venerdì 13 gennaio 2012

libro viroli per amore della patria

PER AMORE DELLA PATRIA
Viroli

PREMESSA

Per amore della patria apparve in italiano sei anni or sono, pochi mesi prima dell'edizione originale inglese (For Love of Country, Oxford University Press). L'editore Laterrza, pur iniziando i lavori in ritardo, fu dunque più rapido degli inglesi, che, però si presero presto una rivincita dando alle stampe l'edizione in paperback già nel 1997.
Ho scritto questo libro per mettere in evidenza che è esistita nella storia del pensiero politico una tradizione di patriottismo repubblicano distinta dal nazionalismo. Questa tesi ha ricevuto critiche severe. Ernesto Galli della Loggia ha scritto che «anziché accostarsi al patriottismo ed al nazionalismo in quanto fenomeni storici», chi scrive «inizia con il definire in astratto cosa si deve intendere (cosa egli intende) per patriottismo e nazionalismo, e una volta deciso in tal modo che il primo designa un insieme di valori e atteggiamenti politici in armonia con un punto di vista di sinistra, e il secondo no, procura di enumerare in frigida sequela autori e testi che di volta in volta incarnerebbero la posizione dei 'buoni' e dei 'cattivi' da lui preventivamente definita al modo che si è detto» «<L'Espresso», 4 agosto 1995, p. 135).
La verità è che non ho elaborato alcuna definizione del patriottismo e del nazionalismo, ma messo in evidenza il modo in cui storici, filosofi, agitatori, politici, poeti e giuristi hanno usato le parole 'patria' e nazione. Oggetto della mia r:icerca non è stato né il patriottismo né il nazionalismo, ma il linguaggio del patriottismo e del nazionalismo: «Il linguaggio del patriottismo - cito le prime righe dell'Introduzione - è stato usato nei secoli per rafforzare o suscitare l'amore per le istituzioni politiche e il modo di vita che sostengono la libertà comune di un popolo, in una parola, la repubblica; il linguaggio del nazionalismo nato in Europa nel tardo Settecento fu elaborato per difendere e rafforzare l'unità e l'omogeneità etnica, linguistica e culturale di un popolo». Dove sarebbe la definizione del patriottismo e del nazionalismo che il mio critico mi attribuisce? Posso avere interpretato bene o male il significato di quello che altri hanno scritto sul patriottismo e sul nazionalismo, ma non ho prodotto nessuna definizione.
Mentre considero poco interessante procedere per definizioni, alla maniera dei filosofi (di un certo tipo di filosofi), ritengo inutile anche adottare il metodo storico (o sociologico) che il mio critico mi addita a modello. Prova ne sia che dedico alcune pagine a mostrare l'inanità degli sforzi volti a produrre, per via d'indagine storica o di osservazione sociologica, una qualche modellistica o dottrina generale: «anziché cercare di costruire definizioni scientifiche della natura del patriottismo e del nazionalismo - scrivevo - proviamo a capire che cosa intendono dire filosofi, storici, agitatori, poeti e profeti quando parlano di amore della patria o di lealtà verso la nazione». Posso benissimo aver sbagliato il lavoro di interpretazione, ma il mio critico ha semplicemente frainteso che tipo di libro ho scritto.
Il mio critico coglie invece nel segno quando osserva che in Per amore della patria manca «qualunque accenno alla Rivoluzione francese», vero e proprio «crocevia essenziale nella storia vuoi del patriottismo che del nazionalismo». Sbaglia tuttavia quando sottolinea che se avessi analizzato il linguaggio del patriottismo e del nazionalismo nella Rivoluzione francese avrei notato l'intreccio inestricabile fra patriottismo e nazionalismo e avrei altresì scoperto che i giacobini erano «nazionalisti ultra» e gli antigiacobini «moderatamente patriottici» e sarebbe caduta la tesi della separazione fra i due fenomeni da me incautamente propugnata.
A leggere gli scritti di Robespierre si ricava per la verità l'idea che il leader giacobino usò, e pervertì nella teoria del Terrore, i concetti fondamentali del linguaggio del patriottismo repubblicano. Nel celebre discorso Sui principi di morale politica, del 1794, Robespierre sottolinea che la virtù pubblica «è in sostanza l'amore della patria e delle sue leggi», e aggiunge che poiché «l'essenza della Repubblica, ossia della democrazia, è l'uguaglianza, ne consegue che l'amore- della patria comprende necessariamente l'amore dell'uguaglianza». Sono le parole di Montesquieu: la virtù politica è l' «amore della patria», ovvero l' «amore dell'uguaglianza». Quando scrive che vera patria è solo il paese «dove ognuno è cittadino e partecipe della sovranità» non fa che ribadire le idee di Rousseau: vera patria è solo la madre comune che fa partecipare i cittadini «all'amministrazione pubblica». È vero che Robespierre proclama nel medesimo testo che i francesi sono «il primo popolo del mondo che abbia instaurato la vera democrazia». Ma da questo e da altri simili appelli alla missione storica della nazione francese non mi pare si possa ricavare la tesi che il linguaggio dei giacobini era nazionalista nel significato che il termine 'nazionalista' assunse sotto la penna dei teorici del nazionalismo.
Anche se fosse vero che nella Rivoluzione francese si verificò un intreccio indissolubile fra patriottismo e nazionalismo, la tesi del mio libro sarebbe ancora valida, per l'ovvia ragione che non ho mai sostenuto che patriottismo e nazionalismo sono stati sempre nella storia due linguaggi politici ben distinti, ma che è esistito ed esiste un linguaggio del patriottismo ben diverso da un certo linguaggio del nazionalismo: chi pone quale principio politico e morale supremo la patria intesa come libertà comune sostenuta dalla Costituzione e dalle leggi ragiona in modo diverso da chi pone quale principio politico e morale supremo l'unità culturale, o religiosa, o etnica del popolo e giudica la libertà politica un valore di minore importanza. Per questa ragione la patria degli uomini liberi nasce quando muore la patria dei nazionalisti, come ha spiegato Piero Calamandrei in una pagina di rara bellezza scritta pochi giorni dopo la caduta del regime fascista: «la sensazione che si è provata in questi giorni si può riassumere, senza retorica, in questa frase: si è ritrovata la patria» (Diario 1939-1945, a cura di Aldo Agosti, La Nuova Italia, Firenze 1982, tomo II, p. 154).
Sulla distinzione fra patriottismo e nazionalismo ha insistito anche Gian Enrico Rusconi in una seria e dettagliata recensione di cui gli sono sinceramente grato. «Secondo Viroli - scrive Rusconi -la patria (intesa come 'amore per la libertà comune') è buona e progressiva, la nazione (sinonimo di omologazione etnoculturale) è equivoca e regressiva: è una contrapposizione definitoria estremamente discutibile. Come se in linea di principio - per una sorta di peccato d'origine - il concetto di nazione non possa acquisire per noi oggi gli stessi contenuti civicolitici attribuiti al concetto di patria o, viceversa, l'idea di patria non possa avere tutt' oggi corposi connotati etnocentrici» (La nazione come demonio, in «Micromega», 1995, pp. 239-245). Il mio critico ha ragione; e prove rilevanti che i concetti di nazione e di nazionalità sono stati usati nella storia del pensiero politico anche per sostenere ideali di emancipazione e di solidarietà sociale sono la citazione tratta da John Stuart Mill che ho posto in apertura al volume e i passi di Mazzini e di Pisacane che commento nel capitolo V (La nazionalizzazione del patriottismo).
Ma proprio la mia interpretazione della vicenda del linguaggio del nazionalismo nell'Ottocento rappresenta, a parere di Rusconi, «uno dei passaggi cruciali dell'analisi storico-politica che il libro affronta». Dalla mia analisi emergerebbe infatti che il patriottismo civile è incompatibile con la «semplice forma istituzionale monarchica». Con la conseguenza, «imbarazzante», che il Risorgimento si sarebbe svolto sotto il segno del nazionalismo monarchico e non sotto il segno del patriottismo repubblicano. Anche se Rusconi ed altri giudicheranno la mia una tesi tipica del repubblicanesimo intransigente, ribadisco che esiste una profonda differenza fra il patriottismo monarchico e il patriottismo repubblicano. Tale differenza consiste nel fatto che per un repubblicano vera patria è solo quella repubblica in cui tutti possono vivere come cittadini liberi, uguali davanti alla legge e uguali per diritti politici; per un monarchico vera patria è anche la monarchia, dove un uomo ha per nascita un diritto, quello di comandare, che gli altri non hanno. Il contrasto nasce dunque da una diversa interpretazione del significato dell'uguaglianza, come aveva colto bene Montesquieu: l'amore della patria è, nelle repubbliche, amore dell'uguaglianza.
A questa differenza altre se ne aggiungono. In primo luogo il fatto che il repubblicano è leale solo alla Costituzione e alle istituzioni della Repubblica, mentre il monarchico è leale alla persona del re e alla dinastia. Questo non significa che durante il Risorgimento e negli anni postunitari non ci sia stato in Italia un patriottismo civile, se per patriottismo civile si intende quella dedizione al bene comune che nel linguaggio politico è definita 'senso dello Stato'. Ma il patriottismo monarchico, anche nella sua forma più nobile e civile, ha sempre una componente servile che ostacola la formazione di una mentalità da cittadini. Il problema è che in Italia il patriottismo repubblicano ha condotto sempre vita stentata ai margini della cultura politica nazionale, dominato prima dal patriottismo monarchico, poi dal nazionalismo.
Ma, obbietta Rusconi, se il repubblicanesimo patriottico, incarnato da Mazzini, «cade vittima del nazionalismo come è possibile riabilitarlo oggi, semplicemente cancellando un intero ciclo secolare? Come è possibile ricollegarci retrospettivamente al patriottismo repubblicano, passando indenni attraverso i condizionamenti, le contraddizioni ma anche le acquisizioni positive della fase più intensa della vita dello Stato-nazione (un concetto, tra l'altro, sorprendentemente assente nell'analisi di Viroli)?». Rispondo che gli ideali politici (e le parole che li esprimono) possono rinascere anche dopo lunghi periodi di declino e di vita stentata, se hanno radici profonde nella storia di un popolo e se ci sono uomini e donne che sanno riaffermarli con convinzione sincera e con parole vere. Prova ne sia che il patriottismo repubblicano rinasce durante la Resistenza e rivive con una sua dignità durante gli anni della Repubblica.
Il problema vero è come, con quali mezzi, far rinascere o rafforzare il patriottismo repubblicano. Rusconi concorda con me che per avere cittadini migliori non c'è alcun bisogno di rafforzare l'unità morale o religiosa o etnica degli italiani, ma bisogna piuttosto far leva sulla cultura e sulle memorie comuni. Rileva, tuttavia, che nel libro i concetti di «cultura comune» e di «memorie comuni» non sono «mai definiti concretamente». Provo a colmare la lacuna osservando che le memorie di un popolo sono sempre oggetto di interpretazioni contrastanti e che non è né possibile né desiderabile elaborare delle narrazioni che siano condivise da tutti e dunque diventino par- . te di un sentire comune. Ascoltando una bella commemorazione della Repubblica Romana del 1849 tenuta da uno storico di prim'ordine, con la massima serietà intellettuale e la più ampia documentazione possibile, ci sarà qualcuno che proverà viva ammirazione per Mazzini e Garibaldi, altri che giudicheranno quegli eventi un miserevole caso di avventurismo politico, altri ancora che avvertiranno una profonda solidarietà per il povero Pio IX ingiustamente privato di quel potere temporale tanto necessario per svolgere il suo ufficio di pastore di anime.
Essere italiani significa poco o nulla. Mussolini era italiano come lo era Carlo Rosselli: ma cosa avevano in comune? Parlavano la medesima lingua (con accenti diversi), prediligevano gli stessi cibi, avevano letto probabilmente Dante, Manzoni e Leopardi. Ma avevano principi politici e morali inconciliabili. Le differenze sono molto più importanti delle affinità culturali. Sia che la si intenda come memoria storica comune, sia che la si intenda come lingua, sia che la si intenda come cultura o costume, la nazione non serve a nulla per sostenere o rafforzare il patriottismo repubblicano.
Un principio unificante, su questo Rusconi ha perfettamente ragione, può essere ed è certo stato la Costituzione repubblicana. Ma il dire che la Costituzione riassume in sé la nazione significa riaffermare il principio fondamentale del patriottismo repubblicano, ovvero che il cuore della patria è la Costituzione. Niente di male a chiamare 'nazione' ciò che per tanti e importanti scrittori politici del passato era il cuore della 'patria'. Il pensiero politico dell'Ottocento è ricco di esempi di scrittori politici che usano il termine 'nazione' come sinonimo di repubblica. Ritengo tuttavia che il cambiamento del nome abbia generato una confusione, evitabile, dovuta al fatto che mentre la patria nel significato repubblicano è concetto essenzialmente ma non esclusivamente politico, nazione è concetto eminentemente culturale, linguistico, religioso o etnico.
Invocare la nazione e l'identità nazionale a sostegno della patria, o in sostituzione della patria repubblicana, ed è questo il punto che mi preme mettere in evidenza, ci fa dimenticare che l'amore della patria è una passione squisitamente politica che può essere rafforzata, indebolita, o corrotta con mezzi politici, come ammoniva Gaetano Filangieri: la passione dell'amore della patria «può essere dominante ed ignota; essa può esser senza alcun vigore in un popolo, e può esser onnipotente in un altro. La sapienza delle leggi e del governo la introducono, la stabiliscono, l'espandono, l'invigoriscono; i vizi dell'uno e delle altre la indeboliscono, l'escludono, la proscrivono» (La Scienza della Legislazione, IV Parte, 2. 42). Nella stessa direzione vanno anche gli insegnamenti degli scrittori politici che indicavano nell'autogoverno comunale la radice più profonda del vero (e migliore) patriottismo. «Il vero patriottismo è nel municipio. La molla, solida, attiva, reale e permanente del vero e sicuro patriottismo - scriveva Romagnosi - sta nel Municipio, e oso dire che non può stare che in lui solo. Aggiungo di più: che in lui solo sta la base di sicurezza di tutto e l'ordinamento politico di uno stato civile» (Istituzioni di civile filosofia, in Opere, a cura di Alessandro de Giorgi, Perelli e Mariani, poi Volpato, Milano 1841-1848, voI. III, p. 1548). Carlo Cattaneo identificava nei comuni la libertà della nazione: «i comuni sono la nazione; sono la nazione nel più intimo asilo della sua libertà» (Sulla legge comunale e provinciale, in Opere scelte, a cura di D. Castelnuovo Frigessi, Einaudi, Torino 1972, voI. IV, p. 406). I mezzi più efficaci e sicuri per far crescere e diffondersi quella particolare forma di patriottismo che è il patriottismo repubblicano - questa mi pare la lezione di saggezza che ci viene dagli scrittori politici del passato e che rischia di essere annacquata dai discorsi sull'identità nazionale - sono dunque il buongoverno e l'autogoverno.
Mentre la nazione inacidisce il buon vino del patriottismo repubblicano, la dottrina molto in voga del patriottismo costituzionale lo annacqua troppo. Dire che il patriottismo è lealtà nei confronti dei principi politici della libertà e dell'uguaglianza incorporati nelle costituzioni democratiche significa impoverire l'idea classica del patriottismo come amore caritatevole della repubblica. La costituzione è il nervo della repubblica, ma non è tutta la repubblica. La repubblica che è oggetto dell'amore caritatevole è anche modo di vivere, come Machiavelli spiega-
va bene quando usava, quale sinonimo di 'repubblica', l'espressione 'vivere libero'.
Il patriottismo repubblicano, come tutte le passioni, vive di parole, di immagini e di simboli. Questo significa che la Repubblica deve saper ricordare i suoi eroi e i suoi martiri, quelli celebri e ancor più quelli sconosciuti o dimenticati; deve esporre con dignità e senza boria i propri simboli, a cominciare dalla bandiera; deve celebrare con misura e sincerità gli eventi importanti della storia collettiva; deve rispettare i monumenti e i luoghi pubblici; deve dare ai cittadini la possibilità di ascoltare le musiche che hanno saputo esprimere il bisogno di vivere liberi degli italiani e delle italiane che hanno vissuto prima di noi. Non deve imitare né la pompa reale, né il fasto cortigiano, né la liturgia della Chiesa, ma deve avere dei rituali che si svolgano negli edifici pubblici e nelle piazze, e che abbiano quali protagonisti i cittadini, i loro rappresentanti, le forze di sicurezza e le forze armate. Quest'anno si torna a celebrare il 2 giugno, anniversario della nascita della Repubblica, come giorno festivo. È un' occasione importante per inaugurare un nuovo stile di cerimonie che sappia far vedere e sentire ai cittadini la dignità della Repubblica.
Prima di concludere devo menzionare altre serie critiche, venute questa volta da colleghi e amici di Princeton, che toccano il valore teorico e pedagogico della mia interpretazione del patriottismo. Nell'Epilogo alla nuova edizione di Democratic Education (Princeton University Press, Princeton 1999), Amy Gutmann sottolinea che il patriottismo repubblicano è più selettivo del patriottismo comune. Poiché proclama che l'oggetto della lealtà dei cittadini deve essere la repubblica in quanto fondamento della libertà comune, si oppone al nazionalismo, rifiuta l'antisemitismo, la segregazione razziale e la discriminazione basata sul sesso. Nonostante queste sue virtù, il patriottismo repubblicano ha il vizio di dare troppo valore alla repubblica rispetto agli individui che la compongono. Ne consegue che un sistema di educazione pubblica che si prefiggesse di insegnare agli studenti che «dobbiamo la nostra vita alla nostra patria» li educherebbe in un modo lesivo del fondamentale principio democratico che afferma la priorità delle libertà individuali e sarebbe in contrasto con il carattere aperto dell'educazione democratica «<the openess of democratic education» ).
Anche Gorge Kateb punta il dito contro la natura antiindividualistica del patriottismo repubblicano. Il patriottismo, scrive, è «una forma di identità e affiliazione di gruppo» che si manifesta nella disponibilità, con maggiore o minore riluttanza, di morire e di uccidere per la patria. Quantunque il patriottismo repubblicano sia un patriottismo della libertà «<the patriotism of liberty»), si tratta pur sempre di un patriottismo che proclama la necessità di incorporare il principio morale universale della libertà alll'interno della nostra patria, con il suo particolare modo di vita e con le sue particolari memorie. Implicita nella mia interpretazione del patriottismo sarebbe l'idea cattolica che Dio non può essere amato senza ricorrere all'incarnazione o senza accorgimenti quali il culto di Maria, le statue e i dipinti dei santi, e le chiese stupende e imponenti. Ma come Dio si perde nelle rappresentazioni, così la libertà, nel suo autentico contenuto morale, si perde nella patria e nel patriottismo. La conseguenza nefasta della riduzione della libertà nei confini del patriottismo è che il patriota deve preferire senza esitazione infliggere ingiustizia piuttosto che patirla. Del resto, la storia dimostra che il patriottismo, con poche eccezioni, ha sempre servito cause ingiuste, o irrazionali, o stupide. Le passioni e i pensieri che hanno aiutato la nascita delle moderne democrazie costituzionali, sottolinea Kateb, non erano patriottici ma universalistici (George Kateb, Is Patriotism a Mistake?, in «Social Research», 67, 2000, pp. 901-923).
Si potrebbe sostenere con buona documentazione storica, e in parte tale documentazione è reperibile nel testo, che i patrioti repubblicani hanno dato un contributo importante alla nascita delle moderne democrazie costituzionali. Le idee e le passioni del patriottismo ispirarono l'opera dei commonwealthmen inglesi, degli americani che lottarono per l'indipendenza, dei rivoluzionari francesi e. di tanti partigiani della Resistenza italiana. Ammettiamo pure che il loro amore della libertà avesse una connotazione particolaristica, nel senso che essi amavano la libertà comune del loro popolo. Perché questo tipo di amore della libertà dovrebbe essere meno degno dell'amore della libertà come principio morale universale? Il patriottismo repubblicano sa attraversare i confini delle nazioni. È più forte delle differenze culturali e religiose. Chi ama la libertà del proprio popolo rispetta anche la libertà degli altri popoli e si impegna per difenderla. L'esempio dei patrioti italiani, e non solo italiani, dell'Ottocento è eloquente. Non sostengo che l'amore della libertà del patriota è più intenso dell'amore della libertà dell'universalista. Sostengo che ha la medesima dignità morale, nonostante sia particolaristico. Come il Dio (o la divinità) che vive nel particolare è di ugual pregio del Dio universale, così, per riprendere l'analogia di Kateb, la libertà di un popolo è di ugual pregio morale della libertà dell'individuo in generale o della persona.
Con la differenza, e qui cerco di rispondere anche all'obiezione di Amy Gutmann, che in via di fatto è impossibile vivere come individuo libero in un popolo schiavo. Questo significa che quando esorta a considerare la libertà comune quale bene supremo, il patriottismo repubbblicano indica la via per difendere in modo efficace la libertà dell'individuo, non la via per asservire l'individuo allo Stato; e quando sostiene che vivere liberi nel proprio popolo è più bello che non vivere liberi in un popolo straniero, sostiene una idea della libertà che può essere giudicata buona o cattiva, ma rimane sempre una libertà dell'individuo. Se dunque insegnassimo ai giovani il patriottismo repubblicano credo che avremmo buone probabilità di formare dei buoni cittadini di una democrazia costituzionale. Sarebbe tuttavia sbagliato, e in questo Amy Gutmann ha ragione, insegnare solo il patriottismo repubblicano. È giusto insegnare sia il patriottismo repubblicano sia l'universalismo (nelle sue varie forme). '
Chiudo ricordando che Per amore della patria aveva l'ambizione di essere uno studio di storia del pensiero politico corredato, per così dire, da una morale, o, più modestamente, da un consiglio. Il consiglio era rivolto alla sinistra italiana, nelle sue varie componenti, affinché abbandonasse la diffidenza nei confronti del patriottismo come tale e intendesse il valore politico e ideale del patriottismo repubblicano. Tranne poche, anche se importanti, eccezioni, mi pare che la sinistra abbia lasciato cadere il consiglio. Eppure dirigenti prestigiosi della sinistra mondiale hanno saputo riscoprire il linguaggio del patriottismo. Qualche mese prima della sua vittoria contro i conservatori, Tony Blair ha proclamato al congresso di Brighton che il Labour Party doveva essere il «partito patriottico del popolo». E ha spiegato che essere un partito patriottico del popolo significa impegnarsi a condurre una politica che mira al bene comune e vuole costruire una Gran Bretagna in cui i cittadini si sentono legati da vincoli di solidarietà. Chissà per quale misteriosa ragione noi italiani, sempre pronti a importare idee politiche d'oltremanica e d'oltreoceano, non abbiamo ancora accolto il miglior patriottismo elaborato da quelle parti (quanto al peggiore lasciamoglielo pure).
Credo che il patriottismo repubblicano avrebbe il benefico effetto di incoraggiare la sinistra ad acquisire nella sua cultura, e nella sua azione politica, il senso della responsabilità verso il bene pubblico e il significato dei doveri civili. Da quando è uscito il libro la sinistra si è attestata, credo, su un socialismo liberale corroborato dal solidarismo cristiano. Questo cambiamento rende ancora più necessario l'aiuto del patriottismo repubblicano. Per la ragione che il socialismo liberale non ha coltivato infatti il senso dello Stato. Uno degli scritti più significativi di Carlo Rosselli si intitolava, per ragioni fin troppo ovvie, Contro lo Stato. Temo tuttavia che la sinistra continuerà a rimanere tiepida, se non fredda, nei riguardi del patriottismo repubblicano. La sua lunga e bella storia di movimento rivendicativo contro lo Stato o lontano dallo Stato, e la sua tradizione culturale internazionalista, europeista o cosmopolita la rende sospettosa nei confronti del patriottismo e poco disponibile ad accogliere l'idea di un progetto di emancipazione da realizzarsi con la repubblica e grazie alla repubblica.
Mentre aiuterebbe la sinistra a far bene, il patriottismo repubblicano darebbe una mano alla destra a non fare male, nel senso che la incoraggerebbe ad abbandonare il nazionalismo e il campanilismo che ispira la sua ideologia e la sua azione politica. Fino ad oggi, tuttavia, le reazioni della destra sono state sprezzanti. «Allo scopo di rendere commestibile l'idea patriottica per gli stomaci di una sinistra abituata ad ingurgitare per decenni dosi massicce di internazionalismo proletario, ha scritto un mio critico, Viroli tira fuori così l'idea [ ... ] di distinguere il patriottismo dal nazionalismo». Fatica non solo vana, per la ragione che non «è mai esistita un'ideologia patriottica contrapposta ad un'ideologia nazionalista». Del resto, conclude il recensore, l'idea repubblicana di patria non basta «a far marciare una democrazia» (Aldo Di Lello, Ma la Patria è di tutti, in «Il Secolo d'Italia», 12 luglio 1995). Il lettore giudicherà se la distinzione fra nazionalismo e patriottismo repubblicano che sostengo nel libro è convincente o meno. In ogni caso rassicuro il mio critico che il fatto che l'idea di patria che sostengo non basta a «far marciare» la democrazia, non mi affligge, per la semplice ragione che non credo che le democrazie debbano marciare. Se altre idee, come quella di nazione, sono più adatte allo scopo, altri ne facciano pure l'uso che credono.
Nonostante le freddezze e le ostilità con cui Per amore della patria è stato accolto, l'atteggiamento degli italiani verso l'idea di patria e l'amor di patria è cambiato, negli ultimi anni. Come ha messo in rilievo il presidente della Repubblica Carlo Azelio Ciampi nel suo messaggio di fine anno del 31 dicembre 2000, si avverte negli italiani un desiderio di affermare un patriottismo che, per fortuna, si accompagna anche alla consapevolezza di appartenere alla più grande patria che è l'Europa e ad una più forte coscienza dell'identità regionale. Questa riscoperta del patriottismo può essere una risorsa importante per ricostruire la coscienza civile nella classe dirigente e nei cittadini, se sapremo dare alle parole patria e amore della patria il loro significato migliore. Vorrei che questa nuova edizione potesse dare un contributo in questo senso.

PREFAZIONE ALL'EDIZIONE ITALIANA

In questo saggio che presento in edizione italiana l, sostengo un'interpretazione del patriottismo ricavata dalla tradizione del pensiero politico repubblicano che ritengo possa essere un antidoto alle celebrazioni nazionaliste dell'omogeneità culturale del popolo e un fattore di rafforzamento della virtù civile, ovvero l'amore della libertà comune. La democrazia ha certo bisogno di un sentimento condiviso di appartenenza, ma non di un sentimento di appartenenza all'unità culturale (o, peggio, religiosa o etnica) della nazione, bensì di un sentimento di appartenenza alla repubblica. Si intende: non una repubblica in generale, ma una particolare repubblica con la sua storia, le sue memorie, la sua cultura. Ha bisogno di patriottismo, per dirla in modo schematico, non di naazionalism03•
E la differenza è di sostanza. Chi vuole irrobustire la nazione deve, se è coerente, operare per rafforzare l'unità culturale del popolo; e questo comporta inevitabilmente ridurre la diversità culturale, o religiosa, o ideologica, con l'ovvia conseguenza di incoraggiare il bigottismo e l'intolleranza, senza essere affatto certi di stimolare l'amore della libertà. Chi vuole il patriottismo deve invece cercare di rafforzare l'attaccamento dei cittadini alla repubblica per mezzo del buon governo e la partecipazione alla vita politica, senza mettere a repentaglio il pluralismo culturale, religioso e ideologico. C'è una importante differenza fra chi ama il bene comune perché ama l'unità e l'omogeneità culturale della comunità nazionale cui appartiene, e chi ama il bene comune perché ama la libertà comune; fra chi vuole prima di tutto conservare la purezza della cultura e chi vuole che nessuno sia oppresso o discriminato.
Contro questa tesi si potrebbe osservare, come è stato sostenuto, che nazione e democrazia hanno, storicamente, camminato insieme, perlomeno in Europa. Per affrontare seriamente questo problema servono analisi storiche che qui non posso neppure delineare; mi limito solo ad osservare che le tre esperienze moderne più significative di costruzione della democrazia - l'Inghilterra, gli Stati Uniti e la Francia - sono state preparate e sostenute dalla cultura del patriottismo di ispirazione repubblicana: i Commonwealthmen inglesi si ispiravano all'idea classica della patria intesa come repubblica; i padri fondatori e i patrioti americani attingevano ampiamente alla tradizione repubblicana; a Valmy i francesi sconfissero gli eserciti controrivoluzionari al grido di «Vive la nation!», ma per nation intendevano la République. Ed è del pari vero che i nazionalisti italiani dell'inizio del Novecento esaltavano la nazione contro la democrazia, per non parlare del Fascismo, che pose la nazione al centro della propria ideologia e propaganda. Questo non significa che nazione e democrazia siano in via di principio incompatibili; significa solo che se vogliamo far crescere la coscienza civile di cui la democrazia, in Italia e altrove, ha bisogno, è forse meglio affidarsi agli ideali del patriottismo repubblicano che non a quelli della nazione.
Un altro problema che mi pare particolarmente vivo è quello dell'orgoglio nazionale. Gli italiani non ne hanno, ha scritto di recente Norberto Bobbio, anche perché non hanno molto di cui essere fieri. A prima vista la mancanza di orgoglio nazionale sembra un bene, una benefica difesa contro il ridicolo e pericoloso sentimento di superiorità verso altri popoli. Ma è anche vero che chi non ha orgoglio della propria dignità difficilmente trova la forza e le motivazioni per esigere di essere trattato come cittadino. Per rafforzare il giusto tipo di orgoglio non è necessario incoraggiare la convinzione che «siamo più bravi degli altri»; basta la consapevolezza, più modesta, che c'è stata e c'è un'Italia di cui si può essere fieri perché fatta di uomini e di donne che hanno lottato e si sono sacrificati per la libertà comune. Il fatto che si tratti di una Italia minoritaria e quasi sempre sconfitta dall'Italia dei furbi e degli arroganti è una ragione in più per proclamarne il valore. Le sconfitte per le cause giuste servono più delle memorie dei trionfi in quanto educano un sentimento di dignità immune da boria e vanagloria.
È pressoché superfluo dirlo, ma ho comunque l'obbligo di precisare che lo studio che presento in edizione italiana non vuole essere una storia completa del patriottismo e del nazionalismo, ma solo un tentativo di riportare alla luce uno dei significati storicamente rilevanti del linguaggio del patriottismo e di mettere in evidenza la differenza fra patriottismo e nazionalismo. Mi ha consolato, da questo punto di vista, leggere che l'eminente teorico fascista Alfredo Rocco esaltava contro il patriottismo ( «salsa che si trova in tutte le vivande») il nazionalismo inteso come «attaccamento alla nazione, alla razza [e] difesa della propria razza»; e mi ha del pari rinfrancato leggere che le voci Patria e Patriottismo non figurano nelle due summae della cultura fascista, ovvero l'Enciclopedia italiana e il Dizionario di politica. Tuttavia, anche se per ipotesi il mio tentativo di mostrare la differenza fra patriottismo e nazionalismo avesse qualche successo (cosa di cui dubito), non coltivo molte speranze di vedere rinascere nel nostro paese i valori e la cultura del patriottismo repubblicano. Spero solo che il lavoro fatto aiuti, soprattutto la sinistra, a non ripetere l'errore di lasciare alla destra il monopolio del linguaggio del patriottismo.
Infine ho l'obbligo piacevole di esprimere la mia gratitudine agli amici che mi hanno aiutato nel lavoro, in primo luogo Quentin Skinner e Michael Walzer che hanno letto e commentato il manoscritto. Desidero inoltre ringraziare gli amici del Department ofPolitics diPrinceton: George Kateb, Amy Gutmann, Alan Ryan, Elizabeth Kiss e Oliver Avens per l'interesse e l'affetto con cui hanno seguito negli anni il mio lavoro. Un ringraziamento particolare va all'editore per la convinzione con cui ha sostenuto la presente opera e il suo aiuto prezioso.
Tengo infine a ricordare il debito intellettuale e personale con mia moglie Nadia Urbinati, che ha eroicamente sopportato le mie chiacchiere sulla patria e l'amor di patria, e mi ha suggerito la citazione da John Stuart Mill che ho posto in apertura del libro.

Dedico questo libro a Norberto Bobbio, il quale mi ha insegn~to che l'impegno civile può e deve andare insieme all'integrità morale e al rigore intellettuale.

PER AMORE DELLA PATRIA

È praticamente superfluo dire che non intendiamo «nazionalità» nel senso popolare del termine, come insensata antipatia nei confronti degli stranieri; come un'indifferenza nei confronti del benessere generale della razza umana o come un'ingiusta preferenza per i presunti interessi nazionali o come il rifiuto di adottare per il nostro Paese quello che è stato trovato buono per altri. Intendiamo invece il principio di simpatia, non di ostilità; di unione, non di separazione. Intendiamo il sentimento di comunanza d'interessi tra coloro che vivono sotto il medesimo governo ed entro i medesimi confini naturali o storici. Intendiamo che una parte della comunità non si consideri estranea rispetto a un'altra sua parte; intendiamo che le varie parti della comunità faccciano, della loro connessione, un valore; che sentano di essere un solo popolo; che sentano che il loro corpo è fuso insieme e che quello che è male per uno qualsiasi dei loro compatrioti è male anche per loro; che non desiderino egoisticamente liberarsi della loro parte d'inconvenienti comuni reecidendo questa connessione.
John Stuart MilI, A System oJ Logic, Ratiocinative and lnductive (1843), libro VI, 10.5; trad. it. Sisteema di logica deduttiva e induttiva, voI. II, Utet, Toorino 1988, pp. 1222-23

INTRODUZIONE

Nella letteratura accademica e nel linguaggio comune 'patriottismo' e 'nazionalismo' sono considerati concetti equivalenti. In questo saggio intendo argomentare che essi possono e debbono essere distinti. Il linguaggio del patriottismo è stato usato nei secoli per rafforzare o suscitare l'amore per le istituzioni politiche e il modo di vita che sostengono la libertà comune di un popolo, in una parola, la repubblica; il linguaggio del nazionalismo nato in Europa nel tardo Settecento fu elaborato per difendere e rafforzare l'unità e l'omogeneità etnica, linguistica e culturale di un popolo. Mentre i nemici del patriottismo sono stati, storicamente, la tirannide, il despotismo, l'oppressione e la corruzione, gli avversari del nazionalismo sono stati e sono la contaminazione, l'eterogeneità, l'impurità etnica e culturale, e la disunione politica e sociale.
Questo non significa che i teorici del patriottismo disprezzino o ignorino la cultura, il linguaggio o le tradizioni di un popolo. Anche i patrioti che hanno sottolineato la distanza fra i valori politici della repubblica e i valori della cultura hanno sempre inteso, quando parlano di libertà e di repubblica, la libertà comune di un popolo particolare, con la sua storia specifica e la sua cultura. La distinzione riguarda la priorità dei due ordini di valori: per il patriota i valori principali sono la repubblica e il vivere libero che la repubblica permette; per il nazionalista, i valori supremi sono l'unità e la purezza culturale e spirituale di un popolo; negli scritti dei padri fondatori del nazionalismo, la repubblica è infatti ripudiata o trattata come una questione di secondaria importanza. Patrioti e nazionalisti hanno indicato non solo diversi ideali come oggetti di amore e lealtà: la repubblica, nel caso dei patrioti, la nazione, intesa come unità spirituale e culturale, nel caso dei nazionalisti; ma hanno anche cercato di rafforzare o suscitare diversi tipi di amore: un amore caritatevole e generoso nel caso dei patrioti, una lealtà incondizionata e un attaccamento esclusivo nel caso dei nazionalisti.
Le storie del patriottismo e del nazionalismo sono ovviamente più complesse. Storicamente, il patriottismo ha significato anche lealtà alla monarchia ed è stato usato per giustificare la conquista, 1'oppressione e la discriminazione, e l'ideale della nazione e dell'unità spirituale e culturale del popolo è stato invocato per sostenere lotte per la libertà. La distinzione che suggerisco è una povera semplificazione di una ricca e variegata vicenda intellettuale e politica. Eppure, nonostante le affinità e le sfumature, è storicamente e teoricamente lecito identificare un linguaggio del patriottismo inteso come linguaggio della libertà comune che è sostanzialmente diverso dal linguaggio nazionalista dell'unità, dell'unicità e dell'omogeneità spirituale e culturale.
Gli sforzi per separare patriottismo e nazionalismo non sono mancati, ma sono riusciti ad esprimere la differenza fra i due linguaggi solo in modo impreciso e insoddisfacente.

Il nazionalismo - ha scritto ad esempio George Orwell- non deve essere confuso con il patriottismo. Entrambi i nomi sono di solito usati in modo così vago che qualsiasi definizione può essere messa in discussione; eppure è necessario tracciare una linea di separazione in quanto i due termini indicano due diverse e addirittura opposte idee. Per «patriottismo» intendo la devozione a un particolare luogo e ad un particolare modo di vita che si crede essere il migliore al mondo senza tuttavia desiderare di imporlo ad altri. Il patriottismo è per sua natura difensivo, sia militarmente che culturalmente. Il nazionalismo, per contro, non può essere separato dal desiderio di potere. Lo scopo dominante di ogni nazionalista è di ottenere più potere e più prestigio non per sé, ma per la nazione o altre unità in cui egli ha deciso di immergere la sua individualità.

La definizione di Orwell coglie aspetti importanti del patriottismo e del nazionalismo, ma è anche fuorviante. I teorici del patriottismo non parlano di devozione, ma di pietà, di carità e di compassione. La differenza comporta una diversa interpretazione delle passioni che formano il nucleo del patriottismo; e 1'oggetto della compassione e della pietà non è tanto il luogo quanto la repubblica e il modo di vivere libero in quel particolare luogo. Quanto al nazionalismo, è certo esatto per molti teorici del nazionalismo parlare di desiderio di potenza nazionale, ma questo non vale per altri, come ad esempio Herder.

Considerazioni simili valgono anche per la distinzione proposta da Karl Deutsch. Il patriottismo, scrive, è uno sforzo o una disponibilità a promuovere gli interessi di tutte le persone che sono nate o vivono nella stessa patria ovvero nello stesso paese, mentre il nazionalismo mira a promuovere gli interessi di tutti coloro che appartengono alla stessa natio, ovvero formano un gruppo che ha una comune discendenza, una comune educazione, e modi di comunicazione condivisi. Il patriottismo fa appello a tutti i residenti di un gruppo etnico senza tenere conto della loro provenienza etnica. Il nazionalismo fa appello a tutti i membri di un gruppo etnico indipendentemente dal loro paese di residenza. Il patriottismo basato sulla residenza emerge spesso nei primi stadi di mobilità economica e sociale come quella che avvenne in Europa nell' era mercantilista, fino alla metà del XIX secolo. Man mano che la mobilità aumenta e coinvolge masse più larghe della popolazione nel contesto di una competizione più intensa e di maggiore insicurezza politica, il patriottismo è sostituito dal nazionalismo basato su caratteristiche personali più specifiche e permanenti e sugli abiti comunicativi di ogni individuo.
Collocare il patriottismo fra la tarda era mercantilista e la metà del XIX secolo, e presentare il nazionalismo come un fenomeno tipico di una fase storica segnata da intensa competizione e insicurezza politica, è un errore storico. Come cerco di mostrare nei capitoli conclusivi, ci sono molti esempi di testi di contenuto squisitamente patriottico, e deliberatamente antinazionalisti, scritti in periodi di straordinaria insicurezza politica e ben oltre la metà del secolo XIX.
Come Proteo, la profetica divinità marina della mitologia greca capace di cambiare forma a piacere per difendersi da chi tenta di afferrarlo per carpirgli i suoi segreti, il patriottismo e il nazionalismo sfuggono abilmente gli schemi concettuali che gli studiosi hanno forgiato per definirne la natura6. Per questo, la letteratura abbonda di lamenti e di confessioni di impotenza: come Proteo, il patriottismo e il nazionalismo possono dirci molto sul nostro passato, sul nostro presente, e sul nostro futuro, ma non abbiamo ancora trovato il modo di convincerlo a rivelarci i suoi segreti. Forse il metodo giusto è quello storico; anziché cercare di costruire definizioni scientifiche della natura del patriottismo e del nazionalismo, proviamo a capire che cosa intendono dire filosofi, storici, agitatori, poeti e profeti quando parlano di amore della patria o di lealtà verso la nazione. Attraverso il lavoro di interpretazione storica possiamo capire il significato delle espressioni, metafore, allusioni, esortazioni, che i teorici del patriottismo e del nazionalismo hanno elaborato nei secoli per sostenere o combattere, o moderare, o rafforzare, o resuscitare il ricco e ,multiforme insieme di passioni che formano la sostanza vitale del patriottismo e del nazionalismo.
Il metodo storico, com'è ovvio, può aiutarci solo a scoprire significati locali e a identificare la persistenza di tradizioni intellettuali basate sull'impiego dei medesimi concetti. Per quanto frammentarie e incomplete, le storie sull'amore della patria, sull'amore della libertà e sul bisogno di unità culturale, così come i racconti dei patrioti che narrano di esilio morale e i lavori degli storici che hanno cercato di ricostruire la storia dei popoli per ridefinire l'identità spirituale della nazione, e ancora le opere dei filosofi che hanno indagato le possibili trasformazioni a1chemiiche delle passioni del patriottismo e del nazionalismo, ci dicono molto di più delle teorie, dei modelli e delle definizioni generali.
Con l'aiuto dell'indagine storica possiamo distinguere meglio il patriottismo dal nazionalismo ed evitare le imprecisioni che si riscontrano anche nei migliori studi, come, ad esempio, quello di Benedict Anderson, che giustamente non cerca definizioni scientifiche o oggettive della nazione, ma tratta le nazioni come una «costruzione intellettuale di tipo particolare» da analizzare storicamente per capire «in che modo i loro significati sono cambiati nel tempo e perché, oggi, le nazioni suscitano una così profonda legittimità emotiva»7. Invece di considerarlo come una patologia della storia moderna, Anderson analizza il nazionalismo dal punto di vista antropologico, ovvero come un fenomeno paragonabile non al liberalismo o al fascismo, ma alle relazioni di parentela e alla religione. Il nazionalismo, sottolinea, non è affatto radicato «nella paura e nell'odio dell'Altro»; non va considerato come una forma di razzismo, bensì come una forma di amore. Le nazioni ispirano amore, e spesso un amore profondo che spinge al sacrificio di sé. A sostegno della sua tesi, Anderson cita testi in cui la parola 'patria' è usata per indicare il suolo natio intriso di memorie comuni e ideali di libertà che ispirano un amore generoso e compassionevole. Ma la patria è stata intesa storicamente anche come una comunità di lingua o di stirpe che esige un amore esclusivo, sordo e cieco. Queste differenze devono essere tenute presenti; parlare di 'amore della patria' o di 'nazionalismo' in generale equivale a mescolare vividi colori in una opaca mistura.
La confusione fra patriottismo e nazionalismo è causa di fraintendimenti circa l'origine del linguaggio del nazionalismo. La specificità del nazionalismo, scrive ad esempio Liah Greenfeld nel suo ottimo studio, deriva dal fatto che il nazionalismo colloca l'origine dell'identità individuale nel «popolo» inteso come titolare della sovranità, e fondamento della lealtà e della solidarietà collettive. Contro l'opinione condivisa dalla maggior parte degli studiosi, Greenfeld sottolinea che «il nazionalismo non è necessariamente una forma di particolarismo» e che la sua origine non va situata nelle dottrine del tardo Settecento che rivendicano l'importanza dell'attaccamento al proprio linguaggio, alla propria cultura, alla propria etnia, ma nel concetto di popolo sovrano elaborato agli inizi del Cinquecento. L'identità nazionale nel suo significato specificamente moderno è dunque un'identità che deriva dall'appartenenza a un popolo la cui caratteristica principale è di essere definito come una nazione. Ogni membro del popolo inteso come nazione condivide una dignità comune. In questo modo anche una popolazione stratificata è percepita come un tutto essenzialmente omogeneo, e le divisioni di classe e di status appaiono come divisioni superficiali. Questo principio, conclude Grenfeld, è alla base delle diverse forme di nazionalismo e permette di trattarle come un unico fenomeno.
Come Greenfeld sottolinea giustamente, nell'Inghilterra del Cinquecento venivano usati, come sinonimi di 'nazione', i termini «bene pubblico» (<<publike weale»), e «paese» (<<country»), che derivano entrambi dalle parole latine respublica e patria. Questo significa che quando gli scrittori politici parlano di 'nazione', intendono un popolo sovrano unito in una comunità politica indipendente, ovvero una 'repubblica', o una 'patria' nel significato classico. Ma proprio per questo l'apparire del termine 'nazione' usato in questa accezione non segna l'inizio della storia del nazionalismo moderno, ma deve essere visto come un altro capitolo nella lunga storia del linguaggio del patriottismo. E infatti i sostenitori della 'nazione' nel significato di repubblica si proclamavano ed erano chiamati patrioti, non nazionalisti, e 'questo non solo in Inghilterra, ma anche in Francia, in Italia, in Spagna e negli Stati Uniti. Come altri studiosi, Greenfeld distingue un «nazionalismo civico», che identifica la nazione con la cittadinanza, e un «nazionalismo etnico», che considera la nazionalità come un dato genetico o culturale. Suddivide poi il «nazionalismo civico» in «nazionalismo individualisticobertario» e in «nazionalismo collettivistico-autoritario», e qualifica invece il «nazionalismo etnico» come un nazionalismo sempre «collettivistico-autoritario». Queste distinzioni sono indubbiamente utili, ma hanno il difetto di trattare il nazionalismo come un'unica tradizione intellettuale che nasce nell'Inghilterra del Cinquecento e si presenta con sfumature diverse a seconda dei tempi e dei luoghi. La realtà storica è però diversa; il linguaggio del nazionalismo moderno è nato come una trasfigurazione o un adattamento del linguaggio del patriottismo: la parola 'patria' e l'espressione 'amore della patria' acquisirono nuovi significati, e il tema dell'unità culturale o etnica di un popolo, che il patriottismo repubblicano aveva trascurato o trattato come questioni di importanza secondaria rispetto al valore prioritario della comune libertà, assunsero gradualmente un ruolo di primo piano. Per capire il significato storico del linguaggio del nazionalismo bisogna dunque partire dal patriottismo, e pensare in termini di due linguaggi, non di uno solo che si sviluppa e si trasforma nel corso dei secoli.
Oltre ad essere storicamente insostenibile, la confusione fra patriottismo e nazionalismo non consente di vedere che, se inteso correttamente, il linguaggio del patriottismo repubblicano può funzionare come un valido antidoto al nazionalismo. Come quello del nazionalismo, il linguaggio del patriottismo è eminentemente un linguaggio retorico che mira a suscitare, rafforzare e orientare le passioni di un popolo; non cerca il consenso razionale di agenti impersonali. Vuole rafforzare una passione - l'amore della libertà comune - che è tanto particolaristica quanto l'amore o l'orgoglio per l'unità culturale o il destino comune di un popolo. Il linguaggio del patriottismo opera sull'attaccamento che proviamo per chi è simile a noi per trasformarlo in una forza che sostiene la libertà anziché fomentare l'aggressione o l'esclusione; non dice agli italiani o ai tedeschi che devono pensare e agire come cittadini del mondo o amare una libertà e una giustizia anonime, ma che devono imparare ad essere cittadini italiani o tedeschi impegnati a difendere e a migliorare la loro repubblica per poter vivere liberi secondo la loro cultura e la loro storia. Il linguaggio del patriottismo permette di dire tutto questo usando immagini, memorie comuni e storie ricche di significati che danno all'ideale della repubblica colori e calore.
Le storie e le immagini del patriottismo hanno una morale, ma non offrono argomenti morali veri e propri che giustificano perché abbiamo il dovere di impegnarci a sostenere la libertà comune del nostro popolo. La risposta che i teorici repubblicani hanno dato a questo problema è nota: abbiamo il dovere di servire la nostra patria perché abbiamo con essa un debito; dobbiamo ad essa la nostra vita, la nostra cultura e soprattutto la nostra libertà. Se vogliamo essere persone morali decenti dobbiamo dunque restituire quello che abbiamo ricevuto servendo il bene comune con tutte le nostre forze.
Si possono naturalmente compilare diverse liste, più o meno onerose, degli obblighi verso la patria. E tutte sono discutibili; nessuna di esse ha mai ottenuto, né mai otterrà, il consenso di tutti. Questo non vuol dire che gli argomenti circa gli obblighi dell'individuo verso la patria

siano irrilevanti o vani. Essi servono a definire i confini dell' obbligo e permettono di distinguere gli obblighi che dobbiamo accettare da quelli che dobbiamo respingere. Se l'obbligo che abbiamo verso la patria è in primo luogo quello di difendere la libertà comune, i limiti dell'obbligo sono abbastanza precisi. Essere patrioti in questo senso significa che dobbiamo lottare contro chiunque voglia imporre degli interessi particolari contro il bene comune, che dobbiamo opporci ad ogni forma di discriminazione e di esclusione; e significa al tempo stesso che non abbiamo alcun obbligo di sostenere l'unità etnica, culturale, religiosa del nostro popolo e che non ci può essere chiesto di sostenere politiche di espansione e di conquista.
L'obbligo di difendere la libertà comune comporta che se la nostra patria è oppressa, dobbiamo impegnarci per liberarla, anziché cercare la libertà in un altro paese; e se siamo costretti a andarcene dobbiamo lavorare per poter tornare e vivere liberi con i nostri compatrioti. Ma perché dovrei soffrire e operare per la libertà della mia gente invece di cercare la mia libertà altrove? Se la mia patria mi tratta ingiustamente, io non le devo niente; non ho alcun obbligo. Una possibile risposta a queste domande, del tutto legittime, è che la libertà che possiamo trovare in un altro paese è inevitabilmente meno ricca e meno completa della libertà vissuta con la nostra gente. In qualsiasi altro paese potremmo, nel migliore dei casi, godere delle libertà civili e politiche, ma non potremmo vivere liberi secondo la nostra cultura. La libertà con la nostra gente ha un sapore più dolce; la sentiamo come una libertà nostra.
Ma anche questo argomento ha i suoi punti deboli. La ricompensa per l'impegno a difendere o a riconquistare la libertà comune può apparire a molti troppo remota e incerta, ad altri meno attraente della libertà in un paese straniero. Per spingere i nostri compatrioti ad impegnarsi per la libertà comune dovremo allora far leva sui sentimenti di compassione e di solidarietà che nascono, quando nascono, dai vincoli di linguaggio, di cultura e di storia. Bisogna cercare di tradurre il sentimento di una comune appartenenza in amore della libertà comune, e per realizzare questa alchimia delle passioni abbiamo certo bisogno di argomenti morali che fanno appello alla ragione e agli interessi, ma dobbiamo saper ricorrere anche, come fanno i bravi retori, a storie, immagini e visioni del passato e del futuro.
Per quanto difficile, non possiamo sottrarci al compito di cercare di rafforzare il patriottismo della libertà. Per vivere e fiorire la democrazia ha bisogno di virtù civile, ovvero di cittadini capaci di impegnarsi per il bene comune e di mobilitarsi per la libertà di tutti. Eppure, per molti filosofi politici la virtù civile è una virtù obsoleta o un mito pericoloso che qualche nostalgico irresponsabile vorrebbe resuscitare. In società democratiche e multiculturali come le nostre, ha scritto ad esempio Michael Walzer, possiamo avere solo un equilibrio di virtù civile e ordinaria 'civiltà', in cui la parte predominante spetta a quest'ultima. Se vogliamo modificare l'equilibrio a favore della virtù civile, del patriottismo e dell'impegno politico, dobbiamo essere consapevoli che questo riequilibrio può essere conseguito solo a scapito della 'civiltà' e della tolleranza. Il patriottismo e la virtù civile fomentano le passioni e l'entusiasmo, entrambi nemici pericolosi della moderazione, della pubblica quiete e della tolleranza13. Senza vocazione per la politica, senza forti identificazioni religiose o nazionali, interamente assorbiti dai piaceri e dai problemi della vita privata, i cittadini delle democrazie occidentali non trovano e non possono trovare allettante l'ideale della virtù civile. Ciò che a loro interessa non è la virtù civile, ma la libertà, o, per usare le parole di Benjamin Constant, la libertà dei moderni. Quella degli antichi, che si esprime nell' esercizio diretto della sovranità politica e che i teorici del patriottismo celebravano come il momento più alto della vita civile, è considerata come un dovere di cui si farebbe volentieri a meno.
I teorici contemporanei di una «politica della virtù civile», d'altra parte, sottolineano che, per vedere rifiorire la virtù civile, bisogna che i cittadini condividano una particolare concezione del bene morale o della vita buona e siano fortemente legati alla loro comunità e alla loro cultura. L'amore del bene comune, aggiungono, deve essere radicato nell'amore della patria, inteso come amore di ciò che rende ogni patria unica, ovvero il linguaggio, l'origine etnica e la storia. Questo tipo di patriottismo, tuttavia, danneggia più che aiutare la causa della virtù civile. Un amore della patria che è soprattutto attaccamento ai comuni caratteri etnici o culturali, o a particolari concezioni del bene morale, o a visioni del destino della nazione, può forse incoraggiare la solidarietà e l'impegno per il bene comune. Ma incoraggia anche il disprezzo per chi è diverso per cultura o per religione, o per stile di vita. Ci sono molti esempi di individui pronti a dare il proprio sangue per la patria che non hanno alcuna esitazione a negare la libertà religiosa o i diritti delle minoranze e combattono con determinazione contro il pluralismo culturale. E la meschinità del loro patriottismo riflette il carattere esclusivo del loro amore della patria.
La virtù civile sembra dunque essere o impossibile o pericolosa: non può o non deve diventare un concetto importante del nostro linguaggio politico e un valore condiviso fra i cittadini delle nostre democrazie. Eppure qualsiasi repubblica decente ha bisogno di cittadini che oltre a cercare il proprio interesse, amano la repubblica. Ma poiché l'amore si rivolge sempre a persone o oggetti particolari, per amare la repubblica i cittadini devono sentirla come un bene che è distintamente loro. Bisogna allora cercare i modi di incoraggiare le passioni giuste; bisogna entrare nell'universo della particolarità e confrontarsi con le passioni intolleranti ed esclusive. La virtù civile per essere possibile deve essere particolaristica, ma non possiamo accettare che diventi un attaccamento ripugnante e pericoloso per i valori della convivenza civile.
Per trovare una soluzione a questo dilemma dobbiamo ripensare i lavori dei pensatori repubblicani che hanno definito la virtù civile o politica come un amore della patria che non è attaccamento all'unità etnica, culturale o religiosa di un popolo, ma amore della libertà comune e delle istituzioni e del modo di vita che la sostengono. Anch'esso è un amore particolaristico perché è amore della libertà comune di un popolo particolare che si fonda su istituzioni che sono parte di una cultura e hanno per quel popolo dei significati che i cittadini di altri popoli possono condividere solo in parte. Così intesa, la virtù civile diventa possibile ma non esclusiva: è possibile perché è amore di un bene particolare; non è esclusiva perché l'amore della libertà comune di un popolo si può estendere oltre i confini nazionali e trasformarsi in solidarietà con gli altri popoli.
Storicamente, gli argomenti del patriottismo sono stati formulati o come appelli ai valori di libertà o come appelli ai valori dell'unità o dell' omogeneità. Le considerazioni sul patriottismo che presento in questo saggio nascono esclusivamente da preoccupazioni per la libertà, o meglio, per l'eguale libertà, ovvero la possibilità per tutti i membri della repubblica di vivere come cittadini e di godere senza essere oppressi i propri diritti politici, civili e sociali. Considero invece l'unità o l'omogeneità culturale, etnica o religiosa uno dei peggiori vizi della repubblica. L'unità e l'omogeneità non rendono la repubblica più forte e non aiutano a far crescere nel cuore dei cittadini l'amore della libertà. Servono solo a rendere la repubblica una comunità asfissiante, noiosa, soporifera, opprimente, abitata da cittadini bigotti e intolleranti. Una buona repubblica che voglia essere davvero la città di tutti non ha bisogno di omogeneità morale, culturale o religiosa; ha bisogno di un altro tipo di unità, ovvero l'unità politica sostenuta dall'attaccamento all'ideale della repubblica.
Non mi riferisco, devo insistere su questo punto, all'amore della repubblica in generale o all'attaccamento all'ideale di una repubblica basata sui valori universali della libertà e della giustizia. Mi riferisco all'attaccamento ad una particolare repubblica e ad un particolare modo di vivere liberi. Se presentato come un ideale puramente politico, o peggio giuridico, l'ideale della repubblica potrebbe forse ottenere l'assenso dei filosofi politici, e dei giuristi ma non saprebbe generare impegno. Per suscitare le passioni di cui la repubblica ha bisogno, è necessario fare appello alla cultura comune e alle memorie e speranze condivise. Ma se l'appello vuole essere, come deve essere, un appello in nome della libertà, bisogna far leva sulla cultura che nasce dalle esperienze di cittadinanza, sulle memorie condivise di resistenza all'oppressione, allo sdegno contro la corruzione e l'arbitrio. Non c'è alcun bisogno, per avere cittadini migliori, di rafforzare l'unità morale o religiosa o etnica.
I progetti di riforma sociale e politica che si ispirano all'ideale della repubblica richiedono la disponibilità a lavorare insieme di molti uomini e donne per lunghi periodi. La solidarietà e l'impegno in movimenti sociali e politici presuppongono il senso di appartenenza: ciascuno deve fare la propria parte, ma per fare la propria parte bisogna sentirsi parte. Il linguaggio del patriottismo repubblicano o civile cerca di rafforzare, attraverso l'uso della retorica, un particolare tipo di sentimento di appartenenza, ovvero il sentimento di appartenenza alla repubblica e alla comunità dei cittadini. Si serve delle parole per trasformare i vincoli di cultura, di lingua e di storia in impegno contro l'oppressione, la corruzione politica e la discriminazione. Fa appello a sentimenti condivisi, anche se spesso latenti, per chiamare all'impegno comune per fini sociali e politici che sono comuni, ma al tempo stesso vicini. Parla di patria per portare la repubblica più vicina al cuore e alla mente dei cittadini e cerca di dare ai principi della libertà comune e della giustizia incorporati nell'ideale della repubblica i colori e il calore che muovono all'azione.
Come la storia ha spesso dimostrato, quando una nazione attraversa una seria crisi morale e politica è verosiimile che o il linguaggio del patriottismo o quello del nazionalismo conquistino l'egemonia intellettuale. L'uno e l'altro possiedono una forza unificante e una capacità di mobilitazione che altri linguaggi, soprattutto il linguaggio dei diritti, non hanno. Una retorica che dica ai cittadini che essi devono in primo luogo considerare se stessi come individui dotati di diritti contro le intrusioni di altri individui o dello Stato non è adatta a generare l'impegno e la solidarietà necessari per fare lavorare insieme molti individui socialmente e culturalmente diversi per far rinascere una repubblica. A questo scopo dovrebbe servire meglio una retorica la quale dica ai cittadini di società democratiche multi culturali che, oltre alle lealtà di gruppo, essi dovrebbero condividere, in quanto individui morali razionali, l'adesione ai valori della libertà e della giustizia. L'argomento ha una sua forza persuasiva in quanto fa appello a comuni principi universali, ma presenta un'ovvia debolezza in quanto l'unità basata sull'adesione a comuni valori universali è debole e distante. Se vogliamo contrastare il linguaggio del nazionalismo che fa leva su valori condivisi meno razionali, ma certo potenti quali il linguaggio, l'etnia, la cultura e le memorie usando il linguaggio dell'universalismo liberale, temo che avremmo poche possibilità di trionfare in una competizione retorica, che è poi il solo tipo di competizione che ha rilievo nellla vita politica reale. Il valore delle teorie e dei linguaggi politici non vanno giudicati in termini assoluti, ma per quello che possono aiutarci a fare contro altre teorie e altri linguaggi che sostengono progetti politici diversi o opposti al nostro. Ciò di cui abbiamo bisogno è un linguaggio politico capace di contrastare i linguaggi nazionalisti e comunitari che pongono al primo posto nella scala dei valori morali e politici il bisogno di purezza culturale e spirituale. Il linguaggio del patriottismo civile è forse il giusto antidoto proprio perché è particolaristico come lo sono i linguaggi nazionalisti e comunitari, ma è particolaristico nel senso che vuole rendere !'ideale della repubblica particolare; non evita il terreno delle lealtà particolari sul quale fiorisce il nazionalismo, ma lavora su di esso per far crescere la cultura e la pratica della cittadinanza.
La necessità di affrontare seriamente il nazionalismo tanto sul piano intellettuale quanto su quello politico è particolarmente urgente per la sinistra democratica. La retorica nazionalistica è sempre stata ed è tuttora particolarmente efficace sui poveri, sui disoccupati, sugli intellettuali frustrati e sulla classe media in declino. Le persone socialmente umiliate e scontente trovano nell'appartenenza alla nazione un nuovo senso di dignità e di orgoglio: 'sono povero, ma almeno sono americano (o tedesco, o italiano)'. In questo modo forze sociali importanti che potrebbero contribuire alla causa della sinistra democratica sono spesso passate e tutt' ora passano nel campo della destra.
Eppure, anche se i costi politici sono stati enormi, la sinistra ha quasi sempre lasciato alla destra il monopolio del linguaggio del patriottismo. Storicamente, la sinistra è stata internazionalista o ha coltivato, senza che l'una cosa escluda l'altra, un suo patriottismo particolare basato sulla lealtà al partito o al sindacato. Tranne qualche lodevole eccezione, gli intellettuali di sinistra hanno fatto pochi sforzi per costruire un linguaggio del patriottismo capace di sconfiggere il nazionalismo18• Bisogna porre urgentemente rimedio a questa debolezza intellettuale e politica. La sinistra democratica deve affrontare il nazionalismo sul suo terreno; deve avere una risposta al bisogno di identità nazionale, ma la sua risposta deve essere diversa da quella del nazionalismo; non deve abbandonare il terreno, ma non deve neppure confondersi con il nemico. Non è un compito facile; c'è molta ricerca da fare. Un primo passo nella direzione giusta può essere cominciare a studiare e a discutere seriamente la tradizione del patriottismo.
Nel corso dei secoli, in diversi contesti intellettuali e politici il linguaggio del patriottismo repubblicano è stato usato per incoraggiare uomini e donne a lavorare insieme per fare delle loro comunità delle buone repubbliche, in cui ognuno possa vivere come libero cittadino il tipo di vita che sceglie di vivere. In certi casi, il linguaggio del patriottismo è stato usato per unire quanti volevano vivere come cittadini contro chi considera intollerabile l'eguaglianza civile e politica; altre volte ancora è stato usato dagli esclusi per chiedere pieno riconoscimento dei diritti civili e politici, e denunciare l'oppressione sociale. Se usato come si deve, il linguaggio del patriottismo basato sull'ideale della repubblica può sostenere anche oggi diverse forme di lotta per l'emancipazione e il riconoscimento; può aiutarci ancora, come è avvenuto nel passato, a riscoprire e ad imparare la politica nel suo significato più alto e genuino di arte della repubblica.

Il linguaggio del patriottismo della libertà può essere un'alternativa teorica o un complemento tanto alle teorie che mirano a trascendere la politica in fondazioni etiche di varia natura, basate su criteri o principi o procedure definiti dal punto di vista di individui disinteressati, culturalmente neutrali, privi di passioni, quanto alle teorie che confinano l'azione politica entro le sfere della cultura, dell'etnia e della religione. Diversamente dalle prime, il linguaggio del patriottismo invita gli individui a rimanere culturalmente definiti, interessati, appassionati, e cerca di instillare in essi una cultura della libertà, l'interesse per la repubblica e l'amore del bene comune; non si propone di indicare ciò che individui morali razionali dovrebbero fare, ma solo di rendere coloro che amano la libertà più forti dei fautori dell'oppressione. Diversamente dalla seconda posizione, che si può definire comunitaria o nazionalista, il patriottismo cerca di tradurre l'attaccamento alla gente che è culturalmente simile in impegno per la repubblica, ovvero a un bene che è particolare in quanto è la repubblica di un popolo particolare, ma tollera e incoraggia la diversità culturale al proprio interno e il rispetto dei diritti degli altri popoli all'esterno. Nel caso delle fondazioni filosofiche della politica, il lavoro da fare è evitare inutili fughe nella razionalità e rimanere saldamente ancorati alle passioni per cercare di modellarle attraverso la retorica e l'azione politica; nel caso del nazionalismo e del comunitarismo bisogna lavorare con la retorica e l'azione politica, per trasformare le passioni meschine e sordide in passioni generose. Fra i mondi ideali degli agenti morali razionali, degli osservatori imparziali e dei partecipanti a dialoghi filosofici e il mondo delle passioni esclusive c'è lo spazio per una possibile politica repubblicana. Il compito del linguaggio del patriottismo è quello di mantenere aperto questo spazio.
Benché sia teoricamente difendibile, il patriottismo repubblicano non possiede oggi un proprio linguaggio che lo distingua nettamente dal nazionalismo. Sembra quasi impossibile dire in modo convincente che patria vuol dire in primo luogo repubblica e libertà comune, che amore della patria non è né infatuazione per la grandezza della nazione, né desiderio esclusivo di possesso, ma un amore compassionevole e generoso che dà forza e si traduce in solidarietà con chi soffre l'ingiustizia e l'oppressione. Come si può esprimere e far rivivere la combinazione di questa idea di patria e di questo amor di patria? Non conosco la risposta a questa domanda, ma è certo che l'unico patriottismo che vale la pena recuperare dal passato deve essere un patriottismo che parla di repubblica e di pietà; deve essere un patriottismo della libertà.

I
L'EREDITÀ DEL PATRIOTTISMO REPUBBLICANO

Il linguaggio del patriottismo moderno fu costruito su fonti classiche. Come scrive Fustel De Coulanges, il patriottismo antico era soprattutto un sentimento religioso. La parola 'patria' significava «terra patria», la terra dei padri. La patria di ogni uomo era quel suolo santificato dalla religione del suo popolo dove ancora vive lo spirito degli antenati e riposano i loro resti mortali. La piccola patria era il cimitero di famiglia, la grande patria era la città, con i suoi monumenti, i suoi templi, i suoi eroi, il suo territorio dai confini segnati dalla religione. La patria era il suolo sacro abitato dagli dei e dagli antenati, e santificato dal culto religioso. Il patriottismo degli antichi era dunque un sentimento energico, la virtù più alta cui tendevano tutte le altre virtù. Tutte le cose più care erano legate alla patria. In essa gli antichi trovavano le loro proprietà, la loro sicurezza, le leggi, la fede religiosa, gli dei. Perdere la patria era perdere tutto1.
Il patriottismo religioso lega l'uomo alla patria con un vincolo sacro. Deve amare la patria come la religione; obbedire alle sue leggi come alle leggi divine, darsi ad essa interamente. L'amore della patria è un amore esigente' che non ammette né distinzioni né condizioni; comanda di amare la patria, non importa se gloriosa o oscura, prospera o povera.
Oltre al patriottismo religioso, e strettamente legato ad esso, l'antichità classica, in particolare i maestri del pensiero politico della Roma repubblicana, lasciarono in eredità ai moderni anche un patriottismo politico basato sull'identificazione della patria con la repubblica, il bene comune e la libertà. Nelle Tusculanae disputationes, per citare un luogo classico, Cicerone collega la patria alla libertà e alle leggi ( «È giusto combattere questa battaglia, è ben fatto lottare per le leggi, per la libertà, per la patria» )2. Sallustio nel De coniuratione Catilinae oppone la patria e la libertà al governo oligarchico: «Inoltre, soldati, un diverso bisogno sovrasta noi e loro: noi combattiamo per la patria, per la libertà, per la vita; a loro non reca alcuna utilità combattere per il potere di pochi»3. In un passo dell' Ab urbe condita, Livio parla delle sacre armi, della patria, e dellla libertà (<< [ ... ] pregando Giove di concedere propizio le armi sacre a coloro che le impugnavano per la patria, per i luoghi sacri agli dei e per la libertà»)4, e Quintiliano nelll' Institutio Oratoriae distingue la natio, intesa come i costumi di un popolo, dalla patria, intesa come le leggi e le istituzioni della città5. Nella De civitate Dei, infine, Agostino condensa in una sola frase l'equazione repubblicana fra patria, repubblica e bene comune: «la repubblica, cioè la cosa del popolo, la cosa della patria, la cosa comune.
Alla patria va un amore di tipo particolare, ovvero la pietas e la caritas. I cittadini devono alla loro patria - è l'esorrtazione classica del patriottismo repubblicano romano un amore simile all'affetto che essi provano per i familiari, i parenti e gli amici: un amore che si esprime in atti di servizio (ofjicium) e di cura per la cosa pubblica (cultus) 7. La pietas e la caritas non comportano né brama (cupiditas) né desiderio di possedere in modo esclusivo l'oggetto dell'amore e del desiderio; sono invece affetti generosi che si estendono oltre la cerchia degli amici per abbracciare la repubblica e i concittadini8. Per il cittadino virtuoso, la pietà rientra nei doveri della giustizia; indica il modo di essere giusti verso la patria9, ed è l'affetto che muove a compiere atti di servizio e di benevolenza per la repubblica1o. Come spiega Livio nel capitolo della storia di Roma dove narra del consolidamento della libertà romana dopo l'espulsione di Tarquinio il Superbo, fu l'amore perla patria ( «caritas rei publicae») che diede a Bruto la forza morale di superare la riluttanza a parlare di fronte al popolo romano contro Lucio Tarquinio, che pur aveva lottato contro Tarquinio il Superbo.
La repubblica e la pietà, i due termini fondamentali del linguaggio del patriottismo repubblicano, non compaiono più con lo stesso significato nei testi del patriottismo medievale. La parola patria è usata dai padri della Chiesa e dai canonisti12, ma intendono per «patria» la patria paradisii, la città celeste che esige il sacrificio del martire coosì come la respublica terrena esigeva il sacrificio del buon cittadino. Anche i giuristi medievali usano il termine 'paatria' e sottolineano che gli uomini hanno verso di essa un obbligo fondamentale. Si riferivano tuttavia alla patria incorporata nella persona del monarca. I vassalli e i cavalieri che combattevano e davano la loro vita per il signore o per il re, si sacrificavano pro domino, non pro patria; onoravano un vincolo di fedeltà o fede (<<fidelitas» o «fides»), non assolvevano ad un dovere civile13. Anche quando era celebrata come esempio nobile di amore fraterno, il concetto di amor di patria non riacquistò il significato di amore compassionevole per i concittadini che esso aveva nei testi degli scrittori romani.
Il vocabolario del patriottismo repubblicano sopravvisse in qualche modo nei testi dei filosofi scolastici. Nella sua autorevole analisi dell'amor di patria nella Summa Theologiae, Tommaso cita a più riprese Cicerone per sottolineare che l'amore della patria è una forma di pietà che si esprime in atti di amorevole cura e di benevolente serrvizio nei confronti dei concittadini, e degli amici, e della patria (<<in cultu autem patriae intelligitur cultus concivium et omnium patriae amicorum») 15. È un affetto che Tolomeo si riferisce ad un passo dei Salmi 121.12 dove Agostino aveva scritto che anche se è un amore che non cerca il proprio interesse (<<non quaeret quae sua sunt» ), ma il bene comune, la carità è nondimeno una passione potente, più potente addirittura della morte: «l'amore è forte quanto la morte». Queste parole, commenta Agostino, descrivono nel modo migliore la forza di quel particolare tipo di amore che chiamiamo carità (<<fortitudo charitatis»). La morte è più forte dei re, del fuoco, dell'acqua, ma la carità lo è altrettanto perché come la morte distrugge ciò che siamo perché possiamo diventare ciò che non siamo (<<ipsa charitas occidit quod fuimus, ut simus quod non eramus»). Inteso come una forma di carità l'amore della patria trasforma e rafforza: attraverso la morte dell'anima attaccata al proprio interesse ne genera una nuova che pone il bene comune al di sopra di quello privato e anela all'unità e ad essere parte della comunità civile. La nuova persona trasformata dalla carità ha un cuore più grande e più forte della vecchia, così forte da sfiidare la morte perché l'individuo che è parte della comunità vive in essa anche dopo la morte.

Tolomeo si serve dell'Etica nicomachea di Aristotele, e soprattutto del De officis di Cicerone e della De coniuratione Catilinae di Sallustio, per elaborare una concezione dell'amore della patria che sintetizza la virtù teologica della carità e il principio repubblicano dell'impegno per il bene comune. Come aveva scritto Agostino, i Romani avevano saputo conquistare il favore di Dio ed espandere il 100ro impero anche se onoravano falsi dei, grazie alloro amore della patria (amor patriae) e alloro zelo per la giustizia e per la benevolenza civile. Il loro amore della patria, commenta Tolomeo, giustifica ampiamente il loro dominio perché esso è in primo luogo amore del bene comune, che, come spiega Aristotele nell' Etica nicomachea, è un beene divino. Il favore che i Romani ricevettero da Dio era dunque proporzionato all' eccellenza della loro virtù.
Per corroborare la tesi di Agostino che l'amore della patria è una forma di compassione che ci spinge ad espandere l'amore per la nostra famiglia fino a comprendere l'intera repubblica, Tolomeo cita un passo dal De officis che riassume il principio fondamentale del patriottismo repubblicano:
viene dall'amore (<<procedit ex amore») e spinge i cittadini a servire il bene comune, e per questa ragione si può dire che la pietas verso la patria coincide con la giustizia (<<idem esse cum iustitia legali, quae respicit bonum commune») 16. Fin quando rimane subordinato all' obbligo supremo che abbiamo verso Dio, l'amore della patria è giusto e nobile. È un dovere che la patria, intesa non come repubblica, ma come il luogo in cui siamo nati e cresciuti ( «in qua nati et nutriti sumus») può esigere da noi.
L'interpretazione dell'amore della patria come carità compassionevole appare anche nel De regimine principum, in uno dei capitoli scritti da Tolomeo da Lucca, ma a lungo attribuiti a Tommaso e dunque letti con grande rispettto. Il passo fondamentale è nel libro 11104, e merita di essere citato per intero.
L'amore della patria si fonda sulla radice della carità che poone non i beni privati prima dei beni comuni, ma i beni comuni prima dei beni privati, come dice il Beato Agostino, spiegando le parole degli Apostoli sulla carità. A ragione la virtù della carità precede tutte le altre virtù perché il merito di ogni virtù dipende da quello della carità. L' amorpatriaemerita dunque di essere onorato al di sopra di tutte le altre virtù.

Ma, esaminando tutte le cose diligentemente, nessun legame è più importante e più caro di quello che unisce ciascuno di noi con la Patria. Cari sono i genitori, i figli, i parenti, gli amici; ma tutti questi affetti la Patria comprende in sé: quale uomo dabbene esiterebbe per essa ad affrontare la morte, se potesse giovarle?
Pur se più comprensivo e più nobile, l'amore della patria rimane per Tolomeo una forma di carità. Anche se si espande oltre la cerchia dei familiari e degli amici, esso rimane un amore di persone particolari che ci sono care e fra esse comprendiamo i nostri concittadini. Meno naturale e più politico, l'amore della patria rimane sempre un amore di persone particolari, non di entità astratte: noi non conosciamo di persona tutti i nostri concittadini, ma sappiamo che chiunque essi siano, sono cittadini come noi, abbiamo in comune con loro qualcosa a cui teniamo, ovvero la repubblica. Poiché comprende il bene comune, l'amore della patria è la virtù politica per eccellenza. Attraverso una sottile combinazione di temi e di idee, Tolomeo stabilisce una continuità intellettuale fra l'amore pagano della repubblica e la carità cristiana. L'amore della patria ha ora dalla sua parte l'autorità dei maestri del pensiero repubblicano romano e quella dei padri della Chiesa.
Fu tuttavia nel contesto delle repubbliche italiane del medioevo e nel pensiero politico dell'umanesimo civile che il linguaggio del patriottismo repubblicano diventò parte essenziale del linguaggio politico del tempo. I testi dei teorici dell'autogoverno comunale e degli umanisti offrono diversi argomenti a favore del patriottismo: alcuni sottolineano che l'amore della patria è profondamente razionale; altri che i cittadini devono aver cara la loro repubblica perché essa permette loro di vivere una vita sicura e piacevole; altri ancora che i cittadini hanno l'obbligo di servire la patria perché hanno verso di essa un debito contratto al momento della nascita che non potranno mai ripagare per intero.

Un esempio del primo tipo di difesa del patriottismo è il De bono communi di Remigio de' Girolami scritto attorno al 1304. In questo testo Remigio usa il termine 'patria' come equivalente di 'bene comune', fedele in questo alla tradizione repubblicana. Citando il passo di Cicerone dalla prima orazione contro Catilina (<<La Patria, che m'è tanto più cara della vita,,20) sottolinea che l'amore della patria impone a coloro che reggono la repubblica l'obbligo di vigilare sul bene comune, che è la fonte della gloria e dell'onore della città. Non vi è nulla più nobile e glorioso che essere cittadini di una libera città dove regna il bene comune, e fin quando regna il bene comune i cittadini possono godere insieme del bene della vita civile, che consiste nel vivere insieme in pace sotto il governo di giuste leggi. L'amore del bene comune è dunque giusto e razionale, ed ogni cittadino dovrebbe coltivarlo, come ci insegnano i patrioti antichi21.
L'amore della patria che sostiene la virtù politica (politicam virtutem) è un amore razionale perché è amore di un bene, la libera città, che è nell'interesse di ogni cittadino conservare. Se la comunità civile si corrompe, anche la vita degli individui si impoverisce, e se la repubblica è dissolta, i cittadini non possono più vivere come cittadini. Rimane solo l'apparenza esterna, quasi la statua o l'ombra del cittadino. Chi perde la qualità di cittadino perde anche la sua umanità in quanto non si può essere uomini nel significato pieno del termine senza essere cittadini23. Per questo, sottolinea Remigio, un cittadino non deve rimanere passivo di fronte alla corruzione della sua patria, ma deve al contrario combatterla con tutte le sue forze.
Un esempio di difesa del patriottismo in nome del valore morale ed esistenziale della libera città, si può trovare in un' orazione di Lapo di Castiglionchio del 1438 in cui si legge che 'patria' è una parola dolcissima, soprattutto se la nostra patria è una città in cui si vive liberi (<<ubi libere vivitur» ); in una libera repubblica i cittadini possiedono infatti molte cose in comune: le leggi, il foro, il senato, i pubblici onori, le magistrature, e condividono gli stessi nemici e le stesse speranze. Se vogliono continuare a godere di tutto questo, essi devono dunque dedicare le loro migliori energie al servizio della patria.
La più tipica esortazione repubblicana a servire la patria perché abbiamo verso di essa un obbligo morale si trova tuttavia nella Vita civile di Matteo Palmieri, scritta attorno al 1445-50. Citando dal De officis di Cicerone, Palmieri sottolinea che l'obbligo verso la patria viene prima dei doveri verso i genitori perché la patria è il bene più prezioso. Quando moriamo, il nostro ultimo pensiero va infatti ai figli e alla patria, e vorremmo essere certi che entrambi sopravviveranno e prospereranno quando noi non ci saremo più. Fin quando la nostra patria e la nostra gente vivono, la memoria di noi vivrà con essi. Poiché la virtù del buon cittadino aiuta a preservare un bene eterno come quello della patria, il premio deve essere di conseguenza la gloria e la beatitudine perenne. Come Platone e Cicerone ci hanno insegnato, l'anima dei buoni reggi tori e degli ottimi cittadini (<<optimi civili») ritorna subito dopo la morte nel cielo da cui venne e questo premio straordinario è adeguato al bene che essi hanno fatto in vita.
Nonostante le differenze nel tipo di retorica usata per esortare all'amore della patria, per gli umanisti civili, 'patria' significa sempre la comune libertà conquistata a prezzzo di duri sacrifici che può essere conservata solo dalla virtù civile dei cittadini. Come spiega Alamanno Rinuccini nel Dialogus de libertate, scritto nel 1479, la libertà è propria degli spiriti forti che rifiutano di obbedire ad altri a meno che i loro comandi non siano giusti e servano il bene comune e solo gli animi forti sono capaci di rischiare i beni e la vita per la repubblica. Per contro, la debolezza dell'animo e le ambizioni meschine dei cittadini che non hanno il coraggio di opporsi al tiranno e ai suoi servi sono la causa prima della perdita della libertà.
Per gli umanisti del Quattrocento chi non è patriota non può essere che un cattivo cittadino che guarda solo i propri interessi individuali o particolari, uno «statuale» o «statereccio» che cerca di usare le istituzioni pubbliche come se fossero sua proprietà privata. Come spiega Leon Battista Alberti nei Libri della famiglia, l' «uomo civile» ha a cuore il bene e la pace della propria famiglia, ma ha ancora più a cuore il bene e la pace della repubblica e sa che senza buoni cittadini il buon ordine della repubblica necessariamente si corrompe27• Per Alberti bisogna dunque prendere sul serio il monito repubblicano a servire la repubblica per impedire che essa diventi preda degli ambiziosi. Servire la repubblica non è disonorevole come lo sono le altre forme di servitù, ma è invece l'assolvimento di un dovere e la più nobile di tutte le attività28• Il buon cittadino deve servire la patria senza per questo trascurare la vita privata e gli affari: la vita politica non deve sostituire la vita privata, ma è piuttosto un onere ulteriore che bisogna sobbarcarsi per poter godere i frutti della libertà.
Il patriottismo fiorentino del Quattrocento, tuttavia, non fu solo impegno per la repubblica e la libertà comune, ma anche celebrazione della superiorità militare e culturale della città e esaltazione della nobiltà degli antenati e della purezza del linguaggio. I modelli della retorica greca e romana vennero abilmente impiegati per incoraggiare un amore della patria venato dall'orgoglio di appartenere ad un popolo nobile dal grande passato e dal grande destin03o. L'esempio più eloquente di questo tipo di retorica patriottica è la Laudatio jlorentinae urbis scritta da Leonardo Bruni nel 1403-4. Firenze, scrive Bruni, è una repubblica devota ai valori della libertà e della giustizia, perrché senza giustizia non può esserci vera «civitas», e senza libertà un grande popolo come quello fiorentino non potrebbe vivere. I princìpi della giustizia e dell'uguaglianza che sono il fondamento delle istituzioni della repubblica informano anche il modo di vita dei cittadini: poiché tutti si sentono uguali come cittadini, nessuno può comportarsi in modo altezzoso o sprezzante. Giusta verso i cittadini, Firenze è ospitale con i forestieri che vi si stabiliscono a vivere. Tutti coloro che sono stati esiliati dalla loro città a causa delle lotte civili o per l'invidia dei loro concittadini possono trovare a Firenze una nuova patria. Fin quando vivrà Firenze, nessuno sarà veramente senza paatria33. Firenze non è dunque una vera patria solo per i fiorentini, ma anche per tutte le vittime della mala sorte e dell'ingiustizia.
Ma la Laudatio non celebra solo le istituzioni repubblicane, ma anche la superiorità di Firenze basata sullo splendore della città e sulla purezza della lingua: «Pongano al paragone qualunque celebre et famosa città e' voglino, che Firenze non teme lo afrontarsi con ciaschuna»34. Il suo splendore è titolo di dominio. Nessuno può negare, commenta Bruni, che Firenze è degna di governare il mond035, soprattutto se si considera che fu fondata dai' romani quando era ancora viva la repubblica.

Ma veduto che Firenze ae tali autori et fondatori, a' quali tutte chose che per tutto il mondo sono, per virtù et armi sogiogate, ànno obedito; et essendo a quello tempo fondata, nel quale il populo romano libero et intero di possanza, di nobiltà, di virtù et d'ingegni maximamente fioriva, certamente da niuno si può dubitare, che questa una città non solo di bellezza et d'ornamento et, come noi veggiamo, di necessità di luoco, ma anco di degnità et di nobile generacione sia molto excellenté6.


La commistione di repubblicanesimo e orgoglio cittadino che caratterizza il patriottismo di Bruni emerge anche nella Orazione funebre per Nanni Strozzi, un cittadino fiorentino che morì nel 1427 in battaglia contro le truppe del Duca di Milano. La nostra patria, scrive Bruni, merita di essere onorata anche al di sopra dei nostri parenti perché è il fondamento della felicità37. E per 'patria' intende, fedele alla tradizione repubblicana, la libertà comune. Firenze, sottolinea, ha una costituzione popolare che protegge la libertà e l'eguaglianza dei cittadini; e proprio perché essa permette a tutti di vivere «liberi dalla paura di altri uomini» e di cercare di ottenere con la virtù i più alti onori pubblici, essa merita la devozione dei cittadini38.
Ai fiorentini convenuti per onorare la memoria del concittadino caduto per la patria, Bruni non dice solo che devono amare la repubblica perché essa protegge la loro libertà; sottolinea anche che devono sentirsi orgogliosi di appartenere ad una città che fra tutte è la più nobile, possiede un vasto dominio ed è rispettata da tutti. Nessun'altra città può vantare origini altrettanto nobili di quelle di Firenze; dunque i fiorentini non hanno solo diritto di vivere liberi, ma anche di dominare le altre città della Toscana. Con le sue parole Bruni non intende solo rafforzare nei fiorentini l'amore della libertà comune, ma anche irrobustire un amore diverso e forse più intenso dell'amore politico per la repubblica, ovvero un amore mescolato all'orgoglio di essere cittadini di una repubblica unica e straordinaria.
Nella retorica di Bruni, il linguaggio del patriottismo repubblicano è usato in modo ambiguo: è un linguaggio della libertà civile e politica contro la tirannide e il dominio straniero, ma anche un linguaggio dell'esclusione e dell'oppressione; un linguaggio della virtù, ma di una virtù venata dall' orgoglio e dal sentimento di appartenere ad una città unica al mondo; un linguaggio della repubblica, ma una repubblica dominata da un'élite sociale e politica preoccupata soprattutto di difendere i propri privilegi.

Toccò ad un patriota che non apparteneva all' élite fiorentina - Niccolò Machiavelli - elaborare una diversa versione del patriottismo repubblicano. Diversamente da Bruni, Machiavelli non celebra la superiorità di Firenze e la sua missione storica. I magnifici palazzi che Bruni esaltava nella Laudatio come documenti dello splendore della città, sono per lui simboli orgogliosi e regali del potere e della ricchezza delle grandi famiglie. Per costruire il suo magnifico palazzo, scrive Machiavelli nelle !storie fiorentine, Luca Pitti non esitò di fronte a nulla, e, una volta terminato, il palazzo diventò il centro delle riunioni sediziose dei nemici della repubblica39. Anche la questione dell' origine di Firenze, tanto dibattuta dagli storici fiorentini, lo interessa poco o nulla, e nelle [storie chiude il discorso con pooche parole: «la nacque sotto lo imperio romano, e ne' tempi de' primi imperadori cominciò dagli scrittori ad essere ricordata,,4o. Nacque dunque serva e tutta la sua storia ne fu condizionata. Bruni aveva sostenuto che tutte le guerre combattute da Firenze per allargare il suo dominio erano giustificate perché i fiorentini erano discendenti dei romani e quindi legittimi eredi dei territori che appartennero alla Repubblica Romana. Ma le guerre che Firenze combattè contro re Ladislao e il duca Filippo «si erano fatte per riempiere i cittadini e non per necessità», ed erano dunque guerre ingiuste41. Fino dagli inizi della sua attività politica Machiavelli fu più un critico che un apologeta della Repubblica Fiorentina. La servì con devozione e con tutte le sue forze, ma non mancò di sottolineare l'imprudenza e l'ingiustizia della sua politica. Come lui stesso ammetteva, era fin troppo pronto a denunciare i difetti di Firenze: «Vero è che io so che io sono contrario, come in molte altre cose, all'opinione di quelli cittadini [fiorentini] »42. Il suo amore della patria non mostra segni di parrocchialismo e di orgoglio civico. Non lo rende cieco; lo spinge piuttosto a cercare di capire i più larghi orizzonti della politica italiana ed europea, e a indagare il passato per cercare le radici di una possibile rigenerazione dell'Italia43.
L'amore della patria non è solo il suo amore più profondo; è anche l'amore che vorrebbe veder fiorire nel cuore dei suoi compatrioti. Uno degli intenti principali dei Discorsi è infatti quello di esortare i giovani a imitare la virtù dei romani e nelle [storie fiorentine spiega che il tema centrale della sua narrazione è la corruzione e che il suo fine è spiegare come la mancanza di virtù civile causò la perdita della libertà e il declino di Firenze44. E quando parla di virtù intende patriottismo, ovvero l'amore della libertà comune che rende gli uomini generosi, e li aiuta a vedere il loro bene come parte del bene comune della repubblica. All'inizio dei Discorsi, Machiavelli definisce infatti «virtuosissime» le azioni dei capitani «che si sono per la loro patria affaticati»; in altro luogo parla del «bene comune» e della «comune patria» come l'ideale che ispirò i virtuosi fondato l'i di stati45.
Il patriottismo dei padri fondatori alimentò il patriottismo del popolo romano che fu per quattrocento anni nemico del nome regio e «amatore della gloria e del bene comune della sua patria»46. L' «amore del bene comune» e l' «amore della patria» che Machiavelli descrive come il nucleo del patriottismo romano non è altro che attaccamento alle leggi che proteggono la libertà comune. Manlio Capitolino, racconta Machiavelli, fu condannato a morte dal popolo romano perché fomentò tumulti «contro il Senato e contro alle leggi patrie»47. Il comportamento del popolo romano fu particolarmente ammirevole perché Manlio Capitolino era un nemico del Senato e dei nobili e come tale ben visto dalla plebe. Eppure, spiega Machiavelli, nonostante l'ostilità per il Senato, il popolo di Roma mise a morte Manlio Capitolino perché «in tutti loro poté più lo amore della patria che alcuno altro rispetto».

L'amore della patria che ispirò il verdetto del popolo di Roma era in primo luogo un desiderio di fermare i cittadini ambiziosi che mirano a corrompere le leggi e ad imporre il loro potere sulla città distruggendo così la comune libertà. Nella sua lettura del testo di Livio, 'patria' sta per le leggi e la comune libertà. L'amore di patria del popolo romano era dunque un amore della libertà che dava il coraggio e la forza di resistere contro i potenti che ambivano ad imporre una tirannide sopra la repubblica.
Grazie al suo patriottismo, il popolo romano riuscì per secoli a difendere la propria libertà. Le molte buone leggi fatte a sostegno della «pubblica libertà» durante il periodo repubblicano furono in gran parte il risultato della determinazione della plebe a resistere contro l'insolenza dei noobili49. Il bene comune o la patria a cui i popoli antichi erano così profondamente devoti era dunque in primo luogo la libertà individuale, ovvero la libertà di perseguire i propri interessi e godere i propri diritti senza essere ostacolati dai potenti e dagli arroganti. I cittadini patriottici che Machiavelli esalta nei Discorsi servono la patria -la libertà e le leggi della città - perché sanno che il bene comune è tutt'uno con l'interesse individuale di ciascuno.
Come gli umanisti, Machiavelli fa proprio il principio ciceroniano che l'obbligo verso la patria è l'obbligo supremo:

Sempre ch'io ho potuto onorare la patria mia, eziamdio con mio carico e pericolo, l'ho fatto volentieri: perché l'uomo non ha maggiore obligo nella vita sua che con quella, dependendo prima da essa l'essere e di poi tutto quello che di buono la fortuna e la natura ci hanno conceduto; e tanto viene a essere maggiore in coloro che hanno sortito patria più nobile. E veramente colui il quale con l'animo e con l'opera si fa nimico della sua patria, meritatamente si può chiamare parricida, ancora che da quella fussi suto offes05l.

L'obbligo verso la patria ha tuttavia dei limiti. Se la patria diventa una tirannide, il cittadino non ha obblighi verso di essa; non ci sono più ragioni per dimenticare e perdonare. N elle Istone fiorentine Machiavelli fa dire a Rinaldo degli Albizzi sulla via dell' esilio per porsi al servizio del Duuca di Milano queste parole:

lo stimerò sempre poco vivere in una città dove possino meno le leggi che gli uomini: perché quella patria è desiderabile nella quale le sustanze e gli amici si possono sicuramente godere, non quella dove ti possino essere quelle tolte facilmente, e gli amici per paura di loro propri nelle tue maggiori necessità t' abbandonono.

Il patriota Machiavelli non ha parole di commento da aggiungere, e sappiamo che nelle Istone, scritte dietro commissione di papa Clemente VII dei Medici, ricorre varie volte allo stratagemma di mettere in bocca agli avversari dei Medici le parole che lui stesso avrebbe voluto dire.

In circostanze eccezionali l'amore della patria dà la forza per fare grandi cose; in circostanze normali incoraggia costumi civili: rende l'animo più grande e generoso, e al tempo stesso infonde il senso della misura necessario a vivere in una repubblica. Come esempio di virtù civile, Machiavelli menziona il popolo romano e la sua rivolta contro gli aristocratici che vivevano «sanza avere rispetto ad alcuna civilità» e i cittadini delle libere repubbliche tedesche che odiavano i nobili per i loro costumi contrari alla vita civilé E sottolinea che fin quando la repubblica visse incorrotta, il popolo romano era al tempo stesso virtuoso e rispettoso delle norme della vita civile. Anche quando combattevano contro i nemici della libertà coomune non oltrepassavano i limiti della legalità repubblicana. Coriolano, racconta nei Discorsi, cercò di approfittare della carestia per ridurre l'autorità della plebe e renderla più docile. Scoperti i suoi disegni, la plebe voleva linciarlo, ma accettò la proposta dei tribuni di fare un reegolare processo. Questo episodio, sottolinea Machiavelli, dimostra ancora una volta la bontà delle istituzioni romane e la virtù del popolo. Se i plebei avessero linciato Coriolano, avrebbero agito come individui privati; non avrebbero fatto giustizia, bensì commesso un crimine. Inoltre, se i magistrati della repubblica avessero tollerato l'esecuzione sommaria di Coriolano, i cittadini avrebbero cominciato a sentirsi insicuri e si sarebbero riuniti in sètte e fazioni per proteggersi da soli con grave danno per la repubblica. Un popolo virtuoso che vuole conservare la propria libertà deve sempre rispettare le leggi e le norme della vita civile; deve vivere in modo ordinato, e l'amore della patria rende tutto questo più agevole. Quando invece l'amore della patria si dissolve, la virtù civile degenera in pura forza, coraggio e determinazione; diventa un' energia che non sostiene più la libertà, anzi la distrugge, come nel caso delle lotte sulla riforma agraria in Roma. Per più di trecento anni, i conflitti fra la plebe e il Senato si conservarono entro confini civili; solo otto o dieci cittadini furono esiliati, ancor meno condannati a morte o puniti con il carcere. La plebe fu spesso in subbuglio, corse le vie della città, chiuse i negozi, abbandonò Roma in massa, ma tutto questo non costituì mai una minaccia per la libertà. I conflitti sulle leggi agrarie, al contrario, andarono ben oltre i confini della civiltà e furono per questa ragione una delle cause della fine della libertà romana.
Il popolo romano, sottolinea Machiavelli, merita di essere indicato come esempio ai moderni proprio perché era virtuoso e civile. Amava la libertà comune ed era capace di resistere contro gli ambiziosi e gli insolenti; ma era anche obbediente ai magistrati e alle leggi, e rispettoso della moralità e della religione. Odiava la servitù, ma non aveva brama di opprimere altri cittadini55. La virtù e la civiltà andavano insieme anche nelle libere città tedesche, dove i cittadini erano pronti ad uccidere i nobili «oziosi» perché causa di corruzione e scandalo, e al tempo stesso rispettavano le leggi con grande disciplina, obbedivano ai magistrati e pagavano le tasse con grande puntualità56. Ma quando l'amore della patria declina, tutta la vita civile si corrompe. Dove non c'è virtù civile i cittadini ambiziosi riescono a far passare leggi contro il bene comune, e le cattive leggi corrompono a loro volta tanto la vita pubblica quanto quella privata. L'affievolirsi dell'amore della patria portò dunque alla perdita della libertà e al declino dei costumi civili.
Mentre 'patria' è un termine chiave del linguaggio di Machiavelli, 'nazione' ha un'importanza marginale. Come ha mostrato Federico Chabod in un saggio ancor'oggi fondamentale, Machiavelli usa il termine 'nazione' assai di rad058. Nei Discorsi parla di 'nazione', con riferimento alla Francia, alla Spagna e all'Italia, per indicare i costumi di un popolo, nel caso specifico i costumi corrotti. Nel
medesimo contesto Machiavelli usa come sinonimo di nazione il termine provincia, che indicava in origine le unità amministrative dell'lmpero6o• I caratteri distintivi delle provincie o nazioni sono per Machiavelli i costumi e il modo di vita, come emerge dal titolo stesso di un capitolo dei Discorsi: «Che gli uomini che nascono in una provincia osservino per tutti i tempi quasi quella medesima natura». Ogni nazione, spiega nel medesimo capitolo, ha un proprio modo di vita.
I costumi delle nazioni devono essere studiati e capiti perché sono importanti dal punto di vista politico; ma non devono essere amati. L'amore va alla patria, intesa come le istituzioni politiche e il modo di vita della repubblica. Machiavelli non è affatto interessato alla difesa dell'omogeneità culturale della repubblica, e anche meno alla protezione della purezza del linguaggio. Considera l'assimilazione di parole 'straniere' all'interno del fiorentino un arricchimento, non una corruzione del linguaggio, come spiega nel Discorso o dialogo intorno alla nostra lingua, un testo scritto, si noti, per difendere l'onore di Firenze infangato da quanti sostenevano che Dante scrisse la Divina Commedia non in fiorentino, bensì in italian.
Per Machiavelli, le istituzioni politiche e i valori politici non possono essere separati dai costumi e dai modi di vita. Parla infatti di «vivere libero» o di «"vita libera», ovvero di un particolare modo di vita, e di una particolare cultura opposti al «vivere servo», ovvero un altro modo di vita e un'altra cultura. La patria è anche un modo di vita e una cultura, è un particolare modo di vita e una cultura che si fondano sui valori della libertà e dell' eguaglianza civile. Nella celebre lettera a Francesco Vettori in cui Machiavelli scrive «amo la mia patria più della mia anima», possiamo sostituire la parola 'patria' con «vivere libero» senza alterare il significato della frase, ma se sostituiamo 'patria' con 'nazione', le parole di Machiavelli non avrebbero senso.
L'amore della patria avvicina fra loro i cittadini e li porta a considerare i beni che essi hanno in comune più importanti dei beni che ciascuno possiede individualmente. Nessun bene è più individuale dell'anima, eppure l'amore della patria può dare la forza di porre al di sopra di essa la libertà comune, ovvero una libertà che è tanto nostra quanto di ogni altro. L'amore della patria è proprio degli animi grandi, come Cosimo Rucellai, cui Machiavelli dedica l'Arte della guerra:
Perché io non so quale cosa si fusse tanto sua (non eccettuando, non ch'altro, l'anima), che per gli amici volentieri da lui non fusse stata spesa; non so quale impresa lo avesse sbigottito, dove quello avesse conosciuto il bene della sua patria.

o come i cittadini che sfidarono l'interdetto papale per difendere la libertà di Firenze:

[ ... ] ed erano chiamati Santi, ancora che gli avessino stimate poco le censure, e le chiese de' beni loro spogliate, e sforzato il clero a celebrare gli uffici: tanto quelli cittadini stimavono allora più la patria che l'anima.

Amare la patria più della propria anima significa essere pronti a sacrificare l'anima per la libertà della città, se necessano:

perché dove si delibera al tutto della salute della patria, non vi debbe cadere alcuna considerazione né di giusto né d'ingiusto, né di piatoso né di crudele, né di laudabile né d'ignominioso, anzi, posposto ogni altro rispetto, seguire al tutto quel partito che le salvi la vita, e mantenghile la libertà.

Lo amore che noi portiamo, magnifici Signori, alla patria nostra, ci ha fatti prima ristrignere, e ora ci fa venire a voi per ragionare di quel male che si vede già grande e che tuttavia cresce in questa nostra republica, e per offerirci presti ad aiutarvi spegnere.

La propria anima contro la propria patria; ma la patria non è nostra nello stesso senso in cui lo è la nostra anima. La patria è nostra e di tutti i cittadini. Per quanto l'anima sia importante, il suo sacrificio resta pur sempre il sacrificio di un bene individuale per preservare un bene comune. Dio, assicurano i padri della Chiesa, ama le repubbliche e le comunità civili; certo sarà disposto a trattare con benevolenza i grandi che hanno sacrificato l'anima per la patria66. I salvatori e i redentori delle repubbliche possono contare sull'amicizia di Dio. Se fossero giudicati come tutti gli altri, il verdetto non potrebbe essere altro che la dannazione eterna. Ma chi ha salvato la patria merita di essere a sua volta salvato. Ciò che ha fatto è straordinario, e merita un trattamento d'eccezione e un premio particolare. In vita i fondatori e redentori di repubbliche vivono «felicissimi» nella loro patria che per loro «ne fu nobilitata e felicissima»; dopo la morte sono ammessi a godere della felicità eterna per intervento diretto e straordinario di Dio.

L'amore della patria è una forza morale che rende i cittadini comuni capaci di grandi cose contro la tirannide e la corruzione per le quali vivranno in eterno nella memoria della città, come gli anonimi cittadini menzionati nelle Istone fiorentine che si presentarono ai Signori della repubblica per aiutarli a restaurare il governo della legge calpestato dalle fazioni degli Albizzi e dei Ricci. Erano mossi a compiere quel gesto «dallo amore della patria nostra», scrive Machiavelli, e la loro orazione davanti ai Signori è un modello di patriottismo:

Quando l'ambizione e l'avarizia dei cittadini minacciaano di distruggere la vita civile, l'amore della patria è la soola passione cui i reggitori si possono appellare, come fece Lorenzo de' Medici parlando di fronte ai cittadini più illlustri chiamati nel suo palazzo:


Né credo che sia in tutt'Italia tanti esempli di violenza e di avarizia quanti sono in questa città. Dunque questa nostra patria ci ha dato la vita perché noi la togliamo a lei? Ci ha fatti vittoriosi perché noi la destruggiamo? Ci onora perché noi la vituperiamo? 68
Un cittadino che ama 1<i sua patria prova compassione per i mali che l'affliggono e cerca di portarle sollievo. Vuole che i suoi concittadini siano liberi perché gli sono cari. L'Italia, scrive nell' Exhortatio che conclude Il Principe, è «battuta, spogliata, lacera, corsa», aspetta qualcuno che «la guarisca di quelle sue piaghe». Solo un animo grande capace di compassione può rispondere, per amore, alla sua invocazione e la può redimere «da queste crudeltà et insolenzie barbare». Il patriottismo di Machiavelli, ha scritto finemente Sebastian De Grazia, era «uno strano tipo di amore» fatto di «amore per la vita e la gente, per la lingua, le donne, Dio e gli eroi» 70. Ma fu soprattutto amore della libertà e compassione, come avevano insegnato i maestri di Roma repubblicana, la stessa religione cristiana, se interpretata rettamente71.

II
ECLISSI E RITORNI

A partire dalla metà del Cinquecento, il linguaggio del patriottismo repubblicano entra in una storia di eclissi e di ritorni. Rimane in vita nelle poche repubbliche che sopravvivevano nell'Europa delle monarchie e dei principati, ed è riscoperto nei paesi dove avvengono significative esperienze di ribellione contro il dominio straniero. La sua storia si identifica con la storia della libertà: sopravvive dove la libertà vive ancora, rinasce dove la libertà deve essere conquistata.

Un esempio della sopravvivenza del linguaggio del patriottismo è l'opera Della perfezione della vita politica libri tre di Paolo Paruta, una tarda celebrazione della concezione repubblicana della politica. Seguendo la dottrina classica, Paruta sottolinea che l'amore della patria è fondamento della vita civile e primo dovere del cittadino. Chi voglia vivere secondo la virtù non può dunque avere cura solo di se stesso, ma deve servire la patria2• La difesa del buon ordine della repubblica è necessaria non solo per godere in pace delle nostre proprietà e degli affetti familiari, ma anche per vivere secondo la virtù, che è il bene più alto cui gli uomini possano aspirare. Siamo legati alla vita civile e per natura e per scelta; re scindere i vincoli e gli obblighi che ci legano alla patria significa, ammonisce Paruta, rinunciare alla nostra condizione di uomini.

Il linguaggio del patriottismo repubblicano sopravvive anche negli scritti dei teorici e dei libellisti della rivolta contro il dominio spagnolo che portò all'istituzione della Repubblica Olandese delle Sette Provincie Unite. Chiunque voglia essere «un buon patriota», scrive Jacob Heyndrix nel trattato su L'educazione politica del 1582, deve giurare solennemente di combattere il re di Spagna e i suoi sostenitori e promettere omaggio e fedeltà al presente governo, alla Patria e ai concittadini5. Dobbiamo alla nostra patria, sottolinea Heyndrix citando il De officis, un amore che abbraccia l'amore per i nostri familiari e parenti6. I giovani olandesi non devono dunque tremare per la potenza del nemico né avere la propria vita più cara del bene della patria, perché, come Cicerone insegna, nessun obbligo è più grande di quello che abbiamo verso la patria, e dobbiamo se necessario porre il bene della patria al disopra del bene di nostro padre.
La rivoluzione olandese non fu il solo caso in cui il concetto classico di patria è impiegato nelle lotte per la libertà politica. Anche i ribelli napoletani del 1647 si servirono del concetto di patria per sostenere che la loro era la rivoluzione di un popolo leale; essi erano infatti leali alla paatria, non alla persona del sovrano. Invocando la patria come fondamento dell' obbligo politico supremo, i capi della rivolta riuscirono a separare gli interessi e i diritti della corona da quelli del popolo e della nazione e assicurarono al movimento una legittimità politica e giuridica e una retorica efficace, ispirata al vecchio linguaggio del patriottismo.

Benché storicamente e teoricamente importanti, i casi di Venezia, dei Paesi Bassi e di Napoli furono delle eccezioni in un contesto europeo caratterizzato dal generale declino del linguaggio del patriottismo repubblicano. Le monarchie assolute e i principati che dominavano la scena politica europea non erano del resto l'ambiente ideale per un linguaggio che parlava di libertà comune e di virtù civile. Più consono alla nuova realtà era il linguaggio della ragione di stato, che proclamava, contro la dottrina repubblicana, che dovere supremo dell'uomo non è servire la patria, ma lo stato, ovvero il sovrano che ne è la personificazione.
I critici del repubblicanesimo identificarono la lealtà alla patria con la lealtà al re o al principe e sostennero che 'patria' non significa necessariamente repubblica. Un testo che esemplifica la tendenza a separare patria e libertà è il Dialogo del reggimento di Firenze, dove Francesco Guiccciardini sostiene che l'amore della patria non è necessariamente amore della libertà, nel senso di amore per le istituzioni repubblicane. La tanto celebrata virtù degli antichi, scrive, non era l'effetto dell'amore della libertà, ma dell'amore della patria, e 'patria' non significa solo repubblica. Le storie tramandano infatti molti esempi di azioni virtuose compiute da sudditi di re e principi.
Un'altra critica altrettanto severa mossa al patriottismo sottolineava che i moderni sono incapaci di vivere secondo la virtù e quindi inadatti all'autogoverno repubblicano. In un memorandum indirizzato ai Medici, ad esempio, Guiccciardini spiega che il loro regime ha buone probabilità di durare a lungo perché Firenze, a differenza di Roma antica e di Atene, non è più abitata da spiriti generosi che anelano alla gloria che premia i cittadini che difendono la libertà comune. L'amore della libertà e l'odio della tirannia, aggiunge, sono nei nostri tempi assai più deboli perché i fiorentini si curano solo dei propri interessi.
Nell'Europa del Seicento, il linguaggio del patriottismo perse gradualmente i suoi contenuti repubblicani. Amore della patria non significò più attaccamento alla repubblica e alla libertà comune, ma lealtà al monarca. Trajano Boccalini nei Ragguagli di Parnaso racconta con la sua caratteristica ironia una storia che illustra bene la metamorfosi del linguaggio del patriottismo. Catone, il simbolo del patriottismo romano, decide di iscrivere sulla porta della sua casa in Parnaso, in lettere d'oro, il celebre distico «pro patria pugna». Terminata l'opera, si rammenta che la versione originale era «pro patria libera pugna», non «pro patria pugna», e immediatamente correggge l'iscrizione. Alcuni prìncipi che vivono in Parnaso notano l'iscrizione e protestano con veemenza presso Apollo, dicendo che quelle parole possono scatenare rivolte. Apollo convoca Catone e lo riprova aspramente per aver provocato il legittimo risentimento dei prìncipi. Alle parole del sovrano di Parnaso, Catone risponde fieramente che gli uomini virtuosi fanno ciò che la coscienza comanda loro di fare senza curarsi delle minacce dei potenti e spiega che ha aggiunto l'aggettivo 'libera' per rendere chiaro il vero significato del motto. Senza quella parola, la frase potrebbe essere usata per far credere alla gente comune che essi devono dare la vita e le sostanze per difendere la patria come se fosse qualcosa che appartiene a loro anche quando non hanno nessun interesse a difenderla. I buoni prìncipi, taglia corto Apollo, hanno il potere di fare combattere i sudditi per «lo Stato del Prencipe» come se combattessero per difendere le proprie cose; l'amore della patria non è infatti amore della libertà, ma lealtà al sovrano. La morale della storia è semplice: patria e libertà prendono strade diverse.
Fra la fine del Cinquecento e i primi decenni del Seicento un altro genere di critica al patriottismo fu sollevaato dai filosofi di ispirazione neostoica. Il patriottismo per loro- non è tanto inutile, o pericoloso per la stabilità delle monarchie, quanto irragionevole. È questa, in sostanza, la tesi di Giusto Lipsio, che nel De Constantia, del 1584, sottolinea che l'amore della patria, come tutte le passioni, turba il governo della ragione. Per questo bisogna combatterla con la massima determinazione per ottenere la tranquillità dell'animo e il completo controllo di sé cui deve tendere il saggio.
La costanza, che per Lipsio è una giusta e invincibile forza d'animo che non si lascia esaltare né abbattere dagli accidenti della vita, è costantemente minacciata da falsi mali e falsi beni, ovvero da quei beni e quei mali che la gente comune crede che tocchino !'interiorità dell'animo, mentre in effetti si fermano alla superficie14. Ma se lo si esamina con la fredda luce della ragione, l'amore della patria si rivela come una passione irrazionale che provoca sofferenze e ansie che turbano inutilmente l'animo.
Mentre le critiche fin qui esaminate erano di natura eminentemente politica, l'argomento di Lipsio mette in questione i fondamenti filosofici del patriottismo repubblicano. I suoi sostenitori avevano infatti ripetuto per secoli che amare e servire la repubblica è razionale non solo perché è un dovere della retta ragione, ma anche perché è il modo più efficace per difendere il vivere libero, ovvero la forma di vita sociale che la ragione prescrive. Secondo la dottrina repubblicana il cittadino che si rifiuta di assolvere i doveri civili non è solo immorale, ma anche folle, perché la sua condotta mette a repentaglio i beni che gli sono cari, quali la libertà e la giustizia. Per Lipsio, l'amore della patria non ha nulla di razionale; esaminato con occhio filosofico si rivela un vizio, una caduta della ragione dal posto che le compete. Anziché incoraggiarla come fanno i teorici repubblicani, è dovere del saggio operare per sradicare questa perniciosa passione dall'animo umano.
Lipsio inizia la sua critica mettendo a confronto, grazie all'artificio retorico del dialogo, il patriottismo naturale e il patriottismo politico. Secondo i sostenitori del primo noi siamo legati alla nostra patria da un vincolo segreto della natura che è in primo luogo un attaccamento al suolo nativo che abbiamo toccato con il nostro corpo e calpestato con i piedi, dove abbiamo pianto nell'infanzia e giocato nella fanciullezza, dove abbiamo vissuto le esperienze che conducono alla maturità. È il suolo da dove abbiamo visto per la prima volta il firmamento, le nuvole e i campi; dove ha vissuto a lungo la nostra gente e i nostri antenati e gli amici e i compagni; il suolo infine dove abbiamo provato gioie che non potremmo mai rivivere altrove.
Il patriottismo naturale è un attaccamento al suolo inteso come luogo di memorie. È un legame affettivo con un luogo unico ed irripetibile. Nessun altro luogo può avere lo stesso significato del luogo natìo. Possiamo proclamare di essere cittadini del mondo, ma un particolare angolo del mondo produce in noi sentimenti che non proviamo in nessun altro luogo. La rigida saggezza stoica può condannare tutto questo come volgare pregiudizio, ma resta vero che ogni uomo desidera morire sul suolo natìo. Come disse giustamente Euripide: «Necessità tutti ad amar la patria induce».
Una forma più elevata di patriottismo è per Lipsio il patriottismo repubblicano fondato sull'amore della patria intesa come comunità politica e modo di vita. Gli uomini, spiega nel dialogo uno dei due interlocutori, decisero di abbandonare la vita selvaggia e solitaria e fondare comunità civili. E parafrasando le parole di Cicerone nel De of jiciis spiega che

dopo aver lasciato la vita selvaggia e solitaria, gli uomini si ridussero nelle città, e dalla consuetudine a vivere insieme nacque fra loro una «comunione e società di cose diverse»; ebbero in comune terre, confini, tempi, piazze, erari, tribunali, e ciò che è principale vincolo, ovvero i riti, i diritti e le leggi.

La patria non è dunque un luogo naturale, ma un'istituzione; è uno stato istituito che può essere chiamato «repubblica» (Rempublicam), o «patria» (Patriam). Come una nave sotto il comando di un solo capitano, la patria è un bene comune sotto il governo di un principe o sotto il governo della legge18. Il nostro amore per la patria (amor et caritas) non viene dalla natura, ma dalla convinzione che la patria è garanzia della sicurezza della nostra vita e delle nostre proprietà. Per questo il bene della patria ci rende felici e le sue miserie ci rattristano. L'amore della patria è dunque amore del bene comune che Dio con segreto disegno ha infuso nei nostri cuori e che le parole e gli esempi degli antenati rafforzano nel tempo.
Ma neppure il patriottismo politico soddisfa il saggio.
Come cittadini, conclude il sostenitore delle idee stoiche, è giusto che amiamo la patria e che siamo pronti a difenderla e a morire per essa; ma come uomini non abbiamo il diritto di piangere e disperarci per le miserie della patria come fanno le donne e i bambini. Tutte le forme di patriottismo devono passare in secondo piano rispetto ai nostri doveri di uomini. Le comunità politiche sono importanti solo per il corpo, ma non per l'anima, la cui patria è nei cieli da dove è venuta. L'esempio da seguire è dunque quello di Anassagora: a chi gli chiedeva perché non provasse alcun amore per la patria questi rispose, puntando il dito al cielo, «la mia patria è là».
La critica stoica al patriottismo è valida se siamo disposti a concedere che l'attaccamento ad un luogo particolare riguarda solo il corpo ed è una passione meno importante rispetto alla vita speculativa. L'una e l'altra sono concessioni onerose. L'attaccamento ad un luogo particolare viene da immagini, da colori, da sapori che hanno toccato o toccano i nostri sensi, ma vivono con noi nella memoria e acquistano significato e valore con l'immaginazione. La memoria e l'immaginazione fanno parte della vita dello spirito più che di quella del corpo; rescindere il legame con i luoghi produce infatti una sofferenza spirituale prima che fisica. Si può certo fare a meno delle passsioni e dei sentimenti che provengono dal legame con il suolo natìo, se per qualche ragione decidiamo di farlo o siamo costretti, ma resta pur sempre una vita spiritualmente impoverita. Possiamo arricchirla con sentimenti e passioni nuovi che tuttavia non riusciranno a colmare il vuoto lasciato dai vincoli dissolti con il luogo natìo.
Nel corso della sua argomentazione, Lipsio specifica che il patriottismo, quando non è ambiziosa simulazione, (ambitiosa simulatio), è o una pietà fuori luogo o una commiserazione (miseratio) inutile, tre passioni ugualmente deleterie per la costanza del saggio. Quanto alla simulazione, gli uomini proclamano spesso di essere afflitti per le calamità della patria, ma in realtà si preoccupano solo dei loro interessi privati. Il mondo, come disse Marco Aurelio, è un teatro; e quando gli uomini parlano da patrioti, parlano come degli attori. I mali pubblici quali la guerra e la tirannide sono soprattutto mali privati. Nonostante lo si esalti come virtù, il patriottismo è solo, nel miigliore dei casi, una condotta prudente e onorevole.

Quando scoppia un incendio, tutti si adoperano a spegnerlo; ma non lo fanno certo «per amor di patria». E cosÌ avviene per tutti i mali pubblici, che commuovono e turbano gli uomini, non perché nuocano a molti, ma perché toccano ciascuno direttamente.

Presentando il patriottismo come condotta in ultima analisi egoistica, Lipsio muoveva una critica diretta al patriottismo repubblicano che aveva da sempre esaltato l'amore della patria come una passione nobile e generosa e quindi come la più degna delle virtù. Altrettanto diretta è la sua critica ad un altro tema tipico del patriottismo repubblicano, ovvero l'argomento che l'amore della patria è una forma di carità (caritas). La pietà, obietta Lipsio, è l'amore e l'onore legittimo e dovuto (legitimum debitumque honorem et amorem) che dobbiamo a Dio e ai genitori. Anche se si dice che la patria è la più antica e la più sacra madre comune, il saggio non può condividere questa «volgare opinione». La nostra patria non ci ha accolto al mondo, non ci si è presa cura di noi più di quanto non abbiano fatto balie e nutrici. Non è la patria che ci nutre, ma il bestiame, gli alberi e i raccolti. E dunque sbagliato chiamare la patria 'madre comune', e presentare l'amore della patria come la più alta forma di pietà.

Quando invece il patriottismo è solo commiserazione per i mali che affliggono la patria simile a quella che proviamo per le sventure degli altri, esso merita disprezzo perché la commiserazione, diversa in questo dalla pietà, non si traduce in impegno e in azione per soccorrere i nostri concittadini. Mentre le osservazioni sulla pietà sono del tutto appropriate, la critica di essere solo una sterile commiserazione non tocca affatto l'interpretazione del vero patriottismo difesa dai teorici repubblicani, che hanno sempre sottolineato che il vero amore della patria è una passione che dà forza all'animo e spinge gli uomini all'azione anche in situazioni di grave pericolo e non incoraggia la meschina commiserazione delle sventure altrui. Lipsio non distingue adeguatamente fra lamentele patriottiche e vero patriottismo. La sua critica è in larga misura un' esortazione rivolta ai patrioti a non indugiare nella tristezza e nell'afflizione per le miserie della patria quando è chiaro che non c'è nulla da fare. Sottolinea infatti che la tristezza del patriota non ha senso perché non aiuta la patria, non ha il valore morale della sofferenza sinceramente vissuta, ed è oltre tutto empia perché ostacola la divina intelligenza con cui Dio regge l'universo. Il saggio sa che è Dio stesso a mandare i mali pubblici, e sa del pari che essi sono necessari e quindi né pesanti né assurrdi24. Solo in questo modo, ovvero con l'esercizio della ragione, e non con vani lamenti, possiamo trovare sollievo alla pena che ci affligge.
Lipsio invoca la dottrina stoica della necessità come una consolazione che la ragione offre all'animo afflitto. Poiché i mali pubblici non possono essere né evitati né combattuti, l'unico rimedio è rafforzare lo spirito contro la tristezza che essi generano.

La guerra, la tirannide, la strage e la morte sono mali che vengono dall'alto. Gli individui possono temerle, ma non prevenirle; possono sfuggirle, ma non evitarle.

Diversamente dalla «Fortuna» di Machiavelli, la necessità stoica non può essere né dominata né corteggiata. La virtù e la prudenza possono a volte sconfiggere le malizie della fortuna, ma non possono nulla contro la necessità. Il piano necessario di Dio può essere compreso, ma non modificato, e capirne la trama aiuta a placare le pene dell'animo. Anche se pone l'accento soprattutto sulla cura delle afflizioni dell'animo, la dottrina della necessità difesa da Lipsio assegna agli individui il ruolo di strumenti di cui Dio si serve per attuare il proprio disegno.
Il saggio spera finché c'è vita, ma se vede che non c'è nulla da fare per impedire la dissoluzione della patria, non deve «combattere contro Dio». Nei tempi bui bisogna cedere. alla volontà di Dio e dare tempo al tempo. Se sei un buon cittadino, scrive Lipsio nell' esortazione che chiude la prima parte del dialogo,

«cedi a Dio, cedi al tempo», La libertà che ora è persa può rinascere, e la patria che ora è in rovina col tempo può risorgere. Perché dunque «ti avvilisci e ti disperi?».

I tempi per ritrovare il linguaggio del patriottismo e porlo di nuovo al centro del linguaggio politico vennero circa quarant'anni dopo la pubblicazione del De Constanntia, durante la Rivoluzione Inglese. Anche in questo caso, il linguaggio del patriottismo offrì parole e idee importanti per la lotta per la libertà politica. Nella letteratura dei Levellers, 'amore della patria' tornò ad assumere il significato di «amore del bene comune», e di cura caritatevole per la libertà comune temperata dal rispetto per i princìpi della legge di natura e del diritto internazionale. Tornò ad essere inteso, come Cicerone aveva sottolineato nel De Inventione, come una parte o un aspetto della giustizia.
Un esempio della presenza di temi ciceroniani nel linguaggio del patriottismo inglese del Seicento è la dichiaarazione del 14 aprile 1649 firmata dai capi dei Levellers John Lilburn, William Walwin, Thomas Prince e Richard Overton, dove si legge che il dovere di operare per la felicità pubblica e per la libertà e il bene della nazione si basa sul principio che «nessun uomo è nato solo per se stesso» stabilito dalle leggi naturali e divine e dai principi fondamentali della società e della politica. Per i Levellers, i patrioti sono il soldato che combatte per la libertà comune e il membro del parlamento devoto al bene comune3°. Se i cittadini del Commonwealth d'Inghilterra vogliono conservare la propria libertà, si legge in The Just Defence o/ John Lilbum, devono essere pronti a reagire contro i soprusi inflitti ai loro compatrioti perché il torto fatto ad uno può essere fatto ad ogni altro. Poiché sono tutti membri di un solo corpo - il Commonwealth d'Inghilterra - essi devono essere sensibili al suo bene e prendersene cura, se non vogliono che le loro leggi e le loro libertà siano usurpate e trionfino la tirannide e l'oppressione. Chi non si impegna per il bene comune quando le leggi e la libertà sono minacciate, «tradisce i suoi diritti» e da uomo libero diventa servo.
Argomenti analoghi si riscontrano anche in John Milton, che nel 1660 chiama nostri vecchi patrioti «our old Patriots») i primi sostenitori dei <<nostri diritti civili e religiosi» e i membri del Rump Parliament che con una decisione giusta e magnanima abolirono la monarchia perché la giudicarono oppressiva e costosa32. Nel Grand Council che deve essere il fondamento del Commonwealth, scrive nella seconda edizione di The Readie and Easie Way to Establish a Free Commonwealth, devono sedere dei patrioti scelti che sappiano essere i veri difensori della nostra libertà «<the true keepers of our libertie» )33. La patria che il patriota ama e per la quale è disposto a sacrificarsi è il Commonwealth, ovvero la libera comunità politica fondata sul governo della legge che gli scrittori repubblicani chiamavano repubblica o civitas. È un ideale politico sancito dalle leggi naturali e conforme al diritto internazionale. Nel momento stesso in cui chiede ai cittadini di commettere un'ingiustizia, la patria cessa di essere tale e diventa una banda di malfattori che non merita di essere amata, né obbedita. Nel poema Samson Agonistes, pubblicato nel 1671, le parole di Sansone alla moglie Dalila costretta dal suo popolo a comportarsi in modo moralmente indegno esprimono bene l'idea che l'amore della patria non può farci violare le leggi di natura: «[ ... ] se il tuo paese alcuna / Coosa tentò contro me per tuo mezzo, / Fu ingiusto / E contro la legge di natura e di nazione, / Non più tua patria ma un' empia marmaglia / Di cospiratori pronti ad azioni peggiori / Di quelle del nemico, violando le ragioni / Per cui patria è nome così caro».
Anche per Milton, l'amore della patria è un amore caritatevole della libertà. La decapitazione del re, scrive nella DeJence oJ the People oJ England del 1651, fu un atto ispirato non dalla faziosità o dal desiderio di usurpare i diritti di altri, o da spirito bellicoso, o da qualche desiderio perverso, o furia, o follia, ma solo dall'amore della patria, patriae caritas, come scrive nella versione latina dell'opera, ovvero dall'amore della patria che compendia l'amore della nostra libertà e della nostra religione, della giustizia e dell'onore35. Gli uomini sono naturalmente inclini a considerare come proprie le nobili azioni della loro patria, scrive nel 1654 nella Second Defence oJ the People of England, ma l'onore e la gloria della patria vengono dalla libertà dalla vita civile e dalla religione36. Per il cristiano l'amore della patria non può essere un amore cieco e carnale (<<a blind and carnallove,,), ma deve essere carità, ovvero un affetto per i compatrioti, per i loro e i nostri dirittti, per la loro e la nostra libertà che non ha nulla in comune con la brama di potere e di ricchezza e con la falsa gloria che viene dalla conquista e dall'espansione.
L'amore della patria, anche il più intenso, può finire e la patria diventare qualcosa di lontano e di estraneo, incapace di suscitare l'affetto del patriota. È un'esperienza che Milton descrive nelle sue ultime lettere. Lontano dalla vita politica, costretto a vivere in condizioni difficili sottto la restaurazione, Milton avverte che l'amore per la patria (<<pietatem in patriam,» che aveva nutrito per tanti anni lo aveva abbandonato. Non è tuttavia disperato; gli restano altre virtù che lo confortano, e del resto «la nostra patria è dovunque stiamo bene con noi stessi,,38. Il patriota deluso trova conforto nella saggezza stoica; l'Inghilterra della restaurazione non era il Commonwealth che aveva sognato e per cui si era battuto. L'amore della patria si è dissolto perché l'oggetto dell'amore si è rivelato diverso dall'immagine che nutriva i suoi sogni e i suoi ideali. L'amore della patria, aveva scritto anni prima, è un amore che riassume in sé l'amore della giustizia, della libertà e dell'onore. Non è un amore cieco, ma un amore che ci permette di vedere con chiarezza i caratteri dell'oggetto amato, e che anzi ci impone di guardare con particolare attenzione e severità. Se vede che la sua patria opprime e commette ingiustizie, il patriota non volge lo sguardo alltrove; il sentimento di carità per i suoi concittadini gli dà la forza per non fuggire e combattere l'oppressione e l'ingiustizia. Il patriottismo della libertà impone doveri onerosi e il premio, come testimonia la lettera di Milton, è spesso la solitudine e l'esilio morale e politico.
Per le nuove generazioni di Commonwealthmen, Milton fu l'esempio del vero patriota che si impegna per la libertà politica, civile e religiosa del suo popolo e conserva lo spirito critico e la curiosità intellettuale. Come scrisse John Toland ne La vita di Milton pubblicata nel 1698, Milton viaggiò molto all'estero perché riteneva che «solo osservando i costumi e le istituzioni degli altri paesi avrebbe potuto conoscere i pregi e i difetti della sua patria», ma ritornò in patria allo scoppio della guerra civile «ritenendo riprovevole restare a divertirsi all' estero mentre i suoi connazionali erano intenti a lottare per la libertà,>39. Lo stesso amore della patria che lo spingeva a guardare da lontano e con spirito critico al proprio paese, gli diede la forza per ritornare e lottare con i suoi compatrioti per la comune libertà. Il suo amore della patria era dunque un esempio genuino della patriae caritas di cui parlavano i maestri romani; era un affetto che andava oltre la famiglia, abbracciava la comunità dei cittadini e si traduceva in rispetto per gli altri popoli.

Per Toland il patriottismo esige spirito critico, come sapevano bene i romani, che educavano i giovani a conoscere i costumi, le leggi e la religione della loro patria, e al tempo stesso insegnavano loro a conoscere l'umanità con lo studio della storia antica e l'osservazione dei costumi degli altri popoli. Attraverso lo studio «dei costumi e delle costituzioni degli altri paesi, essi mostravano ai giovani ciò che era lodevole e ciò che era sbagliato nei loro» e li incoraggiavano a vedere che cosa doveva essere cambiato.
Il fine dell' educazione romana era l'amore della patria; ma patria voleva dire libertà. Per questo istillavano nei giovani un' «ardente passione per la libertà e un odio altrettanto ardente per la tirannide e per l'anarchia» e li persuadevano «a preferire la morte alla schiavitù e a mettere in pericolo la vita e i beni per difendere non qualsiasi forma di governo, ma quel governo che protegge la loro persona e le loro proprietà, incoraggia le opere, premia il merito e lascia liberi i sentimenti. Questa forma di governo era ciò che essi chiamavano 'Patria', e per essa ritenevano onorevole dare la vita».
Vera patria è solo la libera repubblica. Amare un pezzo di terra per il semplice fatto di esserci nati, scrive Toland, «non è solo una falsa nozione di patria, ma [ ... ] un pregiudizio infantile simile a quello di alcuni vecchi, i quali ordinano che le loro salme siano trasportate per centinaia di miglia per essere sepolte accanto ai progenitori morti, alle loro mogli, o altri parenti» 41. Intendeva dire che il vero {amore della patria deve essere un amore puramente politico per la repubblica non contaminato dall'attaccamento ad un luogo e a una cultura. Non riconosceva che la libertà trovata in un altro paese non ha lo stesso sapore della libertà che si gode nella terra natale. L'amore per la repubblica è certo più razionale dell'amore di patria contaminato dai «pregiudizi infantili» dell'attaccamento al luogo di nascita, ma resta il dubbio che un amore puramente politico possa essere ancora chiamato 'amore della patria'.

Nell'Inghilterra del Seicento il patriottismo repubblicano era aspramente criticato in nome di un altro patriottismo ispirato non all'amore della libertà, ma alla lealtà al monarca. Come scrive Robert Filmer nel Patriarca (1680), vero patriota è solo chi è fedele al re:

molti sudditi ignoranti sono stati indotti a credere insensatamente che si potesse diventare martiri della propria patria col farsi traditori del proprio principe, mentre la distinzione, di recente escogitata, fra sudditi realisti e sudditi patrioti è la più innaturale che si possa pensare, perché la relazione fra il re e il popolo è tanto più grande quanto reciproco è il loro benessere.

Per Filmer patria non vuol dire repubblica, ma res paatrum, ovvero la comunità politica fondata sul potere dei padri. Poiché il potere del sovrano sui sudditi deriva dal potere del padre sui figli, il re può legittimamente proclamarsi Pater patriae, e come tale esigere dai sudditi una feedeltà incondizionata. Chi disobbedisce al sovrano commette dunque non solo tradimento, ma anche un'empietà.
Nonostante le critiche dei sostenitori del patriottismo monarchico, il patriottismo repubblicano conservò un ruolo di primo piano nel panorama intellettuale dell'Inghilterra del Settecento. Il testo che meglio documenta la vitalità della tradizione del patriottismo politico è le Characteristics of Men, Manners, Opinions, Times, dove Shaftessbury critica la confusione corrente fra amore della repubblica e attaccamento al suolo natìo,e sottolinea l'incapacità della lingua inglese ad esprimere adeguatamente la distinzione fra i due concetti:
Devo confessare di essere stato a volte propenso ad arrabbiarmi molto con la nostra lingua per averci negato l'uso della parola 'Patria' e per averci concesso nessun'altra parola se non 'Country' per designare la nostra comunità natale. [ ... ] Le parole dominanti hanno spesso una grande forza nell'influenzare la nostra comprensione delle cose.

Nel suo significato autentico, il patriottismo è l'attaccamento che un popolo prova per il proprio paese inteso non come suolo natìo, ma come repubblica, ovvero una comunità di individui liberi ed eguali che vivono insieme sotto il governo della legge. È l'amore per la costituzione e le istituzioni politiche che garantiscono la libertà:

Una moltitudine tenuta assieme con la forza, anche se unita sotto un unico capo, non può considerarsi unita in senso proprio. Tale corpo non costituisce un popolo. È l'unione sociale, ed il mutuo consenso, basato su di un qualche bene o interesse comune, ciò che unisce i membri di una comunità e fa si che esista un popolo. Il potere assoluto annulla il [bene] pubblico. E dove non c'è [bene] pubblico o costituzione, non c'è in realtà né patria né nazione.

Inteso come amore della libertà comune, l'amore della patria è una «passione generosa» che ha per oggetto il bene più nobile, ovvero la comunità civile che è condizione indispensabile per la vera felicità. Come ogni amore, anche l'amore della patria è un amore di persone o oggetti o luoghi particolari. Può essere più o meno inclusivo, ma resta sempre particolare; può essere un attaccamento a qualcosa che ci appartiene esclusivamente come individui o a qualcosa che condividiamo con pochi o molti individui. Per Shaftesbury l'amore della patria è un attaccamento inclusivo che non mira a rafforzare la differenza fra i britannici e gli altri popoli, ma a unirli nella difesa della libertà comune, ovvero nella difesa di un bene comune il cui valore non dipende dal fatto che esso appartiene solo al popolo inglese. La libertà degli altri popoli non  infelici i veri patrioti.

La differenza fra i «veri patrioti» e i «patrioti del non sta nell'intensità, ma nella natura dell'amore del. tria. Una cosa è amare la nostra patria perché la senti" come qualcosa che appartiene solo a noi e che ci rende superiori agli altri o unici; un'altra è amare un bene, come la libertà, indipendentemente dal fatto che è esclusivamente nostro. Il primo tipo di amore della patria incoraggia i popoli ad avere un' eccessiva considerazione di se stessi e a disprezzare la conoscenza, il sapere o i costumi di altri popoli; il secondo stimola l'attenzione per la cultura degli altri popoli e il rispetto dei doveri verso l'umanità, l'ospitalità e la benevolenza al di là delle differenze di razza: è una passione unificante e inclusiva che spinge gli individui a operare insieme, non a escludere.
L'amore del patriota verso i concittadini è un attaccamento «morale e sociale». Poiché nessuna relazione di amore o di amicizia può nascere fra individui che si sentono totalmente estranei o diversi, ha bisogno di sentimenti condivisi di appartenenza. Ma a tal fine è sufficiente il sentimento di comune appartenenza alla repubblica; non è necessaria un'uguaglianza ulteriore, etnica o culturale. Per questo il patriota può essere benevolo anche verso coloro che non sono suoi concittadini, che provengono da paesi lontani e appartengono ad una razza diversa. Il fatto di appartenere alla stessa razza non è di per sé né una ragione per amare né una ragione per odiare. La razza o l'etnia sono importanti per il 'patriota del suolo, ma non per il patriota della libertà.
L'amore della patria è una passione particolare che non teme il confronto con gli altri popoli. Lo dimostra l'esempio dei greci, che nonostante la loro saggezza e il loro genio, nonostante la loro indiscutibile superiorità nelle scienze, nella vita politica e nei costumi non disprezzavano gli altri popoli e ammiravano tutto ciò che vi era di ingegnoso e di curioso nei costumi delle altre nazioni47. Gli inglesi, invece, hanno per gli altri popoli un disprezzo del tutto ridicolo e ingiustificat048. Il loro attaccamento al suolo e la loro inclinazione ad esaltare la propria superiorità è, per chi intende l'amore della patria come attaccamento alla libertà, del tutto ingiustificato.
Shaftesbury recupera l'idea di fondo del patriottismo repubblicano sottolineando che il vero patriottismo è amore della libertà comune, ma la sua condanna dell'attaccamento al suolo natìo è troppo severa. La sua interpretazione del patriottismo non offre indicazioni sul modo di incorporare l'attaccamento al proprio paese e alla propria cultura all'interno del patriottismo politico. Non vede che l'attaccamento al proprio paese può essere trasformato in una passione che opera per la libertà spiegando che non si tratta della libertà in generale, ma della libertà di un popolo che vive generazione dopo generazione sul medesimo suolo.

Nell'Inghilterra del Settecento l'appellativo 'patriota' era un titolo d'onore. Come ha sottolineato Quentin Skinnner, sia i Whigs che i Tories intendevano per 'patriottismo' l'ideale politico che impone di operare per difendere e conservare le libertà politiche di cui i cittadini godono grazie alla costituzione49. Anche gli avversari del governo Whig di Walpole si servivano ampiamente del vocabolario del patriottismo repubblicano. Servire la patria, scriveva ad esempio Lord Bolingbroke, è un «dovere morale» che ognuno dovrebbe assolvere secondo le proprie possibilità e i propri mezzi fin quando lo esige il bene comune. E servire la patria, sottolinea, significa sostenere il buongoverno e vigilare per la comune libertà. Rinunciare a servire la patria non è affatto un sollievo, bensì una caduta in una vita oziosa e meschina.
Per Bolingbroke l'impegno politico non è solo un dovere, ma anche un'attività molto più gratificante della puura speculazione. La gioia intellettuale di Descartes, di Montaigne e di Newton non eguaglia quella del patriota che tende tutti i suoi pensieri e le sue forze al bene della paatria51. Oltre ad essere necessario per difendere la libertà, l'impegno politico è quindi un'attività altamente gratificante. Anche se ha spesso a che fare con amici infidi e nemici maliziosi, l'uomo politico ha anche la possibilità di scoprire la fedeltà e la lealtà di altri. Vede i lati migliori e i lati peggiori degli uomini. Contrariamente al filosofo che si è reso immune dall'amore della patria, la sua mente è turbata dalla paura e dalla speranza. Ma il turbamento è piacevole: se la sua opera ha successo e si concretizza in grandi cose, la sua gioia è paragonabile a quella che gli uomini attribuiscono a Dio; se fallisce può trovare conforto nella coscienza di aver fatto il proprio dovere.
Per Bolingbroke, vero patriota è chi difende la libera costituzione e il bene comune del suo popolo. Patriota può essere dunque tanto il cittadino di una repubblica quanto il suddito di un monarca e il monarca stess053. Un monarca che restauri la libera costituzione e redima il popolo dalla corruzione meriterebbe più di ogni altro il titolo di «Re Patriota»54. Ma un «re patriota», ammette Boolingbroke, «è la cosa più rara tanto nell'universo fisico, quanto in quello morale».
A sostegno dell'ideale del «re patriota», Bolingbroke invoca Machiavelli, un autore, osserva «che gode di grande autorità presso i miei avversari» Whigs56. Citando i Diiscorsi, sottolinea che è nell'interesse del principe governare con giustizia e accettare i limiti imposti dalle leggi anziché governare come un tiranno e porsi al di sopra delle leggi57. E cita i Discorsi per spiegare che la corruzione di un popolo può essere combattuta solo da un «potere regale» e che quindi la monarchia è da preferirsi alla reepubblica58. Mentre la repubblica non ha rimedio contro la corruzione del popolo, un «libero governo monarchico» può «rinnovare lo spirito della libertà». Un «re patriota» può essere un grande riformatore: sotto il suo governo, il popolo non solo cesserà di agire male, ma imparerà ad agire secondo la virtù; il «re patriota» può dunque creare un nuovo popolo.
Con la sua teoria del «re patriota», Bolingbroke aveva dato al linguaggio del patriottismo contenuti che, nonostante l'affinità dei termini usati, lo allontanavano dalla tradizione repubblicana. Con il volgere degli anni, tuttavia, il linguaggio del patriottismo assunse toni radicali60. Lo dimostra il confronto fra le successive edizioni del celebre Dizionano di Samuel Johnson: nell'edizione del 1755 'patriota' è definito chi è «dominato dalla passione dell'amore della patria»; in quella del 1773 aggiunge «ironicamente, un fazioso avversario del governo»; e nel 1775 conia la definizione più celebre: «il patriottismo è l'ultimo rifugio del farabutto». E si riferiva ai radicali.

III
IL PATRIOTTISMO E LA POLITICA DEGLI ANTICHI

Durante il Settecento il linguaggio del patriottismo rifiorì anche nell'Europa continentale nel contesto della più generale rinascita del pensiero politico repubblicano. Come è stato giustamente osservato, il linguaggio repubblicano del XVIII secolo fu in parte il frutto di reminiscenze classiche, in parte l'ideologia della resistenza politica e militare all'assolutismo. Benché dominanti nello scenario politico europeo, le grandi monarchie non erano riuscite a soggiogare le poche repubbliche rimaste o rinate, come Genova, Lucca, Venezia, le Provincie Unite, e la Svizzera, per non parlare di San Marino, e la sopravvivenza delle repubbliche incoraggiò in misura considerevole la persistenza e la rinascita del linguaggio del patriottismo.
Per i teorici del Settecento il linguaggio del patriottismo fu uno strumento importante per riscoprire contro la politica dei moderni, ovvero la politica degli stati, dei re e dei prìncipi, la politica degli antichi, ovvero la politica della repubblica. La parola patria tornò ad essere sinonimo di repubblica, nel senso di una comunità di individui che vivono insieme in giustizia sotto il governo della legge, e il patriottismo fu identificato con l'amore generoso per la repubblica e la libertà comune che non può esistere sotto il giogo del dispotismo e non può fiorire nelle monarchie. Con il patriottismo repubblicano rinacque la politica degli antichi, ovvero la politica intesa come buongoverno e autogoverno contro il malgoverno e la politica dall'alto.
Il legame fra patriottismo e la politica intesa come arte del buon governo emerge non solo nelle opere di Montesquieu e di Rousseau, ma anche in altri autori meno noti. Ne è un esempio La vita civile di Paolo Mattia Doria, pubblicata a Napoli nel 1729, che è ad un tempo una critica radicale della dottrina della ragion di stato in nome del vecchio ideale della politica come filosofia civile e una raffinata difesa del patriottismo. Il dovere supremo dell'uomo politico, scrive Doria, è di modellare la vita civile secondo i principi della religione e dell'amore della patria, che definisce un amore razionale che nasce dal buon govern.
L'amore della patria, spiega Doria, si fonda sulla consapevolezza che la nostra felicità dipende dal bene e dalla sicurezza del nostro paese. I popoli dovrebbero essere legati al proprio paese come le piante lo sono al suolo. su cui crescono perché se la patria è conquistata o dissolta essi non possono più godere delle proprietà, della sicurezza personale e di tutti gli altri beni della vita. Dovrebbero dunque amare la patria perché è nel loro interesse3. Tuttavia, sottolinea Doria, i popoli giudicano per esperienza più che in base a ragionamenti, e quindi amano la patria se in essa vivono felici e sicuri grazie alla giustizia, al buongoverno, alla concordia e ai buoni costumi.
Doria interpreta il patriottismo come una passione virtuosa che nasce dalla trasformazione di passioni perniciose. La «buona politica», scrive, può volgere l'egoismo verso il bene comune. Se sono ben governati, i cittadini capiscono che il loro bene coincide con il bene comune e amano la patria con tutto il loro cuore. E per rendere più forte il loro attaccamento al bene comune, sono necessarie, oltre al buon governo, cerimonie pubbliche che esaltino la maestà della repubblica o del principe e infondano coraggio. Anche se la pratica delle armi non può essere l'occupazione principale dei cittadini, osserva Doria, bisogna che essi siano in grado, se necessario, di mobilitarsi a difesa della patria, e per questo è indispensabile che le cerimonie pubbliche abbiano come fine l'educazione alla virtù civile.
Doria dedica molta cura ad indagare i modi per trasformare l'amore di sé e l'ambizione in amore generoso della patria. L'elemento decisivo che rende possibile la metamorfosi dell'amore di sé nell'amore della patria è la stima che i cittadini o i sudditi provano per i magistrati o per il principe Gli uomini non amano gli individui che disprezzano; li possono tutt'al più trovare divertenti, ma non amarli. Se i magistrati, o i senatori o il principe vogliono ottener l'amore del popolo, devono prima conquistare la loro ammirazione e venerazione, e poiché gli uomini sono attratti dal mistero e stimano molto le virtù che associano alla perfezione divina, essi devono apparire agli occhi del popolo come esseri quasi divini, e per riuscirci devono avere una virtù straordinaria; devono essere gravi e gentili, severi e compassionevoli. Devono insomma comportarsi in modo da convincere il popolo della loro superiorità.
Per Doria il patriottismo non è solo una trasformazione dell'amore di sé, ma anche un antidoto contro l'amore dei vizi illustri. I grandi vizi, come le grandi virtù, suscitano ammirazione perché le grandi cose affascinano la mente degli uomini. Un vero principe deve saper impressionare il popolo con la sua straordinaria virtù per impedirgli di amare i grandi vizi. Gli uomini come Cesare e Alessandro sono considerati eroi perché sono stati potenti e hanno dato gloria e grandezza ai loro stati, anche se mai, o quasi mai, hanno reso felice il popolo. Per la loro smisurata ambizione sono stati causa di infinite sofferenze, eppure il popolo li considera degli eroi, li ama e ama la patria che essi hannno reso grande7 perché gli uomini desiderano appartenere ad una patria gloriosa e per condividere lo splendore della loro patria sono pronti a sopportare le calamità della guerra e il peso del malgoverno.
L'antidoto all'amore della patria che viene dall'ammirazione della falsa virtù sono gli argomenti razionali, ma ancor più un'altra passione, ovvero l'amore della vera virtù che nasce dalla gratitudine per la sicurezza e la felicità che i buoni governanti assicurano ai cittadini. Mentre l'amore della falsa virtù è il risultato di passioni come la sete di gloria che non durano a lungo, il vero amore della patria nasce dall'amore di sé, che non abbandona mai gli uomini. La trasformazione dell'amore per la falsa virtù e del falso patriottismo in amore della vera virtù e in vero patriottismo è dunque reso possibile dalla natura stessa delle passioni.
Nel volatile universo delle passioni è possibile che l'amore della falsa virtù si dissolva in amore della virtù e che l'amore del vizio si trasformi in odio. I falsi politici, sottolinea Doria, credono di poter mantenere i sudditi docili e conquistare il loro amore incoraggiando i loro vizi con l'esempio della loro corruzione. Essi contano sul fatto che gli uomini amano il vizio e coloro che li incoraggiano a vivere una vita meschina, ma dimenticano che col passare del tempo il vizio e la corruzione diffusi diventano insopportabili. Quando questo avviene, l'attaccamento ai governanti corrotti si trasforma in odio verso di loro e verso la patria che essi rappresentano. Perché l'odio si trasformi in ribellione è tuttavia necessario che i governanti siano talmente convinti della pusillanirdità del popolo da trascurare perfino l'apparenza della virtù e dare libero sfogo ai loro vizi1o.
Per Doria il patriottismo è «il fondamento della vera politica». Solo l'amore della patria che nasce dall'amore della vera virtù può infatti sostenere nei sudditi e nei governanti l'attaccamento al bene comune. Il compito più importante del vero politico è dunque quello di trasformare le passioni maligne in passioni virtuose, come insegnavano i filosofi politici dell'antichità. Nel caso di Doria, la riflessione sull'amore della patria riporta alla luce la complessità e la grandezza della vera politica, ovvero la politica della repubblica.
L'ammirazione per il patriottismo degli antichi non era tuttavia unanime nel panorama intellettuale del Settecento. Pochi anni prima della pubblicazione della Vita civile, Vico formulava nella Scienza nuova una critica radicale del patriottismo antico e delle fantasie che i moderni coltivavano in proposito. Il tanto decantato amore della patria degli antichi, spiega Vico, è una virtù tipica delle società eroiche che offende i sentimenti di giustizia e di umanità dei moderni. È una forma di barbarie, ovvero una combinazione di superstizione, fierezza, egoismo, avarizia e crudeltà. Quando gli scrittori politici romani parlano di libertà, intendono la libertà dei patrizi, ovvero la libertà dei padroni, e quando parlano di patria non intendono la libera comunità dei cittadini, come credono i filosofi moderni, ma la proprietà o l'interesse dei padri. Il patriottismo antico non era dunque un amore generoso per il beene comune o la pietà che dobbiamo alla nostra patria, ma un meschino interesse particolare e una ignobile sete di potere. Gli spartani, uno degli esempi maggiormente ceelebrati della virtù antica, fecero giuramento solenne di essere nemici eterni degli iloti; i leggendari eroi romani erano altrettanto egoisti e sordi alle sofferenze della plebe. Nessuno di loro fece mai qualcosa per i plebei, e anzi aggravarono il loro fardello con le guerre e con i debiti li affondavano sempre di più nell'usura e li gettavano nelle loro prigioni private dove venivano percossi come schiavi. E se qualcuno, «nel tempo di essa Romana Virtù», osava tentare di alleviare le pene della plebe con qualche legge agraria, era accusato di tradimento e messo a morte.

Guardata con occhio libero da fantasie antistoriche, la virtù romana non può non suscitare ripugnanza:

Perché certamente la storia romana sbalordisce qualunque scortissimo leggitore, che la combini sopra questi rapporti: che romana virtù dove fu tanta superbia? che moderazione dove tanta avarizia? che mansuetudine dove tanta fierezza? che giustizia dove tanta inegualità?

La stessa educazione romana tanto celebrata dai moderni, non era affatto per Vico una scuola di abiti civili e di amore della libertà, ma un modo duro, spietato e severo di affermare il potere paterno sui figli. E l'educazione spartana era pura e semplice crudeltà: «acciocché s'avvezzassero a non temere dolori e morte», i padri «battevano i loro figliuoli fin all'anima, talché cadevano sovente morti, copvulsi dal dolore».
I patrioti antichi erano feroci in guerra e ostili verso gli stranieri. La loro virtù era adatta alla durezza dei tempi, ma troppo lontana dalle idee di benevolenza e di compassione dei moderni: il patriottismo e la politica antichi meritano solo di essere dimenticati.
Nonostante Vico, che in effetti si scagliava contro il patriottismo degenerato che non è né amore della libertà né vera compassione, il patriottismo divenne uno degli ideali più celebrati dagli scrittori politici del Settecento, per effetto soprattutto dello Spirito delle leggi di Montesquieu. Nella sua opera più celebre, Montesquieu da un lato riscopriva il significato del patriottismo repubblicano; dall'altro lo presentava ai lettori moderni come un ideale possibile, nella sua forma genuina, solo per cittadini delle repubbliche antiche.
Per Montesquieu l'amore della patria è un dovere e una virtù15. È un attaccamento a un bene particolare in quanto gli uomini amano la loro patria, la patria che ha per loro un significato particolare. In questo senso l'amore della patria è simile all'amicizia o alla compassione che gli uomini provano per altri uomini che deve tuttavia rispettare i princìpi della giustizia, ovvero dei princìpi generali e impersonali. Se viola i princìpi della giustizia, il patriottismo cessa di essere una virtù e diventa causa dei peggiori crimini; temperato dalla giustizia spinge invece a splendide e nobili azioni che onorano tutta la nazione.
Anche se non sono in grado di eguagliare il patriottismo degli antichi, i moderni possono coltivare un patriottismo che si fonda sul desiderio di vivere in una comunità bene ordinata che permette loro di godere della pace, della tranquillità pubblica, della corretta amministrazione della giustizia, insomma, dei benefici effetti del buon governo della repubblica o del regno. Lo «spirito civico» che ci si può aspettare dai moderni è dunque un amore delle leggi e del bene comune.
Questa interpretazione del patriottismo informa anche lo Spirito delle leggi dove Montesquieu recupera il significato repubblicano del concetto. Come sottolinea nell' 'Avvertenza', «vertu» non indica la virtù morale o la virtù cristiana, ma la «virtù politica «<vertu politique»), ovvero l' «amore della patria» che è soprattutto «amore dell'uguaglianza» «<amour de l'égalité») 18. E per amore dell'uguaglianza intende l'amore dell'uguaglianza civile, l'eguaglianza in quanto cittadini fondata sugli uguali diritti e sul governo della legge. Nello stato di natura, spiega Monntesquieu, gli uomini nascono uguali, ma nella società civile perdono la libertà naturale per diventare di nuovo uguaali per mezzo della legge. Il vero spirito di eguaglianza «non consiste affatto nel fare in modo che tutti comandino o che nessuno venga comandato, ma nell'obbedire e nel comandare ai propri eguali» 19. L'amore dell' eguaglianza che animava la virtù politica dei romani era una gelosia del potere del Senato e delle prerogative dei nobili, sempre temperata dal rispetto, che rendeva il popolo vigile e pronto a contrastare le mire oppressive dei nobili. Il giusto amore per l'eguaglianza, sottolinea Montesquieu, emerge solo nelle repubbliche bene ordinate, dove tutti sono «uguali solo come cittadini», mentre nelle democrazie corrotte i cittadini vogliono essere uguali in tutto. Dove manca la virtù politica non solo non può esserci la libertà, ma neppure moralità, né amore dell'ordine, né costumi civili21. La virtù politica esige moderazione, rispetto per le leggi e per i magistrati, e incoraggia 1'ordine e il decoro nella vita privata. L'amore della patria e dell'uguaglianza rende gli uomini capaci di porre l'interesse comune al di sopra degli illegittimi interessi individuali o di fazione. Per questo la virtù politica è per Montesquieu, come lo era per Machiavelli, il fondamento della libertà: il luogo naturale della virtù, scrive «è presso la libertà». Quando invece l'ambizione e l'avarizia, che sono i nemici mortali della virtù e del patriottismo, diventano le passioni dominanti dei cittadini, la libertà muore.
Nella sua forma più alta e intensa, sottolinea Montesquieu, il patriottismo è una virtù degli antichi. I moderni ne hanno solo sentito parlare: attaccati ai loro interessi particolari, non possono amare la patria con la stessa inntensità di cui erano capaci gli antichi. Del resto, il patriottismo degli antichi era una necessità dettata dalle condizioni della guerra. Quando una città era conquistata gli abitanti erano uccisi o ridotti in schiavitù. Il loro strenuo amore della patria nasceva dunque dal fatto che la loro vita e la loro libertà erano tutt'uno con la vita e la libertà della città22• L'amore della patria dei greci, spiega nelle Pennsées, era il risultato del loro «furore per la libertà», che unito con il loro eroico coraggio e il loro odio per i re dava la forza per compiere le loro imprese memorabili. E quando sottolinea che la virtù politica è lo spirito dei governi repubblicani, o democratici, o popolari25, si riferisce alle repubbliche o alle democrazie degli antichi, ovvero a quelle forme di governo in cui il popolo non detiene solo il potere sovrano, ma sovraintende anche all'applicazione delle leggi.
Nell'analisi di Montesquieu, la virtù politica è necessaria nei governi repubblicani, ma è anche estremamente difficile da instillare nei cuori dei cittadini. È necessaria perché in una repubblica i cittadini che approvano le leggi, sono anche tenuti ad obbedire ad esse, e se per avarizia o per ambizione essi non amano la repubblica e le sue leggi, le leggi diventano inefficaci e la repubblica si dissolve; è estremamente difficile da praticare perché «è una rinuncia a se stessi» che impone ai cittadini di moderare il loro desiderio di beni esclusivi, ovvero di beni accessibili ad alcuni ma non a tutti, perlomeno nella stessa quanntità26. Per fame dei patrioti, bisogna educare i cittadini a dirigere le loro passioni e i loro desideri verso fini e beni comuni. Se non possono perseguire i loro interessi particolari o adagiarsi nei piaceri della vita privata, essi ameranno la repubblica. Simili ai monaci, che amano il loro ordine perché la regola li priva di tutto ciò su cui si fissano le passioni esclusive, i cittadini devono vivere in modo austero e frugale: quanto più la repubblica riesce a moderare i desideri e le passioni particolari, tanto più essa diventa forte e unita.
L'amore dell'eguaglianza che sostiene il patriottismo non è solo amore dell'eguaglianza civile, ma anche amore della frugalità. Oltre al desiderio di essere uguali davanti alla legge e di avere uguali diritti politici, i cittadini, per essere veri patrioti, dovrebbero avere anche la stessa felicità, gli stessi vantaggi e le stesse aspettative. L'uguaglianza democratica richiede dunque una vita frugale che limiti il desiderio di possedere al minimo necessario per sé e per la propria famiglia.
Le grandi passioni come il desiderio di gloria esigono il distacco dai beni particolari. Privati della possibilità di avere degli interessi particolari, i cittadini delle repubbliche antiche dirigono il loro amore verso la patria e cercano la felicità servendo il bene comune. Parafrasando le parole di Cicerone, Montesquieu sottolinea che al momento della nascita il cittadino contrae con la sua patria un debito che non può mai essere interamente estinto, e quindi è suo dovere servire il bene comune al meglio delle proprie possibilità. Ma la voce del dovere sa farsi ascoltare meglio dai cittadini delle democrazie che non hanno modo di perseguire piaceri esclusivi: essi possono essere virtuosi perché non devono fare grandi rinunce.
Montesquieu vede una minaccia al patriottismo non solo nell'avarizia e nell'ambizione, ma anche nell'interesse individuale. Per questo sottolinea che al fine di prevenire il rafforzarsi di interessi particolari, le repubbliche devono cercare di limitare l'estensione del territorio. Nelle grandi repubbliche, «gli interessi diventano particolari» e il bene comune «è sacrificato a mille considerazioni»; nelle piccole «il bene comune è più apprezzato, è meglio coonosciuto, è più vicino a ciascun cittadino». Il suolo propizio per la virtù politica sono dunque le piccole, frugali e austere repubbliche.
N elle sue riflessioni sullo spirito della democrazia, Montesquieu introduce una separazione fra interesse individuale e virtù politica che non si trova in Machiavelli e negli scrittori politici repubblicani dei secoli precedenti. Come altri scrittori politici del Settecento, Montesquieu vede la repubblica non solo lontana, ma anche pura e irraggiungibile. Machiavelli, come abbiamo visto, aveva sottolineato che è nell'interesse dei cittadini amare la repubblica perché la repubblica è il fondamento della loro libertà, sicurezza, e prosperità. Essi amano la repubblica e le leggi perché sentono la repubblica come una cosa che appartiene loro e perché sono consapevoli che è nel loro interesse vivere in quella particolare repubblica. Quando assolvono ai doveri pubblici, non sacrificano affatto, come ritiene Montesquieu, il loro bene particolare, ma lo proteggono. Quando invece i cittadini sono corrotti e non fanno il loro dovere, agiscono in modo imprudente, e mettono a repentaglio il loro interesse.
I teorici del patriottismo repubblicano classici e moderni avevano sottolineato che l'amore della patria è un amore caritatevole che abbraccia i genitori, i parenti, gli amici e i concittadini. Montesquieu lo pH;senta come sacrificio e rinuncia; quando estendono il loro amore alla patria, i cittadini devono cessare di amare, o amare di meno, se stessi o la propria famiglia, o gli amici. Nella sua interpretazione l'amore si sposta da un oggetto all'altro, ma non si espande. I moderni ne hanno a disposizione una quantità limitata che devono dividere fra la vita privata e la patria. Il loro amore della patria non può dunque eguagliare quello degli antichi, che davano alla patria, così si racconta, tutto il loro amore.
Dalla sua analisi della dinamica dell'amore della patria, Montesquieu non conclude tuttavia che i moderni non possono essere patrioti, ma solo che non possono esserlo con la medesima intensità degli antichi. Lo stesso spirito del commercio, che anima il mondo moderno, non è un ostacolo per il patriottismo. Come Machiavelli, anche Montesquieu osserva che le repubbliche, per mantenere vivo l'amore dell'eguaglianza che sostiene il patriottismo, devono far sì che i cittadini siano poveri e frugali, e per povertà intende uno stato intermedio fra il lusso e l'indigenza: povero è il cittadino che deve lavorare per conservare i suoi beni e acquistarne altri. Lo spirito del commercio non solo è perfettamente compatibile con la povertà e la frugalità, ma la stimola. Si dà spesso il caso che con il commercio alcuni si arricchiscano al punto di non aver più bisogno di lavorare. Ma questo va contro l'eguaglianza repubblicana e contro lo stesso spirito del commercio, in quanto i cittadini oziosi che vivono nel lusso perdono l'abitudine alla moderazione, alla frugalità, al risparmio, al lavoro, alla saggezza, alla condotta ordinata della vita che formano l'essenza dello spirito del commerci.
Montesquieu distingue la povertà che è frutto dell' oppressione dalla povertà che è un aspetto della libertà. La prima è imposta al popolo dall'asprezza del governo, mentre la seconda è una forma di povertà che il popolo sceglie liberamente o perché disdegna il lusso o perché non conosce altro modo di vita. I due tipi di povertà hanno effetti molto diversi sul patriottismo. Mentre i popoli che sono poveri a causa del malgoverno «sono incapaci di avere virtù", i popoli la cui povertà è parte della loro libertà «possono fare grandi cose per il bene comune. E contro Cicerone, che aveva sostenuto che un popolo non può essere ad un tempo padrone e contabile del mondo, Montesquieu scrive che i grandi progetti e gli spiriti ardimentosi non sono affatto incompatibili con i piccoli fini e le preoccupazioni della vita ordinaria.
Tutt'altro che incompatibile con l'eguaglianza repubblicana, il commercio trova nelle repubbliche il suolo più favorevole. Nelle repubbliche, i cittadini si dedicano volentieri al commercio, e anche al commercio in grande, perché sono sicuri di non essere spogliati dei profitti della loro attività. E lo spirito del commercio, a sua volta, ha effetti benefici sulle repubbliche perché incoraggia la frugalità e la povertà che mantengono i costumi incorrotti, favorisce la civiltà e il decoro tanto nella vita pubblica quanto in quella privata, e stimola l'amore della patria. Ogni commerciante ama la patria che gli permette di svolgere in pace la sua attività e prosperare. Il senso di sicurezza che Montesquieu chiama «libertà politica» può essere dunque un potente motivo per amare la patria e le leggi.
Montesquieu propone due interpretazioni del patriottismo. Nelle riflessioni sulla democrazia basate su fonti classiche, riscopre il patriottismo degli antichi fondato sull'unità sociale e lo presenta come un ideale nobile, ma troppo elevato; nelle riflessioni sullo spirito del commercio parla di un patriottismo dei moderni fondato sull'aamore della libertà politica e civile. Mentre il patriottismo degli antichi è minacciato dall'interesse individuale, il secondo è perfettamente compatibile con esso. Vi sono dunque due vie che portano al patriottismo: l'una, quella dell'unità e del sacrificio, conduce ad un patriottismo puro ma, almeno per i moderni, impossibile; l'altra, quella della libertà e dell'interesse, porta ad un patriottismo impuro, ma possibile, e più attraente.
Le idee di Montesquieu sulla virtù politica divennero parte integrante del patriottismo degli illuministi. La voce 'Patrie' dell'Encyclopédie ripete quasi alla lettera la definizione di virtù politica data da Montesquieu sottolineando che essa è un nobile ideale che richiede però una forza morale sconosciuta agli uomini moderni. La virtù politica, spiega l'autore dell'articolo, è «amore della patria» «<amour de la patrie» ), ovvero, un amore delle leggi e del bene dello stato che fiorisce soprattutto nelle democrazie. Come aveva detto Montesquieu, è uno spirito di sacrificio che esige la capacità di porre il bene comune al di sopra dell'interesse individuale; è una forza dell'animo che rende forti anche i più deboli e li spinge a fare grandi cose per il bene pubblico «<de grandes choses pour le bien public» )34. Eppure, quando i moderni leggono le storie dei grandi patrioti dell'antichità, non li considerano degli esempi da imitare, ma dei folli da deridere.
La voce dell'Encyclopédie documenta bene non solo il carattere ambivalente della rinascita del linguaggio del patriottismo preparata dallo Spirito delle leggi, ma anche il significato delle definizioni settecentesche della virtù politica come amore della patria. Patria, si legge, non significa luogo natìo, come vuole la concezione volgare, ma uno «stato libero» «<état libre») di cui siamo membri e le cui leggi proteggono le nostre libertà e la nostra felicità «<nos libertés et notre bonheur» )35. Come per Machiavelli e gli altri scrittori politici repubblicani, 'patria' sta per 'repubblica' e 'libertà. E infatti, sotto il giogo del despotismo non può esserci patria:
Coloro che vivono sotto il dispotismo orientale, dove non si conosce altra legge che la volontà del sovrano, altra massima che l'adorazione dei suoi capricci, altri princìpi di governo che il terrore, dove nessuna fortuna, nessuna testa è sicura, quelli non hanno affatto una patrie, e non ne conoscono neppure il nome, che è la vera espressione della felicità.
'Patrie' significa dunque una comunità che tutti hanno interesse a conservare (<<sont intéréssés à conservef») ed è ospitale agli stanieri. È una madre comune che ama egualmente tutti i suoi figli, che onora i cittadini che si distinguono per la loro virtù, ma non discrimina, né permette preferenze ingiuste. Accetta che alcuni cittadini siano più ricchi degli altri, ma esige che la via degli onori sia aperta a tutti e soprattutto non tollera che alcuni cittadini siano oppressi. Sorride quando può fare del bene ai cittadini e punisce con grande tristezza.
Anche Voltaire, nel Dictionnaire philosophique assimila la 'patrie' alla repubblica. La patria, scrive, è un'unione di diverse famiglie, e gli individui provano per la patria un attaccamento simile a quello che provano per la loro famiglia, a meno che non abbiano degli interessi contrari al bene comune. In una vera patria l'interesse particolare dei cittadini coincide con l'interesse generale. Per questo la parola 'patria' è adatta ad una repubblica o ad una monarchia retta da un re giusto, ma non si può usare per la tirannide:

Che cos'è dunque la patria? Non sarebbe alle volte un bel campo il cui possessore, comodamente alloggiato in una bella casa, fosse in grado di dire: Questo campo che io coltivo, questa casa che io stesso ho costruita, son cose mie; io vivo qui sotto la protezione delle leggi, che nessun tiranno può violare. Quando quelli che posseggono, come me, dei campi e delle case, si riuniscono per i loro comuni interessi, io ho il mio voto in questa assemblea; io sono una parte del tutto, un elemento della comunità, una parte della sovranità; e in ciò è la mia patria. Tutto ciò che non è una simile coabitazione di uomini non si riduce forse a una scuderia di cavalli, sotto un palafreniere che può distribuir loro a suo piacimento delle buone frustate? Si può avere una patria sotto un buon re; non si ha patria sotto un cattivo despota.

Quando il cosmopolita Voltaire parla di patria non menziona la cultura comune di un popolo, o il linguaggio o la comune discendenza etnica; la 'patrie' è il governo della legge, la libertà e l'autogoverno. È la repubblica ridotta o riassunta nelle sue strutture politiche e giuridiche essenziali; il luogo conta poco, e la storia ancor meno: si può trovare la patria dovunque vi sia la libertà civile e politica. Così intesa, la patria può suscitare nei cittadini un amore che viene dall'amore di sé e dall'interesse individuale. È lo stesso amore, dice Voltaire, che i cittadini provano per la loro famiglia; ma non intende l'amore compassionevole, bensì l'amore di sé. Risolve il contrasto fra amore di sé e amore della patria individuato da Montesquieu riducendo la 'patrie' alla pura struttura politico giuridica della repubblica e interpretando l'amore della patria come una forma di amore di sé illuminato. La sua interpretazione dell'amore della patria come amore di sé è perfettamente coerente con la sua concezione della patria: se la patria è solo la struttura politica e giuridica che protegge i diritti dei cittadini, essa può solo ottenere un amore che viene dall'interesse. I cittadini amano la patria fin quando trovano conveniente essere cittadini di quella patria; se mutano d'avviso cercheranno una nuova patria altrove, se ne hanno la possibilità. Il loro patriottismo è un amore tipico di individui razionali che sanno calcolare il proprio interesse. Non c'è più traccia della pietas e della caritas che caratterizzavano l'immagine del patriottismo antico. È un patriottismo alla portata dei moderni e particolarmente adatto ai cittadini del mondo che possono vivere una buona vita, o una grande vita, ovunque, fin quando altri uomini e altre donne che amano la loro patria non solo perché lo trovano conveniente, le tengono in vita e operano per fame delle buone repubbliche, e quando la corruzione o la tirannide dominano, anziché andarsene, resistono.
Nonostante il suo disprezzo per il cosmopolitismo dei philosophes, anche il 'nazionalista' Rousseau usa il termine patrie come equivalente di 'repubblica' e fa propria l'interpretazione convenzionale della virtù politica come amore della patria. Anche per lui, come per Montesquieu, la virtù politica non è né uno stato di innocenza, né una virtù cristiana, ma una preziosa eredità degli antichi che la politica dei moderni cerca di distruggere con tutti i mezzi. «Gli antichi politici», scrive parafrasando Montesquieu, «parlavano senza posa di costumi e di virtù; i nostri parlano solo di commercio e di denaro. Definisce la virtù politica come conformità della volontà particolare alla volontà generale, ma si affretta a spiegare che essa presuppone l'amore della patria: vogliamo che i popoli siano virtuosi? «cominciamo dunque col fare in modo che amino la patria».
Anche se usa il vocabolario di Montesquieu e ne ripete in parte gli argomenti sul declino della virtù politica fra i moderni, valuta il rapporto civiltà-virtù in maniera diversa dall'autore dello Spirito delle leggi. Mentre Montesquieu aveva celebrato sia la virtù politica degli antichi, sia la civiltà dei moderni, Rousseau cominciò la sua carriera letteraria presentandosi come il campione della virtù degli antichi e il nemico della corrotta civiltà dei moderni. Nei suoi scritti la virtù degli antichi è un'arma di critica contro la corruzione dei moderni. La virtù, scrive nel Discours sur les sciences et les arts, è «la forza e il vigore dell' animo», che brilla contro «i sospetti, le ombre, i timori, la freddezza, le riserve, l'odio, il tradimento» nascosti «sotto questo velo uniforme e perfido di cortesia, sotto la tanto decantata urbanità che dobbiamo al nostro secolo illuminato»41. Conntro i moderni raffinati ma corrotti esalta la semplicità contadina e soprattutto i cittadini di Sparta, «una repubblica di semidei», e Roma repubblicana, il «tempio della virtù». Il suo concetto di virtù ricorda Machiavelli. I prìncipi e la nobiltà d'Italia, scrive in un passo che sembra tratto dal Principe, «si divertivano ad aguzzare l'ingegno e a coltivare il sapere più di quanto non si applicassero a diventare guerrieri vigorosi». E arriva fino ad esaltare le conquiste di Roma come un mezzo per affermare la virtù nel mondo: «il solo talento degno di Roma consiste nel conquistare il mondo e farvi regnare la virtù».
Anche per lui, come per gli scrittori repubblicani, la virtù civile è l'energia morale del cittadino capace di resistere alla corruzione e all' oppressione. È una forza che viene dal senso di indignazione morale che infiamma il cuore e spinge a lottare. Non è una valutazione razionale, ma una passione, un'alterazione dello spirito e del corpo. Il contrario del cittadino virtuoso è il cittadino che rimane freddo e passivo di fronte alla corruzione, anche se razionalmente la condanna.
Il patriottismo è compatibile con la mitezza e l'amore dell'umanità, ma può anche esigere severità e perfino crudeltà. Bruto, scrive Rousseau, non era affatto un uomo tenero, ma non per questo si può dire che non fosse virtuoso. Quando ricoprono incarichi pubblici, i cittadini possono essere costretti a ricorrere alle virtù crudeli «<vertues cruelles» ), per essere virtuosi: Bruto condannò a morte i suoi figli che avevano cospirato contro la repubblica e assistette all'esecuzione44. Il nostro secolo, scrive Rousseau in risposta ad un critico del Discorso sulle scienze e sulle arti, giudica la condotta di Bruto crudele, mentre egli merita la più profonda ammirazione per il suo attaccamento alla repubblica e per la forza con cui fece il suo dovere di maagistrat045. Se avesse perdonato i suoi figli, anche gli altri cospiratori avrebbero dovuto essere graziati, con l'ovvia conseguenza di indebolire la repubblica appena nata. E anche se la repubblica si fosse salvata, un atto di clemenza di quel tipo avrebbe incrinato il governo della legge: se dei cittadini colpevoli di alto tradimento sono perdonati, come si possono poi punire i rei di crimini ordinari? Bruto, sostenevano i critici di Rousseau, avrebbe dovuto dimettersi e lasciare ad altri il compito di condannare a morte i cospiratori e i suoi figli con essi. Ma se un magistrato abbandona il proprio posto nei momenti di pericolo, ribatte Rousseau, si comporta come un traditore e merita di essere messo a morte. Il Discorso sulle scienze e sulle arti si chiude con la celebrazione della virtù definita come «scienza sublime delle anime semplici», come la voce della coscienza che si può ascoltare nel «silenzio delle passioni». Ma la virtù che Rousseau esalta non è la voce della coscienza che parla nel silenzio delle passioni, ma una passione essa stessa, una forza e un vigore dell'animo ispirato dall'amore della patria.
Come ho già osservato, Rousseau definisce la virtù civile come unità della volontà particolare con la volontà generale resa possibile dall'attaccamento ai concittadini: «Noi vogliamo di buon grado ciò che vogliono quelli che amiamo»47. L'amore della patria che sostiene la virtù civile non è l'amore di un'entità astratta o impersonale, ma un attaccamento a persone particolari che conosciamo perché siamo abituati a vederle, perché viviamo con loro, abbiamo interessi e memorie comuni. Non si possono del resto amare degli estranei, o degli individui anonimi o scoonosciuti48. L'amore della patria, scrive Rousseau, è «cento volte più vivo e più delizioso di quello per un'amante»49. Ispira un ardore fiero e sublime che la pura virtù morale, ( «pure vertue») ovvero la virtù dei filosofi, non può suscitare. La virtù dei filosofi indica la strada verso la felicità individuale; la virtù civile persegue la felicità comune che condividiamo con i concittadini.
Anche per Rousseau patrie significa libertà comune, e l'amore della patria è l'amore della libertà comune, la noostra libertà e quella dei nostri concittadini. Senza la libertà e senza i cittadini non si può parlare di patria, ma solo di paese (pays)50. Rousseau chiarisce il nesso fra la patria, la libertà e le leggi anche nelle Considérations sur le gouverneement de Pologne: «l'amore della patria, cioè delle leggi e della libertà»; e in una versione precedente ribadisce il medesimo concetto ponendo al primo posto l'amore della libertà: «l'amore della libertà, ovvero l'amore della patria e delle leggi». Il fondamento della patria sono il rapporto fra i cittadini e lo stato e il modo di vita conforme alle istituzioni repubblicane .
Rousseau spiega questa concezione della patria in una lettera del lo marzo 1764 a Charles Pictet in cui descrive il suo stato d'animo dopo la rinuncia ai suoi diritti di bourrgeois di Ginevra a seguito della decisione del Petit Conseil della repubblica di proibire la pubblicazione della Lettre à Cristophe de Beaumont. Era stata una scelta penosa, una rottura definitiva; sapeva bene che rinunciare ai diritti di cittadinanza significava non poter più rivedere Ginevra. Ma Rousseau dice di non provare pena; non sente più per Ginevra amore o attaccamento, ma solo un freddo senso del dovere e indifferenza. Eppure il suo amore per Ginevra era stato intenso e sincero.
Rousseau descrive nella lettera a Pictet un' esperienza simile a quella che Milton descrive nella lettera a Hanbach. Anche in questo caso la metamorfosi dell'amore della patria in una fredda indifferenza si capisce tenendo presente che per Rousseau l'amore della patria è amore della repubblica, come aveva spiegato pochi anni prima nella Dedica al Discours sur l'origine de l'inegalité. In quel testo Roussseau aveva riaffermato solennemente il suo attaccamento alla repubblica di Ginevra. Era già per diritto di nascita bourgeois di Ginevra, voleva ridiventarlo per scelta. Anche se aveva lasciato la sua città quando era un ragazzo, anche se le leggi di Ginevra avevano costretto suo padre all' espatrio, Rousseau dichiara nella 'Dedica ai Magnifici Sovrani e Signori' che sceglie Ginevra come sua patria. E sceglie Ginevra perché sente di amare Ginevra, e di amarla perché è una repubblica, almeno nella sua immaginazione. Vorrei vivere, scrive, in una repubblica dove «la dolce abitudine di incontrarsi e di conoscersi facesse dell'amore di patria più l'amore verso i concittadini che non l'amore verso la terra»53; dove il corpo sovrano e i cittadini <<non potessero avere che un solo ed unico interesse» e dove le dichiarazioni pubbliche tendono al bene comune. Dichiara di amare una repubblica in cui le leggi proteggono la libertà dei cittadini; «una felice e tranquilla repubblica, la cui antichità» si perde «in qualche modo nella notte dei tempi; provata solo da esperienze adatte a rivelare e a rafforzare nei suoi abitanti il coraggio e l'amor di patria»; e i cui cittadini, «abituati da lungo tempo a una saggia indipendenza», sono «non solo liberi», ma «degni di esserlo»; che è libera e non ha alcun desiderio di conquistare ed è protetta contro le invasioni es terne da una fortunata posizione geografica.
La patria che Rousseau ha amato intensamente è una comunità pacifica in cui ognuno può vivere in una «dolce società» con i concittadini e avere verso di loro sentimenti di umanità e di amicizia; dove ognuno può sperare di «lasciare dopo morto l'onorevole memoria di un uomo dabbene e di un onesto e virtuoso patriota»55. Il pensiero di morire in suolo straniero suscita in Rousseau sentimenti di rimpianto, di tenerezza, di nostalgia:
Se, meno fortunato o troppo tardi saggio, mi fossi visto ridotto a concludere sotto altri cieli un'esistenza priva di vigore e di slancio, rimpiangendo vanamente la mia tranquillità e la quiete di cui mi aveva privato la mia imprudenza giovanile, avrei per lo meno nutrito nell'intimo quegli stessi sentimenti che non potevo manifestare nel mio paese [ ... ].
Per il vero patriota (<<un vrai Patriote») il valore della patria consiste in primo luogo nella costituzione e nelle leggi che proteggono la libertà civile e politica e il modo di vita e i costumi fondati sulla libertà. Quando decide di rinunciare al diritto di cittadinanza, non è Rousseau che cessa di essere patriota; è Ginevra che non è più vera patria. Ginevra è ancora lì, con la sua gente, la sua sloria, i suoi costumi; ma non ci sono più né la repubblica, né la libertà. La corruzione del rapporto politico fra lo stato e i cittadini ha dissolto la patria. La sua scelta, come spiega nella lettera a Pictet, è il risultato di una delusione. Dopo ciò che la patria gli aveva fatto, Rousseau non può più continuare a credere di avere una patria e che la sua patria sia la repubblica di Ginevra.
L'amore della patria è per Rousseau in primo luogo un amore politico che nasce dalla gratitudine dei cittadini per il buongoverno. Per ottenere l'amore dei cittadini, la patria deve amare tutti i cittadini egualmente e il suo amore si deve esprimere nella protezione premurosa dei diritti e della libertà di tutti. Se avvertono che i loro diritti civili sono tutelati, i cittadini si sentono sicuri; e se possono liberamente esercitare i diritti politici, sentono la patria come qualcosa di loro.
La patria si mostri dunque madre comune di tutti i cittadini e i vantaggi che vi godono li porti ad amare il loro paese; il governo li faccia partecipare all'amministrazione pubblica quanto basta perché si sentano a casa loro, e le leggi diventino ai loro occhi soltanto garanzia della comune libertà.
La cattiva costituzione politica e il malgoverno portano invece i cittadini a trascurare i loro doveri civili. Come spiega nel Contratto sociale «In uno Stato bene ordinato, quando c'è da andare alle assemblee, ciascuno ha le ali ai piedi; sotto un cattivo governo nessuno fa volentieri un passo per andarvi»59. I cittadini partecipano volentieri alle assemblee se ritengono che ci siano buone probabilità che l'interesse pubblico si affermi e che quindi anche il loro interesse personale sia tutelato. Nella repubblica bene ordinata l'impegno è gratificante in quanto ognuno raccoglie per sé una porzione della felicità pubblica che le buone deliberazioni producono. Ma se sanno che il corpo sovrano ratificherà gli interessi di un gruppo sociale o di una fazione, i cittadini preferiscono rimanere a casa e perseguire i beni della vita privata. L'amore della patria si intiepidisce per effetto del malgoverno.
Per Rousseau, tuttavia, l'amore della patria non è un amore solo politico. Non è solo amore delle leggi e della costituzione, ma anche attaccamento a un modo di vita, a una cultura, a un linguaggio, a un luogo, ma rimane in primo luogo un amore politico: se non c'è la repubblica, se non c'è la libertà, non bastano il linguaggio, la cultura, le tradizioni e i costumi a mantenere vivo l'amore della patria. L'idea che per Rousseau e per i pensatori repubblicani classici i sentimenti patriottici e la partecipazione politica si basano e possono basarsi esclusivamente sull'unità religiosa e culturale dei cittadini ed erano «l'espressione politica di un popolo omogeneo» è esatta solo in parte. L'unità culturale, sociale e religiosa possono incoraggiare la virtù civile, ma il requisito essenziale è politico, ovvero il buongoverno. Se un popolo vive sotto il giogo del dispotismo o della tirannide non può coltivare il vero amore della patria, per quanto omogeneo sia dal punto di vista culturale, sociale o religioso. L'omogeneità e il buon governo insieme sono il suolo più favorevole alla crescita del patriottismo, ma l'omogeneità unita al dispotismo è terreno buono solo a far crescere corruzione e docilità. L'omogeneità culturale, religiosa e sociale possono tutt'al più essere buoni sostegni, ma non il fondamento del patriottismo e della virtù civile. Per contro, il buongoverno insieme alla diversità sociale e culturale può stimolare il patriottismo nel suo significato migliore, ovvero l'amore della libertà comune. Ma se un popolo è politicamente corrotto, anche se omogeneo, non può diventare un popolo di cittadini.
Per caratterizzare la patrie, Rousseau parla spesso di «madre comune». L'aggettivo 'comune' indica l'obbligo della patria di proteggere la libertà e la sicurezza di ogni cittadino come beni comuni a tutti in ossequio al principio che la libertà del singolo è altrettanto importante della libertà della repubblica in generale. Secondo la teoria rousseauiana della costituzione politica legittima, la libertà di ognuno deve essere difesa dalla forza comune di tutta la repubblica. Questo significa, in via di principio, che un'ingiustizia perpetrata dallo stato contro un cittadino dissolve non solo l'obbligo del cittadino vittima dell'ingiustizia nei confronti dello stato, ma anche l'obbligo di tutti gli altri cittadini. Il contratto sociale stabilisce infatti che la libertà di ogni cittadino è parte della libertà comune. Se un cittadino, o alcuni cittadini, sono trattati ingiustamente è la libertà comune ad essere violata, non solo la libertà del singolo cittadino o dei singoli cittadini. I cittadini potenti o i magistrati corrotti che si rendono responsabili della violazione della libertà di alcuni cittadini o di un solo cittadino diventano nemici della repubblica e devono essere puniti dalla repubblica.
In pratica, tuttavia, la violazione, la parte dello stato o di privati cittadini, della libertà di un cittadino o di alcuni cittadini non tocca la libertà degli altri. Ma se la repubblica è una vera repubblica non può tollerare la violazione della libertà di nessuno dei cittadini; e se i cittadini sono veri cittadini devono reagire alla violazione della libertà di alcuni di loro come a un attacco contro la libertà comune. La teoria del contratto sociale offre una giustificazione a resistere contro il governo che commette ingiustizia o che non fa quanto è in suo potere fare per proteggere la libertà dei cittadini. Se lo stato pretende di essere una repubblica, i cittadini non solo hanno il diritto, ma hanno il dovere di lottare contro i magistrati o contro i cittadini che violano la libertà comune.
Dalla teoria della repubblica elaborata nell' Economie politique e nel Contrat social, discende che il patriottismo è il prodotto di precise condizioni politiche; è un attaccamento alla repubblica che cresce nel cuore dei cittadini quando la repubblica assolve i suoi obblighi. Quando invece la repubblica nega ai cittadini l'amore politico che essa deve ad ognuno di essi, essa genera e merita l'odio e il disprezzo dei cittadini: la parola 'patrie' «non potrebbe suonare per loro se non odiosa o ridicola».
Mentre Montesquieu aveva definito la virtù politica come lo spirito della democrazia, Rousseau sottolinea che essa deve essere il principio di ogni governo legittimo. In questo modo Rousseau emancipa la virtù civile dalla connessione esclusiva con una forma di governo che considera troppo perfetta per gli uomini, soprattutto per i moderni. E per democrazia Rousseau intende la democrazia degli antichi, ovvero quella forma di governo in cui i cittadini sono membri del corpo sovrano e del governo, e quindi approvano ed applicano le leggi. La concentrazione di entrambi i poteri nelle stesse mani offre ovviamente continue possibilità di corruzione che possono essere evitate solo se i cittadini possiedono una virtù straordinaria; per questo Rousseau scrive che «Un governo tanto perfetto non conviene agli uomini».
Rousseau, come Montesquieu, ritiene che i moderni non possano eguagliare il patriottismo degli antichi. Nelle Lettres écrites de la montagne, tuttavia, ammette la possibilità di una virtù politica dei moderni. I moderni, scrive, non possono prendere a modello gli antichi; non sanno e non vogliono coltivare la libertà degli antichi, per usare l'espressione di Benjamin Constant; essi, in particolare i cittadini di Ginevra, sono artigiani e commercianti dediti alloro lavoro, e attaccati all'interesse personale. Non hanno alcuna intenzione di dedicare la maggior parte del proprio tempo alla politica perché considerano la propria attività e la vita familiare più interessanti e più gratificanti della partecipazione politica e perché sanno bene che la politica è spesso pericolosa e dannosa. I moderni non possono dunque essere virtuosi come lo furono, secondo le storie, gli spartani, gli ateniesi e i romani; possono però essere, e spesso sono, civili, pacifici, industriosi, rispettosi delle leggi, consapevoli dei propri diritti, e pronti ad assolvere i doveri verso la comunità. Possiedono, Rousseau

si riferisce ai ginevrini, le virtù necessarie alla vita civile: modestia, decoro e gravità; amano le leggi della repubblica e l'eguaglianza civile perché sanno che le leggi e l'eguaglianza sono il fondamento della loro sicurezza e prosperità. La libertà è per loro «un mezzo per acquistare senza intralci e per possedere senza rischi».
Dopo aver riconosciuto che i cittadini moderni non possono eguagliare l'amore della patria degli antichi, Rousseau sottolinea che la mancanza completa di virtù civile porta alla perdita di quella stessa libertà individuale così cara ai moderni; è vero che servire il bene comune è oneroso, ma «chi non può sopportare la fatica non ha che da cercare il riposo della schiavitù»68. La causa principale della perdita della libertà non è tanto la riluttanza a partecipare all'attività legislativa o di governo, quanto la tendenza a rimanere silenziosi e passivi di fronte agli abusi commessi dal governo o da cittadini potenti. Se i cittadini non fanno sentire la loro voce e non si mobilitano quando il governo impone tasse ingiuste, o manipola le procedure elettorali, o viola i diritti di proprietà, o nega un processo equo, essi mettono a repentaglio la loro libertà civile e politica. Se è commessa una ingiustizia, non importa contro chi, essi devono reagire tempestivamente. Se non si rendono conto che l'interesse pubblico è anche il loro interesse personale, e se non si impegnano per difendere la libertà comune finché c'è tempo, la tirannia potrà agevolmente imporsi69. Rousseau sottolinea con forza che la tirannide si afferma in modi indiretti e subdoli; raramente attacca direttamente il bene pubblico; quasi sempre erode e indebolisce prima la convinzione dei cittadini che la repubblica è un bene che appartiene a loro in comune. Il comportamento dei cittadini che non reagiscono agli attacchi contro la libertà comune è tanto saggio quanto il comportamento di quel tale che si rifiutò di uscire dal letto mentre la casa andava a fuoco perché, disse, «io sono solo un inquilino.
Rousseau colloca il vero patriottismo fra l'indifferenza e il fanatismo, fra la mancanza di responsabilità civile e l'impegno totale per il bene comune. Condanna i cittadini che rimangono freddi e passivi di fronte alle ingiustizie che colpiscono altri cittadini, ma non esige che diventino martiri. Il patriottismo è una passione, una forza dell'animo che dà agli individui la forza di agire, ma non è il cieco furore del fanatico, né la devozione dell' eroe 71. La virtù degli eroi è sublime; è una devozione totale alla felicità degli altri sostenuta dalla sete di gloria. Quando si combina con il desiderio di gloria, l'amore della patria degenera nell'animo eroico in un ardore che non esita a ricorrere anche a mezzi odiosi «<moyens odieux»). Il mondo, osserva Rousseau, ha avuto già troppi eroi, ma non ha avuto ancora abbastanza cittadini.
Il cittadino virtuoso non deve essere legislatore o governatore a tempo pieno; deve essere soprattutto pronto a resistere, quando è necessario, contro i nemici interni ed esterni della libertà. Se la libertà comune non è minacciata può tranquillamente dedicarsi ai propri affari, coltivare la vita privata e, se vuole, indugiare nei piaceri e nelle trasgressioni. Deve essere severo con i nemici della repubblica, ma non c'è nessun bisogno che sia severo con se stesso. Il patriottismo è incompatibile con l'apatia e la pusillanimità, ma si adatta bene con lo spirito giocoso. Gli episodi di civismo di cui Rousseau parla nelle sue opere sono spesso feste e danze, momenti di unità e di concordia. Nella pagina della Lettre à d'Alembert in cui descrive uno dei momenti di più intensa identificazione patriottica della sua vita, Rousseau sottolinea l'emozione che provò da ragazzo quando vide sfilare a Ginevra il reggimento di Saint-Gervais. E la sua emozione, che nasceva dall'ammirazione per l'ordine e l'unità delle truppe in parata, divenne ancora più intensa quando i soldati ruppero i ranghi e si mischiarono gioiosamente con i cittadini.
In alcuni passi Rousseau difende la priorità del patriottismo rispetto ai doveri verso l'umanità e elogia un amore della patria esclusivo e arrogante. Gli spartani, scrive, erano ambiziosi, avari e ingiusti verso i forestieri perché li consideravano solo 'uomini' , non spartani, e quindi senza valore; ma la cosa importante, commenta Rousseau, è di essere buoni con i propri concittadini. In altri passi esorta ad ascoltare la voce della coscienza, che parla sempre in nome dell'umanità. Ma quando un popolo sta per perdere la propria libertà, o l'ha già persa, il suo primo e supremo dovere è quello di difendere la propria identità e cultura nazionale. Tanto più le istituzioni politiche sono deboli, quanto più è necessario rafforzare l'unità sociale, culturale, religiosa del popolo. Se un popolo è circondato da stati potenti e aggressivi, come nel caso della Polonia, il solo modo di difendere la libertà o di riconquistarla, è di formare dei patrioti, ovvero dei cittadini che vivono soolo per la patria e hanno la patria profondamente radicata nei cuori. Con istituzioni politiche inadeguate, una scarsa popolazione, e povera disciplina militare, la Polonia può contare solo sul patriottismo dei polacchi. Se vogliono rimanere liberi, o tornare ad essere liberi, i polacchi devono resistere a ogni forma di contaminazione culturale e diventare il più profondamente possibile polacchi. Devono ricavare dalla loro unità spiritmile e dalle comuni memorie la «forza nazionale» necessaria a resistere contro le aggressioni esterne. Il loro compito più urgente è diventare patrioti «per inclinazione, per passione e per necessità». Un popolo diviso e politicamente debole deve prima di ogni altra cosa amare la propria cultura e essere orgoglioso della propria storia76. Deve essere e rimanere se stesso come popolo, per essere un giorno libero.
Sono le istituzioni nazionali che formano il genio, il carattere, i gusti e i costumi di un popolo, che lo fanno essere quel determinato popolo e non un altro, che gl'ispirano quell'ardente amor proprio fondato su radici impossibili da sradicarsi, che lo fanno morire di noia fra gli altri popoli, in mezzo alle delizie di cui è privato a casa sua.
Gli interpreti di Rousseau hanno sottolineato che il saggio sul governo della Polonia è un testo che esemplifica il passaggio dal patriottismo repubblicano basato sui valori politici della repubblica al nazionalismo basato sul valore della nazione intesa come unità spirituale e culturale. Ritengo invece che le Considérations sur le gouvernement de Pologne debbano essere interpretate come un'esortazione ai polacchi a mantenere viva nei loro cuori, come cultura e memoria, quella patria che erano sul punto di perdere come entità politica e statale. Poiché non possono essere politicamente liberi, i polacchi devono cercare di rimanere almeno spiritualmente liberi, ovvero rimanere se stessi, rimanere polacchi. Se sapranno rimanere spiritualmente liberi, se sapranno resistere all'assimilazione culturale, potranno riconquistare in futuro la loro libertà politica; se perdono la loro identità nazionale sono condannati a rimanere per sempre servi.

Non potreste impedire che v'inghiottano; fate almeno in modo che non riescano a digerirvi. Comunque si proceda, prima che sia dato alla Polonia tutto ciò che le manca per essere in grado di resistere ai suoi nemici, essa verrà cento volte abbattuta. La virtù dei suoi cittadini, del loro amor patrio, la particolare impronta che delle istituzioni nazionali possono dare alle loro anime, ecco il solo baluardo sempre pronto a difenderla, un baluardo che nessun esercito potrebbe espugnare. Se voi farete in modo che un polacco non possa mai diventare un russo, vi assicuro che la Russia non asservirà mai la Polonia.

Nelle Considérations sur le gouvernement de Pologne, Roussseau insiste sulla necessità di conservare il carattere nazionale. Ma sa bene che il carattere nazionale, da solo, può rendere un popolo unito, ma non libero. Per essere libero un popolo ha bisogno della nazione, ma soprattutto della repubblica. Ha bisogno della sua cultura particolare basata sulle memorie comuni, sui riti pubblici, sul linguaggio, sul costume; ma ha bisogno anche della libertà politica. Per diventare buoni cittadini, i polacchi devono certamente rimanere polacchi, ma se rimangono solo polacchi non per questo sono liberi, e per Rousseau la libertà che solo la repubblica garantisce, è la condizione necessans per Vivere come uommi.
Le diverse culture nazionali sono un bene da difendere contro la tendenza all'uniformità culturale europea o cosmopolita:
Dobbiamo certamente rimanere francesi, o tedeschi, o italiani, o inglesi; ma se siamo solo francesi, o tedeschi, o spagnoli, o inglesi senza essere cittadini, siamo nulla, dice Rousseau81. Dobbiamo vivere come cittadini, e per essere cittadini bisogna avere, oltre alla cultura nazionale, la repubblica e la cultura della repubblica.
C'è una sottile, ma importante differenza fra Rousseau e i teorici nazionalisti. Questi ultimi insistono, come vedremo, sull'identità nazionale come condizione necessaria e sufficiente per la realizzazione morale e esistenziale dell'individuo; per Rousseau si può vivere come esseri umani solo se si vive liberi, ovvero se si vive da cittadini di una libera repubblica. Per i padri spirituali del nazionalismo, il carattere distintivo della patria è l'unità spirituale basata sul linguaggio; per Rousseau solo la buona repubblica è una vera patrie. La nascita del linguaggio del nazionalismo comporterà un cambiamento nel significato del concetto di patria, che cessa gradualmente di essere
Oggi, si dica quel che si vuole, non ci sono più né Francesi, né Tedeschi, né Spagnoli, e neppure Inglesi. Ci sono solo Europei. Tutti hanno gli stessi gusti, le stesse passioni, gli stessi costumi, perché nessuno ha ricevuto un'impronta nazionale attraverso un'educazione che gli sia propria.
un concetto politico fondato sui princìpi della libertà politica per diventare concetto culturale fondato sui valori dell'unità spirituale del popolo. Rousseau capì l'importanza dell'unità culturale e spirituale del popolo, ma continuò a parlare della patrie come un repubblicano, non come un nazionalista.

IV
LA NASCITA DEL LINGUAGGIO DEL NAZIONALISMO

Alla fine del XVIII secolo, il linguaggio del patriottismo repubblicano si era affermato in Europa come una importante tradizione intellettuale ed era largamente usato come un linguaggio della libertà. Sarebbe un abuso del linnguaggio, scrivevajohn Cartwright nel 1782, chiamare patriota chi «non consideri sacri come la vita dei genitori quei diritti senza i quali la sua patria non può essere libera».
Le parole di Cartwright rivelano il persistente e significativo debito nei confronti dei classici. Nel linguaggio del patriottismo del tardo Settecento, l'amore della patria era inteso come un amore caritatevole della libertà comune del popolo: il patriota vuole che i suoi concittadini siano liberi perché gli sono cari, come insegnavano i maestri repubblicani. Ma i teorici del patriottismo non si limitarono a ribadire la dottrina classica, e la integrarono con riferimenti ai principi della teoria moderna del diritto naturale. L'innesto non alterava il significato del patriottismo repubblicano; gli stessi autori romani avevano infatti sottolineato che poiché l'amore della patria è caritas civium o pietas reipublicae, esso deve rispettare i principi della giustizia definiti dalla retta ragione. Si trattò piuttosto di un contributo che arricchì il significato morale del patriottismo in quanto determinò in maniera più precisa che in passato i limiti che la giustizia impone alla carità e all'impegno per la libertà comune.
Un esempio importante di teoria del patriottismo nei limiti della legge naturale è il Discourse on the Love oj Our Country che Richard Price lesse il4 novembre 1789 alla Soociety for Commemorating the Revolution in Great Britain. L'amore della patria, spiega Price, «è certamente una noobile passione», che può essere tuttavia fuorviata dagli errori e dai pregiudizi. Per impedire che esso degeneri, è necessario chiarire che cosa significa 'patria' e che tipo di amore è l'amore della patria.

Per patria si intende, in questo caso, non il suolo o l'angolo di terra dove ci è capitato di nascere; non le foreste e i campi, ma la comunità di cui siamo membri, o quel corpo di compagni, di amici e di simili con i quali viviamo insieme sotto la medesima costituzione politica, protetti dalle stesse leggi e uniti dalla stessa società civile.

Una comunità politica composta da cittadini uguali uniti da vincoli di amicizia e solidarietà richiede un amore fondato sulla giustizia, non un amore fondato sulla convinzione che la nostra patria è superiore alle altre e animato da parzialità nel modo di giudicare culture e costumi di altri popoli. Gli uomini sono naturalmente inclini, spiega Price, a sopravvalutare «i nostri amici, la nostra patria, e tutto ciò che ci è vicino». Ma l'amore della patria non esige questo; il patriota può e deve restare un uomo saggio che cerca di mantenere il suo giudizio immune da parzialità:

Le altre famiglie possono avere tanto pregio quanto la nostra. Altri circoli di amici possono essere tanto saggi quanto i nostri, e altri paesi possono avere tante cose che meritano stima quante ne ha il nostro. Ciononostante, abbiamo l'obbligo di amare le nostre famiglie, gli amici e la patria, e operare per il loro bene.

L'amore della patria non è né un attaccamento a un bene che non siamo autorizzati ad analizzare in tutte le sue parti perché se lo facessimo potremmo scoprire che non merita il nostro affetto, né è un attaccamento a un bene che noi valutiamo più di ogni altro perché è esclusivamente nostro. L'amore della patria richiede invece di lasciare da parte i paragoni fra la nostra patria e altre patrie e di rimanere sensibili sia agli aspetti positivi che agli aspetti negativi tanto nella nostra patria quanto in altre patrie.

Per essere una nobile virtù, l'amore della patria deve rimanere immune non solo dalle false credenze, ma anche da quelle passioni - come lo spirito di rivalità - che fanno degenerare l'amor della patria in amore del dominio.

Che cosa è stato fino ad oggi l'amore della patria? Che cosa è stato se non amore del dominio, desiderio di conquista e sete di grandezza e di gloria per mezzo della conquista e dell'asservimento dei paesi vicini? Che cosa è stato se non un principio cieco e ristretto che ha prodotto in ogni paese disprezzo per gli altri paesi e spinto gli uomini ad unirsi in fazioni contro i loro diritti e le loro libertà comuni?

Per Price il patriottismo degenerato è una forma di egoismo. La stessa inclinazione che porta gli individui a violare i diritti degli altri individui, porta le nazioni a violare i diritti delle altre nazioni per imporre ad esse il proprio dominio, come nel caso del tanto celebrato patriottismo degli antichi, che non era altro che un amore della patria corrotto dall' orgoglio, dalla parzialità e dalla sete di conquista.

L'amore della patria è in realtà un composto di diverse passioni, e ci sono molte combinazioni possibili. Può essere un amalgama di amore della libertà, rispetto per i diritti degli altri, benevolenza verso l'umanità e coraggio; ma può essere anche fatto di orgoglio, ambizione, egocentrismo e parzialità.
La paura rende l'amore della patria cieco. Quando un'aggressione esterna o un'invasione sembrano imminenti, è difficile mantenere una distanza critica rispetto al proprio paese. Eppure, negli anni in cui la paura dell'invasione napoleonica raggiunse in Inghilterra l'apogeo, i patrioti non abbandonarono il linguaggio del patriottismo della libertà. Esortarono i loro compatrioti ad arruolarsi per difendere la patria, ma li ammonirono a non dimenticare che amore della patria significa in primo luogo impegno a difendere la libertà politica e civile, la libertà di opinione e di stampa, una giustizia imparziale e il diritto di tutti a condizioni di vita decenti.
Il testo che meglio di ogni altro riassume la concezione del patriottismo come lealtà all'ideale della repubblica, è il saggio di William Frend Patriotism; or Love oJ our Country, pubblicato nel 1804. Il patriottismo, sottolinea Frend, è la passione di un animo generoso e degno che nasce dalla natura ed è incoraggiata e sostenuta dall'abitudine a vivere in una libera repubblica. Infatti, osserva ripetendo idee di Montesquieu e di Rousseau, la patria non può esistere in regimi dispotici, come in India, dove i sudditi non possono considerare il suolo su cui vivono come loro patria perché esso appartiene ai loro padroni per diritto di conquista. Divisi in caste, gli indiani non hanno alcun vincolo comune che li unisca, e quindi «non hanno una patria». Privi del sentimento di appartenenza ad una comune patria, non possono avere la forza che viene dall'amore della patria II .
Diversamente dall'amore di Dio, che procede dal tutto alle parti, l'amore umano procede dalle parti al tutto12. Ma la forza espansiva dell'amore si può arrestare in ogni momento. Se i genitori sono crudeli, freddi e ingiusti, il bambino potrà essere obbediente, ma certo non li amerà. Lo stesso avviene per l'amore della patria: per essere amata la patria deve mostrarsi degna d'amore. Chi ama veramente la patria esige spesso delle spiegazioni, e lo fa per il bene della patria. Le sue richieste sono più forti di quelle fatte da un osservatore indifferente o neutrale. Quando il patriota vuole sapere perché la sua patria ha fatto qualcosa di male, non si accontenta di una risposta qualsiasi13.
La patria deve abbracciare l'individuo con il suo amore, prima ancora che l'individuo possa ricambiare e amarla: essa «deve amare l'individuo, altrimenti l'individuo non l'amerà,,14. L'amore della patria è simile all'amore di Dio: il genitivo - amore della patria, amore di Dio - non indica l'oggetto dell'amore, ma il soggetto a cui l'amore appartiene e da cui parte l'amore. L'amore che gli uomini provano per Dio, l'amore di Dio, è l'amore che Dio genera nei cuori degli uomini per mezzo del suo amore per loro; per mezzo di un amore che, come scrive Frend, procede dal tutto alle parti e genera un amore che si espande in direzione opposta. La patria può e deve fare lo stesso, ovvero, generare negli individui l'amore per lei con l'amore per loro. Per la patria, l'amore dei cittadini è più importante di quanto non sia l'amore degli uomini per Dio, perché la sua vita, diversamente da Dio, dipende dall'amore dei cittadini. Per questo deve fare di tutto per far nascere e proteggere il patriottismo dei cittadini.
La patria conquista l'amore dei cittadini per mezzo della politica. Se le sue leggi e le sue istituzioni sono conformi ai princìpi della repubblica, i cittadini amano la patria. E per essere una vera repubblica, la patria deve rispettare prima di tutto il principio dell'uguaglianza di fronte alla legge. Quale che sia la loro condizione sociale, la legge deve trattare i cittadini in modo uguale; le preferenze e le eccezioni producono inimicizie e conflitti che indeboliscono l'impegno per il bene comune15. Oltre ad essere eque, le leggi devono essere rivolte al bene generale e adattarsi alla condizione dei cittadini; in caso contrario, anche se sono uguali per tutti, esse creano ostilità e disprezzo nei confronti della patria. I soli privilegi e le sole distinzioni che aiutano il patriottismo sono quelle fondate sulla virtù.
A questo si deve aggiungere un rispetto incondizionato per le proprietà dei cittadini, intendendo per proprietà dei cittadini tanto i loro beni materiali, quanto quelli spirituali. E questi ultimi, spiega Frend, sono più importanti dei primi.
Il patriottismo fiorisce nelle comunità che premiano le menti nobili e generose e disprezzano il lusso, l'incontinenza, la superstizione e l'egoismo che abbondano soprattutto fra i ricchi. Il ricco è egocentrico; è incapace di amare altri al di là di se stesso e quindi non sa estendere il suo amore ai concittadini e alla patria. Il più grande errore che la patria può fare è permettere che la ricchezza conferisca privilegi legali e politici. Non c'è nulla di male ad essere ricchi, ma se la patria onora i ricchi e tratta i poveri con disprezzo e alterigia, non può essere amata: i ricchi non l'amano perché sono egoisti e meschini; i poveri perché si sentono disprezzati e trascurati.
Per Frend, il vero patriottismo nasce più facilmente fra i ceti inferiori che fra le classi privilegiate. Per questo è dovere della patria di trattare i poveri con giustizia quando si presentano di fronte ai tribunali e fare di tutto perché vivano in condizioni decenti. Inaugurando una tradizione importante di patriottismo sociale che integra la tradizione repubblicana classica del patriottismo politico, Frend sottolinea che il patriottismo impone la riforma delle ingiustizie sociali prodotte dall'avarizia dei ricchi.

Molte abitazioni di chi vive nelle grandi città sono piene di sporcizia e puzza; la luce del sole vi penetra a stento; i bambini vivono fin dalla nascita nella miseria e nell'abbandono. Come può nascere il patriottismo in simili condizioni?

La sua insistenza sulla correzione delle ingiustizie sociali non va a scapito della tradizionale rivendicazione repubblicana dell'uguaglianza politica. Il popolo deve partecipare alla vita pubblica, a cominciare dalle elezioni, che dovrebbero essere più frequenti e coinvolgere, tramite l'allargamento del diritto di voto, un numero più largo di cittadini. Ammette che la partecipazione popolare alle elezioni aumenta la turbolenza, ma sottolinea che essa rafforza il patriottismo. La pace che nasce dall' esclusione del popolo dall' esercizio dei diritti politici è come il torpore del despotismo, e non può essere mai preferita all'agitazione che deriva dall'esercizio dei diritti politici. Il patriottismo esige la partecipazione dei cittadini alla vita pubblica perché i cittadini che sono coinvolti nella politica sono attivi, industriosi, pieni di risorse, e, a meno che circostanze particolari non abbiano concorso a distruggere gli effetti del loro patriottismo, invincibili: dove non hanno alcun ruolo nella vita politica, il patriottismo è sconosciuto; una massa spenta e inerte vegeta sulla terra; l'uomo nasce e muore incapace di esercitare le migliori energie della mente e i sentimenti più elevati del suo cuore.

L'amore della patria ha dei limiti imposti dagli obblighi nei confronti dell'umanità e di Dio. Può chiederci di difendere la patria quando è attaccata dal nemico, ma non di renderei complici di torti contro «il resto dell'umanità». Le guerre dell'Inghilterra in India e la tratta degli schiavi non possono essere in alcun modo giustificate in nome del patriottismo. Se la nostra patria non rispetta gli obblighi nei confronti dell'umanità e di Dio, l'amore dei cittadini "deve cessare». Dio, racconta Frend, aveva promesso la terra di Canan agli israeliti, e dunque il loro diritto ad occuparla non doveva essere messo in questione perché era stato concesso da colui che "divide la terra a suo piacere». Invece, per amore della patria, gli abitanti di Canaan resistettero agli invasori; decisero di opporsi al volere di Dio, e per questo Dio li punì con la totale distruzione. Lo stesso destino toccò poi agli israeliti. Per i loro vizi e la loro superstizione, gli abitanti del regno di Giuda si resero odiosi al cospetto di Dio e indegni "di abitare quella terra». Anche in questo caso chi eccitò il popolo ad opporsi alla volontà divina che comandava di lasciare quella terra, agi in modo empio, mentre il profeta Geremia, che esortò ad obbedire alla volontà divina fu «il solo vero patriota». È importante osservare che Frend non chiama Geremia 'pio', come merita di essere chiamato chi obbedisce alla volontà di Dio, ma «vero patriota» perché parlò per alleviare la sofferenza del suo popolo e per muoverlo ad accettare un giudizio che, per quanto fosse duro era giusto: nessuno, tanto meno Dio, «poteva provare amore per un popolo così odioso e detestabile». È difficile separarsi dal proprio popolo e dire cose spiacevoli, come dimostrano in modo eloquente proprio le elegie di Geremia; ma quando è necessario bisogna farlo, non solo per dovere nei confronti di noi stessi, ma anche per il bene della nostra patria. Per essere amata, la patria deve mostrarsi degna del nostro amore; l'Inghilterra imperiale e i corrotti israeliti non lo erano: non meritano l'amore del vero patriota, ma la sua critica. Quando la patria merita stima, invece, nessuno sforzo è troppo grande, nessun sacrificio è troppo oneroso per il suo bene. E il vero amore della patria non contraddice affatto l'insegnamento di Cristo.
L'amore di Dio impone di temperare l'amore della patria, ma non lo proibisce, né lo scoraggia. Nella sua forma autentica, l'amore della patria è un amore «che è il miglior ornamento dell'uomo» perché è amore della repubbblica23. E repubblica vuol dire costituzione, eguali diritti, una giustizia imparziale, ricompensa per l'onesto lavoro, rispetto e protezione dei poveri. L'Inghilterra deve essere amata e protetta, sottolinea Frend nel suo appello ai volontari, perché la libertà - la libertà per cui i nostri antenati hanno combattuto -la rende unica.
I radicali inglesi non erano i soli ad usare il linguaggio del patriottismo nella loro lotta per la libertà. In quegli stessi anni, anche i patrioti spagnoli che lottavano contro l'invasione delle truppe napoleoniche usarono il linguaggio del patriottismo repubblicano per forgiare un concetto di patria basato sui princìpi della libertà e del buongoverno. 'Patria', si legge in un articolo pubblicato durante la guerra d'indipendenza, non significa luogo natìo, come vuole la concezione convenzionale, ma l'organizzazione politica della società le cui leggi proteggono la libertà e la felicità dei cittadini, come insegnano i classici. 'Patria' viene da pater; evoca immagini di amore filiale, armonia, feelicità, e bisogna distinguere la patria dal paese: il paese è qualsiasi luogo in cui siamo nati o dove viviamo; la patria esiste solo nella libertà e nel buongoverno:

dove non ci sono leggi rivolte all'interesse di tutti, dove non c'è governo paterno attento al bene comune [ ... ] là c'è senza dubbio un paese, delle genti, un raggruppament9 di uomini, ma non c'è una Patria25.

Il vero amore della patria è diverso dalla lealtà al moonarca e dal valore eroico. Il patriottismo, si legge in un altro articolo, è grandezza dell'animo, è un'energia morale che spinge ad impegnarsi per grandi ideali:

Volete essere considerati dei buoni patrioti? Sappiate essere grandi! Non coltivate nei vostri cuori altra ambizione, altra inclinazione se non quella di servire la vostra Patria! La gioia di fondare una Patria non è forse la ricompensa più grande sulla quale possa contare un cuore generoso?

Patria, spiega l'autore in toni rousseauiani, significa libertà e cittadinanza:

Farebbe un grosso errore chi credesse di avere una patria per il solo fatto di vivere nel luogo natìo fra le cose cui ha rivolto i suoi primi sguardi, e i suoi primi balbettii [ ... ]. Non c'è patria, nell'accezione del diritto pubblico, dove non ci sono cittadini, e i cittadini esistono solo dove c'è la libertà civile. Non può esserci libertà civile senza costituzione politica, o dove i cittadini non partecipano alla formazione delle leggi e non sono uguali di fronte ad esse. La patria non è il villaggio o la provincia che ci ha visti nascere; è quella società, quella nazione dove al riparo di leggi giuste, moderate e approvate dai cittadini, abbiamo goduto dei piaceri della vita, dei frutti del nostro lavoro, dei risultati della nostra operosità e del possesso inviolabile dei nostri diritti imprescrittibili.

La patria dei repubblicani è ben diversa dalla patria dei monarchi di Spagna, che infatti non parlano di 'patria', ma della «nostra corona», del «nostro stato», dei «nostri vassalli». La parola 'patria' è tornata ad essere di uso corrente quando il popolo spagnolo, di fronte alla calamità dell'invasione napoleonica, trovò la forza di resistere e di impegnarsi per un nobile ideale di libertà.

In altre contrade d'Europa, tuttavia, il linguaggio del patriottismo ricavato dalla tradizione repubblicana e dalla Rivoluzione Francese si rivelò inadeguato a sostenere la lotta dei popoli per la libertà. L'ideale puramente politico della patria apparve troppo astratto; gli appelli alla ribellione per amore della libertà lasciò molti freddi o tiepidi. Bisognava definire un' altra idea di patria e dare all' amore della patria un diverso significato. Il testo che meglio di ogni altro illustra la percezione dei limiti del linguaggio repubblicano del patriottismo è il Saggio storico sulla rivoluzione napoletana del 1799 di Vincenzo Cuoco. Cuoco ammirava sinceramente la devozione dei patrioti alla causa della libertà, ma criticò senza esitazioni la loro scarsa saggezza politica dovuta alla poca conoscenza e alla poca comprensione dei costumi, della storia e delle tradizioni del popolo napoletano. Le parole 'repubblica' e 'patria' suonavano nelle loro bocche lontane e strane.

Tra i nostri patrioti (ci si permetta un'espressione che conviene a tutte le rivoluzioni e che non offende i buoni) moltissimi aveano la repubblica sulle labbra, moltissimi l'aveano nella testa, pochissimi nel cuore. Per molti la rivoluzione era un affare di moda, ed erano repubblicani sol perché lo erano i francesi; altri lo erano per vaghezza di spirito; altri per irreligione, quasi che per esentarsi dalla superstizione vi bisognasse un brevetto di governo; taluno confondeva la libertà con la licenza, e credeva acquistare colla rivoluzione il diritto d'insultare impunemente i pubblici costumi; per molti finalmente la rivoluzione era un affare di calcolo.

I patrioti parlavano di libertà, ma il popolo non capiva cosa volevano dire. Non riuscivano a farsi capire perché erano culturalmente distanti dal popolo napoletano. Le idee troppo astratte della libertà indeboliscono la causa della libertà. La libertà, sottolinea Cuoco,

è un bene, perché produce molti altri beni, quali sono la sicurezza, l'agiata sussistenza, la popolazione, la moderazione dei tributi, l'accrescimento dell'industria e tanti altri beni sensibili; ed il popolo, perché ama tali beni, viene poi ad amare la libertà. Un uomo, il quale, senza procurare ad un popolo tali vantaggi, venisse a comandargli di amare la libertà, rassomiglierebbe, l'Alcibiade di Marmontel, il quale voleva essere amato «per se stesso.

I napoletani volevano tasse più eque, la fine delle lotte fra i nobili e la re distribuzione delle terre appartenenti agli ordini ecclesiastici e alla corona. Nel corso della rivoluzione, tutte le volte che ebbero la possibilità di governarsi da soli senza l'intrusione dei patrioti o dei francesi, i napoletani approvarono leggi che miravano a conseguire questi obbiettivi; e dove avevano conquistato la libertà da soli, la difesero con grande eroismo.

La retorica e la politica dei patrioti erano ispirate da ideali che erano cari solo ad una minoranza. Proclamarono la libertà, ma il popolo napoletano non sapeva che cosa fosse. La libertà, sottolinea Cuoco, non è un'idea bensì un sentimento; deve essere vissuta, non dimostrata con ragionamenti. Nell'analisi di Cuoco, la libertà esige l'unità culturale. Una delle cause principali della debolezza della rivoluzione napoletana era la distanza che separava la cultura dei patrioti da quella del popolo. I patrioti, osserva Cuoco, avevano idee, costumi e,un linguaggio diversi da quelli del popolo napoletano. Culturalmente, essi erano francesi o inglesi, mentre il popolo che essi chiamavano alla lotta era napoletano. L'ammirazione dei patrioti per le culture straniere fu uno degli ostacoli maggiori per la conquista della libertà perché il popolo non capiva, anzi disprezzava la cultura dei patrioti; essa ostacolò l'educazione civile e politica del popolo.
Il Saggio di Cuoco è una critica del patriottismo politico repubblicano in nome della nazione. Per essere politicamente efficace, l'attaccamento dei patrioti alla libertà avrebbe dovuto essere integrato e sostenuto dall'attaccamento alla cultura nazionale. Essere repubblicani non bastava; bisognava essere repubblicani napoletani: non si può «giovare alla patria» se non la si ama «e non si può mai amare la patria se non si stima la nazione»32. 'Patria' e 'nazione' stanno per, rispettivamente, costituzione repubblicana e cultura, tradizioni, modo di vita, costumi del popolo. I patrioti amavano la patria, ma disprezzavano la nazione, o erano lontani da essa33. La loro distanza culturale rese il loro amore della libertà incompleto e la loro azione politicamente inefficace.
La patria è oggetto d'amore; la nazione oggetto di stima e di orgoglio. Ma stimare la propria nazione, esserne orgogliosi, è per Cuoco la condizione necessaria per amare veramente la patria. L'amore della patria deve essere politico e culturale; l'attaccamento alla libertà non può essere un attaccamento ad una libertà impersonale o culturalmente neutra, ma un amore della libertà comune di un popolo particolare. Non è solo una questione di efficacia pratica dell'azione politica; non si tratta solo del fatto che un'azione politica motivata dall'amore della patria che non sia sostenuta anche dalla stima per la nazione non può avere successo. È in gioco il contenuto e il significato
della libertà da costruire. Il patriota che ama solo la repubblica lotta per una libertà astratta; il patriota che ama la repubblica e stima la nazione cerca la libertà che il popolo ama e vuole perché congeniale alla sua cultura.
L'amore della patria è una passione per un bene comune o condiviso: si ama la repubblica che è tanto nostra quanto degli altri cittadini, e se la repubblica rifiuta il nostro amore essa diventa odiosa o indifferente. La stima, il rispetto e l'orgoglio sono invece sentimenti basati sulla comparazione; stimiamo e rispettiamo qualcuno o qualcosa che riteniamo abbiano un valore pari o superiore al valore che attribuiamo a noi stessi o ad altri termini di paragone. Cuoco rimprovera i patrioti perché consideravano la cultura del popolo napoletano una cultura che aveva meno valore della cultura del popolo francese o del popolo inglese. E voleva che i napoletani, e gli italiani, imparassero dalla dura lezione della sconfitta che la lotta per la libertà e per la repubblica non può essere guidata da patrioti che non stimano la cultura del popolo che essi vogliono emancipare dalla tirannide.
Oltre a Cuoco, anche altri patrioti napoletani che ebbero un ruolo di primo piano nella rivoluzione sottolineavano la necessità di tenere unite politica e cultura, patria e nazione. «Realizzandosi questa idea - scriveva Francesco Lomonaco - gl'italiani, avendo nazione, acquisteranno spirito di nazionalità; avendo governo, diverranno politici e guerrieri; avendo patria, godranno della libertà e di tutt'i beni che ne derivano».

Il primo passo è dunque il rafforzamento dello spirito nazionale, ma non è certo che una volta fatto il primo passo si possano fare anche gli altri passi necessari per instillare l'amore della repubblica. L'impegno politico del patriota deve fondarsi sulla comprensione della cultura del popolo, ma l'attaccamento alla cultura della nazione non porta necessariamente all'amore della libertà politica. Il passaggio dall'uno all'altro deve essere tentato con l'azione politica e la retorica, e non ci sono ricette valide per tutti i luoghi e i tempi.
Ma in quegli stessi anni, una revisione ben più radicale del patriottismo repubblicano venne dalla, Germania. Mentre Cuoco aveva criticato l'attaccamento esclusivo dei patrioti ai valori politici della repubblica e la loro scarsa considerazione per la nazione, gli intellettuali tedeschi rivendicarono la priorità dell'unità spirituale e culturale della nazione al di sopra dei valori politici della repubblica  una reazione intellettuale e ideologica contro il linguaggio dell'Illuminismo e contro il cosmopolitismo che dominava la cultura intellettuale tedesca del XVIII secolo. Come è stato ampiamente documentato, gli intellettuali tedeschi dell'età dell’ Illuminismo erano o cosmopoliti o patrioti 'locali'. Il linguaggio del patriottismo repubblicano non divenne mai una tradizione intellettuale importante. Christoph Martin Wieland, per citare un esempio, si dichiarava con orgoglio nei Kosmopolitische Addresse un «insignificante cosmopolita isolato» (Weltburger) 36. In una lettera dell758, Lessing esprimeva in modi enfatici la sua freddezza verso il patriottismo: «Forse il patriota che è in me non è stato ancora interamente formato; anche l'onore di essere uno zelante patriota è per me un modo di pensare che non mi attira affatto, soprattutto se si tratta di un patriottismo che mi insegna a dimenticare che devo essere cittadino del mondo»37. E in una lettera dello stesso anno parla dell'amore della patria come di «un' eroica debolezza di cui faccio volentieri a meno». Goethe, pochi anni dopo, parla della patria in termini molto simili a quelli usati da Voltaire nel Dictionnaire philosophique: la patria non è né la repubblica né il luogo in cui siamo nati, ma qualsiasi luogo in cui possiamo vivere sicuri con le nostre proprietà, trovare un campo, e una casa che ci ripari dalle intemperie.
I pochi che si dichiaravano patrioti intendevano per patriottismo la lealtà al Sacro Romano Impero al di sopra delle lealtà locali. Il patriota, scriveva Karl Moser, uno dei più accalorati patrioti del tempo, è il «buon tedesco saggio e obbediente alle leggi»; e invocava la rinascita del «grande interesse comune della libertà» e la devozione alla patria contro i meschini despoti locali responsabili per le penose condizioni della Germania. Quando parla di libertà Maser intende la libertà dell'Impero come corpo politico, e per bene comune intende il bene comune come sudditi dell'Impero. Il suo patriottismo è immune da ogni infatuazione per la libertà delle antiche repubbliche o per le istituzioni liberali inglesi. Un patriota tedesco, scrive, non deve mai dimenticare di essere un tedesco, e «non un greco, o un romano o un inglese». La Grecia, Roma e l'Inghilterra erano i simboli della libertà antica e della libertà moderna; dire che un patriota tedesco deve rammentare di essere prima di tutto tedesco voleva dire che l'identità culturale e etnica tedesca viene prima della libertà.
La separazione fra amore della patria e amore della libertà emerge anche in Justus Maser, che intende per patriottismo la difesa del carattere nazionale tedesco contro il «dispotismo francese», ovvero l'egemonia culturale francese. Invoca la libertà, ma la sua libertà non ha niente in comune con la libertà dei repubblicani; il suo modello non è la repubblica antica, ma la società feudale basata sulla servitù della gleba, che descrive come una lodevole istituzione. Critica il «dispotismo francese» per la pretesa di imporre la codificazione e regolamenti generali contro i costumi e i privilegi locali, ma soprattutto per gli ideali di libertà civile e politica, che considera una vera e propria degenerazione del buon vecchio Standestaat. La libertà di cui parlavano repubblicani e liberali era per lui la vuota libertà dell'individuo separata dal1'appartenenza ad una particolare classe sociale o ad una particolare corporazione, ovvero una libertà senza senso dell'onore e della responsabilità41. La libertà che il patriota tedesco deve cercare è la libertà di assolvere lealmente i doveri imposti dalla condizione sociale e professionale; è una libertà arricchita dal senso dell'onore assente nelle dottrine dei liberali e dei repubblicani. Patriottismo significa per lui attaccamento alla libertà tedesca, ovvero una libertà fondata sul diritto germanico anziché il diritto romano, la libertà dello stato di ceti medievale contro la libertà fondata sull' eguaglianza civile e politica. Non è né la libertà dell'uomo, né la libertà del cittadino, ma la libertà in quanto membro di un ceto, soprattutto la libertà del proprietario terriero e del piccolo contadino. Giustifica la servitù della gleba con l'argomento che la società politica non è una repubblica, bensì un'associazione simile ad una compagnia mercantile di cui ogni membro possiede un'azione. Il fatto che il servo non sia tanto un uomo che non possiede azioni quanto un'azione egli stesso, e quindi non una persona, non rappresenta per Maser un problema perché 'patria' non significa per lui una comunità di inndividui con uguali diritti civili e politici, ma un organismo composto di diversi corpi ordinati gerarchicamente.
Il linguaggio del patriottismo nella Germania di fine Settecento era profondamente antipolitico. La politica era assimilata alla arithmétique politique francese, un freddo calcolo razionale insensibile alla realtà storica e alla concreta vita spirituale dei popoli, o ai mediocri e sporchi e servili traffici fiorenti nella soffocante e malsana atmosfera delle corti locali e della burocrazia imperiale. Lo stato, scriveva Johann George Hamann, è un mostro della ragione al quale la coscienza e la necessità e la prudenza ci impongono di obbedire, ma che non può pretendere di essere amato. Quale che sia la forma di governo, lo stato resta una creazione artificiale irrimediabilmente separata dalla natura, e dalla vita spirituale che si esprime nel linguaggio. Non è dunque verso lo stato che gli uomini devono volgere la loro attenzione e i loro affetti, ma verso la nazione intesa come centro di vita spirituale, se vogliono ritrovare un collegamento vitale con il mistero divino della vita.
L'esempio più eloquente del carattere antipolitico e non repubblicano del patriottismo tedesco, è tuttavia Johann Gottfried Herder. Come scrive in uno dei suoi primi lavori, Haben wir noch jetzt das Publikum und Vaterland der Alten ?, patria significa ancora libertà, ma non la libertà deegli antichi, ovvero l'audacia senza limiti, il coraggio di reggere il timone dello stato, e la volontà di non essere superati da nessuno in gloria e reputazione42. Il patriottismo moderno non richiede la forza spirituale che gli antichi ritenevano necessaria per sconfiggere i nemici della libertà; è piuttosto un più modesto senso del dovere e un attaccamento ad una «ordinaria libertà» che consiste essenzialmente nella libertà di coscienza, nella libertà di essere un uomo onesto e un buon cristiano, nella libertà di godere in pace i frutti del proprio lavoro, di cercare la propria felicità, di coltivare le amicizie e di essere padre e tutore dei propri figli.
Per il giovane Herder il patriottismo dà la forza di fare grandi cose per il bene comune; è una passione per granndi uomini, per monarchi e imperatori, come Pietro il Grande di Russia, un «vero patriota» che seppe essere padre della vecchia Russia e creatore della nuova44. Fu il suo patriottismo, commenta Herder, che gli diede l'ispirazione e la forza di emancipare i suoi sudditi dalla servitù anche contro la loro volontà, e la determinazione di resistere contro l'avversa fortuna. Senza cittadini, la patria può contare su un padre forte e generoso e sull'ordinario patriottismo dei sudditi per difendere la «modesta libertà» che sta a cuore ai moderni.
Per Herder, il patriottismo non è una virtù politica, come per i repubblicani, ma un antidoto contro la politica, che identifica, come il suo mentore Hamann, con il dispotismo, l'egoismo, la cieca obbedienza e la guerra. L'essenza della politica emerge dai lavori di Helvétius, che sostiene che gli uomini sono mossi solo da impulsi egoistici, di Mandeville, che traforma gli uomini in api, di Hobbes che vede nell'animo di ogni uomo solo la propensione alla guerra, e di Machiavelli, che ha creato il mostro del despota che succhia il sangue dei sudditi. Simili mostri politici, sottolinea Herder, hanno privato l'umanità del «gentile sentimento del patriottismo» (<<die sanfte Empfindung des Patriotismus») inducendo ogni uomo a considerare se stesso come il centro dell'universo anziché parte della totalità spirituale della nazione45. Il patriottismo è per lui un sentimento di unità spirituale che sostiene l'attaccamento al bene comune. Un monarca o un imperatore senza patriottismo non può essere altro che un despota machiavellico; un magistrato non patriota non sarebbe capace di sacrificare l'interesse privato al bene comune; sudditi non patrioti non assolverebbero i loro doveri sociali.

Anche se i moderni non hanno un patriottismo tanto intenso quanto quello degli antichi, un monarca patriottico può ottenere da loro la stessa disponibilità al sacrificio che le repubbliche, stando a quanto narrano le storie, erano in grado di stimolare nei cuori dei cittadini. Le parole «patria, monarca, imperatrice», scrive Herder, rafforzano i cuori e proteggono i petti di chiunque non sia abbietto e senza vita46. Morire per la patria è dolce e onesto, scrive ripetendo il distico di Catone; ma osserva subito dopo che non importa se la patria è una repubblica dove governano la legge e i molti, o una monarchia dove governano la legge e uno solo, se chi regge agisce come padre o madre di un popolo felice.
Nella sua analisi del patriottismo, Herder segue per un buon tratto le orme di Thomas Abbt, che aveva pubblicato nel 1761 un fortunato pamphlet dal titolo La morte per la patria per confutare la tesi, resa celebre da Montesquieu, che l'amore della patria può fiorire solo nelle repubbliche. Abbt concede ai repubblicani che la voce della patria non può essere ascoltata se non c'è la libertà, ma ribatte che un buon monarca garantisce a tutti la libertà civile sotto l'impero delle leggi. I repubblicani hanno ragione a sostenere che la patria non è tanto il luogo dove siamo nati, ma uno stato fondato su leggi che non restringono soltanto la libertà, ma servono anche il bene dello stato nel suo insieme. Da questo punto di vista non c'è alcuna differenza fra il suddito di una monarchia e il cittadino della più libera repubblica; essi sono entrambi sottomessi alle leggi: nessuno è libero, ma ognuno è libero secondo lo spirito della costituzione dello stato. In una buona monarchia, tutti sono cittadini «<Birger»), indipendentemente dalle differenze di rango, e il loro bene è tutt'uno con il bene della patria49. Una monarchia, conclude Abbt, può dunque essere una patria che possiamo amare, e se possiamo amarla, allora dobbiamo amarla (<<wir es lieben miissen» )50.
Diversamente da Abbt, Herder dà al concetto di patria un significato prevalentemente culturale. Per lui la questione essenziale non è se la forma di governo è repubblicana o monarchica, bensì l'unità spirituale del popolo. Per i greci, scrive in Ancora una filosofia della storia, la parola 'patria' voleva dire 'repubblica', ovvero obbedienza unita alla libertà. E aggiunge, ed è un'aggiunta significativa, che anche se i greci erano politicamente divisi in diverse repubbliche o colonie, essi conservarono però uno spirito comune e il sentimento di appartenenza ad una medesima nazione, ad un'unica patria. Avevano una patria comune che li univa al di là delle divisioni politiche. Quando Herrder scrive che i moderni, al contrario, «non hanno più una patria», non vuole sottolineare che sono politicamente non-liberi, ma che hanno perso il loro carattere nazionale per diventare «filantropi e cosmopoliti» (<<Menschennfreunde und Weltbirger» )51. La patria può essere una repubblica, ma non è necessario che lo sia; l'essenziale è che ci sia un'unità spirituale fondata sulla lingua.
In alcuni passi Herder esorta all'amore della patria e del bene comune con parole molto simili a quelle usate dagli scrittori repubblicani, e sottolinea che gli uomini hanno verso la patria un grande debito perché devono ad essa la vita, l'educazione, i genitori e gli amici e i ricordi più belli dell'infanzia e della giovinezza.
Nella sua interpretazione, la parola 'patria' evoca il senso di appartenenza ad una più larga unità che spinge ognuno a fare la propria parte, non importa se piccola o grande, per il bene comune. E il senso di appartenenza che sostiene l'attaccamento al bene comune è di natura culturale e spirituale, non politica.
Intesa come unità spirituale e culturale, la patria diventa sinonimo di nazione; ed è significativo il fatto che in alcuni luoghi usi i due concetti come sinonimi. «Da noi invece, grazie a Dio, si è estinto ogni carattere nazionale, un vincolo d'amore ci stringe tutti, o piuttosto nessuno sente più il bisogno di amare il prossimo, pratichiamo con tutti, siamo del tutto uguali gli uni agli altri: costumati, cortesi, felici». E poche righe più oltre ribadisce il medesimo pensiero sostituendo «carattere nazionale» con «patria»: «In verità, non abbiamo più né patria né nulla di nostro per cui vivere, ma siamo filantropi e cosmopoliti». In Herder, la patria è assorbita dalla nazione intesa come la cultura particolare e l'insieme della vita spirituale di un popolo. La nazione è la madre di ogni cultura, e ogni cultura è «l'espressione dell'anima nazionale»55. Una persona senza spirito patriottico, scrive Herder, «ha perso se stesso e tutto il proprio mondo», ovvero il suo mondo spirituale e culturale56.

Nazione significa unità. L'unità culturale della nazione fondata sulla storia, sul linguaggio, sulla letteratura, sulla religione, sull'arte e sulla scienza forma il popolo come un'unità individuale che possiede un proprio spirito e proprie facoltà e forze57. Ogni nazione ha una propria e «inesprimibile» (<<unaussprechliche») individualità; ogni nazione è, a suo modo, una58, è «un popolo: ha la sua formazione nazionale, come il suo linguaggio». È un piccolo mondo che contiene in se stesso il centro della felicità. Anche se cambia nei secoli, la nazione conserva una propria identità spirituale, al punto che la storia dell'umanità può essere narrata come la storia della crescita e del declino di nazioni che interagiscono le une con le altre. Nessuna nazione ha la stessa storia di un'altra, e ogni nazione ha un proprio destino a seconda dei doni che Dio ha voluto dare ad essa. Non solo Dio non vuole l'amalgama delle diverse nazioni, ma vuole che ogni nazione vada per la propria strada senza adottare idee e forme di vita che non sono sue e danneggerebbero la sua unità e autenticità spirituale.
Herder rifiuta i paragoni fra le nazioni e le epoche storiche, ma non fa mistero di apprezzare la coesione sociale e spirituale più della libertà civile e politica. Esalta infatti «I forti corposi vincoli delle antiche repubbliche» contro i «vincoli più raffinati propri del secolo nostro»61 e risponde al sarcasmo dei philosophes verso il medioevo deridendo le loro celebrazioni della libertà dei moderni ed elogiando la coesione spirituale del medioevo.
Non vedi forse tu che schernendo l'antica servitù della gleba, i rozzi manieri della nobiltà, i molteplici isolotti e le suddivisioni e tutto quello che ne derivava, altro non fai se non lodare il dissolversi di tali vincoli, e credi vedere in tutto ciò il maggior bene dell'umana specie, la liberazione d'Europa e con essa del mondo tutto? Ma fu davvero liberazione? O ingenui sognatori, come se si fosse trattato solo di questo, e se questa soltanto fosse la verità! Ma osservate invece come proprio in grazia di una simile situazione si venissero concretando allora cose che anche tutto il senno umano sarebbe stato troppo debole per compiere. L'Europa fu allora ripopolata e coltivata, schiatte e famiglie, signori e servi, re e sudditi furon sempre più ravvicinati, vincolati con legami sempre più solidi.
Per Herder, nazionalismo non significa impegno per la libertà politica e civile, ma difesa dell'equilibrio e del radicamento spirituale in una particolare cultura nazionale. Forgia il termine «nazionalismo» «<Nationalismus») per designare l'attaccamento - da difendere e proteggere contro il cosmopolitismo e l'assimilazione culturale - alla propria cultura nazionale.

E quando la distanza tra popolo e popolo si fece sempre più grande con la trasformazione delle varie tendenze nazionali in una particolare felicità nazionale, osserva allora quale odio nascesse nell'animo dell'Egizio contro il pastore, il nomade, e quale disprezzo egli mostrasse nello stesso tempo verso il frivolo Greco! E così è sempre quando si trovan di fronte due nazioni, le cui tendenze, i cui mondi di felicità si negano a vicenda. Si comincia allora a parlare di pregiudizi, di volgarità plebea, di gretto nazionalismo, ma il pregiudizio è cosa buona, a suo tempo, poiché li rende felici, stringe compatti i popoli intorno alloro proprio centro, li rende più solidi sul loro stesso ceppo, più fiorenti a seconda della loro propria natura, più ardenti nelle loro inclinazioni, più attivi nelle loro mire e per ciò stesso più felici.

Il distacco dal proprio mondo è per Herder un impoverimento, non importa se il proprio mondo è una piccola città dove l'onore, la stima, i desideri, le paure, le avversioni, l'amore, l'amicizia, i piaceri, la cultura e i doveri professionali sono «meschini e poveri» e dove la vita spirituale è contratta e immiserita. Distaccarsi da esso è pur sempre un' esperienza di penoso sradicamento, come Herder scrive nel suo diario di viaggio dove descrive la partenza da Riga nel 176964.
Herder usa il linguaggio del nazionalismo contro la contaminazione e l'impurità culturale, mai contro l'oppressione politica. Invitato da Carl Friedrich di Baden a tracciare il progetto di un Istituto Patriottico, Herder insiste sulla necessità di unire le forze spirituali della Germania in modo che esse diventino «un'unica fiamma» e sottolinea che «chiunque viva in Germania deve appartenere alla Germania e parlare, e scrivere in puro tedesco» perché la purezza del linguaggio è la base dell'unità spirituale della nazione.
Il popolo tedesco può vantarsi di aver conservato la propria lingua incontaminata e di non essere mai stato conquistato da altri popoli. Nelle sue peregrinazioni ha portato con sé la propria lingua. La sua lingua deve dunque essere conservata fin quando esiste una nazione tedesca, e deve essere purificata e rafforzata per rafforzare la coesione della nazione.

Per i repubblicani la patria è un'istituzione politica; per Herder la nazione è una creazione naturale. Considera le nazioni non tanto come prodotti dell'attività umana, ma come i prodotti di una forza vitale organica che anima l'universo. Le repubbliche nacquero, secondo le storie, dalla virtù' straordinaria dei fondatori; le nazioni nacquero da Dio. La forza vivente che modella le diverse unità nazionali dal caos della materia omogenea riflette infatti il piano e la volontà di Dio. Quando dice che la natura ha creato le nazioni, ma non gli stati, Herder vuol dire che le prime hanno un rango superiore ai secondi. Per i repubblicani la peggiore sventura era la dissoluzione della repubblica; per Herder è la perdita della nazione. Se private un uomo della sua nazione, scrive, «lo private di tutto».
Nazione significa vita. La natura, spiega Herder, ha dato ad ogni nazione un particolare linguaggio nazionale che è vincolo spirituale, fondamento dell'educazione, strumento di tutti i piaceri e delle attività e dei passatempi sociali67. Il linguaggio nazionale è lo specchio della storia, delle imprese, delle gioie e delle pene di una nazione, ed è il mezzo che serve a trasmettere idee, abiti, e costumi da una generazione all'altra. Attraverso la lingua madre i membri di una nazione interagiscono fra di loro in modo più o meno intenso e condividono un comune carattere spirituale. Senza una lingua comune che sia la base dell'educazione di tutte le classi sociali, scrive Herder, non può esserci comprensione reciproca, non può esserci un comune sentimento patriottico, né reciproca comprensione.
Alla nazione va e deve andare l'amore degli uomini; un amore tanto forte quanto l'attaccamento di una pianta al designare l'attaccamento - da difendere e proteggere contro il cosmopolitismo e l'assimilazione culturale - alla propria cultura nazionale.
E quando la distanza tra popolo e popolo si fece sempre più grande con la trasformazione delle varie tendenze nazionali in . una particolare felicità nazionale, osserva allora quale odio nascesse nell'animo dell'Egizio contro il pastore, il nomade, e quale disprezzo egli mostrasse nello stesso tempo verso il frivolo Greco! E così è sempre quando si trovan di fronte due nazioni, le cui tendenze, i cui mondi di felicità si negano a vicenda. Si comincia allora a parlare di pregiudizi, di volgarità plebea, di gretto nazionalismo, ma il pregiudizio è cosa buona, a suo tempo, poiché li rende felici, stringe compatti i popoli intorno alloro proprio centro, li rende più solidi sul loro stesso ceppo, più fiorenti a seconda della loro propria natura, più ardenti nelle loro inclinazioni, più attivi nelle loro mire e per ciò stesso più felici.
Il distacco dal proprio mondo è per Herder un impoverimento, non importa se il proprio mondo è una piccola città dove l'onore, la stima, i desideri, le paure, le avversioni, l'amore, l'amicizia, i piaceri, la cultura e i doveri professionali sono «meschini e poveri» e dove la vita spirituale è contratta e immiserita. Distaccarsi da esso è pur sempre un' esperienza di penoso sradicamento, come Herder scrive nel suo diario di viaggio dove descrive la partenza da Riga ne1176964.
Herder usa il linguaggio del nazionalismo contro la contaminazione e l'impurità culturale, mai contro l'oppressione politica. Invitato da Carl Friedrich di Baden a tracciare il progetto di un Istituto Patriottico, Herder insiste sulla necessità di unire le forze spirituali della Germania in modo che esse diventino «un'unica fiamma» e sottolinea che «chiunque viva in Germania deve appartenere alla Germania e parlare, e scrivere in puro tedesco» perché la purezza del linguaggio è la base dell'unità spirituale della nazione.

Il popolo tedesco può vantarsi di aver conservato la propria lingua incontaminata e di non essere mai stato conquistato da altri popoli. Nelle sue peregrinazioni ha portato con sé la proopria lingua. La sua lingua deve dunque essere conservata fin quando esiste una nazione tedesca, e deve essere purificata e rafforzata per rafforzare la coesione della nazione.

Per i repubblicani la patria è un'istituzione politica; per Herder la nazione è una creazione naturale. Considera le nazioni non tanto come prodotti dell'attività umana, ma come i prodotti di una forza vitale organica che anima l'universo. Le repubbliche nacquero, secondo le storie, dalla virtù straordinaria dei fondatori; le nazioni nacquero da Dio. La forza vivente che modella le diverse unità nazionali dal caos della materia omogenea riflette infatti il piano e la volontà di Dio. Quando dice che la natura ha creato le nazioni, ma non gli stati, Herder vuol dire che le prime hanno un rango superiore ai secondi. Per i repubblicani la peggiore sventura era la dissoluzione della repubblica; per Herder è la perdita della nazione. Se private un uomo della sua nazione, scrive, «lo private di tutto.
Nazione significa vita. La natura, spiega Herder, ha dato ad ogni nazione un particolare linguaggio nazionale che è vincolo spirituale, fondamento dell' educazione, strumento di tutti i piaceri e delle attività e dei passatempi sociali67. Il linguaggio nazionale è lo specchio della storia, delle imprese, delle gioie e delle pene di una nazione, ed è il mezzo che serve a trasmettere idee, abiti, e costumi da una generazione all'altra. Attraverso la lingua madre i membri di una nazione interagiscono fra di loro in modo più o meno intenso e condividono un comune carattere spirituale. Senza una lingua comune che sia la base dell'educazione di tutte le classi sociali, scrive Herder, non può esserci comprensione reciproca, non può esserci un comune sentimento patriottico, né reciproca comprensione.
Alla nazione va e deve andare l'amore degli uomini; un amore tanto forte quanto l'attaccamento di una pianta al suolo da cui trae le sue energie vitali. Agli stati senza vita e alla politica meccanica va e deve andare solo l'obbedienza passiva e la disciplina degli eserciti.

Guardate un esercito, il più bel modello dell'umana società!
Quanto sono variopinti e leggeri i loro vestiti, e sono anche nutriti leggermente, armonico è il loro pensiero, le loro membra sono libere e soddisfatte. E che nobiltà nei loro movimenti! Che brillanti, eccellenti strumenti nelle loro mani! La somma di ogni virtù che essi vanno apprendendo manipolandole ogni giorno, è l'immagine stessa di tutto quanto v'è di più alto e sublime nello spirito umano, nell'arte politica, nel governo del mondo, è la passività stessa.

L'amore della cultura nazionale è un attaccamento a un bene che è distintamente nostro. Ogni uomo, osserva Herder, ama la sua patria, i suoi costumi, sua moglie, i suoi figli, non perché siano i migliori del mondo, ma perché sono totalmente i SUOi. È un amore simile all'amore della libertà comune sostenuto dai patrioti repubblicani nel senso che è amore di un bene particolare, di un bene che ha un significato particolare; la libertà comune di un popolo è infatti vivificata da storie che solo chi appartiene a quel popolo intende e apprezza, resa concreta da un modo di vita che è proprio di quel popolo. Ma l'amore della nazione è più opaco e più difficile da condividere al di là dei confini e delle barriere culturali. La libertà comune degli antichi romani o quella delle libere città imperiali in Germania erano certo due libertà specificamente romane e tedesche; eppure Machiavelli, per fare un esempio, riteneva, a torto o a ragione, di essere in grado di capire che cosa significava per i romani e per i tedeschi vivere liberi e perché essi amavano tanto la loro libertà; e riteneva del pari che quell'amore della libertà potesse e dovesse essere incoraggiato e imitato in diversi contesti storici e culturali. La cultura nazionale è invece, come scrive Herder, «in esprimi bile» e opaca agli sguardi forestieri. Basata sul linguaggio, essa può essere capita, o piuttosto sentita e vissuta solo da chi parla la lingua madre che permette ai membri della nazione di esprimere sentimenti e pensieri che non potrebbero mai esprimere o esprimere con altrettanta eleganza in un'altra lingua. Solo per mezzo della lingua madre è possibile conservare il contatto con la cultura della nazione.

La natura vuole che gli uomini amino la loro cultura. A tal fine ha posto nei loro cuori l'inclinazione ad apprezzare la diversità, ma ha anche preso cura di collocare tutto ciò che è necessario a soddisfare la nostra curiosità all'interno della nostra cultura nazionale e ci ha resi insensibili verso ciò che esiste oltre l'orizzonte della nostra cultura nazionale. Possiamo facilmente assimilare o adottare ciò che è simile alla nostra natura e al tempo stesso rimanere freddi e ciechi e perfino sprezzanti e ostili verso ciò che è lontano e distante da noi72• Per vivere in conformità al disegno della natura, dobbiamo dunque proteggere la purezza e l'autenticità della nostra cultura nazionale, e resistere sia all'arrogante tendenza a conquistare e dominare, sia al vano desiderio di imitare altre culture. La condanna di Herdernei confronti della conquista e dell'espansione è netta, e non è un temperamento del suo nazionalismo, ma la logica conseguenza.
Lo Stato più naturale è anche un popolo dotato di un carattere nazionale. Questo carattere vi si mantiene per secoli e può essere educato nel modo più naturale, se lo vogliono i suoi prìncipi, nati in quel popolo; perché un popolo è una pianta della natura proprio come una famiglia, soltanto che ha più rami. Nulla sembra quindi più contrastare lo scopo dei governi quanto l'ingrandimento innaturale degli Stati, la selvaggia mescolanza di stirpi e nazioni umane sotto un solo scettro.
Gli scrittori politici repubblicani avevano presentato l'amore della patria come un amore razionale che la ragione incoraggia a coltivare e cerca di mantenere entro giusti confini. La ragione prescrive di amare la repubblica perché solo in una repubblica possiamo vivere liberi, e la libertà è il bene più prezioso dell'uomo. Per amare la libertà, dobbiamo imparare a pensare secondo la ragione pubblica e imporre la regola della ragione sull'inclinazione naturale a porre al primo posto l'amore di noi stessi e dei nostri familiari a scapito dell'attaccamento al bene comune. Per diventare patrioti nel senso repubblicano, bisogna dunque sottoporsi ad una educazione civica e morale guidata dalla ragione. Non si diventa cittadini seguendo semplicemente i nostri impulsi naturali. Per Herder l'amore della nazione e della cultura nazionale è un'inclinazione naturale che la ragione tende a corrompere. Per mantenerlo vivo è necessario un continuo lavoro di purificazione culturale e una costante vigilanza contro l'intrusione di elementi culturali estranei. Per rimanere legati alla propria cultura nazionale, gli individui devono imparare ad ascoltare la voce della natura nei loro cuori e seguirne gli insegnamenti. Il progresso dell'umanità - con la sua grandezza e la sua miseria, i suoi splendori e i suoi orrori - non è il prodotto della ragione, ma dei sentimenti e delle passioni. La luce della ragione porta all'uniformità e alla morte spirituale, mentre il calore dei sentimenti che la natura e il costume stimolano negli uomini ci riconnette alla vita. Proprio perché separato dalla ragione, l'amore della nazione che Herder raccomanda è un amore diverso dall'amore repubblicano della libertà comune. Non vede che l'amore della libertà comune predicato dagli scrittori politici repubblicani comprende l'attaccamento alla cultura nazionale, e che l'attaccamento alla cultura legato all'amore della libertà comune acquista dignità e nobiltà, mentre separato da esso decade in un attaccamento meschino e esclusivo. Herder esorta a guardare alla bellezza dell'unità spirituale della nazione, ma non insegna a guardarla dalla giusta prospettiva; esorta ad amare la nostra cultura, ma non insegna ad amarla nella maniera migliore.
La tendenza a separare il patriottismo dall'amore della libertà emerge anche nelle Vorlesungen i1ber schone Litteraatur und Kunst di August Schlegel del 1803-4, uno dei testi esemplari del nazionalismo romantico. Il vero patriottismo doveva essere per lui un «patriottismo europeo» che fonda insieme patriottismo e cosmopolitismo. Il compito di far rinascere il nuovo patriottismo spetta al popolo tedesco. Come nel medioevo, quando ricreò l'unità politica e spirituale dell'Europa nel Sacro Romano Impero, il popolo tedesco deve ricostruire una rinnovata unità europea basata su comuni legami storici e culturali e soprattutto sull'unità religiosa garantita dal cristianesimo. Schlegel, diversamente da Herder, non sostiene il diritto di ogni nazione a vivere secondo la propria storia e la propria cultura, ma vagheggia un'unità spirituale e religiosa dell'Europa. Il patriottismo è per lui l'opposto dell'umanitarismo, che giudica come una forma di infermità spirituale e per contrasto esalta le guerre religiose come un episodio dal profondo valore morale, anzi, come un'esperienza di libertà. Coloro che immolarono la vita per la fede, scrive, morirono con gioia e offrirono una testimonianza luminosa della forza delle idee e delle credenze sopra le incliinazioni naturali.
Per Schlegel, il patriottismo esige un lavoro di interpretazione della storia di un popolo per trovare le basi di una comune cultura e le ragioni di una comune missione. Come Herder e altri scrittori nazionalisti, Schlegel guarda alla storia nazionale per cercare le fonti spirituali che potessero alimentare la rigenerazione della nazione tedesca, e ritiene di averle individuate nel Sacro Romano Impero, nelle crociate e nelle guerre di religione. Il punto di partenza della nuova storia deve dunque essere il medioevo tedesco; non cerca memorie di libertà, ma di fede, e di unità, e di religiosità.
Quella di Schlegel non era tuttavia la sola interpretazione possibile della storia nazionale. All'interno della tradizione nazionale si potevano scoprire altre sorgenti di rinnovamento spirituale capaci di ispirare diverse interpretazioni della missione del popolo tedesco. Il patriota non deve necessariamente voltare le spalle alla storia nazionale per rimanere fedele all'impegno per la libertà. Per i patrioti tedeschi il compito di legare gli ideali di libertà alle memorie della nazione era reso particolarmente arduo dal fatto che i grandi esempi della libertà, Atene e Roma, non erano parte della tradizione culturale tedesca e i romani erano addirittura conquistatori. Eppure anche la storia tedesca offriva risorse per un patriottismo della libertà. Pochi anni dopo la pubblicazione delle Vorlesungen di Schlegel, Fichte sottolinea nei Discorsi alla nazione tedesca che la storia della Germania comincia con la strenua difesa della libertà contro i romani, e che il medioevo non era solo Standestat, e religione e corporazioni, ma anche libere repubbliche.
La fondazione storica del patriottismo tedesco, sottolinea Fichte, è la guerra vittoriosa degli antichi germani che combatterono contro le legioni romane in nome della libertà, la libertà di essere e rimanere tedeschi.
Libertà significava per loro rimaner Tedeschi, risolvere le proprie questioni indipendentemente e originalmente secondo il loro spirito, andar avanti nel proprio ulteriore sviluppo, pure seguendo il loro spirito, e tramandare ai posteri questa indiipendenza.
I tedeschi avrebbero ricavato dalla dominazione romana considerevoli vantaggi, ma avrebbero dovuto rinunciare ad essere e vivere come tedeschi e diventare per metà romani. Fu proprio il desiderio di rimanere tedeschi che diede loro la forza di combattere e evitare la sottomissione. Ad essi deve dunque andare la gratitudine dell'umanità intera e soprattutto quella dei tedeschi moderni perché con il loro sacrificio crearono le basi della nazione tedesca.

Noi, che abbiamo ereditato la loro terra, la loro lingua, le loro idee, dobbiamo a loro, se siamo rimasti Tedeschi e se la corrente di vita primitiva e indipendente ci porta ancora; ad essi rendiamo grazie di ciò che fummo poi come nazione e a loro renderemo grazie di ciò che diverremo in seguito, ove non sia giunta già l'ora della nostra fine e non si sia disseccata l'ultima goccia del loro sangue, che scorreva nelle loro vene.

Oltre alla resistenza vittoriosa contro i conquistatori romani, un'altra importante fonte del patriottismo tedesco era per Fichte la tradizione delle libere città medievali. Esse furono create e preservate, sottolinea Fichte, da uomini che appartenevano al popolo tedesco, e devono quindi essere considerate quali i prodotti più autentici dello spirito nazionale tedesco. Le costituzioni e i costumi delle libere città offrono un'immagine mirabile di ordine e di amore dell'ordine. Con il commercio esse diventarono prospere, e con le loro leghe furono in grado di resistere agli attacchi di principi e imperatori. I moderni, osserva Fichte, devono inchinarsi di fronte alla memoria delle libere città e ammettere la loro impotenza ad eguagliarne l'eccellenza. Il medioevo tedesco non fu solo questo, ma il resto può essere dimenticato. La retorica del patriottismo deve essere selettiva; bisogna salvare dall' oblio quelle memorie atte a suscitare sentimenti:

La storia della Germania, della potenza tedesca, delle iniziative, delle scoperte, dei monumenti e dello spirito tedesco si compendia in questo periodo interamente nella storia di queste città; il resto, cioè, la storia dei paesi impegnati e riscattati non significa nulla.

L'esperienza delle repubbliche ha nella storia del popolo tedesco un ruolo fondamentale:

La nazione tedesca è l'unica fra le nazioni neo-europee che abbia mostrato, già da secoli appunto per mezzo della classe borghese, di poter sostenere una costituzione repubblicana.
In quell' esperienza Fichte individua i caratteri dello spirito nazionale tedesco. Anche l'Italia ebbe libere repubbliche, ma la differenza fra le due esperienze repubblicane è profonda e rivela la differenza fra i due spiriti nazionali: in Italia continui disordini, conflitti, guerre e rivoluzioni; in Germania, pace, concordia e unità. Dalla memoria delle repubbliche medievali emerge lo spirito genuino del popolo tedesco fatto di rispetto, senso dell'onore, modestia, spirito civile e devozione al bene comune. E proprio la riscoperta di questo spirito è il primo passo per la rigenerazione morale della nazione.
L'opera di rinascita spirituale è lavoro del profeta. Parlando del passato della nazione, il profeta può muovere i suoi compatrioti ad identificarsi con il popolo e i tempi che le sue parole riportano alla vita e presentano come un frutto maturo pronto per essere raccolto. Per compiere la sua opera il profeta deve possedere uno spirito filosofico sufficiente a stimolare nei suoi compatrioti un atteggiamento leale e generos081. Non deve inventare o costruire lo spirito nazionale; deve piuttosto rimuovere gli ostacoli spirituali che impediscono allo spirito del popolo di fluiire liberamente. La sua opera deve essere la realizzazione della profezia racchiusa nella giovinezza della nazione tedesca e poi dimenticata o tradita. Non deve pretendere di costruire un nuovo sentiero spirituale, ma riportare il popolo sulla propria strada.
Fichte elabora il linguaggio nazionalista in senso repubblicano. Aspira a rinnovare il patriottismo che fiori nelle repubbliche medievali e fu poi soffocato «dall'avarizia e dalla tirannia dei principi». Sottolinea a più riprese che il declino spirituale della Germania comincia con la fine delle libertà repubblicane e ribadisce che le costituzioni cittadine sono la fonte autentica della civiltà tedesca e del vero spirito nazionale tedesco. Quando le repubbliche persero la loro indipendenza, i tedeschi persero non solo la libertà ma anche la loro identità nazionale. La parte migliore del loro spirito e della loro cultura morì con la libertà delle città, e da allora la nazione tedesca si avviò lungo la via della decadenza spirituale. Per questo è vano sperare, spiega Fichte, che un'unificazione nazionale sotto le bandiere della monarchia possa far rinascere lo spirito nazionale. Sarebbe invece un grave disastro per la causa del patriottismo tedesco, meno grave solo della dominazione straniera.
Nella visione di Fichte la libertà politica e la cultura nazionale devono operare di concerto, e l'una deve sostenere l'altra: la libertà politica permetterebbe ai tedeschi di vivere secondo il loro spirito e la loro cultura autentici; la cultura nazionale mantiene vivo il sentimento di appartenenza ad uno stesso popolo che a sua volta rafforza la devozione alla libertà comune. Per essere di nuovo liberi, i tedeschi devono in primo luogo imparare di nuovo ad essere e sentirsi tedeschi; devono riconquistare la propria libertà spirituale emancipandosi della soggezione culturale nei confronti delle idee e dei modi di vita non tedeschi. Sconfitti e divisi, non possono essere liberi, ma possono coltivare nei loro cuori la libertà spirituale. E fin tanto che essi sapranno vivere spiritualmente come tedeschi, la profezia della nazione tedesca vivrà con loro:

nascondiamola [la libertà] nell'interno del nostro pensiero fino a tanto che non sia cresciuto intorno a noi il nuovo mondo che deve aver la forza di rappresentare esternamente questo pensiero. Nello spirito, che senza dubbio deve esser lasciato libero al nostro giudizio, rendiamoci modelli, profeti, mallevadori di ciò che un giorno diventerà realtà.

Pochi anni prima, Rousseau aveva esortato i polacchi minacciati dalla conquista russa a mantenere viva nei loro cuori la loro cultura nazionale; Fichte esorta i tedeschi già parzialmente conquistati a fare lo stesso.
Conservare la nazione tedesca è per Fichte il modo migliore di contribuire al progresso spirituale dell'umanità. Gran parte dell'umanità è di origine tedesca; gli altri devono al popolo tedesco la loro religione e la loro civiltà. Gli uni e gli altri «Ci scongiurano: di mantenerci così come fummo finora, anche per loro, anche per amor loro,,9o. Privata dello spirito nazionale tedesco l'intera umanità sarebbe impoverita. Fichte evoca un insieme di obblighi: verso il passato, verso le generazioni tedesche future, verso i popoli di origine tedesca, verso l'umanità. Ognuno di questi obblighi rafforza gli altri e insieme rendono la retorica nazionalista di Fichte particolarmente efficace.
Il segno distintivo dello spirito nazionale tedesco non è l'origine etnica o il linguaggio, ma la libertà spirituale. Cooloro che vivono rassegnati ad accettare la propria condizione come una necessità ineluttabile e vivono come appendici della vita spirituale devono essere considerati stranien:

Chiunque crede e ha fede nella spiritualità e così pure nella libertà e nel progresso di questa spiritualità dovunque sia nato, qualunque lingua parli, è dei nostri, appartiene a noi, ci seguirà; chi invece crede nel ristagno generale, nella decadenza ( ... ], dovunque sia nato, qualunque lingua parli, non è tedesco, è estraneo a noi «<undeutsch und fremd fur uns» )91.

Fichte, come i teorici del patriottismo repubblicano, identifica l'amore della patria con l'amore della libertà. Ma diversamente da questi non identifica la libertà con la sicurezza individuale garantita dalle leggi, ma con il desiderio di un popolo di continuare ad essere se stesso e vivere come un popolo originale e incontaminat092. Oppone libertà a schiavitù, ma intende per schiavitù la soppressione dei caratteri originali di un popol093. Un popolo non libero è un popolo che non è più se stesso perché è spiritualmente corrotto e contaminato. Vero patriottismo non è l'amore del pacifico cittadino per le leggi e la costituzione, come sostengono i patrioti repubblicani, ma una fiamma divoratrice che abbraccia la nazione come simbolo dell' etern094; è un amore dell'eterno, dell'eterno che può essere conseguito su questa terra solo se il popolo cui apparteniamo sopravvive nel tempo senza corrompere la propria identità spirituale. Fino a quando il suo popolo vive, vive anche il patriota che ha amato il suo popolo e ha vissuto come parte di esso. Il vero patriota anela all'eterno e questo suo anelito lo rende capace del vero amore per la patria.

L'amore, che è vero amore e non desiderio passeggero, non può appagarsi del temporaneo, si desta e si accende e si riposa soltanto nell'eterno. L'uomo non può amare nemmeno se stesso se non si concepisce come eterno: altrimenti non è in grado di aver stima di sé e di giustificarsi. Tanto meno può amare ciò che è fuori di lui, se non lo assume nell'eternità della sua fede e del suo spirito e non lo unisce a questa. Chi non scorge prima in sé l'eterno, non può avere nessun amore e non può amare nemmeno una patria che per lui non c'è95.

Proprio perché è amore dell'eterno, e promette la vita eterna sulla terra, il patriottismo infonde il coraggio di sacrificare la vita per la patria. I romani, sottolinea Fichte, furono capaci di compiere grandi sacrifici per la patria non perché amavano la libertà e le leggi, ma perché credevano nell'eternità di Roma e sapevano che fin quando Roma viveva anch'essi avrebbero continuato a vivere96. E i protestanti tedeschi diedero la vita non per la loro felicità, ma combatterono per il bene dei loro figli e per le generazioni a venire97. Fu il loro patriottismo a renderli capaci di originale creazione storica e a dare loro la forza di essere spiritualmente liberi. I tedeschi sono dunque capaci di vero patriottismo perché sono un popolo incontaminato e possiedono un carattere nazionale. Tutti gli altri popoli che non credono nella libertà spirituale, ma solo nel ripetersi della vita apparente, non sono, propriamente parlando, un popolo.
La libertà spirituale definisce un confine intellettuale e morale fra tedeschi e non-tedeschi, compatrioti e stranieri, veri popoli e popoli tali solo di nome. La separazione fra i due campi deve essere netta e deve essere completata il più rapidamente possibile nell'interesse dell'umanità. Se i tedeschi riscoprono il patriottismo che è soltanto loro, che nessun altro popolo può avere, essi possono assolvere la missione storica di diffondere la luce della libertà spirituale nel mondo. In questo senso il patriottismo tedesco è per Fichte la condizione per il vero cosmopolitismo. L'attività e la vita vengono dal patriottismo; separato da esso il cosmopolitismo può essere solo una pura idea. Non è possibile fare il bene dell'umanità senza fare il bene delle parti che la compongono.
«Il singolo è niente, dice questo il cosmopolita; io penso, mi preoccupo e vivo soltanto per il tutto; questo deve migliorare, su questo si devono stendere ordine e pace». Bene: ma dimmi ora, come pensi di accostarti a questo tutto con i benefici sentimenti, che assicuri di nutrire a suo riguardo, posto che vuoi beneficarlo così in generale e tutto in blocco? È dunque il tutto alcunché di diverso dalle singole parti, congiunte nel pensiero? Può dunque, in certo modo, esservi un miglioramento nel tutto, se non comincia a esservi un miglioramento in una qualche singola parte? Ma allora diventa tu stesso migliore, e poi cerca di render migliori anche i tuoi due vicini, di destra e di sinistra.
Il modo migliore di essere cosmopoliti e di operare per il progresso morale dell'umanità è di lavorare per far progredire la propria nazione. La Germania, sottolinea Fichte, ha fra tutte le nazioni uno status particolare, perché la causa dell'umanità «può essere sostenuta solo dalla filosofia» e la Germania è la nazione che ha concepito la filosofia e ha la capacità di svilupparla. Il carattere peculiare del patriottismo tedesco è per Fichte la combinazione dell'amore della libertà spirituale e l'attaccamento alla propria cultura, alla propria storia, al proprio linguaggio.
È un patriottismo che separa nettamente i tedeschi dai non-tedeschi, e il confine può essere attraversato solo in una direzione in quanto la luce della libertà spirituale può diffondersi solo dal popolo tedesco agli altri popoli. Questi non hanno una luce propria da offrire; incapaci di creazione originale possono solo ricevere contenuti di vita spirituale. Il patriota tedesco, nell'analisi di Fichte, è solo con gli altri tedeschi, e oltre i confini della nazione vede morte spirituale e oscurità. Il limite definito dalla propria identità nazionale fondata sulla libertà spirituale non deve essere oltrepassato dalle idee, dai valori e dalle passioni di altri popoli perché la loro intrusione contaminerebbe l'originalità del popolo tedesco e lo renderebbe incapace di perseguire la missione che la storia gli ha affidato. Il primo e più importante dovere dei tedeschi è di rimanere tedeschi, seguendo l'esempio dei loro predecessori che sconfissero le legioni romane e l'esempio dei seguaci di Lutero che immolarono la vita per l'eternità della nazione tedesca.
Con la sua ridefinizione dell'amore della patria come amore dell'eterno piuttosto che come amore della libertà politica e civile, Fichte introduce un elemento nuovo nel linguaggio del patriottismo. L'amore della patria non è presentato come caritas, ma come attaccamento alla propria unicità come popolo, inteso non come comunità di cittadini liberi ed uguali, ma come una comunità di individui che condividono una cultura e sono capaci di libertà spirituale. Il patriottismo che esalta nei Discorsi alla nazione tedesca ha per fine di far tornare i tedeschi ad essere se stessi per poter in futuro essere liberi, liberi di vivere come tedeschi. Ma è un patriottismo, si può aggiungere, che rende i tedeschi soli nella loro libertà tedesca.
Il «patriottismo superiore» che Fichte esalta al di sopra «dell'amore della costituzione e delle leggi dei comuni cittadini» serve alle nazioni quando esse devono riconquistare la libertà o ricostruire la propria identità spirituale. Ma il patriottismo del cittadino comune assicura il sostegno etico di cui lo stato ha bisogno in tempi normali, e da esso nasce la disponibilità al sacrificio nelle circostanze eccezionali. Come spiega Hegel nella Filosofia del diritto, il vero patriottismo non è amore dell'eterno, ma un «sentimento politico» (Politische Gesinnung) basato su una convinzione e su una volontà abituali. È un sentimento politico perché è il prodotto della costituzione e delle leggi, e perché si basa sulla coscienza che «il mio interesse sostanziale e particolare è custodito e contenuto nell'interesse e nel fine di un altro (qui dello Stato), in quanto nel rapporto con me, quale singolo»100. Il «segreto del patriottismo del cittadino» (das Geheimnis des Patriotismus des Birgers), sottolinea Hegel, è la consapevolezza condivisa di un'unità di interessi fra l'individuo e lo stato che si consolida nelle corporazioni della società civile.

Il patriottismo dei moderni si esprime nel rispetto abituale delle leggi sostenuto dalla convinzione che la comunità è il fondamento e il fine degli individui. Poiché essi considerano la comunità quale fondamento e fine della vita individuale, essi considerano i doveri sociali come libertà, non come obblighi imposti da un'autorità esterna. Propriamente inteso, il patriottismo è la fonte di quella forza prodigiosa e profondità dello stato moderno che consiste nel fatto che esso riconosce interamente i diritti e gli interessi individuali e particolari e al tempo stesso sa collegarli con l'universalità dello stato.
La formazione della società civile moderna in cui gli individui sono liberi di perseguire i propri interessi privati e particolari ha irrimediabilmente distrutto la completa e immediata identificazione del cittadino con lo stato che sosteneva il patriottismo degli antichi. La Filosofia del diritto, simile in questo allo Spirito delle leggi, è un tentativo di ridefinire una virtù politica, o patriottismo dei moderni, non più basato sull'abnegazione, ma sull'interesse dell'individuo come membro di una particolare comunità.
L'idea del patriottismo come «sentimento politico» non ebbe grande risonanza. I teorici ottocenteschi parlarono di un patriottismo basato su un'unità più profonda e completa fra !'individuo e la nazione. Più che da Hegel, trassero ispirazione da Herder e da Fichte. La città politica (cité politique), scrivevajules Michelet nel 1846, presuppone la città morale (cité morale) che vive nell'animo dell'individuo quando l'individuo è immerso nello spirito del popolo. La città politica ha dunque bisogno di uno spazio geografico e spirituale ben definito. Se i confini sono dissolti o confusi, lo spirito del popolo muore e con esso si dissolvono sia la città morale che la città politica. Per sviluppare la propria vita morale, l'individuo ha bisogno di radicarsi spiritualmente in una comunità nazionale particolare.
Lo scopo della politica non è solo quello di fondare un ordine sociale in cui gli individui possono perseguire in pace i loro interessi individuali, ma anche quello di fondare una patrie, ovvero «una grande armonia sociale» in cui lo sviluppo dell'individuo è sostenuto dall'impegno di tutti per il bene comune. Tale fine può essere conseguito solo se i cittadini sono educati fin dalla nascita all'idea del sacrificio. La politica patriottica è dunque prima di ogni altra cosa una politica di educazione morale.
Nella sua opera Michelet ricorre largamente a metafore ed espressioni tipiche del patriottismo classico. La patrie, osserva, ci dà non solo la vita, ma comprende ognuno di noi in essa e ispira un amore che abbraccia tutti gli altri affetti. L'amore della patria allarga e nobilita l'amore che proviamo per i genitori e i parenti. È un amore simile all'amicizia che ispira un attaccamento disinteressato; è una passione che spinge all'unità, alla vicinanza, alla solidarietà. La giusta definizione di patrie è «amour des amours>" o, meglio, «amitié», secondo il linguaggio degli antichi comuni francesi.
La difesa dell'unità culturale e spirituale della propria patria è la condizione necessaria per la nascita di una patria comune dell'umanità' (patrie universelle) 105. La repubblica del mondo (la république du monde) può nascere solo dal rafforzamento della particolarità di ogni nazione, non attraverso l'assimilazione e l'adeguamento ad un unico modello. Dio, scrive Michelet seguendo Herder, non vuole che annulliamo la nostra individualità in lui; e il medesimo vale per le nazioni. Ogni nazione deve poter esprimere il proprio spirito nazionale. Nel concerto delle nazioni nessuna voce deve essere soffocata, e le nazioni oppresse devono essere aiutate a redimersi per poter essere se stessse e fare sentire la propria voce.
Per amare la propria patria, l'individuo deve vederla, deve associare alla parola immagini, vive, tenere, toccanti come i monumenti nazionali, o la parata militare o la folla unita e silenziosa che attenda l'inizio di una festa naazionale106. L'amore della patria che unisce i cittadini fra di loro e alla patrie non è tanto un amore politico, quanto una fede religiosa basata sulla visione della patrie come unità armoniosa in cui si rivela il «Dio vivente». Dio è l'unità che vive nelle leggende, nelle memorie, negli eroi che formano l'anima vivente della patria e nelle credenze condivise sul destino della nazione. Il lavoro da compiere per mantenere viva la patrie deve dunque essere un lavoro di continua educazione, coinvolgimento e iniziazione intesi a proteggere l'unità spirituale e culturale della Francia. Come Herder e Fichte, Michelet dirige attacchi veementi contro gli intellettuali imitatori che contaminano la cultura nazionale con idee straniere.
Il patriottismo di Michelet è un composto di ideali politici ereditati dalla Rivoluzione e di appelli alla purezza e all'unità spirituale e religiosa della Francia propri del linguaggio dei nazionalisti. La Francia, sottolinea, è una nazione dedicata all'ideale dell'uguaglianza ed è al tempo stesso una nazione etnicamente e spiritualmente incontaminata, e la sua unità e la sua purezza devono essere tutelate. L'amore della patria è per lui una forza unificante che spinge gli individui, soprattutto nel popolo, ad identificarsi con il grande corpo della nazione. L'identificazione deve essere totale; non è concessa alcuna distanza; nessun conflitto deve turbare l'armonia del tutto. È un'identificazione basata sullo spirito di sacrificio e sulla devozione. Per realizzare una simile unità, i francesi non possono considerarsi solo come cittadini che condividono gli ideali politici della République, ma devono sentirsi uguali anche per altre e più profonde ragioni: uguali perché appartengono al medesimo ceppo etnico, uguali perché parlano la medesima lingua, uguali perché condividono il cattolicesimo di tradizione francese. La patrie di Michelet è più di una repubblica di cittadini francesi; è una comunità di individui uniti da vincoli di amore e di amicizia che derivano dal 100ro essere prima di tutto francesi. Perché fiorisca il vero patriottismo, gli ideali politici della repubblica devono essere assorbiti all'interno dell'unità spirituale della nazione; l'amore della patria predicato dai teorici repubblicani deve essere tradotto in un amore diverso: amore della propria cultura, del proprio linguaggio, della propria religione. La vecchia tradizione del patriottismo repubblicano sembrava aver esaurito la sua forza di attrazione intellettuale e morale.

v
LA NAZIONALIZZAZIONE DEL PATRIOTTISMO

Nell'Europa dell'Ottocento, il linguaggio del patriottismo continuò ad essere largamente usato per sostenere lotte politiche per la libertà e per l'estensione dei diritti di cittadinanza. In Inghilterra, i sostenitori del Catholic Emanncipation Act del 1829 che aboliva il divieto ai cattolici di ricoprire incarichi pubblici, opposero al patriottismo esclusivo dei protestanti, un patriottismo basato sui princìpi dell'uguaglianza civile. I nemici della riforma sembrano credere, osservava un sostenitore dell'Act, che «il principio fondamentale della nostra costituzione sia un principio di esclusione; io credo invece che il grande principio che informa la costituzione britannica sia di diffondere fra tutte le classi della comunità i benefici per la cui difesa essa è stata istituita».
Pochi anni più tardi, i sostenitori del Reform Bill che allargava il diritto di voto si servirono in misura ancora più significativa del linguaggio del patriottismo. Anche se la loro lotta mirava ad un mutamento delle procedure elettorali e attaccava direttamente i privilegi e le ingiustizie che il vecchio sistema permetteva, i fautori della riforma sottolineavano che la loro proposta si ispirava ai valori fondamentali della tradizione inglese. Essi fecero proprie le parole che John Thelwall, un membro della London Corresponding Society, aveva pronunciato nel 1794: «ci deve essere nella nostra costituzione qualcosa che un britannico amerà e venererà sempre»; e quel «qualcosa», spiegavano i radicali degli anni '20 e '30 del XIX secolo, era l'idea della Gran Bretagna come una nazione impegnata a difendere la libertà.
Presentandosi come veri britannici e come i veri rappresentanti dei valori della nazione, i riformatori ottennero un ampio consenso sociale e politico e squalificarono i loro avversari come una fazione antinazionale. Essi realizzarono un piccolo capolavoro di retorica grazie al quale i patrioti tradizionali venivano ridefiniti come una fazione privilegiata e corrotta, mentre «i milioni di inglesi senza voce» conquistavano un posto centrale nell'arena politica come i «migliori patrioti»3.
Sia nella campagna per il Catholic Emancipation Act, sia in quella per il Reform Bill, il linguaggio del patriottismo fu un importante elemento di unificazione politica. Aiutò ad unire individui diversi per condizione sociale, per cultura e per fede religiosa, in una lotta comune per l'emancipazione e per l'estensione dei diritti di cittadinanza. Mise a disposizione parole e idiomi che modificarono le passioni della gente; aiutò a placare odi antichi e in qualche caso perfino a trasformarli in solidarietà. Mollti operai e membri del ceto medio protestanti che opposero il Catholic Emancipation Act come un tradimento dei 'valori britannici' probabilmente marciarono insieme ai cattolici nella campagna per la riforma della legge elettorale. Una nuova concezione dell' 'essere britannico' prese il posto della precedente; gli ideali dell'uguaglianza civile difesi secondo il linguaggio del patriottismo britannico misero in secondo piano, almeno temporaneamente, le divisioni religiose.
Fino agli anni' 40, il linguaggio del patriottismo in Inghilterra venne usato non solo per sostenere le campagne di riforme politiche ed elettorali, ma anche per affrontare problemi di giustizia sociale che nascevano dai processi di urbanizzazione e di industrializzazione. Le nuove forme di conflitto sociale vennero spesso descritte in termini di conflitto fra libertà e despotismo: gli operai e i poveri delle città erano i nuovi schiavi o i nuovi servi; i capitalisti e i proprietari di case e terre, i nuovi despoti. L'estensione del linguaggio del patriottismo dalla sfera politica a quella sociale fu agevole; la povertà e lo sfruttamento vennero denunciati come incompatibili con i valori della cittadinannza che il patriottismo aveva sostenuto per secoli.
Con qualche rettifica e qualche integrazione, il linguaggio del patriottismo era pronto per nuove lotte di libertà. Tutti i partiti e i movimenti che dominarono la scena politica inglese del XIX secolo vi attinsero ampiamente. William Cobbett, uno dei leader del movimento cartista esprimeva la speranza che i padri «passassero molte sere a casa per educare i figli insegnando loro la storia delle loro miserie ed esortandoli al patriottismo»5. Richard Oastler, conservatore e uomo di chiesa, auspicava in quegli stessi anni di vedere sorgere un giorno «un forte esercito di patrioti decisi ad affermare i propri diritti e a strappare l'alloro dalla fronte del Capitale». I vecchi patrioti combatterono per affermare i diritti civili e politici; i patrioti dell' età della rivoluzione industriale, per affermare la giustizia sociale. L'Inghilterra proclama di essere una nazione di uomini liberi; se i poveri sono privati dei loro diritti e trattati come schiavi, il carattere del popolo britannico è distrutto, e si corrompe «la natura degli inglesi», scrive Oastler nel 1834 in polemica contro la Poor Law. Il vero patriota è colui che vuole che l'Inghilterra rimanga se stessa e sia fedele alla tradizione di libertà che le passate generazioni hanno affidato alle nuove.
Nella sua lettera sulla servitù nello Yorkshire del settembre 1830, Oastler denuncia lo sfruttamento dei bambini insistendo sul fatto che l'Inghilterra, che si dice nazione devota alla libertà, tollera l'esistenza della schiavitù sul suo stesso suolo. L'intera nazione, scrive, deve insorgere per proteggete le migliaia di bambini, soprattutto femmine, fra i sette e i quattordici anni costretti a lavorare per quattordici ore al giorno con solo trenta minuti per mangiare e per la ricreazione, perché una nazione che si proclama devota alla libertà non può accettare una realtà che offende i suoi principi fondamentali8. E nel 1833, durante la campagna per la legge delle dieci ore, Oastler si serve ancora del linguaggio del patriottismo per ribattere gli argomenti della Royal Commission incaricata di indagare sulle condizioni di lavoro nelle fabbriche. Tutte le sue obiezioni sono costruite attorno all'idea che è «antise» trattare i bambini che lavorano come schiavi:
È anti-inglese inveire contro la schiavitù in paesi lontani cinque o seimila miglia, e incoraggiare una schiavitù più abominevole e vile nel proprio paese praticata da quegli stessi individui che sono i più fervidi critici della schiavitù nelle Indie occidentali. È anti-inglese rifiutare agli innocenti e laboriosi figli dei poveri inglesi quei diritti che vengono assicurati perfino agli adulti colpevoli di crimini e ai poveri schiavi negri adulti.
L'amore della patria ci deve spingere a sentire l'oppressione che nostri compatrioti soffrono come un oltraggio. L'oppressione può consistere nella violazione dei diritti civili e politici o nello sfruttamento, nella brutalità, nel disprezzo per la dignità umana nei luoghi di lavoro e nella vita sociale; le vittime possono essere adulti o giovani, maschi o femmine; quale che sia la natura dell' oppressione e quali che siano le vittime, il patriota deve reagire; deve sentire non solo compassione, ma anche sdegno, e proprio lo sdegno gli dà la motivazione per impegnarsi e per chiamare gli altri all'impegno per cambiare le cose: «il più grande patriota, scrive Oastler, è colui che può stimolare la più grande insoddisfazione». Proprio perché sostenuto dall'amore della patria che compendia l'amore della libertà, e l'attaccamento caritatevole per altri individui che sente vicini e che sono vittime dell' oppressione, l'impegno del patriota è di lunga lena, e non si esaurisce nell'opera di un giorno.
In quanto è in primo luogo amore della libertà, il patriottismo può tradursi in solidarietà che attraversa i confini nazionali. Per il patriota tutti gli oppressi sono compagni e sodali. L'amore della patria, anziché attenuare, rafforza la sua capacità di riconoscimento; gli permette di riconoscere gli stranieri come compagni nella lotta comune per la libertà. Anziché considerare i francesi come nostri naturali nemici, si legge in una dichiarazione della London Corresponding Society, «li riconosciamo come nostri concittadini del mondo"ll. Il riconoscimento non è la conseguenza dell'accettazione di un principio morale astratto, ma l'effetto dell'amore della libertà; il merito va attribuito, per una volta, ad una passione.
'Cittadini del mondo' è un'espressione ambigua in quanto non vi è un mondo di cui si può essere cittadini. Essere cittadini implica esercitare diritti e assolvere doveri politici e sociali, e nulla di tutto questo si fa nel mondo, ma solo in comunità nazionali. Quando affermavano di riconoscere gli individui appartenenti ad altri popoli come «concittadini del mondo», i patrioti inglesi intendevano esprimere un impegno per la libertà che si estendeva anche ad altri popoli. Contro il dispotismo dei governanti, i patrioti di tutte le nazioni, si legge nel periodico radicale «Black Dwarf", devono «dissolvere le gelosie nazionali e amalgamarle nell'armonia per la causa comune». Le gelosie nazionali sono passioni forti; per scioglierle e amalgamarle ci vuole molto calore e bisogna mescolare a lungo, e bisogna che il calore sia applicato in ugual misura a ciascuna gelosia nazionale. Solo la passione dell'amore della libertà è abbastanza intensa e può operare con uguaale intensità su ciascuna gelosia. Una volta che le gelosie nazionali sono dissolte e amalgamate, il patriottismo ha compiuto la sua"opera. Non deve procedere troppo oltre e cercare di dissolvere e amalgamare anche le identità, e le culture, e le tradizioni nazionali. La causa della libertà contro l'oppressione non ha bisogno di cosmopoliti; ha bisogno solo di patrioti.
L'idea di un patriottismo basato sull'impegno per la libertà al di là delle barriere nazionali trovò il suo più convinto assertore in Giuseppe Mazzini. Il suo patriottismo si fonda sugli ideali della repubblica, ma riconosce al tempo stesso il valore della nazione. Riteneva che l'ideale repubblicano della patria poteva trovare nuovo vigore solo se legato ai valori culturali della nazione. Accoglieva la lezione dei nazionalisti tedeschi, ma le dava un nuovo significato collegandola alla vecchia tradizione repubblicana. I suoi primi scritti rivelano del resto una conoscenza diretta delle opere dei tedeschi. In un articolo del 1835 parla di Fichte come del filosofo che condensò i princìpi della Rivoluzione Francese13; e nella recensione alla Storia della letteratura antica e moderna di Federico Schlegelloda Herder e Schlegel come i due pensatori tedeschi che seppero sviluppare l'intuizione di Vico e mostrarono che la vita intellettuale dei popoli non va disgiunta dalla loro storia civile e politica.
Mentre apprezza l'enfasi dei tedeschi sullo spirito del popolo e sulla cultura nazionale, Mazzini trova le loro dottrine gravemente lacunose perché difesero i valori della nazione, ma trascurarono la patria, ovvero la repubblica. Il loro nazionalismo era di conseguenza troppo angusto ed esclusivo. Mancava dello slancio ideale capace di attraversare le barriere nazionali e diventare veramente universalistico. I lavori di Schlegel sulla letteratura, scrive, sono negativamente condizionati da un «intemperante affetto di patria». Schlegel reagisce contro la condanna del medioevo come epoca di vacuità intellettuale compresa fra la classicità e la rinascita moderna operata dall'Illuminismo, ma, per orgoglio nazionale esagerato, propone a sua volta il medioevo come modello ideale perché lo considera luogo di formazione della tradizione letteraria tedesca ispirata dai nobili ideali dello spirito cavalleresco della fede illimitata e della pura immaginazione artistica. Il suo patriottismo gli fa riconoscere il valore della poesia e della letteratura nazionali in quanto strumenti per l'avanzamento civile e politico di un popolo; ma il suo meschino orgoglio nazionale non gli fa apprezzare i molteplici aspetti del medioevo e i contenuti e i temi culturali comuni alle nazioni europee15. Per il suo patriottismo, scrive Mazzini, Schlegel merita di essere considerato come una delle voci della nuova epoca che ha al fine riconosciuto il valore della cultura nazionale, ma il suo riconoscimento è incompleto e limitato. L'Illuminismo era carico di pregiudizi contro il medioevo, ma Schlegel nutre pregiudizi altrettanto gravi verso la Riforma e il mondo moderno in generale. Per Mazzini, la storia dello sviluppo spirituale dell'Europa moderna aspetta ancora di essere scritta. Per compiere l'opera in modo adeguato è necessaria una sensibilità verso le culture nazionali, ma ogni cultura nazionale deve essere studiata nel contesto dello sviluppo spirituale dell'Europa verso la libertà. Per essere in grado di intendere adeguatamente la propria cultura nazionale e la cultura nazionale degli altri popoli, lo storico deve essere devoto alla libertà e immune da vanagloria nazionale. Deve essere, in altre parole, un patriota; ma non un patriota alla maniera di Schlegel.
Mazzini delinea le idee fondamentali del suo patriottismo nel saggio Dell'amorpatrio di Dante, scritto fra il 1826 e il 1827. Dante è descritto come l'esempio dell' «affetto patrio ben concepito»; la sua vita e le sue opere possono «presentarsi con tutta fidanza a modello di coloro, che san cos'è patria, e com'essa vuol esser servita,,16. Il vero amore della patria è un amore infinito, immune dal pregiudizio e ispirato da pensieri di pace e di unità. È una passione che anima e infiamma i cuori generosi che non possono tollerare la servitù e la corruzione della patria. Mentre i suoi fratelli piangono e soffrono in silenzio, il patriota fa sentire la sua voce. Prevede i mali che affliggeranno la patria e condivide i bisogni, e le speranze, e le ansie dei suoi compatrioti, ma non i vizi né le debolezze. Come gli antichi profeti, non parla mosso da furia irrazionale o da orgoglio offeso; lo spinge lo sdegno17. Dice cose spiacevoli ai suoi compatrioti e denuncia le loro colpe; ma lo fa per chiamarli all'azione, non per umiliarli o per affermare la propria superiorità morale. Vuole sollevare l'animo del popolo per lavorare insieme ad esso. Parla per suscitare le stesse passioni che egli sente nell'animo perché sa che per operare contro l'oppressione e la corruzione è necessario che l'amore della libertà cresca e si diffonda nel popolo. La voce del patriota è insomma «possente e severa», mai arrogante; le sue parole esprimono una nobile tristezza, «come d'un uomo che scriva piangendo».
Come 1'esempio di Dante mostra, il patriota parla spesso invano. Raramente ottiene gloria e fama dai suoi contemporanei; spesso il premio è l'esilio. Deve errare e portare con sé l'amore della patria senza poterlo tradurre in azione politica. Deve accontentarsi di parole e di scritti. Gli eruditi e i commentatori analizzeranno le sue opere; ogni parola sarà studiata, come il fisiologo studia le ossa e i nervi. Solo poche anime generose che condividono la sua indignazione e il suo sdegno contro la corruzione sapranno cogliere la linfa spirituale che anima le sue pagine. Il primo passo verso grandi cose è per Mazzini imparare a capire e ad amare i grandi del passato. Essi sono una continua fonte di ispirazione e di sostegno. Neppure la repressione più feroce può privare un popolo delle sue memorie, e le memorie più preziose sono quelle di coloro che amarono la patria di un amore nobile senza vanagloria nazionale e senza parrocchialismo. Gli italiani devono studiare Dante non per vantare la grandezza della propria cultura nazionale, ma per trovare motivazioni a combattere la corruzione e la servitù. I genitori devono raccontare ai figli storie di amor patrio per stimolare non l'orgoglio nazionale, bensi la libertà.
Parlate loro di patria, di ciò che essa fu, di ciò che deve essere. [ ... ] ridite ad essi i grandi fatti dei popolani delle antiche nostre repubbliche; insegnate loro i nomi dei buoni che amarono l'Italia e il suo popolo e per una via di sciagure, di calunnie e di persecuzioni, tentarono di migliorarne i destini. Istillate nei loro giovani cuori, non l'odio contro gli oppressori, ma l'energia di proposito contro l'oppressione. Imparino dal vostro labbro e dal tranquillo assenso materno, come sia bello seguire le vie della virtù, come sia grande il piantarsi apostoli della verità, come sia santo il sagrificarsi, occorrendo, per i propri fratelli. Infondete nelle tenere menti, insieme ai germi della ribellione contro ogni autorità usurpata e sostenuta dalla forza, la riverenza alla vera, all'unica autorità, l'autorità della virtù coronata dal genio.

Per Mazzini la patria non è, come la nazione per Herrder, un organismo composto di diverse parti ordinate gerarchicamente, ma un'associazione democratica di indiviidui liberi ed uguali:

La patria è una comunione di liberi e d'eguali affratellati in concordia di lavori verso un unico fine. [ ... ] La patria non è un aggregato, è una associazione. Non v' è patria dove l'uniformità di quel diritto è violata dall' esistenza di caste, di privilegi, d'ineguaglianze.

Mazzini dà al concetto di patria un significato democratico. Oppone la patria del popolo alla patria dei re e sottolinea che in una vera patria tutti i cittadini devono avere uguali diritti politici. Una patria che escluda i poveri o le donne o i neri viene meno a suoi princìpi. Elabora il concetto di patria come repubblica democratica per comprendere in esso non solo l'uguaglianza politica, ma anche il diritto all'educazione e al lavoro. Una vera patria non può avere stranieri entro i propri confini. Se deve essere una comunità sostenuta da vincoli di amicizia e di solidarietà, la patria deve garantire a tutti e a ciascuno la dignità che viene dai diritti di cittadinanza e il rispetto e l'autorispetto che solo il lavoro e l'educazione assicurano.

La patria non è un territorio; il territorio non ne è che la base. La patria è l'idea che sorge su quello; è il pensiero d'amore, il senso di comunione che stringe in uno tutti i figli di quel territorio. Finché uno solo tra i vostri fratelli non è rappresentato dal proprio voto nello sviluppo della vita nazionale - finché uno solo vegeta ineducato fra gli educati - finché uno solo, capace e voglioso di lavoro, langue per mancanza di lavoro, nella miseria - voi non avrete la patria come dovreste averla, la patria di tutti, la patria per tutti.

Solo dei cittadini possono esigere la giustizia sociale. La voce degli oppressi, dei poveri e degli sfruttati non è ascoltata, se essi non possono parlare come cittadini, se non possono appellarsi alla comune appartenenza alla patria. Per questo anche le classi lavoratrici devono partecipare alla costruzione della repubblica. È loro dovere come lo è di tutti gli altri. I veneziani dicevano della loro repubblica «Venezia la xe nostra: l'avemo fatta nu»; i lavoratori italiani devono poter dire lo stesso dell'Italia. Se possono dire «questa patria è anche nostra perché i nostri padri l'hanno costruita», possono a ragione esigere di essere riconosciuti e trattati come uguali cittadini e godere la propria parte della ricchezza e della prosperità della nazione. La patria non è solo la repubblica ma anche la comune «lavoreria», e la voce dei lavoratori-cittadini ha più autorità di ogni altra; essi possono esigere il rispetto dei loro diritti perché hanno assolto i loro doveri verso la repubblica e fatto la loro parte nella «lavoreria».

Senza patria, voi non avete nome, né segno, né voto, né diritti, né battesimo di fratelli fra i popoli. Siete i bastardi dell'umanità. Soldati senza bandiera, israeliti delle nazioni, voi non otterrete fede né protezione: non avrete mallevadori. Non v'illudete a compiere, se prima non vi conquistate una patria, la voostra emancipazione da una ingiusta condizione sociale; dove non è patria, non è patto comune al quale possiate richiamarvi: regna solo l'egoismo degli interessi, e chi ha predominio lo serba, dacché non v'è tutela comune a propria tutela.

Per Mazzini la patria è la casa comune dove viviamo con persone che capiamo e che abbiamo care perché le sentiamo simili e vicine. Ma è anche una casa accanto ad altre case di ugual pregio. Quando siamo nella nostra casa dobbiamo assolvere i nostri obblighi in quanto cittadini; quando siamo in casa di altri dobbiamo assolvere i doveri verso l'umanità. La difesa della libertà è l'obbligo supremo di ognuno, anche se viviamo in suolo straniero e anche se il popolo oppresso è un popolo straniero: «Dovunque vi troviate, in seno a qualunque popolo le circostanze vi caccino, combattete per la libertà di quel popolo, se il momento lo esige».

Gli obblighi morali verso l'umanità vengono prima degli obblighi verso la patria. Prima di essere cittadini di una patria particolare, siamo esseri umani, e questo significa che le barriere nazionali non possono essere invocate per giustificare la sordità morale. Le voci dei popoli che soffrono possono essere ascoltate ovunque. Per quanto grandi siano le differenze culturali, l'amore della libertà rende la traduzione possibile.
Quel popolo che ammirate nella vittoria e nella caduta, è popolo straniero a voi, forse pressoché ignoto: parla un linguaggio diverso, e il modo della sua esistenza non influisce visibilmente sul vostro: che importa a voi se chi lo domina è il sultano o il re di Baviera, il Russo o un governo escito dal consenso della nazione? Ma nel vostro cuore è una voce che grida: «Quegli uomini [ ... ] sono fratelli vostri: fratelli non solamente per comunione di orìgine e di natura, ma per comunione di lavoro e di SCOp0.

La sofferenza degli altri popoli non ha per noi il medesimo significato che ha per loro. Possiamo capirla solo in parte, ma possiamo intendere quanto basta per partecipare alla loro lotta, se abbiamo a cuore la libertà. La passione interviene a compensare le debolezze della ragione. Lo stesso amore che sostiene l'impegno per la libertà comune del nostro popolo sostiene l'impegno per difendere la dignità umana.

Se non abbracciaste del vostro amore tutta quanta l'umana famiglia - se non confessaste la fede nella sua unità, conseguenza dell'unità di Dio, e nell'affratellamento dei popoli che devono ridurla a fatto - se ovunque geme un vostro simile, ovunque la dignità della natura umana è violata dalla menzogna o dalla tirannide, voi non foste pronti, potendo, a soccorrere quel meschino o non vi sentiste chiamati, potendo, a combattere per risollevare gli ingannati o gli oppressi - voi tradireste la vostra legge di vita, e non intendereste la religione che benedirà
l' avvenire25.

Anche se combattiamo per la libertà di un altro popolo in suolo straniero, dobbiamo rimanere dei patrioti. Se siamo italiani dobbiamo lottare come italiani, esorta Mazzini. Non c'è alcun bisogno di rinunciare al patriottismo per sostenere la causa dell'umanità. Al contrario, la causa dell'umanità può essere sostenuta in modo più efficace edificando prima di tutto la nostra patria. Come individui possiamo fare molto poco per aiutare i fratelli che non appartengono al nostro popolo. Possiamo tutt'al più offrire gesti di carità o scambiare favori occasionali, come buoni vicini, ma non possiamo operare insieme per imprese comuni. È necessario che ci sia un medium fra individuo e umanità, e tale medium sono le nazioni e le libere patrie edificate sopra di esse. Esse sono i mezzi che Dio ha disegnato per realizzare il piano dello sviluppo dell'umanità. Bisogna dunque cominciare dalla nostra patria, non sognare di poter aiutare l'umanità senza prima aiutare la nostra patria.
Lavorando, secondo i veri princìpi, per la patria, noi lavoriamo per l'umanità: la patria è il punto d'appoggio della leva che noi dobbiamo dirigere a vantaggio comune. Perdendo quel punto d'appoggio, noi corriamo rischio di riuscire inutili alla patria e all'umanità. Prima d'associarsi con le nazioni che compongono l'umanità, bisogna esistere come nazione.

Per Mazzini non può esserci contraddizione fra la politica verso i cittadini e la politica verso altri paesi. L'una e l'altra devono ispirarsi al principio della libertà. Il gesuitismo delle potenze europee che tengono la libertà per sacra all'interno e poi violano sistematicamente i diritti degli altri popoli, è intollerabile in nome del patriottismo. Il vero patriottismo esige infatti il pieno rispetto delle nazioni sorelle e il coraggio di opporsi bravamente contro i padroni del mondo, chiunque essi siano. Solo se sarete pronti a sacrificarvi per l'umanità, esorta Mazzini, renderete la vostra patria immortale.
L'amore della patria, diversamente dalle altre passioni, deve procedere dall'universale al particolare. Così Mazzini descrive il proprio patriottismo in una lettera ad un corrispondente tedesco:
Adoro la mia patria, perché adoro la Patria; la nostra libertà, perch'io credo nella Libertà; i nostri diritti, perché credo nel Diritto.

Ma la sua è una descrizione del dovere più che della passione dell'amor patrio. Dovere nel senso dell'obbligo che ciascuno ha di obbedire alla legge di Dio, e infatti usa il verbo 'adorare'. Mazzini vuol dire che l'amore della patria deve essere allargato e nobilitato dall'adesione a princìpi universali. La nostra nazione merita il nostro amore fin quando rimane uno strumento per il bene e il progresso dell'umanità. Le condizioni geografiche, la storia, la tradizione, il linguaggio, i costumi non sono sufficienti a rendere la nazione degna del nostro amore. Tutto questo deve essere illuminato da una luce morale suuperiore che viene dall'impegno per la giustizia e per la libertà di tutti. Se la nostra patria agisce male, essa perde di valore, e né i luoghi, né i costumi, né il linguaggio possono compensare la perdita di valore morale. Non merita più il nostro affetto. Merita anzi di scomparire.
Se essa opera il male, se opprime, se si dichiara missionaria d'ingiustizia per un interesse temporaneo, essa perde il diritto all'esistenza e si scava la tomba.
Ai suoi amici tedeschi, Mazzini spiega che non c'è solo un modo di essere tedeschi. C'è una Germania che opprime e una Germania che esalta la forza della ragione; la Germania di Metternich, e la Germania di Lutero e dei contadini del XVI secolo che proclamarono che il regno di Dio deve riflettersi per quanto possibile in terra. Questa Germania non ha bisogno di espansione; ha solo bisogno di coltivare il proprio patrimonio spirituale e morale. Non ha bisogno, e sono parole significative, di un «gretto nazionalismo». E per «gretto nazionalismo», Mazzini intende la perversione del principio di nazionalità.
Il valore della nazionalità degenera in meschino nazionalismo quando si trascura il principio che «la libertà d'un popolo non può vincere e durare se non nella fede che dichiara il diritto di tutti alla libertà»30. Separato dalla libertà il nazionalismo è per Mazzini null'altro che un'altra maschera del governo illegittimo e ingiusto, e come tale è l'opposto del principio della nazionalità che animava i patrioti europei del 1848. Nazionalità significa affermazione del diritto sulla forza, della fratellanza fra i popoli e impegno a trasformare la mappa politica dell'Europa secondo tali principi. I patrioti amano la propria nazione, ma l'amano in un modo che li spinge a riconoscere come commpatrioti chiunque creda nella libertà. A renderli simili e vicini è proprio il modo in cui ciascuno di essi ama la propria patria; il loro attaccamento generoso alla libertà trascende le barriere della cultura, e, come spesso avviene, la passione che li anima rende possibile il riconoscimento reciproco e l'unità di intenti. Mazzini cercava patrioti di questo tipo e operò perché ogni paese potesse contare su molti di essi. Solo questi patrioti potevano lavorare di concerto, e solo la loro opera comune poteva costruire la nuova umanità che Mazzini agognava.
Come quella di Dante, anche la voce di Mazzini suonò troppo severa agli italiani; il suo appello troppo alto per essere accolto. Quando parlava di Dante come una voce che gridava nel deserto era, senza volerlo, profetico sul proprio destino. Anch'egli visse da esiliato. L'esilio, scriveva nel 1829, è il peggior castigo:

L'Esilio! - Colui che per primo inventò questa pena, non aveva né madre, né padre, né amico, né amante. Egli volle vendicarsi sulle altrui teste, e disse agli uomini suoi fratelli: siate maledetti dall'esilio, com'io sono stato dalla fortuna; siate orfani: abbiate la morte dell'anima; io vi torrò la madre, il padre, l'amante, la patria, tutto, fuorché un soffio di vita, perché voi possiate ramigare, come Caino, nell'universo, col chiodo della disperazione nel petto.

L'esiliato è costretto a vagare in terre straniere, sempre estraneo alle speranze e alle gioie dei popoli. Nel suo cuore c'è un senso di vuoto che non lo abbandona mai. Solo la morte pone fine al suo sconforto, e il pensiero della morte in terra straniera evoca immagini di orrore:

La tomba è più fredda se un suolo straniero copre il cadavere che v'è dentro, e la morte, che appare fantasma di gloria sul campo di guerra, e assume sovente sembianza d'angelo consolatore a chi muore fra le braccia de.' suoi, contrista scheletro ritto, e deforme guanciale del morente in terra straniera.

Mazzini morì in Italia, sotto falso nome. Se avesse vissuto nell'Italia del dopo Risorgimento, avrebbe sofferto una forma di esilio forse peggiore, ovvero un esilio moraale e politico. L'Italia unita non era neppure lontanamente prossima all'ideale della patria per cui aveva lottato tuttta la vita. Avrebbe certo continuato a lottare, ma avrebbe provato lo stesso sentimento di delusione e di distacco che Milton e Rousseau avevano descritto nelle loro lettere. Era la natura del suo patriottismo a renderlo vulnerabile alla delusione e allo sconforto. La patria che amava con tanta intensità era un insieme di ideali politici, di cultura, di luoghi e di memorie. Non era solo l'ideale politico della repubblica, ma senza la repubblica, i luoghi, le memorie e la cultura non erano sufficienti a far sentire il patriota a casa propria nel proprio paese. In una lettera a George Sand dell'ottobre 1848, spiega il senso di lontananza e di sradicamento spirituale che provò durante il suo ultimo viaggio in Italia.
L'ultima emozione che ho provato è stata sulle Alpi, in mezzo alle nevi del San Gottardo; essa attingeva da fonti che non erano la Patria. In Italia, in mezzo alle testimonianze di simpatia che hanno accompagnato il mio arrivo, non ho mai smesso un solo istante di sentirmi in esilio.
Nell'aprile dello stesso anno era stato accolto a Milano come un eroe. Pochi mesi dopo, deluso per il fallimento dei suoi piani per una guerra rivoluzionaria contro l'Austria, dice di sentirsi in esilio in patria. Il suo non era solo risentimento politico; era un sentimento di estraneazione culturale spirituale. Sentiva che non c'era posto per lui, fra un popolo con nobili istinti ma così ignorante da essere facile preda di chiunque voglia ingannarlo, e una classe dirigente ricca di savoir jairema priva di princìpi.
Quindici anni più tardi, l'Italia era quasi interamente unificata e indipendente. Eppure Mazzini non la riconosce come la patria per cui aveva tanto combattuto. I luoghi, le memorie, la lingua, i costumi non bastano a rendere la patria meritevole del suo amore; non compensano la mancanza di un senso di appartenenza morale e politico. Quegli stessi luoghi che ricordati nell'esilio suscitavano la nostalgia e il desiderio di essere in patria, non riuscivano ad attenuare il sentimento di un distacco morale e politico. La partenza e l'esilio erano penosi, ma lo fu anche il ritorno, perché ad accoglierlo c'erano solo luoghi e memorie, non la repubblica.
Come Mazzini stesso riconobbe, gli ideali del 1848 furono sconfitti. Per i patrioti del' 48, le nazioni erano parti dell'umanità. Lottare per la nazione significava dunque lottare per la libertà di ciascun popolo contro il dispotismo e la dominazione straniera con la consapevolezza che la libertà di ciascun popolo esige che sia rispettato e affermato l'uguale diritto di ogni altro popolo alla libertà. Questo concetto era ribadito anche da Carlo Pisacane:
Per esservi nazionalità bisogna che non frappongasi ostacolo di sorta alla libera manifestazione della volontà collettiva, e che veruno interesse prevalga all'interesse universale, quindi non può scompagnarsi dalla piena e assoluta libertà, né ammettere classi privilegiate, o dinastie, o individui la cui volontà, attesi gli ordini sociali, debba assolutamente prevalere: è nazionalità quella che godesi sotto il giogo d'un assoluto sovrano?
Mazzini e Pisacane avevano visto bene. Sotto il giogo di principi e monarchi, la passione generosa del patriottismo fatalmente degenera, e nell'Europa delle monarchie essa divenne infatti «gretto nazionalismo», politica della forza e dell'interesse, ragione di stato.
L'affermazione del nazionalismo sul patriottismo non fu solo un fenomeno italiano. In Inghilterra la demarcazione fra patriottismo radicale e patriottismo conservatore andò gradualmente attenuandosi, particolarmente sotto Palmerston, che si servì spesso della retorica del patriottismo per sottolineare l'unità fra il popolo e il governo nella causa comune del sostegno alle nazioni oppresse in nome della missione storica dell'Inghilterra come paladina della libertà e del diritto nel mondo. E sotto Gladstone, il sostenitore dell'indipendenza italiana, e poi con Distaeli, il linguaggio del patriottismo assunse toni ancora più marcatamente conservatori. Quest'ultimo proclamò esplicitamente che il partito Tory era il partito nazionale e patriottico dell'Inghilterra, e i discorsi che tenne a Manchester nel 1872 sono un esempio illuminante di retorica intesa a trasformare il patriottismo radicale diffuso nella classe operaia inglese in lealtà alla corona sostenuta dall'orgoglio di essere sudditi di un potente impero.
Gli operai sono inglesi fino al midollo. Essi rifiutano i princìpi del cosmopolitismo e accolgono i valori nazionali. Vogliono conservare la grandezza del regno e dell'impero, e sono fieri di essere sudditi del nostro sovrano e membri di un simile impero.
Verso la fine degli anni '70, i conservatori avevano conquistato il monopolio del linguaggio del patriottismo, e l'identificazione della nazione con il conservatorismo divenne una verità di senso comune. I liberali si opposero alll'iniziativa ideologica dei conservatori levando la bandiera del cosmopolitismo e del pacifismo; la classe operaia in parte subì il richiamo del patriottismo conservatore, in parte resistette con l'apatia o cercando di mantenere vivo il linguaggio del patriottismo radicale degli anni '30 e '40, o proclamandosi ostile al patriottismo come tale in nome dell'internazionalismo socialista. '
Nell' epoca dell'imperialismo, ha scritto Hugh Cuninggham, «era impossibile affermare un patriottismo di sinistra; quel linguaggio era passato alla destra e coloro che cercarono di usarlo, fecero altrettanto»36. Le circostanze storiche non erano certamente favorevoli alla sinistra e non era facile contrastare l'offensiva ideologica conservatrice sul terreno del patriottismo. È però lecito chiedersi se la sinistra fece davvero tutto ciò che poteva. Fra le varie forme di controffensiva ideologica, l'abbandono del terreno del paatriottismo in nome del cosmopolitismo o dell'internazionalismo proletario furono sicuramente quelle meno efficaci. Il vecchio linguaggio del patriottismo repubblicano offriva forse armi retoriche più affilate che avrebbero permesso alla sinistra di opporre ai conservatori un'altra interpretazione dell"essere inglese' basata su una tradizione intellettuale radicata nella storia nazionale, come appunto la tradizione repubblicana. Quando Disraeli proclamava che la classe operaia inglese era inglese fino al midollo, la risposta migliore non era: 'no, la classe operaia inglese è internazionalista', ma: 'certo, la classe operaia inglese è inglese fino al midollo, perché essere inglesi significa in primo luogo essere devoti agli ideali della libertà e della giustizia, come hanno insegnato i padri fonda tori della nazione inglese'. Forse non avrebbe funzionato, ma credo che sarebbe stato meglio rispondere in questo modo che lasciare il campo libero.
Anche in Francia patria e repubblica presero strade diverse, e, nonostante l'eredità della rivoluzione, il linguagggio della nazione assunse toni nazionalistici e monarchiici37. Un secolo dopo Valmy, dove le truppe rivoluzionarie combatterono e vinsero al grido di <<Viva la nazione», la destra conquistò il controllo del linguaggio della patria e della nazione. Anche qui 'nazione' e 'destra' divennero sinoonimi. Per Charles Maurras, per menzionare un caso estremo ma indicativo, essere patriota francese vuol dire combattere la République perché lo spirito repubblicano distrugge la forza della nazione e favorisce la diffusione di idee religiose estranee al cattolicesimo francese. La lealtà del patriota deve andare al monarca, non alla repubblica, perché quello e non questa è il vero protettore della libertà, dell'onore e della prosperità della nazione.
Per il fondatore della League d 'Action Française, nazionalismo vuoI dire impegno a proteggere l'integrità culturale e religiosa della nazione contro «gli stranieri interni», ovvero i sostenitori di idee e valori estranei all'identità spirituale della Francia. Il nazionalismo deve operare come turaI e e un criterio legittimo per risolvere le controversie sui confini rispettando la libertà dei popoli. Renan intendeva fare opera di chiarificazione intellettuale e di persuasione politica. A tal fine infuse nel concetto di nazione alcuni frammenti del linguaggio del patriottismo ereditati dal Settecento. Il suo sforzo andava in direzione opposta rispetto alle tendenze intellettuali dominanti nell'Europa della fine déll'Ottocento che operavano per dissolvere i valori politici della patria nell'unità spirituale della nazione. L'ideale di una repubblica di cittadini che vivono insieme in libertà e si autogovernano perse quasi interamente il suo fascino rispetto all'ideale della nazione come comunità di cultura, di linguaggio e di origini etniche. La cosa più importante non era essere cittadini italiani, o francesi, o inglesi, o tedeschi, ma essere italiani, o francesi, o inglesi, o tedeschi, non importa se sudditi di un re o di un imperatore. Separato dalla repubblica, l'ideale della nazione non attraeva più democratici e radicali, mentre l'ideale della patria, ormai confuso con la nazione, perse il contenuto di libertà che era stato per secoli il suo caratttere distintivo.

Epilogo
PATRIOTTISMO SENZA NAZIONALISMO

Alla fine dell'Ottocento il linguaggio del nazionalismo aveva assorbito, trasformandone i contenuti, la vecchia tradizione del patriottismo. Reso pressoché irriconoscibile, il linguaggio del patriottismo ebbe vita stentata ai margini del pensiero politico contemporaneo. Eppure, quando popoli e gruppi dovettero impegnarsi in lotte per la libertà, e quando dovettero cimentarsi nel difficile compito di ricostruire le proprie nazioni dopo le distruzioni della guerra e i guasti dei regimi totalitari, i teorici e i militanti più sensibili riuscirono a riscoprire sotto la retorica dominante del nazionalismo i temi e le parole del vecchio linguaggio del patriottismo. I loro sforzi furono storicamente importanti e teoricamente significativi perché suggerirono la via da percorrere per ricostruire un patriottismo senza nazionalismo. Gli esempi forse più significativi di riscoperta e rinnovamento del linguaggio del patriottismo si possono trovare negli scritti di Carlo Rosselli. In Socialismo liberale, scritto nel 1929, Rosselli sottolineava che l'insistenza dei socialisti ad ignorare «i valori più alti della vita nazionale» era un grave errore ideale e politico. Anche se lo facevano per «combattere queste forme primitive o degenerate o interessate di attaccamento al paese», la loro politica finiva col «facilitare il gioco delle altre correnti che nello sfruttamento del mito nazionale basano le loro fortune».
Per Rosselli, i socialisti non avevano capito che il «sentimento di nazionalità» non è una costruzione artificiale, ma una genuina passione umana, particolarmente forte fra quei popoli che hanno conquistato tardi la loro indipendenza. Invece di cercare di sostituire il sentimento nazionale con l'internazionalismo, i socialisti dovrebbero operare per purificare il sentimento nazionale da ogni commistione con il culto dello stato, con il nazionalismo, e con qualsivoglia mito del primato nazionale per trasformarlo in una forza politica costruttiva operante per l'unità dell'Europa.
Rosselli poneva una demarcazione netta fra patriottismo e nazionalismo. Identificava il primo con gli ideali di libertà basati sul rispetto per i diritti degli altri popoli; il secondo con la politica di espansione perseguita dai regimi reazionari. Entrambi si appellano al sentimento nazionale, entrambi suscitano passioni forti, ma proprio per questo essi dovevano essere usati l'uno contro l'altro. Invece di condannare il sentimento nazionale come un pregiudizio, gli antifascisti, sottolineava Rosselli, devono porre il patriottismo al centro del loro programma politico. La rivoluzione antifascista, scriveva, è «un dovere patriottico.
Per avere un proprio patriottismo, gli antifascisti hanno bisogno di un'idea di patria totalmente diversa da quella usata dai demagoghi del fascismo. La nostra patria, scrive, «non si misura a frontiere e cannoni, ma coincide col nostro mondo morale e con la patria di tutti gli uomini liberi. È un valore che si sposa perfettamente con gli altri valori dell'antifascismo: la dignità dell'uomo, la libertà, la giustizia, la cultura, il lavoro. I fascisti esaltano la nazione e l'Italia; anche gli aritifascisti devono presentarsi come i difensori della nazione e dell'italianità, ma la loro nazione deve essere la libera nazione aperta all'Europa e al mondo, e la loro Italia deve comprendere l'Italia migliore, l'Italia di Mazzini, di Garibaldi, di Pisacane; l'Italia degli italiani civili, dei contadini e degli operai e degli intellettuali che hanno saputo conservare la propria dignità. La lealtà degli antifascisti deve andare solo a questa Italia e non deve spaventarli l'accusa di essere dei traditori: «noi possiamo vantarci di essere traditori coscienti della patria fascista; perché ci sentiamo fedeli ad un'altra patria».
Pochi anni più tardi, un'altra militante antifascista, Simone Weil, seppe trovare la via per riscoprire idee e temi del patriottismo repubblicano con i quali ricostruì i lineamenti di un patriottismo ben distinto dal nazionalismo. Mi riferisco al saggio L'enracinement, scritto a Londra nel 1943, su sollecitazione della resistenza francese. Riflettendo sulla possibilità di una rigenerazione morale della Francia, Simone Weil propone un patriottismo fondato sulla libertà e sulla compassione che risponde al bisogno umano di radicamento culturale e spirituale senza identificarsi né con l'attaccamento cieco al proprio paese, né con l'orgoglio per l'unicità e la grandezza della nazione. L'obbligo che abbiamo verso la patria, scrive, si basa sul bisogno vitale di radicamento:
Come esistono cambiamenti di coltura per certi animali microscopici, o terreni indispensabili per certe piante, così c'è in ognuno una certa parte dell'anima e certi modi di pensare e di agire che circolano dagli uni agli altri, e possono esistere solo nell'ambiente nazionale e spariscono quando un paese viene distrutto.
Per i francesi, ai quali erano rivolte le pagine de L'enracinement, l'ambiente vitale è la Francia.
Sanno che una parte della loro anima è talmente legata alla Francia che se la Francia le viene tolta quella parte vi rimane aderente, come la pelle ad un oggetto bruciato, fino a lacerarsi. C'è quindi qualcosa cui è unita una parte dell'anima di ogni francese, la medesima per tutti, unica, reale benché impalpabile, e reale come le cose che si toccano.
È una forza spirituale che non diminuisce quando ci troviamo di fronte ai crimini, agli scandali, alle ingiustizie e alle menzogne, anche se la vista è penosa. Ci vergognamo, ma non volgiamo lo sguardo altrove, né rinunciamo alla nostra cittadinanza.

Per la compassione, anche il delitto è motivo, non già di allontanamento, bensì di ravvicinamento, per condividere non la colpevolezza ma la vergogna.

Il patriottismo della compassione di Simone Weil è un antidoto potente contro l'amore nazionalista della patria che spinge a difendere la cultura e la storia nazionali nella loro interezza perché sono 'nostri'. Come il patriota, anche il nazionalista guarda alla storia della sua patria e si sente vicino ad essa; ma diversamente da quello non vede ragioni per vergognarsi. Il divino e l'eterno sono ovunque e in ogni momento. La sua cultura nazionale gli appare come un tesoro minacciato dall'intrusione di idee straniere e dalla debolezza e dalla corruzione dei suoi compatrioti. Il patriota vede un quadro fatto di luci e ombre, di grandezze e glorie passate e presenti, ma anche di crimini, di miserie, di menzogne anch'esse passate e presenti. Non volta le spalle, non cerca di dimenticare. Accetta tutto, ma non si sente partecipe di tutta la storia e tutto il presente della nazione. Alcuni momenti infondono gioia, altri vergogna, altri indignazione, e questi ultimi sono i sentimenti che accompagnano più spesso l'amore della patria.

Le pagine di Simone Weil sono una testimonianza della sorprendente capacità che significati e linguaggi hanno di tornare ad essere parte della vita intellettuale. Altrettanto sorprendente, anche se intellettualmente meno raffinata, è la rinascita del linguaggio del patriottismo nell'Italia del 1943-45. Una rinascita tanto più sorprendente se si tiene presente che in Italia il linguaggio del patriottismo era stato trasfigurato prima dalla retorica monarchica, poi da quella fascista. Un articolo apparso su un quotidiano romano del 1943 esprime con efficacia il diffuso senso di disgusto per la retorica patriottica:


Il nostro famoso Risorgimento non finisce mai: abbiamo cominciato dall'Eritrea, poi la Libia, poi la guerra mondiale, per ottenere un pezzaccio di terra al sole ci siamo andati a impelagare in Abissinia, poi ci siamo andati a battere la testa in Spagna, poi siamo andati a finire in Russia. Dove, dove mai andremo a finire di questo passo!

Eppure, quelle stesse parole che per decenni erano suonate false e odiose, suonarono d'un tratto vere; acquiistarono nuovi significati e nuovo fascino. Non evocavano più immagini di patetiche aggressioni coloniali; ispiravano invece immagini e speranze di libertà, stimolavano un impegno generoso. Fu una vera scoperta morale e intellettuale. La descrive bene un passo di Pietro Chiodi:

Non mi ero mai accorto che il Liceo fosse così splendente e pieno di luce. Sento che è una piccola parte della mia Patria. Quella parte in cui io sono chiamato a compiere il mio dovere verso di lei. È la prima volta che mi accorgo di avere una Patria come qualcosa di mio, affidato, in parte, anche a me, alla mia intelligenza, al mio coraggio, al mio spirito di sacrificio.

La riscoperta della patria è descritta con il linguaggio degli affetti e dell'amore: amore di luoghi che assumono nuovi significati e di persone sentite come vicine e care in modo nuovo. Un amore che cambia la vita perché fa diventare coloro che lo avvertono più generosi, più inclini alla solidarietà e alla comprensione. Natalia Ginzburg ha descritto la riscoperta dell'amore della patria in una pagina esemplare:

Le strade e le piazze delle città, teatro un tempo della nostra noia di adolescenti e oggetto del nostro altezzoso disprezzo, diventarono i luoghi che era necessario difendere. Le parole «patria» e «Italia", che ci avevano tanto nauseato fra le pareti della scuola perché accompagnate dall'aggettivo «fascista», perché gonfie di vuoto, ci apparvero d'un tratto senza aggettivi e così trasformate che ci sembrò di averle udite e pensate per la prima volta. D'un tratto alle nostre orecchie risultarono vere. Eravamo là per difendere la patria e la patria erano quelle strade e quelle piazze, i nostri cari e la nostra infanzia, e tutta la gente che passava. Una verità così semplice e così ovvia ci parve strana perché eravamo cresciuti con la convinzione che noi non avevamo patria e che eravamo venuti a nascere, per nostra disgrazia, in un punto gonfio di vuoto. E ancor più strano ci sembrava il fatto che, per amore di tutti quegli sconosciuti che passavano, e per amore di un futuro ignoto ma di cui scorgevamo in distanza, fra privazioni e devastazioni, la solidità e lo splendore, ognuno era pronto a perdere se stesso e la propria vita.

Perdersi per ritrovarsi più ricchi; dare la vita per gente che non appartiene alla nostra cerchia più intima di affetti, ma cammina sulle nostre stesse strade; aver voglia di impegnarsi per un futuro migliore ancorché vago e incerto; scoprire un bene comune che merita di essere difeso e che si percepisce nelle strade e nelle piazze delle città: tutti momenti di patriottismo nella sua forma più genuina, ed erano sentimenti diffusi durante la Resistenza e negli anni della ricostruzione che non si tradussero però nella rinascita di un nuovo linguaggio e di una nuova cultura del patriottismo. Gli intellettuali italiani non riuscirono a tradurre quelle passioni e quei sentimenti in cultura; non seppero dire che patria vuol dire libertà comune, e che l'amore della patria è un impegno generoso che non ha nulla in comune con il nazionalismo. Gli italiani, notava Croce nel 1943, avevano riscoperto la parola 'libertà', ma non le parole che ne erano state per secoli le fedeli compagne, ovvero 'patria' e 'amore della patria'. Questo avvenne perché il patriottismo era stato sostituito dal nazionalismo. Anche se i fascisti erano soliti accusare gli oppositori di essere antinazionali più che antipatriottici, la loro propaganda ebbe l'effetto di confondere i concetti di patriottismo e di nazionalismo e le diverse passioni legate all'uno e all'altro, e per ripugnanza verso il nazionalismo gli italiani non parlarono più di patria e di amor di patria.
Anche se la riluttanza degli italiani è del tutto comprensibile, osserva Croce, il concetto di amor di patria avrebbe dovuto essere usato contro il cieco e stolido nazionalismo perché lungi dall'essere simile ad esso ne è l'antitesi. Fra l'amore della patria e il nazionalismo c'è la stessa differenza che corre fra «la gentilezza dell'amore umano per un'umana creatura» e "la bestiale libidine o la morboosa lussuria o l'egoistico capriccio». L'amore della patria è un concetto morale che dà contenuto ai più nobili ideaali e ai doveri più austeri. Ci fa sentire e gli ideali e i doveri più vicini e ci dà motivazioni forti per realizzare i primi e assolvere i secondi. Lavorando per la nostra patria, sottoliinea Croce, lavoriamo infatti per l'umanità; e non va dimenticato che l'idea di patria è intimamente legata a quellla di libertà. Quando lamentiamo la perdita della nostra dignità di cittadini e della nostra libertà in quanto uomini, lamentiamo le offese e le umiliazioni inflitte all'Italia. Se l'amore della patria si riaccendesse' nel cu0.re degli italiani, concludeva Croce, i partiti politici troverebbero in esso un fondamento comune, un ideale superiore agli interessi di parte che sarebbe utile, anzi necessario, a garantire lo svolgersi del conflitto politico. Il patriottismo inteso nel suo significato autentico avrebbe dunque potuto essere il fondamento di una sana, dinamica e aperta società liberale. Da quando Croce scriveva queste parole fino ai giorni nostri gli intellettuali italiani hanno ripetuto infinite volte che gran parte dei mali dell'Italia deriva dalla mancanza di una solida cultura liberale. È vero, ma hanno dimenticato di aggiungere che senza patriottismo non si costruisce e non si conserva una buona società liberale. L'analisi è rimasta incompleta e la parte che mancava non era un abbellimento retorico, ma lo strumento necessario a dare forza al progetto liberale, come insegna l'esperienza dei paesi dove quel progetto ha avuto vita migliore.
La distinzione fra patriottismo e nazionalismo, che Croce esortava a riscoprire, è ancor oggi al centro delle discussioni fra filosofi politici. Il linguaggio del patriottismo è usato tutt'ora per sostenere l'impegno per l'ideale della repubblica, mentre il linguaggio del nazionalismo, nella variante che va sotto il nome di comunitarismo, è usato per rivendicare o difendere i valori dell' omogeneità culturale, religiosa o etnica. E la discussione contemporanea rivela che nonostante le possibilità pressoché infinite del linguaggio, le tradizioni intellettuali contano e ritornano. Definiscono confini, ma offrono anche possibilità interpretative; ci aiutano a rendere i nostri discorsi più precisi e retoricamente più efficaci.
Un esempio della presenza dei temi del patriottismo repubblicano nella discussione contemporanea sono le riflessioni di jirgen Habermas sull'identità nazionale e la cittadinanza. Nella storia europea, osserva Habermas, lo stato-nazione ha forgiato l'omogeneità etnica e culturale che ha garantito il fondamento necessario alle istituzioni liberali e democratiche. Lo stato nazionale e la democrazia sono fratelli nati all' ombra del nazionalismo. In Germania, tuttavia, il nazionalismo si è affermato contro lo spirito repubblicano ed è degenerato nelle aberrazioni razziste che hanno giustificato l'olocausto. Dal 1871 al 1945 la parola 'nazione' ha significato unità e purificazione da perseguire per mezzo dell'espulsione o dell'emarrginazione dei nemici della comunità nazionale (Volksfremmde). A questo nazionalismo, Habermas oppone un «patriottismo costituzionale» (Verfassungspatriotismus), ovvero un patriottismo fondato sulla lealtà ai principi politici universalistici della libertà e della democrazia incorporati nella costituzione della Repubblica Federale Tedesca.
Diversamente dal nazionalismo, il patriottismo costituzionale separa l'ideale politico della nazione di cittadini dalla concezione del popolo inteso come un'unità prepolitica di linguaggio e di cultura. Questo tipo di patriottismo riconosce la piena legittimità e dignità morale dei diversi stili di vita e accetta l'esistenza di diverse culture all'interno della repubblica. Per questa ragione, 'il patriottismo costituzionale è il solo patriottismo possibile in Germania dopo Auschwitz.
Habermas separa il patriottismo costituzionale dal nazionalismo e lo collega allo spirito del 1848, quando per l'ultima volta nella storia tedesca la coscienza nazionale (Nationalbewufitsein) e lo spirito repubblicano (republikaniische Gesinnung) erano uniti. Ma separa il patriottismo coostituzionale anche dal repubblicanesimo, che considera una tradizione intellettuale derivata da Aristotele «<auf Aristoteles zuriickgreifende republikanische Tradition der Staatslehre») basata sul principio della cittadinanza come appartenenza ad una comunità etico-culturale che si autogoverna «<Zugehorigkeit zu einer sich selbst beestimmenden ethisch-kulturellen Gemeinschaft» )20. Il reepubblicanesimo, identico in questo al comunitarismo, è per Habermas una dottrina che considera i cittadini come parti della comunità che possono sviluppare ed esprimere la propria identità morale solo all'interno di una comune tradizione e di una comune cultura. Una simile teoria della cittadinanza, conclude Habermas, non può funzionare in società pluralistiche e non offre valido sostegno per un patriottismo adatto ad una nazione di cittadini (Staatsbiirgernation).
L'interpretazione del repubblicanesimo come una tradizione intellettuale derivata da Aristotele è un grave errore storico. Il repuhblicanesimo moderno, e soprattutto le teorie repubblicane della cittadinanza e del patriottismo devono molto di più agli autori repubblicani romani che ad Aristotele. Se si studia la letteratura umanistica e pre-umanistica sul governo repubblicano, e se si presta attenzione ai testi dei giuristi che ricostruirono la teoria della cittadinanza, emerge con tutta evidenza che quelle dotttrine erano ricavate quasi per intero da fonti romane. Anche dopo la diffusione della Politica di Aristotele, il nucleo centrale delle teorie repubblicane della cittadinanza e del patriottismo rimase romano, come dimostra il caso di Machiavelli e degli altri teorici repubblicani moderni.
Per questi autori essere cittadini non significa tanto appartenere ad una comunità etno-culturale che si autogoverna, ma l'esercizio e il godimento dei diritti civili e politici che derivano dall'appartenenza ad una respublica, o Givitas, ovvero ad una comunità politica, prima che culturale o etnica, fondata al fine di permettere agli individui di vivere insieme nella giustizia e nella libertà sotto il governo della legge. Amare la patria per gli autori repubblicani voleva dire, come spero di aver illustrato, amare la repubblica, ovvero la libertà comune e le leggi, e l'uguaglianza civile e politica che la repubblica protegge.
Anche se Habermas è di parere diverso, il patriottismo costituzionale non rappresenta affatto una rottura con la tradizione repubblicana, ne è piuttosto una nuova versione. Non solo ristabilisce l'idea che amore della patria significa in primo luogo amore della repubblica, ma riconosce, pur con qualche incertezza, che la repubblica che deve essere oggetto dell'amore dei cittadini è la loro particolare repubblica; non la libertà e la democrazia in generale, ma le istituzioni della libertà e della democrazia che i cittadini hanno costruito in un particolare contesto e il modo di vita come cittadini di quella particolare repubblica. Per vivere nel cuore e nella mente dei cittadini tedeschi il patriottismo costituzionale, osserva Habermas, deve avere per loro un significato particolare. Non può essere presentato come attaccamento ai valori universali della democrazia, ma come un attaccamento ai valori della democrazia che sono incorporati nelle istituzioni e nei documenti politici della Repubblica Federale Tedesca. Per i tedeschi il patriottismo costituzionale implica anche l' orgoglio di aver costruito e conservato istituzioni democratiche che sono durate più a lungo del nazismo. La democrazia ha quindi per i tedeschi un significato particolare. È una democrazia nata dalle ceneri di Auschwitz, e questo significato particolare non va dimenticato, perché senza contenuti particolari i princìpi politici non vivono.
La teoria del patriottismo costituzionale di Habermas è stata discussa da Gian Enrico Rusconi in un libro che ha aperto un dibattito importante sul significato dell'identità nazionale. Habermas, sostiene Rusconi, separa la cittadinanza, che definisce in base a princìpi politici universalistici, dal sostrato storico e culturale specifico della nazione. Seppur motivato dall'intento lodevole di contrastare l'interpretazione nazionalistica del concetto di «nazione culturale», la teoria del patriottismo culturale trascura il fatto che il tipo normale di identità nazionale occidentale si basa su di una sintesi di princìpi universalistici di cittadinanza e dati e forme di vita prepolitici di carattere etnoculturale.
La «cittadinanza culturale» delle società democratiche moderne si conserva e fiorisce, per Rusconi, non contro, ma grazie a o all'interno di contenuti etno-culturali. La nazione è parte del mondo vitale e quindi opera come concreto contesto storico entro il quale si sviluppa il discorso democratico universalistico dei cittadini moderni. Se non si tiene conto del fatto che la «nazione dei cittadini» non vive contro o al di fuori della cultura nazionale, non ha senso collegare, come fa Habermas, il concetto formale-legale di costituzione con parole come 'patria' e 'patriottismo' che sono cariche del pathos che viene dalla connessione con il mondo vitale. Un'interpretazione corretta del «patriottismo della costituzione» dovrebbe dunque interpretare la solidarietà civile come conseguenza del riconoscimento dell'appartenenza ad una cultura e ad una storia comuni.
Contro la separazione che Habermas introduce fra cittadinanza e nazione, Rusconi sottolinea che bisogna invece rendere la concezione della cittadinanza concreta, ovvero legata al mondo vitale. Se ci affidiamo solo alla ragione universalistica, senza ricorrere ad argomenti che si riferiscono ad una storia e ad un'origine comuni, non possiamo capire né incoraggiare l'impegno civile. Una cultura civile sostenuta dall'attaccamento al bene comune esiste solo se si radica in una tradizione e in una identità nazioonali. La lealtà civile e la solidarietà di cui la democrazia ha bisogno per funzionare, non nascono dai princìpi universalistici della cittadinanza, ma dall'identificazione con la concreta comunità politica e culturale che si chiama naazione28. La nazione democratica si basa dunque su vincoli di cittadinanza fatti di radici etno-eulturali e da buone ragioni politiche per vivere insieme. È demos, ovvero appartenenza volontaria alla comunità politica, ed ethnos, ovvero attaccamento a radici storiche e culturali comuni.
Rusconi ha ragione a sottolineare che la democrazia ha bisogno di virtù civile tanto nei cittadini quanto nei goverrnanti. E ha del pari ragione quando sostiene contro Habermas che nei cuori e nelle menti dei cittadini la virtù civile non vive perché sostenuta dai valori politici universalistici, ma dall'identificazione con la cultura particolare di un popolo. Credo tuttavia che la democrazia non abbia bisogno di quel tipo di virtù civile che Rusconi auspica. Se vogliamo rafforzare la cittadinanza democratica, se vogliamo incoraggiare l'impegno dei cittadini a sostenere la libertà comune e a fare la propria parte di doveri sociali, allora bisogna rafforzare l'amore della libertà comune, non l'attaccamento ai valori etno-eulturali della nazione. Abbiamo bisogno della patria, non della nazione. Non dobbiamo cercare di irrobustire l'italianità degli italiani proteggendo la loro unità etnica e culturale, ma lavorare sui valori politici della cittadinanza democratica e difenderli come valori che sono parte della cultura del popolo italiano. Fra 'essere italiani' e 'essere buoni cittadini' non c'è una correlazione necessaria; non c'è bisogno di essere genuinamente italiani, nel significato etno-culturale, per essere buoni cittadini, mentre si può essere purissimi italiani, ancora nel senso etno-culturale, ed essere pessimi cittadini.
L'identità culturale e l'identità politica sono legate fra loro in modo diverso da come sembra ritenere Rusconi. L'appartenenza etno-culturale ha un significato politico e l'identità politica è anche cultura. La memoria storica di un popolo, che è una componente fondamentale della sua cultura politica, è complessa, controversa, aperta ad un lavoro di interpretazione e di reinterpretazione che è sempre politicamente orientato. Al tempo stesso i valori politici della cittadinanza democratica non sono costruzioni universalistiche della ragione impersonale, ma in quanto valori vissuti e condivisi sono anche cultura. I cittadini sono attaccati, quando lo sono, non a princìpi astratti di giustizia e di libertà, ma ad un modo di vita informato a quei princìpi, a una libertà e a una giustizia che è parte della loro cultura, che ha per loro una particolare bellezza e un particolare calore che nascono da memorie e storie particolari. Machiavelli parlava infatti di «vivere libero», e quando racconta episodi di patriottismo come amore della comune libertà, intende l'amore della libertà di quel particolare popolo. L'identità etnole e i valori politici della democrazia non sono né connessi per implicazione, nel senso che data la prima seguono i secondi, né possono essere separati ponendo i primi sotto la rubrica della particolarità e i secondi sotto quella dell'universalità. L'identità culturale e i valori politici si sovrappongono e sono possibili diverse combinazioni; ci sono molti modi di essere culturalmente italiani, e una di queste è vivere come cittadini italiani in un senso culturale e politico.
Per separarsi dal nazionalismo tedesco, Habermas rende la cittadinanza più universale e più politica possibile; per distinguersi da Habermas, Rusconi rende la cittadinanza più nazionale possibile. L'uno e l'altro vanno troppo lontano, seppur in direzioni opposte. Il patriottismo costituzionale di Habermas rischia di non rispondere all'esigenza dell'identità nazionale tedesca. La stessa vicenda dell'unificazione indica che per i tedeschi essere tedeschi non vuol dire solo essere leali ai princìpi della costituzione tedesca. Rusconi dal canto suo sembra voler rendere gli italiani più italiani per fame dei cittadini migliori di quanto non siano. Il pericolo è che diventino solo troppo italiani, ovvero desiderosi di affermare e difendere la purezza della loro identità etno-culturale. Se lavoriamo sull'italianità, rischiamo di dimenticare il cittadino per strada. Sia Habermas che Rusconi non suggeriscono un linguaggio del patriottismo che sappia connettere in modo adeguato l'amore politico della repubblica e l'attaccamento alla propria cultura nazionale.
Il senso di appartenenza ad una comunità nazionale si può tradurre in virtù civile solo se è sostenuto da una cultura della cittadinanza. Senza una cultura politica della libertà, il sentimento di appartenenza ad una comunità culturale genera un attaccamento alla propria cultura e il desiderio di mantenerla pura da contaminazioni esterne. In questo caso avremmo certo la nazione, ma non sarebbe una nazione di cittadini. Nel mondo odierno la tentazione di essere solo membri di una nazione è anche troppo forte; non c'è nessun bisogno di incoraggiare l'aspirazione all'unità etno-culturale. Invece di recuperare i valori etnoculturali, bisogna pensare a strumenti e pratiche politiche e istituzionali che sappiano educare cittadini democratici. E questi mezzi politici sono ancora quelli raccomandati dagli scrittori politici repubblicani, ovvero il buon governo e la partecipazione bene ordinata nelle diverse istanze della società civile e della vita democratica. La democrazia non ha bisogno di unità etnica o culturale; ha bisogno di cittadini che amano il modo di vita della repubblica.
Mentre Habermas e i suoi critici hanno affrontato il problema del patriottismo come problema eminentemente politico, altri studiosi lo hanno affrontato come problema eminentemente morale. Mi riferisco ai teorici che sostengono che poiché patriottismo significa lealtà ai valori morali condivisi da una comunità e poiché la comunità è la condizione necessaria perché l'individuo possa vivere una vita morale ricca e significativa, il patriottismo deve essere considerato una virtù anche se contraddice i princìpi della morale universalistica. Il patriottismo, sostiene ad esempio Alasdair MacIntyre, è una «forma di lealtà verso una particolare nazione che solo chi appartiene a quella nazione può avere»30. Non è una lealtà cieca, ma una lealtà che implica una considerazione speciale per le caratteristiche, i meriti e le realizzazioni della propria nazione. Il carattere essenziale della lealtà patriottica è dunque la particolarità. Il patriota, spiega MacIntyre, considera come meriti e pregi certe caratteristiche particolari della sua nazione non perché li valuta come meriti e preegi in assoluto ma perché sono meriti e pregi della sua nazione. Meriti e pregi simili, ma di un'altra nazione non suscitano nel cuore del patriota lo stesso attaccamento. Anche se non è cieco rispetto alle altre nazioni, il patriota non guarda ad esse con gli stessi occhi. Il patriottismo è una forma di amore e come tale si rivolge sempre e solo a individui, luoghi, gente particolari. Diversamente dal patriottismo costituzionale di Habermas che cerca l'approvazione della ragione, il patriottismo di MacIntyre è una passione, e come tale deve rispondere all'accusa di essere irrazionale:

Poiché la moralità del patriottismo è definita in termini di appartenenza ad una comunità particolare con una particolare struttura sociale, politica ed economica, essa deve escludere dalla valutazione critica perlomeno alcune strutture fondamentali della vita della comunità. Poiché il patriottismo deve essere una lealtà per certi aspetti incondizionata, per quegli specifici aspetti la critica razionale deve essere lasciata da parte. Ma se questo è il caso, i sostenitori della morale del patriottismo si condannano ad assumere una posizione irrazionale; rifiutarsi di esaminare criticamente le proprie convinzioni fondamentali significa insistere nell'accettarle, che siano razionalmente giustificabili o meno, e questo è irrazionale. E i sostenitori della morale del patriottismo sono prigionieri di questa irrazionalità.

I sostenitori della morale del patriottismo possono rispondere che essa giustifica vincoli e lealtà che sono essenziali per la vita morale dell'individuo. Per dare un senso alla storia della nostra vita e quindi per vivere una vita morale significativa, abbiamo bisogno di vivere entro una comunità nazionale. È dunque perfettamente razionale avere e coltivare una lealtà particolare alla nazione. Il patriota, spiega infatti MacIntyre, sottrae alla critica della ragione universalistica la nazione «intesa come un progetto, come progetto nato in qualche modo nel passato e continuato nel tempo in modo da realizzare una particolare comunità morale che rivendica autonomia politica nelle sue diverse forme istituzionali»32. La sua lealtà non va dunque alla nazione senza aggettivi, ma alla nazione che riconosce la propria storia e mantiene vivi vincoli autentici di comunità.

Contro l'universalismo della morale liberale, MacIntyre invoca i diritti delle lealtà particolari e il valore dell'appartenenza ad una comunità nazionale come condizioni necessarie per la vita morale. I soli requisiti che la comunità nazionale deve possedere per meritare la lealtà del patriota è di essere fedele alla propria storia e di non avere sostituito i vincoli morali e spirituali con mere relazioni di interesse34. Per ottenere la lealtà del patriota, la nazione non deve essere necessariamente giusta verso i suoi membri. Il patriottismo, spiega MacIntyre, non è in primo luogo gratitudine per i benefici ricevuti, né deve necessariamente garantire le libertà civili e politiche. Se la nazione conserva la propria identità storica e culturale, e mantiene vivi i vincoli di comunità, ha perfettamente senso essere patrioti, ovvero coltivare per la nostra nazione una lealtà speciale.
Come i teorici del nazionalismo, anche MacIntyre considera i valori dell'appartenenza alla comunità nazionale superiori rispetto ai valori politici della repubblica. Ma la lealtà e l'amore sono passioni importanti. Proprio perché possono esigere da noi sacrifici seri, abbiamo il diritto di essere esigenti rispetto agli oggètti della nostra lealtà 'e del nostro amore. Possiamo fare delle distinzioni all'interno della nazione intesa come progetto che ha dato vita ad una comunità dotata di una sua particolare fisionomia morale. Se esigiamo, come condizione della nostra lealtà, che la nostra comunità nazionale rispetti i valori della libertà e della giustizia, questo non significa abbracciare una fredda morale universalistica. Chi anela ad essere parte di una comunità che ha una sua particolare fisionomia storica e culturale non deve preoccuparsi di fronte alle richieste del patriota repubblicano che vuole che la sua patria sia prima di tutto una buona repubblica. Anche il patriota repubblicano ama la sua patria ed è leale verso di essa; la differenza sta nel fatto che egli ama la sua patria nella forma migliore che essa può assumere.
Diversamente da MacIntyre, che sostiene che il patriottismo è lealtà ai valori della nazione, altri teorici contemporanei hanno sostenuto che il solo tipo di patriottismo possibile e accettabile in società multi culturali è quello basato sui valori della repubblica. La nazione, ha scritto Michael Walzer, non è mai stata per gli americani un oggetto di impegno e di lealtà perché la società americana non ha l'unità culturale, etnica e religiosa che la devozione nazionalista richiede. Il solo tipo di impegno compatibile con il pluralismo della società americana, è l'impegno per la repubblica: «è una lealtà politica».

Il patriottismo degli americani può essere solo un patriottismo di carattere principalmente politico, sostenuto con mezzi politici, ovvero tramite la partecipazione alla vita politica. Cercare di rafforzare il patriottismo riducendo il pluralismo morale, culturale e religioso della società americana, non sarebbe solo impossibile, ma anche pericoloso. In un popolo come il nostro, osserva Walzer, una comunità di patrioti deve essere sostenuta solo dalla politica, da una politica democratico-socialista che si proponga di allargare la partecipazione ai processi decisionali e di consolidare le pratiche della cittadinanza senza limitare la vita privata e i valori liberali o auspicare un revival religioso o la restaurazione di una qualche forma di unità culturale. Per quanto possa sembrare strano, la via che porta al patriottismo è quella del socialismo democratico.

L'idea che il solo patriottismo possibile e desiderabile negli Stati Uniti è un patriottismo politico, è stata sostenuta anche da John H. Schaar. Come Walzer, Schar sostiene che gli americani non hanno un attaccamento alla patria intesa come luogo natio:

Noi non amiamo e non possiamo amare questa terra nel modo in cui i Greci e i Navaho amavano la loro. Certo, le tombe di alcuni dei nostri antenati sono qui, ma molti di noi farebbero molta fatica a rispondere alla domanda «dove sono le tombe dei vostri bisnonni». Il suolo americano non ci è stato affidato da un Grande Spirito" e sulla nostra terra non ci sono migliaia di luoghi consacrati a deità minori. Emancipati dal panteismo, non viviamo immersi in un ambiente vivificato da fontane e boschi sacri. Abbiamo preso la terra da altri popoli che per noi non avevano alcun valore.

Il patriottismo degli americani non è neppure un attaccamento alla città. Le città americane sono nate e si sono sviluppate soprattutto dietro la spinta della ricerca del profitto senza concedere quasi nulla al sacro e alla tradiizione. Il patriottismo americano non è e non può essere dunque un amore della patria basato sul sangue, sulla religione, sul suolo o sulla città, ma è e può essere solo una «idea politica», come spiegò con grande efficacia Lincoln in un discorso tenuto nella City Hall di Philadelphia.

Abbiamo fra di noi accanto a questi uomini - che discendono dai nostri progenitori - metà del nostro popolo che non discende affatto dai nostri progenitori; sono uomini che vengono dall'Europa - dalla Germania, dall'Irlanda, dalla Francia e dalla Scandinavia - uomini che sono venuti qui e si sono stabiliti fra noi, accolti come uguali. Se guardano indietro nella storia per tracciare una relazione diretta di sangue, non ne troveranno alcuna in questo suolo, non possono spingersi fino all'epoca gloriosa della Guerra d'Indipendenza e sentirsi parte di noi, ma quando guardano a quella vecchia Dichiarazione d'Indipendenza, essi scoprono che quegli uomini di un altro tempo dissero: «noi consideriamo queste verità autoevidenti, che tutti gli uomini sono creati uguali», e allora essi sentono che quel sentimento morale professato allora mette in evidenza la loro relazione con quegli uomini, che è l'origine di tutti i principi morali, e che essi hanno il diritto di esigerlo come se fossero dello stesso sangue e della stessa carne degli uomini che scrissero quella Dichiarazione, e infatti lo sono. Questa è la corda elettrica in quella Dichiarazione che lega insieme i cuori dei patrioti e degli uomini che amano la libertà, e che legherà sempre quei cuori patriottici fin quando l'amore della libertà esisterà nella mente degli uomini nel mond038.
Come ha scritto Schaar, Lincoln propone una definizione «rigorosamente politica della nazione del tutto immune dal parrocchialismo di razza e di religione che separa il patriottismo dal culto della grandezza della nazione»39. E per recuperare questa concezione del patriottismo Schaar, come Walzer, sottolinea la necessità di decentralizzare le decisioni politiche e incoraggiare la partecipazione politica in tutti i settori della vita sociale.
L'interpretazione del patriottismo proposta da Schaar e Walzer è in effetti una rielaborazione delle idee di Alexis de Tocqueville, che per primo aveva descritto il patriottismo degli americani come esercizio della cittadinanza democratica. Negli americani, spiegava Tocqueville, l'amore della patria è amore della repubblica, di una repubblica che i cittadini sentono come un affare loro e come loro creazione. È un amore legato all'interesse personale e all'orgoglio, ma è soprattutto un amore essenzialmente politico che non si traduce in desiderio di purificazione o di omogeneità ma in pratiche di partecipazione democratica.
Il patriottismo che fiorì sul suolo della democrazia americana era per Tocqueville un patriottismo razionale che fiorisce grazie alle leggi e ai diritti. Meno intenso e meno generoso dell'amore della patria che nasce dall'attaccamento al luogo natio, ma più durevole e creativo:

Un uomo comprende l'influenza che il benessere del paese ha sul suo proprio; sa che la legge gli permette di contribuire a produrre questo benessere, e s'interessa alla prosperità del suo paese, prima come a una cosa che gli è utile, poi come a una sua opera.

La partecipazione diretta alla vita pubblica della comunità, osserva Tocqueville, è il solo modo per far sÌ che i cittadini si sentano parte della repubblica. Lo spirito civico è infatti il risultato dell' esercizio dei diritti politici43. I cittadini americani non hanno una cultura comune, memorie condivise, tradizioni. Sono però interessati agli affari della loro città, del loro cantone, del loro stato perché ognuno di loro "partecipa attivamente al governo della società» ed è abituato a considerare la prosperità della comunità e il bene comune come il proprio bene.
Nell'analisi di Tocqueville, il patriottismo americano è un amore della patria che nasce dal senso del dovere, dall'orgoglio di essere cittadini di una grande democrazia, e dall'interesse. È più sobrio e calcolato dell'amore della patria caritatevole, generoso e inclusivo teorizzato dai repubblicani classici; ma è anch' esso un amore principalmente politico, basato sull'identificazione con la repubblica resa possibile e rafforzata nel tempo per mezzo della partecipazione politica. Il caso degli americani dell'Ottocento, stando alla descrizione di Tocqueville, dimostra la validità della vecchia ricetta repubblicana: se la patria tratta i cittadini con giustizia, se permette loro di partecipare alla vita pubblica, essi sentono la repubblica come il loro bene comune e l'amano con passione e con ragione.

Questa tradizione di patriottismo repubblicano è ancor oggi un'importante componente della cultura politica americana. Fu il patriottismo repubblicano, ha scritto Charles Taylor, che ha alimentato il senso di sdegno che ha spinto gli americani a reagire contro gli abusi di Nixon. Un senso di sdegno, spiega Taylor, che non si basava sul calcolo degli interessi e neppure sull'adesione ai princìpi generali della democrazia liberale, ma su una lealtà particolaristica, ovvero sull'identificazione diffusa con l' "American way oflife» ispirata dagli ideali politici illustrati in testi fondamentali della cultura degli americani quali la Diichiarazione d'Indipendenza c il Discorso di Lincoln a Gettysburg45. Il patriottismo repubblicano non è stato solo un importante sostegno per la libertà nel passato, ma, osserva Taylor, «sarà un sostegno insostituibile anche per il futuro»46. Il «patriottismo del diritto», come ha dimostrato il caso del Watergate, è necessario per conservare il governo della legge, che è il fondamento della democrazia liberale.

Per Taylor la società liberale indebolisce le sue stesse fondamenta in quanto non incoraggia la partecipazione democratica. Anche se l'accetta in via di principio, considera la partecipazione politica in termini puramente strumentali rispetto al governo della legge e all'uguaglianza. In una società liberale è dunque improbabile che il patriottismo repubblicano possa svilupparsi in tutte le sue potenzialità. Il patriottismo repubblicano, osserva Taylor, pone infatti l'accento sulla partecipazione politica, non sulla libertà intesa nel significato moderno come libertà negativa e uguale protezione dei diritti individuali.
La partecipazione politica nutre il patriottismo perché rafforza negli individui i vincoli di solidarietà civile, fa crescere il sentimento di essere parte di una storia comune e il senso di appartenenza ad una medesima comunità. Pur se parte da premesse filosofiche diverse, anche Taylor conclude, come Schaar e Walzer, che il solo patriottismo necessario e possibile sul suolo americano è quello che nasce dalla pratica della cittadinanza democratica.
I filosofi politici che sostengono l'idea che patriottismo significa amore della repubblica intesa come una comunità politica fondata sul principio dell'uguale libertà, con una sua cultura e un suo modo di vita, sono esempi di un patriottismo senza nazionalismo. È un patriottismo che ritiene che l'attaccamento dei cittadini alla repubblica possa e debba essere incoraggiato con mezzi politici, ovvero il buon governo e la giustizia. E per giustizia intendono la tutela dei diritti civili e politici dei cittadini. Perché i cittadini amino la repubblica, la repubblica non deve tollerare l'esistenza di privilegi e discriminazioni e deve incoraggiare la partecipazione alla vita politica. I cittadini amano la repubblica se la sentono vicina, se la sentono come una cosa loro, se sentono i concittadini come persone degne di rispetto e compassione. La partecipazione politica non è solo il mezzo migliore per avere buone leggi e per impedire abusi, ma anche la miglior scuola per educare dei buoni cittadini.
Il patriottismo repubblicano è la virtù civile di cui la democrazia ha bisogno; è un amore della repubblica che si traduce in un vigore morale che spinge i cittadini ad operare per il bene comune e a resistere ai nemici della comune libertà. Come tutte le altre, anche la virtù civile esige degli sforzi e chiede ai cittadini di arricchire la loro vita privata con l'impegno pubblico e di dare alla propria vita un significato che trascende la vita individuale. Chiede ai cittadini di mettere al primo posto i valori della vita pubblica, perché tali valori sono necessari a mantenere viva la libertà individuale. Benché sia una virtù pubblica, la virtù civile ha effetti importanti anche sui costumi privati. Quando è amore della libertà comune, la virtù civile non minaccia la moderazione e il decoro, ma è l'arma migliore contro i potenti e i licenziosi che non accettano la moderazione e l'ordine che la vita civile esige.
Il patriottismo della libertà non ha bisogno di omogeneità sociale, o culturale, o etnica o religiosa. Cittadini che sono simili per religione, cultura e condizione sociale sono probabilmente più inclini a impegnarsi per il bene pubblico di quanto non lo siano dei cittadini che sono uguali come cittadini, ma diversi per cultura, religione e razza. Ma il loro amore per la patria può facilmente cessare di essere l'amore politico del patriota e degenerare nell'anelito all'unità del fanatico. Per avere qualche probabilità di veder crescere il giusto tipo di patriottismo, non dobbiamo rafforzare l'omogeneità e l'unità culturale e religiosa, ma dobbiamo lavorare per rafforzare e diffondere la cultura e la pratica della cittadinanza democratica.
L'unità religiosa e culturale delle repubbliche antiche (non importa qui se quelle repubbliche erano veramente così virtuose come gli autori raccontano) non può essere riprodotta nel mondo moderno. Ma questo non significa che la virtù civile sia impossibile. Anche i cittadini moderni possono amare le loro repubbliche, se la repubblica merita di essere amata, ovvero se protegge la loro libertà, li tratta con giustizia, permette loro di partecipare alle decisioni pubbliche, e li aiuta ad affrontare alcune delle difficoltà che la vita umana comporta per tutti o per molti. Pur se meno intenso, l'amore politico dei cittadini moderni può essere del tutto sufficiente a sostenere la repubblica e la libertà comune.
Inteso come amore della libertà comune, il patriottismo non è una virtù pericolosa che produce inevitabilmente bigottismo, intolleranza e militarismo. Un amore caritatevole della libertà produce solo libertà. Il bigottismo, l'intolleranza e la guerra sono il prodotto di un diverso amore, l'amore per l'unità, l'omogeneità e la purezza. Ci sono due vie diverse, anche se molto vicine, che conducono al patriottismo, o meglio a due tipi di patriottismo: la via dell' omogeneità e quella della libertà; la via culturale e la via politica. Non abbiamo bisogno di avere più cittadini che partecipano con maggior fervore di quanto non facciano oggi alle cerimonie pubbliche, o di cittadini pronti a dare la propria vita per difendere l'unità etnica, o culturale, o religiosa della loro nazione. Abbiamo invece bisogno di cittadini capaci di mobilitarsi quando anche un solo cittadino è vittima dell'ingiustizia o della discriminazione, o quando sono violati i principi della costituzione.
Il patriottismo è diverso dall'abnegazione eroica. Il primo esige dai cittadini che essi facciano qualcosa di più che prendersi cura solo della propria vita privata; il secondo esige il sacrificio della vita privata per il bene pubblico. Il buon cittadino va in piazza o alla riunione quando c'è bisogno, ma passa volentieri la maggior parte del suo tempo a casa o al lavoro o con gli amici. L'eroe sacrifica tutto alla repubblica. Il suo amore per la repubblica è più di un amore politico; è un amore rafforzato da un'identificazione religiosa con la comunità o con la passione per la gloria. Ma le repubbliche, tranne che in circostanze straordinarie, hanno bisogno di molto meno; hanno bisogno di cittadini che praticano la virtù civile come integrazione della vita privata.
Ciò che Rousseau diceva ai cittadini di Ginevra vale anche per noi. Non siamo né spartani, né ateniesi, né romani; ma abbiamo bisogno di virtù civile per prevenire o respingere gli attacchi alla libertà comune che sono tutt' altro che rari nelle nostre società democratiche. Il patriottismo che ho cercato di recuperare dal passato sembra un patriottismo alla nostra portata. Ma forse non lo è; forse i cittadini moderni non sono più capaci di impegnarsi per «fini più generosi», e interessi più nobili, per usare le parole di John Stuart Mill. Forse siamo culturalmente, socialmente, e religiosamente troppo diversi; siamo ormai troppo inclini ad identificarci con la nostra tribù per essere capaci di impegnarci per la libertà comune.
In molti casi, possiamo difendere la nostra libertà individuale e il nostro benessere e quello della nostra famiglia, senza lavorare per la libertà comune o servire il bene comune. Possiamo proteggere la nostra libertà e il nostro benessere senza muovere un dito per proteggere la libertà e il benessere degli altri. Per ragioni di classe, o di razza, o di genere siamo spesso protetti dalle violazioni della libertà perpetrate contro altri che appartengono ad altre classi, ad altre razze, ad un altro genere. Non vediamo, né sentiamo il legame che esiste fa la nostra libertà individuale e la libertà di tutti; non sentiamo più compassione.
Si potrebbe rispondere che credere di poter proteggere efficacemente la nostra libertà individuale senza essere disposti a servire la libertà comune è poco saggio in quanto apre la strada ai molti ambiziosi e arroganti di imporre il loro interesse contro l'interesse comune, di corrompere le istituzioni con il risultato di rendere la nostra libertà dipendente dal loro arbitrio. Benché sia perfettamente razionale, questo argomento non mi pare sufficiente a far sorgere un amore della libertà capace di vincere contro passioni resistenti quali l'avarizia e la codardia che sono gli ostacoli più seri per la virtù civile.

Uno stimolo forte per la rinascita della virtù civile potrebbe essere la necessità: quando la corruzione e l'oppressione diventano insopportabili, i cittadini in certi casi riscoprono l'impegno civile. In tempi di estrema decadenza della vita pubblica, il sentimento di dignità o di onore nazionale può sostenere la riscoperta della virtù civile. Ma ci sono molti esempi di sopportazione e adattamento alla corruzione e all' oppressione: non ci sono vie sicure che portano alla virtù civile.
Il contributo migliore che i filosofi politici possono dare ad una possibile rinascita della virtù civile è definire una concezione del patriottismo che sia moralmente accettabile e alla portata degli uomini e delle donne che vivono nelle nostre democrazie. La concezione del patriottismo come amore della libertà comune soddisfa entrambe le esigenze e riflette pratiche sociali già presenti, seppur non abbastanza diffuse. Anche nelle nostre società ci sono cittadini che aiutano altri cittadini vittime di ingiustizie; cittadini che si mobilitano contro il crimine e la corruzione; cittadini che invocano giustizia anche per chi appartiene ad una diversa tribù. Queste pratiche suggeriscono la fisionomia del patriottismo nel suo significato migliore. Ciò che rende questo patriottismo possibile è la sua natura politica. C'è bisogno di molti più cittadini che vogliano e sappiano servire la libertà comune, e forse una buona concezione del patriottismo può aiutarci a persuadere altri ad unirsi ai pochi che già danno l'esempio di che cosa vuol dire essere buoni cittadini, e soprattutto può aiutarci a non perdere preziose risorse politiche e morali alla ricerca di una virtù civile impossibile o pericolosa.

Nessun commento:

Posta un commento