venerdì 13 gennaio 2012

scrittori e 150° unità Rivista italiani europei

ITALIANI EUROPEI
AA.VV.

ALTRE ROME VERRANNO

«Altre Rome verranno, delle quali non immagino il volto, ma che avrò contribuito a formare. Quando visitavo le città più antiche, sante, ma ormai estinte, senza valore presente per il consorzio umano, mi promisi sempre che avrei evitato alla mia Roma quel destino pietrificato d'una Tebe, d'una Babilonia, o di una Tiro. Essa sarebbe sfuggita al suo corpo di pietra; essa si sarebbe composta della parola Stato, della parola cittadinanza, della parola repubblica, insomma di una più sicura immortalità. [. .. ] Roma si perpetuerà nella più modesta città ove dei magistrati si diano cura di verificare i pesi dei mercanti, di pulire e illuminare le strade, di opporsi al disordine, a//'incuria, alla paura, all'ingiustizia; di reinterpretare con ragionevolezza le leggi. Roma non finirà che con l'ultima città degli uomini».
Così il monologo dell'imperatore Adriano nelle mirabili "Memorie di Adriano" (1958) di Marguerite Yourcenar. Humanitas, Felicitas, Ubertas: questo - continua l'autrice - fu il lascito di Roma. E tale ideale perpetuò il Grand Tour, da Montaigne a Goethe, da lord Chesterfield a Madame de Staill In "Corinne ou l'ltalie'' (1807) l'<<improvvisazione>> che Corinna declama in Campidoglio dà conto di secoli di tale mito di Roma: «Roma conquistò l'universo grazie al suo genio, e ne fu regina in virtù della sua libertà.
Il carattere romano s'impresse sul mondo; e l'invasione dei barbari, distruggendo /'Italia, oscurò l'universo intero».
Non sono soltanto sogni romantici: ancora nell'ultimo quarto del XX secolo possiamo leggere nelle "Poesie italiane" di losif Brodskij: «Lesbia, Cinzia, Livia, Michelina. I [. .. ] I carne che ha acquistato eternità come l'anonimità di un torso. I Fonte d'immortalità: quelli che vi hanno conosciuto I nude, sono diventati catullo, statue, augusto, I traiano e altri ancora. Dee provvisorie!
A voi sì I credere è dolce, non alle sempiterne. I [. .. ] I lo, il più mortale dei passanti tra queste rovine, I che si rizzano come costole del mondo, bevo vino I avidamente da un osso cavo, d'estate, nella sera. 1[. . .] I Guardano in su le cupole, mammelle della lupa che, allattati I i due gemelli, si è rovesciata a dormire» ("Elegie romane", XI). E non meno «fonte d'immortalità» appare l'Italia in "Ultimo round" (1969), di Julio Cortizar contemplante le Tombe etrusche: «Un'ultima vanità trattiene le figure I la terracotta intirizzita che i tumuli l’hanno protetto dai venti e dalle orde. La sposa e lo sposo,  il cane fedele, l'anfora,  le offerte per il lento itinerario. 1[. .. ] I Come piegarsi al peso vischioso dell'ombra, I consegnare tanto marmo, tanto sangue schiumoso ai fili spezzati dell'oblio? Il Ecco perché il policromo simulacro e la vita in sospeso, I la tomba che è anche casa, I la morte divenuta consuetudine e rito. I Una ciclica festa gira sulle pareti con i suoi rossi, i suoi verdi, le sue terre ordinate. Il [. .. } Il Ma il banchetto immobile continua, il viaggio continua sotterraneo, I in salvo dal cambiamento, nulla bagna I le guance brunite dal fuoco, I ignorate dal tempo nella sua corsa I in superficie, negli alberi che passano e si alternano. Il Sul tumulo un pastore I canta per la brezza».
L'Italia ha camminato per secoli sopra la crosta dell'eternità: questo si è venuto a cercare da tutto il mondo: la bellezza di una «vita in sospeso, I la tomba che è anche casa», il confine che si stempera e s'annulla tra chi fu, chi è, tra la vista e la memoria, il ricordo e il sogno (ancor oggi camminando tra le balze di Volterra, vedete sul fondo salire vapori inferi: vi venne qui Dante per il suo "Inferno',? Qui soltanto, leggendolo ora, lo sapete esattamente vivo? Qui, così vero, quel "bulicame", laggiù, è divenuto maestà di natura e non più terrore). L'arte era la mano tesa dall'eternità al tempo presente: un lascito, un patto, un vincolo. Nelle scuole della Firenze del secondo dopoguerra, tra cumuli ancora di macerie, il sindaco La Pira distribuiva ogni anno, agli scolari della città, la plaquette descrittiva di un monumento secolare: perché tornasse a vivere prima ancora d'essere restaurato, perché fosse già futuro prima ancora d'essere tornato presente.

La responsabilità che abbiamo di siffatta eredità è immensa: la conversione all'effimero che ci è stata predicata per anni è, in Italia, degna della Caina: come l'omicidio dei più cari familiari; bisognerebbe che ciascuna delle scolaresche tornasse al Grand Tour per dare respiro al proprio animo, per calarsi e modellarsi in quella forma che varca il tempo, farsi un poco immortali con le strade che ci portano e hanno condotto generazioni e millenni.
Se i turisti vengono sempre meno in Italia è anche perché non vedono più quella continuità di gesti (<<Sul tumulo un pastore I canta per la brezza»), non vedono più un passo che incarni secoli. Divenendo anche noi un non-luogo, i cercatori di artificiale migrano nelle molteplici Disneyland del presente: più sicuri, lì, che il passato non li interroghi.
Le testimonianze qui raccolte, nel loro impegno, nella loro autenticità, aiutano a non sentirci soltanto «eredi della sconfitta», ma semplicemente, responsabilmente, eredi.

Carlo Ossola Membro del Comitato Scientifico della Fondazione Itaianieuropei, insegna Letterature moderne dell'Europa neoiatina al Collège de France di Parigi

Gran Tour
RIVISITARE L’ITALIA NEI SUOI 150 ANNI

Italia mia

Luisa Adorno

Luisa Adorno (pseudonimo di Mila Curradi) è nata a Pisa nel 1921 e dal 1943 vive a Roma. Il suo primo libro "L'ultima provincia" (1962) edito da Rizzoli fu ristampato da Sellerio nel 1983 su consiglio di Leonardo Sciascia. Le sue opere, tutte pubblicate da Sellerio e tradotte in varie lingue, sono: "Le dorate stanze" (1985), "Arco di luminara" (1990, Premio Leonardo Sciascia e Premio Viareggio), "La libertà ha un cappello a cilindro" (1993), "Come a un ballo in maschera" (1995), "Sebben che siamo donne ... " (1999, Premio Vittorini), "Foglia d'acero" (2001) e "Tutti qui con me" (2008). Nel2001 è stata insignita dell'onorificenza di Grande Ufficiale dell'Ordine al Merito della Repubblica Italiana.

Anni fa, una delle ultime volte che partecipai a un convegno della Fondazione Sciascia a Racalmuto, mi resi conto, con un'occhiata, di quanto la mia età fosse lontana da quella degli altri invitati a parlare. Così, aprendo bocca per prima, «Mi sento uno degli ultimi garibaldini» confessai «di quelli che, nella mia prima adolescenza, chiudevano i cortei fascisti sforzandosi di mantenere il passo» e aggiunsi «se Sciascia fosse qui riderebbe con me».
Infatti eravamo perfettamente coetanei e pur essendo cresciuti in mondi lontani e diversi, quali la Sicilia e la Toscana di allora, la nostra infanzia aveva le stesse impronte (Titina, la cagnetta di Nobile, le figurine Zaini, le bandierine sulla carta d'Etiopia, la croce del merito senza merito ... traggo dai suoi libri e dalla mia memoria), la nostra giovinezza gli stessi entsusiami le stesse delusioni.
Comunque pochi erano quei garibaldini, quattro o cinque all'inizio, e diminuivano ogni anno. Avevano capelli bianchi lunghetti e incolti, cenciose camicie rosse, gambe incerte: noi ragazzi aspettavamo di vederli passare con un'eccitazione mista di curiosità e rispetto.
L’ultimo lo vidi una domenica di primavera dal prato del Duomo. Che anno era? Se io e Ninni eravamo li da sole dovevamo essere sui dodici anni, vale a dire i primi anni Trenta. Lo ricordo perché in quel era autorità, labari e gagliardetti vidi sfilare anche il babbo di lei. Piccolo, magro, in camicia nera stretta in vita dalla fascia mi sembrò particolarmente dignitoso, elegante. Fu quella anche la prima volta che mi resi conto di come mio padre non andasse mai in corteo. Anzi nei giorni delle celebrazioni ufficiali schizzava a Livorno, a pescare. «Con i miei amici del porto» diceva rivolto a mia nonna, sua madre, subito adombrata «tutti e due pregiudicati» aggiungeva con divertita sfida.
Inghiottito, appena laureato, dalla prima guerra mondiale, ne era uscito col grado di maggiore che gli sarebbe servito, in seguito, solo a essere richiamato fra i primi nella guerra fascista, anche senza essere andato ai cortei.
Nel frattempo era diventato l'avvocato dei poveri. Certe sere d'inverno, dovevano essere sere da lupi perché non uscisse, portava giù dalla soffitta una grossa cartella da disegno con tanti legacci, zeppa di fogli, di vecchie lettere. Si metteva a scorrerne qualcuna, sorrideva ogni tanto, alzava la testa «Questa è di Guerrazzi» annunciava, senza riuscire a distogliere me, mia madre o mia nonna da una commedia alla radio. «Questa è di Guerrazzi», ringrazia mio zio ... Figurarsi ... di Fattori c'era, nel salottino di passaggio, il ritratto a grandezza naturale fino al ginocchio accavallato, di un grosso signor in poltrona, con cui mi trovavo faccia a faccia ogni volta che andavo a tirare su la maniglia per aprire il portone… Appunto: lo zio.
Era arrivato in casa da Livorno, questo Fattori prima maniera, con l’eredità destinata a mio padre dalla vecchia zia di cui avevo sentito parlare tra parenti, con stupore e allegria, perché a ottant'anni aveva messo il dente del giudizio.
Il problema, per appenderlo, era stata la cornice, larga più di dieci centimetri, irta di frutti a tutto tondo, dorata, non di legno come sembrava, ma di ceramica.
«Della fabbrica di lui» aveva spiegato mia nonna, con lontana invidia di cognata rimasta vedova giovanissima.
Un imprenditore in famiglia mi dico ora, ce l'avessi oggi! Prenderebbe in affitto un bel capannone in Cina, produrrebbe a costo quasi zero e senza abbassare i prezzi in Italia ci renderebbe tutti ricchi. Oddio! Contribuirebbe, si, alla disoccupazione, ma tant'è, un po' più, un po’ meno…
«Era un mecenate» aveva detto mio padre  guardando il ritratto appena issato «aiutava gli artisti…aiutava Fattori, ci sono lettere …».
Allora no, lui non prenderebbe in affitto il capannone in Cina, fallirebbe magari o morirebbe presto, anche molto prima che la moglie mettesse il dente del giudizio. Quanto a Guerrazzi era un nome che evitavo, non sapevo bene chi fosse e temevo mi venisse chiesto. Anche oggi, del resto, se mi dicessero «Parlaci di lui o ti mettiamo al muro» finirei al muro.
Ma ne avevo rispetto attraverso l'importanza che gli dava mio padre quando sfogliava il libro "I garibaldini livornesi nel risorgimento italiano. Note storiche (1847-1859)" stampato nel 1913 a Livorno dalle officine grafiche Chiappini. Libro che si direbbe pubblicato solo per noi, visto che nessuno dei parenti vogliosi è mai riuscito a trovarne una copia, nemmeno nelle biblioteche.
Se lo fece dare, invece, da mia nonna il figlio minore, venuto a trovarla a Pisa da Roma, mentre mio padre era in guerra. Per fortuna, perché così si è salvato e ora l'ho io. Tutto il resto: il ritratto del prozio, la grande cartella da disegno piena di lettere, la cartellina durissima, rivestita di carta telata, lucida, nera, mi riaffiora in questo momento tanto poco mi piaceva sulla mia prima scrivania, bianca nell'interno dove una grafia minuta, piegata verso destra, aveva vergato un fitto scritto. « ... questa cartellina è stata con me durante la spedizione dei mille» ricordo soltanto, non la firma (non c'era o non le davo peso? Somara che ero, che sono!), tutto, dicevo, sprofondò con la casa nel bombardamento del '43.
Ecco ora ho il libro in mano, lo sfoglio. Ogni tanto ha una pagina bianca, in carta lucida, con al centro una foto a mezzo busto, in ovale, di Garibaldi la prima. Un Garibaldi severo, dal volto magro, altissima la fronte senza il riparo della papalina, niente a che fare col "biondo duce dei mille" a cui ci avevano avvezzati i vecchi libri di testo.
Nella seconda: Guerrazzi. Ripreso più da vicino, il volto sembra poggiare direttamente sul bavero di un pellicciotto. Svolto, cerco la terza. Era questo che lusingava mio padre «Subito dopo Guerrazzi viene Giuseppe Curradi, mio nonno! ». Bello devo dire, dritto, asciutto, attillato in una redingote nera, il volto dai lineamenti fini orlato da un filo di barba, curata.

Sulle altre, rade, pagine bianche le foto diventano rettangolari e riproducono scene di battaglie da stampe, da quadri: "Morte di Luciano Manara".
"Morte del livornese Pasquale Pichi". Sull'ultima ritornano ovali, ma tre in una pagina, di patrioti mazziniani, come se l'autore, Attilio De Fusco, mazziniano, non volesse prendere troppo posto.
Poiché De Fusco non racconta la vita dei protagonisti, ma li presenta via via all'interno degli avvenimenti, per sapere qualcosa di più del mio bisnonno, devo scorrere una cinquantina di pagine, con l'occhio a brevi citazioni sottolineate nel tempo dai parenti, fino a quella in cui si dice «dopo la difesa di Livorno riuscì a sfuggire agli artigli austriaci e raggiunse Garibaldi a Roma». Lì, a piè di pagina, da una lunga nota a caratteri piccoli vengo a sapere che «Giuseppe Curradi, nato nel 1829 ... nel '48 (ovvero a 19 anni) combatté a Curtatone, dove salvò la vita a Cesare Menaboni ferito alla fronte da palla nemica ... ».
Curtatone! La parola mi accende. Ritrovo la mia giovinezza di guerra all'Università di Pisa, la fierezza per il nostro berretto da studente diverso da quello di tutte le università italiane, poco più di uno zucchetto da quando, appunto, gli studenti della nostra, accorsi volontari a Curtatone e Montanara, avevano tagliato la lunga tesa a punta che impediva di prendere bene la mira col fucile. Il mio, della facoltà di Lettere, era rosa. Lo usavo molto di rado, ma lo amavo proprio per quel ricordo, ci avevo appeso qualche ciondolo e scritto, con lunghi punti di filo blu, «Domani studio» (non proprio una battuta).
La facoltà di Lettere era invisa al governo per quello che certi professori, presto in silenzio arrestati, potevano insegnare e per quel trust di cervelli rappresentato dai" normalisti", quasi tutti ragazzi del Sud, che superata una selezione durissima per entrare nell'ambito collegio, dovevano dare, per restarci, più esami di noi e mantenere una media altissima.
Credo di dovere anche ai frequenti, liberi discorsi con loro, alla crudezza di certi loro giudizi, alla serietà di vita che si erano imposti, se nel '43, quando il bombardamento tutti ci disperse, potei affrontare, a Roma, i mesi dell'occupazione tedesca, con la fame e i rischi di un bracciantato nella Resistenza, considerati in seguito i più intensi, i più carichi di speranze della mia vita.
La libertà guadagnata l'ho comunque goduta, anche dopo il crollo ai miei occhi, molto prima che accadesse davvero, del mondo in cui avevo candidamente credulo, ovvero un mondo più giusto, che offriva una vita semplice, austera, senza la volgarità del lusso, o l'insulto di stipendi astrali. E l'ho goduta non da posizioni di potere, ma da un lungo, paziente lavoro nella scuola.
Per questo tremo al pensiero di una riforma che dimezza il numero delle classi, stantuffa gli alunni nelle aule e dice «Ora tocca ai professori!» come se li premiasse. Senza contare i giovani insegnanti, sia pure precari, sia pure mal pagati, rimasti del tutto a spasso.
Se poi penso al significato di "lavoro a progetto", a cui sono arrivata da poco, mi chiedo com'è possibile, oggi, che un giovane, assunto a contratto, con uno stipendio minimo, senza garanzia di rinnovo, né ferie, né copertura di malattia, sia assicurato per tre ore e costretto a lavorarne dalle dieci alle dodici, in sede.
Vuoi dire che riporterò nella casa dei miei suoceri, in Sicilia, dove niente è mai andato perduto, il vecchio orologio da taschino, trovato in un cassetto, insieme ad altri abbandonati, e portato via da me per le parole «otto ore lavoreremo, otto ore ci istruiremo, otto ore riposeremo» scolpite in rilievo sulla cassa, che suonavano ancora trionfo e speranza.

L’ITALIE TELLE QU’ELLE EST

EDOARDO ALBINATI
L'ltalie telle qu'elle est

Edoardo Albinati

Edoardo Albinati è nato a Roma nel 1956. Ha pubblicato vari libri tra cui si ricordano: "Il polacco lavatore di vetri"; "Orti di guerra"; "19"; "Il ritorno"; "Sintassi italiana"; "Svenimenti" (Premio Viareggio, 2004); il romanzo "Tuttalpiù muoio", scritto con Filippo Timi. Dal 1994 insegna presso il penitenziario di Rebibbia di Roma, esperienza che ha narrato nel diario "Maggio selvaggio". Il suo libro più recente è la raccolta di racconti "Guerra alla tristezza!" edita da Fandango.

L’imprenditoria, il crimine, i viaggi di esplorazione, l'arte e la letteratura sono tutte forme di autopromozione e autolegittimazione da parte di individui che tentano di sfuggire" alla stretta delle miserie morali e materiali" dell'esistenza piccolo-borghese, all'angustia e stagnazione dell'ambiente da cui si proviene. È una smania che può produrre: rapine, fondazione di giornali e partiti, film, Fortune industriali, fughe nell'LSD. C'è chi uccide i genitori per prenderne l'eredità e chi scrive romanzi di 700 pagine o si candida alle elezioni europee.
Brigantaggio più o meno politicizzato, dissidenza politica più o meno brigantesca, potere esercitato con metodi predatori: il brigante resta un personaggio esemplare e fungi bile della nostra storia e si ibrida facilmente a varie figure della politica. Prestandosi a ricoprire ruoli opposti o trascolorando dall'uno all'alltro, opprime e riscatta, perseguita e vendica.

Chi era stato prigioniero dei briganti e aveva avuto la fortuna di uscirne vivo, testimoniava che costoro passavano tutto il loro tempo a raccontare storie di briganti.

Nelle strettoie in cui il ricorso alla violenza è decisivo per far cambiare bruscamente direzione alla storia, torna utile un certo tipo di manovalanza criminale. Non c'è neanche bisogno di arruolarla: senza che ve ne sia un'esplicita richiesta, viene misteriosamente offerta la disponibilità a entrare in azione di chi ha esperienza diretta nel sopraffare e nell’uccidere, e poche remore a farlo o nessuna. Questo spiega perché a fianco di nobili idealisti o semplici esaltati, si trovi quasi sempre un certo numero di disinvolti e intraprendenti pendagli di forca.

Non sono mai le situazioni in sé a creare la ferocia, bensì a permettere che la ferocia si scateni.

Come bambini che hanno combinato qualche guaio infrangendo un divieto familiare che sapevano intoccabile, i ribelli più spavaldi una volta messa in moto la macchina irrevocabile della rivolta possono arrestarsi colti dalla paura, non dell'autorità che hanno sfidato ma di se stessi, nel dubbio cioè di essersi spinti troppo avanti. Per qualche istante prima di riprendere la lotta vorrebbero poter dire «Va be', abbiamo scherzato ... » oppure «sto sognando tutto questo» e riavvolgere all'indietro il nastro degli eventi. Sembrano spaventati dalla loro stessa audacia.

A un carabiniere dell'Italia post-unitaria, capitava meno spesso di far fuoco su nemici della patria che sui propri concittadini. Forse perché questi ultimi venivano spesso scambiati per i primi.

Qualsiasi Stato, una volta insediatosi e stabilizzatosi, pone i suoi uomini di fronte all'alternativa tra occultare con imbarazzo gli episodi di illegalità e violenza che ne hanno accompagnato la fondazione (il tracollo del precedente regime, una rivoluzione, una campagna militare) oppure rivendicarli come eroici. In entrambi i casi, nascondendoli o aureolandoli di retorica, li si mistifica. Il lato cruento viene decantato, perché troppo disgustoso se descritto in modo franco per quello che effettivamente era e inadatto a favorire la nuova coesione sociale. Fucilate e fucilazioni debbono svanire senza eco nel silenzio o essere sparate a salve in apposite cerimonie rievocative. Molti anni dopo, il revisionismo storico sopravviene, spesso con spirito polemico e un po' manesco, per raddrizzare il quadro storto a colpi di rivelazioni che si vorrebbero oggettive, creando però non un effetto di salutare verità ma solo indiscriminata ripugnanza verso la propria storia, che d'un tratto riemerge costellata di delitti e infamia. Ormai è troppo tardi, bisognava dirla prima, la verità.

Avvicinandosi a Roma i pellegrini del Medioevo cantavano: «Accogli le nostre preghiere, o Paolo, il cui zelo vince i filosofi». Cosa vuoi dire che lo zelo vince i filosofi? Forse credo di saperlo. È una massima politica più che religiosa, da rimuginare, di cui tener conto.

In Italia hanno versato o fatto versare sangue i moderati almeno tanto quanto i rivoluzionari; persino durante gli anni di piombo il moderatismo, cioè la difesa dello status qua, a colpi di bombe, ha mietuto vittime come l'estremismo vero e proprio. Per risolvere le contese sociali a modo loro (appunto, secondo il loro modus) i cosiddetti moderati non si fanno scrupoli a usare mezzi terroristici, con la giustificazione che questo serve a impedire violenze anche peggiori. Poi esiste un fanatismo tutto specifico nella cosiddetta moderazione, che nasce dal risentimento.

Mentre nel Palazzo possono entrare solo i politici eletti, in piazza può scendere chiunque. È sciocco perciò chiedersi con abbondante quanto futile ironia perché continuino a essere indette grandi manifestazioni, cortei e sfilate. Chi fa questo evidentemente non conosce o sottovaluta il loro aspetto festoso e insieme minaccioso. Per capire certi riti comunitari occorre riconoscere come in essi si mescolino fino a essere indistinguibili entusiasmo e furore, obbligo e ipocrisia, spirito di adesione e condivisione, anticonformismo ma anche conformismo, eccitazione, speranza e paura. Altrettanto, scambiarli per innocui e salutari esercizi di democrazia, sfilate ginniche con la Costituzione in mano, è un errore, dovuto non so se a ingenuità. L'individuo col suo bel corredino di diritti scompare se crede sul serio di "aver voce in capitolo" in quanto tale. Ciò che più affascina nella piazza è lo spettacolo grandioso e tremante dell'anonimato, esposto nella nuda visceralità dei suoi componenti, come pura vita senza specificazioni, e perciò anche pauroso. Quelle enormi nubi luccicanti di pesci che vorticano rifuggendo dalla mano del sub, per poi tornare compatte, non le definirei" democratiche".

Qualcuno ha fatto notare come spesso (e senz'altro questo è vero per l'Italia) le tecniche insurrezionali siano state teorizzate, predicate e simulate a sinistra; e poi messe in opera a destra. La sinistra appronta il laboratorio sovversivo con tutti gli strumenti, ma gli scienziati pazzi a usarlo sono i fascisti. Hanno imparato velocemente e avidamente la lezione su come si mobilita la folla, su come si espugnano i luoghi di controllo, prefetture, stazioni, caserme, mettendoci un pizzico in più di addestramento militare e l'abito mentale della guerra.

Malgrado si proclamino paladini della tradizione, i fascisti sono stregati da una figura dell'assoluta discontinuità, della rottura con qualsiasi passato, dinastico o democratico e cioè la figura unica ed estemporanea del dittatore: sorto dal nulla, fattosi da sé e alla stessa stregua disfattosi e tornato nel nulla, il che è quanto un autentico tradizionalista dovrebbe aborrire maggiormente: l'homo novus.

I fascisti fanno esperimenti sulla vita e nella storia con lo stesso spirito curioso e crudele con cui i bambini vivisezionano una lucertola col temperino. Vogliono sapere com'è fatta" dentro", se ce la fa a camminare con le zampette recise e quanto vivrà con le budella di fuori. Non è nemmeno cattiveria in senso stretto, ma un metodo sperimentale brutale e ingenuo come ai tempi di Bacone, che strozzava polli per congelarli (e si prese la polmonite di cui morì), lo stesso con cui Cattaneo, secondo Carlo Dossi, batteva le campagne lombarde e alzava la gonna alle contadine per verificare, empiricamente, se tra le cosce ce l'avessero indriss o di sbiess.

La figura narrativa ideale per intrecciare i fili di storie diverse e contraddittorie, unificandole, è il rinnegato, che riesce ad essere figlio di tutte le tradizioni.

Due modalità canoniche degli intellettuali italiani di rapportarsi al potere: omaggio o oltraggio, talvolta le due cose insieme, poiché l'oltraggio a una fazione politica funziona da omaggio a un'altra.

Per quanto possano sembrare ciechi o ridicoli o sgradevoli, coloro che coltivano un'illimitata dedizione a un'idea ispirano sempre un certo rispetto. Ripeto, anche nel caso la loro idea sia assurda o persino ripugnante, il fatto di perseguirla con tutte le forze e sopportando ogni sacrificio, provoca ammirazione. Il martirio non perde di splendore a prescindere dagli ideali nel cui nome ci si è immolati. Diciamo, ecco, che ha un splendore cupo.

È forse inevitabile che una fede rivoluzionaria, quanto più accesa, non duri a lungo. L'intensità è inversamente proporzionale alla durata. Che se la rivoluzione ha luogo, compie ed esaurisce la sua ragion d'essere, sia essa riuscita secondo i suoi propositi oppure l'abbia traditi, in ogni caso il rovesciamento è avvenuto una volta e non può continuare ad avvenire ("rivoluzione permanente" è un delizioso nonsense, risonante di suggestioni); oppure la rivoluzione fallisce, abortisce, vale a dire, resta a metà o non ha affatto luogo oppure viene posposta, come accade quasi sempre (altrimenti ce ne sarebbe una alla settimana ... ), rinviata" a tempi più maturi", diventando non più un progetto politico da portare a compimento, bensì un sogno da cullare, un'immagine votiva.

Inutile il richiamo al buonsenso, allo spirito di giustizia e a sentimenti di equità, quando a far presa sugli uomini sono forze che si indirizzano alla zona abissale e insondabile dell'anima, saltando deliberatamente il circuito virtuoso e tortuoso della ragione per battere una scorciatoia emotiva. La prima vittima di queste forze è appunto la logica, la consequenzialità, il legame causa-effetto, la capacità deduttiva e soprattutto induttiva: salta tutto. Ciò che è, ciò che potrebbe o dovrebbe essere e ciò che non è, diventano un'unica cosa. L'errore viene assunto al rango di prova suprema di quel che è giusto, se si è convinti a priori che quel che è giusto sia superiore a qualsiasi errore, anzi, si nutra di errori per crescere. Sbagli, menzogne, malefatte e ingiustizie palesi servono a confermare la bontà di un'idea se questa riesce a sopravvivere alle conseguenze negative che essa stessa ha scatenato. È la verità paradossale della novella di Boccaccio dove il giudeo si converte al cattolicesimo dopo aver constatato che il Vaticano è una fogna e i preti scellerati - perché se una religione può sopportare un tale scempio e superare i millenni, vorrà pur dire che è vera! È la stessa fede che invita Abramo al crimine più odioso: non importa che lo commetta o no, ma che vi sia disponibile. L'uomo di vera fede «dev'essere sempre pronto a sacrificarsi o a uccidere», o quantomeno a lasciar uccidere, se questo la sua fede gli prescrive. Tra uccidere (sacrificio) e lasciarsi uccidere (martirio) non vi è poi questa differenza, vi è sempre qualcuno che viene privato brutalmente della vita per obbedienza a un supremo volere, lo stesso più o meno che si esige da un soldato in guerra. Fede non può che essere obbedienza a un dettato: nel momento in cui si cominciasse a esaminare la ragionevolezza di tale ordine, la sua rispondenza a criteri esterni di giustizia o di logica, ecco che la fede già si è dileguata.

Nell'estremismo convivono tipi umani molto diversi: il fiammeggiante e l'analitico, il retorico appassionato e il taciturno. Intendiamoci, tutti questi tipi al momento giusto sanno scatenare il grado di violenza necessario, eppure i più spietati risultano senz'altro quelli che in apparenza erano pacati, dotati di spirito razionale, come se l'uso della logica non impedisse anzi incoraggiasse l'incamminarsi sui sentieri tetri ma ineludibili della disumanità.

Ai dotti, capaci di sottigliezze ma anche stufi di produrne e ascoltarne, piace talvolta essere tranchant. Fino alla brutalità. Il semplicismo ideologico viene formulato dai dotti a uso e consumo degli ignoranti.

Verbi demiurgici come "plasmare", "forgiare" ... l'ossessione estetica di un materiale umano a disposizione come cera da modellare.

L'idea astratta e depurata di "fratellanza", come quella già più concreta di "prossimo", fanno scordare un'evidenza familiare a tutti: e cioè che può essere proprio la contiguità a sviluppare l'odio, e che il disaccordo tra simili (tra veri fratelli!) può arrivare al sangue.

Generato da onde emotive inebrianti ma destinate a smorzarsi, il gruppo tenta di difendersi dalla sua l'abilità costitutiva impregnandosi, ubriacandosi con l'ethos della fedeltà. L'alto tasso di fanatismo che normalmente ci si immagina rivolto verso il mondo circostante, con la funzione di un carapace, serve piuttosto da protezione e sostegno interno al gruppo. Loosing my relligion segnerà comunque il suo decorso.

La lega dei patrioti e dei rivoluzionari, una volta raggiunti i suoi obiettivi, è destinata a scadere almeno in quanto a temperatura ideale, dando vita a un'istituzione che presto sarà data per scontata e più oltre e peggio, in cui ognuno si adopererà solo per curare i propri interessi. Il mistico sodalizio che l'ha generata si raffredda fino a dissolversi. Ciò è avvenuto (come del resto altrove) in Italia nel giro di pochi anni, per la patria a seguito dell'unificazione, e per la democrazia dopo la caduta del fascismo. Patria e democrazia sembrarono dati acquisiti una volta per tutte e per cui non si può provare alcun affiato, anzi, verso cui è legittimo mostrare una certa noia distaccata, se non addirittura insofferenza ironica, come nei confronti dei riti natalizi o dei pranzi la domenica con le pastarelle e i suoceri: vuote convenzioni, insomma. L'entusiasmo si è trasformato in routine e lo slancio in cerimonia. Dalle ceneri nervose delle minoranze attive (carbonari, "piccoli maestri" partigiani) sorgerà una vasta comunità di rapporti automatici.

Il profano è l'ambiente in cui la nostra vita si svolge, il sacro è la fonte stessa della vita. Se la vita ambisse a permanere nel sacro dove ha origine, perirebbe, se la vita dipendesse esclusivamente dal profano, non nascerebbe affatto.

Il bene è concentrato, il male diffuso.

Se si prende un punto o un momento a caso, mediamente vi si ritrova più male che bene; ma se si scelgono alcune zone, o individui, o epoche, o istanti della vita, oppure costumi, o azioni, o luoghi vi si rinvengono smisurati giacimenti di bene.

Alcuni manuali di guerra e libri di storia dicono che, in battaglia, a volgere per primi la schiena al nemico siano quasi sempre i soldati delle file arretrate, non gli uomini che stanno in prima fila, i quali peraltro, se si voltassero per darsi alla fuga, verrebbero uccisi sul posto dal nemico. I corollari paradossali di questa osservazione, applicabile in molti altri campi e situazioni, sono che a svignarsela per primi sono i meno immediatamente minacciati; e che il coraggio che circola nelle prime file è frutto del medesimo spirito di autoconservazione a cui obbediscono i codardi delle ultime.

Quando ero ragazzo, nei discorsi e sui giornali e in politica si scontravano la retorica dell'avvenire e la retorica del passato, scontro che a grandi linee corrispondeva anche al conflitto tra umanesimo e scienza, tradizione e innovazione, destra e sinistra. Era un campo di battaglia profondo molti chilometri, anzi, molti secoli, costellato di icone virtuali e diacroniche, dalle legioni romane alle avanguardie rivoluzionarie agli androidi. La capacità mitologica del linguaggio era tale da infondere vita e splendore a un'Età dell'oro trascorsa (forza-onore-coraggio) o a una futura (progresso-libertà-eguaglianza). Oggi almeno in Occidente il futuro ha smarrito parecchia della sua desiderabilità, sfigurato dalla profezia di un inesorabile e forse nemmeno così lento declino; e per praticare degnamente una retorica del passato, siamo ormai troppo ignoranti e smemorati. Dove sono gli eruditi alla De Maistre e alla Pound che possano rinnovarne il fasto? O utopisti veri che delirino sulla prossima liberazione? Ne deriva la perdita di profondità dell'immaginazione, un senso di schiaccia mento sul presente, una convergenza disperata su ciò che è e basta, il che potrebbe non essere un male se ci costringesse finalmente a guardarlo negli occhi senza le distrazioni causate dallo scintillio di altri mondi possibili.
(Eccetto che nell'ultima frase, questo che avete appena letto rischia di essere un tipico esercizio di retorica del passato - «quando ero ragazzo ... ecc.» che appunto in extremis ho tentato di scongiurare) .

... escono di scena per avviarsi alla battaglia che sono re o dittatori - squilli di tromba, nitriti - e vi rientrano trenta secondi dopo, distrutti, con gli abiti a brandelli, balbettando frasi memorabili tipo «Il mio regno per un cavallo!».

Per me la fede è roba da bambini e l'unico peccato è l'ignoranza
(Machiavelli nel prologo dell'Ebreo di Malta)

Possibile che questa creazione duri solo centocinquant'anni? Pochi, certo, confronto alle nazioni secolari fondate dalle corone inglese, francese o spagnola; ma piuttosto lunghi rispetto al ciclo di altri pezzi di Europa che si sono squagliati nel giro di qualche decennio. La Jugoslavia è durata la metà di noi, la Cecoslovacchia qualche mese di più della Jugoslavia (una finita agonizzando tra spasmi orrendi l'altra con una semplice firma sul certificato), e poi altri paesi che appena nati già sono in fila per avviarsi, insieme al nostro, alla dissoluzione di fatto nelle istituzioni politiche europee ma soprattutto nelle strutture economiche del commercio mondiale, dove il concetto stesso di sovranità nazionale suona illusorio se non ridicolo; oltretutto subendo una vera e propria spoliazione etnica, di uomini validi e soprattutto donne avviate a servire nei paesi più ricchi.

Risorgimento, ossia, resurrezione, rianimazione. Un corpo che riprende un soffio di vita. Per risorgere bisogna prima essere morti e sepolti. Ma quante volte si può risorgere? Quante resurrezioni sono concesse a una comunità?

Birth of a Nation. Il sacro è appunto il luogo o l'esperienza o l'attività in cui si è compromessi senza riserve, senza possibili ripensamenti. Ora non vi è nulla di più compromettente del dare inizio a una vita o porle fine. Concepire o uccidere. Siccome ai maschi non è concessa per natura la prima cosa, gli resta la seconda. La terza, che compromette definitivamente l'individuo, e si può fare una volta sola, è morire.

Lo Stato italiano: un sistema mostruoso e vulnerabile, una macchina arbitraria e vendicativa al limite dell'illegittimità dichiarata, ma al tempo stesso lassista, un vero colabrodo. Le sue leggi spesso hanno  l'aria di casuali rappresaglie. Siccome lo Stato pensa che tu lo vuoi fregare, lui frega te, addirittura in anticipo, quindi non ti resta che essere ancora più svelto ed estrarre per primo la pistola per fregare tu lui, diventando, stavolta davvero, un mascalzone. Insomma non importa a nessuno se sia onesto o no: il cittadino viene taglieggiato poiché si suppone sia comunque un taglieggiatore, dunque a furia di reciproche estorsioni (questo dev'essere il ragionamento) si finisce più o meno in pareggio.

Chi detesta il pittoresco del carattere italiano molto spesso vi indulge, con descrizioni orripilate, e lo fomenta.

Ah questa fissa tutta letteraria della "meglio gioventù", quel nucleo puro di speranze incontaminate e innocenza: tutti convinti a destra come a sinistra che sia naturalmente la loro, la mejo, la più luminosa e coraggiosa - gli slanci dei "giovini" come li chiamava il vecchio presidente, e gli ideali alati, la "passione stupenda" di cui parlava il duce ...

Due citazioni di sant'uomini a proposito delle nostre due capitali: «Milano poco teme gli dei, niente gli uomini» (S. Ambrogio) e «I romani si mangiano tra loro» (S. Girolamo).

L'Italia è intossicata da un veleno di sfiducia, sdegno, rancore, amarezza. Non l'ha scritto un commentatore politico in prima pagina, ma Caterina da Siena. Pure lei santa.

Che noia il quotidiano esercizio giornalistico antitaliano! Vecchio come il cucco, infiorettato di varianti retoriche sprezzanti, suo ingegnoso capofila: Indro Montanelli. Che rottura di scatole il ritornello che noi, poveracci, «non abbiamo avuto la riforma protestante»! Be', la Germania ce l'ha avuta, anzi l'ha inventata un tedesco, la riforma protestante, e il cielo stellato di sopra e la legge morale - eppure come si sbracciavano a lanciare fiori alle SS in marcia! Invece, noialtri ... antichissimi ma troppo recenti; decaduti da secoli però viziati dal boom e terrorizzati dalla recessione; sovraccarichi di cultura, di ogni genere di cultura, specie del tipo che si trasforma in una notte da "rovina" in "maceria" - eppure ignorantissimi, i veri somari d'Europa, con un'università peggio che nel Terzo Mondo, sorpassati pure dai paesi dove si muore di fame o le donne vanno in giro incappucciate; analfabeti intossicati dalla TV; eloquenti e afasici; col complesso dei dominatori e i vizi dei dominati; allegroni e "simpatici" ma al tempo stesso afflitti da un continuo rimpianto, fasciati da una lagna che non sembra avere mai fine ...

Caratteristica dell'eroe non è certo la purezza, semmai l'impurità, connessa alla violenza che egli esercita e da cui è contaminato. Possono esistere cavalieri senza paura ma nessuno, proprio nessuno, senza macchia.

Ci sono storie deliranti nel raccontare le quali più uno esagera, più si avvicina alla verità. Normalmente diffido dell'enfasi. Chi ha da dire molto mente molto. Ma solo col delirio si può arrivare a comprendere il delirio, ad abbracciarlo, fosse anche per respingerlo da sé.

Personaggi eroici che tendono l'arco allo spasimo, cavalli al galoppo, torri appoggiate ad altissime mura, scontri tra armate dalle corazze scintillanti - sabotaggio, rappresaglie, stupri, imboscate, saccheggio, esecuzioni sommarie. Uno può illudersi che la guerra sia la prima cosa - ma quasi sempre si svolge ne!l'altro modo.

«Infatti il boia ha per costume, quando si presenta all'impiccando, di chiedergli scusa di quel suo detestabile atto dicendo: "Mi scusi, signore, perché io non sono che un esecutore della legge"» (Mantoova, 1853).

I soldati austriaci fatti prigionieri dai milanesi avevano confessato di trovare agghiacciante il suono ininterrotto, giorno e notte, delle campane a stormo su tutti i campanili della città, presidiati dai rivoltosi come postazioni militari fondamentali. Ai loro orecchi lo scampanio rintoccava come una «sacra e continua minaccia di offesa».

IL FUTURO IN SOSPESO
Silvia AvalLone

Silvia Avallone è nata a Biella nel 1984 e vive a Bologna, dove si è laureata in Filosofia. Ha esordito nella narrativa all'inizio del 2010 con "Acciaio", pubblicato da Rizzoli. Il romanzo si è classificato secondo al Premio Strega 20 l O e ha vinto il Premio Campiello Opera Prima 2010.

Eravamo arrivati a Bologna da tutte le province d'Italia. La maggior parte di noi proveniva dalle regioni del Sud: Puglia e Calabria in particolare; la minoranza invece si divideva tra Marche, Toscana, Veneto e chi, come me, aveva lasciato una provincia ai piedi delle Alpi che la crisi del tessile in pochi anni aveva spopolato.
All'inizio non fu semplice. La convivenza in uno studentato composto da sessanta ragazzi e una sola lavatrice per forza di cose qualche problema lo crea. Per i turni del bucato, appunto, ma anche per i posti in aula studio, per i fornelli in cucina comune, e il baccano continuo e diffuso in ogni stanza, a ogni ora del giorno e della notte. All'inizio, fu un po' come nella "Grande Guerra" di Monicelli: eravamo giovani, ci ritrovavamo per la prima volta soli e lontani da casa, in una città sconosciuta, il nostro futuro in gioco, e non parlavamo affatto la stessa lingua.
In poche settimane si formarono i gruppi. Pugliesi con pugliesi, abruzzesi cori abruzzesi, e via dicendo. I gruppi erano coesi alloro interno, come se fossero composti da amici d'infanzia e non da sconosciuti, e si studiavano l'un l'altro. il banco di prova principale delle differenze era costituito dal pranzo della domenica. Le ragazze calabresi si svegliavano abbastanza presto, indossavano dei grembiuli, e occupavano la cucina comune fin dalle nove del mattino. Noi facevamo colazione, a stento riuscivamo a porre la moka sul fuoco, loro monopolizzavano i fornelli con pentole giganti dove giravano ii sugo, lessavano le patate. ingombravano i tavoli con impasti di farina e uova, baccelli sbucciati, facevano pane e pasta con le mani.
Qualcuno del Centro-Nord diceva: «Neanche mia nonna lavora così tanto in cucina».
Vedevi queste ragazzine di diciannove anni appena, che tiravano la pasta con il mattarello in religioso silenzio e stavano ore appresso al forno. Uno spettacolo surreale per chi, come me, sapeva a mala pena fare un uovo al tegamino e mai e poi mai avrebbe dedicato un'intera mattinata a friggere e impastare.
Altra cosa che destava sguardi e frecciatine era l'arrivo dei pacchi. In certi giorni la portineria veniva letteralmente presa d'assalto dai corrieri, si accumulavano per terra scatoloni su scatoloni, tutti provenienti dal Sud e tutti colmi di generi alimentari. Rape, pomodori, cetrioli, insalate, nespole, meloni, a seconda della stagione. «Vuoi mettere una rapa del mio orto, una rapa di Brindisi, con quelle senza sapore che ti vendono quassù?» dicevano i destinatari del ben di Dio a noi che li guardavamo allibiti. L'arrivo dei pacchi era una festa per loro, il pretesto per organizzare pranzi e cene, per prendere di nuovo possesso della cucina comune, estromettendo noi, del Centro e del Nord, che nella maggioranza dei casi andavamo avanti a panini e piadine.
Osservandoli dal corridoio, come si riunivano in enormi tavolate festose; oppure non potendo fare a meno di sentire le loro grida e le loro risate dalle stanze accanto, molti di noi, piemontesi e toscani, hanno scoperto cosa ci era mancato, cosa ci mancava: quel senso di comunità stretta intorno a un tavolo, e una lingua speciale che non fosse l'italiano.
Dopo qualche mese, nei vari gruppi, si cominciò a parlare correntemente il dialetto. Litigavano, cucinavano, gridavano e si volevano bene in sardo, in napoletano, in siciliano. Chi di noi non aveva un dialetto proprio si sentiva menomato. Chi non condivideva con qualcuno un idioma regionale era tagliato fuori dalla lingua degli affetti.
Chi veniva dal Sud, in maggioranza schiacciante, era iscritto a facoltà come ingegneria, farmacia, medicina, scienze della formazione. «Non ho tempo da perdere, io. Quando finisco, devo lavorare subito». A noi che eravamo iscritti a facoltà come lettere e filosofia, minoranza assoluta, ci sfottevano spesso. «E dopo che fate? I disoccupati?», e ridevano.
All'inizio, impossibile mentire, le varie parti d'Italia ritrovatesi per caso e per forza in quello stesso studentato di Bologna si osservavano con una certa diffidenza, sottolineavano le diversità, si prendevano in giro, ma cercavano - segretamente - le somiglianze. I pugliesi si stupivano di come noi settentrionali fossimo figli unici, non festeggiassimo con canti e danze il santo patrono, e non prestassimo molta attenzione ai cibi e alla famiglia, a cui telefonavamo molto meno. Noi ci stupivamo quando ci raccontavano dei rifiuti lasciati per strada e delle sparatorie che, come nei film, si sentivano esplodere in strada o nei bar. I luoghi comuni che si leggevano sui giornali diventavano improvvisamente vivi e reali sulle nostre bocche, nelle nostre vite.

Ma le somiglianze non tardarono ad emergere. Durante la prima sessione di esami, proprio come si fa in guerra di fronte al pericolo imminente, cominciarono le prime nottate di studio comune, le prime caffettiere da dieci tazze, e le prime vere confidenze tra Nord, Centro e Sud: «Ebbene sì, non ho studiato». Si avviò così la stagione dell'avvicinamento, con l'ammissione che nessuno si era preparato abbastanza ad affrontare il futuro. Eravamo uguali nella disgrazia dell'esame e nella colpa di non aver studiato come si doveva. Il terrore di non farcela a superare l'esame, di non farcela a ottenere i crediti totali alla fine dell'anno, il terrore di perdere borsa di studio e posto alloggio, in un crescendo angoscioso che terminava nella paura più grande: tornare a casa.
Casa: esatto. Il paesino in provincia di Bari, di Brescia, di Siena, di Catanzaro che ciascuno di noi aveva esaltato come il più bello del mondo, dove si gustano i piatti più buoni, dove ci sono le ragazze più belle, le colline più in fiore, le chiese più antiche. Il piccolo paradiso provinciale da cui tutti noi eravamo fuggiti e che però, nella città straniera e ignota, avevamo decantato per mesi facendo a gara a chi le sparava più grosse; ecco che il nostro caro paradiso adesso si trasformava per tutti nel peggiore dei fallimenti. Sì, perché a dirci le cose come stavano, quei paesini e quelle piccole città con appena una stazione ferroviaria di due binari, un cinema e una scarna biblioteca, al Sud come al Nord, non erano esattamente il migliore dei mondi possibili.
Credo sia stato "tornare" il verbo fatidico. Sollevando la testa dai libri, all'una di notte, abbiamo preso a turno a raccontare le nostre adolescenze e abbiamo scoperto, pur con qualche variazione, che si assomigliavano tutte. Avevamo visto, noi nati negli anni Ottanta, chiudere gradualmente le fabbriche e i negozi nei centri storici, e anche i circoli ricreativi, diminuire le feste e le sagre, precipitare i campetti di calcio nell'abbandono. Avevamo assistito allo spopola mento in massa dei giovani, che andavano a cercare lavoro nelle città vicine più grandi. Avevamo toccato con mano la Cassa integrazione di amici e parenti. Avevamo capito tutti che occorreva andarsene, che lì - a casa - non ci sarebbe stato un gran futuro per noi, almeno: non il futuro che eravamo convinti di meritare.
Bologna era moderna e straripante di opportunità, ai nostri occhi, nel 2003. Locali di tutti i tipi: anche quelli gay che in provincia uno se li sognava lontanamente. Teatri grandiosi dove veniva a dirigere l'orchestra addirittura il maestro Abbado! In piazza Maggiore, per il 10 maggio, cantava Lucio Dalla, mica il matto del paese. Insomma, ci sentivamo al centro del mondo; all'inizio ci sentivamo nel posto giusto. E anche se in fondo ci portavamo dentro quella contraddizione insanabile: di essere nati da una parte e di vedere il nostro futuro dall'altra, di volere un lavoro con la "L" maiuscola - come l'insegnante, l'avvocato, l'ingegnere, il medico, il farmacista - e di voler anche metter su una nuova famiglia vicino alla vecchia; pur con una certa indecisione in testa, ci siamo buttati a capofitto nello studio.
L'Italia dello studentato dietro piazza Verdi, a Bologna, si era finalmente unita d'un fiato in un unico progetto: conseguire la laurea, trovare il lavoro per cui avevamo studiato, formare un giorno una famiglia. Sembra poco, a dirlo così. Ma non sono pochi gli anni trascorsi gomito a gomito in stanze di due metri quadrati, lontani dalle famiglie, a studiare come matti nel terrore di perdere quella borsa di studio che ci permetteva un futuro diverso da quello che toccava a chi rimaneva in provincia.
Non siamo mai stati una generazione ideologica. Del resto, sarebbe stato difficile diventarlo. Gli anni dei massimi sistemi sono finiti da un pezzo, gli orizzonti si sono ristretti: tutti abbiamo avuto un genitore o uno zio che ha vissuto il Sessantotto e però, concretamente, non ha ottenuto granché. A guardarci bene in faccia, siamo spesso figli di separati, figli di genitori emigrati dal Sud al Nord, figli di persone che hanno perso il lavoro, che hanno gridato al cambiamento e che abbiamo visto ammuffire davanti a un varietà televisivo fatto di gambe svolazzanti ..
Forse sarà per questo che a Bologna, a vent'anni, fuori dall'occhio vigile dei genitori, non abbiamo organizzato sommosse e neppure troppe feste. La vita è un lavoro e una famiglia, su questo eravamo tutti d'accordo. E un lavoro e una famiglia, lo sospettavamo, sono mete che negli anni Duemila possono risultare lontane come un pianeta extraterrestre.

Lo sospettavamo, dicevo, ma non potevamo prevederlo. Per cinque anni abbiamo tirato dritto come muli. Certo, qualcuno si è perso: ha smesso di presentarsi in facoltà e ha cominciato a viaggiare nei week-end su voli low cost verso Londra, fino a quando non ha finito i soldi ed è tornato, a casa. Ma la maggioranza ha tenuto duro. Siamo arrivati, compatti, coesi, ciascuno con il proprio dialetto e i propri riti domenicali, alla laurea. L'abbiamo conseguita, ci siamo sbronzati di soddisfazione, abbiamo girato per i portici di Bologna travestiti da paperi o da Zorro con una corona di alloro in testa.
La meglio gioventù, mi viene da dire. Se ripenso ad alcuni parenti semianalfabeti che venivano ad ascoltare i figli o i nipoti nell'aula magna durante la proclamazione dei" dottori", confermo chiaro e tondo: l'Italia unita e migliore l'hanno fatta gli studentati.
Poi, nel giro di qualche mese, è cambiato tutto. Abbiamo fatto le valige, siamo andati ciascuno per la sua strada, e abbiamo scoperto che quella strada non era affatto la magnifica autostrada che ci eravamo immaginati, ber)sì un sentieri no sterrato. Dovevamo pagarci una stanza, adesso. Un posto letto a Bologna costa dai 250 ai 400 euro. All'inizio le nostre famiglie erano disposte ad aiutarci, ma dopo un po' dovevamo trovare lavoro. 110 e lode, curricula lunghi e invidia bili, certificati di lingua straniera e conoscenza del sistema operativo Winndows. Tutto abbastanza inutile. Ho riconosciuto miei compagni di corso al Carrefur, reparto videogiochi, con un berretto della Nintendo in testa. Ho ascoltato amici disperati che dopo la SISS si sono trovati a ottenere appena una settimana di supplenza in un anno. Nessuno dei miei compagni di università si è sposato, nessuno ha un lavoro fisso che lo rende soddisfatto di sé. L'altro giorno ho ricevuto un messaggio da un ragazzo dello studentato che a distanza di un anno e mezzo dalla laurea mi scriveva: «Parto lunedì, vado a Dublino. Non posso accettare i 400 euro che mi danno qui, mi sembrano un insulto dopo tutto quello che ho fatto». Sto parlando di un ingegnere nucleare che si è laureato con il massimo dei voti.
Così vedo l'Italia della mia generazione, appena unita dallo studio, separarsi nel lavoro. Vedo persone care partire, e questa volta non per Milano o per Roma, ma per Parigi, Londra, Berlino.
Il verbo cruciale, ancora una volta, è "tornare". Se ripenso ai miei nonni, che hanno vissuto due guerre, mi viene in mente che tra di loro era difficile capirsi: quelli paterni parlavano solo il napoletano, quelli materni solo il piemontese. I miei genitori sono stati in gamba, in questo senso. Si sono sposati e hanno tentato anche loro un'impresa garibaldina. Era l'epoca in cui il lavoro pioveva dal cielo, gli ideali si urlavano nei megafoni per strada, in cui tutti avevano un orizzonte sconfinato di libertà e di sogni da rivendicare. Si sono separati.
Questo è quanto. Da Piombino mi dicono che il liceo classico sta per chiudere: mancanza di iscritti e mancanza di fondi. Biella è una città attraversata da uno scheletro di fabbriche dismesse. A Taranto i giovani prima fuggono per evitare di entrare all1'lIva, poi tornano a mani vuote e ci entrano. Scelgono il pane in cambio del veleno, ed è difficile trovare un'alternativa.
Dovremmo tentare uno sbarco dei Mille ogni anno, in ogni provincia. Vagando in lungo e in largo per la penisola, mi sono fatta questa convinzione. "punto non è "andare", bensì "tornare". Il futuro non dovrebbe essere cercato al di là del confine. L'Italia è ancora in via di progetto, ma per realizzarlo dovremmo poter rimanere qui.
E perché?
Questa è una domanda che ho sentito molto spesso. Perché bisogna per forza restare? Se dovessimo parlare in termini di opportunità personali e di stipendio, la maggior parte di noi risponderebbe sarcastico: «Ma non ha senso! Vuoi mettere la Svizzera?». Non vedo rabbia nei miei coetanei, vedo piuttosto un senso di profonda delusione. Non basta una Svizzera pulita, ordinata, dove ogni ora di lavoro è retribuita da non crederei. C'è qualcosa che ci tiene qui a dibatterei con i curricula in mano da un ufficio all'altro. E questo qualcosa non è una preoccupazione egoistica, tutt'altro. Che fine faranno queste città, questa strana penisola a forma di stivale, senza di noi? Se non possiamo contribuire con le nostre braccia e le nostre idee, se non possiamo vivere una vita degna di questo nome qui, cosa succederà all'Italia?

Se penso al mio paese non penso alle polemiche rabbiose in TV, alle bande di senza-talento che strillano e si dimenano nei reality-show. Penso invece al mio studentato, così pacifico e tranquillo, penso ai pranzi grandiosi dei calabresi e ai miei panini di piemontese, alle nottate comuni a studiare, a dirci: «Diventerà medico e avvocato». Prima di scoprire che i concorsi sono chiusi, prima degli scandali degli esami truccati al telegiornale. Il paese reale, oggi, è un paese che non viene pubblicizzato. Ci dicono che fare il tronista o la velina è meglio di fare ['operaio, ci dicono che studiare serve a poco: una laurea è un pezzo di carta, ed è meglio fare due comparsate in TV. Ma non ci cascano tutti. La maggior parte, al contrario, è disposta a fare il pendolare, il precario, il single per anni piuttosto che rinunciare al suo piccolo sogno: una cattedra a tempo indeterminato nella scuola pubblica.
Nei giorni dell'università leggevamo "La ragazzza di Bube" di Carlo Cassola e "La storia" di Eisa Morante. Quando l'Italia era un sogno, e occorreva ricominciare dalle macerie. Nord e Sud si guardavano l'un l'altro come due paesi stranieri, la divisione ideologica apriva ovunque fossati invalicabili e si ricorreva addirittura alle armi. A distanza di decenni abbiamo ritrovato quei libri attuali. Non basta la televisione a unificare un paese, c'è poco da fare. Guardare gli stessi varietà non ci rende amici. Ci vuole un progetto comune, come quello che avevamo noi negli anni di studentato. Che sia conseguire una laurea, fabbricare bulloni, curare malati, progettare ponti o pannelli solari, poco importa: tutto va nella stessa direzione. Il futuro. Quell'idea pazza che Garibaldi ha avuto insieme a un pugno di uomini e che è rimasta per metà in sospeso.

LA GROTTA DELLE CAPRE
Marco Balzano

Marco Balzano è nato nel 1978 a Milano, dove vive e insegna. Ha pubblicato la raccolta di poesie "Particolari in controsenso" (2007, Premio Gozzano) edita da LietoColle; il saggio "/ confini del sole. Leopardi e il Nuovo Mondo" (2008) edito da Marsilio. Nel 20 1 O ha pubblicato il romanzo "// figlio del figlio" (finalista Premio Dessì) con Avagliano Editore, di cui è in corso la traduzione in tedesco.

Stamattina io e Anna abbiamo deciso di non andare in spiaggia. Non perché il cielo sia gonfio di nuvole né perché soffia più vento di ieri. Forse, senza volerlo, iniziamo a essere stanchi della vacanza o forse ci sentiamo in colpa per non aver girato neanche un po'. Il mare è così estraneo alla vita di due milanesi che quando lo vedi rischi sempre di abusarne, di ubriacarti gli occhi di cerchi di luce e di ingolfarti i polmoni con l'aria salata.
Le strade della Sardegna sono le peggiori possibili per uno delle mie parti, strette e curve. E in più la distrazione del mare in lontananza che si agita sotto lo sprofondo di montagne brulle.
«Sembriamo due sposi» mi dice Anna ridendo. «Ah sì?» rispondo senza capire.
«Non la senti la fila di macchine dietro di noi che sta strombazzando coi clacson?».
«E che ci posso fare?» ribatto risentito. «lo a più di quaranta all'ora con tutte queste curve non riesco ad andare!».
Appena la strada corre più dritta il SUV tirato a lucido smette di accecarmi con gli abbaglianti e finalmente ci supera mandandomi un'ultima maledizione. Una dopo l'altra passano tutte le altre.
«Matrimonio finito» mi dice divertita.
Fa un caldo feroce e non sono neanche le undici. Già dopo pochi chilometri mi sono pentito di aver sacrificato una giornata di bagni. Siamo usciti dalla strada principale e ne abbiamo imboccata una ancora più defilata. Nessuno davanti, nessuno dietro. Solo blocchi di pietra bianca sul ciglio su cui è incisa in numeri romani la distanza da Dorrgali. Dal finestrino entra odore di ginepro e tanfo di pecore.
Come per le visite ai nuraghi lo svincolo è nascosto dietro qualche albero o si confonde con altri sterrati pieni di sterpaglie che portano a case e agriturismi, spuntati come funghi negli ultimi anni. Alla fine ce l'abbiamo fatta e di colpo abbiamo trovato via vai di macchine, bancarelle di souvenir e pacchianate, un hotel col bar e tavolini stretti sotto il tendone. Gente beveva aranciate e chinotti.
L'auto l'ho lasciata di fronte a una vecchia cabina telefonica coi vetri frantumati. Sulle porte scardinate qualcuno aveva disegnato con lo spray un cuore rosso. Abbiamo salito non so quante scale, Anna attaccandosi alla ringhiera, io con le mani in tasca. E in cima alla gradinata di nuovo il mare, più lontano e scuro. Davanti alla chiazza blu invece si vedevano bene i costo n i stepposi. Su queste montagne sembra che il sole sradichi le piante e bruci le orme di chi passa.
«Non abbiamo neanche una bottiglietta d'acqua».
«C'è il distributore vicino alla cassa».
«Non lo vedi che c'è scritto "guasto"?» ribatte Anna.
«E allora sì, non abbiamo neanche una bottiglietta d'acqua».
Il cancello della grotta è rimasto chiuso un'altra lunga mezz'ora, in cui la gente attorno si passava qualche fazzoletto di carta sulla fronte, riprendeva fiato o si faceva forza e scendeva di nuovo le scale per andare a comprare da bere. Ho chiesto ad Anna se voleva andare via ma mi ha risposto di no.
Una coppia sulla cinquantina frugava nelle tasche per cercare monete. Lui ha tirato fuori inaspettatamente un gettone del telefono, di quelli rigati in mezzo che anch'io mi ricordo, ed è scoppiato a ridere. La signora l'ha guardato con occhi perplessi.
«Con questo ormai non ti danno più neanche un bicchiere d'acqua ... Valore commerciale, duecento lire» ha detto passandosi una mano tra i capelli e palleggiando quella moneta nel palmo. «Li tenevo sempre in tasca perché quando eravamo fidanzati mi chiedevi di chiamare gli altri per sapere che programmi avevano. Allora tiravo fuori il gettone, entravo nella cabina e facevo finta di telefonare ... » .
«Come finta?» ha vociato lei tirando il collo in avanti.

Grand Tour Rivisitare l'Italia nei suoi 150 anni
«Sì, facevo finta! Poi venivo fuori dalla cabina e ti dicevo che nessuno aveva voglia di uscire».
Lei non ha risposto.
«Altrimenti tu da sola con me non ci volevi stare» .
«Te li ricordi tu i gettoni?» ho chiesto sottovoce ad Anna mentre la guida si decideva ad aprire il cancello e il gruppo si metteva come una scolaresca in fila indiana.
«No, mi ricordo a malapena le tessere telefoniche».
«Andavano anche nel calcio balilla del bar della stazione» ho continuato. «Quello stordito del barista ci ha messo più di un anno per accorgersene».
«Ci fossimo fidanzati oggi, senza cabine e senza gettoni, non mi avresti abbindolato con quel teatrino» ha commentato la signora attaccandosi al braccio del marito. Lui ancora rideva.
Ho aspettato a mettermi la giacca anche se sentivo il sudore ghiacciarsi addosso. Mi è arrivato freddo umido sulla fronte e le mani e d'istinto ho messo il braccio di Anna sotto al mio. Bisognava reggersi a una ringhiera di corde per non scivolare. Un velo di gocce d'acqua copriva tutte le pareti e rifletteva le luci artificiali che illuminavano quella gola di stalattiti. La scolaresca è stata in silenzio ad ascoltare le notizie della guida: gli imbuti e i corridoi che collegano gli antri, gli speleologi che come gnomi hanno trascorso mesi al buio per studiarne la struttura, la leggenda sui riti sacrificali, i pipistrelli dalla pelle bianca che se ne stanno acquattati in mille anfratti e non so che altro ... Tutte storie che ho ascoltato di malavoglia, facendo attenzione a non cadere, a non guardare sotto per non avere vertigini, a scrutare quella penombra per vedere se stava planando sulla mia testa qualche uccellaccio e a stringere il braccio di Anna perché non lo liberasse dal mio. Anche la coppia che parlava dei gettoni del telefono si guardava attorno disattenta e si teneva a braccetto. La voce della guida adesso la sentivamo in lontananza che ripeteva a macchinetta, in un inglese approssimativo, le stesse cose di qualche minuto prima a quattro turisti americani. A noi ci ha lasciati liberi di andare a romperci l'osso sacro su qualche lastra di pietra viscida. Tutti si divertivano a trovare somiglianze reali alle pareti gocciolanti e mi arrivavano nomi di tutte le risme: nuvola, serpente, mucca, gamba, proboscite ….
Finalmente, dopo più di mezz'ora, siamo riemersi. Accecati dalla luce ci siamo infilati gli occhiali da sole e tolti in fretta giacche e maglioncini. La guida ha richiuso il cancello e la grotta è tornata buia come un pozzo. Estranea come il mare per uno delle mie parti.
«Pisti che caldo! Compratevi l'acqua! Compratevi l'acqua che fa un caldo biscoso! ».
Chi scandiva quelle parole era un vecchio signore, o forse un signore nemmeno vecchio ma con gli anni che gli avevano macchiato tutte le mani e scavato le guance all'inverosimile. Basso e secco, con i capelli scompigliati nonostante si riconoscesse il tentativo di averli schiacciati uno su Il' altro.
«Forse da giovane era più riccio di te» ha detto Anna guardandolo..
Stringeva in una mano un secchia azzurro, di quelli che si usano per lavare i pavimenti. Era pieno di bottigliette d'acqua accatastate sul ghiaccio sminuzzato in schegge. Ci siamo guardati. Lui ripeteva quelle frasi senza convinzione, con gli occhi assenti chini sul secchia.
«Pisti che caldo! Compratevi l'acqua! Compratevi l'acqua che fa un caldo biscoso!».
La gente è filata tutta giù al bar perché lui ha comunicato troppo tardi che la sua acqua costava meno. La guida lo guardava seccata, come il cameriere di una pizzeria guarda l'indiano che entra con le rose. Anna mi ha fatto sì con la testa e allora ho comprato l'acqua da quell'individuo. Ha tirato fuori dal secchia una bottiglia senza etichetta, con un residuo di colla sulla plastica che si appiccicava alle dita. Il vecchio signore, pensando che avessi da ridire, me l'ha subito cambiata e poi si è asciugato la mano bagnata sulla barba ribelle che gli cresceva a chiazze. Si è preso le monete senza contarle e io gli ho guardato gli occhi neri come l'inchiostro e la camicia a quadri infilata alla bell'e meglio dentro un vecchio paio di jeans. Si è voltato di spalle, è andato vicino al cancello chiuso e ha iniziato a parlare un italiano difficile, scempio, sbagliato, ma che per lui era una lingua perfetta che doveva sembrargli anche musicale.
«Da lì sotto entravano le capre» ci siamo affacciati e ha indicato una fessura da cui passava una luce colorata, come da un vetro di chiesa.
«Le spingevo una alla volta dentro la grotta e contavo sia all'entrata che dopo. Contavo anche due, tre, quattro, dieci volte, finché non ero sicuro che nessuna mancava. Quando erano dentro correvo qui, dove siamo noi adesso, e mio padre in fretta mi legava una corda ai fianchi, stretta sulle ossa, e mi calava giù».
«E perché?» gli ho chiesto.
«Perché dovevo stare con le capre» ha ripetuto lui facendo rimbombare la voce oltre il cancello. «Stare con le capre, perché?».
«Le capre si devono sorvegliare e custodire, se no te le rubano. Oppure muoiono. Ancora oggi è pieno di ladri di capre» ha sistemato meglio le bottiglie nel secchia. «Prima i caprai usavano le grotte come questa per riparare le bestie».
«E perché lì dentro ci stavi tu da solo?». «Perché ero il più magro. Mio padre, oppure mio fratello, che era grasso e alto, figlio di un'altra femmina, non di mia madre, mi legavano una corrdaqui, sulla cintura» e si è sbattuto le mani sulle anche «e mi calavano sotto. Ci rimanevo tutta la nottte e certe giornate che pioveva o faceva freddo per spostare gli animali».
Adesso che lo guardavo più da vicino anche lui aveva il naso camuso e la faccia di una capra. Ma più ossuta ancora di quella delle capre e con gli occhi che non erano buoni o stupidi ma spalancati, come di chi è rimasto troppo tempo al buio. Anna cercava, con le mani strette sulla ringhiera del cancello, di trovare nel dirupo le capre di quell'uomo e quell'uomo stesso accucciato su qualche pianoro di pietra levigato a forza di starci seduto a contare le ore e a contare le capre. lo lo fissavo sentendo addosso il sole da una parte e il freddo umido dall'altra.
«Mi calavano pane e formaggio sempre con la stessa corda e così non mi mancava niente». «Proprio niente?» gli ho chiesto, tanto per parlare.

«Solo che il freddo delle grotte ti entra nelle ossa e te le ammala. Noi non siamo come le capre, non viviamo col cappotto di lana» disse facendo arrivare la voce della sua risata balorda fin nella grotta. «Il capraio non è come gli altri custodi di bestie, ha le ossa fradice e la tosse dei fumatori di sigaro».
«Perché adesso vendi bottiglie d'acqua?» gli ho chiesto.
«Perché le capre non le ho più. I caprai ormai sono pochi e non portano più le capre qui dentro.
La grotta delle c2pre
Ora qui dentro ci venite voi turisti, scendete per i gradini che ha fatto costruire il Comune e le corde ci sono solamente per farvi aggrappa re, visto che non siete capaci di camminare per la grotta» si è arrotolato le maniche della camicia e ha tossito strizzando gli occhi. Non  c'era più nessuno davanti al cancello e lui ha posato il secchia e si è andato ad appoggiare al muretto, completamente all'ombra.
«Meglio le capre o i turisti?» gli ha chiesto Anna facendogli un sorriso.
«Non cambia niente» ha risposto lui ammansendo gli occhi, ma senza sorridere.
«Quando hai smesso di fare il capraia?» gli ho chiesto.
«Anni fa».
«E quando hai iniziato?».
«Ho cominciato che avevo undici anni ed ero leggero come un passero».
«Ma non ci sono altre grotte per le tue capre?» .
«Ormai funziona tutto diversamente». «E come funziona?».
«Diversamente» ha ripetuto dandomi le spalle appuntite come stalattiti.
Abbiamo comprato un'altra bottiglia d'acqua e gli ho chiesto se ne vendeva tante. Mi ha risposto di no, perché la gente non si fida. Gli ho chiesto se invece lui si fida della gente e mi ha risposto ancora di no, neanche lui si fida.
lo e Anna abbiamo sceso quel centinaio di gradoni colar muffa e siamo passati al bar a chiedere conferma della strada del ritorno. AI tavolo c'era la coppia del gettone telefonico che beveva un caffè freddo senza parlarsi.
«Quell'uomo per tutta la vita ha fatto il capraia in una grotta fino a che non gli sono marcite le ossa ... » le ho detto. «Qualche volta tu ci pensi che qui, fino a ieri, viveva gente come nella preistoria, nelle caverne, come una bestia tra le bestie?».
«Non solo qui. E poi non era ieri».
«Sì invece! Se ci pensi era solo ieri». «Comunque no, non ci penso mai. E neanche tu ci pensi».
Abbiamo camminato in silenzio fino alla macchina passandoci la bottiglia.
«Anche per le cabine del telefono è così» ha ripreso portandomi vicino a quel gabbiotto distrutto e sporco di vernice. «lo le ho anche usate, ma non me ne ricordo mai. Guarda qui, hanno spaccato i vetri, c'è puzza di piscio ... Guarda la cornetta», ha continuato alzando il filo sbrindellato, «è rotta. Non funziona più niente. Il telefono è muto, la fessura delle monete otturata, le schede che servono per telefonare non le vende più nessuno ... E neanche le tolgono, che sarebbe meglio, ma queste cose guaste e scassate te le lasciano in giro come fossero reperti archeologici. Così ti abitui a non guardare, a girare la testa, a schivarle come l'immondizia buttata per strada ... E se non incontri qualcuno che ti viene a raccontare una storia, le stesse cose che ci appartengono diventano vecchiume senza senso».
«Forse stamattina dovevamo andare al mare». «Forse facciamo ancora in tempo» mi ha detto Anna.

TRICOLORE 0102
Maurizio Braucci

Maurizio Braucci è nato a Napoli nel 1966. È scrittore e sceneggiatore. Ha pubblicato il romanzo "Il mare guasto" (1999) e la raccolta di racconti "Una barca di uomini perfetti" (2004) per le edizioni e/o, e il romanzo "Per sé e per gli altri" (2010) edito da Mon da dori. Ha collaborato con i registi cinematografici Matteo Garrone ("Gomorra", David di Donatello 2009 per la migliore sceneggiatura), Abel Ferrara ("Napoli, Napoli, Napoli") e Giuseppe Gagliardi ("Tatanka") e con i registi teatrali Marco Martinelli e Armando Punzo.

Rosso

Il Red abita a San Francisco, da quindici anni sta là e senza permesso di soggiorno, aspetta che Obama faccia questa benedetta legge per regolarizzarlo. Intanto desidera fare un viaggio a Napoli per riabbracciare i suoi ma non può; di ritorno l'immigration control statunitense gli vieterebbe l'ingresso in quella che oggi è la sua casa. Un mese fa il presidente ha rafforzato le frontiere col Messico. «Ha stanziato 500 milioni di dollari per chiudere il recinto» fa notare il Red «quindi adesso non lo possono criticare se fa la sanatoria per chi sta già dentro». Così dicono, e il Red non può fare altro che sperare. Da quando aveva 26 anni ha condiviso molte cose con i giovani di questo paese, e ora è un uomo fatto e finito, con una fidanzata giapponese, programmatrice alla Apple, da cui aspetta un figlio.
«L'impresa edile qui è una barzelletta, fanno lavori da ridere. Il ponte ad est che stanno costruendo da sette anni? Hanno sbagliato il progetto e adesso devono ricominciare daccapo». Dice che la migliore edilizia la fanno gli italiani. «Ma come qualità, non parlo solo di bellezza, che quella, in verità, quando capita?». Lui lavora solo con i messicani. «Sono seri e non sparano cazzate. Zitti e si lavora». Ha iniziato facendo stucchi veneziani - «Si facevano molti bar e qualche casa di ricchi» - finché ha comprato l'attrezzatura e ha iniziato a prendere piccoli appalti coi privati. «Diecimila, quindicimila dollari ma mi faccio il culo». Adesso ha deciso di cambiare attività, il Red, di aprire un ristorantino italiano. «Ho trovato una occasione sulla Guerrero Street; io e un mio amico spagnolo mettiamo il lavoro e un po' di capitale insieme a quello raccolto tra alcuni amici. Ma ci stanno facendo penare per aprire». Chi? Le autorità. Non è tutta oro e luccichìo la California, "Il processo" di Kafka è arrivato anche in America.
«Questa storia che negli USA fai il business alla velocità della luce è una stronzata. Appena incappi in un'eccezione sei finito. Abbiamo fitato il posto per vendere caffè e qualche panino d'asporto. Volevamo una struttura semplice con poche licenze e investimenti, e invece la strada dove stiamo è situata al limite tra due dipartimenti municipali che dicono due cose diverse sulla destinazione d'uso del locale. Dobbiamo passare l'esame di due commissioni per iniziare l'attività. Ci permettono di fare solo un ristorante con servizio ai tavoli e ci hanno chiesto decine di autorizzazioni. Ci metteremo sei mesi per aprire, forse, se alla fine avremo tutto in regola».
La casa del Red è piena di ninnoli e poster che ricordano l'Italia, foto del Vesuvio e una bandiera. Ogni domenica si sveglia alle sei per guardare la partita del Napoli sul web, compra cibo italiano in un locale sulla Mission. «Prima di vivere qui me ne importava poco del mio paese, adesso seguo ogni notizia, mi indigno per Berlusconi e per la camorra, mi pesa quando gli americani mi prendono in giro per il ridicolo di cui ci stiamo coprendo, meno male che c'è Saviano che ci riscatta un poco».
Mesi fa è passata da lui un'impiegata per fare il censimento, si è sorpresa quando ha visto che era un italiano di pelle bianca, pensava che lì la maggioranza fosse nera.
«Gli States sono ispanici ormai. Hai sentito di quel governatore dell'Arizona che dà la caccia agli immigrati? Dalla California è partita una campagna di boicottaggio. Tanti amici non stanno andando più in quello Stato per le vacanze, vogliono far calare il turismo perché la smettano di far prevalere i red necks laggiù». Il Red ha i capelli fulvi. A Napoli era soprannominato, infatti, 'O russe.

Bianco

M i chiamo Enzo Saponaro. Vivo nella provincia di Brindisi e sono un medico palliativista, una disciplina che in Italia fa un po' fatica ad affermarsi ma che sarà necessario incentivare perché le cosiddette malattie croniche nella nostra società sono in aumento. PaLLium in latino significa coperta; si tratta cioè di mettere una coperta sulle sofferenze, specie se legate a patologie che non hanno possibilità di guarigione. Attualmente si offre questo tipo di terapia soltanto per le malattie incurabili, anche se può essere estesa anche a patologie più lievi e ordinarie. lo mi occupo soprattutto del primo caso. Nel mio lavoro il tema del dolore è molto importante; ad esempio, le problematiche di dolore di un paziente con patologia tumorale vengono affrontate dalle cure palliative.
A differenza di molti paesi europei, in Italia non c'è ancora una specializzazione universitaria per le cure palliative. Dieci anni fa, quando esercitavo sola come medico di base, arrivò a Brindisi una équipe bolognese di cure palliative. Mi chiesero se ero interessato a seguire il loro corso. Accettai e, una volta entrato in questo settore, non ne sono più uscito. Da allora uso questa mia esperienza anche nella pratica di medico di base, per offrire una palliazione anche ai casi di malattie curabili. In Italia c'è un'enorme fetta di popolazione anziana che soffre di artrosi o di patologie legate all'apparato osteomuscolare; una percentuale molto alta verso cui la terapia del dolore è estremamente utile. Per tanti anni le cure palliative non sono state riconosciute, oggi però sono un campo in evoluzione. Tutte le ASL sono tenute ad avere delle unità di cure palliative; è una disposizione ancora in embrione ma credo che col tempo si perfezionerà.
Malgrado gli ostacoli che trovano per affermarsi, le cure palliative si imporranno perché bisognerà far fronte a delle problematiche ormai crescenti. Da una parte, le aspettative di vita si sono allungate e quindi la popolazione anziana da assistere è aumentata, dall'altra c'è stato un incremento di alcune patologie gravi anche tra i giovani.
L'Italia è il paese in cui si usano meno oppiacei rispetto agli altri paesi europei. Dietro questo dato c'è una grande componente ideologica legata al cattolicesimo, ma d'altra parte non c'è stata mai una formazione tecnica del personale. Quello del palliativista è un lavoro ad alta intensità di capitale umano e non finanziario; se ne gente preparata che si dedichi con assiduità a questo tipo di pazienti. Non si tratta della costosa medicina iper-tecnologica, come quella dei trapianti, ma di una medicina con una componente umana fondamentale, nel senso che non si può prescindere dall'essere partecipe della condizione in cui si trova il malato. L'estrema fragilità di questo tipo di paziente, che da un giorno all'altro può diventare critico, fisicamente e psicologicamente, fa sì che la presenza costante del medico sia fondamentale. È un tipo di lavoro da cui non puoi esimerti, dove non puoi dire «Oggi lavoro di meno, oggi faccio il furbo», perché nel momento in cui non riesci più a controllare la situazione allora il risultato è tragico. In pratica si tratta di avere una compresenza con il dolore. Quando una persona attraversa il dramma della malattia incurabile, quando sopravvive nel degrado della propria fisicità, nel degrado delle proprie motivazioni esistenziali, allora si ritrova di fronte all'assurdo, al non senso, dove la sua vita, e quindi il racconto di ciò che lui è adesso, viene appiattito sulla malattia. Ciò significa la fine della narrazione del proprio vissuto: non c'è più niente da raccontare di sé, tranne la fine. Quando un malato si chiede «Perché sto morendo? Non ce la faccio più ad andare in bagno, ho dolore, non mi viene più appetito, sono diventato magro» tutte queste diventano domande a cui è difficile dare risposte, ma almeno si può cercare di attenuare o di eliminare il dolore. Molti colleghi di altre discipline non hanno la minima idea di cosa siano le cure palliative. Nella medicina "industrializzata" le cure palliative hanno poco spazio. Si sa che la medicina ha anche grossi interessi finanziari. Da tale punto di vita, invece, la medicina palliativa è poco interessante perché non comporta spese eccessive; come dicevo è soprattutto una medicina ad alta intensità di capitale umano.
Attualmente, per tanti tipi di tumore si possono fare molte cose; per altri purtroppo c'è pochissimo da fare, dipende dal tipo di neoplasia. Le statistiche ci dicono che aumentano le diagnosi e aumentano i casi di morte, ma anche quelli di guarigione. Tuttavia stiamo parlando di sofferenze enormi. Una persona ha un valore immenso e quindi parlarne solo in termini statistici mi sembra sempre un po' cinico. Rispetto al riconosciuto aumento dei tumori tra la popolazione, certamente serve prevenzione, ma una prevenzione anche verso lo stile di vita sociale prevalente. Le cause dell'incremento dei tumori dipendono di certo dall'inquinamento ambientale e quindi dagli alimenti, dall'acqua, dall'aria. Ma a ciò bisogna aggiungere la crescita delle depressioni esistenziali e psicologiche legate ai nostri stili di vita, che mettono in crisi le condiziona la salute. Quest'ultimo aspetto è difficile da dimostrare scientificamente, è più una percezione basata sulla esperienza sul campo. Certo oggi si fanno delle piccole cose in più: limitare l'inquinamento o tutto ciò che riguarda gli agenti cancerogeni presenti. Non è abbastanza però, e lo spiegano alcuni importanti oncologi che spesso sono dovuti emigrare all'estero, come Lorenzo Tomatis, che per tutta la vita si è battuto molto contro la questione delle sostanze cancerogene. Prendiamo l'esempio del campo alimentare. In Italia esistono per legge delle soglie di tossicità: al di sotto di un certo contenuto di tossicità un elemento si può assumere, al di sopra invece non si può assumere. Tomatis si è detto sempre contrario a questi parametri, affermando che se una sostanza è tossica non ha senso il concetto di soglia: è tossica e basta, e quindi va eliminata. Ma qui, come si può ben capire, ci si scontra con i grandi interessi economici.

Verde

«Questa è la fine della nostra democrazia» urla S. A. dall'alto di un ulivo sulla strada dove i camion passano veloci, furtivi, per evitare le continue sassaiole. Tiene in mano una bandiera italiana a cui alla fine è riuscito a dare fuoco. La sventola nell'aria. Il fumo nero della combustione sale tra le foglie e a tratti lo acceca. La scena viene immortalata da alcune telecamere, mandata poi sui siti web insieme alle notizie della rivolta di Boscoreale e Terzigno contro l'apertura dell'ennesima discarica che dovrebbe assorbire la spazzatura di Napoli. Sono già dieci giorni che la notte non si dorme, presidi di donne, molte donne, a volte i loro bambini, mentre mariti e fidanzati se ne stanno un po' in disparte finché non vengono chiamati nei ricorrenti corpo a corpo con la polizia. Adesso il sole è alto, come la stanchezza della popolazione e delle forze dell'ordine. A far da collante contro la decisione di aprire l'ennesima discarica nell'area più densamente abitata d'Europa è la nauseabonda puzza con cui la gente convive da I anni, alle falde del Vesuvio, in una zona che da tempo è stata decretata parco nazionale eppure violata dalle politiche di emergenza sulla spazzatura che affligge l'intera Regione. Non si tratta di gruppi ecologisti. Queste donne e questi uomini sono lontani dalla cultura anglosassone che per la prima volta nella storia dell'umanità iniziò a dare l'allarme a causa della violenza esercitata dall'uomo sulla natura, contrapponendo Civiltà a civiltà. No, questa gente viene dalla terra e basta. I loro genitori, i loro nonni coltivavano ancora nei residui di quella Campania Feelix che adesso rimpiange il passato e guarda con orrore il futuro. Eppure tra loro, tra Filomena, casalinga con tre figli, Jessica, 21 anni e un posto di precaria in un laboratorio di analisi cliniche, tra loro e le compagne corrono termini nuovi, troppo tecnici:
CP6, tritovagliatura, compostaggio, percolato. È l'ecologismo popolare, l'improvvisa sfida contro lo sfruttamento dell'ambiente da parte di chi è rimasto sempre a guardare, è il "su la testa" di quel "popolo bue" disegnato dalle politiche conformiste di comunicazione e cultura, la protesta strenua e violenta in cui la classe media ritrova un ruolo di mediazione tra autorità e marginalità leggendo volantini, traducendo in dialetto le parole di un sindaco a chi non sa quasi leggere o più ascoltare.
Camorra è la parola magica con cui le autorità risolvono questa contrapposizione allo Stato, allle sue leggi, pure quando sono contrarie ai bisogni di un intero e vasto territorio a causa di un piano industriale sui rifiuti, appaltato alla multinazionale Impregilo nel 1999, che non è adatto alle esigenze di chi deve ricever/o. Il neoliberismo ha i suoi colori italiani. La vicenda della Campania e della crisi rifiuti cerca dolorosamente di gridarlo da ormai dieci anni, ma i media e l'opinione pubblica non appartengono certo a chi protesta. Terzigno e Boscoreale sono soltanto l'ennesima tappa, la prima è stata Acerrra ne12001. Eppure, malgrado la lunga lista di paesi insorti, il piano industriale disegnato per sola convenienza di chi lo ha promosso, non cambia.
«Le nostre ragioni vengono ignorate» dice Sabina, architetto che ha partecipato a molte di queste manifestazioni. «Serve un piano rifiuti basato sul riciclaggio, anche un bambino lo capirebbe. Invece ci accusano di essere egoisti, di non pensare al bene comune. Ma senti chi parla! Gli affari di una multinazionale e di società nate apposta per sfruttare i milioni stanziati per l'emergenza sarebbero invece la parte altruistica. Capisci come ci sentiamo? Annegati nella menzogna oltre che nella spazzatura».
Bruciato il tricolore sull'ulivo, S. A. ne prende un altro e lo stende sulla strada dove passano le camionette dei carabinieri. «Ecco» urla «passateci sopra, perché questo state facendo, state violando la Costituzione in nome della legge che hanno fatto contro di noi. Ci state avvelenando, state uccidendo una parte del popolo italiano».
Identificato grazie alle telecamere, una settimana dopo, il contestatore verrà denunciato per vilipendio alla bandiera e adunata sediziosa. «Ma la Lega Lombarda non gridava pubblicamente che col tricolore ci si puliva il culo?» sorride Angelo, un ecologista di Terzigno. «Loro non sono stati denunciati però. Due pesi e due misure. Qui si chiamano Nord e Sud. Mezzogiorno senza ora legale».

ALLA BANDIERA DEI TRE COLORI NE SERVE SOLO UNO
PietrangeLo Buttafuoco

Pietrangelo Buttafuoco è nato a Catania nel 1963. Tra i suoi libri si ricordano: "Le uova del drago" (2005), "L'ultima del diavolo" (2008) e "Fimmini" (2009) editi da Mondadori; "Cabaret Voltaire. L'islam, il sacro, l'Occidente" (2008) edito da Bompiani.

La sequenza dei colori non è mai chiara: se, dunque, viene prima il verde o il rosso. Non si capisce a prima botta. A metterlo in un quiz dei concorsi, il quesito, si rischia grosso. Il bianco è in mezzo, le bande sono verticali e va bene - e questo è facile - ma a colorare si rischia sempre l'errore. Detto a parole però, "verde, bianco e rosso", viene facile. La bandiera d'Italia è questa. Senza niente in mezzo.
La sequenza dei colori va da sé ma anche la forma vuole la sua parte. L'innesto del patriottismo comincia a scuola: l'impresa dei Mille. Le camicie rosse di Garibaldi e le loro bandiere. Luminose le illustrazioni dell'epica popolare. Da un lato il candido giglio borbonico, dall'altro i drappi verdeco-rosso e però sono strappati. «È la bandiera della Sicilia». E si fa così: una pennellata di verde, il bianco del foglio lasciato appunto bianco e poi il rosso, con grande attenzione, spalmato piano piano in forma di triangolini verticali le cui punte trafiggono il cielo di Marsala.
Nessuno - fiocco al collo, scudetto tricolore sul grembiule, III elementare - immagina che quelle bandiere siano lacerate dalle pallottole e dalle sciabolate. Sembra, piuttosto, che anche la Sicilia abbia un tricolore, però col rosso in forma di zig e zag. Ecco, soave ingenuità bambina: «La bandiera della Sicilia è tricolore però con tutti i pizzi».
Squilli di tromba e brande a posto, anzi, il cubo. «Cosa c'è di più bello del tricolore spiegato al vento?», dice il colonnello ammirando il mattino dentro la piazza d'armi dopo il rompete le righe. «Più bello c'è solo il dovere», ringhia il generale sopraggiungendo con passo da bersagliere ed è tutto un trafficare di su e giù per la caserma fino a sera: bello infine restare svegli, fucile in spalla, dentro la garitta.
Fiero l'occhio, fermo il passo. Nello sguardo, a far da misterioso collirio, con l'ironia del fante, un canto: «Inchiodata sul palmeto regna immobile la luna, a cavallo della duna sta l'antico minareto». E pensare che davanti all'alloggio del capo posto davvero vi svetta altera una palma. È pur sempre, quella, la caserma dove fu comandante il Castagna. Proprio quello del «Colonnello non voglio il pane, dammi il fuoco distruggitore». E se proprio non è una duna è su un dosso che è collocato quel comando militare. E oggi la palma è bucata dal punteruolo rosso, flagello in tutto il Mediterraneo.
Ad un certo punto l'idea d'Italia, la patria, l'inno e il monumento dei caduti diventano un muccchietto di cose buttate in tasca e presto svuotate in un angolo del comò. Le nonne che cantano «Tacere, bisognava andare avanti» oppure «Oh vita, oh vita mia», fasti di soldati innamorati, Piave in aura di leggenda, con le foto dei nonni in divisa: la grande guerra, la grande proletaria in marcia, i Cavalieri di Vittorio Veneto. Tutto l'immaginario degli attuali signori di mezza età, compresa la sede dei combattenti e reduci, si risolve in una eco remota, anzi, muta. Le giornate passano e capita che correndo via, urtando il mobile, l'accumuletto cada e finisca nella polvere, dimenticato. Più che scordato. Eccetto che per il calcio. Gioca la Nazionale, magari vince qualcosa e tutta una folla di paesani si porta per strada a cercare la bandiera. Se ne trovano solo nelle sezioni del Movimento Sociale Italiano. Purché senza la fiamma in mezzo. Bandiere in prestito, dunque. E un solo grido: «Forza, Italia». Con ovvia virgola in mezzo, a significare un presagio.
La parola Italia riempie la bocca e produce soolo un'apnea da vuoto. Qualcosa in mezzo, in quellla bandiera, dovrebbe proprio esserci: «Ho famiglia», suggeriva Leo Longanesi, ma magari un coniglio bianco su fondo bianco a magnificare una pratica desueta ma sempre frequentata sebbene gli esempi opposti non manchino. Come il verso perfetto scavato sulla viva carne nostra da Francesco De Gregori: «La storia siamo noi, siamo noi questo piatto di grano». O come quel ragazzo, Fabrizio Quattrocchi, catturato dai tagliagole in guerra, in Iraq, che mentre lo tenevano fermo gli diceva: «Adesso vi faccio vedere come muore un italiano». Tutto questo mentre a Roma, pavidi - nelle redazioni, in Parlamento, nei passa parola - tutti temevano di specchiarsi nella definizione di "i-ta-lia-no", assai impegnativa come dichiarazione d'identità per essere condivisa. E tutti, infatti, fraintendevano, mettevano una distanza: «Com'è che sta dicendo: come muore un camerata?)}. A Genova, per non sbagliare, il municipio gli negò il lutto di città.
L'Italia che esiste da molto prima dei centocinquanta anni, oggi, proprio, non esiste. L'Italia che esiste con Roma, con il seme greco e indiano della patria dei padri, dunque con Odisseo ed Enea, l'Italia che esiste nel genio rapace dei mercanti, con Marco Polo e Cristoforo Colombo che si portarono ai confini del mondo, oggi, appunto, non esiste. Come convenzione per il disbrigo burocratico, per i ludi cartacei dell'avviamento professionale altrimenti noto come agone politico, per la foto di gruppo alle Nazioni Unite, per tutto quel che riguarda il convenzionale esiste l'Italia, ma come sentimento di una comunità di destino proprio no, non esiste. E tra poco smetterà di esistere anche il Vaticano, dettaglio molto significante per l'identità di Roma, smetterà di esistere perché nell'andazzo ha perso la consuetudine alla verticalità perfino la Santa Romana Chiesa, i sacerdoti non studiano più il latino, il verbo dell'universale è degradato al rango di rudere. E la Chiesa è solo un ufficio di assistenza sociale, neppure internazionale. Ancora peggio è ridotto l'oikoumene dell'umanesimo, i nostri ragazzi, nel frattempo che i loro coetanei d'Oriente si guadagnano il mondo coniugando alla tecnica Confucio, i Veda, il Corano e le Mille e una notte, i nostri ragazzi, appunto, non sanno più cosa sia la Decade di Tito Livio, 1'lIiade o il Sikander. Non sanno chi siano Vico, Tasso e neppure Carmelo Bene. Del già potente segno del Rinascimento, infatti, nell'Italia che crede di far cultura accomodandosi nei festiva I letterari, si fa museo. Con riposo domenicale ovviamente.
Con la parola Italia ci si riempie la bocca e poi basta. Siamo dentro l'antica maledizione dell'austriaco. Siamo per davvero un'espressione geografica e non abbiamo alcuna sovranità politica. Abbiamo davanti a noi il Mediterraneo ma ci è negato, la nostra politica estera è ossequiosa delle decisioni altrui e culturalmente, poi, il nostro patrimonio di idee, scienza e memoria, fa il paio col mucchietto nascosto nella polvere. Sta sotto un altro comò. Altrimenti non avrebbe senso rinunciare ad un ruolo che pure il mondo intero ci richiede: l'universalità della parola "I-ta-li-a". Significativo, infatti, che sia dovuta intervenire la Repubblica Popolare Cinese per finanziare la pubblicazione dell'opera di Giuseppe Tucci, un pilastro dell'orientalismo del Novecento, pioniere in quella scienza dell'esplorazione, necessaria per fabbricare il futuro con la geopolitica e non certo con le cronache della suburra di provincia. Grazie al lavoro di Tucci i cinesi hanno potuto ricostruire i tasselli mancanti della loro storia, perfino recuperare le immagini dei templi tibetani da loro stessi distrutti. A voler riprendere il filo interrotto della nostra aurora - al seguito dei nostri dèi che trovarono rifugio in Asia - potremmo ripercorrere le righe del Romaka Siddhanta, un prestito d'Italia d'epoca precedente alla nascita di Cristo, una scienza del ciclo universale forgiata qui da noi dove il sole viene a tramontare e che gli indiani fecero propria dato che Roomanka è certamente Roma.
Se ci fosse l'Italia nel nostro sangue di italiani riconosciuti come tali solo perché certificati nella carta d'identità ce la saremmo cavata come in Russia. Come i russi che hanno lo spirito russo della Resurrezione, come i russi che sanno attraversare la storia accettandone ogni tragedia per farne catarsi, anche noi - con una guerra civile alle spalle, mai conclusa - avremmo avuto uno spirito tutto nostro per ritornare sui nostri passi ed essere degni del Battistero di Firenze, delle cento moschee di Palermo, delle cime delle Dolomiti. E degni poi dei nostri soldati che trovano la morte nelle guerre altrui senza neppure avere in cambio un riconoscimento: quello di essere caduti e non vittime, termine su cui l'eufemismo vile anestetizza l'incapacità tutta nostra, tutta pulcinellesca, di accostarci al sacrificio.
Malgrado ciò, malgrado l'Italia degli italiani, le macchine si muovono per strada, la benzina si trova, le signore si fanno bionde e gli uomini si depilano. Le generazioni non sognano, piuttosto s'accodano alla corrente in voga: si piazzano un orecchino, si calano una pasticca d'ectasy, si fanno tonici. Tutto fanno fuorché sognare, piuttosto scelgono di stordirsi per vagheggiare tra i belati del conformismo l'illusione di un'epica generazionale. «Diventerete tutti notai» diceva Eugene lonesco ai giovani in marcia sotto le sue finestre, a Parigi. Diventeranno tutti" Amici" di Maria De Filippi questi della nuova età. Tutti accuratamente depilati. E non è un vellicare il nazionalismo rivendicare il diritto di vomitare di fronte a tanto trionfo del banale. Chiunque faccia una passeggiata per il mondo si renderà conto di come sia diventata sempre più devastante la condizione periferica di questa Italia. E non è dunque, questo cercare tra strame l'Italia, un vano alitare sfiati patriottardi, al contrario: il nazionalismo è pari al cosmopolitismo nel negare una vera specificità alla nazione. Tanto più di memoria e cultura universale d'Italia entra nell'involucro dell'espressione geografica, tanto più di mondo ce ne viene in casa. L'Italia, infatti, è plurale: crocevia di popoli e storie giunte da ogni angolo del planisfero. L'Italia più sinceramente italiana è quella che sa riconoscersi nei magrebini che, tornando a Mazara del Vallo, stanno tornando a casa. L'Italia italiana è quella che porge ai rumeni un domicilio spirituale, un asilo che non è soccorso, ma patria elettiva, così come più vera Italia si trova nel sagrato della chiesa di san Nicola a Bari, meta agognata dei pellegrini arrivati dalla Madre Russia e così anche Italia è quella memoria dove trovano pane e companatico tutti i popoli e le civiltà che nella storia hanno incontrato un'altra Italia - quella della parola e del segno universale, quella della sapienza e del genio (è una parola che si può usare, questa 7). E tutti questi, adesso, non hanno altra idea dell'Italia che quella di una caricatura. O di una tavolozza per il pittoresco.
Ma malgrado tutto, malgrado l'Italia degli italiani, qualcuno alza la saracinesca alle otto del mattino, alle cinque si trova una vanga per rivoltare la zolla, a notte fonda un poliziotto tiene gli occhi aperti per stare alle calcagna di un assassino.
Malgrado tutto, malgrado l'Italia degli italiani, la nave va secondo metafora: la maggioranza dei cittadini ha una casa di proprietà, ci si permette il lusso suicida di mettere da canto i mestieri e si fa incetta di stipendi, doppio lavoro, lavoro nero, sussidi e disoccupazione assistita nel frattempo che la grande provincia si svuota di anime, fossero pure quelle morte. Chiunque voglia fare un'improvvisata e perciò arrivare in qualsiasi sputo della carta geografica in cui è rintanata l'antica Italia vi troverebbe quell'eterno pomeriggio dove le persone hanno smarrito la sintonia col calendario: non siamo più contemporanei al nostro stesso tempo. La coscienza di una collettività è ridotta a bacino di rilevamento per sociologi. E nel calendario poi - nel frattempo che sono scomparsi i padri - è entrata anche la festa dei nonni, ma sempre sotto trista ricognizione di quel vogliamoci tanto bene del sentire stucchevole. Con tanto di profluvio di assessorati alla famiglia.
Malgrado tutto la gente - entità liquida quanto solida nel marketing -, quella stessa gente che ha preso il posto del popolo, dilaga nel racconto del quotidiano. E se dobbiamo consumare righe per spiegare la differenza tra gente e popolo la partita è persa. La gente che ha guadagnato il proprio paradiso di camera e cucina e campa, campa alla grande; il popolo, appunto, non esiste più. Nello Stivale, di conseguenza, con tutta questa gente assurta a testimone dello spirito del tempo, latita la grandezza. L'Italia degli italiani, infatti, è identificata nel mondo in virtù di un maleficio, proprio quello che, nella migliore delle ipotesi (e figurarsi, allora), ci fa riconoscere e ci restituisce identità: la mafia. Nella peggiore, invece, raccogliticci come siamo in virtù del pittoresco, siamo quelli che si fanno catalogare nell'album policromo del mondo per qualche sarto, qualche piattuzzo e un bicchiere di vino.

È il precipitare nel pittoresco che ci costringe nel pantano della narrazione ombelicale: letteratuura, cinema, l'arte in genere, sono l'autobiografia di questo nostro vuoto. Ed è il bianco il colore del vuoto. E la sequenza del colore adesso è ben chiara: bianco in mezzo e bianco ai lati. Alla bandiera dei tre colori ne serve solo uno. Con qualcosa finalmente in mezzo: magari coniglio bianco su fondo bianco.

IL CONTRIBUTO DELLA LINGUA ALL’UNITA’ D’ITALIA
Luca Canali

Luca Canali è nato a Roma nel 1925. Dopo la militanza nel Partito d'Azione si è iscritto al PC!, dove dal 1945 al 7958 ha svolto un'incessante attività nelle organizzazioni di base. Ha insegnato Lingua e letteratura latina nelle Università di Roma e di Pisa. Ha tradotto Virgilio, Lucrezio, Catullo, Orazio, Ovidio, Petronio (per /'intera opera ha ricevuto il Premio Nazionale per la Traduzione della Presidenza della Repubblica). Tra i suoi numerosi libri si ricordano: "1/ sorriso di Giulia" (1980) edito da Editori Riuniti; "Autobiografia di un baro" (1983, Premio Viareggio "Una vita per la cultura") e "I cavalieri latini del/'Apocalisse" (2005) editi da Bompiani; "Finzioni e memoria" (1999, Premio Hemingway) edito da Longanesi; "La resistenza impura" (20 l O) pubblicato da Manifestolibri e le opere in versi "La deriva" (7979) per Rizzoli, "Borderline" (1980) per Scheiwiller, e 'Toccata e fuga" (1984) per Garzanti.

«N0s sumus Romani, qui fuimus ante Rudini». Questa la frase tramandata da un frammento (377 Vahlen) degli" Annales" di Ennio, autore del primo poema epico in esametri della letteratura latina. Originario di Rudiae, cittadina dell'Apulia, attraverso una carriera movimentata, e anche guerresca in Sardegna agli ordini di Catone il Vecchio (dettto anche il Censore), Ennio era giunto a Roma dove aveva intrapreso con successo l'attività di scrittore di vari generi letterari, soprattutto dell'epica: gli "Annales", di cui rimangono soltanto alcune centinaia di versi, che tuttavia costituiscono una preziosa testimonianza sulle guerre combattute da Roma per la sua difesa e soprattutto per la sua espansione nel centro d'Italia (l'Italia non era ancora Stato: quel nome, di probabile origine greca, designava inizialmente la parte meridionale della penisola che giungeva sino al Mediterraneo).
Quella frase di Ennio ha un valore chiaramente orgoglioso: egli, provinciale del Sud che probabilmente, pur seguendo i suoi studi, si era sempre espresso con il dialetto della sua terra, ora poteva, e anzi doveva, parlare la lingua latina e usarla nel suo vasto lavoro letterario. Ma anche la lingua latina si era formata soprattutto mediante l'apporto dei dialetti osco-umbri e di non pochi contributi lessicali etruschi e persino greci. Non era certo un caso che un numero considerevole di parole greche fossero entrate a far parte della lingua del popolo che della Grecia sarebbe diventato il dominatore, ma che a sua volta sarebbe stato da essa culturalmente dominato; famosa, in proposito, la definizione di Orazio ("Epistole" Il, 1,156): «Graecia capta, ferum victorem cepit» (La Grecia conquistata conquistò il selvaggio vincitore). In tale espressione s'imposta un problema che sarà ricorrente e capitale nella storia della lingua e dei dialetti di molti popoli dell'antico Occidente: la Grecia, infatti, era già d'una civiltà molto superiore a quella di 'Roma, e la sua cultura e la sua lingua, costituita anch'essa da una koinè di vari dialetti -lo ionico, il dorico, l'eolico - influenzeranno a tal punto la lingua latina, da divenire addirittura la lingua dei ceti colti romani. Non a caso, al momento di crollare sotto le ventitré pugnalate dei congiurati, Giulio Cesare, rivolgendosi al prediletto Bruto, che gli aveva vibrato il colpo mortale, gli dirà in greco: «XUL a'Ù LÈXVOV?» (Anche tu, ragazzo?), secondo la testimonianza del biografo Svetonio.
D'altra parte, quelli che chiamiamo dialetti non sono altro che" lingue" parlate da nazioni diverse nella fase primitiva, o ancora molto arretrata del loro sviluppo, tanto che a volte esse non hanno lasciato tracce scritte dei loro mezzi di comunicazione, eccettuati alcuni documenti funerari, giuridici o monetari o decorativi su oggetti artigianali destinati all'uso quotidiano o a qualche dimostrazione affettiva (gioielli e simili). Col trascorrere del tempo, attraverso il contatto con regioni di civiltà più evoluta, o con lo sviluppo delle proprie strutture e della propria" cultura", quei dialetti avvertono la necessità di trasformarsi in strumenti di comunicazione sempre più articolati all'interno e verso l'esterno, divenendo così scritture che potranno essere definite lingue. Questa è stata la vicenda anche delle popolazioni del Lazio, e in particolare di Roma, ove, partendo appunto da espressioni religiose (Carmen Saliare, Carmen Fratrum Arvalium) o giuridiche e amministrative, si è approdati a una lingua (il latino) più articolata, quindi non più sintesi o prestito di vari dialetti, e sempre più vastamente parlata e scritta, a seguito della propria espansione imperialista. L'intera storia della letteratura latina dimostra questa espansione dello Stato, dapprima definito dall'espressione senatus populusque romanus (Senato e popolo romano), e in seguito, per l'arricchirsi della propria struttura sociale, l'ampliamento dei propri confini, e per la sempre maggiore importanza della borghesia, cioè dell'ordine equestre, senatus et equester orda populusque romanus (Senato e ordine equestre e popolo romano). A documentare tale processo, ricordiamo che stranamente soltanto pochissimi scrittori latini (non più di tre o quattro) nacquero a Roma; tutti gli altri provenivano dalle più disparate regioni dell'impero: Virgilio era di Mantova, Orazio di Venosa, Livio di Padova, Properzio di Assisi, Ovidio di Sulmona, Seneca e Lucano provenivano dalla Spagna, Tacito forse da Terni o più probabilmente dalla Gallia Betica, Apuleio dall'Africa. Ma si potrebbe continuare: fra gli stessi imperatori, subito dopo la dinastia Giulio-Claudia, salirà al trono il reatino Vespasiano, fondatore della dinastia Flaavia, rappresentata dai suoi due figli, Tito e Domiziano; più tardi Traiano e Adriano spagnoli, Settimio Severo africano. L’identità romana e italica era ormai affermata e dovunque espressa dalla lingua latina, anche se tracce di dialetti locali dovevano persistere e affacciarsi soprattutto nella lingua d'uso, e solo talvolta, in qualche particolare scrittura o performance letteraria di grande rilievo ma linguisticamente eterodossa: ad esempio, Petronio nel suo straordinario romanzo "Satyricon" (una cosiddetta saatira menippea, un misto di prosa e poesia), e un secolo prima, lo sconosciuto ufficiale dell'esercito di Cesare autore del "Bellum Hispaniense", il terzo e linguisticamente il più rozzo dei bella che costituiiscono il cosiddetto" Corpus caesarianum", dopo i commentari "De bello gallico" e "De bello civili" del grande Cesare.
Quasi allo stesso modo i dialetti italiani, dopo il "volgare" dantesco, sono strumenti espressivi di intellettuali, i quali scrivendo in dialetto fanno una scelta estrosa nella loro espressione artistica. È improprio, dunque, contrapporre drasticamente le opere dialettali a quelle "in lingua", e, sempre per fare un esempio, distinguere i sonetti" romaneschi" del Belli e le poesie "milanesi" di Porta e di Tessa, veri "geni della lingua", dalle opere più importanti "in lingua" della letteratura italiana. Per di più, alcune opere, ad esempio "Lo cunto de li cunti" del Basile, scritto con una mescolanza di dialetto e di lingua, o il "Baldus" di Merlin Cocai (pseudonimo di Teofilo Folengo), nel quale l'Autore inventa il linguaggio "maccheronico", risultano di grande valore artistico. Procedendo nel tempo, alcune fra le opere più valide della letteratura italiana moderna, ad esempio quelle di De Roberto, Verga, Pirandello, Consoio, Sciascia, son anch'esse pervase da evidenti influssi dialettali: soprattutto Gadda, il più estroso dei narratori italiani del secolo scorso, fa del lessico o della sintassi multi lingue il segreto della sua potenza affabulatoria. Tuttavia questa feconda contaminazione linguistica, in tali casi di eccellenza letteraria, avviene sempre sulla base di una lingua d'uso prevalentemente toscana, un toscano molto screziato da vocaboli, flessioni e (se parlato) da una chiara natura eteroregionale. Perché mai, dunque, ostinarsi a considerare e definire il toscano, che è diventato nei secoli il nerbo della lingua "media" italiana, una lingua morta? V'è un'opera trascurata - tanto da essere appena nominata nei libri di testo - che testimonia anch'essa la contemporanea e reciproca vitalità nazionale di lingua e dialetti: la si deve al garibaldino Giuseppe Cesare Abba che, nel suo "diario" "Da Quarto al Volturno", più noto con il sottotitolo "Noterelle di uno dei Mille", scrivendo in una lingua italiana" media", informa il lettore che sulla nave che trasportava i "Cacciatori delle Alpi" verso la Sicilia, era un continuo vociare di quei volontari di ogni parte d'Italia che usavano i diversi dialetti della loro terra di origine: ma tutti - ricorda Abba - privi di «ambizioni, cupidigie, e la grande patria sovra ogni cosa, con spirito di sacrificio e buona volontà». Era questa un'evidente dimostrazione collettiva d'intenti patriottici, genuini e unitari.

Un recente articolo - brano di un saggio di Franco Brevini, anni fa autore di una bella raccolta di poesie dialettali italiane - trasforma ora un giusto elogio della vivezza e autenticità dei dialetti italici in un discutibile atto d'accusa nei confronti del toscano che sarebbe divenuto, dopo quello dei" grandi padri", "una lingua morta". Questa incongrua definizione (credo redazionale, a introdurre quell'articolo) suona così: «A fronte del dilagare dei dialetti, per secoli la nostra letteratura ha fatto ricorso al toscano dei libri». Credo che con questa espressione si intenda sprezzantemente, un toscano" libresco". L'autore di queste righe, soffermandosi su questa inesatta definizione, insiste così: «con la conseguenza che un paese vivo ha affidato l'espressione delle passioni e dei sentimenti a una lingua morta». Ma il toscano dei grandi autori, non solo del Trecento ma anche di quelli rinascimentali e oltre, è davvero «una lingua morta»? Come si può sostenere un concetto così assurdo? È indubbio che tra i pilastri della unità e identità italiana, una funzione portante è stata assegnata alla lingua e alla letteratura. Ma l'asserzione che «chi si proponesse di conoscere gli italiani partendo dalla loro letteratura, resterebbe deluso ... perché gli scrittori non hanno potuto contare su una lingua viva» è assolutamente incongrua. Dunque i saggi del Bembo, del Valla, le straordinarie traduzioni delle opere dello storico latino Tacito dovute a Bernardo Davanzati, e le "Stanze" del Poliziano, e poi i poemi del Pulci, di Ariosto e Tasso, e i fondamentali testi di Machiavelli e Guiccciardini, e, addirittura, con un salto di secoli, le poesie di Foscolo e Leopardi, oltre al grande romanzo manzoniano, sono stati davvero scritti in una lingua "non viva"? Questa opinione sembra davvero un inspiegabile abbaglio.
Non è questa la sede adatta a una lunga polemica linguistica. Ma una cosa si può dire sinteticamente: se si vuole stabilire l'identità degli italiani mediante la lettura dei suoi testi letterari, ciò non può certo avvenire più efficacemente leggendo i pur eccellenti testi dialettali di uno Scataglini, di un Giotti o di un Marin, piuttosto che quelli in lingua di Foscolo e Leopardi!
Occorre tuttavia parlare brevemente anche del fenomeno linguistico che qualche anno fa investì non solo il mondo "semiologico", ma anche quello neonato dell'informatica. Tale fenomeno aveva al centro una domanda inevitabile, che resta ancora attuale e irrisolta: l'identità italiana in generale e quella linguistica in particolare hanno acquistato o perduto efficacia con la comparsa e diffusione a tappeto della televisione omologante a un livello medio-basso? Per di più la debordante crescita d'una editoria fortemente aziendalizzata, e commercializzata, quindi orientata non più verso obiettivi di "merito artistico", ma verso un ossessivo conteggio degli utili garantiti dal mercato, sostenuto dalla demagogia dei libri e dei programmi radiotelevisivi cosiddetti "d'intrattenimento", oltre che da una martellante pubblicità, finisce per assomigliare sempre più alle industrie alimentari o degli elettrodomestici, introducendo numerose espressioni piattamente gergali (per lo più angloamericane), adatte alle attività industriali di cui si è detto. Ed ecco dunque la risposta alla domanda centrale, prima lasciata senza risposta: televisione ed editoria di mercato, invece di sollevare il livello dell'identità linguistica del cittadino italiano, l'hanno inaridita e impoverita, ponendola al servizio di un mercato violentemente competitivo che finisce automaticamente per generare il proprio contrario, cioè un regime di monopoli. In questo quadro per nulla rassicurante, ciò che si può dire senza paura di sbagliare è che le responsabilità dei leader (o dei boss) delle singole industrie sono enormemente aumentate, e il loro potere può diventare benefico o distruttivo: ad essi la scelta, che infine, speriamo, forse invano, li premierà o punirà con il consenso o l'ostilità del popolo.

PROVE TECNICHE DI CANZONE CIVILE
Mauro Covacich

Mauro Covacich è nato a Trieste nel 1965 e vive a Roma. Ha scritto diversi libri, tra cui due saggi narrativi intitolati "Storia di pazzi e di normali" (1993, 2007) e "Trieste sottosopra" (2006), editi da Laterza, e i tre romanzi editi da Einaudi che compongono la "Trilogia delle stelle": "A perdifiato" (2003), Tiona" (2005) e "Prima di sparire" (2008). Nel 1999 l'Università di Vienna gli ha conferito l'Abraham Woursell Prize.

Tutto è cominciato con una telefonata. Stavo chiamando a casa di mia sorella per il solito aggiornamento sulla ciurma. Da lontano è così che mi piace pensare ai miei, un po' cambusieri sempre troppo affaccendati, un po' tigrotti di Mompracem. Aveva risposto Marco.
«Ciao zio! Quando torni in Italia?».
All'epoca di questa telefonata, circa tre anni fa, Marco stava frequentando la terza elementare. A scuola era bravo, ubbidiente e otteneva ottimi risultati. Eppure, sapendomi nella piccola casa romana dove abito, conoscendola anche in alcuni suoi scorci per averla vista spesso nelle nostre comunicazioni familiari su Skype, collocandomi insomma, almeno spazialmente, in un posto preciso della capitale, mi chiedeva quando sarei tornato in Italia. La domanda appariva poi ancora più paradossale perché mi arrivava da Trieste, la mia, la nostra città, il punto esatto in cui l'Italia, con grave scoramento di irredentisti e nazionalisti, trascolora inesorabilmente nelle tinte orientali dell'altro Adriatico. Quindi era questa l'idea che aveva del paese un bambino triestino di oggi? Una città-Stato, la sua.
D'altronde, non era affatto strano che lo Stato fosse per lui un'entità del tutto astratta, mancandogli fino a quel momento un'esperienza concreta, l'attraversamento con i propri piedi, con i propri occhi, del paesaggio che illustrava il suo sussidiario. Le maestre lavoravano sull'orografia locale, sulla topografia del quartiere, allargavano le mappe secondo un criterio associativo e paratattico, un pezzetto più un pezzetto più un pezzetto. Non dubito che fosse il metodo giusto, ma mancava lo sguardo d'insieme. In altre parole, occorreva un viaggio.
Così, dopo un paio di mesi, di ritorno da un impegno a Trieste, mi sono portato Marco a Roma per qualche giorno (prima di rispedirlo a casa da sola, usufruendo del servizio per minori non accompagnati dell'Alitalia, mettendo in allarme mia madre, mia sorella e, di conseguenza, l'intero personale di terra dello scalo di Fiumicino, e facendolo diventare un ragazzo - un giovanotto, avrebbe detto mio padre - in meno di mezza giornata).
Sul treno verso la capitale, ogni tre partite a scacchi Marco provava a insegnarmi il complicatissimo gioco a carte dei mostri Yugiho. lo intanto, preso dalla mia ansia didattica, avevo disegnato uno stivale tutto sbilenco sul quale gli facevo scrivere i nomi delle città via via che le incontravamo. Mestre, Padova, Ferrara, Bologna, Firenze. Aspettavamo insieme l'apparizione del primo cartello azzurro all'ingresso delle stazioni appena l'Eurostar rallentava, poi lui metteva il suo stampatello accanto al mio cerchietto. Un ricamo di bottoni e semirette. Certo, saremmo arrivati appena a metà gamba le, tutto il resto della tomaia sarebbe rimasto ignoto chissà per quanto tempo, ma intanto l'Italia si allungava allontanandosi da casa (da mamma, papà e Maria, la sorellina pestifera di colpo tanto amata). La durata poi, l'eterna durata del viaggio, dava una consistenza fisica all'idea evocata da quel ricamo e dal mio ridicolo disegno. La distanza, che restava acquattata nella fibra ottica quando parlavamo su Skype, era esplosa ora davanti ai nostri occhi e si gonfiava con sinistra rapidità come quelle scialuppe di nuova generazione, una certezza affidabile forse, ma di sicuro sconvolgente. «Uffa zio, quando arriviamo?!». Le carte, gli scacchi, la Playstation, le infinite puntate al bar della carrozza 5, niente bastava a riempire il tempo di quell'inedito spostamento. La città-Stato continuava a espandersi sotto di noi. Intanto si avvicendavano i passeggeri: la famiglia di americani salita a Venezia era scesa a Firenze, ma anche quelli non stranieri parlavano un altro italiano, pieno di esclamazioni e aspirate e fricative, e ogni volta Marco drizzava le antenne. A Bologna erano saliti due tizi, colleghi di qualcosa, mentre il gruppetto di pensionati vocianti seduto qualche posto più avanti avrebbe continuato la corsa anche dopo che fossimo scesi. «Ma ancora quanto?!}) - ed ecco Marco, incredulo e in qualche modo solidale coi signori ischitani, scrivere Napoli accanto all'ennesimo cerchietto.
A ripensarci meglio, il fatto che mio nipote identificasse tout-court l'Italia con Trieste non era poi tanto paradossale come mi era parso all'inizio. L'italianità a Trieste è una specie di dogma. Annessa definitivamente alla Repubblica nel 1954, una città che solo nell'ultimo secolo è stata austriaca, anglo-americana e per un breve attimo - un attimo piuttosto scioccante - anche jugoslava, be', è comprensibile che soffra il complesso di non essere abbastanza italiana, quindi non è difficile immaginare quanto le maestre insistano sulla questione nazionale. A Trieste vivono floride comunità di serbi, croati, greci, israeliti; l'altipiano carsico è interamente abitato dalla minoranza slovena e comunque a ogni triestino è sufficiente risalire il proprio albero genealogico di tre generazioni per incontrare il primo parente non italiano - i cognomi stranieri che affollano l'elenco telefonico stanno lì a dimostrarlo (il mio compreso). Ma il cosiddetto crogiuolo di razze diventa presto un imbarazzo quando non si è più in grado di apprezzarne la ricchezza. L'antislavismo paranoide del secondo dopoguerra ha spazzato via in fretta ogni segno residuo di Mitteleuropa, lasciando emergere la vocazione a un'identità italianissime da parte di un'opinione pubblica provinciale ancoi più che periferica. A tutt'oggi essere italiano per i triestino medio, nonostante la caduta dei muri, de confini e di gran parte dell'astio per la defunta Jugoslavia, è un principio vissuto con lo stesso ardore di Guglielmo Oberdan. Su questo ardore hanno sempre contato le forze politiche di destra, fomentandolo e strumentalizzandolo ad arte (penso soprat tutto alle copiose manciate di sale sparse sulle feri te degli esuli istriani). A Trieste il Movimento Sociale Italiano è stato il secondo partito dopo la Democrazia Cristiana fino agli anni Ottanta. Il che ha procurato una sofferenza ancora più beffarda a quei triestini la cui coscienza nazionale nasceva dallo spirito della Resistenza e dalla lotta di liberazione dal nazi fascismo. Non c'è dubbio, ad esempio, che nell'ide. che Marco si era fatto di una Trieste così italiana d fagocitare l'intero paese erano confluite, insieme c discorsi delle maestre, anche le tracce implicite m ben presenti di una certa tradizione di famiglia. nonno di mio cognato è stato uno dei capi del CLN di Trieste, un democristiano di ferro che, con lo stesso impegno con cui si è opposto ai fascisti, ha combattuto l'occupazione delle truppe jugoslave nei due giorni del maggio 1945 in cui partigiani, badogliani, titini e forze alleate rivendicavano - duole ammettere, l'un contro l'altro armati - il possesso della città. Gesto di coerenza patriottica, il suo, che gli ha procurato parecchi grattacapi nel tempo, tra cui alcune comunicazioni dei fantasmi di Gladio.
Insomma, nella testa fumante del bambino che mi stavo portando a Roma c'era una nebulosa di cose apprese e cose, per così dire, assorbite dal patrimonio genetico. Un tuffo nella capitale lo avrebbe davvero aiutato a chiarirsi le idee?
L'impatto è stato quello di una città esotica: le palme, il caldo, la monumentalità délabré dei palazzzi, le strade gremite di macchine, motorini, pedoni, questuanti, tutti mescolati in un movimento caotiico e armonico al tempo stesso. Anche dormire sul futon che gli avevo approntato accanto alla mia scriivania accentuava l'atmosfera avventurosa dei primi momenti in una specie di allunaggio.

Ricordo quanto mi sono arrabattato in quei giorni. L'ho portato al Colosseo, a guardare i quattro manigoldi vestiti da centurioni, con tanto di daga e ciabatte ortopediche. Pensavo di avvicinarlo alla capitale partendo dai fasti imperiali, da un immaginario spettacolare condiviso, ma gli antichi romani ci gettavano troppo lontano nel tempo, rischiando di farci perdere di vista il nucleo civico, per non dire geopolitico, della nostra missione (benché gli intrighi dell'aristocrazia senatoria, solo ora me ne accorgo, avrebbero potuto offrirmi il destro per una bella filippica sulla situazione politica attuale). Che dire poi della basilica di San Clemente, uno dei posti di Roma dove potrei tornare ogni giorno: le sue magiche stratificazioni e il carotaggio abissale nel passato non c'entravano niente con l'Unità nazionale, dialogavano tutt'al più con l'universo goticheggiante dei giochi di ruolo, con i ruderi e le cripte dei cartoni animati. L'unico effetto positivo di quella visita è stato ripararsi per un'oretta dal solleone.
Nel frattempo però Marco aveva scoperto il gelato con la panna gratis. «Che generosi questi romani!» esclamava ogni volta che uscivamo dalla gelateria. All'inizio, quando la tizia al banco gli chiedeva «panna?» con la spatola già colma a mezz'aria, Marco indugiava, controllava lo scontrino. Poi però ha capito in fretta e il secondo giorno aveva già adottato il trucco che gli avevo insegnato: «Se dici doppia panna, te ne mettono un po' anche in fondo al cono».

«No zioi Stai scherzando, vero?».
Un'altra cosa che lo colpiva, quanto a prodigalità, era il costume diffuso di approssimare per difetto i decimali del conto. Stava molto attento alle transazioni di denaro, come tutti i bambini che ne hanno appena acquisito il senso, e guardava sbigottito il cassiere che mi abbuonava anche venti centesimi con un semplice gesto della mano quando non trovavo gli spicci. lo sorridevo tra me pensando a come si entusiasmava Marco. «Sono proprio simpatici questi romani!». Ecco, a suo modo aveva colto nel segno, la simpatia è un criterio determinante nella vita sociale di Roma, le cose possono accadere o non accadere per simpatia. Se sei simpatico - e Marco, almeno per i gelatai, era di una simpatia pressoché oggettiva - otterrai sempre ciò che ti spetta, e magari qualcosina in più. Se sei simpatico si apriranno porte, occasioni di lavoro, accessi riservati, il mondo ruoterà sui suoi ingranaggi senza mai cigolare. Già, ma se non sei simpatico? O quando la tua simpatia non basta più?
La risposta l'ha avuta il giorno dopo, nel minuscolo luna park di Saxa Rubra dove l'avevo portato perché giocasse un po' con le figlie di una mia amica che abita da quelle parti. Frastornato dal chiasso e dalla velocità portentosa dei bambini romani, restava impalato in mezzo alla pista di autoscontri mentre furie sempre nuove gli rubavano la macchinina sotto il naso. Osservavo mio nipote - un bambino biondo, sveglio, grande il doppio di quelle canaglie - ritornarsene sul cordolo zigrinato con un kleenex appallottolato in mano come l'attributo di un santo, prima che un'altra corsa ripartisse e le figlie della mia amica gridassero di nuovo felici insieme agli altri già pigiando a tavoletta. E ancora, e ancora. Cosa aspettava Marco? Be', semplice, aspettava il suo turno. Era stato educato così. File, turni, regole da rispettare.
«Aa belloo!» gli ha detto sorridendo un padre all'ennesima volta che l'ha visto risalire a bordo pista con le pive nel sacco «mo' qua te devi fa' furbo».
Ecco la risposta, dove non arriva la simpatia tocca alla furbizia. Era anche questo l'Italia, un'intera popolazione dominata nei secoli da signorotti, papi, sovrani stranieri, passata direttamente dalla condizione di sudditi a quella di clienti (e relative clientele) senza essere mai riuscita a diventare una comunità di cittadini. Simpatia e furbizia erano cresciute rigogliose in una mentalità che non smetteva di pensare alle leggi come a vessazioni imposte dall'alto, a obblighi da aggirare, e tale quale germinava ancora nella case, negli uffici, sulle piste di autoscontrio Marco ci era rimasto male, di colpo la città dei cornettari notturni, delle pizze al taglio, della panna gratis, delle fontanelle di acqua fresca a ogni angolo di strada, di colpo la città delle meraviglie mostrava la prima crepa. Ma come? Lui aveva già cominciato a raddoppiare qua e là le consonanti per mimetizzarsi con i suoi nuovi amici, e ora Roma, il posto più italiano d'Italia, lo tradiva così? Dovevo trovare subito qualcosa per rimediare, qualcosa che in un sol colpo restituisse l'onore alla capitale e a Marco il buon umore, qualcosa che avesse la forza di un simbolo supremo, parlante, in grado di respingere con gli alti valori dello Stato il paraculismo strisciante dei suoi cittadini spettatori, addestrati dalle icone della pochade politico-televisiva a riempirsi la bocca di privacy e libertà.
Sono stato fortunato, il giorno dopo era il 2 giugno, festa nazionale della Repubblica, e noi alle 16 esatte eravamo davanti al Quirinale a guardare il cambio della guardia in edizione colossal. lo e il mio Candide in prima fila, insieme a centinaia di turisti sudati, a rimirare le figurazioni dei plotoni in alta uniforme sul pavè a schiena d'asino del piazzale presidenziale. Quindi lo stavo facendo, mi stavo giocando l'asso, il Presidente della Repubblica, il capo dei capi, a casa sua.
Ecco i carabinieri a cavallo, coi tamburi! I lancieri con i vessilli azzurri dei Savoia sulle aste abbacinanti! I corazzieri! La banda della Guardia di Finanza! Sentivo le spallucce di Marco fremere sotto la mia mano. Quindi era a me che si chiedeva ora una canzone civile (dopo Dante, Petrarca, Leopardi, Manzoni ... anche questo un segno dei tempi). A me che ho giurato, al maresciallo intento a interrogarmi sulla mia scelta di obiettore di coscienza, che non avrei mai indossato una divisa. A me che ho sfidato i manganelli del Fronte della Gioventù alle manifestazioni per il bilinguismo e gioivo intimamente quando m'imbattevo in qualche vecchia scritta degli anni Settanta piena di cappa. A me che lo Stato mi faceva pensare subito alle stragi di Stato, alla collusioone dei servizi segreti, alla Democrazia Cristiana, al Porto delle nebbie (all'epoca chi mai pensava che le toghe potessero un giorno diventare rosse). A me che ho festeggiato i mondiali dell"82 rigorosamente senza tricolore perché dalla retorica tardomentale lo scrittore che volevo diventare doveva scappare a gambe levate. A me che, da aspirante cane sciolto, contestavo in modo direi abbastanza protocollare il Partito Comunista ma che, al tempo stesso, ero ancora fortemente sensibile all'affiato internazionalista. A me che, come tutti i triestini - come Itala Svevo, che si chiamava Hector Schmitz! -, ho imparato l'italiano sui libri di scuola e come lui avrei tanto voluto essere definito uno 'scrittore europeo (ah, l'Europa!). A me che ho imparato l'inglese sui testi dei Talking Heads, inarrivabili antesignani della world music (ah, il Mondo!) e spesso ho sognato di firmarmi Itala Slavo. A me che a Parigi mi sono perso nelle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, e per anni ho mutuato da loro l'idea di una letteratura minore, una letteratura che sapesse inventarsi una forma minoritaria, dissidente, dell'idioma nazionale. A me che mi ordinavo: usa la tua lingua come fosse una lingua straniera (comandamento invero abbastanza agevole per un triestino che, si sarà notato, ignora, per una specie di lapsus storico-grammaticale, il passato remoto).
La banda procedeva con le sue marcette verso un climax fin troppo prevedibile. Quindi toccava ame ora inneggiare all'Italia? Be', se questo significava respingere l'arbitrio indiscriminato dei furbi, il cinico disfattismo dei qualunquisti, le nuove mire espansionistiche dei lanzichenecchi ingentiliti da un fazzoletto verde nel taschino, l'avrei fatto, sì, mi sarei stretto a coorte. E mentre piegavo la mia volontà come una barra d'acciaio, le prime note di Mameli sono esplose dagli ottoni della Guardia di Finanza. I turisti nostrani si sono portati la mano al petto secondo la più recente coreografia delle cerimonie istituzionali. Marco li ha subito imitati, sorridendomi con una scintilla di complicità negli occhi. «L'inno, zio! L'inno nazionale!». Questo lo conosceva eccome. lo ho annuito stringendogli la spalla e insieme ci siamo buttati nel coro.

THOUGHT IN ITALY
Enrico DaL Buono

Enrico Dal Buono è nato a Ferrara nel 1982. Si è laureato in Scienze politiche, in Filosofia e in Lingua e letteratura russa. Frequenta il master in scrittura della Scuola Holden di Torino. Ha pubblicato "Disincanti" (2008) per L'Inchiostro Blu e collabora con la rivista "Foedus".
"Natura autem utrumque facere me voluit, et agere et contemplationi vacare: utrumque facio, quoniam ne contemplatio quidem sine actione est».


Tra la primavera e l'estate di 150 anni fa la Sicilia fu teatro della campagna militare che passò alla storia col nome di impresa dei Mille e che propiziò di fatto l'Unità d'Italia. Durante il luglio 2010 mi sono trovato casualmente, a un secolo e mezzo esatto di distanza, a trascorrere qualche giorno di vacanza nella stessa terra. Ero proprio nella parte occidentale dell'isola, per la precisione a San Vito lo Capo, nei pressi della costa dove sbarcò Garibaldi.
Non essendo venuto a conoscenza di nessuno spettacolo bellico ancora in corso, quindi nell'impossibilità di assistere a gesta gloriose, ho mestamente optato per una prosaica vacanza balneare, con tanto di boxer ad asciugatura rapida e di infradito. Oltretutto l'autentico fiore all'occhiello di queste zone è la natura incontaminata delle acque e del litorale, natura che offre il più puro esempio di se stessa in un'area protetta denominata Riserva dello Zingaro.
A bordo di un'automobile noleggiata di cui preferivamo non testare le chiaro-scure postille assicurative, con due o tre amici, ci siamo avvicinati, per quanto la strada dissestata ce lo permettesse, all'ingresso della riserva. Prima di entrare, io mi fermo davanti al furgoncino-bancarella stanziato a pochi metri dalla biglietteria in legno. È gestito da un annoiatissimo vegliardo. Si vendono bibite e panini, secondo quanto promesso dai cartelli affissi alle pareti. Mentre lui si gode il lusso dell'ombra io, stuzzicato dall'aria di mare, decido di comprarmi un bel panino. Sono le ore undici e trentadue minuti, ma li ha già venduti tutti, i panini. Oggi ha sbancato. Mi spiega che li farcisce prima, a casa, e da trent'anni, del tutto incurante del fisiologico aumento della domanda, ne farcisce solo venticinque ogni mattina, perché non vuole rischiare che gliene avanzino. Sinceramente, sarei quasi portato a lasciarmi andare all'irritazione, in conseguenza della mia voracità non soddisfatta, introspettivamente mascherata da sdegno per l'imbarazzante assenza di attitudini imprenditoriali nel vegliardo. Tuttavia, in sordina, inizia a farsi strada in me la promessa di una sorta di rivelazione. Chiacchiero un po' con l'uomo anziano, consumo un ottimo bicchierino di latte di mandorle e, già pentitomi della mia precedente irritazione, cerco di lusingarlo con adulazioni da turista baldanzoso. Gli dico che sarà sicuramente orgoglioso di vivere in un posto così splendido e che io non l'ho ancora vista, ma chissà che meraviglia sarà la riserva. Il vegliardo sonnacchioso mi concede uno sguardo annoiato e, con tutta la naturalezza di questo mondo, mi dice che lui, in quella riserva, mai ci mise piede. Cerco di produrre uno scarto tra la mia reale reazione emotiva, che è collocata tra la totale sorpresa e lo sdegno, e la reazione emotiva manifesta, a cui aspiro di far assumere le sembianze di moderatissima sorpresa, per di più immediatamente surclassata da una completa comprensione. «Ah sì? Beh, certo ... » dico, prima di giocherellare a testa bassa col cordoncino multicolore dei boxer da mare. Faccio passare pochi secondi, poi, martoriato dal pungolo della curiosità, tentando di mostrare di conoscere già la risposta, ma di voler dare a me una pleonastica conferma e a lui un'irripetibile occasione di espressione spirituale, gli chiedo: «E, come mai?». Lui si sporge impercettibilmente verso la luce, misura col suo sguardo tutti i nove o dieci metri che lo separano dall'ingresso della riserva e, dopo aver riposto tra i sospiri la bottiglia in plastica di latte di mandorle nel frigo, proclama: «Perché fa fatica».
Forse la parte più civilizzata o corrotta di me si sarebbe aspettata una motivazione in qualche modo legata a ragioni utilitaristiche, politiche o quantomeno personali. Ad esempio, l'uomo era stato un pescatore e non aveva potuto buttare le reti in quel tratto pescoso di mare e, per ripicca, ora non si degnava di sporcarsi le suole nell'area protetta, dove sconosciuti caeiaroni vanno a sguazzare. Avrei, sulle prime, ritenuto più comprensibile che il vegliardo non fosse mai penetrato nella riserva, perché trent'anni prima il bigliettaio aveva disonorato qualche sua cugina. Ma no, niente di tutto questo. Non nascondo che, da principio, montò in me la solita, ottusa, irritazione. «Eh già, fa molto caldo!», dico, mentre mi incammino pensieroso tra i pietroni verso le spiagge. Ma poi i pensieri, come lubrificati dal sudore che scorre copioso fin dentro le orecchie, iniziano a mettersi in moto. Comincio a capire parallelamente qualcosa di me, di lui, e forse degli italiani tout court.
Mi riecheggiano in testa una sequela di frasi ma, sul momento, non riesco a ricondurle ad una fonte. «Perciò il Santo si attiene al Non-agire e professa un insegnamento senza parole». «Se pestare i piedi vince il freddo, la tranquillità vince il caldo». «Più lontano si va, meno si conosce». Tiro un'altra occhiata indietro, verso la bancarella, mi giro di nuovo in avanti, in direzione del sentiero che mi attende e un'ultima sentenza pattina sulla superficie lubrificata del mio cervello: «Dove, sebbene esista un paese vicino a portata d'occhio, in modo che dall'uno all'altro si odano cantare i galli e abbaiare i cani, gli abitanti fino alla loro morte in vecchiaia non si siano mai frequentati».
Qualche altro passo e tutto mi si fa chiaro: è il "Tao-te-ching", ovvero "Il libro della Via e della Virtù"! Provo a lanciare lontano lo sguardo, verso il vetusto paninaro, e cerco di capire se prima mi fosse sfuggita l'autentica fisionomia dell'interlocutore. Forse un eccesso di contestuaizzazione, tra fichi d'india e latte di mandorle, me l'ha fatto sembrare un autoctono, quando in realtà era un cinese doc in sericee vesti. Stringo gli occhi e lo osservo. Niente da fare: la carnagione lignea e i due carboncini tondeggianti degli occhi non lasciano spazio ai dubbi. Questo qui non ha avuto i natali più a est di Catania. Eppure qualcosa in lui, qualcosa delle sue movenze e delle sue parole, lo avvicina indubitabilmente a un saggio taoista.
Di fronte agli adagi di un saggio taoista, magari coi lunghi baffi bianchi e sottili e lo sguardo sornione, avrei avvertito l'istintiva, immediata irritazione provata dopo le parole del vecchio paninaro?
Se i fichi d'india avessero avuto l'aspetto di fiori di loto, se il solleone fosse stato incappucciato dalle brume, se i crepacci secchi fossero stati ricoperti di cascatelle e si fossero uditi in lontananza il suono di cetre a corde pizzicate e di organi a bocca, non avrei avuto un'altra disposizione d'animo?

Quest'uomo doveva essere un autentico santo! Più perfetto, più sintetico, più apodittico del leggendario autore del "Tao-te-ching", non aveva dovuto ricorrere ad una lunga serie di aforismi per esprimere il proprio illuminato pensiero, ma si era avvicinato all'asintoto dell' «insegnamento senza parole» molto più di Lao-tzu stesso, con quel suo semplice, divino, «perché fa fatica».
Non c'è motivo di consumarsi nella ricerca di qualcosa che non si sa cosa sia e che, come in fondo sappiamo, non si trova da nessuna parte. Perché faticare al sole per raggiungere le spiagge che si intravedono dall'altura e far loro perdere tutto il misterioso incanto che solo la distanza e la nonza possono conferire? Perché faticare, consumarsi, porsi ogni volta l'obiettivo della prossima spiaggia, dell'acqua un po' più limpida, della vista panoramica più sgombra? Perché avventurarsi per l'infernale sentiero del meglio? Perché votarsi ali' azione? Il paninaro non aveva di sicuro mai letto una sola riga di filosofia orientale, eppure sapeva tutto questo istintivamente, anzi, lo dava per scontato. D'altronde, nonostante io riconosca da anni che le pagine di libri come il "Tao-te-ching" siano pregne di un'inarrivabile saggezza, quando ho visto questa stessa saggezza concretizzarsi in un indolente paninaro siciliano, ciò che ho provato è stata innanzitutto irritazione.
Tutti guardiamo con timore e rispetto alla crescita della Cina, al suo prepotente proiettarsi sulla scena internazionale. Ammiriamo o temiamo la potente filosofia che fonda il suo spirito nazionale ma, quando troviamo un equivalente casalingo della quintessenza di quanto di meglio la filosofia cinese ha forse concepito nella sua storia, ne siamo tutt'al più imbarazzati. Certo, i frutti che la mentalità cinese sta dando alla propria nazione sono, allo stato attuale, assai diversi da quelli che la mentalità che ho appena tracciato sta dando all'Italia. Ma, perché questo? È necessario che sia così? Cos'è più sensato: introdurre a forza, artificialmente, un pensiero esogeno, estraneo ad un popolo, copiandolo pedissequamente da altrove, o provare a valorizzare l'eccentricità di questo stesso popolo, magari percorrendo vie un po' diverse, un po' non-uniformi?
Ma, prima di tornare sull'argomento, analizzerei un altro lato della questione. Leggendo le sentenze di Lao-tzu proviamo una sorta di reverenza nei confronti di una saggezza quasi sovrumana. Ascoltando il nostro «fa fatica» ci scappa un sorriso. Dapprincipio. Se poi ci riflettiamo un po' sopra, però, fa capolino il presentimento di una sapienza profonda, antica, nascosta tra le pieghe del nonsi-sul-serio, pieghe che rendono questa stessa saggezza autenticamente, perfettamente saggia. Una saggezza che, autoconfutandosi attraverso la smitizzazione, quindi togliendosi, si avvicina molto a quel tacere che lo stesso Lao-tzu equipara alla suprema saggezza.
Certo, il vegliardo dei panini non stava consapevolmente tessendo un pastiche del "Tao-te-ching", non stava parodiando la saggezza orientale di proposito per portarla a compimento. Tuttavia ritengo che gli italiani abbiano un talento particolare per riuscire in queste geniali imprese. Bastino due esempi su tutti, uno tratto dal Rinascimento, l'altro dal recentissimo passato: 1"'Orlando Furioso" dell'Ariosto sta ai cicli cavallereschi bretoni e carolingi come gli spaghetti-western di Sergio Leone stanno all'epica di John Ford.
Forse l'emblema dell'intero poema dell'Ariosto, il simbolo del suo originalissimo spirito è Astolfo: il cavaliere più leggiadro, colui che mantiene un contegno di distacco quasi snob dal greve guerreggiare terrestre. È certo inserito appieno nelle vicende narrate, è un cavaliere a tutti gli effetti, ma conntempla pure ogni cosa da un punto di vista scettico, etereo, distaccato. Pure i combattimenti sembrano per lui un'attività Iudica che a tratti si concede, perché sa che quello è il ruolo che gli viene assegnato dalla poetica cavalleresca. Lo stesso sorriso che proviene dalla condiscendenza affettuosa verso le forme stereotipate e trionfali del mito della frontiera lo troviamo nei film di Leone. Non c'è sarcasmo, né cinismo, nell'arte con cui il regista gioca con le strutture del western classico, ma critica devozione e distaccata benevolenza. Si capisce che il regista ha amato quel genere, che se ne è riempito; ciò nonostante questo non gli impedisce di smascherarne i difetti e le inverosimiglianze e, così facendo, dà vita ad un genere nuovo e ad una serie di capolavori.
Questa sorta di divertito pessimismo, questa sensibilità per i tramonti, questa smaliziata complicità col fato e con le parabole che il regista traccia in anticipo per tutte le opere umane, sono il distillato di quella saggezza mediterranea che, volenti o nolenti, permea il nostro carattere nazionale, ci identifica, ci unisce. Dall'estense Ariosto al romano Leone, al siciliano vecchio paninaro. Probabilmente lo stesso fatto che in bocca ad un mio connazionale la saggezza non si sia fatta riconoscere subito come tale, la stessa esterofilia, lo stesso disprezzo che proviamo a tratti per noi stessi, sono manifestazioni di quella stessa antica disincantata saggezza che silenziosamente ci unisce.
Nell'estate di un paio di anni fa mi trovavo a Londra, in un pub, a bere birra a/e con un alto dirigente, di natali britannici, di una delle più importanti aziende del made in Italy. La crisi economica era nell'aria e io gli chiesi il suo punto di vista sull'Europa, e in particolare sull'Italia, al cospetto della crescita della Cina, delle nuove potenze e degli sempre inarrivabili - Stati Uniti. Che ruolo immaginava per noi "nani" di fronte a cotanta potenza? Lui bevve un'altra sorsata di birra tiepida e sgasata, si passò il dorso della mano sulla bocca, sbatté il boccale sul tavolo di legno e, come vomitando un pensiero che lo tormentava ogni notte da decenni, affermò: «Non si può fare sempre a gara a chi ce I l'ha più grosso!».
Dal suo punto di vista, che non mi sentirei di snobbare a priori, non era possibile che potessimo competere sul campo della potenza economica, privi come eravamo di materie prime, di risorse e così via. Mi immaginai, tra un sorso di a/e e l'altro, che noi le conquiste ce le dovessimo guadagnare in altro modo. Sul piano della virilità eravamo spacciati, eravamo come dei damerini in ghingheri, forse ben educati e brillanti, in mezzo a un'orda di boscaioli superdotati. Ce la dovevamo giocare con le dolci parole, le battute spiazzanti, con l'arte del portamento e del bacio.
Vorrei, per chiudere il cerchio, richiamare una contrapposizione presente nella lingua latina che, tratta pure dai meandri della nostra storia, non cessa di parlarci con tonalità ogni volta nuove. Se ci stessimo spingendo acritica mente fuori dal nostro elemento? Se stessimo ingaggiando una unilaterale ed esclusiva contesa nell'ambito del negotium, là dove invece la nostra storia, forse la nostra natura e le stesse contingenze storiche ci suggerirebbero di privilegiare in qualche maniera il regno dell'otium?
Proprio nel" De otio" Seneca afferma che, quando le condizioni storiche e politiche lo richiedano, il sapiente sia tenuto a dedicarsi alle attività dell'ozio in modo che, risultando impossibile giovare ai più, sia in grado di giovare almeno a chi gli è più vicino. Non intendo qui scendere nel merito delle attuali condizioni nazionali e internazionali, né dibattere ulteriormente sul ruolo che rispettivamente la natura, la storia e le contingenze dovrebbero giocare nella scelta di mantenere un occhio di riguardo nei confronti dell'otium. Né intendo giungere a conclusioni radicali che eliminino la "vita attiva" dal calendario delle nostre priorità. AI contrario, ritengo con Seneca che «neppure la contemplazione è senza azione»; penso che proprio dalle nostre peculiarità e dai nostri talenti possano svilupparsi le azioni più fruttifere per il nostro avvenire. Tutto sta nell'intendere, scevri da schemi imposti e da pregiudizi, il termine" azione". Dovremmo disputare la partita su un campo da gioco che ci è congeniale e non su quello che altri hanno tracciato per noi, in base alle loro attitudini. Si può anche affermare che la speranza sia rinvigorita da qualche recente segnale che va in questa direzione. Ad esempio, negli ultimi anni, abbiamo visto nascere così tanti nuovi talenti letterari, che è addirittura sorta in qualche critico la speranza che, un giorno, ci si possa riferire al romanzo italiano come ad un genere a sé, dotato di una propria unica e originale dignità. La letteratura è senza dubbio un ambito privilegiato poiché, proprio attraverso le sue pagine, un popolo in grado di adoperare l'ironia cui prima ho accennato ha la possibilità di specchiarsi, valutarsi e, perché no, ricrearsi. Un altro campo in cui l'Italia gode di peculiarità; che paradossalmente vengono riconosciute proprio nei paesi a cui invece noi ci ispiriamo, è quello della filosofia. A questo proposito è stato pubblicato di recente un libro di Roberto Esposito che si interroga sull'esistenza di una vera e propria "Italian Theory". Il filosofo ritiene che il pensiero italiano più autentico (e l'autore si riferisce a quello non accademico) abbia grande fortuna negli Stati Uniti, proprio perché «bastardo», «impuro», secondo le parole di Remo Bodei, quindi caratterizzato dal costante mescolarsi di filosofia, politica, storia e vita. Ancora una volta, dunque, il rapporto tra teoria e prassi, tra otium e negotium, è ridefinito dal pensiero italiano seconndo modalità originali e innovative.

Nel primo Ottocento, gli inglesi come Byron venivano nella nostra penisola convinti che gli italiani non avessero ancora tradito il proprio carattere, che fossero meno legati alle convenzioni, più appassionati. Certamente quel tempo è lontano, ma se continueremo ad adattare la nostra indole - facesse anche parte di questa l'arte di autodenigrarsi con ineguagliabile passione - a quella, ad esempio, degli anglosassoni, quale interesse avrebbero un americano o un inglese a venire a contatto con noi, se non saremo ormai che una loro scimmiottatura? Perché un ateneo californiano dovrebbe offrire una cattedra ad un filosofo di Bologna quando ne può trovare uno identico a San Francisco? Perché un adolescente di New York dovrebbe comprare un libro di un italiano in traduzione quando può leggerne migliaia, uguali per stile e ispirazione, scritti direttamente nella propria lingua? E perché, infine, la Storia dovrebbe non condannarci a tornare «un'espressione geografica», se saremo noi a non voler essere null'altro?
Quindi, concludendo, mi immagino che un giorno, in barba all'attuale allarme per la crisi del made in Italy, ci si volga con ammirazione ad un marchio che non avrà neppure bisogno di essere stampato sulla suola di scarpe cucite a mano: Thought in Italy.

BREVI NOTE SULL’ESSERE ITALIANO, OGGI COME IERI
Giancarlo De Cataldo

Giancarlo De Cataldo è nato a Taranto nel 1956 e vive a Roma. Ha pubblicato "Teneri assassini" (2000), "Romanzo criminale" (2002), "Nero come il cuore" (2006, il suo romanzo di esordio), "Nelle mani giuste" (2007), "Onora il padre. Quarto comandamento" (2008) e "Il padre e lo straniero" (2010), con Mimmo Rafele "La forma della paura" (2009) e "I traditori" (20 l O), tutti editi da Einaudi. Alla fortunata versione cinematografica diretta da Michele Placido è seguita una serie TV ispirata a "Romanzo criminale".

Ho iniziato a occuparmi del nostro Risorgimento nel 2003, per merito - colpa - di Mario Martone, che mi coinvolse nel progetto di un film. In parallelo alla stesura del copione, sedotto dalla quantità e qualità dei materiali storici e letterari con i quali entravo in contatto, prendeva corpo il progetto di una narrazione ispirata a quella stagione della quale si era persa la memoria. AI punto che io per primo avevo sul nostro Risorgimento, e, dunque, sugli eventi che portarono a edificare la nazione nella quale sono nato, vivo, lavoro, solo poche, confuse, contraddittorie e troppo spesso sbagliate informazioni. I materiali accumulati negli anni hanno infine dato origine al film e a un romanzo, "I traditori", che poco o niente ha a che spartire con il film di Mario Martone. Se non alcune scoperte, ai miei occhi di narratore e di italiano di oggi, sorprendenti.
Innanzitutto che tutti i grandi e meno grandi artefici dell'Unità non erano anziani e austeri signori dalle barbe polverose, ma giovani, spesso giovanissimi, poco più che ragazzi, animati da una feroce passionalità, vibranti di spirito spregiudicato. Mazzini si scoprì cospiratore a sedici anni, e da allora decise, «fanciullescamente», come annota in uno scritto, di vestire di nero in segno di lutto per l'Italia divisa. Garibaldi, a poco più di vent'anni, era già condannato a morte e costretto all'esilio. Vittorio Emanuele divenne re a meno di trent'anni. Cavour, passato alla storia come il "grande tessitore", morì a cinquant'anni, «stroncato», scrissero i giornali dell'epoca, «dall'enciclopedica fatica» dell'Unità. Cinquant'anni è, oggi, l'età in cui un politico è considerato qualcosa a metà fra una speranza e una promessa.
Per non dire della sorpresa nello scoprire che Mazzini, Cavour, Garibaldi e Vittorio Emanuele, ben lungi dall'agire in costante e comune concordia, si trovarono spesso su posizioni alternative, contrapposte e inconciliabili. Cavour fece ripetuta mente condannare a morte Mazzini e gli rifiutò l'amnistia a Unità compiuta; ma non si fece scrupolo di "trar partito" dal suo radicalismo, stipulando patti occulti con le frange estreme dei repubblicani (e solo grazie a Denis Mack Smith, cent'anni dopo, ne siamo venuti a conoscenza). Garibaldi e Mazzini non si rivolsero la parola per anni, divisi da questioni strategiche e annche da una sorta di rivalità personale (per la verità, molto più accorata mente avvertita dal Generale che da Mazzini, per sua natura più parco di manifestazioni sentimentali). Vittorio Emanuele, a un certo punto, desideroso di conquistare Roma e Venezia senza aiuti esterni, cospirò con Mazzini per suscitare guerre e rivolte nei Balcani in chiave antiaustriaca. Piano che fallì grazie a un intervento dei servizi segreti - italiani - del tempo, che architettarono un finto complotto per assassinare Napoleone 111, scaricandone la responsabilità su Mazzini. Il quale, forse, era realmente estraneo al progetto e forse, essendone tempestivamente informato, non vi si oppose con convinzione, in forza della propria radicata convinzione che il tirannicidio costituisse comunque un imprescindibile momento della lotta per l'affermazione della democrazia e il trionfo dei diritti dei popoli.
A ciò si aggiunge la rivelazione che Felice Orsini, il rivoluzionario romagnolo al quale sono dedicate centinaia di vie e di piazze nel nostro paese, nel vano tentativo di uccidere Napoleone 111 ammazzò a colpi di bombe otto vittime innocenti (e un numero imprecisato di cavalli). Che Mazzini, pur tirato in ballo da spie e cronisti prezzolati, non era coinvolto nell'attentato, mentre a foraggiare Orsini negli ultimi mesi di vita era stato proprio, ovviamente in gran segreto, Cavour.
Per poi scoprire che l'attentato di Orsini giocò , indubbiamente un certo ruolo nella decisione di Napoleone III di sostenere la seconda guerra d'Indipendenza attraverso gli accordi di Plombières: un'interpretazione niente affatto tendenziosa della vicenda.
In altri termini, i problemi che avrebbero afflitto l'Italia negli anni a venire erano già tutti presenti a coloro che l'Unità vollero e fecero. Se ne discute- , va, in modo franco e lacerante, "in presa diretta". Due i temi emersi, in particolare, dalla ricerca: lo squilibrio fra Nord e Sud, con la reciproca, ricorrente ostilità, e la presenza, in vaste zone del territorio, della criminalità organizzata. Sono temi che ritrovo, ogni giorno, nei giornali, nelle televisioni, nel dibattito politico e culturale. Ancora presenti, ancora irrisolti.
Mettiamo a confronto, idealmente, due citazioni del professor Miglio, ideologo della Lega Nord (un intellettuale che aveva il pregio di parlare chiaro) e qualche documento postunitario. Prima citazione: «Il mondo civile è nell'area temperata: se ci spostiamo dove fa molto freddo, ci imbattiamo negli slavi tonti; se puntiamo verso Sud, incrociamo popoli straniti dal calore, un po' come quei messicani che sonnecchiano sotto il sombrero». Torniamo indietro nel tempo, ai giorni dell'Unità. Carlo Nievo, fratello di Ippolito, inverno 1860, dal Sud al padre: «Tolta la dolcezza del clima e le bellezze naturali, questi paesi sono orrendi in tutto e per tutto: gli abitanti sono gli esseri più sudici che io abbia mai visto; fiacchi, stupidi e per di più con un dialetto che muove a nausea tanto è sdolcinato ... ». «Dal Tronto a qui ove sono, io farei abbruciare vivi tutti gli abitanti; che razza di briganti!». Soltanto un paio d'anni dopo, alcuni brillanti alti ufficiali piemontesi si incaricheranno di tradurre in opera il suo auspicio, rendendosi responsabili dell'atroce guerra al brigantaggio. Poterono farlo perché agivano, militarmente, su un terreno che, nei primissimi mesi dall'Unità, è stato arato, sul piano, per così dire, culturale, da una certa intellettualità. Il Sud è un'Africa popolata da barbari irredimibili. Gente da colonizzare e non da armonizzare. L'argomento legato al malgoverno borbonico, in realtà primo responsabile del degrado delle campagne, viene presto abbandonato a favore di una lettura dello squilibrio Nord-Sud in chiave di inferiorità etnica. È, in presa diretta, la nascita della teoria delle "due Italie": l'operosa, europea celtica gente che s'attesta sin sul Tronto contrapposta ai barbari del meridione. È in questo clima che Ottaviano Vimercati, il quale da esule aveva combattuto in Algeria, scrive a un amico: «Gli arabi, che combattevo quindici anni fa, erano un modello di civiltà e di progresso in confronto a queste popolazioni (. .. ) non potresti farti un'idea delle barbarie e del vero abbrutimento dei paesani di qui», Per poi concludere, pragmaticamente, che l'annessione del Sud sarebbe bene considerarla un'eredità da accettare col beneficio dell'inventario, e cioè tenendosi la terra e i buttando a mare i terroni. Viene dunque da lontano, questo pensiero che ritroviamo quotidianamente sulle pagine dei giornali, tradotto magari in formule più 50ft dal ministro che, lapidariamente, qualifica il Sud come «palla al piede» dell'Italia. Viene tanto da lontano che stupiscono, a un tempo, l'acquiescenza, a tratti omaggiante, dal quale esso è circondato, e il clima rasserenante, quasi da barzelletta raccontata al Bar dello Sport con il quale si stemperano esternazioni di crescente violenza verbale. Ma dov'è finita l'indignazione?

Seconda citazione da Miglio: «io sono per il mantenimento anche della mafia e della 'ndrangheeta. /I Sud deve darsi uno statuto poggiante sulla personalità del comando. Che cos'è la mafia? Potere personale, spinto sino al delitto. lo non voglio ridurre il Meridione al modello europeo, sarebbe un'assurdità. C'è anche un clientelismo buono che deterrmina crescita economica. Insomma, bisogna partire dal concetto che alcune manifestazioni tipiche del Sud hanno bisogno di essere costituzionalizzate». La mafia è dunque: a) un fattore etnico; b) una necessità auspicabile. La parola mafia compare per la prima volta intorno al 1862. La sua origine, nel senso che oggi le attribuiamo, è teatrale. Nasce dal dramma "Li mafiusi della Vicaria" messo in scena nelle piazze di Palermo dalla scalcagnata compagnia di tale Giuseppe Rizzotto all'indomani dell'Unità. "Li mafiusi" narra scene di vita quotidiana nel vecchio carcere della Vicaria. A un certo punto, viene arreestato un tipo elegante, un signore. Rizzotto lo chiama l'Incognito. Quando i mafiosi gli chiedono il "pizzzo", lui mormora qualcosa all'orecchio del capobastone. Quello si inginocchia, chiede scusa, si mette al servizio dell'Incognito. Rizzotto, in piazza, recitava la parte dell'incognito truccato come Francesco Crispi. Con buona pace degli storici revisionisti, ai "picciotti", alle "bunache" e al popolo intero era chiaro sin da quel 1862 il ruolo della mafia nel processo unitario: che altro senso avrebbe potuto avere il richiamo a Francesco Crispi? Anche qui, niente di nuovo sotto il sole. Esistono migliaia di pagine, documenti processuali, inchieste governative, commissioni parlamentari d'inchiesta. La teoria dell'oriigine etnica della mafia percorre come un fiume carsico la storia patria. Ferri e Lombroso, teorici della i "Scuola positiva", postulano una più accentuata criminosità dei meridionali, osservando che: «Le stirpi, che, con le loro invasioni e sovrapposizioni, più concorsero a determinare il carattere etnico delle varie regioni italiane, sono germaniche, celte e slave al Nord, e fenicie, arabe, albanesi e greche al Sud e nelle isole». Ne consegue che l'ethnos, così come determina le differenze di statura, incarnato, complessione, è del pari responsabile della diversità di tendenze criminali fra l'operoso settentrionale e il terrone malandrino.
Né Ferri né gli altri teorici della Scuola positiva sono così sprovveduti da negare valore alle condizioni sociali. Solo che esse soccombono ad altre considerazioni, «giacché il delitto è il prodotto non delle sole condizioni economico-sociali, ma di tutti i vari fattori individuali, fisici e sociali».
Eppure, sin dalla prima" guerra" ufficiale alla mafia (1872) si affaccia un'altra interpretazione, del tutto antagonista. La mafia è un serbatoio di potere, uno strumento eccellente di controllo del territorio. Nessuna azione repressiva sarà mai possibile se non sorretta, da un lato, dal progresso economico e culturale delle terre del Sud, dall'altro dall'interruzione di qualunque legame di "convenienza" fra il potere politico e le cosche, fra il Palazzo e la strada, potremmo dire. Ne converrà persino il prefetto Mori (1933), ma solo dopo essere stato" liquidato" per eccesso di zelo. E se Miglio teorizza la mafia necessaria, e, anzi, utile, il giudice Di Lello 1 osserva come sia costante del nostro Stato reprimere la mafia che spara, quando spara troppo, e semina panico nell'opinione pubblica, preservando i canali di trattativa coi mafiosi "ragionevoli". Cioè gli eredi di quella trattativa che intercorse, al tempo dei Mille, fra il capobastone della Vicaria e l'Incognito patriota. Postulare, dunque, un'origine etnica della criminalità organizzata significa fornire un poderoso alibi a collusi e conniventi. E perpetuare quella ignobile trattativa.
Amarezza, anche qui, e indignazione: ti prendono, quando metti in fila le informazioni e le colleghi fra loro.
Un tempo, a questo punto, si sarebbero tratte le conclusioni. Non è però compito di un narratore.
òre"i note sull'essere italiano, oggi come ieri Giancar
Agli storici spetta determinare quali furono i fattori che impedirono di rimuovere gli ostacoli che si frapponevano fra il compimento dell'unificazione geografica e quella culturale, economica e sociale degli italiani. Ai politici - perché un primato della politica è quanto mai necessario - compete di fare oggi ciò che non fu fatto allora, e che ancora compiutamente in centocinquant'anni non si è fatto.

1/ narratore, più modestamente, va a caccia delle linee di tendenza, dei punti di contiguità continuità. Cerca, nel panorama dell'oggi, le risonanze con le problematiche di ieri. Riscopre, nelle parole di oggi, quelle di un tempo.
E si augura, nel contempo, che si profili all'orizzonte un nuovo Risorgimento.

15.000 BATTUTE
Barbara Garlaschelli

Barbara Garlaschelli è nata a Milano nel 1965 e vive a Piacenza. Tra le sue pubblicazioni si ricordano "Nemiche" (1998) e "Sorelle" (2004) edite da Frassinelli; "Sirena. Mezzo pesante in movimento" (2001) e "Frammenti. Storie di un fortino di periferia" (2006) edite da Mobydick; "L'una nel/'alltra" (2006) edita da Dario Flaccovio. Il suo ultimo romanzo "Non ti voglio vicino" (2010), pubblicato da Frassinelli, è stato tra i fina listi del Premio Strega 20 l O.

«Per questa ragione Italianieuropei intende raccogliere nel n. 5/2010 ( ... ) testi di narratori italiani contemporanei che riflettano su quanto il tema dell'identità nazionale debba essere materia del loro scrivere e che raccontino come essi vedono l'Italia e gli italiani oggi: i loro obiettivi, le loro paure, speranze, difficoltà, ambizioni. (. .. ) " testo, della lunghezza di 15.000 battute, dovrebbe giungere in redazione C .. )>>.
Leggo e rileggo la lettera/invito che Massimo D'Alema ha spedito a me e a molti altri autori italiani, e provo un enorme disagio. Perché io non le ho 15.000 battute per raccontare gli italiani di oggi. Non ho le parole per raccontare «i loro obiettivi, le loro paure, speranze, difficoltà, ambizioni». Mi sento vuota di parole, nonostante il mestiere che faccio: scrivere storie.
È così avvilente e spaventoso ciò che l'Italia è oggi, che di parole non ne trovo. Percepisco un grande sgomento e un senso di colpa perché, al contrario, vorrei essere capace di ottimismo, non solo nel raccontare gli italiani, ma nel raccontare me stessa, in quanto donna e cittadina di questo paese.
Perché ho accettato di partecipare, dunque?
Perché è solo nella partecipazione che riesco a percepire una possibilità di cambiamento; è solo nel fare ciò che so e che posso fare - scrivere - che intravedo la possibilità di riappropriarmi della responsabilità del vivere. È questa, per me, la vera identità nazionale, quella che ancora non esiste, che è solo nella testa di molti, ma non di tutti: la presa di responsabilità, che è poi la strada maestra per la libertà. Vera. Concreta. Indispensabile.
Ad essa SI accompagna un'altra parola fondamentale: dignità.
Il nostro paese ha vissuto, dalla sua Unità in avanti, una serie di cadute e di riprese, di guerre, di battaglie, di lotte.
Gente è morta per rivendicare il diritto di vivere in libertà e con dignità su questa terra. Non solo in Italia, ma nel mondo intero.
Dov'è, adesso, la nostra libertà? Dove sono la dignità e la speranza? Dove sono tutti i nostri morrti? Quelli caduti perché si potesse parlare dell'Italia come della propria patria, intesa come casa, come luogo da cui poter partire e tornare, lavorando, mettendo su famiglia, alimentando speranze e sogni? In quale memoria sono i nostri morti?
Nei libri di storia, quando non subiscono maneggiamenti, revisioni, reinterpretazioni, quando pagine intere non vengono riscritte in maniera faziosa e i vinti diventano le vittime e i vincitori i carnefici, e nelle pagine, quelle sì, immortali, dei grandi scrittori e in quelle, meno immortali forse, dei bravi scrittori.
Ma nella memoria della gente, dove sono i nostri morti?
Senza la memoria un popolo non esiste. Ed è per questo che racconto le mie storie di guerra e di solitudine, di amore e di flebili speranze.
Per non dimenticare da dove veniamo e chi c'è stato prima di noi.

Ambizioni. Obiettivi. Paure. Difficoltà. Speranze.
Per nutrire tutte queste parole, bisogna essere liberi; per essere liberi bisogna essere responsabili delle proprie scelte; per compiere delle scelte bisogna avere la possibilità di farlo.
Accendo il computer, apro il motore di ricerca e digito "disoccupazione 2010", poi comincio a leggere, a caso. Mi soffermo su queste righe:
«Il Rapporto Istat 2010 è tutto dedicato alla crisi, tanti i numeri, nessuno che indichi buone nuove. La crisi, definita nel rapporto" la più profonda della storia economica recente", ha portato il nostro paese ad una flessione del Pii pari al 6,3% nel 2008-2009, facendoci divenire lo Stato dell'Unione europea la cui economia è cresciuta meno. Gli effetti sociali sono visibili soprattutto su alcune categorie, giovani, donne, ma anche sulle famiglie e sui lavoratori stranieri. Per la prima volta dall'inizio degli anni Novanta, nel 2009 è diminuito il reddito disponibile in termini correnti delle famiglie consumatrici (-2,7%). Le famiglie perdono potere d'acquisto e ciò, insieme alla manovra economica, potrebbe avere pessime ricadute anche sul fronte della riduzione dei servizi sociali. In una situazione simile, a pagare ovviamente sono i più deboli. Le donne ad esempio, condannate sempre più a dover rinunciare a uno dei loro ruoli, quello di madre o quello di lavoratrice. ( ... ) La famiglia rimane uno degli ammortizzatori sociali più importanti, soprattutto per i giovani che hanno perso il lavoro. Sono ovviamente loro i più penalizzati, i loro contratti, quelli atipici e quelli temporanei, con bassi profili professionali perché all'inizio della carriera. Generazioni che non potrebbero sopravvivere senza i genitori. Prima avveniva il contrario, erano i giovani che, con la loro professione, riuscivano a mantenere anche la propria famiglia d'origine. Oggi, deboli sul lavoro nonostante il titolo di studio, il 58% dei 18-34enni resta in famiglia: inattivi più che disoccupati, un dato triplicato rispetto al 2003. Nella fascia di età 18-29 anni, sono circa 300 mila in meno gli occupati rispetto al 2008, e non c'è titolo di studio che metta al riparo da questo rischio. In aumento sono anche i giovani al di fuori del circuito formazione-lavoro, i cosiddetti giovani" néné", inattivi, che non lavorano e non studiano. Anche la posizione dell'Italia nell' alta formazione è profondamente distante dagli altri paesi europei, l'Italia si conferma un popolo con bassa istruzione. È netto lo svantaggio del nostro paese rispetto all'Unione europea per quanto riguarda il livello generale di istruzione della popolazione: quasi la metà degli italiani si ferma al massimo alla licenza media e solo il 12,8% può vantare una laurea. Il tasso di disoccupazione ad aprile è fissato all'8,9%, è secondo l'lstat il dato peggiore rileva bile dal quarto trimestre de12001. I giovani sono quelli che pagano il prezzo più alto di una crisi che si è cercato di negare e nascondere per troppo tempo e che invece la gente percepisce profondamente. Quale il vantaggio di rimandare la propria vita a tempi migliori?».

Ambizioni.
Obiettivi.
Paure.
Difficoltà.
Speranze.

Mio padre ha trascorso la vita raccontandomi, tra le altre, le sue storie di bambino in una guerra (lui, nato a Magenta nel 1932 e vissuto sempre a Milano, anche quando era colpita dai bombardamenti e dopo, negli anni della Liberazione e della Ricostruzione, e dopo ancora durante il boom degli anni Cinquanta e Sessanta, e dopo ancora durante gli anni delle lotte sindacali, per il diritto al lavoro, e poi ancora: le lotte per avere una legge sul divorzio, sull'aborto). Lui, sempre pieno di speranza, di voglia di lottare per conquistarsi i diritti (perché l'acquisizione dei diritti è sempre costata lacrime e sangue, così come il loro mantenimento). Lui, bambino nella guerra, è stato per me il più luminoso esempio di ciò che significa avere una volontà e voler mettersi in gioco.
Lui e quelli della sua generazione avevano mille sogni, mille obiettivi, mille speranze. E altrettante paure e difficoltà. Erano vivi.

I miei genitori, lavoratori come milioni di altri, mi hanno insegnato il significato di parole come etica, morale, politica, impegno, partecipazione, coscienza con l'entusiasmo e la prospettiva di offrire a me e ai "loro" giovani un paese in cui lavorare e vivere fosse un impegno possibile.
Noi, oggi, siamo saccheggiati dei nostri legittimi desideri, in un paese in cui sembra che solo chi è furbo, chi ha le conoscenze giuste, chi ha poca coscienza e molto pelo sullo stomaco riesce ad arrivare. Da qualunque parte.
Così, chiedo scusa se 15.000 battute non le ho, se non riesco a raccontare, in questa occasione, di obiettivi e di speranze.
Non perché non ce ne siano, ma perché siamo un popolo a irresponsabilità illimitata, troppo leesto nel dimenticare, troppo facile al consenso con chi appare sempre e comunque vincitore, qualunnque malefatta compia.
lo di parole non ne ho, se non nelle storie che SCrIVO.
Ma so dove sono le parole importanti, quelle che fanno di questo paese, nonostante tutto, un luogo che da genuflesso al potere può rimettersi in piedi di fronte alla speranza.
Le parole stanno lì: nella Costituzione italiana. E ci raccontano come nessuna scrittrice e nesssuno scrittore contemporaneo potrebbe e saprebbe fare.
Sono lì, e sono nostre.

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