Ottocentesco e dello stalinismo. Emerse così un fenomeno senza eguali nell'Europa occidentale contemporanea: il terrorismo, capace di attaccare il cuore dello Stato, raggiungendo proporzioni ben più ampie rispetto alle forme di eversione che si manifestarono in altri paesi, in Germania in particolare.

E mentre questo accadeva, intorno a noi fermentava un machiavellismo deteriore e continuava la pratica dei compromessi senza sbocco.
L’ATTUALITA’ DELLA "TERZA VIA" DEGASPERIANA
La politica degasperiana, nella quale si erano riconosciuti uomini di diversa formazione culturale e politica quali, Vanoni e Mattioli, Saraceno e La Malfa, Saragat e Pastore, Fanfani e Moro, era lontanissima dal liberismo antiquato e ottocentesco ma anche dal populismo collettivista e pauperista.
Il tempo trascorso consente, oggi, a tutti, una lettura lucida dei fatti. E proprio i fatti dimostrano che la politica degasperiana, che io considero il frutto di una felice collaborazione tra il riformismo d'ispirazione cristiana e quello d'ispirazione liberale e socialdemocratica, disegnò una sorta di terza via, tra l'estremismo liberista e il collettivismo statalista. Non si trattava di una mediazione tra due ricette opposte ma di una visione estranea alle suggestioni e agli schemi sia delle destre sia delle sinistre.
Mentre lo scontro tra le ideologie era in pieno svolgimento, l'idea degasperiana era già post-ideologica e poneva in modo pragmatico, ma non empirico, la questione di uno sviluppo legato ai bisogni e alla dignità della persona. Il capitalismo non era un peccato da espiare ma neppure la cattedrale della modernità. Era invece lo strumento più efficiente per organizzare la produzione e generare ricchezza. Ma questo richiedeva l'esistenza di mercati aperti, dove la concorrenza tra le imprese avrebbe potuto generare innovazione e vantaggi all'intero sistema.
Tuttavia, nella visione degasperiana, non si poteva pretendere che gli imprenditori avessero scopi diversi da quello del conseguimento del massimo profitto. E proprio questo rendeva necessario l'intervento pubblico nelle società moderne: per assolvere funzioni essenziali, dove la remunerazione del capitale poteva venire solo a tempi lunghissimi, e per impedire che il mercato fosse distorto dalle scorribande dei più furbi e dei più forti. D'altra parte, un capitalismo che non fosse stato in grado di garantire un benessere diffuso, di assicurare l'accesso di lutti all'istruzione, di far funzionare un sistema sanitario (si guardi, oggi, all'impegno di Obama per una tale riforma negli Usa) e di previdenza sociale, avrebbe fatto crescere, nella società, rancori e tensioni esplosive.
Oggi, pensando alle degenerazioni del cosiddetto capitalismo finanziario e all'autentica recessione suscitata dall'estremismo liberista, soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra, la terza via degasperiana ci sembra la bussola di cui la politica democratica ha bisogno per portare il paese fuori dalla crisi. L'ha scoperta chi, in questi anni, ha guardato con realismo alle sfide di un cambiamento globale.
IL MITO DELLA CALIFORNIA
La questione cruciale dello sviluppo del Sud è stata, fin dall'Unità d'Italia, e resta ancora oggi con tutte le difficoltà e possibilità, nel 2010, l'industrializzazione. Molti si sono anche chiesti se ci fossero alternative al tentativo di industrializzare il Mezzogiorno. Per parte mia, sono convinto che, ancora oggi, lo sviluppo del Sud sia legato alla diffusione dell'impresa e della cultura imprenditoriale che caratterizzano tutte le moderne società industriali.

Dopo la crisi del 1973 molti dubitarono sulla bontà della scelta dell'industrializzazione, se cioè questa fosse una tappa obbligata della modernizzazione del Mezzogiorno o se invece non sarebbe stato meglio indirizzarsi verso altre opzioni: l'agricoltura e/o il turismo. Correndo con la fantasia c'è stato chi ha pensato l' pensa, oggi, a una sorta di salto del sud direttamente all'economia post-industriale, dimenticando che senza una struttura manifatturiera è difficile ipotizzare una cultura dell'efficienza sistemica di un qualsiasi Paese.
Le polemiche sull'industrializzazione del Mezzogiorno iniziarono già alla fine degli anni cinquanta, quando la confindustria avanzò il timore che sorgessero nel sud impianti"doppioni", finanziati dallo Stato, rispetto a quelli già esistenti al nord.
Verso gli anni sessanta, quando il flusso dell' emigrazione verso il Nord cresceva con forte intensità, si aggiunse l'invito a rinviare a tempi lunghi ogni investimento industriale nel Sud e a concentrare tutta l'espansione industriale al Nord, avendo la possibilità di trasferire la manodopera disoccupata del Sud al Nord.
In verità, anche tra la vecchia classe dirigente del Sud c'è stata, su questa scelta, una certa tiepidezza. C'era anche la preoccupazione di perdere potere di fronte all'avanzare di un ceto operaio moderno e di una nuova borghesia imprenditoriale.

Pasquale Saraceno, con tutto il gruppo degli economisti che lavorarono al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno, denunciò con forza che il rifiuto di perseguire, nell'immediato, il passaggio da una politica di pre-industrializzazione (che era in sostanza una politica di opere pubbliche) alla molto più complessa politica di vera e propria industrializzazione, si sarebbe risolto in un grave spreco di capitale: di spreco, cioè, del fattore in genere più scarso in un Paese sottosviluppato. La politica di preindustrializzazione si sarebbe risolto in una politica per così dire "abortiva", nel senso che avrebbe aumentato il volume della spesa pubblica senza dar luogo a una corrispondente creazione di capitale produttivo. Questo era il nocciolo del dissenso tra coloro che sostennero la necessità di rinviare a un secondo tempo l'industrializzazione (per comprendere la serietà del confronto, vorrei ricordare, per tutti, Luigi Einaudi, uomo di forte rigore intellettuale), e coloro che chiesero una decisa accelerazione nei tempi del cambiamento (ricordo il generoso e realistico tentativo di Pastore).
LA SVOLTA INDUSTRIALE
Nonostante tutte le opposizioni, alla fine degli anni cinquanta, infatti, Giulio Pastore avviò con decisione la svolta industriale. Questa si fondò su tre fondamentali pilastri: la creazione di aree di sviluppo industriale su ('Ili concentrare gli insediamenti nella fase iniziale (puntando a realizzare dei forti poli di sviluppo), gli incentivi finanziari, fiscali e tariffari prima alle piccole imprese e poi anche alle grandi imprese e un programma di investimenti da parte delle partecipazioni statali, non solo delle produzioni di base ma anche in quelle di trasformazione manifatturiera.
Il primo pilastro fu la "traduzione", nel nostro Mezzogiorno, delle politiche regionali per l'industrializzazione e delle esperienze delle "aree speciali" inglesi, realizzate anche per l'impulso impresso dalla teoria dello sviluppo economico e dalla sua applicazione nel mondo. Ancora una volta la Svimez collaborò attivamente con ti comitato dei Ministri per il Mezzogiorno con gli Studi condotti da Alessandro Molinari e Carlo Turco. Agli inizi del novecento, in Italia, soprattutto nel Sud, vi erano alcune zone industriali, oggetto di particolari incentivi, che si erano dimostrate inidonee, non solo a muovere l'industrializzazione, ma anche ad affrontare il delicatissimo tema dell'inserimento di una nuova risorsa produttiva nel contesto di un territorio con un’urbanizzazione senza sviluppo.
Il nuovo concetto di area industriale rispondeva all’ originale impostazione economica, urbanistica e organizzativa degli strumenti per l’industrializzazione del Mezzogiorno.
Lo strumento delle aree industriali ebbe due obiettivi: attrarre investimenti dall'esterno, puntando sulla loro concentrazione territoriale e rendendo così massimo l’effetto delle economie di scala, e governare l'inserimento della nuova risorsa in un territorio privo di ogni "razionale" pianificazione del suo sviluppo complessivo. Eravamo di fronte ad una proposta un poco illuministica?
L'esperienza si è incaricata di dimostrare l'assenza diffusa di una capacità di pianificazione del territorio da parte degli Enti locali e di una capacità gestionale degli apparati tecnici e amministrativi cui, in pratica, fu affidato il successo delle aree di sviluppo industriale.
Fin dagli anni quaranta si era cercato di dare alla pianificazione urbana un quadro di riferimento con il cosiddetto "piano territoriale di coordinamento, che venne scelto come strumento della pianificazione delle aree di sviluppo industriale. Dei piani territoriali di coordinamento previsti dalla legge del 1942, a distanza di quasi venti anni, non esisteva traccia se non in alcuni studi preparatori, mai approdati a un'effettiva pianificazione territoriale.
Pur consapevole delle debolezze del sistema del governo locale, della carenza di cultura e di esperienza, il Ministro Pastore volle tentare, comunque, di dar vita ai consorzi di sviluppo industriale, che in alcuni casi predisposero anche eccellenti piani, aiutati da apporti tecnici esterni di particolare qualità. Ricordo, infatti, che a quel tentativo dettero il loro apporto i massimi esperti di urbanistica del Nord e del Sud, pur nella diversità dei propri ruoli, da Luigi Piccinato a Corrado Beguinot, per citarne due tra i maggiori. La scelta di raccordare l'inserimento su un territorio di una nuova risorsa, quale l'industria, attraverso la pianificazione della conseguente trasformazione del territorio stesso, anticipava idee e sensibilità verso uno "sviluppo sostenibile" che fu acquisito poi dagli anni a venire. La scelta fu tuttavia ostacolata in tutti i modi, sia dai mediocri pianificatori urbani, sia dall'apparato del Ministero dei l,avori Pubblici, geloso e improduttivo monopolista della materia "pianificazione urbana".
Gli enti consorti li mostrarono, però, tutta la loro inadeguatezza sia a livello della promozione degli investimenti che della attuazione dei piani e della gestione delle opere. Perciò, alla lunga, riuscì impossibile - cito Saraceno - il "tentativo di mettere a profitto le esperienze già fatte in altri Stati federali per unificare, attorno ad obiettivi di governo del territorio per la promozione dello sviluppo, i poteri delle autorità centrali e degli enti di autonomia locale". Esiste ancora oggi nel Sud una presenza di consorzi industriali ma il loro apporto è, a dir poco, desolante.
Il secondo pilastro, strettamente legato al primo, fu la decisione di estendere alla grande impresa gli incentivi inizialmente previsti solo per le piccole imprese locali. Si trattò di una decisione che ebbe effetti concreti. E’ difficile, infatti, negare, in sede di valutazione storica, che la decisione fu giustificata e segnò un progresso decisivo. In realtà, prima delle leggi del 1959 e del 1962 l'avvio della politica d'industrializzazione era così limitato e circoscritto che il sostegno alla piccola impresa poteva, con ragione, essere ancora iscritto all’interno di una concezione legata alla pre-industrializzazione, alla creazione delle precondizioni di un processo di crescita industriale.
Certamente, il tema degli incentivi, quelli che sono stati chiamati nell'era del liberismo "aiuti di Stato", è estremamente controverso ed è stato oggetto di demonizzazione assoluta. Tuttavia, in molte esperienze, anche fuori dal nostro paese, gli incentivi fiscali temporanei, automatici e non discrezionali (esenzione sui redditi non distribuiti e destinati agli investimenti), hanno dimostrato efficacia e trasparenza.
Mi sono già soffermato a considerare il terzo pilastro, Mi sono, quello più delicato ma anche il più significativo, degli interventi diretti delle partecipazioni statali. Si è molto interventi intorno all'utilizzo delle partecipazioni statali  nell'avvio del processo d'industrializzazione nel Statali nel Mezzogiorno.
STATO E MERCATO NELLO SVILUPPO INDUSTRIALE
Quando si affronta il tema del ruolo dell'impresa pubblica, è bene aver sempre presente l'iter del processo d’industrializzazione nei Paesi arrivati per ultimi a tale stadio molto spesso s'ignorano questi itinerari e si fa riferimento solo al modello classico, quello inglese, fondato sull’accumulazione primitiva all'interno delle attività. Se si esclude questo modello, nessuna esperienza  successiva trovò, all'interno del funzionamento del mercato, gli stimoli al cambiamento. In tutti questi casi le imprese ricevettero dall'esterno due sostegni.
Il primo sostegno fu di tipo pubblico, costituito essenzialmente dalla  protezione doganale, la cui funzione fu di sospendere, in certi ambiti e per certi periodi, la concorrenza mondiale, per poterla poi riprendere nel quadro dei Paesi capitalistici, a un livello più alto di accumulazione di capitale e di tecniche produttive.  
Il secondo sostegno fu interno al mondo privato ma esterno all'industria e costituito dalla cosiddetta "banca mista". Questo tipo di aiuto (protezione e banca mista) sta comunque a indicare che il modo di produzione capitalistico non è stato in condizione di espandersi per sola forza propria sul piano territoriale neppure quando, nella metà del secolo XIX, le tecniche da introdurre erano più semplici e i fabbisogni di capitale più modesti di quanto non si sono presentati nei Paesi, e nel nostro caso nel Mezzogiorno, al momento di avvio dell'industrializzazione.
All’avvio dell'industrializzazione del Mezzogiorno, Saraceno ricordava agli smemorati che: "La storia dei paesi industrializzati ci pone di fronte non soltanto alla correzione del meccanismo tipico del capitalismo, conseguente all'azione sindacale e alla politica Keynesiana, ma anche a quelle correzioni dirette a rimediare le insufficienze delle imprese nei casi in cui queste hanno dovuto superare lo svantaggio di un ritardo nell’inizio di un processo d’industrializzazione.
Nella seconda metà degli anni cinquanta, per lo sviluppo industriale del Sud, non si potette far ricorso a misure di tipo protezionistico che, in quel momento storico, erano oltre che impossibili anche negative per I loro effetti concreti. Tra l'altro, l'Italia aveva scelto, proprio in quegli anni, la strada della liberalizzazione degli scambi e della costituzione di un mercato comune europeo. È anche bene ricordare che i meridionalisti ritennero che, nelle nuove condizioni dell'economia mondiale, bisognasse far affidamento non sui sostegni alla produzione (vedi protezionismo) ma su forme di riduzione del costo degli investimenti e soprattutto sul ricorso alle forme di una temporanea partecipazione dello Stato al capitale delle imprese.
Al sistema delle partecipazioni statali si chiese un impegno specifico, sia pure limitato nel tempo, per la nascita dell'industria nel Mezzogiorno.
LA SCOMPARSA DELL'ITALIA INDUSTRIALE
Come si presenta il Sud all'esplodere della crisi del 1973? La risposta implica proprio un'analisi dei risultati positivi e dei limiti dell'industrializzazione del Mezzogiorno tra la fine degli anni cinquanta e l'inizio degli anni settanta.
La dinamica complessiva dell'industria meridionale in quegli anni è tale da far parlare per la prima volta, dai tempi dell'unità d'Italia, di spostamento del bari centro verso il Sud.
Il rapporto percentuale Mezzogiorno/Centro Nord negli investimenti per abitante registra, per la prima volta in assoluto, un accorciamento di distanze; il rapporto medio b-a i tassi d'investimenti totali passa dal 63% del periodo 1957/1963 al 76,3% del 1964/1970, con un guadagno di oltre tredici punti da parte del Mezzogiorno rispetto al Centro Nord. Nel frattempo, la crescita degli investimenti  in macchinari e attrezzature è ancora più accentuata, aumentando il rapporto dalla media del 43,3% nel 1957/1963 a quella del 68,9% nel 1964/1970, con un incremento di circa venticinque punti. Nel b-iennio 1970/1973 il rapporto sale al 74,3% per i macchinari e attrezzature e quello in investimenti totali all'89,1%". È una crescita capace di indurre uno spostamento significativo nella configurazione occupazionale e produttiva nel Mezzogiorno e nell’accorciamento delle distanze dal Nord.
Ho più volte rilevato che questo incipiente processo di industrializzazione rallenta e si arresta intorno alla fine degli anni settanta a seguito dell'improvviso incremento del prezzo del petrolio e di altre materie prime. Bisogna però anche considerare come in quegli anni registrai l'avvio di un processo di deindustrializzazione che segnerà l'emarginazione del nostro paese da alcune produzione d'avanguardia delle nuove tecnologie informatiche  e di comunicazione.
C’è un dato che resta acquisito: le grandi produzioni di base cominciano sempre più a localizzarsi in prossimità dei  centri di estrazione delle materie prime; nella quasi totalità dei casi ubicati in Paesi in via di sviluppo in grado, quindi, di beneficiare anche del minore costo del lavoro.
LA CHIUSURA DELLE FABBRICHE
Nel Sud, gli impianti delle partecipazioni statali, nei settori petrolchimici e siderurgici, sono chiusi o privatizzati (oggi alcuni impianti privatizzati continuano a produrre con margini di profitto positivi). La chiusura degli impianti non riguarda, però, solo l'acciaio e la petrolchimica, essa investe anche altri settori. Parlando della scomparsa del polo campano, Guido Pescosolido l’ha  così definito: "Un insieme industriale di ragguardevole consistenza, volano di una numerosa pattuglia d'imprese straniere inglesi, francesi, svizzere e americane, le quali vennero a rafforzare realtà già preesistenti, in settori di più antica tradizione e a crearne di nuove nel settore dell'elettronica e delle telecomunicazioni" .

Pur esistendo l'alternativa del Sud, in questi stessi anni, gli imprenditori italiani, compresi quelli meridionali, scelgono di localizzare le loro produzioni manifatturiere nei Paesi in via di sviluppo o in quelli dell'area balcanica, ancor prima della caduta del Muro di Berlino. Vorrei notare, come anche per il più generale processo di deindustrializzazione italiano, la reazione dei governi e delle forze sociali alla chiusura degli stabilimenti nel Sud è estremamente contenuta, per usare un'espressione diplomatica. Anzi le chiusure danno nuovi argomenti agli antichi oppositori dell'industrializzazione. Si alimenta la tesi di un Mezzogiorno che potrebbe saltare la fase dell'industrializzazione per approdare direttamente a un' economia dei servizi e della finanza, lasciando ai Paesi in via di sviluppo le produzioni manifatturiere. La tentazione che viene dall'Inghilterra, di un' economia dei servizi, affascina i "meridionalisti di acqua dolce". Il sogno di un Mezzogiorno che diventa la California agricola, turistica dei servizi, sembra di possibile e di facile realizzazione.
Ho trovato sempre grandi difficoltà a contrastare il fascino di questo sogno anche perché l'industria manifatturiera è spesso brutta, anche inquinante, ma soprattutto richiede fatica.

Quando con Pasquale Saraceno passeggiavamo per le strade intorno a via Veneto, la storica sede dell'Iri, lui mi ripeteva sempre quello che con grande lucidità aveva più volte scritto: "Nel secolo XXI, non meno che

Nei due secoli precedenti, un paese che non possegga una grande industria manifatturiera, l'industria in senso stretto, rischia di diventare una sorta di colonia, subordinata alle esigenze economiche, sociali e politiche (li altri paesi che tali industrie possiedono". Gli inglesi e soprattutto i londinesi della city non avevano creduto l'opposto e forse oggi qualche dubbio cartesiano penso debbano nutrirlo.
Alla fine non fu solo il Mezzogiorno a pagare il prezzo del proprio mancato sviluppo: fu l'Italia nel suo complesso che vide drasticamente ridimensionato il suo mercato interno e ridotto il suo saggio di crescita, perchè il Sud non cresceva più.
Come ho notato prima, nel Mezzogiorno cominciarono a  chiudersi quegli impianti facenti parte dei settori industriali quest'ultimo aveva occupato, a lungo, un posto di primo piano a livello mondiale, anche per il fatto di essere arrivato prima degli altri. Infatti, gran parte di queste produzioni si era localizzata nel Sud: dall’indirizzo, a Rieti, alla Campania, Caserta, Napoli e Salerno, alla Sicilia. In un breve ma documentato saggio "La scomparsa dell'Italia industriale" Luciano Gallino, uno dei nostri più acuti sociologi, sottolineava come non sia "impresa da poco aver lasciato scomparire interi settori produttivi, nei quali si è stati tra i primi nelle classifiche internazionali; non aver colto né aver l’aria di saper cogliere, le opportunità per diventarlo quelle dove esistevano le risorse tecnologiche e umane per farlo. Il tutto in pochi decenni. Tale complessa operazione è stata condotta da imprenditori, top manager, uomini politici affiancati dai loro consiglieri economici”.

Più tardi, nel 2002, la Commissione della Comunità economica Europea, in una sua comunicazione, dopo aver registrato che la quota dei servizi nella produzione dell'Unione Europea era passata dal 52% del 1970 al 71 % nel 2001 mentre, nello stesso periodo, la quota dell'industria manifatturiera era diminuita dal 30% al 18%, denunciava che" che per effetto di questa terziarizzazione i responsabili politici non hanno osservato sufficiente attenzione alla industria manifatturiera, sulla base della diffusa ma erronea convinzione che nella economia basata sulla conoscenza e nelle società dell'informazione e dei servizi l'industria manifatturiera non svolga più un ruolo essenziale".
A rileggere oggi simili rapporti mi viene in mente quante volte i meridionalisti d'acqua dolce, molti della sinistra riformista, mi parlavano dell'industrializzazione del Mezzogiorno come di un errore strategico perché, dicevano: "L'industria appartiene al passato; il presente e, ancora di più, il futuro costituiranno il dominio dei servizi, del post-industriale" vale a dire:
"Che cosa importa se non produciamo né computer, né cellulari".
Peccato che abbiamo perso, così, la possibilità di essere presenti nella produzione su larga scala con computer progettati e fabbricati da una delle aziende italiane più avanzate e conosciute nel mondo che l'Italia abbia avuto: l'Olivetti di Ivrea! Nemmeno dovremmo preoccuparci più di tanto se quanto resta dell'industria manifatturiera dovesse cadere, in toto o per la maggior parte, in mano straniera, com' è avvenuto a suo tempo con gli elettrodomestici. Basta assicurarsi (su questo punto i commentatori non chiarirono in verità con quali mezzi) che i nuovi padroni tengano aperti gli stabilimenti esistenti, o ne costruiscano dei nuovi, in modo da mantenere alti livelli locali di produzione, di occupazione e di salario.
Non credo proprio che le cose siano andate così!

LE DIFFICOLTA’  A FRONTEGGIARE LA SFIDA DELLA MODERNITÀ
Ancora una volta, in quegli anni, si manifestò chiara l’antica difficoltà, del sistema italiano e dei suoi protagonisti, imprenditori e sindacalisti, a prendere atto delle nuove condizioni esterne della competitività internazionale.  
Si cominciò a capire in ritardo che, nel mercato globale si andava delineando, la concorrenza non si sarebbe sviluppata solo tra le singole aziende ma tra i sistemi economici di ciascun Paese. Certamente, occorrevano politiche industriali di forte sostegno alla ricerca e all'innovazione ma era anche il tempo di riformare le istituzioni politiche e quelle dell' economia, il funzionamento del mercato del lavoro e dello stato sociale per far fronte alla sfida competitiva che veniva dai paesi emergenti.
Questa è la pagina più incomprensibile della politica italiana. Prima ancora che cadesse il muro di Berlino questa esigenza di riforme era nata proprio all'interno di quella parte della società italiana più esposta in quel momento alla competizione globale.

La leadership politica democristiana e socialista non 'il PIH' cogliere il carattere decisivo di quella sfida di cambiamento e fecero prevalere piccoli interessi di partito sui grandi interessi del Paese: di qui l'origine vera della decadenza della politica in fine secolo. Prevalsero le antiche paure al cambiamento.
La Costituzione era considerata intoccabile anche in quella seconda parte la cui formulazione era molto legata alla condizione politica delle due grandi coalizioni politiche (centrismo e sinistra) che, nel 1947, non sapevano ancora chi avrebbe vinto la sfida decisiva della libertà nelle elezioni politiche dell'aprile 1948. Infatti i compromessi sulla forma di Governo, sugli equilibri tra i poteri dello Stato come altri, se letti con attenzione, rivelano quanto quell'incertezza sull'esito elettorale del 1948 abbia condizionato la formulazione di quella parte della Costituzione.
La fine degli anni settanta costituiva anche il momento giusto per superare quella condizione che aveva portato al monopolio pubblico del collocamento e alle rigidità del mercato del lavoro; come, pure, per riformare lo stato sociale in funzione di quelle che s'intravedevano, essere le nuove dinamiche sociali.
Non posso dimenticare la sconfitta che subii con la mia proposta di riforma delle pensioni nel 1978 quando, dopo essere riuscito ad ottenere l'assenso dei sindacati (operazione non facile), arrivai in Parlamento e mi trovai il fuoco di sbarramento delle tante e non piccole frange di partiti e delle grandi e piccole corporazioni.
Negli anni più recenti ho sentito ripetere tante volte che, se quella proposta fosse stata accolta, non avremmo avuto bisogno di continuare a discutere inutilmente di riforma.
Allora, però, cominciarono i dirigenti, i magistrati, giornalisti, i diplomatici e gli iscritti ai diversi fondi a rifiutare l'idea di un unico sistema di pensione obbligatoria, con limiti di tetto contributivo e delle pensioni ,oltre le quali sarebbero dovute entrare in funzione le forme integrative libere e con regole uguali, senza privilegi di casta.
Mi si potrebbe chiedere perché in un piccolo saggio sul Sud introduco anche questi argomenti.
Questa domanda, specie se è posta da un cittadino del Sud, mostra il limite di un'impostazione rivendicazionista che non percepisce il carattere decisivo che le grandi questioni della modernizzazione del Paese potrebbero avere sullo sviluppo del Mezzogiorno.
Il "Nuovo meridionalismo" ha avuto il grande merito di rilevare quanto forte sia il legame tra la modernizzazione del Paese e il riscatto del Mezzogiorno.
LA FINE DELL'INTERVENTO STRAORDINARIO
Ritorniamo tristemente alla fine dell'intervento straordinario. L'arresto del processo d'industrializzazione accelera la fine dell'intervento straordinario concepito nel 1950. L'involuzione della politica per il Sud si ebbe negli anni ottanta fino all'abolizione della Cassa con il referendum degli anni novanta.
Le scelte fondamentali, quella della coerenza delle politiche nazionali, quella della realizzazione di complessi organici di opere pubbliche da parte della Cassa per il Mezzogiorno e quella della industrializzazione, occorre dirlo, non hanno mai trovato un vasto consenso neanche nel Mezzogiorno.

Per quasi venti anni la Cassa per il Mezzogiorno non venne mai meno alla sua missione di programmare e attuare interventi infrastrutturali di rilievo strategico per la crescita economica e sociale e, quasi sempre, a carattere interregionale. Tuttavia, già in occasione dell'approvazione della proroga dell'intervento straordinario del 1965, si autorizzò la Cassa a intervenire per la dotazione di servizi civili in tutti i Comuni particolarmente depressi. Veniva, in tal modo, messa in discussione la stessa ragione d'essere dell'intervento straordinario, estendendo l'azione della Cassa in ambiti propri dell'intervento ordinario.
Questa estensione d'intervento (a pioggia) aveva una sua ragion d'essere, in un certo senso, dinanzi al ridursi della spesa ordinaria nel Sud.
Le crescenti difficoltà della finanza pubblica, gravata dal costo abnorme del servizio del debito pubblico (a causa degli alti tassi d'interesse specie dopo il divorzio tra Tesoro e Banca d'Italia, che portò il Tesoro a dover sottostare alle richieste dei grandi finanziatori istituzionali senza avere paracaduti come è avvenuto in altri paesi), portarono a tagliare gli investimenti ordinari nel Sud con la scusa che al Sud c'era la Cassa che avrebbe potuto compensare la riduzione della spesa ordinaria. In tal modo era eluso il fondamentale principio che la Cassa doveva apportare risorse aggiuntive rispetto a quelle ordinarie e non sostitutive.

Se la Cassa doveva far fronte a esigenze "ordinarie", allora non c'era ragione che la Cassa dovesse continuare ad avere la sua autonomia e restare fuori dalla pubblica amministrazione e dal sistema istituzionale delle Regioni.
LA CASSA SVANISCE
Con la seconda parte degli gli anni settanta, la Cassa inizia a perdere la sua identità e le sue funzioni in primo luogo con il venir meno, non solo in termini quantitativi,  ma anche qualitativi, della natura dei suoi interventi (complessi organici di opere a carattere intersettoriale e interregionale) e, in secondo luogo, con la frammentazione del suo disegno unitario di far alle esigenze infrastrutturali che andavano soddisfatte , con opere che superavano, normalmente, i confini amministrativi di una singola regione.
Si introduce, nella legge di proroga del 1975, un nuovo approccio che supera la visione unitaria del Mezzogiorno e s'indirizza la sua spesa verso interventi per progetti locali - definiti progetti speciali di sviluppo. Fino a quel momento, la Cassa si era sempre rifiutata di programmare opere che non avessero una portata che superava i confini di una singola regione. Il Mezzogiorno, pur con le sue interne differenze di crescita, restava un'entità territoriale, economica e sociale,  che andava considerata nella sua unità. Per questo, nel 1957, quando l'Italia promosse il Mercato Comune Europeo, si sottolineò che tutto il Mezzogiorno aveva caratteristiche economiche e sociali che richiedevano un'unitaria azione di sviluppo. E conseguentemente, il Trattato definì lo sviluppo del Mezzogiorno come responsabilità comune dei sei paesi fondatori della Comunità.

Giulio Pastore, ancora nel 1965, in continuità con una scelta fatta da De Gasperi all'atto della costituzione della Cassa (si pensi ai due primi Presidenti, entrambi provenienti dalla magistratura amministrativa) e con la determinazione tipica del suo temperamento di "uomo da battaglia", resistette a ogni pressione e rifiutò la logica della rappresentanza locale e di quella dei partiti e fece nominare, nel consiglio di amministrazione della Cassa, le migliori espressioni del nuovo meridionalismo quali, Pasquale Saraceno, Manlio Rossi Doria, Francesco Compagna, Giovanni Marongiu, Michele Cifarelli, Anna Di Lauro Matera, Sandro Petricccione e Gabriele Pescatore come Presidente.
IL REGIONALISMO NEL MEZZOGIORNO
Con l'istituzione dei Governi regionali, ma già prima con la costituzione dei Comitati regionali per la programmazione economica, crebbe la richiesta di una regionalizzazione degli interventi della Cassa, una ripartizione "equa" della spesa sul territorio, una copertura di tutte le aree meridionali senza concentrazione d'interventi. La spesa straordinaria era stata concepita come l'elemento di rotlllra dell'arretratezza: quando si fece il piano degli acquedotti, con una visione integrale dei fabbisogni complessi, partendo dalla captazione fino alla distribuzione, si guardava all'unità dl Mezzogiorno. L'acqua, proveniente da un determinato luogo, doveva essere destinata a usi diversi nelle differenti realtà amministrative, regionali o locali, e doveva essere distribuita in modo da soddisfare il fondamentale bisogno idrico di tutto il Mezzogiorno,
La stessa logica strategica fu adottata per il programma generale della bonifica e della valorizzazione dell'agricoltura meridionale, con l'espansione delle aree irrigabile cambiarono tanto del paesaggio agrario del Sud. Analogamente, si procedette nel settore dei trasporti e delle comunicazioni, con una visione che poi sarebbe stata chiamata intermodale.
La fine di una strategia unitaria del Mezzogiorno e la regionalizzazione della spesa avrebbero, come, in effetti avvenne, non solo fatto sparire un intervento straordinario volto ad aggredire l'arretratezza di un vasto e unitario territorio, ma avrebbero anche portato alla richiesta di un controllo politico della Cassa da parte dei Governi regionali.
Questo cambiamento avvenne sfortunatamente quando il mutare delle condizioni dello sviluppo fuori del Sud e del Paese, di fronte alle sfide globali, avrebbe richiesto invece un rafforzamento della strategia unitaria per affrontare i cambiamenti, coglierne le opportunità e contenere i pericoli.
I richiami che fece la Svimez, attraverso Saraceno e Compagna in modo particolare, rispetto ai pericoli dell’introduzione del regionalismo nell'intervento straordinario, in una fase nella quale il Mezzogiorno aveva ancora bisogno di mantenere forte la sua unità come questione nazionale, furono classificati come atteggiamenti conservatori. Cominciava a farsi strada la teoria della "macchia di leopardo", con i cento progetti di sviluppo, e a decretarsi la fine della questione meridionale è stata la scelta più sciagurata che il Mezzogiorno potesse fare e che, in un ventennio, ha portato alla scomparsa dall'agenda politica del Paese del problema del dualismo economico tra nord e sud e,all’opposto, al consolidarsi, anche tra le forze politiche, del problema legato a una "questione settentrionale". Invano i nuovi meridionalisti difesero con vigore la necessità che, anche alla presenza delle Regioni, fosse necessario mantenere l'unitarietà del Mezzogiorno. Fu in quell' occasione che, ricordo, qualcuno fece notare, in modo assolutamente corretto, che anche in una confederazione come quella gli Stati Uniti d'America, quando si dovette affrontare la grande crisi del 1929, si fece ricorso a "interventi e strumenti federali" (come nel caso della Tennesee Valley Autority e delle altre grandi agenzie federali), create ad hoc per interventi che superavano la dimensione del territorio di un singolo Stato.
La rappresentanza meridionale nel Parlamento non mantenne la sua unità e ciascun parlamentare si concentrò esclusivamente sui bisogni particolari della propria terra, cercando solo di raggiungere accordi trasversali e di scambio con colleghi di altri territori. Si perse così il senso della comune battaglia per il Mezzogiorno.
Per contro, stava nascendo e consolidandosi una "questione settentrionale" che avrebbe dato ampio spazio non solo alla "lega Nord" ma, intorno a questa, a un vigoroso senso di appartenenza di gran parte della popolazione, fino a rendere prioritari, nella politica italiana, bisogni e diritti del Nord e fino a cancellare quelli meridionali.
Oggi, nel Governo nazionale, c'è una presenza quasi totalitaria di Ministri espressione del Centro Nord (tutti i ministeri chiave sono diretti da uomini del Nord). Cresce così il senso di esclusione del Sud. E nel Parlamento non c'è traccia di una battaglia meridionalista se non la proposta di un piccolo gruppo che però  non riesce mai a pesare e a coinvolgere l'intera rappresentanza del Sud. Questa è una situazione che dovrebbe preoccupare tutti e, in primo luogo, chi lavora a organizzare il centocinquantesimo anno dell’unità d'Italia.
CASSA SI CASSA NO
Già in occasione della proroga dell'intervento straordinario, nel 197 5, si aprì il dibattito, del tutto semplicistico, tra favorevole e contrari alla Cassa, che alcuni volevano trasformare in un'Agenzia delle Regioni. Il Compromesso portò ad abbandonare la filosofia dei complessi organici di opere pubbliche per abbracciare l’idea dei progetti speciali regionali, nei quali la Cassa avrebbe dovuto realizzare ogni tipo di opera pubblica, trasformandosi in un'istituzione congiunta tra Stato e Regioni, con un consiglio di amministrazione formato da rappresentanti dei medesimi.
In quegli anni era diventata abituale la lottizzazione di tutte le  cariche pubbliche tra i partiti di governo. Una sorta di manuale, redatto da un funzionario della DC, Massimiliano Cencelli, che fissava rigidi criteri attraverso i quali si procedeva alla spartizione. La gestione della Cassa non sfuggì a questo sistema nefasto. In tal modo si fece saltare quell'equilibrio, tra direzione politica e autonomia gestionale, che il legislatore, nel 1950, aveva saputo intelligentemente costruire: un potere politico responsabile delle scelte strategiche, proposte dalla Cassa, e, quest'ultima, responsabile con piena autonomia della loro attuazione.
La Cassa perse autonomia e diventò sempre più esecutrice di una volontà politica che non si fermò più all'approvazione dei piani e dei programmi ma che entrò nel merito dei singoli progetti e dei relativi modi di attuazione, arrivando fino alla scelta del personale "minuto".
LOCALISMO SENZA ORIZZONTE
Intanto, anche a livello europeo, si faceva strada l'idea che lo sviluppo, il futuro, risiedesse in un "localismo senza orizzonti". Si celebrava, con il concorso di economisti famosi, la morte dell'approccio sistemico e s'immaginava che i problemi potessero essere risolti attraverso la somma di tante e diverse questioni locali. Oggi appare sorprendente che, alla vigilia di fatto della globalizzazione, le teorie dello sviluppo regionale in Europa si fossero tradotte nell'impiego d'ingenti risorse destinate a progetti locali sempre più diversi e fantasiosi, senza alcuna strategia che rispondesse alle sfide del cambiamento globale. Anzi: più si avvertivano le avvisaglie della dimensione globale più ci si rintanava nella falsa sicurezza del "localismo senza orizzonti". Fu allora che certi sociologi immaginarono un Mezzogiorno a macchia di leopardo e diedero fuoco a tutte le polveri della fantasia per assegnare un nome a questo nuovo Sud. Fu così che i politici locali trovarono la copertura culturale per appropriarsi delle cospicue risorse pubbliche comunitarie e spacciare, spesso, per grandi progetti di sviluppo, tante opere clientelari.
Nacque una specie di nuovo terziario, quello delle consulenze economiche, o giuridiche, o generiche, o sociologiche, destinate a dare dignità, o apparente decenza, alle operazioni clientelari. La criminalità organizzata e i corruttori di tutte le risme ricavarono un vantaggio da questa moltiplicazione dei centri della spesa pubblica.
LA DEBOLEZZA DEL MERIDIONALISMO
E’ impossibile non ammettere che il pensiero meridionalista mostrò in quegli anni tutta la sua debolezza e non fu in grado di reagire all'intenso fuoco di artificio ,alimentato dalla sub-cultura del localismo. E soprattutto, a mio avviso, non si accorse che rinunciare alla battaglia sul "Mezzogiorno" avrebbe lasciato il campo libero per l'inserimento, nell'agenda politica nazionale della questione settentrionale".
I Paesi fondatori dell'Europa avevano visto nello squilibrio territoriale in Italia un punto debole per la solidità dell’edificio europeo ed era per questo che il problema del Mezzogiorno era diventato problema europeo. L'avvento delle visioni localistiche, invece, indusse a trattare le singole Regioni meridionali alla stregua di tutte le altre Regioni europee e a distribuire i soldi comunitari sulla base di parametri economici che, come l'esperienza ha dimostrato, non rappresentano le effettive dinamiche dello sviluppo.
Una Cassa per il Mezzogiorno, ricondotta all'interno della struttura ordinaria della tradizionale pubblica amministrazione, non aveva più senso ma continuò a sopravvivere fin quando un referendum popolare non ne decretò giustamente lo scioglimento. Con il referendum, quello che è restato nella memoria degli italiani, ma anche di quella di altri paesi, non è la Cassa della prima fase ma quella della decadenza. E questo ha recato un grave danno al Sud. La Cassa è diventata sinonimo d'interventi clientelari a pioggia, d'inefficienze e di opere incompiute. Mi sono sempre chiesto che fine abbiano fatto i tanti completamenti delle opere iniziate dalla Cassa prima del suo scioglimento e in quale scantinato di quale Ministero siano stati portati i faldoni della documentazione. Mistero dei Ministeri e altri misteri!
IL "REGNO" DEI CENTO PROGETTI
Devo confessare che ho fatto molta fatica, in questi ultimi venti anni, a leggere alcuni dei tanti piani, dei tanti progetti dai nomi più diversi. Mi è stato difficile capire i sottesi obiettivi concreti e il loro rapporto con una visione complessiva dello sviluppo del Mezzogiorno. E ogni volta dimenticavo che il quadro di riferimento "Mezzogiorno" non c'era perché non si voleva che ci fosse. Eppure, proprio in questo periodo, il cambiamento esterno avrebbe richiesto una seria programmazione strategica per lo sviluppo del Mezzogiorno, e non solo nel contesto dell' economia nazionale, ma in modo da collegare ai nuovi scenari dell'economia globale lo sviluppo che s'intendeva perseguire nel singolo territorio considerato.
Essendoci lasciati alle nostre spalle l'intervento straordinario e la politica d'industrializzazione, siamo infine entrati in una fase caratterizzata da un'enorme massa di strumenti, varati di volta in volta, per gestire risorse finanziarie provenienti principalmente dallo Stato e trasferire in parte alle regioni ovvero dai Fondi Europei. Tanti e nuovi strumenti con tante e nuove procedure, sempre gestite in maniera conflittuale, che hanno dilatato enormemente i tempi della cosiddetta programmazione riducendo l'operatività delle fasi di realizzazioni degli interventi e facendo perdere la capacità di allocare, sul territorio, risorse utili alla razionalizzazione dell'armatura urbana e allo sviluppo del capitale fisso sociale.
E’ nota la scarsa capacità di realizzazione che ha sempre contradistinto il Mezzogiorno (e non solo) ne è la prova, la consistente crescita dei residui passivi per i ritardi connessi alla realizzazione di pubblici investimenti, forse causati anche dall'accavallarsi di differenti quadri normativi e procedurali che non hanno mai tenuto conto del concreto funzionamento della macchina pubblica e nemmeno previsto modo e tempi per cambiarla e renderla più agevole.
E’ difficile descrivere la complessa "architettura istituzionale” che ha caratterizzato e caratterizza tuttora l’esperienza delle forme di sviluppo locale. Forse i diversi strumenti di programmazione avrebbero dovuto contribuire a rendere efficaci gli interventi da realizzare. In concreto, però, tali strumenti hanno operato senza tener conto della dinamica dell'economia mondiale nella quale, oggi, gli enti locali e le singole imprese sono obbligati a operare. Leggendo molte delle tante pagine della cosiddetta pianificazione territoriale si constata facilmente come questa non sia quasi mal riuscita (tranne qualche rarissima eccezione) a diventare una vera cornice strategica del quadro operativo.
L'ALBERO DELLA CUCCAGNA
Gli anni novanta segnano la più varia costruzione di strumenti per la sussidiarietà e la cooperazione tra sogggetti diversi, con il nobile intento di definire successivamente i singoli interventi in modo coerente ed efficiente. Si susseguono, senza beni, nuove forme di programmazione per gestire le risorse distribuite da vari Ministeri, principalmente dal Bilancio e dalle Attività produttive, ognuna delle quali dà luogo a un "regolamento" e a una "circolare" diverse, che comportano percorsi differenziati, anche se rivolti allo stesso fine, e che generano una farraginosità insidiosa nella gestione delle risorse.

Mi riferisco ai protocolli d'intesa (accordo d'intenti tra soggetti diversi e competenze diverse intorno ad un programma e/o un obiettivo preciso), agli accordi di programma (accordo tra più soggetti di diversi livelli e competenze promosso dal soggetto con competenza preponderante, per la definizione e attuazione d'interventi che richiedono azione coordinata tra più soggetti), la programmazione negoziata (regolamentazione concordata tra soggetti pubblici e privati per attuazione d'interventi), le intese istituzionali di programma (accordo tra amministrazioni di vario livello: stato, regioni, comuni con cui ci s'impegna a collaborare), gli accordi di programma quadro (accordo tra enti locali e altri soggetti pubblici e privati in attuazione di un'intesa istituzionale di accordo quadro).

Ho  voluto declinare, seppur in modo estremamente sintetico, le formule adottate ed è facile rendersi conto di come sia realmente difficile districarsi in questo labirinto e di come non abbia potuto e non possa funzionare, in modo efficiente.
Più complesso è il racconto dei nuovi strumenti operativi d'intervento ideati per l'organizzazione delle funzioni territoriali e per l'allocazione di nuove funzioni di sviluppo alle istituzioni locali. Per dare un'idea della verità della fantasia profusa, vorrei citarne alcuni, che forse non diranno nulla alla maggioranza dei lettori che desteranno sorpresa per la fertilità delle invezioni: programmi d'intervento locali (pil), programmi di recupero urbano (pru), programmi di riqualificazione urbana (pru), contratti di quartiere (cdq). Accanto a questi ci sono i patti territoriali, i contratti d'area, i contratti di programma, i Pic urbani, i Proust con il ciclo di programmazione europea 2000-2006, nascono i Progetti integrati territoriali (i Pit) che rappresentano una modalità operativa dei Por. Con  il ciclo della programmazione europea 2007/2013 spuntano fuori i più urban e gli accordi di reciprocità.
In generale la dimensione organizzativa di tutta questa complessa realtà istituzionale, programmatoria e operativa, si esplica attraverso tavoli di concertazione, conferenze di servizi, cabine di regia, documenti strategici, manifestazioni d'interesse.
Non voglio fare alcun commento nel ricordare i vari obiettivi dei Quadri di riferimento comunitario che innovano anche il linguaggio tradizionale, sostit-uendo il termine sottosviluppo con l'espressione "aree svantaggiate" e introducono, per definire gli obiettivi, "belle" espressioni come: convergenza, competitività regionale e occupazione, cooperazione territoriale europea. Credo che non manchi nulla!
Sono ormai tanti gli anni che hanno visto l'esplicarsi dei progetti di "sviluppo locale" e quindi è anche tempo di fare un serio bilancio degli effetti sulle singole realtà territoriali interessate. I dati sul reddito e sull' occupazione ci dicono che non vi sono segni di cambiamento positivi, neppure negli obiettivi minimali, quale quello della eliminazione della povertà o quello del miglioramento delle condizioni di degrado e di abbandono delle periferie delle città o, infine, quello del miglioramento del sistema educativo scolastico ed extrascolastico. Non c'è un caso che segnali il raggiungimento di concreti obiettivi di sviluppo. Continuare a pensare che sia possibile un cambiamento del Sud senza un insieme di politiche nazionali che perseguano, con coerenza, l'obiettivo del superamento della spaccatura del Paese, resta una pia illusione. Questi sono i frutti dell'aver cancellato la "questione meridionale".
ANCORA LA CLASSE DIRIGENTE DEL MEZZOGIORNO
La carrellata di fatti che ho cercato di esaminare sugli anni che precedono e seguono la scomparsa di una politica di sviluppo del Mezzogiorno, non poteva non riportarci al nocciolo della questione che da centocinquanta anni segna la vita del Sud: la debolezza della sua classe dirigente, la difficoltà della stessa di pesare nella vita della comunità nazionale e di saper interpretare e difendere gli interessi delle proprie terre. Negli anni di attività al Comitato dei Ministri per il Mezzogiorno questa era la questione su cui veniva concentrata la massima attenzione e l'impegno più pressante dallo stesso Ministro Pastore. Eppure, quelli, erano anni in cui la classe politica meridionale riusciva ad avere un’influenza, anche se qualche volta non utilizzata una giusta direzione. Oggi più che mai, anche rispetto ai tempi nei quali Gaetano Salvemini conduceva le sue battaglie contro l'ascarismo della classe dirigente , questa continua ad assolvere una funzione subalterna.
Giulio Pastore, già da Segretario generale della Cisl, aveva indicato la necessità di favorire, anche nel sindacata, l’emersione di quelli che chiamava i "capi naturali', contrastando il metodo della cooptazione clientelare. Da Ministro per il Mezzogiorno, aveva sostenuto la necessità di creare organismi che, dal basso, avessero potuto stimolare e accompagnare il processo di sviluppo. Cercava, in tutti i modi, di sostenere nuove figure dirigenziali politico-amministrative di alta qualità professionale, in grado di apportare alla vita politica locale, nuove energie creative. Queste nuove figure professionali, con una formazione manageriale qualificata e pronte a confrontarsi quotidianamente con problemi propri di un' economia e di una società industriale, sostituirono, nella Democrazia Cristiana, i vecchi notabili.
La lotta delle correnti nel Mezzogiorno fu anche espressione della collisione tra le figure politiche tradizionali, per lo più provenienti dalle file degli avvocati e dei medici (i migliori organizzatori del consenso elettorale e clientelare) e le nuove figure dirigenti, formatesi, in qualche modo, all'interno della "macchina" dell'intervento straordinario.
I cambiamenti economici e sociali aprivano la strada all' emergere di un nuovo ceto medio produttivo che rivendicava, nei confronti della politica, la propria autonomia e la propria partecipazione al governo dello sviluppo.

Accanto ai tradizionali cenacoli legati alle storiche case editrici del Sud, da Laterza a Nicolini, nacquero alcune riviste che contribuirono al radicarsi di una nuova cultura e che mostravano, pur partendo da posizioni diverse, moderne aperture di tipo europeo: parlo di "Nord e Sud", di "Osservatore Italiano", di "Cronache Meridionali", de "Il Nuovo Osservatore", ma anche di riviste pubblicate al nord che avevano una straordinaria attenzione ai fermenti e alle politiche per il Mezzogiorno. C'era "Mondo Economico", che introdusse una sana cultura lombarda all'interno del pensiero meridionali sta e fu, con Bruno Pagani, l'interlocutore più importante del nuovo meridionalismo.
Ci furono, altresì, personaggi straordinari che fecero registrare una stagione di fervida e innovativa capacità di governo in Calabria, come in Sardegna, in Puglia e Campania.
Erano esponenti delle maggioranze politiche come delle opposizioni comuniste. Questa stagione, tuttavia, non ebbe fortuna e non riuscì a produrre un cambiamento duraturo.
Chi ha vissuto gli anni di Pastore ricorda bene come esistesse una straordinaria sintonia e amicizia tra lui e Gabriele Pescatore: un uomo di Stato capace di progettare un futuro migliore e un giurista rigoroso, animato a sua volta da uno straordinario spirito riformatore. Tra i due, all'inizio, si manifestò qualche incomprensione ma poi nacque un'intesa feconda e Pescatore assecondò l'intuizione e la stimolo di Pastore sul tema della formazione della nuova classe dirigente che avrebbe dovuto promuovere e gestire lo sviluppo sul territorio. Scrisse Pescatore: "È questa la fase conclusiva e irrecusabile di ogni processo di risanamento di qualsiasi organismo vivente, sia esso , corpo sociale o entità biologica individuale. Ciò che noi possiamo fare, ciò che tutto il Paese con nuovo esempio di solidarietà nazionale sta facendo, è dare al Mezzogiorno l'attrezzatura strumentale necessaria allo strumento di larghe attività produttive, capaci di competere per il progresso dei loro sistemi con la produzione di altri Paesi" Si domanda Pescatore: "Chi deve infondere in quest'attrezzatura strumentale un impulso di vita che deve alimentare e sostenere con soffio costante l'impeto di movimento, chi deve, in una parola, produrre è il Mezzogiorno, sono gli uomini del Mezzogiorno. Se a ciò non giungeremo, o giungeremo in troppo scarsa misura, avremo scritto la storia di questa immensa opera di rinascita non sulla pietra, ma sulla sabbia, con parole vane che un colpo di vento può confondere e disperdere. "Troppe volte si videro, infatti nel corso dei secoli, zone rapidamente ascese a floridezza e indi tornare, in breve, a squallore per le varie cause, tra le quali, però, sempre figura e primeggia l'inadeguatezza dell'elemento umano locale, a sostenere, con energie autonome, il ritmo produttivo necessario al mantenimento del benessere che era stato raggiunto".
Questo è stato e resta il tallone d'Achille del Mezzogiorno. Sono voluto tornare più volte sul tema della classe dirigente perché sono profondamente convinto che, nella storia della mancata crescita del Mezzogiorno, questo sia stato e continui a essere il vero punto debole. Perché se la responsabilità fondamentale dell"'Italia corta" deve essere attribuita alla classe dirigente nazionale, allo stesso modo, non è possibile continuare a chiudere gli occhi sulle resistenze al cambiamento espresse dalle classi dirigenti del Mezzogiorno, dominate spesso dalla paura che il cambiamento possa indebolire il loro potere.
ASPETTIAMO LE DECISIONI DI ROMA
Il rinnovamento della classe dirigente rappresentativa del Mezzogiorno, a lutti i livelli di governo, è la vera sfida che una forza politica possa affrontare se pone come sua priorità il futuro moderno del Sud.
La condizione per affrontare la sfida sta nella capacità di un simile movimento di superare i modelli di "partito", nati dal cambiamento del 1993: un partito fortemente leaderista, se non monarchico, (la stessa lega Nord ha scelto questo modello e lo persegue con la massima coerenza, giorno dopo giorno), in cui non esiste alcuna responsabilità territoriale nella definizione della linea politica e nella selezione della classe dirigente. Questo modello caratterizza non solo i grandi partiti ma anche le piccole formazioni che accentuano i difetti in modo proporzionale alla retorica autonomistica di cui si fanno portatori.
Viaggiando nelle diverse regioni del Mezzogiorno, alla vigilia  di competizioni elettorali regionali e locali, avrei voglia di chiedere ai massimi esponenti politici locali quali siano gli orientamenti del partito, quale contenuti abbia il dibattito politico interno, quali siano le alleanze che si perseguono, quale la classe dirigente su cui si costruisce il futuro. La risposta sarebbe pressoché uguale per tutti i partiti: aspettiamo le decisioni di Roma e la scelta del Capo.
In queste condizioni, qualsiasi classe dirigente venga scelta (sia espressione partitica o, come si dice, della società civile) questa non sarà certamente fedele al territorio  che la esprime ma al capo che l'ha scelto. Credo che potremo rileggere le pagine di Salvemini, di Dorso o di Sturzo e ritrovare in esse la fotografia dell’oggi, se possibile, peggiore di quella descritta da loro. C’è stata una qualche parentesi nella storia della seconda metà del secolo scorso, ma questa è stata totalmente dimenticata.
Questo della rappresentanza politica della società meridionale, dei cittadini del Sud, è il nocciolo della storica questione.  Il filo che unisce la rappresentanza e gli elettori, le loro quotidiane preoccupazioni, i loro bisogni e le loro speranze è, oggi, nel Mezzogiorno, sempre più tenue, anche se, per fortuna, non si è del tutto spezzato.
“Se accadesse, spiega Robert Dahal, forse il più celebre politologo americano, si aprirebbe un itinerario sconosciuto , s'inizierebbe un viaggio senza meta, perché solo l'autorevolezza della rappresentanza e il suo libero legame con il corpo elettorale, impediscono che la democrazia diventi una scatola vuota".
LA MAFIA INCOMBENTE
Tra gli ostacoli allo sviluppo, la mafia non fu percepita in tutta la sua pericolosità per il condizionamento che avrebbe potuto avere sulla vita politica e amministrativa locale e, per contrastarla, non si attuò neanche un efficace controllo del territorio. Queste caratteristiche particolari della mafia e delle altre organizzazioni similari esistenti in Calabria, Campania e Puglia la resero sempre più forte (e quindi pericolosa) a mano a mano che la responsabilità della spesa pubblica si trasferiva sul territorio.
In qualche misura, il modo di operare della Cassa del Mezzogiorno aveva reso più difficile, se non in qualche modo impossibile, il condizionamento mafioso. Già nel luglio del 1963, Giulio Pastore, dopo la strage di Palermo, nella quale morirono ben nove uomini, in gran parte tutori dell' ordine pubblico, scrisse un corsivo per "il Nuovo Osservatore" particolarmente preoccupante.
Si era atteso quindici anni per dare avvio alla costituzione di una Commissione parlamentare d'indagine sulla mafia, scrisse Pastore; ora "il paese si attende la verità su molte cose e vuol sapere perché la mafia continua a prosperare e a rafforzare le sue ramificazioni, in città e paesi, ai quali - risibile confronto- tutti si affannano a rilasciare, non richiesti, attestati di nobiltà.
Occorre certamente rimuovere le cause sociali ed economiche che rafforzano la mafia, ma il paese vuol conoscere le responsabilità, sicuramente esistenti, della classe politica locale che, fino ad oggi in larga misura, ha scoperto, se non con la compiacenza, certamente con il silenzio, la responsabilità della mafia e vuol sapere quali legami ci siano tra questa ultima e le forze economiche agrarie, industriali e commerciali che siano operanti nel Paese".
Un’efficace strategia repressiva e giudiziaria, dalla fine degli anni ottanta, ha alzato il livello dello scontro tra lo stato e la mafia.
La capacità di non cedere neanche di fronte all'azione strategica della mafia, unita a un'ampia ed efficiente normativa che ha messo in campo istituti giuridici e organizzazioni efficaci, ha conseguito risultati positivi che continuano e, in qualche misura, crescono ancora oggi.
Restano tuttavia presenti sul territorio un condizionamento e una cultura mafiosa che inquinano la vita economica e sociale, rendono la democrazia fragile e richiedono una battaglia senza sosta per il cambiamento della tendenza, che a volte sembra serpeggiare, a considerare la mafia inestirpabile e quindi, in qualche modo, a rassegnarsi a una qualche convivenza.
E’ una situazione terribile che bisogna togliere dal subconscio dei ragazzi, a partire dall'età della ragione.
Infatti senza una salda convinzione e un'attiva collaborazione degli operatori economici e sociali e, in genere di tutti i cittadini, sarà ben difficile sradicare un costume e una pratica criminale che impediscono lo sviluppo economico e civile del Sud.

CHE FARE DEL MEZZOGIORNO
Sto arrivando alla conclusione di queste riflessioni che vogliono essere uno stimolo a confrontarsi sulle sfide che sono dinanzi al Mezzogiorno e devo constatare come il punto debole dei generosi tentativi politici di minoranze attive di meridionalisti, rispetto a quelli del 1950, la ritroviamo nella mancanza di una proposta che, proponga al Nord e al Paese nel suo complesso, una via per il suo completo sviluppo, facendo perno su quella che potrebbe costituire non il problema ma la risorsa e cioè il Sud.
Questa possibilità è oggi reale se si esce dal "cortile" di casa nostra e si considera che l'Europa tutta, e non solo l'Italia, ha dinanzi a sé l'occasione di una sua fase di espansione fondata sulla sua integrazione con la grande area del Mediterraneo. Rispetto a questa sfida, il Mezzogiorno, anche per la sua collocazione geografica, diventa, naturalmente, la risorsa da utilizzare.
Non bisogna sottovalutare le "miniere" del sud: le sue risorse ambientali e umane; le eccellenze scientifiche presenti nelle sue Università e in alcune sue aziende; e, infine, il vasto patrimonio rappresentato dai giovani professionisti che oggi sono costretti a emigrare al nord e all' estero.
In questa prospettiva, prende corpo per l'Italia l'utilità di investire, nel Mezzogiorno, per la creazione di un sistema d'infrastrutture di logistica, di trasporti, di comunicazione informatica e di produzione di energia, funzionali all'integrazione "fisica" dell'Italia e dell'Europa con il Mediterraneo allargato (il corridoio Mediterraneo-Berlino).
Nel campo delle energie rinnovabili, oltre che in quello delle fonti tradizionali, gas e petrolio, ci sono potenzialità ampie se si pensa a due fondamentali "materie prime” del Mediterraneo: sole e vento. L'integrazione infrastrutturale è strettamente legata a quella economia produttiva tra imprese delle due sponde. Le sinergie della ricerca e nell'alta formazione, tenendo conto delle eccellenze delle due sponde, possono indurre a lavorare su progetti comuni. Così come l’integrazione tra le risorse umane, di cui l'Europa ha avuto e avrà sempre più bisogno, può modificare radicalmente il futuro e le aspettative delle popolazioni delle due sponde.
Fino a quando non si riuscirà a dare corpo a questo progetto, le battaglie per il Sud saranno viste come una domanda di aiuti e sussidi, come il tentativo fermare il cambiamento istituzionale del Paese, come la semplice pretesa di quote "riservate" d'investimenti pubblici.

Nella prospettiva indicata, oggi più che in qualsiasi momento del passato, la trasformazione produttiva del Mezzogiorno si presenta come una delle risorse più importanti per il Paese. Per far questo la prima mossa,  come ho cercato di ricordare, è quella di superare le idee dello sviluppo locale viste come "monadi" chiuse senza un progetto complessivo che dia senso alla valorizzazione delle risorse locali.
Nell’ultimo ventennio il mondo imprenditoriale italiano, compreso quel nucleo forte di nuova imprenditorialità del Sud, ha posto in essere un importante processo di decentramento delle proprie attività nei Paesi balcanici in quelli dell'ex impero sovietico ed anche nei nuovi Paesi emergenti dell'Estremo Oriente, in particolare Cina e India. Non ci siamo abbastanza interrogati sulle ragioni di questo processo e non abbiamo tentato di capire a quali condizioni un tale processo di delocalizzazione dal Nord e dal Mezzogiorno sarebbe potuto essere intercettato dalle regioni del Sud. E se dessimo oggi risposta alle domande inevase del passato, la spinta dell'imprenditorialità locale, del Nord e del Sud, potrebbe trovare ulteriore slancio per una localizzazione sia nelle nostre Regioni meridionali sia in molti Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Fin dall'inizio di queste riflessioni ho sottolineato l'urgenza con cui l'Europa deve compiere una scelta strategica effettiva nella direzione di questo processo d'integrazione che va anche oltre la sponda sud del Mediterraneo e punta a coinvolgere l'intero continente africano.
Nel mondo come si sta configurando, i Paesi emergenti dell' estremo oriente, in primo luogo India e Cina, costituiscono i principali competitori dell'Europa. Con tali Paesi dovremo fare i conti, sempre di più, soprattutto dal punto di vista commerciale, stando attenti a non dare loro vantaggi competitivi, come si è fatto con l'ingresso della Cina nel WTO, senza garanzie sui possibili dumping sociali e umani sui nostri mercati.
TROPPA RETORICA E TANTA SUPERFICIALITÀ
Se i grandi Paesi emergenti dell' Asia sono importanti per il commercio e per gli investimenti "in loco" da parte d'imprese italiane, per assicurarsi aree e quote importanti di mercato, tali possibilità sono strategicamente diverse da quelle che l'Europa ha con il Mediterraneo e con l’Africa.
Per l’Europa, si tratta di passare da una rete di rapporti spesso occasionali e legati ad antichi ricordi coloniali a un effettivo  processo d'integrazione. L'Italia deve riprendere l'iniziativa dopo che, per un anno dalla solenne dichiarazione di Parigi, l'Unione per il Mediterraneo avviata dal Presidente francese Sarkozy, è ancora al punto di partenza. Questa è una scelta che richiede un impegno unitario di quello che chiamiamo "sistema Paese”. Non si tratta, infatti, della strategia di un governo perché il progetto richiede tempi ben più lunghi di una legislatura e ha bisogno di un grande respiro.
So che intorno a questa strategia si addensa troppa retorica e molta  superficialità. Ricordo bene come Umberto Bossi rappresentò la Lega nel 1993 e come egli fosse consapevole che i "padani" non avrebbero potuto continuare a svilupparsi abbandonando il Mezzogiorno al suo destino. Se per avventura la Repubblica Padana ci fosse dovrebbe porsi il problema del Sud d'Italia e del Mediterraneo, almeno per non rischiare l'invasione di massa degli immigrati negli anni a venire. La Repubblica Padana, se ci fosse (ed io penso che non ci sarà mai), sarebbe certo animata dalla cultura del realismo che la spingerebbe a sostenere la scelta euro-mediterranea dell'Europa,

e a valorizzare, in quest'ambito, la risorsa che rappresenta, per tutti, il Mezzogiorno.
I meridionalisti di solida formazione hanno sempre rifiutato la polemica tra il nord e il sud: ricordo che fu Gaetano Salvemini a ispirare il titolo della rivista fondata a Napoli da Francesco Compagna. L'alleanza tra il nord e il sud per ammodernare l'Italia fu costantemente la bussola di Saraceno e di Pastore.
Ho già ricordato che una certa nuova attenzione verso il Mezzogiorno di grandi operatori industriali e finanziari del Nord poggi sulla convinzione che, nell'era della globalizzazione e dell'attuale sviluppo tecnologico, qualsiasi integrazione e competizione non si svolge normalmente a livello di singola unità produttiva ma d'interi sistemi. Il vincolo che è posto ai Paesi maturi, di cui 1'1 tali a è parte, mette in campo condizioni nuove e diverse dal secolo trascorso. Infatti, la redistribuzione delle risorse mondiali in modo meno ineguale rispetto al passato costituisce una condizione per la crescita futura delle stesse economie avanzate. E questa redistribuzione non assume più l'aspetto di un peggioramento della ragione di scambio dei paesi industrializzati come avvenne molti anni fa, ma piuttosto quello dell'allargamento della concorrenza, sui mercati dei prodotti manufatti, ai paesi emergenti che, nonostante la crisi, continuano ad avere un segno positivo di crescita. La liberalizzazione di tali mercati ha già dato benefici effetti sul commercio mondiale. Proprio la liberalizzazione seleziona i beneficiari di tale crescita sulla base della capacità concorrenziali sistemiche che ciascun paese maturo è in grado di conseguire. L'efficienza sistemica richiede un intenso spostamento di risorse dai settori meno competitivi ad altri più competitivi, una profonda trasformazione dei settori e delle aree meno competitive e l'attuazione di diversificati e mirati interventi per migliorare l'efficienza generale.
E a mano a mano che tali ristrutturazioni procederanno, sarà necessario un aumento della mobilità del lavoro; a regime, la mobilità tra le occupazioni che segneranno la vita individuale, risulterà più elevata che nei decenni passati. La polarizzazione che si creerà tra lavoratori nei settori di successo e quelli dei settori in declino, tra le occupazioni ad alto valore aggiunto e quelle non qualificate, tra chi potrà cambiare con successo molte posizioni di lavoro e chi sperimenterà lunghi periodi di disoccupazione, si trasformerà in una polarizzazione sociale complessiva.
Anche se affrontato da questo punto di vista, lo sviluppo del Mezzogiorno è un obiettivo che interessa tutto il Paese. Sembra quasi un'affermazione retorica, ma non la è: o ce la facciamo tutti insieme o non c'è salvezza per nessuno. In questa prospettiva si capiscono le affermazioni del Ministro del Tesoro, del Governatore della Banca d'Italia e della Presidente della Consiglio, che a più riprese sono tornati a sottolineare come il Sud sia un problema del Paese tutto e che come tale va affrontato. Non è più però il tempo delle intenzioni, occorre l'azione.
UN PROGETTO  DI UNITÀ E SOLIDARIETÀ
Proporre una nuova fase dello sviluppo nazionale più solidale e più giusto non è una semplice operazione tecnica o un elenco di opere e d'incentivi, ma è una grande operazione politica che, nella nuova dimensione globale con cui si presentano i problemi dello sviluppo delle società e degli stati moderni, ha bisogno di  uscire definitivamente dalle vecchie ideologie e categorie che hanno determinato la vita degli ultimi due secoli.

La fase che viviamo e che ci costringe a continue rimesse in discussione delle coordinate di base della nostra convivenza nazionale, poiché non si tratta di una parentesi d'ingovernabilità nell'ambito di un ciclo che ha un permanente e lineare sviluppo economico e sociale.
Costruire un consenso interno a un grande progetto di unità e solidarietà del Paese non è operazione politica semplice perché va in direzione opposta a un comune sentire, dominato dall'insicurezza e dalla paura e quindi tendente alla chiusura nel proprio particolare benessere, nella propria radice di clan di gruppo ristretto, diffidente verso il diverso, quello da cui occorre difendersi.
La società italiana nel recente passato non si è sentita rappresentata nei suoi bisogni e nelle sue aspettative: ha percepito che si cercava di canalizzare il consenso su opzioni lontane dalla realtà vissuta, ripetizione stanca e immotivata di risposte del passato.
Le questioni urgenti che la società italiana pone, per il tempo presente, nascono da dati incontrovertibili: la sicurezza per il lavoro, per la propria produzione (dinanzi all'invasione delle merci "cinesi"), la sicurezza per i pericoli che vengono dal diverso, la sicurezza nei confronti dell'intrusione nella propria vita privata del fisco, della burocrazia e persino della magistratura. E più le risposte sono nette e semplicistiche più si sente rappresentata e protetta. E se al Nord è più forte, la paura per la sicurezza al Sud domina la solitudine per l'assenza di rappresentanza e il vuoto per le mancanze di risposte al bisogno di lavoro e di futuro. E mentre al Nord c’è la Lega, al Sud c'è la rassegnazione e l'attesa ultima di un demiurgo.
RITROVARE UNA NUOVA IDENTITÀ NAZIONALE
Non possiamo dimenticare che, all'origine di questa paura della crisi politica e sociale del Paese che essa genera la perdita d'identità, lo svuotamento dei meccanismi tradizionali d'identificazione dei soggetti, dei gruppo e degli individui. Questo porta all’inevitabile frammentazione del corpo sociale, alla segmentazione dei suoi interessi, come una ricerca di sicurezze private, come una difesa del proprio immediato particolare. E infatti, chi non sa di sé e non sa di essere qualcuno, non conosce l'importanza di essere in relazione con gli altri, non può sapere del "dovere", non accetta norme e  non consente di associarsi per raggiungere un risultato personale o collettivo. Su questo disorientamento, che è crisi di valori, s'innesta la crisi del governare, cioè l'arte di accumulare per ripartire, del ripartire per equilibrare, nell'ottica del bene comune. Ecco perché occorre ripensare il fondamento stesso della nostra  unione politica (sarebbe il tema vero per la celebrazione del centocinquantesimo dell'unità d’Italia), provocare quasi un nuovo "contratto sociale" nel quale più che l'utilità di ciascuno e di tutti, sia il principio di giustizia a reggere l'insieme societario e a dare orientamento e valore alla convivenza civile.
Se la crisi profonda dell'economia e della finanza mondiale segna il punto più alto della carenza di eticità negli affari come valore civile, se la crisi dello stato sociale in Italia, in Europa ed anche fuori (come dimostra il dibattito sulla riforma sanitaria negli Stati Uniti) segna il punto più alto della crisi del solidarismo come valore politico e proposta etica, nessuna nuova moralità pubblica e privata può essere ricostituita, se non facendo entrare pienamente, in ogni articolazione della vita sociale e nella vita delle stesse istituzioni politiche e amministrative, un nuovo senso di equità, che sia capace di ridisegnare le identità individuali e collettive e, insieme, di ridefinire le posizioni di ciascuno, individui e gruppi, nelle loro reciproche relazioni e nei loro reciproci trattamenti.

È su una prospettiva di grande respiro etico e politico che è possibile fondare una proposta per ritrovare una nuova identità nazionale come società giusta, ben ordinata, nel nome della solidarietà e della cooperazione sociale: per concorrere così a superare il dualismo che ancora separa le due Italie.
Da qui occorre ripartire per una nuova e concreta stagione del meridionalismo.
E se le posizioni di maggioranza potranno divergere da quelle dell' opposizione sui contenuti concreti delle politiche e degli strumenti da mettere rapidamente in campo, occorre invece trovare una convergenza piena tra gli schieramenti politici sui valori condivisi, da porre a fondamento di una nuova reale identità dell'intera società nazionale. Senza questa convergenza è ben difficile poter dar corpo a una coraggiosa scelta di politica di sviluppo che trova, oggi, non solo ostacoli in Parlamento ma nell'intera società nazionale.
La questione meridionale si ripropone come questione centrale della vita politica nazionale. Non è una risposta politica all'altezza della sfida nazionale un partito del Sud (si potranno mettere insieme anche voti di disperati nel Mezzogiorno per un piccolo partito): c’ bisogno di un grande respiro nazionale per una politica del Sud.
Sarebbe un  errore farsi metter in un angolo, giocando a rivendicare e non a proporre, sapendo bene che come per il Nord un' azione separatista non è in grado di dare alcuna prospettiva seria per uno sviluppo possibile e sostenibile.
LA SFIDA DEL FEDERALISMO
Una scelta positiva è stata in questi ultimi anni l’accettazione da parte  d'importanti forze nel Mezzogiorno del cambiamento della forma di stato: da quell’accentrato piemontese a quello federalista auspicato nell'età del Risorgimento da autorevoli e illuminati pensatori.
Negli anni passati i meridionalisti d'acqua dolce si erano battuti contro ogni tentativo di riforma federale dello Stato, preoccupati anche che, per la proposta iniziale di un federalismo fiscale privo di correttivi di solidarietà, si sarebbero accentuati i divari tra nord e il sud e la disuguaglianza dei cittadini rispetto ai diritti sociali.  
Oggi, nel Mezzogiorno, si comincia a guardare al federalismo anche come a un'occasione per modificare il modo di governare le comunità locali.
L’introduzione di un principio di autonomia e di responsabilità nella gestione delle risorse pubbliche, che faccia continuamente i conti tra spesa e sua possibile copertura, uscendo da una cultura della dipendenza totale dalla finanza centrale, è la strada possibile per responsabilizzare e per costringere tutti all'impiego più efficiente del danaro pubblico.
Accettare la svolta federalista è anche il modo migliore per far crescere, nell'opinione pubblica, l'affidabilità della classe dirigente del Mezzogiorno che dia credito alla proposta di investire nelle regioni meridionali nell'interesse di lutto il Paese.

Solo un cambiamento nel modo di spendere il denaro dei cittadini, nel Sud, legittima la forza politica meridionale a chiedere che non si rinviino a un secondo tempo gli interventi per lo sviluppo in attesa del rilancio dell'economia mondiale, lasciando ad altri il ruolo di "locomotiva" della ripresa. Mentre è essenziale che siano gli investimenti nel Sud a costituire una componente importante della ripresa dell'economia nazionale.
CHE FARE? LE SEI SCELTE STRATEGICHE
Vorrei dare a queste pagine una qualche indicazione operativa mettendo in ordine le riflessioni sviluppate intorno a sei indicazioni strategiche e una breve premessa. Questa consiste nella ricomposizione concettuale e politica della "questione meridionale", non come sommatoria di singole questioni locali, ma come problema unitario di una grande "regione" del Mediterraneo che è parte di uno Stato nazionale. A questa premessa fanno seguito le sei scelte strategiche.
I. Il Mediterraneo allargato
La prima è  quella dell' iniziativa italiana per far avanzare il processo euromediterraneo in Europa, cercando opportune alleanze non solo con gli Stati Mediterranei, ma anche con la Germania, che mostra interesse crescente verso l'obiettivo mediterraneo. Ho già sottolineato come l'Unione Europea, dopo la caduta del muro di Berlino, ha accelerato il processo d’integrazione nella direzione dei Paesi dell'Europa orientali con programmi infrastrutturali e di cooperazione nel settore energetico. E a questi fini ha destinato notevoli risorse ed ha rallentato, se non praticamente bloccato, i progetti d'integrazione con i Paesi dell’estremo oriente. Eppure, i traffici che oggi passano per il Mediterraneo a seguito dell'impetuoso sviluppo dell’estremo oriente, hanno aperto nuove prospettive economiche che vanno ben oltre i traffici marittimi. Infine, il permanere di conflitti armati nell'area, a partire da quello palestinese, ha costituito un grande ostacolo e ha  ritardato ogni iniziativa concreta. La pace resta una necessità oltre che un dovere politico moralmente. Duole a dirlo ma l'Europa, in questi anni e particolarmente nell’ultimo semestre a Presidenza svedese, è stata praticamente assente dallo scacchiere mediorientale e ha guardato, quasi con distacco, le iniziative del Presidente Obama per far compiere qualche passo in avanti al difficile dialogo tra israeliani e palestinesi. Esistono alcuni accordi bilaterali tra il nostro Paese e i paesi della sponda del Sud del Mediterraneo in tema di energia, di logistica e di trasporti, di cooperazione scientifica e università, di piccole e medie industrie,



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