venerdì 13 gennaio 2012

PADOA SCHIOPPA LIBRO LA VEDUTA CORTA

LA VEDUTA CORTA
Tommaso Padoa-Schioppa

PREFAZIONE
Capire e interpretare la crisi che si sta dipanando sotto i nostri occhi; crisi ancora in pieno svolgimento, ma già riconosciuta come la più sconvolgente, ma già riconosciuta come la più sconvolgente da molti decenni. Non l’abbiamo ancora capita e tanto meno superata. L’aggettivo finanziaria, inizialmente usato per definirla, si è rapidamente rivelato insufficiente; economica e sociale ne è la sostanza. E poiché la componente del sistema economico che è mancata è l’intelaiatura di regole, controlli, azioni di governo che – in un’economia di mercato – costituiscono il complemento della libera ricerca di tornaconto individuale da parte di individui e imprese, la crisi è in realtà politica e istituzionale; è un fallimento della politica economica prima che dalla finanza e dei mercati. Infine, e in senso più generale, il disastro ha forti radici nel terreno della cultura, intellettuale e antropologica, perché scaturisce da atteggiamenti mentali, idee, comportamenti divenuti prevalenti nelle nostre società.
I fatti di questo decennio – prima l’attentato alle torri gemelle, ora una crisi economica e finanziaria di proporzioni planetarie – vanno visti come l’annuncio di un’’agenda. Stilano l’elenco delle “cose da fare” nel nuovo millennio: governare la mondializzazione, fondare la pace sulla terra, coniugare la forza e il diritto, riacquistare il dominio dell’uomo sulla tecnica, trovare equilibrio e reciproca autonomia tra politica, economia e cultura nella vita associata.

1. ANDERSEN E LA REGINA. LA CRISI, LE CRISI.

Allora, come è possibile che questa crisi sia potuta scoppiare sotto gli occhi di migliaia di banchieri centrali, uomini politici, regolatori pubblici, giornalisti economici, professori universitari, analisti finanziari?

Uno dei fati che colpisce di più guardando oggi dati disponibili già allora, è che quasi nessuno – nel mondo della finanza e in quello delle istituzioni pubbliche – avesse visto avvicinarsi il Grande Crollo.

Tutti erano nella cosiddetta bolla: finanziaria si, prima di tutto, ma anche economica, politica, mentale, culturale.

Gradualmente nel corso degli anni si è persa la consapevolezza che la lunga espansione economica americana non potesse durare.

Non ci sono molte differenze tra l’eccesso di ottimismo e l’eccesso di pessimismo nel valutare un’azione o un bene.

Incominciamo raccontando una crisi nella quale si mescolano non pochi elementi: un elevato indebitamento, una politica monetaria troppo generosa e una bolla immobiliare negli Stati Uniti, una globalizzazione degli scambi mal governata, una finanza scappata di mano.

In quell’intervista avevo cercato di portare l’attenzione sui problemi di fondo: l’accumularsi del debito esterno degli Stati Uniti, il progredire delle regioni asiatiche (un terzo del genere umano) verso il benessere, il conseguente rincaro dei prodotti energetici e alimentari che spingeva all’estrema povertà milioni di persone, il ritorno a un’economia della scarsità, la carenza di risorse naturali. Volevo indurre i partecipanti a guardare lontano.

E mentre le autorità monetarie si davano da fare, era evidente il torpore degli organismi di vigilanza bancaria e finanziaria.

Una quota crescente di strumenti finanziari era ormai negoziabile e sempre più spesso le imprese andavano a cercare capitali sul mercato anziché presso gli istituti di credito.

Bisogna distinguere tra una crisi puntuale e una crisi di sistema. In un’economia di mercato che funziona correttamente vi sono soggetti che entrano e soggetti che escono dal mercato. Il fallimento di un istituto di credito – possiamo citare il caso Herstatt in Germania, ma anche il Banco Ambrosiano in Italia, la Continental Illinois negli Stati Uniti o il Banesto in Spagna – non è una crisi di sistema, è una crisi puntuale. Fa parte del ciclo fisiologico del mercato, un po’ come un corpo umano dove continuamente vi sono cellule che nascono e cellule che muoiono.

Fu la prima banca importante ad andare in crisi nel secondo dopoguerra e il suo fallimento segnalò i rischi nuovi di un mondo dove i capitali sono mobili e i cambi flessibili.

D’altro canto, gli anni Ottanta e Novanta furono anni in cui le banche centrali lottarono per rendersi indipendenti dalla politica. Persero il ruolo di consigliare privilegiato dei governi; conquistarono autonomia a scapito dell’influenza.

Il sistema dei cambi fissi era qualcosa di più di una semplice cooperazione. Era una regola che imponeva di governare insieme. Anche il mondo di oggi ha bisogno di qualcosa che porti a “governare insieme”.

Un conflitto fra banche centrali avrebbe prodotto disastri. Purtroppo la cooperazione è stata a dir poco debole nella vigilanza bancaria.

Sul fronte bancario questa crisi è stata caratterizzata da una serie di fusioni, acquisizioni, salvataggi pubblici. Negli Stati Uniti, Merrill Lynch è stata acquistata da Bank of America, Bear Stearns da JP Morgan; due istituzioni di credito immobiliare, Freddie Mac e Fannie Mae, sono divenute statali. La più grande banca e la più grande compagnia di assicurazione del mondo (Citigroup e AIG) sono state salvate dal denaro pubblico. Nel Regno Unito, Northen Rock è stata nazionalizzata; nel Benelux, Fortis e Dexia sono state salvate dalla mano pubblica, così come Commerzbank in Germania. Che cosa pensa di questi fatti?

Il secondo momento è l’ottobre del 2008, quando la mano pubblica intervenne per salvare alcune grandi istituzioni finanziarie dopo la nuova ondata di panico seguita al fallimento di Lehman Brothers. Negli Stati Uniti venne varato un piano da 700 miliardi di dollari con il quale lo Stato si impegnò a riacquistare sul mercato i “prodotti tossici”, obbligazioni immobiliari di bassa qualità che più nessuno voleva. In Europa, i governi stanziarono denaro pubblico per ricapitalizzare gli istituti di credito e per garantire nuovi prestiti bancari.

La regola deve essere questa: la struttura economica e finanziaria va tenuta in vita, le singole imprese (siano esse finanziarie o industriali) vanno lasciate cadere.

Più in generale il Grande Crollo ha ricordato, a chi se ne fosse dimenticato in questi ultimi due decenni di forte deregolemantazione, che la mano pubblica non può non avere un ruolo nell’economia. Forse è proprio questa una delle grandi lezioni dello sconquasso finanziario.

La recente esperienza ha dimostrato che vi sono momenti in cui solo i pubblici poteri e il denaro pubblico possono, e quindi devono, salvare un mercato che da solo non riesce a rialzarsi.   
In questi mesi le banche centrali sono state il prestare di ultima istanza; i governi, e quindi i contribuenti, sono stati il compratore di ultima istanza. La crisi è anche il riflesso di un mercato per troppo tempo quasi abbandonato a se stesso, drogato da una deregolamentazione eccessiva; essa ci ricorda che senza regole il grande mondo della finanza non può funzionare.

2. I TRE STATI DEL SISMA DEBITORE CAPITALISTA, CREDITORE COMUNISTA.

Lo scoppio della bufera non riflette solo una speculazione mal governata. Esso rivela qualcosa di più profondo:  il disfacimento di un modello di crescita non sostenibile basato sul “consumo a credito”. Il debito pubblico e privato degli Stati Uniti, la distruzione di risparmio altrui ne sono il segno.

Ma dobbiamo anche capire che non c’è politica economica che possa evitare un rallentamento, per molti anni, della crescita dei paesi più ricchi.

La quota dell’export cinese rispetto al prodotto interno lordo non è anormalmente elevata. La peculiarità cinese (e anche quella indiana) sta nell’enorme popolazione: oltre un miliardo e duecento milioni di persone. Per popolazione, la Cina rappresenta settanta Taiwan, cinque Stati Uniti, venti Italie: è la dimensione del paese la discriminante rispetto ad altre esperienze storiche. Nell’ultimo secolo mai avevamo visto un cambiamento.

Che cosa comporta esattamente l’arrivo prepotente della Cina sullo scacchiere economico internazionale?

Abbiamo assistito a un progressivo trasferimento della produzione manifatturiera dall’Occidente all’Asia Orientale, e in particolare alla Cina. Direi di più: non solo i manufatti ma anche molti servizi sono ormai commerciabili. Negli ultimi quindici anni la politica monetaria della Federal Reserve è stata molto, troppo generosa.

Gli enormi flussi di importanza a basso costo dall’Asia hanno contribuito a mantenere bassa l’inflazione dei prezzi al consumo negli Stati Uniti a dispetto della sovrabbondanza di liquidità.

A facilitare il prolungamento del boom di una crescita senza risparmio negli Stati Uniti è stata, da un lato, la globalizzazione dei flussi commerciali e finanziari, dall’altro, la particolare condizione del dollaro.

Si è giunti insomma a una situazione in cui l’America si indebitava due volte: nel settore privato.

Lei chiede perché nessuno abbia contraddetto i rappresentanti americani nei vertici internazionali. Rispondo: perché la crescita senza risparmio degli Stati Uniti ha fatto comodo a tutti. Essa trainava l’intera economia mondiale e tutti si guardavano bene dal sollecitare che il festino terminasse.

La correzione richiederà una riduzione della crescita mondiale, un passaggio difficile per tutti.

Negli anni passati, un numero crescente di famiglie americane, anche di quelle tendenzialmente non solvibili o poco solvibili (subprime, come si dice in inglese) hanno comprato casa finanziandosi con un mutuo.

L’aspetto più scioccante nel nostro caso riguarda le agenzie di “rating”. Le tre principali – Moody,s, Standard e Poor e Fitch Raitings – hanno visto i loro introiti totali raddoppiare da tre a sei miliardi di dollari tra il 2002 e il 2007.

Ma negli ultimi anni è mancata la trasparenza. Per di più, spesso questi strumenti hanno amplificato i rischi anziché ridurli. Nel dicembre del 2007 il valore totale dei derivati sui mercati era di 596 mila miliardi di dollari, rispetto ai 106 mila del 2002.

Nella finanza, anche in quella più sana, c’è sempre una parte di scommessa sul futuro. Negli ultimi decenni, tuttavia, una quota crescente delle transazioni finanziarie è diventata solo scommessa, pura casa da gioco, un casinò slegato dall’economia reale.

Negli ultimi trenta o quarant’anni la finanza è divenuta enormemente più complessa. Una matematica assai avanzata è stata usata per creare prodotti sempre più sofisticati, poi negoziati sui mercati attraverso formule incomprensibili al profano.

In linea generale la riforma necessaria è un rafforzamento del governo della finanza sia da parte delle autorità pubbliche, sia da parte degli organi di comando delle istituzioni bancarie private. La nozione stessa di banca dovrà essere riveduta e, direi quasi, ripristinata perché non si ripeta il fenomeno di un sistema bancario parallelo che soprattutto negli Stati Uniti ha contribuito alla deriva della finanza.

Innanzitutto, il suo carattere  globale e nello stesso tempo sistemico è senza precedenti: mai una crisi aveva avuto origine nella più grande economica del mondo, si era diffuso in tutto il pianeta e aveva travolto, come in questo caso, tutte le maggiori istituzioni finanziarie degli Stati Uniti.

Il mio giudizio, suona così: questa non è una crisi nel sistema, è invece la crisi di un sistema.

La questione di fondo, allora, riguarda proprio l’azzardo morale. Di che cosa si tratta?

Si tratta del rapporto tra rischi che devono essere assunti dalla collettività.

Resta che il fallimento di Lehman Brothers cambia volto alla crisi. Scattano i piani di salvataggio pubblico: quello americano da 700 miliardi di dollari per il riacquisto sul mercato per mano pubblica di obbligazioni di cattiva qualità; poi quelli europei per salvare Fortis e Dexia a corto di liquidità.

Risparmiare e mettere a frutto il risparmio, dandolo a prestito a chi lo sa bene impiegare, significa rendere possibile la produzione di cose utili; è in sé cosa utile.

3. ILLUSIONI E SGUARDO CORTO. IL PENDOLO DELLE IDEE E DELLE POLITICHE.

Ora dobbiamo interrogarci sulle cause e, poi, su come scongiurarne la ripetizione. Quando alle cause, possiamo partire dalla sua interpretazione, che vede nell’accumularsi del debito esterno americano la componente più profonda del sisma. E’ una tesi poco diffusa perché, quando si parla di cause, altre due ne vengono solitamente citate: una politica monetaria troppo espansiva, specialmente negli Stati Uniti, e il permissivismo della supervisione finanziaria. Né l’una né l’altra, mi pare, hanno molto a che fare con il deficit delle partite correnti americane.

Ciò che ho detto fin qui lo ricapitolerei così: lo strato più profondo di “ciò che è andato in crisi” è il modello della “crescita senza risparmio” di cui l’accumularsi di debito esterno è la manifestazione.

Secondo me la risposta è netta: la responsabilità fondamentale è della politica economica. E’ certo qui entrano in gioco la sovrabbondante liquidità e le carenze della vigilanza. Ma questi due errori specifici sono a loro volta espressione di altri, più generali, tra cui la stessa incapacità di vedere i pericoli di una crescita basata sul debito e di correggerla conseguentemente.

In un suo recente articolo per la rivista “Internationale Finance” lei mette l’accento sulle determinanti del Grande Crollo. Quali sono?
Ne ho indicate tre: ideologia fondamentalista del mercato, sguardo corto, nazionalismo della politica economica.

La terza determinate, infine, riguarda le istituzioni ed è  il divario tra il perimetro dei mercati e quello dei poteri pubblici; l’ampliarsi del divario ha reso quest’ultimi sempre meno efficaci.

No, non è strano, perché l’eccesso di laissez-faire produce un eccesso di intervento pubblico, così come in passato era avvenuta la  concatenazione inversa.

Il fallimento di una banca o la nascita di una bolla speculativa sono, è vero, eventi fisiologici. Ma non è fisiologico un collasso come l’attuale, la paralisi dell’intero sistema finanziario della più grande economia del mondo, la scomparsa di cinque banche d’investimento (una fallisce, Lehman Brothers, due vengono assorbite, Bera Stearns e Merril Lynch, altre due si trasformano in banche commerciali, Morgan Stanley e Goldman Sachs), il salvataggio per mano pubblica della più grande banca e della più grande compagnia assicurativa del mondo (Citigroup e AIG).

Sono sorpreso che la lettura prevalente della crisi sia ancora adesso quasi tutta finanziaria. Il fattore economico, vale a dire la crescita trainata dal “consumo a credito” di cui abbiamo parlato in precedenza, è pressoché ignorato.

Il Grande crollo ha molte delle sue radici nel clima ideologico della deregolamentazione. Il laissez-faire è scappato di mano. Gli stessi organi di vigilanza sono caduti nell’illusione dell’equilibrio spontaneo. Se questi hanno mancato al loro compito è anche perché il controllore si è arreso al controllato e ne ha assunto la visione miope, lo sguardo corto.

E’ la fine di una concezione errata dell’economia di mercato, non la dimostrazione che il sistema basato sul profitto e sull’interesse privato è catastrofico, o perfino moralmente condannabile.

La crisi cui stiamo assistendo è “soltanto” quella di una particolare versione dell’economia di mercato, quella fondata sull’illusione che un’automobile non abbia bisogno di freni, di limiti di velocità, di un codice della strada.

Oggi l’inversione del pendolo dovrebbe riportare equilibrate tra pubblico e privato, tra regole e libertà, tra iniziativa privata e controllo pubblico.

Alcune cifre sulle transazioni finanziarie negli ultimi quindici anni lasciano stupiti. In un libro del 2008, un economia di origine polacca, Paul H. Dembinski, spiega che nel 1995 il loro volume, escluse quelle in cambi, era pari a due volte. L’impressione è che gli investitori sempre più spesso abbiano guardato più ai prezzi che ai rendimenti, più alle quotazioni che ai dividendi. Il fenomeno del “trading” è tipico dello sguardo corto.

L’impresa è un’istituzione; la sua ragione d’essere è di vivere nel tempo, e il suo valore non può essere ridotto a un’istantanea che magari la coglie scomposta o a metà di una delicata trasformazione.

Da un lato un crescente conformismo intellettuale; anche nel mondo accademico il paradigma fondamentalista – il mercato ha sempre ragione – è diventato dominante. Dall’altro la stessa politica ha spostato quell’ideologia.

Lei ha ragione; la riduzione degli orizzonti temporali non è una caratteristica solo degli operatori finanziari. La miopia ha colpito tutti. Le radici di questo fenomeno sono ramificate e sono comuni all’economia, alla politica e alla cultura: le tecnologie informatiche, la rapidità  dei trasporti e dei processi produttivi, il modo di vita sempre più rapido, i sistemi informativi. Riferendosi al modo di vita sempre più rapido, i sistemi informativi. Riferendosi al mondo politico l’ex presidente della Bundesbank Hans Tietmeyer parlava di “plebiscito permanente” del mercato; lo stesso si può dire dei sondaggi.

Ebbene, nonostante queste diffuse norme costituzionali, il sistema dei sondaggi incide ormai sulla forza dei governi in una maniera tale da influenzarne fortemente la capacità di agire. Paradossalmente questa forza dipende sempre meno dal risultato elettorale. La stessa legittimità di un governo è rimessa in discussione in modo continuo dai sondaggi di opinione, imponendo all’azione di governo lo sguardo corto.

Ho anche constatato che per il politico di professione la lettura dei giornali rappresenta un momento essenziale della sua giornata e del suo sforzo di contatto con il paese e la società.

Direi: il cambio tecnologico che ha sconvolto la scala del tempo – in certi aspetti e non in altri – della nostra vita. Sono stati trasformati improvvisamente i tempi del procedure, del muoversi, del trasmettere informazioni, la durata fisica dei beni manufatti.

L’accorciamento del tempo nella produzione, nei consumi, nei trasporti si scontra con il vecchio mondo dei tempi lunghi e addirittura con un allungamento della vita umana.

E’ possibile secondo lei ripristinare lo sguardo lungo in una società?
Credo che alla politica e alle istituzioni pubbliche spetti un compito di educazione e sono convinto che esse possano fare molto per correggere la tendenza alla miopia. Per molti aspetti il tempo è un bene pubblico che deve avere tutele isituzionali.

Per secoli è stato un punto fermo nel codice morale della società – per esempio nella civiltà contadina – che ogni generazione avesse doveri nei confronti di quelle a venire; allo stesso modo, accumulare debito pubblico sulla testa dei figli e dei nipoti è un furto; così come dovrebbe essere chiaro che l’ambiente naturale nel quale viviamo ci è dato, per così dire, solo in prestito.

La relazione tra economia e politica è, ancora oggi, meno chiaramente definita: eccessive interferenze dei pubblici poteri nell’economia, eccessivo peso di interessi economici nella politica, ideologia fondamentalista che prende in ostaggi il potere pubblico.

Perché quanto ci sta dicendo avrebbe a che fare con la crisi? Vuol dire che il mondo scientifico e culturale ha una responsabilità particolare in quanto sta succedendo?
Credi di si. Si è attenuata l’autonomia vera degli studiosi; quella dagli interessi del mondo degli affari e dal potere politico. Ricordiamo che nell’espressione “politica economica” l’economia entra solo come aggettivo. A farsi prendere dall’illusione che il mercato sia capace di autoregolamentarsi non è stata solo la politica, ma anche la classe degli studiosi, e per molto tempo è stata un’illusione che ha portato benefici materiali, di influenza, di prestigio sociale.

4. HOBBES E KANT? GOVERNARE L’ECONOMIA MONDIALE
Dobbiamo ora esplorare il terzo fattore: il nazionalismo della politica economica o, detto diversamente, il crescente divario tra l’estensione dei mercati e il perimetro della politica economica.
Nella globalizzazione in quanto tale, ma l’assenza di regole  e di disciplina nella quale essa si è esplicata negli ultimi decenni. E’ questa particolare modalità ad avere consentito che gli squilibri mondiali e le bolle speculative raggiunsero dimensioni così abnormi da far si che il redde rationem fosse tanto sconvolgente.

La globalizzazione è la naturale tendenza, in condizioni di pace, a sviluppare l’interdipendenza economica, cioè a cogliere tutti i vantaggi della divisione del lavoro ignorando le frontiere politiche.

Quella del Ventunesimo secolo è veramente  planetaria, non è più influenzata dai grandi imperi coloniali dei paesi europei, è estesa oltre le materie prima e i prodotti manufatti.

In comune però vi sono l’emergere di potenze nuove e lo squilibrio tra interdipendenza economica e staticità degli ordinamenti istituzionali del governo dell’economia mondiale.

Quando lei parla di “staticità degli ordinamenti istituzionali del governo dell’economia mondiale” intende parlare della sopravvivenza dello Stato nazionale?
Si. Permane forte l’idea stessa dello Stato nazionale e della sua “sovranità illimitata”. Anzi, direi che è più forte di quanto fosse cent’anni fa. All’inizio del Novecento la forma dello Stato nazionale non si era ancora imposta come modello al mondo intero. Gli imperi – come quello russo, ottomano o austroungarico – erano istituzionalmente forme più avanzate dello Stato nazionale. C’erano gli imperi coloniali.

Lei così mette l’accento sul contrasto tra Stato nazionale e globalizzazione economica.
E’ un contrasto che si può rappresentare così: le relazioni economiche avvengono nel segno dell’interdipendenza, quelle tra Stati nel segno dell’autosufficienza.

Tutta l’economia internazionale dunque zoppica perché si regge su due gambe affatto diverse quella dell’interdipendenza e quella dell’autosufficienza. Ecco perché questa è la crisi di una globalizzazione squilibrata. Fa parte dell’idea che l’economia di mercato possa autoregolarsi anche l’illusione che l’interdipendenza economica possa procedere senza un governo. Due errori, due miti: il primo è che il mercato possa regolarsi da solo; il secondo è che la sovranità dello Stato debba e possa essere illimitata.

La tendenza prevalente degli ultimi decenni è lo spostamento della cooperazione internazionale dalle istituzioni (Fondo monetario internazionale, Banca mondiale, ecc.) a semplici “tavoli”, come si direbbe nel gergo italiano, cioè gruppi e fori di discussione privi di base legale e di infrastruttura propria. I tavoli hanno avuto la meglio sulle istituzioni.

Quando parla di “tavoli” si riferisce ai tanti vertici di gruppi di paesi, come il G-7, il G-8, il G-20?
Proprio così. Queste varie “G” non sono organi di alcuna istituzione internazionale, sono autorità autoproclamate.

I vari “G” sono mere sedi di incontro, luoghi dove si tenta di conciliare gli interessi particolari dei partecipanti, non di perseguire un interesse comune.

Il fatto è che negli ultimi decenni una certa idea cosmopolita della cooperazione internazionale emersa dalle macerie di due guerre mondiali è stata sempre più sostituita da una falsa e perniciosa dottrina  che si può chiamare della “casa in ordine”. Essa ha rinazionalizzato la  cooperazione internazionale, esaltandone il carattere intergovernativo.

Come enuncerebbe questa dottrina?
Essa afferma che tenere in ordine la casa nazionale è la condizione necessaria e sufficiente perché ci sia un ordine internazionale.

L’ordine delle case, per restare nella metafora, non è ancora quello della città. Ci sono le parti comuni, che riguardano ciò che avviene non nelle case, ma tra le case: le relazioni finanziarie e commerciali, i cambi, la salute, i mari, il clima, l’umanità che muore di fame. Le part comuni possono solo essere governate in comune, il che richiede poteri sovrannazionali, non semplici scambi di informazioni o tentativi di accordo volta per volta.
Perché, secondo lei, ha preso piede una simile dottrina?
Perché non è stata ancora recepita a fondo, nel sistema delle relazioni internazionali, quella critica dello Stato nazionale, che costituisce il portato fondamentale della Grande Guerra: il fallimento dell’idea – figlia del Romaniticismo e realizzatasi in Europa nell’Ottocento – che la pace possa fondarsi su sovranità esclusive e assolute degli Stati purché questi coincidano con le nazioni.

La Prima guerra mondiale fa cadere l’illusione che, se le frontiere degli Stati coincidessero con i confini delle nazioni, ci sarebbe la pace.

Sarei cauto nel parlare di declino degli Stati Uniti.

Altra cosa è parlare del declino dell’impero americano.

Sembrò prevalere l’idea che non ci fosse bisogno di un ordine internazionale.

In conclusione, è emersa un’America meno forte, ma più imperiale di quella del 1945. A me sembra che la crisi finanziaria sia anche il drammatico scoppio di questa contraddizione.

Quali saranno le conseguenze economiche e politiche del declino dell’imperialismo americano?
Da un punto di vista economico il mondo non potrà contare sul motore sovralimentato di una crescita senza risparmio. Ritengo inevitabile un duraturo rallamentamento della crescita globale, perché non vedo – per ora  - nuovi motori sufficientemente potenti. Siamo ancora lontani dal momento in cui i paesi emergenti saranno emersi tanto da poter controbilanciare un rallentamento delle economie occidentali.

L’ordine punitivo del trattato di Versailles del 1919 non funzionò, nello stesso modo in cui non funziona oggi l’ordine punitivo istaurato quando si sgretolò l’Unione Sovietica.

Un declino del dollaro finora non c’è stato.

Dobbiamo tornare ancora una volta al 1971, allo svolgimento del dollaro dall’oro. Quell’evento ebbe due distinti significati: privatizzò i cambi e nazionalizzò le monete.

Tuttavia, il mondo ha bisogno di una moneta e il futuro non è ancora scritto.

La realtà della moneta è un misto di consuetudine e di istituzione, di privato e di pubblico, di libertà e di disciplina; un regime monetario internazionale come l’attuale, dove è assente il secondo elemento di tutte queste coppie di termini, non è coerente con un’economia globalizzata.

Possiamo sperare che l’attuale combinazione di nazionalismo monetario e di dittatura del mercato continui a conciliarsi con bassa inflazione, libertà commerciale e stabilità finanziaria? Temo di no.

C’è un reale pericolo di ritorno al protezionismo, se non a guerre valutarie. Sarebbe assurdo e irresponsabile che per tenere in vita il libero scambio delle monete si sacrificasse il libero scambio dei beni e dei servizi.

Evidentemente sono una reazione al dollaro e al sovrano americano che in un certo senso ha tradito la fiducia: tra il 1969 e il 2007 negli Stati Uniti il rapporto tra il totale dei crediti e il prodotto interno lordo è cresciuto dal 150 al 350 per cento.

Un punto centrale è la necessità, per così dire, di denazionalizzare la moneta e farne un promotore di disciplina.

Potremmo immaginare monete di area legate tra loro. Se la guardiamo attentamente, vediamo che la globalizzazione è fatta soprattutto di molteplici e forti integrazioni regionali, più che di scambi intercontinentali.

La cooperazione internazionale non è veramente tale se non accetta elementi di sovranazionalità. La cosa è assai ardua da raggiungere perché il mito della sovranità assoluta rimane forte; ma è un po’ meno ardua se la sovranità è ceduta a una regola piuttosto che a un potere discrezionale, a un’istituzione.

Se pensiamo allora a vie graduali per riordinare il sistema monetario internazionale, quali passi concreti possiamo immaginare?
Ne possiamo pensare d’uno. Il passaggio della leadership dal G-8, anacrosticamente limitato ai paesi avanzati, al G-20 sancito a Washington nel novembre 2008 è un fatto positivo. Trasformare il G-20 nel Comitato dei ministri del Fondo monetario internazionale (l’International Monetary and Financial Committee, IMFC), che è un organo politico, sarebbe un altro passo importante, che non si seppe compiere allorché il G-20 fu creato. Ci si può muovere, sia pur gradualmente, dalla cooperazione tra paesi a quella tra organizzazioni regionali rafforzare (l’Unione Europea, l’Unione Afrcana, il Mercosur, l’ASEAN), che abbiamo un seggio proprio nelle istituzioni globali (FMI, Banca Mondiale, Organizzazione mondiale del commercio, ecc.). E’ possibile rafforzare la vigilanza finanziaria internazionale e la collaborazione tra FMI e Banca dei regolamenti internazionali. Nessuno di questi passi sarebbe una rivoluzione, eppure ognuno di essi darebbe il segno che i paesi sono divenuti più consapevoli della necessità di governare davvero la globalizzazione. In generale, dobbiamo invertire la tendenza che ci ha portati a privilegiare i “tavoli” di discussione rispetto alle istituzioni internazionali e ridurre la concorrenza tra organismi internazionali.

La vera sfida è di fare evolvere un sistema hobbesiano verso un sistema kantiano. La realtà è hobbesiana, ma i problemi che essa ci pone sono risolvibili solo in un quadro kantiano. Anche in Dante Dio vuole, ma non crea la monarchia universale; essa dipende da come gli uomini usano la loro libertà. Se mai nascerà un ordine kantiano nel mondo, sarà con la forza della ragione o con la forza delle armi.

Non essendo chiaro chi è il vincitore, ci possiamo chiedere se ci sia almeno un agente. L’Europa potrebbe esserlo: può avere la forza, la chiarezza di soluzione, l’influenza e la legittimità per fare compiere passi decisivi al mondo.

Alle tentazioni protezionistiche suscitate dalla crisi si potrà resistere solo sulla base di una forte adesione ai principi e alle regole della cooperazione multilaterale.

Particolare importanza alla classe dei funzionari responsabili dei rapporti internazionali, nei governi e nelle istituzioni internazionali.

Ormai le stesse istituzioni internazionali sono spesso un’alleanza tra nazionalisti. La mia impressione è che ci sia una carenza di cultura kantiana nell’élite dei funzionari.

La comunanza di cultura è aumentata, ma è la cultura della sovranità illimitata dello Stato nazionale, del carattere intergovernativo della cooperazione, è la dottrina della casa in ordine avversa a forme vere di sovranazionalità.

5.UN SECOLO EUROPEO? INTEGRAZIONE E DISGREGAZIONE.
Concentriamoci ora sull’Europa, il suo comportamento in questi mesi, il suo possibile futuro. Cominciamo dall’euro, che si è rivelato un ombrello protettivo straordinario. Provando a fare la storia “con i se”, o contro fattuale come dicono gli storici inglesi, possiamo chiederci: che cosa sarebbe successo senza la moneta unica?
Saremmo in una crisi non solo di mercati, banche, imprese, ma di interi paesi, dei loro rapporti entro l’Unione, di tutto l’edificio europeo.

Insomma, non è azzardato dire che senza l’euro la crisi avrebbe dato di colpo di grazia a un’Unione in prezzi.

Lasciamo l’Europa dei “se” e vediamola ora quale essa è. Come si presenta l’Unione di fronte alla crisi?
Si presenta con cinque vantaggi e uno svantaggio.
Cominciamo dai vantaggi.
Primo, grazie anche all’euro l’Europa è in una condizione macroeconomica di molto maggiore equilibrio degli Stati Uniti: nei conti con l’estero, nello stato della finanza pubblica, nella formazione di risparmio privato. L’Europa non ha avuto una crescita senza risparmio come l’America. Secondo, il germe del fondamentalismo di mercato non si è diffuso nel nostro continente tanto quanto altrove nel mondo e in particolare negli Stati Uniti. In terzo luogo, in Europa il sistema finanziario ha – per varie ragioni – una struttura più stabile che in altri paesi: meno sbilanciato verso il mercato, meno fondato su una divisione tra banche commerciali e banche d’investimento. Queste ultime sono fallite nei mesi scorsi anche perché, non avendo una base diffusa di depositi, hanno sofferto dell’improvvisa carenza di finanziamento. Quarto vantaggio: l’Europa ha istituzioni dello stato sociale che le permettono di affrontare meglio un rallentamento dell’economia, da un punto di vista sia economico sia sociale e politico. Infine, ed è il quinto punto, mi sembra che la tendenza allo sguardo corto, in Europa, dove pure si è manifestata, sia stata meno dominante che negli Stati Uniti.

Questi sono i vantaggi. E qual è lo svantaggio?
Quello di essere un soggetto di politica economica, e di politica tout court, incompiuto e in parte inesistente.

L’Europa così com’è non è attrezzata per affrontare le sfide della storia, compresa quella in corso, che ha colto di sorpresa non solo le sue politiche, come è avvenuto in tutti i paesi, ma anche le sue istituzioni, cosa che nelle unioni politiche consolidate invece non è accaduto. All’Unione Europea mancano sia gli strumenti ordinari sia quelli di emergenza, perché entrambi sono nelle mani degli Stati membri. Quanto dico vale per le misure di vigilanza, per il salvataggi bancari, per il sostegno alle imprese, per le misure di bilancio e via dicendo.

Facciamo allora una digressione nei fondamenti della costruzione europea.
Inizierei così: a mio giudizio, la visione trionfalista commette l’errore di fondarsi su una confusione tra potere debole e potere limitato. Debole è quel potere che manca degli strumenti indispensabili per operare nel suo campo di competenza. Limitato è invece quello il cui campo di competenza è ristretto. Il potere deve essere limitato, ma non debole. Ai miei occhi il federalismo è il punto cui giunge una lunghissima traiettoria del pensiero e delle istituzioni politiche dopo aver realizzato la separazione tra potere religioso e potere politico e quella, che definirei orizzontale, tra poteri legislativo, esecutivo e giudiziario. Il federalismo afferma la necessità di un’articolazione anche verticale del potere.

Che cosa significa articolare i poteri su base verticale?
Ognuno di noi è parte di almeno cinque comunità umane: la città, la regione, lo stato, il continente e il pianeta. Dovremmo riconoscere che quando si parla di interesse pubblico, l’aggettivo pubblico non ha un significato univoco; esso va attribuito, secondo i casi, all’una o all’altra di queste comunità. Per esempio, un giardino pubblico a Bolzano è pubblico su base comunale, mentre il cambiamento climatico è un problema “pubblico” per l’intero pianeta. Perché il potere sia nello stesso tempo efficace e non dispotico (una questione che ispira per esempio il pensiero di Montesquie) non basta una semplice separazione orizzontale tra poteri  legislativo, esecutivo e giudiziario. Occorre anche che del termine “pubblico” sia data di volta in volta una corretta interpretazione, cioè che il potere  sia collocato al livello giusto della scala che va dal municipio al pianeta Terra. Se si sbaglia per eccesso collocandolo troppo in alto, il potere sarà oppressivo: non si vede perché, ad esempio, altri che i bolzanini debbano avere titolo a decidere se in città  vogliono o no un nuovo giardino pubblico. Se invece si sbaglia per difetto, collocandolo troppo in basso, il potere sarà inefficace: per esempio, né il Lussemburgo né la Germania e neppure la grande Russia possono correggere da soli l’effetto serra. Dobbiamo sapere che la via al dispotismo viene aperta dall’inefficacia del potere: si chiede l’uomo forte quando il governo debole non riesce a soddisfare le esigenze della comunità. Ebbene, la visione trionfalistica dello stato attuale dell’Unione giustamente apprezza l’elemento potere limitato, ma non apre gli occhi sull’elemento  potere debole. Se l’Europa affronta questa crisi come soggetto politico incompiuto non è perché è un potere limitato, ma perché è un potere debole.

L’Unione Europea sarà compiuta non quando le si daranno nuove e maggiori competenze, ma quando avrà i mezzi per esercitare in maniera piena quella che i Trattati già le attribuiscono.

Per governare la crisi occorrono misure monetarie, di vigilanza e di sostegno economico. L’Unione esiste nel primo campo, dove vale la decisione a maggioranza. Non esiste negli altri due dove, per decidere, è necessaria l’unanimità e, se si decide, mancano strumenti operativi comuni.

Il fatto è che i Trattai non precostutiscono poteri di crisi per l’Unione. L’emergenza che prevedono è quella di uno Stato membro messo in difficoltà dall’integrazione; quello Stato può prendere misure di salvaguardia, sospendere la sua apertura agli altri e i suoi obblighi nei confronti del mercato unico.

Insomma, l’Europa non è soggetto di politica economica di fronte alla crisi.

E questo nonostante la nascita di un’unione monetaria e di una moneta unica. Perché?
Perché un conflitto di interessi paralizza il Consiglio dei ministri dell’Unione. Esso è l’organo collegiale che dovrebbe decidere per l’Europa, ma i membri che lo compongono, presi individualmente, hanno preferito conservare il predominio delle parti nazionali.

Ma la responsabilità effettiva è del cartello dei nazionalismi che si riunisce con nome di Consiglio dei ministri.

In quello che Jacques Delors chiama “triangolo istituzionale” (Consiglio dei ministri, Commissione europea e Parlamento europeo) è il Consiglio la componente difettosa quella che, tradisce l’interesse comune europeo, subordinandolo a una male intesa difesa degli interessi nazionali.

Negli ultimi dieci anni sono nati grandi gruppi bancari operanti su scala europea; ciononostante il sistema di vigilanza è rimasto nazionale e procede perciò alla cieca.

C’è un solo sistema bancario nella zona euro, ma nessuno lo vigila come tale. Non c’è alcun punto nel quale si abbia la visione complessiva.

L’Europa ha compiuto nell’ultimo mezzo secolo un passo straordinario che l’umanità non aveva mai fatto prima: il superamento del potere assoluto degli Stati. E’ un passo fondamentale della storia umana, come la nascita della democrazia, la separazione dei poteri o il suffragio universale.

Di fronte a questa crisi, coloro che cercano di rafforzare il ruolo dell’Unione e coloro che lo impediscono dovrebbero essere consapevoli che una crisi finanziaria ed economica così grave difficilmente lascerà immutato il grado di unione esistenze.

Il primo difetto che vedo è la mancanza di leadership.

L’Unione Europea è la prima economia del mondo per popolazione, per prodotto interno lordo, per scambi commerciali. E’ il primo partner di gran parte dei paesi, industrializzati ed emergenti, di quasi tutti i paesi africani e perfino di molti paesi dell’America Latina. Gode di una grande popolarità in tutti i continenti. Sono stato per sette anni responsabile delle relazioni internazionali della Banca centrale europea e ho ascoltato tante volte una vera e propria invocazione a una maggiore presenza internazionale dell’Europa, in particolare dei paesi asiatici: la Cina, l’India, l’Indonesia, la Malesia, la Thailandia, Singapore. Per questi paesi l’Unione è un modello di integrazione, guardato con ammirazione; e le relazioni con l’Europa non sono più avvelenate dall’ostilità della decolonizzazione. Anzi, oggi il passato coloniale rappresenta un patrimonio di ricordi comuni.

L’interpretazione che ho proposto in queste conversazioni è che tra le principali determinanti del Grande Crollo vi sia il non governo della globalizzazione, il non aver saputo creare – su scala mondiale – l’intelaiatura di regole e di poter che un mercato sempre richiede per funzionare bene. Come ha diffuso nel mondo il modello dello Stato nazionale, che si è imposto anche in continenti a cui era estranea la realtà storica della nazione, così l’Europa potrebbe oggi proporre al mondo il modello comunitario, indispensabile per difendere gli interessi che sono comuni a tutto il pianeta, per governare quel campo dove “pubblico” significa “globale”. L’Europa possiede la formula, potrebbe avere la forza per spingere verso un perfezionamento degli ordinamenti postbellici del 1945 e far progredire una concezione kantiana dell’ordine internazionale.

Può dare esempi concreti?
Nel G-7 , nel Fondo monetario internazionale e in tutti gli altri organismi internazionali, dalle Nazioni Unite all’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (OCSE), l’Europa è iper-rappresentata e per questo stesso fatto ininfluente.

Così potrebbe fare l’Europa oggi nel campo della vigilanza bancaria: definire nuove regole e nuovi poteri mondiali sarebbe più facile se l’Europa stessa accettasse nell’Unione una sorveglianza sovranazionale.

Ciò di cui l’Europa ha bisogno per affrontare le sfide interne e per contribuire a un ordine globale sono la stessa cosa; l’elemento che manca per realizzare questi due obiettivi apparentemente diversi è uno solo, è lo stesso, ed è il compimento dell’Unione. Come è vero che compiendo l’Unione l’Europa avrebbe un  ruolo guida nelle relazioni mondiali, così è vero che senza una leadership interna l’Europa non può portare a compimento l’Unione.

Il legame della Germania con l’Europa è diventato un matrimonio d’interesse, non più di necessità né forse d’amore, tanto più dopo che la Germania ha portato in dote all’Europa la cosa più preziosa che aveva, la sua moneta.

La Germania è molto esposta sul fronte delle esportazioni, con un tessuto economico vecchio, strutture bancarie superate, e un federalismo in difficoltà, con un potere centrale spesso ostaggio dei Lander.

6.RICORDARE IL FUTURO. LA CRESCITA DIFFERENZIATA

La crisi è economica prima che finanziaria, è la crisi di un modello di crescita, la bolla dei consumi a credito. La responsabilità fondamentale è della politica economica, non del mercato; la politica economica sapeva, doveva sapere, che un mercato senza regole non è naturalmente stabile.

Non sono favorevole a un’economia di comando. Sono fermamente convinto che in economia la “mano invisibile” di Adam Smith trasforma il perseguimento dell’interesse individuale in maggiore ricchezza collettiva. Ma sono anche convinto che ciò possa avvenire solo quando vi sia una cornice di regole decise dalle autorità politiche. La crisi di oggi è dovuta a un mercato sregolato, che per troppi anni non è stato, per così dire, inquadrato. Anzi è stato consapevolmente deregolamentato.

Della crescita economica non si può dire né bene né male se non si specifica “crescita di chi” e se non si approfondiscono le relazioni tra i diversi “chi”. La popolazione mondiale, circa sette miliardi di persone, è fatta di ricchi, poveri e affamati. I ricchi sono circa un miliardo, abitano l’Occidente e il Giappone; per essi vale la critica del consumismo; sono obesi, non magri. I poveri sono circa cinque miliardi, spesso obesi, non magri. I poveri sono circa cinque miliardi, spesso non hanno scarpe ai piedi, né acqua corrente in casa, né pensione o sussidio di disoccupazione, sono per lo più analfabeti, mancano di cure mediche , iniziano a lavorare da bambini, ma riescono a sfamarsi e a coprirsi in qualche modo dal freddo e dalla pioggia. Gli affamati sono circa un miliardo, vivono soprattutto in Africa, ma anche in Asia e in America Latina (quasi nessuno in Occidente o in Giappone), muoiono di fame e di malattie che da noi si curano a poco prezzo. Ebbene, il tema della crescita è difficile perché dobbiamo parlare di tre crescite diverse, non di una sola; e le tre crescite sono legate.

Per i poveri e  gli affamati la crescita economica dovrebbe continuare, accelerare, diffondersi; in Occidente e in Giappone, dove è fondata sul superfluo, dovrebbe invece fermarsi.

Ritengo che il modello di crescita che ho tratteggiato – la crescita differenziata – sia quello verso cui si deve muovere e che la cosiddetta economia di mercato vada non soppressa, ma indirizzata verso un funzionamento che aiuti a realizzare quel modello.

Torno quindi a quanto abbiamo detto di un universo kantiano nel quale regole generali abbiano il sopravvento sui poteri nazionali.

Chi governa deve essere scelto da chi è governato, ma nello stesso tempo deve governare chi lo ha scelto, il che significa dare una direzione, un indirizzo, anche vincendo le resistenze che incontra.

Sul fronte economico abbiamo visto solo l’inizio: il calo della produzione e l’aumento della disoccupazione sono destinati a continuare e dubito si possa tornare presto agli anni falsamente dorati che abbiamo alle spalle.

La crisi finanziara nasce dall’incapacità della politica di frenare – tra le altre cose – gli eccessi dell’economia.

Considero l’ingresso di Barack Obama alla Casa Bianca più che l’elezione di un nero non repubblicano. E’ la venuta sulla scena politica di una personalità eccezionale, favorita dallo scoppio di quella che ho chiamato una bolla politica, oltre che economica e finanziaria.   

Stiamo vivendo la fase di emergenza di una svolta che muta il corso di molti anni davanti a noi. L’emergenza impone decisioni rapide, ma la vera sfida per chi governa o pensa politicamente, come cittadino, sta nell’andare oltre la quotidianità e nel praticare lo sguardo lungo.

Uscire da questa crisi con una memoria lunga del futuro, non solo con la giusta lezione del passato.





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