venerdì 13 gennaio 2012

scrittori sud carmosino uccidiamo la luna a marechiaro

UCCIDIAMO LA LUNA A MARECHIARO
Daniela Carmosino

PREMESSA
Negli ultimi anni il Sud è tornato a imporsi all'attennzione dei media per la nuova impennata di criminalità che ha interessato alcune sue aree, così come per le nuove forrme di reazione che questa ha provocato nella società, e in quella sana e in quella collusa.

Viene dunque da chiedersi: che ne è stato di quella riinascita del Sud che intorno alla metà degli anni novanta appassionò sociologi, antropologi, storici, economisti, arrtisti e critici? Anche allora generoso spazio venne concesso dai media al dibattito intorno alle effettive possibilità e alle eventuali configurazioni di un rinnovamento sociale e culturale dell'area. E anche allora, come oggi, il mondo dell'arte si cimentò subito con la sfida di raccontare una reealtà in via di trasformazione: la. stessa letteratura, magari fiancheggiando l'informazione giornalistica senza rinunnciare alla sua specificità, prese a dar voce a un Sud divers'o dall'immagine satinata e stereotipata che buona parte dei media continuava a diffondere.

Tra le reazioni più decise e vitali, quella della narrativa, che dimostrava - come già in area centro-settentrionale con l'esperienza di «Ricercare» - un'irrefrenabile propensione a raccontare, con il linguaggio delle giovani generaazioni, quella realtà contemporanea febbricitante di repentiini e radicali mutamenti sociali. Questo nuovo, ben presto editorialmente etichettato, orientamento degli scrittori meeridionali suscitò subito alcune perplessità: in merito 'sia al potenziale innovativo sia all' effettivo valore artistico della loro produzione. Resta però il fatto che il fenomeno, ascrivibile per confini cronologici e per comunanza di tratti sperimentali all' ormai storicizzata «narrativa anni novanta», costituì un evento da non liquidare come semplice testimonianza di una fase di transizione sociale - il diffonndersi, alle nostre latitudini, dei modelli sociali e comportamentali propri della globalizzazione - ma da rileggere, contestualizzare, interpretare come progetto di riconsegnare alla letteratura non il dovere, non il compito, ma il «potere» di raccontare con efficacia e di interpretare critiicamente il presente.
Lo smantellamento dei tanti stereotipi sul Sud è stato uno dei primi - in ordine di tempo e di importanza - tratti caratterizzanti i narratori del nuovo Sud: così vogliamo definirli, ponendo subito l'accento non tanto sulla sperimentazione di nuove modalità di rappresentazione del reaale - sulla cui effettiva novità ancora si può discutere ¨quanto sull' apertura di questi scrittori verso l'indiscutibile novità dell'oggetto rappresentato, ovvero le nuove confiigurazioni sociali e antropologiche assunte negli ultimi decenni dal Mezzogiorno. Sono queste che, reclamando una loro presenza in letteratura, li hanno indotti a sperimentare o recuperare o reinterpretare forme e linguaggi capaci, da un lato, di dar voce, corpo, colori vividi a queste nuove configurazioni, dall'altro di rappresentarne criticamente il significato, il valore. Rispetto alla «narrativa anni novanta» di matrice settentrionale, però, la narrativa del Sud deve faare i conti con alcuni problemi specifici: se la novità risiede nella realtà rappresentata ancor prima che nella sperimentazione di nuovi modi di rappresentarla, se è vero che per misurarsi con la sfida lanciata dal «nuovo» occorre guarrdare al presente e ancor più al futuro, è pur vero che i narratori del'nuovo Sud devono guardarsi costantemente annche alle spalle, per difendersi dalle insidie del «vecchio». La tradizione meridionalistica e quella neorealistica hanno, infatti, involontariamente condotto al cristallizzarsi di una sorta di canone di temi, situazioni, linguaggi e prospettive «tipicamente» meridionali, in cui lo scrittore del Sud, annche il più vigile, rischia di restare invischiato a ogni passo. Di qui, il salutare lavoro di sottrazione, di disincrostazioone dalle più viete chiavi di lettura.
La scelta degli autori e dei brani segue alcuni precisi criiteri. La fascia generazionale presa in considerazione "è quella di chi pubblicava, come giovane esordiente, negli anni novanta, partecipe, dunque, di alcune esperienze che determinavano una documentabile consonanza di prospettive, obiettivi, tematiche e modalità di rappresentazione. Tra i narratori del Sud sono stati inclusi anche quelli sardi: li accomuna, infatti, una mutazione antropologica! derivata dal rapido processo di modernizzazione avvenuto dagli anni ottanta e novanta, che, anche in questo caso, ha reso necessaria una riconfigurazione dell'identità che non si traducesse in resa incondizionata alla globalizzazioone né in arroccamento nella tradizione. La scansione in capitoli, dedicati ai temi ricorrenti nei dibattiti sulla narratiiva del nuovo Sud e a quegli elementi più significativi e ricorrenti nella produzione artistica, fa sì, inoltre, che autoori e brani vengano scelti prevalentemente per il loro potere esemplificativo: ne consegue che le esclusioni non sotttendono alcun giudizio di valore.
Si tratta, insomma, di un tentativo di ragionare a diistanza, seppur breve, di quella piccola rivoluzione culturale che investì il Sud d'Italia intorno agli anni novanta, e del valore di ciò che ha prodotto e continua a produrre. Un ragionare che nega ogni ambizione di proporsi come dizionario o come manuale, e che non pretende, quindi, di tracciare una panoramica esaustiva.
Infine: questo lavoro nasce da un nucleo costituito dal resoconto di un convegno tenutosi a Campobasso nel 2003 e dedicato alla nuova narrativa meridionale. Al convegno si era voluto dare il titolo di Notizie dal Sud, a indicare il carattere non pregiudiziale, ma di onesta ricognizione su quel fenomeno editorialmente etichettato come «nuova (o giovane) narrativa del Sud». Molte delle dichiarazioni riportate in questo studio derivano dunque dai dibattiti svoltisi nelle tre giornate di incontri: dichiarazioni poste in un continuo confronto con le posizioni teoriche elaborate dai narratori, i risultati raggiunti nella produzione artistica e l'analisi delle une e delle altre compiuta oggi, a una distanza temporale appena necessaria per poter tentare la storicizzazione e l'interpretazione di un fenomeno imporrtante quale è stato quello della rinascita, se non del Sud, almeno della narrativa del Sud.

UCCIDIAMO LA LUNA A MARECHIARO

1.      IL “NUOVO RINASCIMENTO”: UNA GRANDE OCCASIONE MANCATA?

1. Gli anni novanta in versione Sud. '

Gli anni novanta si aprono in Italia con l'insorgere del paese legale contro l'illegalità. Sono gli anni di Tangentopoli e Mani pulite, anni in cui un desiderio di cambiamento e di rinascita dilaga, come una fiammata, in tutti i campi, dalla politica alla cultura. Spprattutto al Sud tornano a fiorire rigogliose speranze: sono gli anni della Naapoli di Bassolino e del nuovo Rinasciment,o napoletano, teorizzato e consolidato in particolar modo negli inconntri culturali di Galassia Gutenberg (mercato e mostra del libro e della multimedialità). E sono gli anni della Renaissance pugliese, col boom turistico-culturale del Salento e della pizzica. In questo clima si risvegliano, danndo buoni e originali frutti, non solo la letteratura ma annche il cinema, la musica, la fotografia, le arti figurative, l'editoria. Tra i primi a segnalare questo fermento GoffFredo Fofi, 'che, a beneficio dei posteri, fissa sulla pagina al meno una parte dei dibattiti volti a interpretare quelll'evidente, seppure contraddittoria e persino confusa, traasformazione della società meridionale. Nasce così Narrare il Sud', raccolta di interventi e discussioni che nel febbbraio dcl1994 avevano animato la quarta edizione di Gaa\assia Gutenberg, storica manifestazione in cui artisti, intellettuali, critici si confrontano sul ruolo dell' arte nel progetto di rinascita della società meridionale e sulla configurazione di una sua nuova, autentica identità. Obiettivo comune, nei pur diversi contesti, la demistificazione di quegli stereotipi che ancora appiattiscono il Sud su viete immagini «pubblicitarie», su apollinei scenari d'una solaare grecità o su quelli, più diffusi e morbosamente apprezzati, dell'inferno criminale, per ricollocarlo entro un plaastico in scala globale. Ecco come lo stesso Fofi rievocheerà il fenomeno a qualche anno di distanza:

all'inizio degli anni novanta stavano succedendo delle cose per le quali si poteva ancora pensare che il Sud avrebbe preso una straada più autonoma, più originale di sviluppo rispetto al Centro e al Nord. C'è stato il fenomeno importantissimo dei sindaci - annche se presto recuperato in una logica di tipo. nazionale. L'altro aspetto era l'abolizione della legge per gli aiuti speciali al Sud. Tutto ciò da un lato costituiva un invito al Sud a fare da sé per la prima volta, e dall'altro rappresentava l'orgoglio del Sud di tenntare di trovare una propria strada'.

In sede letteraria, questo clima si traduce in una riflessioone teorica che conduce a una sperimentazione sia formale sia tematica, in funzione tanto di un «aggiornamento al presente» quanto di una potatura del repertorio tema tic o ereditato dalla tradizione. Non solo: forse in accordo con il clima di «pulizia» dominante nella sfera politico-sociale, tornano alla ribalta le dimensioni etica e gnoseologica della letteratura.
I primi segnali del nuovo orientamento si osservano nel cinema - forma di rappresentazione artistica sempre più in osmosi con la letteratura -, nel teatro, nella musica, che acccoglie"- sonorità ibride, speziate, multietniçhe; fioriscono nuove riviste e piccole e vivacissime case editrici. Infine, segnali e sismografi del fermento artistico-culturale del Sud, numerosi festival spuntano un po' ovunque.
Ma perché questa piccola rivoluzione culturale ha il suo epicentro proprio al Sud? A questa domanda si rispose, allora, sostenendo che qui, più che nel resto del paese, si evidenziavano certe difficoltà o certe resistenze ad adeguarsi al modello, prima economico, poi sociale e comportamentale, della globalizzazione. Ancora una volta si affrontò il secolare problema dell'inserimento - o dell'irrevocabile escluusione - del Sud rispetto al resto del mondo, un «McMonndo, non più identificabile con precisi confini geo-politici, storico-culturali. Un mondo sempre più povero di «luoghi», secondo la fortunata distinzione teorizzata proprio negli anni novanta da Marc Augé\ di relazioni interpersonali, di storia sedimentata, di identità continuamente riaffermata, e sempre più ricco di «non-luoghi», anonimi, transitori, in cui soggetti sradicati dalla propria identità storica sono accomunati solo dall'essere «utenti» di «un'inesauribile storia al presente». Altro inserimento problematico, per il Sud, è quello all'interno della Storia: storia scritta da quel vincitore (oggi vacillante) che è l'Occidentes. Questo scenario spesso era letto entro una prospettiva vicina a quella già proposta da Igmizio Silone nel 1956. Per Silone, il Sud non era

solo una nozione geografica ma anche storica e sociale, in antagonismo col Nord. Quasi ovunque il Sud è più povero del Nord; quasi ovunque è prevalentemente agricolo, mentre il Nord è industrializzato. Sarebbe una stravaganza voler calcare la mano su queste e altre analogie naturali o storiche per estrarne una qualunque teoria; ma nulla ci vieta di apprezzare convenientemente il fatto che un racconto siciliano o abruzzese possa essere accollto nella Virginia, in Ucraina, in Indonesia come la narrazione di una vicenda locale'.

Entro la nuova prospettiva, la «marginalità» del Sud d'Italia rispetto a un modello di progresso di matrice norrdica era estesa alla più ampia categoria di «periferia del mondo» o, per usare un'altra espressione allora corrente, di «Sud del mondo». In quanto luogo di accoglienza dell'emigrazione, inoltre, assurgeva a sede privilegiata di speerimentazione delle possibili formule di convivenza, e, più in generale, a luogo di verifica, originale reinterpretazione, rilettura critica degli astratti modelli economici, societari e comportamentali proposti dalla globalizzazione.
In quale direzione e con quali obiettivi si poteva muoovere la letteratura in uno scenario globale spesso presentato come euforicamente virtuale o come eternamente apocalittico? E quale specifico contributo potevano offrire i narratori di un Sud d'Italia geograficamente e culturalmente al confine tra Oriente e Occidente, tra civiltà che avanzano economicamente e un Terzo mondo che, dietro, arranca? La maggior parte delle risposte andava già, una decina d'anni or sono, nella stessa direzione: se l'esperiennza della globalizzazione è ormai un' esperienza inevitabile a ogni livello, in virtù della sua ricaduta nel sociale (allarmami sono gli studi dedicati alle human consequences), proprio raccontando limiti e contraddizioni di questo Sud la letteratura avrebbe potuto a sua volta contribuire a sperimentare, immaginandoli, scenari di società, in cui lo sguardo al futuro non fosse oblio del pa.ssato, in cui l'acccoglimento del nuovo non fosse resa acritica o patetico scimmiottamento, in cui l'integrazione fosse davvero sano meticciato, arricchimento e non semplificante o prevariicante omologazione cultùrale.

Essere ai margini, infatti, può significare godere di una prospettiva a latere, «altra», d'una distanza ironica che re’esta, d'altronde, uno dei più affilati strumenti di conoscenza e demistificazione in dotazione alla letteratura. Scriveva Giulio Ferroni proprio in qegli anni:

Sembra che in effetti si stia sviluppando una letteratura me’eridionale «urbana», che sfugge in gran parte ai clichés meridionalistici e neprealistici, che vuole aggredire il presente con una spregiudicata capacità di invenzione, che non si limita ad appoggiarsi ai padri, ma si fa strada per conto proprio, senza volersi marginale e particolaristica. Negli atteggiamenti di questa letteratura il Sud è il mondo presente nella sua interezza, è luogo in  più direttamente si percepisce lo stato lacerato e confuso ndella globalizzazione, il contrasto acuto ed esplosivo tra l'artificializzazione e virtualizzazione della vita individuale e collettiva da una parte e dall'altra il moltiplicarsi di lacerazioni materiali, di residui e di scarti incontrollabili e micidiali'.

Altra espressione circolante negli' anni novanta era «perdita del centro»X: tema di tanti dibattiti tra sociologi, antropologi, urbanisti, la perdita del centro produce una sorta di effetto fading tra i due poli opposti, centro e periferia, i cui tratti peculiari finiscono per confondersi e sfuumare gli uni negli altri.

Agli albori del secondo millennio, la nuova narrativa del Sud sembra rinascere nel segno di una condizione a latere solo dal punto di vista prospettico: da un lato ambiìisce sempre più ad·ì acquisire respiro europeo, dall' altro spinge sul pedale del racconto - denunciando i mali della propria terra, ibridandosi, con esiti più o meno felici, con l'inchiesta giornalistica. Va anche detto, infine, che, di recente, l'incrudelirsi e il trasformarsi della criminalità organizzata hanno spostato il dibattito e l'attenzione dell'opinione pubblica in area politica a discapito di quella artistico-culturale.

Eppure, negli anni novanta, tanti fra critici, studiosi, artisti hanno lavorato a un progetto in cui davvero si credeva: che l'arte potesse dar voce e vita a un Sud nuovo, vitale, «diversamente globalizzato».

2. Giovani, esordienti, antologizzati.

La comparsa dei «narratori del nuovo. Sud» può datarsi intorno agli anni novanta, quando, proseguendo la formula felicemente applicata nel decennio precedente, case editrici e operatori culturali dell'Italia centrale si misero tutti alla ricerca di giovani talenti da stanare, etichettare, antologizzare.
Era il 1997 quando Nanni Balestrini gridava dalle pagine del primo numero della rivista «La Bestia», oggi introvabile «oggetto di culto»: «Sono arrivati. Finalmente sono arrivati». Si riferiva alla

nuova generazione che abbandona sempre più numerosa l'ottusa serra catodica in cui è cresciuta, che non è più ansiosa di esprimersi con i segni e i simboli del consumo [ ... ]. Col declino dell'era televisiva e del consumo sono nuove sensibilità che si esprimono, nuovi immaginari che si inventano, nuove identità che si costruiscono. E improvvisa, inaspettata, una nuova scrittura erompe tumultuosa e irriverente [""]. Una lingua orale e multiforme, che contiene quella con cui il lettore pensa e in cui si esprime. Una lingua che ci fa toccare le vibrazioni dei mondi in cui siamo immersi, che 'ci invade con i ritmi delle vite che ci attraversano, che grida e sussurra i nostri orrori e le nostre felicità.

«Buonisti», «mozziani» O «cattivisti», «noir», «cannibali», «tarantinisti», «pulp» o altro, sempre, comunque, rigorosamente esordienti, i giovani narratori reagivano così agli anni ottanta,

a un paese spento e intristito,arreso alla volgarità dei poteri arroganti, drogato da una televisione schifosa che ci sommergeva di frustrazioni e di cinismo, di cialtroneria e di disprezzo per ogni forma di intelligenza. Una pesante reazione aveva avviato un generale riflusso politico e morale. Aveva inaridito, desertificato il panorama culturale. E h letteratura, la musica, la pittura, il teatro, il cinema, salvo qualche isolato, tacevano. Con fervore cortigiano gli intellettuali italiani si erano prontamente adeguati per fornire i telefoni bianchi appropriati al nuovo regime: le evasioni improbabili, le stanche riesumazioni, i deboli pensieri, le consolazioni Familiari. l': soprattutto fuga dalle realtà, fuga dai suoi linguaggi.

Così Balestrini. «A dire il vero - puntualizzava Barilli dalla medesima sede - negli anni '80 non si era avuto affatto un deserto, per quanto riguarda la narrativa». Affioravano infatti nel panorama le torri eburnee dei cosiddetti nuovi romanzieri: Tabucchi, De Carlo, Del Giudice, Veronesi, Onofri e Busi, Tondelli, Benni; tutti, però, «massi erratici, picchi isolati, pronti a respingere qualsiasi inclusione reciproca in una storia comune»!!. Di qui, la reazione della generazione successiva: disconoscere, anche indiscriminatamente, qualsiasi paternità e gettarsi nella realtà del presente.
Quale momento privilegiato di raccolta, audizione, selezione, confronto per questi esordi enti degli anni novanta, per questi orfani di padri, affamati di realtà pulsante sotto le dita, si offrivano gli appuntamenti reggiani di «Ricercare», che, dopo l'esordio del 1993 tutto all'insegna della' sperimentazione poetica, nel 1995 aprivano alla sola narrativa. Due anni dopo, Giulio Mozzi entra a far parte del gruppo, come esordiente dapprima, poi come vero e proprio «collettore di tutta la linea "povera" e dimessa», quella che racconta il grottesco dell' esistenza, «le isole di pazzia, di alterità, di autismo che costellano numerose il panorama circostante», utilizzando però una lingua media. Si delinea così uno «stile Mozzi», espressione di un

mondo di passaggio tra una società contadina e una appena acquistata cittadinanza piccolo-borghese attraverso studi universitari, viaggi all'estero per imparare le lingue, seppure nel ruolo a buon mercato della baby-sitter; ma soprattutto passaggio, o solo commistione, tra l'area protetta della parrocchia, ancora presente in territorio veneto, e le tentazioni e gli «sballi» di un'adolescenza alle prese col sesso, con l'affermazione di sé. Comunque, scrittura «bianca», acqua e sapone come più non si potrebbe, che però [ ... ] si spinge ad affrontare tutti i drammi del nostro tempo".

E proprio nella <<linea Mozzi» troveremo due presenze meridionali: Francesco Piccolo, che esordisce nel 1996 con Storie di primogeniti e figli unid, e Livio Romano, che si fa notare nello stesso anno a «Ricercare» e poi esordisce nell'antologia «meridionale» Sporco al Solel6, mentre nel 2002 Mozzi ospiterà il suo Porto di mare nella collana Sironi «indicativo presente». Dopo gli appuntamenti di «Ricercare», la vetrina più efficace per gli esordi enti si dimostrò l'antologia di racconti di autori vari. Il felice connubio fra testi di esordienti e forma antologica, in effetti, si era già macroscopicamente consolidato nella seconda metà degli anni ottanta: Nel 1985, infatti, Pier Vittorio Tondellil7 e Massimo Canalini di Transeuropa invitano i ragazzi al di sotto dei venticinque anni a raccontare la propria realtà in testi inediti, poi confluiti nelle antologie Giovani Blues (1986), Belli & Perversi (1987) e, nel 1990, Papergang Entrando nel vivo degli anni novanta, nel 1992 usciva l'antologia Narratori delle riserve, curata da Gianni Celati, e nel 1995, Gianni Celati, Daniele Bennati ed Ermanno Cavazzoni davano vita a un altro laboratorio di scritture, l'almanacco «Il Semplice». Infine, nel 1996, ecco la discussa antologia Gioventù cannibale, alveo della corrente «cattivista» di «Ricercare». Esce infiine, a breve distanza, nel 1997, Coda, antologia che l'editore Canalini di Transeuropa affida ai capostipiti di due linee contrapposte, Mozzi e Balestra, con il vincolo di accogliere solo gli esordienti under 25 Preme ricordare, in questo sintetico promemoria, che più di un critico scorgerà nella produzione di questi giovani narratori precisi segnali, per dirla con le parole di Severino Cesari, di «una rinnovata, per niente disperata, fiducia nelle più classiche delle possibilità: che si possa nuovamente (e non importa in che forma, con quali regole, per quanto tempo ancora) narrare».
E al Sud? Occorrerà attendere la fine degli anni novanta per riscontrare un fenomeno analogo: lo strumento dell'antologia si rivela anche stavolta congeniale, tanto per offrire un saggio dei nuovi talenti quanto per testimoniare, tangibilmente e attraverso un ampio ventaglio, la nuova e comune volontà di narrare in modo diverso un Sud ormai diverso. Nel 1997 esce infatti l'antologia di racconti di scrittori meridionali, giovani ed esordienti, Luna nuova. Scrittori del Sud21 curata da Goffredo Fofi: la pioneristica proposta costituiva una sorta di naturale prosecuzione lei temi presennti in Narrare il Sud. Ne emergeva una terra che chiedeva anche alla letteratura di farsi testimone e interprete critica di quello che l'economista Carlo Trigilia22 definiva «crescita senza sviluppo», sempre «evitando - avvertirà però Fofi nella Prefazione all' antologia - gli aggiornamenti spettacolari e superficiali». Andrà notato come la ricognizione di Fofi avesse un taglio prettamente sociologico, mirando a delineare la «società meridionale di oggi» per poter «narrare con i modi a ciascuno più con geniali [ ... ] lo stato delle cose». Nei lavori selezionati il curatore ritrovava con soddisfazione quella che egli stesso identificava come la vera e propria «vocazione della letteratura meridionale», una sana «vena di rivolta e di utopia» rispetto «all' omologazione dominante della cultura contemporanea». Quel che Fofi auspicava era la realizzazione di un progetto di m6dernizzazione endogeno: la modernizzazione del Sud avrebbe dovuto contemplare un recupero delle radici culturali, quali solidi argini al programmatico annullamento delle differenze. Tale lettura venne interpretata da molti come un retrivo arroccamento all'interno della tradizione, che avrebbe negato al Sud la possibilità di crescere e di manifestare la sua nuova e sofferta fisionomia, complessa, diversificata, contraddittoria, ambigua persino, scaturita dal confronto con la modernità in atto. Tra questi, lo scrittore potentino Gaetano Cappelli, che vi si opponeva al grido di «terroni omologati [ ... ] ma vivi!». E in uno scritto del 1998 arrivava a giudicare la posizione di Fofi quale «versione appena più sofisticata del bossismo che trova un suo apprezzabile riscontro [ ... ] nelle storie di solfatare e sante mistiche e visionarie [ ... J, nella patetica aneddotica paesana di corna, omicidi e comari». Il criterio che aveva informato la scelta dei testi presenti in Luna nuova si ribaltava così in un' etichettatura degli autori, i quali non tardarono a ribellarsi: la provocazione di Fofi aveva però innescato un salutare dibattito critico, proseguito fino ai primi del Duemila, sull' opportunità o sulle diverse modalità di accogliere tanto i modelli letterari offerti dalla tradizione, quanto i modelli economico-sociali proposti dalla globalizzazione. Anche se, lamentava a ragione lo scrittore casertano Antonio Pascale2la discussione finiva per concentrarsi soprattutto sulle posizioni teoriche, trascurando così i singoli testi. Lo sfogo di Cappelli appena ricordato compare nell'antologia che uscirà a un solo anno di distanza da quella fofiana: Sporco al sole. Racconti del Sud estremo. Prima antologia dei narratori meridionali under 25 (o quasi), che vede la luce nel 1998 grazie a una piccola casa editrice di Bari, Besa, per la cura dello stesso Cappelli, di Miçhele Trecca e di Enzo Verengia. L'operazione replicava, nel m.eetodo e nell'intento, quella tondelliana: i tre avevano infatti deciso di lanciare una sfida, gridando dalle paginé di giornaali e dai microfoni di radio private: «MA CI SIETE O NO, NARRRAToRI DEL SUD ESTREMO?». Tra un centinaio di racconti ricevuti, furono scelti quelli di Luigi Bamonte,-Ottavio Capppellano, Francesco Dezio, Giovanni di Iacovo, Francesca. Forleo, Livio Romano, Annalucia Lomunno. Con questa operazione i curatori si proponevano di verificare il potenziale eversivo di giovani scrittori in grado di «disincagliare il Sud letterario dal consolatorio ma estenuante abbraccio della tradizione», di «sabotare cliché ormai logori e costruire scenari consoni allo spirito dei tempi». E di sperimentare nuove forme, nuovi linguaggi, nuove prospettive consone a raccontare spregiudicatamente (lavare i panni sporchi «al sole», sotto agli occhi di tutti) quella nuova realtà già affrontata dai tanti esordienti più a nord di loro e con cui, secondo modalità diverse, anche il Sud si trovava quotidianamente a confrontarsi. Nuovi temi, dunque, tratti dall'universo «dei giovani al tempo dell'Ulivo», nuove prospettive, ma soprattutto nuovi linguaggi: ricorda Trecca, nella Premessa, che moltissimi dei dattiloscritti giunti in redazione presentavano <<lo stravagante patchwork di una lingua contaminata in cui dialetti-gerghi e reminiscenze 'ltcaiiche stridono e convivono con nuove nomenklature metropolitane ci' estrazione fumettistica e musicale producendo l'effetto di un'ironica presa di distanza da quell'acuto malessere esistenziale e sociale oggetto privilegiato di quasi tutti i racconti, ma in questi casi allontanato sullo sfondo e tenuto a bada con un riso a denti serrati». La posizione dei curatori andava così a collocarsi agli antipodi rispetto a quella fofiana: l'accento veniva infatti posto non sulla capacità di opporre resistenza all'omologante presente tramite l'ancoraggio a valori originari, quanto, piuttosto, sulla capacità di ritrarre efficacemente quello stesso presente conciliando lo con un passato ancora vivo, certo non oleografico o di matrice letteraria meridionalistica. Cavalcando l'onda, anche l'Einaudi pubblicava un'antologia di giovani esordienti meridionali: Disertori. Sud: racconti di frontiera, curata da Giovanna De Angelis per la collana «Stile libero». I tesi inediti sono qui di Maurizio Braucci, Giosuè Calaciura, Gaetano Cappelli, Diego De Silva, Antonio Franchini, Davide Morganti, Antonio Pascale, Francesco Piccolo, Livio Romano, Evelina Santangelo. Ne Lo spazio bianco, Postfazione all'antologia, De Angelis poneva subito i disertori al polo opposto rispetto ai narratori «fofiani» e alla loro «vocazione obbligatoria alla" diversità non omologata"». E questo, malgrado alcuni degli antologizzati (Livio Romano e Francesco Piccolo - fossero presenti già nella raccolta di Fofi a esemplificare un orientamento della narrativa in tutt'altra direzione. Nella lettura della curatriìice i nuovi narratori erano definibili soprattutto e negativo:

Non hanno alcuna vocazione resistenziale. Non cercano istituzioni contro cui scagliarsi; non conoscono povertà che sia felice; tradizione che consoli, degrado che non umili [ ... ], non si muovono in una edenica «riserva indiana» chiusa in una livida e ostinata referenzialità.

I racconti proposti avrebbero mostrato, semmai, una capacità di muoversi

in una dimensione che diserta del tutto le speculazioni ideologiche - per positive o negativa che siano - che si sono esercitate sul Sud [ ... ], disertano l'esercito regolare di un meridionalismo inquadrato nelle fila di una letteratura nazionale ohe a esso appaltava e appalta poche e precise istanze linguistiche e sociali ..

Si sarebbero mossi piuttosto tra la contingenza del dato reale - il Sud di oggi - e la capacità di trasfigurare quel dato sino a farlo assurgere a «simbolo e figura, condizione sempre e comunque universale, come universali sono il dolore e la morte», così da ridisegnare «la cartografia di un meridione che rinnega tutti le sue stiriunate istituzionali in favore di una lancinante neutralità».

L' operazione venne accolta, va detto, con curiosità ma anche con certa diffidenza28: ciò che più frequentemente suscitava perplessità o polemiche non era tanto il valore artistico dei racconti presentati'- d'altronde non sempre presi in esame singolarmente - quanto la complessiva operazione editoriale, la verificabilità del, dichiarato potenziale eversivo della nuova narrativa, l'evidenza e il significato della loro «diserzione». Tra i molti si mostrava scettico anche Giulio Ferroni, e già a proposito del titolo scelto: «Si tratta di un titolo un po' ad effetto», commentava:

non è del resto chiaro da che cosa costoro disertino, anche se la curatrice sembra voler spiegare che si tratta di una diserzione dalla vecchia immagine del Meridione, dal moralismo, dall'impegno, da certo troppo convenzionale realismo ecc. Testi vari ed ineguali, che nei casi migliori non disertano certo la realtà e il linguaggio, ma che talvolta sembrano volersi chiudere in una registrazione troppo corriva del vuoto presente, della mancanza di prospettive, del grigio nulla della vita individuale e sociale: rischiando allora una «diserzione» da quella ricerca dell' «altro», da quella spinta a cercare un mondo diverso (pur partendo da mondi del tutto particolari e specifici) che sempre anima la letteratura che conta, Sono scrittori senza veri maestri, che di preferenza guardano ad un Sud degradato e segnato da una violenza priva d'orizzonti, che si sottrae però al tragico, che si registra per quello che è, che non cerca nessuna radicale alternativa, che talvolta si compiace di sé.,fino a sfiorare il melodrammatico. Specie nelle rappresentazioni del sottomondo napoletano si rischia di approdare ad una perversa combinazione tra Pier Vittorio Tondelli (il troppo sacralizzato modello di tanto postmoderno giovanile) e Mario Merola".

Le perplessità che l'operazione Disertori suscitava in Ferroni non coincidevano, però, con una sfiducia nei confronti della nuova narrativa del Sud tout court: in questa lo stesso Ferroni riconosceva segnali vitalissimi, solo che li esemplificava proprio in un «grande assente» dell' antologia einaudiana, l' «irregolare» Montesano, apprezzato per la «carica deformante e bizzarra» e per la «stravolta controepica infernale» che caratterizzavano Nel corpo di Napolpo, In realtà?seppur stigmatizzandoli, Ferroni già scorgeva con lungimiranza alcuni fondamentali tratti comuni ai giovani «disertori»: l' «assenza di padri», di quelli italiani, almeno; le gestioni tondelliane; infine, il «rifiuto di ogni interpetazione». Quest'ultimo, come vorremmo poter dimostrare, nei casi migliori genera un' originale rappresentazione dell' attuale difficoltà di distinguere il Bene dal Male, la tematizzazione d'una indecidibilità assiologica tra i due poli che sempre più caratterizza la nostra epoca, tanto quanto il relativismo che ne deriva. Trovava infine già obsoleta l'iniziativa einaudiana uno dei protagonisti e dei pionieri della rinascita della narrativa meridionale, Goffredo Fofi: «La questione meridionale è morta e sepolta. Negli anni Novanta il Sud è andato assimilandosi sempre di più al Centro e al Nord. Esiste una questione nazionale e delle questioni locali, territoriali». Fofi proponeva una prospettiva da più parti adottata nel decennio a venire, ma scarsamente funzionale per chi, negli anni novanta, sentiva l'urgenza di far convergere obiettivi e forze in campo per svincolare il Sud dal più stereotipato regionalismo, creando, magari, l'illusione di un Sud più omogeneo di quanto non fosse. Ne consegue, per Fofi, che l'operazione Disertori oggi risulterebbe datata: «L'idea base di quell'antologia era che potesse esistere una specificità della letteratura meridionale 4i tipo ereticale [, .. ], ma nel momento in cui uno sostiene che la letteratura meridionale non esiste più, che esiste invece una letteratura napoletana, siciliana, pugliese, ecc. evidentemente il discorso che si voleva portare avanti nel libro non esiste più. È stato superato dagli avvenimenti». Preoccupato infine da una possibile e repentina «normalizzazione» e dalla riproduzione seriale ed editorialmente pilotata della nuova narrativa del Sud, Fofi assisterà. con disincanto all'arruolamento degli allora esordienti nelle scuderie della grande editoria, così commentando: «non' è detto che uno poi deve lamentarsi perché Antonio Pascale, scoperto in quell'antologia,. diventi un editore Einaudi. O che De Silva poi venga scoperto dalla Einaudi che pubblica un suo libriccino, più uno nuovo. Diciamo che per la letteratura giovanile di questo ultimo decennio le responsabilità storiche sono di tutti, anche nostre». Il procedimento - ricorda d'altronde Ermanno Paccagnini, uno dei più costanti e competenti osservatori del fenomeno - è il solito: scelte individuali coraggiose; fortuna presso pubblico e/o critica; inserimento di case editrici o di altri colleghi autori che puntano alla replica imitativa; creazione di un filone. Col rischio, mai evitato, del fagocitante snaturamento dell'idea iniziale. Che è quanto sta avvenendo con la giovane narrativa meridionale, ricca in questi ultimi anni di significative voci nuove, con opzioni stilistiche diversificate nel loro accompagnare lo sguardo dentro contraddizioni, denunce, sogni e utopie d'un Sud in sofferenza. Solo che il fenomeno si sta allargando a dismisura, sino all'la standardizzazione».

Certo, l'antologia einaudiana aveva la possibilità di offrire agli autori una visibilità maggiore rispetto alle precedenti operazioni e il potere di tenere accesi su di loro, per più di qualche giorno, i riflettori delle pagine culturali: ci preme però ricordare come tanto Disertori quanto le antologie che la precedono non nascano affatto nel deserto. Nascevano, piuttosto, entro i confini cronologici di quella che oggi viene indicata con la formula generica «narrativa' degli anni novanta» e che allude, per consenso pressoché unanime, a precise caratteristiche proprie di un fenomeno letterario ormai attestato e storicizzato. Caratteristiche che non di rado ritroveremo lungo questo percorso attraverso la narrativa del nuovo Sud.

Il. I «captivi»

1. Contro gli stereo tipi.

La sede in cui i giovani narratori del Sud dimostrano subito una certa compattezza è la sede polemica: come affiatati cecchini, tutti euntano le armi contro l'immagine sterelotipata del Sud e contro chi ne era stato e ne era. tuttora responsabile. Accordo quasi unanime, dunque, al momento di stilare la lista dei «cattivi». Soprattutto se per cattivi, richiamando l'etimologia del termine, s'intendono scrittorio intellettuali legati, vincolati, a quelle immagini semplificate, falsificate, su cui il Mezzogiorno è stato appiattito per anni. Proprio negli anni novanta Piero Bevilacqua osservava come gli stessi media così pronti ad amplificare la voce - spesso le grida, certo - del Sud, abbiano poi finito «col creare immagini, rappresentazioni, stereo tipi che hanno nell'unilateralità il segreto della loro efficacia emotiva»!. Prigionieri e carceri eri a un tempo di inferni insanabili o di paradisi turistici artificiali, «cattivi» erano tutti quelli che continuavano ad aggiornare, a diffondere, peggio ancora a legittimare letterariamente un'immagine convenzionale ma inautentica del Sud, rassicurando con continue conferme un pigro orizzonte d'attesa, un «immaginario ormai sedimentato negli umori ancestrali della gente».

Il tema è dunque ricorrente nei testi e nelle dichiarazioni dei nostri narratori: tutto ironicamente informato a una visione stereotipata di Caserta - lo preannuncia già il titolo - è il racconto einaudiano di Francesco Piccolo, «Secondi solo a Versailles»:

Se ci chiedono di dove siamo, rispondiamo che siamo di Caserta. E allora ci dicono: a Caserta avete la Reggia. Noi già lo sapevamo che ci dicevano così, ma non è che neghiamo. Sì, abbiamo la Reggia, diciamo. Sulla Reggia noi e loro poi diciamo più o meno queste cose: seconda solo a Versailles; se stava in Francia (o in Germania, qualcuno ha sempre come metro di paragone la Germania) era più famosa di. Versailles. Lo sappiamo che è stupido dire queste cose, ma del resto non sapremmo cos’altro dire'.

In un'intervista, invece, Roberto Saviano dichiara di - detestare «le menzogne pubblicitarie. La presunta città della cultura, i musei che sono il salotto cittadino, Cannavaro e D'Alessio che appaiono come i pedagoghi delle nuove generazioni, e sono l'assoluto contrario di qualsiasi idea di sacrificio, impegno e cristallinità. E poi anche il folklore più basso, la terra della pizza e della mozzarella».
Presa di mira è anche la napoletanità degenerata in napoletaneria, secondo la definizione di Raffaele La Capria e già di Domenico Rea, intesa come «ruffianeria, esibizionistica tendenza al degrado». Napoletaneria che si esprime nei lazzi del «chiattillo», il ragazzotto benestante di cui parlava Antonio Franchini6 in un intervento a Galassia Gutenberg, il «chiattillo» che entra nel locale pubblico e «fa il napoletano» alzando la voce, cercando la risata grassa e complice. Rifulge, a questo proposito, per chiarezza e determinazione, il discorso 1el regista AntOnio Capuano:

Mi chiedo se il modo in cui è stata raccontata Napoli finora è ancora attendibile e ,abbia senso. [ ... ] Ognuno ha raccontato come ha voluto, come gli' conveniva, come ha potuto. Una gransalsa in cui tutto s'è sfatto, diventato irriconoscibile. Miliardi di piatti di pasta sono stati conditi con quella salsa, e venduti in tutto il mondo. Miliardi di vasetti di «Granragù Neaples» sempre molto richiesto, made in Forcella e spesso confezionati altrove, sono in vendita ovunque. Gli affari vanno bene. È la legge di mercato. lo penso che tutto ciò, no, non ha più senso. Cioè ce l'ha un sennS0 ma è negativo, cioè fa schifo: Tutto questo fa schifo. Basta'.

È vero che la pars destruens del progetto dei narratori del nuovo Sud può condurre a posizioni cosÌ radicali e tranchant da ribaltarsi e consolidarsi anch' esse nello stereotipo. Nell'ansia di far piazza pulita di un'immagine falsificata e stantia, ridicolmente triviale o patinata e oleografita, possono finire al rogo Totò, Eduardo e Pasolini, Marotta assieme ai marottiani, Franco Cassano, Carlo Levi e Renzo Arbore, Melania Mazzucco e Lara Cardella, Andrea Camilleri, Raffaele Nigro e Luciano De Crescenzo.

«Cattiva» è per Marcello Benfante «l'acquiescenza bonaria di Luciano De Crescenzo e il ribellismo sofisticato di Lara Cardella, due modelli negativi da rifuggire»8, così come RaffaeleNigro e Melania Mazzucco rappresentano per Pascale un modo obsoleto di raccontare il Sud.
Il punto è che la stereotipizzazione del Meridione ha radici tanto profonde e chiome tanto dilaganti che la possibilità di sradicarla si fa esasperante se non disperante. Il problema, certo, non sorge ora: Generoso Picone ci ricorda come

rimanendo a tempi relativamente recenti, almeno dal saggio Le due Napoli di Domenico Rea viene sottolineata la falsificazione a lungo perpetuata dagli scrittori napoletani, colpevoli .di aver creato e diffuso un'immagine deformata della città, incoscientemente allegra, simile a una scena perennemente allestita per servire da spettacolo e passatempo al turista. A questa menzogna Rea contrappone la verità di una Napoli misera e per niente soddisfatta della propria miseria, di una plebe violenta e ignorante per accertate ragioni storiche!o.
Altra articolazione del problema segnalata da Picone è la necessaria distinzione tra uno scrittore e i suoi epigoni: il critico chiama in causa il saggio di Emma Giammattei, Il romanzo di Napoli!! in cui si «mette in guardia dal rischio di confondere Giuseppe Marotta» che «de L'oro di Napoli (1947) è l'autore e il maggiore teoreta, e l'odiosa attrattiva dei suoi epigoni, odiosa perché usa e svende come folldore inautentico, spesso connotato da retrive nostalgie, temi che furono un tempo invece funzionali ad una idea di letteratura come conoscenza».

2. Al banco dei cattivi Levi e Pasolini.

«Dio quanto lo odio, 'sto libro!», gridava provocatoriamente il narratore potentino Gaetano Cappelli pensando al Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi. All'apparenza, il reportage di Levi costituisce davvero una silloge di quanto Cappelli dichiara di detestare nell'iconografia del Sud: briganti, streghe, tabù sessuali, c'è tutto. Qualcuno, magari con fare più pacato, lo seguiva, e così anche l'autore del Cristo si è fermato a Eboli veniva ascritto alla lista dei produttori di stereo tipi. Ma già numerose erano state le obiezioni mosse all'immagine del Sud che Levi aveva serbato quando, a distanza di dieci anni e di centinaia di chilometri, da Firenze, volle scriverne. Ancora nel 1996, in occasione di un convegno organizzato dal Comune di Roma per il cinquantenario della pubblicazione del libro incriminato, Lucio Villari parlava di «rappresentazione edulcorata e sentimentale che poi il meridionalismo e la politica di sinistra hanno alimentato a più non POSSO»!2. Mentre nel medesimo contesto Ferroni sosteneva che la mappatura del Sud disegnata da Levi risultava datata e inefficace se utilizzata per 0rientarsi nel Sud di oggi, a causa di una progressiva omologazionesificazione, denunciata dallo stesso Pasolini, tra lo stile di viita rurale e quello urbano. Con preveggente sensibilità, Ferrroni sollecitava però gli studiosi a prestare attenzione a certi fermenti culturali «ove c'è un'a carica di progettazione (spiegava - fuori da ogni piatta omologazione. Nell'intellighenzia meridionale rimane un desiderio di andare altrove [ ... ] senza però rinunciare alle proprie radici».

Le accuse rivolte a Levi sono in realtà molto generiche, e possono esemplificarsi in un'irritazione che nascerebbe non solo e non' tanto dalla rappresentazione di un Sud ferino, superstizioso, insomma «fuori dalla storia» e dalla Ziviarmlisation - ché tale era la campagna lucana nel 1935 quando vi fu confinato Levi - quanto dall'assenza di toni di sdegno e denuncia, dal compiacimento, persino, percepiti nella lettura di Levi. In realtà, la presunta acquiescenza dello scrittore deriva dal fraintendere il suo approccio, caratterizzato da estremo rispetto e da assenza di pregiudizi. Levi attua una sorta di «regressione», del tipo di quella teorizzata da Verga: nel Cristo, Levi non era interessato a interpretare la mentalità del mondo contadino lucano entro i parametri di un Progresso che, fiducioso nelle proprie forze, ordinava il mondo secondo le categorie di Tempo, Ragione, Causalità, Storia, Individuo; né era interessato a collocare la sua storia entro la storia dei vincitori che l'avrebbe ribaltata in «storia mancata», in «frustrante vicenda di ciò che essa non aveva potuto essere, il mero risultato di uno squilibrio costante e inalterato nel tempo e perciò quasi un derivato, un residuo della storia degli altri, incarnata dalle realtà più avanzate dello sviluppo economico, vale a dire dal Nord»"'. Pensava piuttosto a quella «contro storia» poi tanto spesso invocata: storia di guerre, sì, ma non per una forma di civilizzazione imposta ed esogena, semmai contro di questa.
Altra accusa rivolta a Levi è quella di riconsolidare gli aborriti topoi meridionali della rassegnazione, del vittimismo, del fatalismo: «c'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, si sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!»'5. Sino a quèllo che vede il Sud come regno della «magia», che orienta le azioni degli uomini a suon di «filtri», «jettatura» «mala volontà», «influssi malvagi» «potenze oscure e spaventose».
Ciò che in realtà interessava Levi era poter esprimere, non giudicare né denunciare, quel mondo contadino rispettandone l'alterità. Per farlo provò a di smettere le proprie categorie interpretative e ad attuare una sorta di regressione verghiana che gli permettesse di assumere la prospettiva di quel mondo dando gli, così, voce. Si tratta di una regressione, appunto, anche linguistica: ne siano spia la prima persona plurale dell'indiretto libero (Ci fanno amrnazzare ... ) o l'uso dell'Indicativo in luogo di un più cauto, plausibile condizionale per raccontare della storia della «donna che tutti sanno esser figlia di una vacca»; o per descrivere i monacicchi, gli spiriti dei bambini morti senza battesimo, «specie di gnomi o folletti [che J si vedono frequentemente, ma acchiapparli è difficilissimo». E cosÌ pure il frequente ricorso al discorso paratattico, tipico dell' oralità, e la medietà del lessico sembrerebbero informati a una rispettosa e onesta volontà mimetica che sospende il giudizio: «io rispettavo gli abracadabra, ne onoravo l'antichità e l'oscura e misteriosa semplicità». D'altro canto non va dimenticato che, pur rimanendo entro i confini del Cristo, a un discorso narrativo così configurato, fa sempre da necessario pendant la contestualizzazione, la storicizzazione, l'analisi puntuale delle ragioni che hanno generato quello stato di cose che Levi non denuncia ma osserva dismettendo dapprima gli strumenti interpretativi perché non interferiscano nella fase di ricezione, poi subito riprendendoli, mutando prospettiva e registro, giudii7.io, attaccando «il semplicismo, spesso ammantato di espressioni filosofeggianti, dei politici, e l'astrattezza dellle loro' soluzioni». Allora anche la povertà, il familismo, temi così docili al trattamento oleografico o mitizzante, soono lucidamente ricondotti alle loro cause storiche: «Quelle terre si sono andate progressivamente 'impoverendo; le foreste sono state tagliare, i fiumi si son fatti torrenti .... Non ci sono capitali, non c'è industria, non c'è risparmio, non 'ci sono scuole, l'emigrazione è divenuta impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate». E ancora: «Dove non c'è lo Stato - o il senso dello Stato -la società si struttura in base al vincolo di consanguineità [ ... ] il senso sacro, arcano e magico d'una comunanza».
La lezione di Levi andrebbe oggi disincrostata da certi pregiudizi che vorrebbero sostituirsi alla lettura stessa dell'opera: il suo metodo muove dall' esigenza di una conoscenza diretta dei fatti, di un ritorno alla realtà concreta e viva, da quelle stesse esigenze, dunque, espresse oggi da tanta narrativa del Sud. Lasciar emergere la voce della gente, allora, poteva rappresentare per Levi un modo per sfuggire a una valutazione compiuta su parametri esogeni: l'auspicata «modernizzazione» democratica del Mezzogiorno d'Italia poteva avvenire, purché fosse endogenal7•
Il consolidamento e la diffusione dei più vieti stereo tipi meridionali ad opera di certi intellettuali, abituati a «parlare solo tra di loro»18, trova terreno fertile là dove manca uno schietto e diretto confronto con la realtà. Vi insisteva Levi e vi insistono molti giovani narratori del Sud. In particolar modo Pascale. È lui che citerà Gennariello, la famosa lettera luterana, sorta di «trattatello pedagogico»19/che nel 1975 Pasolini indirizza a un immaginario ragazzo napoletano della piccola borghesia: Pascale la definirà «la più brutta lettera che abbia scritto Pasolini su Napoli: una lettera che noi meridionali abbiamo odiato». I motivi di questo severo giudizio' sono facilmente ravvisabili. Pasolini ci presenta un ritratto della Napoli anni settanta quale oasi incontaminata nell'orgia del boom economico. Napoli diventa così, nella mente di Pasolini, <<l'ultima metropoli pleebea, l'ultimo grande villaggio», popolata da quei napoletani che gli sono tanto «simpatici», perché «non sono molto cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia». Ancora: una Napoli in cui <<la povertà e l'arretratezza non sono affatto il male peggiore»; una Napoli che trasuda allegria, «vitalità» e la vitalità, sostiene Pasolini, «è sempre fonte di affetto e di ingenuità». Una Napoli furba, imbrogliona: «un giorno - racconta lo scrittore - mi sono accorto che un napoletano, durante un'effusione d'affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel'ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto». Ignoranza, arretratezza, povertà, immobilismo, illegalità: questi i mali di Napoli che Pasolini ribalta in positivo, trasformandoli in valori positivi, preziosi perché fondanti l'identità del napoletano, la sua «napoletanità». Questi i mali entro cui molti napoletani son costrettti a dibattersi quotidianamente.
Come per Levi, anche qui però diventa fondamentale individuare la prospettiva entro cui Pasolini legge Napoli e il Sud d'Italia. Un Sud che non costituisce un oggetto di studio e di rappresentazione in sé per sé: quando Pasolini dice che i napoletani gli sono simpatici «in concreto» e «ideologicamente», forse indica proprio questo, che la sua lettura del Sud è ideologica ed empirica a un tempo. Napoli, come pure quel Sud'che Pasolini attraversa negli anni sono trasfigurati entro la medesima prospettiva in cui interpreta il Terzo mondo e la borgata romana, anch'essi portatori di quei valori di «autenticità» irriducibili alla logica tipicamente borghese del consumo e del possesso, argini critici al processo di integrazione - oggi globalizzazione. Il ritratto del Sud che Pasolini ci consegna può riisultare sgradevole, irritante, ma certo non ovvio, 110n baanale, ed è risultato di un «istintivo metodo» di conoscenza che non registra la realtà, ma la interpreta, la aggredisce, la iperbolizza, la trasfigura leggendola in una prospettiva comunque «altra» rispetto a quella convenzionale.

III Le forme ibride del Sud

1. Identità e realismo: due «questioni meridionali».

Pare impossibile affrontare uno studio sulla letteratura del Sud senza affrontare la questione dell'identità - questione già toccata negli anni ottanta dalla storica rivista «Meridiana»', forse la prima ad aprire un dibattito sul Sud alla luce delle sue trasformazioni ma tenendo conto delle radici storico-culturali.
Torna a imporsi con nuova evidenza proprio negli anni novanta, quando escono alcuni saggi fondamentali per reimpostare il problema: Il pensiero meridiano2 di Franco Cassano, Sviluppo senza autonomia) di Carlo Trigilia, L'identità meridionale' di Mario Alcaro, e la già citata Breve storia dell'Italia meridionale di Piero Bevilacqua. Scriveva proprio in quegli anni Giuseppe Cacciatore:

Il dibattito sul Mezzogiorno [ ... ] ha imboccato un'inedita ed interessante curvatura interpretativa. In essa ciò che ora viene al centro - rispetto alla pur importante e, almeno per me, insostituibile chiave tradizionale di lettura storico-politica - è il tentativo di utilizzare una serie di categorie filosofico-culturali e di simbologie che si dispongono a metà strada tra la sociologia della conoscenza e l'antropologia (la «solarità», la «meridianità», l'appartenenza comunitaria, l'etica del dono, il culto della memoria, la pratica dell'amicizia e del legame parentale) e che si ritengono più maneggevoli e più proficue in un contesto culturale e politico sempre più caratterizzato dalla cosiddetta postmodernità e dalla crisi dei modelli ideologici e sociologici di descrizione e spiegazione'.
Incalzato da una sempre più crescente necessità di ridefinire la propria autentica identità - messa in pericolo dall'interno per effetto della retorica meridionalistica, dall'esterno per il processo di globalizzazione -, il Sud degli anni novanta è spartito tra chi, per identità autentica intende quel profilo originario conservato nella tradizione, dunque delinea un'identità sfrondata d'ogni elemento spurio in quanto esogeno; e chi, per «autentico», intende il volto non stereotipato, non falsificato, dunque mira a sfrondare l'identità da elementi spuri in quanto artificiosi, giustapposti, creati «a tavolino», per poi riconfigurarla secondo un' effettiva rispondenza al suo «creolizzato» profilo attuale.
Schematizzando un po' il discorso, la prima delle due posizioni,darà origine a una produzione narrativa volta alla valorizzazione delle radici, del passato e della tradizione, che orienta le scelte tematico-linguistiche in direzione del recupero della memoria storica e delle peculiarità del territorio, e se presenta un quadro del presente lo fa solo filtrandolo attraverso un passato con cui confrontarlo o in cui rintracciarne le ragioni storiche; l'altra, invece, sperimenta letterariamente delle «versioni meridionali» di società globale, attraverso una rappresentazione - realistica o grottesca, ironica, demistificante - del presente, da cui affiorano, talvolta a integrazione di senso talvolta a ostacolo, le nodose radici del passato.
L'urgenza della questione dell'identità si evince anche dalla significativa presenza all' interno delle dichiarazioni di questi nuovi narratori: «Sì, sono proprio di Potenza, ma sulla copertina non ce lo faccio scrivere. Non è che mi scocci d'essere meridionale [ .. .]. N o, la cosa che mi dà sui nervi è che mi scambino per uno «scrittore meridionale: questa la risposta che, negli anni novanta, Gaetano Cappelli dava all' editore Cesare De Michelis. È che «essere autori (o autrici) napoletani - spiega Antonella Cilento - è una grossa responsabilità»: lo scrittore meridionale «deve confrontarsi con un'identificazione prima che con un'identità terribile. Innanzitutto perché solo agli autori meridionali, e ai napoletani in particolar modo, viene chiesta ragione del loro essere napoletani e del loro rapporto con gli autori che li Y1anno preceduti e influenzati, mentre a un autore nato in qualsiasi altra parte d'Italia ciò non accade"'.
L'identità del Sud, dunque, sembra dover passare preferibilmente per una rappresentazione realistica di questa terra, di contro alla mistificazione di rappresentazioni obsolete o già ah origine false.
L'urgenza di una rappresentazione onesta, però, scatenerà in alcuni casi quell'ossessione per l'autenticazione della realtà, già lamentata da Roland, Barthes negli anni sessanta, e che, nella preveggente lettura del critico francese, avrebbe condotto al proliferare dei reportage e del turismo di massa: dUe fenomeni anche tipicamente meridionali. La necessità di «scrivere storie vere, di sé e del paese, riconoscendo in esse la propria realtà» era d'altronde denunciata dallo stesso Carlo Levi, che a distanza di più di vent'anni dalla pubblicazione del Cristo, ravvisava elementi di progresso e autonomia anche nel mondo contadino lucano: a questo risveglio, osservava Levi, corrisponderebbe l'urgenza di raccontare la nuova realtà. Ne consegue, però, che è difficile per uno scrittore del Sud che muova da tale premessa proporsi come scrittore senza aggettivazioni che ne denuncino la provenienza regionale: anche perché l'etichetta di scrittore meridionale è una di quelle editorialmente accattivanti che corrisponde, sul mercato, a un target dotato di precise aspettative. Puntava il dito sul problema anche Diego De Silva:

C'è, inutile negarlo, una sorta di compiacimento, di folklore aggiunto, nel proporsi come autori meridionali. Nell'aspettativa comune di un lettore che compra il romanzo di uno scrittore del Sud (specie se è uno di cui si sente parlare) è compresa una voglia d'eccesso, di estremo; di sporco, se mi passate l'espressione. Da uno scritture del Sud, un lettore medio si aspetta spudoratezza, estroversione, studiata noncuranza nella scelta della parola giusta. Una voglietta borghese, insomma, da intrattenimento moderatamente sconcio'.

Ancora sulle ragioni e sulle modalità della falsificazione dell'identità del napoletano, Raffaele La Capria elaborava nel 1986 un'interessante teoria nell'in dimenticata Armonia perduta? Al centro della sua riflessione La Capria proponeva due formule ormai consolidate. La prima dava il titolo al saggio e stava a indicare un equilibrio, un'armonia, appunto, bruscamente interrotti con la ferooce repressione della sfortunata e gloriosa rivoluzione del 1799: l'armonia di un' epoca in cui Storia e Natura erano ancora in accordo e in cui il napoletano, esprimendo naturaliter la propria identità, non doveva ancora «fare il napoletano nella "Grande Recita Collettiva"». La teoria di La Capria creò subito un acceso dibattito, a guanto pare non definitivamente sopito. Lo scrittore sosteneva infatti che la borghesia napoletana, «traumatizzata dalla rivoluzione del 1799 e dalla repressione sanfedista», terrorizzata dalla possibilità che «la bestia plebea si risvegliasse e la divorasse», avesse «tentato di gettare una testa di ponte tra sé e quel mondo feroce e imprevedibile» invenntando nell'arco di dU\7secoli la «napoletanità» come identità comune, come immagine in cui tutti i napoletani, senza distinzione di ceto, potessero riconoscersi. Ed eccone i tratti comuni e distintivi secondo La Capria: «il napoletano come lingua comune, le superstizioni, le canzoni, la pizza e i maccheroni, il paesaggio stilizzato delle pastiere, il teatro di Viviani e De Filippo, il cielo e i colori del golfo». La tesi di La Capria prevedeva la riscrittura a tavolino dei tratti distintivi di una napoletanità, per così dire, imborghesita. La piccola borghesia avrebbe quindi edulcorato, stemperato, smussato, reinterpretato in versione soft la lingua, il linguaggio, i temi, i comportamenti, la cultura, i valori, elaborati nei secoli dalla plebe napoleta-
UCCIDIAMO LA LUNA A MARECHIARO

lisation - ché tale era la campagna lucana nel 1935 quando vi fu confinato Levi - quanto dall'assenza di toni di sdegno e denuncia, dal compiacimento, persino, percepiti nella lettura di Levi. In realtà, la presunta acquiescenza dello scrittore deriva dal fraintendere il suo approccio, caratterizzato da estremo rispetto e da assenza di pregiudizi. Levi attua una sorta di «regressione», del tipo di quella teorizzata da Verga: nel Cristo, Levi non era interessato a interpretare la mentalità del mondo contadino lucano entro i parametri di un Progresso che, fiducioso nelle proprie forze, ordinava il mondo secondo le categorie di Tempo, Ragione, Causalità, Storia, Individuo; né era interessato a collocare la sua storia entro la storia dei vincitori che l'avrebbe ribaltata in «storia mancata», in «frustrante vicenda di ciò che essa non aveva potuto essere, il mero risultato di uno squilibrio costante e inalterato nel tempo e perciò quasi un derivato, un residuo della storia degli altri, incarnata dalle realtà più avanzate dello sviluppo economico, vale a dire dal Nord»"'. Pensava piuttosto a quella «contro storia» poi tanto spesso invocata: storia di guerre, sì, ma non per una forma di civilizzazione imposta ed esogena, semmai contro di questa.
Altra accusa rivolta a Levi è quella di riconsolidare gli aborriti topoi meridionali della rassegnazione, del vittimismo, del fatalismo: «c'è la grandine, le frane, la siccità, la malaria e c'è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, si sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!»'5. Sino a quèllo che vede il Sud come regno della «magìa», che orienta le azioni degli uomini a suon di «filtri», «jettatura» «mala volontà», «influssi malvagi» «potenze oscure e spaventose».
Ciò che in realtà interessava Levi era poter esprimere, non giudicare né denunciare, quel mondo contadino rispettandone l'alterità. Per farI o provò a di smettere le proprie categorie interpretative e ad attuare una sorta di regressione verghiana che gli permettesse di assumere la prospettiva di quel mondo dando gli, così, voce. Si tratta di una regressione, appunto, anche linguistica: ne siano spia la prima persona plurale dell'indiretto libero (Ci fanno ammazzare ... ) o l'uso dell'Indicativo in luogo di un più cauto, plausibile condizionale per raccontare della storia della «donna che tutti sanno esser figlia di una vacca»; o per descrivere i monacicchi, gli spiriti dei bambini morti senza battesimo, «specie di gnomi o folletti [che  si vedono frequentemente, ma acchiapparli è difficilissimo». E cosÌ pure il frequente ricorso al discorso paratattico, tipico dell' oralità, e la medietà del lessico sembrerebbero informati a una rispettosa e onesta volontà mimetica che sospende il giudizio: «io rispettavo gli abracadabra, ne onoravo l'antichità e l'oscura e misteriosa semplicità». D'altro canto non va dimenticato che, pur rimanendo entro i confini del Cristo, a un discorso narrativo così configurato, fa sempre da necessario pendant la contestualizzazione, la storicizzazione, l'analisi puntuale delle ragioni che hanno generato quello stato di cose che Levi non denuncia ma osserva dismettendo dapprima gli strumenti interpretativi perché non interferiscano nella fase di ricezione, poi subiito riprendendoli, mutando prospettiva e registro, giudii7.io, attaccando «il semplicismo, spesso ammantato di espressioni filosofeggianti, dei politici, e l'astrattezza delle loro' soluzioni». Allora anche la povertà, il familismo, temi così docili al trattamento oleografico o mitizzante, sono lucidamente ricondotti alle loro cause storiche: «Quelle terre si sono andate progressivamente 'impoverendo; le foreste sono state tagliare, i fiumi si son fatti torrenti .... Non ci sono capitali, non c'è industria, non c'è risparmio, non 'ci sono scuole, l'emigrazione è divenuta impossibile, le tasse sono insopportabili e sproporzionate». E ancora: «Dove non c'è lo Stato - o il senso dello Stato -la società si struttura in base al vincolo di consanguineità [ ... ] il senso sacro, arcano e magico d'una comunanza»
La lezione di Levi andrebbe oggi disincrostata da certi pregiudizi che vorrebbero sostituirsi alla lettura stessa dell'opera: il suo metodo muove dall' esigenza di una conoscenza diretta dei fatti, di un ritorno alla realtà concreta e viva, da quelle stesse esigenze, dunque, espresse oggi da tanta narrativa del Sud. Lasciar emergere la voce della gente, allora, poteva rappresentare per Levi un modo per sfugggire a una valutazione compiuta su parametri esogeni: l'auspicata «modernizzazione» democratica del Mezzogiorno d'Italia poteva avvenire, purché fosse endogena.
Il consolidamento e la diffusione dei più vieti stereo tipi meridionali ad opera di certi intellettuali, abituati a «parlare solo tra di loro», trova terreno fertile là dove manca uno schietto e diretto confronto con la realtà. Vi insisteva Levi e vi insistono molti giovani narratori del Sud. In parrticolar modo Pascale. È lui che citerà Gennariello, la famoosa lettera luterana, sorta di «trattatello pedagogico»19/che nel 1975 Pasolini indirizza a un immaginario ragazzo naapoletano della piccola borghesia: Pascale la definirà «la più brutta lettera che abbia scritto Pasolini su Napoli: una letttera che noi meridionali abbiamo odiato». I motivi di questo severo giudizio' sono facilmente ravvisabili. Pasolini ci presenta un ritratto della Napoli anni settanta quale oasi incontaminata nell'orgia del boom economico. Napoli diventa così, nella mente di Pasolini, <<l'ultima metropoli plebea, l'ultimo grande villaggio», popolata da quei napoletani che gli sono tanto «simpatici», perché «non sono molto cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia». Ancora: una Napoli in cui <<la povertà e l'arretratezza non sono affatto il male peggiore»; una Napoli che trasuda allegria, «vitalità» e la vitalità, sostiene Pasolini, «è sempre fonte di affetto e di ingenuità». Una Napoli furba, imbrogliona: «un giorno - racconta lo scrittore - mi sono accorto che un napoletano, durante un'effusione d'affetto, mi stava sfilando il portafoglio: gliel'ho fatto notare, e il nostro affetto è cresciuto». Ignoranza, arretratezza, povertà, immobilismo, illegalità: questi i mali di Napoli che Pasolini ribalta in positivo, trasformandoli in valori positivi, preziosi perché fondanti l'identità del napoletano, la sua «napoletanità». Questi i mali entro cui molti napoletani son costretti a dibattersi quotidianamente.
Come per Levi, anche qui però diventa fondamentale individuare la prospettiva entro cui Pasolini legge Napoli e il Sud d'Italia. Un Sud che non costituisce un oggetto di studio e di rappresentazione in sé per sé: quando Pasolini dice che i napoletani gli sono simpatici «in concreto» e «ideologicamente», forse indica proprio questo, che la sua lettura del Sud è ideologica ed empirica a un tempo Napoli, come pure quel Sud'che Pasolini attraversa negli anni sono trasfigurati entro la medesima prospettiva in cui interpreta il Terzo mondo e la borgata romana, anch'essi portatori di quei valori di «autenticità» irriducibili alla logica tipicamente borghese del consumo e del possesso, argini critici al processo di integrazione - oggi globalizzazione. Il ritratto del Sud che Pasolini ci consegna può risultare sgradevole, irritante, ma certo non ovvio, non banale, ed è risultato di un «istintivo metodo» di conoscenza che non registra la realtà, ma la interpreta, la aggredisce, la iperbolizza, la trasfigura leggendola in una prospettiva comunque «altra» rispetto a quella convenzionale.

IlI Le forme ibride del Sud

1. Identità e realismo: due «questioni meridionali».
Pare impossibile affrontare uno studio sulla letteratura del Sud senza affrontare la questione dell'identità - questione già toccata negli anni ottanta dalla storica rivista «Meridiana»', forse la prima ad aprire un dibattito sul Sud alla luce delle sue trasformazioni ma tenendo conto delle radici storico-culturali.
Torna a imporsi con nuova evidenza proprio negli anni novanta, quando escono alcuni saggi fondamentali per reimpostare il problema: Il pensiero meridiano2 di Franco Cassano, Sviluppo senza autonomia) di Carlo Trigilia, L'identità meridionale' di Mario Alcaro, e la già citata Breve storia dell'Italia meridionale di Piero Bevilacqua. Scriveva proprio in quegli anni Giuseppe Cacciatore:

Il dibattito sul Mezzogiorno [ ... ] ha imboccato un'inedita ed interessante curvatura interpretativa. In essa ciò che ora viene al centro - rispetto alla pur importante e, almeno per me, insostituibile chiave tradizionale di lettura storico-politica - è il tentativo di utilizzare una serie di categorie filosofico-culturali e di simbologie che si dispongono a metà strada tra la sociologia della conoscenza e l'antropologia (la «solarità», la «meridianità», l'appartenenza comunitaria, l'etica del dono, il culto della memoria, la pratica dell'amicizia e del legame parentale) e che si ritengono più maneggevoli e più proficue in un contesto culturale e politico sempre più caratterizzato dalla cosiddetta postdernità e dalla crisi dei modelli ideologici e sociologici di descrizione e spiegazione'.

Incalzato da una sempre più crescente necessità di ridefinire la propria autentica identità - messa in pericolo dall'interno per effetto della retorica meridionalistica, dall'esterno per il processo di globalizzazione -, il Sud degli anni novanta è spartito tra chi, per identità autentica"intende quel profilo originario conservato nella tradizione, dunque delinea un'identità sfrondata d'ogni elemento spurio in quanto esogeno; e chi, per «autentico», intende il volto non stereotipato, non falsificato, dunque mira a sfrondare l'identità da elementi spuri in quanto artificiosi, giustapposti, creati «a tavolino», per poi riconfigurarla secondo un' effettiva rispondenza al suo «creolizzato» profilo attuale.
Schematizzando un po' il discorso, la prima delle due posizioni,darà origine a una produzione narrativa volta alla valorizzazione delle radici, del passato e della tradizioone, che orienta le scelte tematico-linguistiche in direzione del recupero della memoria storica e delle peculiarità del territorio, e se presenta un quadro del presente lo fa solo filtrandolo attraverso un passato con cui confrontarlo o in cui rintracciarne le ragioni storiche; l'altra, invece, sperimenta letterariamente delle «versioni meridionali» di società globale, attraverso una rappresentazione - realistica o grottesca, ironica, demistificante - del presente, da cui affiorano, talvolta a integrazione di senso talvolta a ostacolo, le nodose radici del passato.
L'urgenza della questione dell'identità si evince anche dalla significativa presenza all' interno delle dichiarazioni di questi nuovi narratori: «Sì, sono proprio di Potenza, ma sulla copertina non ce lo faccio scrivere. Non è che mi scocci d'essere meridionale [ .. .]. N o, la cosa che mi dà sui nervi è che mi scambino per uno «scrittore meridionale",,!>: questa la risposta che, negli anni novanta, Gaetano Cappelli dava all' editore Cesare De Michelis. È che «essere autori (o autrici) napoletani - spiega Antonella Cilento - è una grossa responsabilità»: lo scrittore meridionale «deve confrontarsi con un'identificazione prima che con un'identità terribile. Innanzitutto perché solo agli autori meridionali, e ai napoletani in particolar modo, viene chiesta ragione del loro essere napoletani e del loro rapporto con gli autori che li Y1anno preceduti e influenzati, mentre a un autore nato in qualsiasi altra parte d'Italia ciò non accade"'.
L'identità del Sud, dunque, sembra dover passare preferibilmente per una rappresentazione realistica di questa terra, di contro alla mistificazione di rappresentazioni obsolete o già ah origine false.
L'urgenza di una rappresentazione onesta, però, scatenerà in alcuni casi quell'ossessione per l'autenticazione della realtà, già lamentata da Roland, Barthes negli anni sessanta, e che, nella preveggente lettura del critico francese, avrebbe condotto al proliferare dei reportage e del turismo di massa: due fenomeni anche tipicamente meridionali. La necessità di «scrivere storie vere, di sé e del paese, riconoscendo in esse la propria realtà» era d'altronde denunciata dallo stesso Carlo Levi, che a distanza di più di vent'anni dalla pubblicazione del Cristo, ravvisava elementi di progresso e autonomia anche nel mondo contadino lucano: a questo risveglio, osservava Levi, corrisponderebbe l'urgenza di raccontare la nuova realtà. Ne consegue, però, che è difficile per uno scrittore del Sud che muova da tale premessa proporsi come scrittore senza aggettivazioni che ne denuncino la provenienza regionale: anche perché l'etichetta di scrittore meridionale è una di quelle editorialmente accattivanti che corrisponde, sul mercato, a un target dotato di precise aspettative. Puntava il dito sul problema anche Diego De Silva:

C'è, inutile negarlo, una sorta di compiacimento, di folklore aggiunto, nel proporsi come autori meridionali. Nell'aspettativa comune di un lettore che compra il romanzo di uno scrittore del Sud (specie se è uno di cui si sente parlare) è compresa una voglia d'eccesso, di estremo; di sporco, se mi passate l'espressione. Da uno scrittore del Sud, un lettore medio si aspetta spudoratezza, estroversione, studiata noncuranza nella scelta della parola giusta. Una voglietta borghese, insomma, da intrattenimento moderatamente sconcio.

Ancora sulle ragioni e sulle modalità della falsificazioone dell'identità del napoletano, Raffaele La Capria elaborava nel 1986 un'interessante teoria nell'in dimenticata Armonia perduta? Al centro della sua riflessione La Capria proponeva due formule ormai consolidate. La prima dava il titolo al saggio e stava a indicare un equilibrio, un'armonia, appunto, bruscamente interrotti con la ferooce repressione della sfortunata e gloriosa rivoluzione del 1799: l'armonia di un' epoca in cui Storia e Natura erano ancora in accordo e in cui il napoletano, esprimendo naturaliter la propria identità, non doveva ancora «fare il napoletano nella "Grande Recita Collettiva"». La teoria di La Capria creò subito un acceso dibattito, a guanto pare non definitivamente sopito. Lo scrittore sosteneva infatti che la borghesia napoletana, «traumatizzata dalla rivoluzione del 1799 e dalla repressione sanfedista», terrorizzata dalla possibilità che «la bestia plebea si risvegli[asse] e la divorasse», avesse «tentato di gettare una testa di ponte tra sé e quel mondo feroce e imprevedibile» invenando nell'arco di dU\7secoli la «napoletanità» come identità comune, come immagine in cui tutti i napoletani, senza distinzione di ceto, potessero riconoscersi. Ed eccone i tratti comuni e distintivi secondo La Capria: «il napoletano come lingua comune, le superstizioni, le canzoni, la pizza e i maccheroni, il paesaggio stilizzato delle pastiere, il teatro di Viviani e De Filippo, il cielo e i colori del golfo». La tesi di La Capria prevedeva la riscrittura a tavolino dei tratti distintivi di una napoletanità, per così dire, imborghesita. La piccola borghesia avrebbe quindi edulcorato, stemperato, smussato, reinterpretato in versione soft la lingua, il linguaggio, i temi, i comportamenti, la cultura, i valori, elaborati nei secoli dalla plebe napoletana. Malgrado la tesi sia frutto di «tensioni collettive indagate con l'ausilio di fantasie e astrazioni, magari volutamente commettendo qualche arbitrio, senza l'obbligo di fornire prove e documenti storici»JO, Giorgio Bocca, solo qualche anno fa, tornava a muovere l'antica accusa, delegittimando la teoria come «elegante e consolatoria», e priva di fondamentali. Se simili fraintendi menti sono sempre in agguato quando i lembi di realtà e finzione vengono tirati sino a sovrapporli, nel caso della letteratura meridionale il problema si acuisce proprio in virtù di una sua presunta «vocazione al realismo». Vocazione indicata, sì, da un'autorità come Leonardo Sciascia quale «carattere essenziale della narrativa siciliana» ma di cui lo stesso Sciascia avvertiva il potenziale coercitivo: «tutti gli scrittori siciliani sono legati alla rappresentazione della realtà siciliana (qualcuno direbbe condannati) per la loro stessa vocazione al realismo»12. E non è un caso che, quale correttivo, Sciascia insistesse sulla necessità di distinguere tra la verità oggettiva dell' opera storiografica e la verità assoluta dell'opera letteraria: se al documento storico s'impone veridicità e obiettività, se al reportage giornalistico si chiede una chiara distinzione tra la fedele riproduzione del dato reale e la personale 'interpretazione di questo, la letteratura lascia lo scrittore libero di interpretare la realtà, che è «per statuto» filtrata dal soggetto autoriale.
Frutto del medesimo equivoco che vuole la letteratura meridionale tutta votata alla rappresentazione fedele - alla denuncia - dei propri mali, è la vivace obiezione mossa a Gaetano Cappelli nel 1991, durante una presentazione milanese di Mestieri sentimentali, raccolta di racconti che per quadri successivi descrivono il mondo dei giovani potentini tra prime esperienze lavorative e primi amori. Racconta l'autore: «A un certo punto, una tizia ingioiellata salta in piedi e urla: "Ma come può accettare questa realtà senza sentire il bisogno di condannarla? [ ... ] al Sud c'è la mafia,  lo sanno tutti, e lei invece di perdere tempo a raccontare le sue storielle sentimentali avrebbe il dovere di raccontare certe cose"».
È evidente come fino ad ora abbiamo considerato il Sud in una prospettiva omogenea, piuttosto che un insieme di realtà regionali con caratteri specifici e profonde differenze. Questa era d'altronde la prospettiva prevalente negli anni novanta, elaborata forse per necessità di una risposta compatta al modello della globalizzazione, anche sulla scorta di un'analoga lettura già proposta da Silone negli anni cinquanta. Per Silone, infatti,

il Sud non è solo una nozione geografica ma anche storica e sociale, in antagonismo col Nord. Quasi ovunque il Sud è più povero del Nord; quasi ovunque è prevalentemente agricolo, mentre il Nord è industrializzato. Sarebbe una stravaganza voler calcare la mano su queste e altre analogie naturali - o storiche per _ estrarne una qualunque teoria; ma nulla ci vieta di apprezzare convenientemente il fatto che un racconto siciliano cl abruzzese possa essere accolto nella Virginia, in Ucraina, in Indonesia come la narrazione di una vicenda locale".

«È necessario dunque - suggeriva già allora Silone - sapersi integrare in uri sistema di relazioni più vaste», saper uscire dalla dimensione nazionale della Questione Meriidionale, senza però ignorare o «rimanere indifferenti a [ ... ]

le cause che furono all' origine del fallimento' pratico dei piani di nazionalizzazione morale e civile delle nostre province meridionali». Volgendo poi lo sguardo alla letteratura, Silone concludeva che per lo scrittore la conoscenza della storia politica del Mezzogiorno e la consapevolezza I degli errori compiuti e subiti non devono necessariamente costituirsi in tema ti che privilegiate, bensì formare un substratum di competenza e consapevolezza «dei lati profondi ed esse!1ziali del carattere del nostro popolo e [di] quel- / lo che esso nasconde sotto le apparenze della,stanchezza e dello scetticismo» e soprattutto delle ragioni, dei processi storico-sociali che li hanno determinati. Solo la reale conoscenza delle ragioni pr8funde dell' origine di certi tratti peculiari delle popolazioni del Sud, come pure del formarsi di certi stereo tipi (le «apparenze»), può generare per Silone una narrativa che pur avendo «intenti dichiaratamente realistici» non resti fieramente «descrittiva e giornalistica».
Nella prospettiva di un Sud quale terra culturalmente colonizzata - tema particolarmente caro agli scrittori sardi - i giovani narratori si sarebbero visti, e ancora oggi si vedrebbero, costretti ad affrontare questioni tipiche dei territori colonizzati anche politicamente: la scelta di una lingua distinta o antagonista rispetto a quella del potere; l'elaborazione di una cultura nuova, meticcia nel senso più produttivo del termine; l'innesto sulle antiche radici culturali delle proposte e delle possibilità offerte dalla modernizzazione.
In questa direzione andava, qualche anno fa, anche l'intervento di Nicola La Rocca, che così si esprimeva in occasione del convegno Sud creativo:


Al Sud si prova (più o meno esplicitamente) a sistemare dei paletti attorno alla propria rovistata identità o; al contrario, a confutarla, demolirla - questa identità che spesso è accusata di sfociare nel pittoresco [ .. .]. I processi di omologazione culturale sono ormai a buon punto. Però le differenze (belle e brutte) ci sono, ci saranno sempre. Insomma, come autori dobbiamo credere all'esistenza di un ethos meridionale specifico?'

La conclusione di La Rocca fissa la sconfortante fotografia di un'identità del Sud formatasi su stimolo catodico, configuratasi sulla condivisione - geograficamente trasversale - di un immaginario collettivo di matrice mediatica: altra questione cruciale cui ci riserviamo di tornare più avanti. -,
Il problema viene subito avvertito dagli stessi narratori, del nuovo Sud. Alcuni superano il problema della riconfigurazione dell'identità partelido da posizioni siloniane e finendo per disciogliere il problema nella sempre più comune affermazione che «il Sud non esiste». E il caso di Giuseppe Montesano: «Non mi sento scrittore del Sud, ma semplicemente una persona che vive in un particolare luogo geografico e quindi prova a raccontarlo. Ma soprattutto non potrei raccontare il Sud anche volendolo, perché il Sud non esiste. Per quanto stucchevole è noto a tutti che esiste un fenomeno'di internazionalizzazione delle economie, delle culture e persino degli stili di vita: è per questo che ritengo impossibile l'apartheid letterario».
In questa intervista, Montesano argomentava anche la sua idea di realismo:

uno scrittore affronta sempre e soltanto la realtà, ma la affronta sempre e soltanto partendo dall'immaginazione. Naturalmente in questo modo arriva a uno scontro, nel quale né la realtà gli sembra sufficiente, né l'immaginazione può soddisfarlo. È per questo che gli scrittori eccessivamente fantastici mi sembrano mancare il bersaglio e,mi annoiano; ma mi annoiano ancora di più quelli che si illudono di rappresentare la realtà semplicemente registrando le cose, i tic verbali, insomma la superficie di quello che accade. È un po' quello che capita a buona parte deegli scrittori americani delle ultime generazioni, che trasferiscono sulla pagina, senza nessuna mediazione, ciò che li circonda.

Il risultato è molto deludente, e per un motivo banale: perché chiunque abbia sensibilità è in grado di osservare le cose che lo circondano con maggiore penetra zio ne e con più velocità percettiva di qualsiasi scrittore. Allora si tratta di fare un passo oltre e di scavare al di sotto della superficie, È lì che si scopre effettivamente che cosa significa vivere in un mondo mediatizzato; è lì che si scopre fino a che punto sia cambiata l'antropologia delle persone sotto la sferza di un meccanismo economico che ha smesso di essere un dominio esteriore ed è diventato un dominio psicologico; ed è lì che forse si trova anche qualche cosa capace di fare vedere la cosiddetta superficie con occhi nuovi. La verità non corrisponde mai esattamente a quella che si chiama realtà, ma si può ricavarla proprio dallo scontro tra l'apparenza delle cose e la capacità immaginativa. Portate al loro estremo, le superfici cosiddette reali si incrìnano ,e scoppiano, svelando quello che c'è dietro e quello che stiamo diventando.
È questo che intendo per raccontare la realtà: non l'ottuso realismo, non il miserabile narcisismo, ma nemmeno la fantasti-cheria illusa di volare al di sopra. delle cose: bisogna scendere dentro di esse e procedere, in un certo senso a caso, nella speranza di afferrare per strada un pezzo vivo di quella che chiamiamo verità. Una scrittura che insegua la verità: non ha giudizi assoluti da smerciare; non è né un discorso ideologico, né un' analisi sociale, né statistica sociologica, né un'indagine di mercato: ma in qualche modo non rinuncia a nessuna di queste forme conoscitive e le mette a' cuocere dentro il grande calderone che si chiama letteratura".


L'esempio di Montesano può estendersi, pur con qualche eccezione, almeno nelle dichiarazioni d'intenti se non nei risultati, a molti narratori del nuovo Sud: uno dei canitteri distintivi di questi giovani scrittori pare sia infatti l'elaborazione di una sorta di etica dell'impegno, praticata però con disincanto, con modestia e piena coscienza dei limiti dei propri strumenti e delle sedi in cui operavano. Il loro realismo si mostra capace quasi sempre di mettere in discussione, attraverso la scelta di una prospettiva ironica, la realtà sociale contemporanea; raramente, purtroppo, di prefigurarne evoluzioni o involuzioni nell'immediato futuro o di prospettarne configurazioni alternative; si tratta però di un realismo sempre pronto a demistificare l'artificiosa coincidenza tra realtà e stereotipo.
Forgiare uno strumento linguistico capace di nominare il mondo «secondo l'autore» vuol dire, per i narratori del nuovo Sud, costruire un ponte sul vuoto di senso delle parole e delle icone desemantizzate dell' ammaliante retorica meridionalista, neorealistica o mediatica che sia. Impegnati ma non ideologizzati, assertori non fanatici delle potenzialità gnoseologiche della letteratura, questi narratori depongono con accortezza sulla pagina parola dopo parola, dettaglio dopo dettaglio, -uno dietro l'altro, e, confidando nella concreta, solida, legnosa evidenza di questi, avanzano pazientemente, cautamente, costruendo un passaggio sulle sabbie mobili degli stereotipi e sul sonno illusoriamente pacifico 'della più convenzionale mimesi. Provano a raccontare, ,così, non solo la nuova sfuggente' e pericolosamente friabile realtà, ma la confusa percezione che il soggetto ha di questa, la sua faticosa, quando non impossibile, interpretazione. Una realtà fatta anche di vuoto e di abitudine, persino di assuefazione al vuoto; frutto di «donazione mediatica» della realtà stessa, dominata da spaesamento, disorientamento, decentramento, dal dissolversi delle coordinate temporali e spaziali del gioco di illusioni ottiche e prospettiche della nuova comunicazione. Tale scenario, però, è quasi sempre solo evocato sullo sfondo, costituisce la premessa e l'habitat in cui vengono fatte agire creature vive e concrete realtà: una concretezza che è data soprattutto dalla potenziale «riconoscibilità» dell'immagine proposta - riconoscibilità che in certi casi assurge a universalità, in altri nasce dalla condivisione di un immaginario di matrice mediatica; una concretezza che è raggiunta attraverso l'aderenza, l'attaccamento alla individuata matericità del dato reale. Realismo sì, allora, ma ancora una volta praticato soprattutto per impegno conoscitivo, che può comportare anche la scelta di una prospettiva deformante purché rivelatrice.
Anche in questo caso, però, si può facilmente scivolare nell'equivoco e tradurre l'impegno etico-gnoseologico della letteratura in dovere di denuncia. Al rigore morale, come spietata capacità di assunzione di responsabilità individuale, si appellava Antonio Pascale: «io voglio essere uno scrittore civile, non perché parlo male di Berlusconi ma perché parlo delle cose brutte che sono in me. Non voglio accusare nessuno se non me stesso»17. E anche su questo aspetto della nuova narrativa meridionale le opinioni della critica divergono. Se Ferroni segnalava il rischio di «una" diserzione" da quella ricerca dell'" altro", da quella spinta a cercare un mondo diverso (pur partendo da mondi del tutto particolari e specifici) che sempre anima la letteratura che conta», Stefano Giovanardi, come pure Goffredo Fofi's, individuava uno tra i principali trattti distintivi e apprezzabili nella nuova narrativa del Sud nel sapiente uso dello scandaglio psicologico. Giovanardi andava subito al nocciolo della questione: se è vero che per alcune soluzioni i nuovi narratori meridionali potrebbero evocare una resa naturalistica, è evidente però <<lo scarto rispetto alla vulgata naturalista: laddove essa tende a' mettere in ordine, a costruire un modello di mondo che contenga in sé e mostri la chiave per la propria esaustiva decifrazione, qui si punta sulla frantumazione, sull'incompiutezza, sulla contraddittorietà insanabile». L'impegno etico consisterebbe sia nella scelta di dare spazio alla rappresentazione dei nuovi personaggi e dei nuovi scenari del Sud finora poco o affatto rappresentati sia in quella di raccontare questa realtà con onestà intellettuale, senza edulcorazioni o vittimismi, senza giudizi né giustificazioni.
Un altro tratto, spesso contestato, e comune a molti dei nostri giovani scrittori è infatti la lontananza da ogni esplicito e precostituito giudizio che informi e orienti la narrazione. Malgrado i temi affrontati - violenza, corruzione, disoccupazione, disagio sociale ed esistenziale -la nuova narrativa del Sud quasi mai propone rassicuranti griglie in cui disporre a colpo sicuro ciò che è Bene e ciò che è Male. Se è vero che vi si può scorgere il «rifiuto di ogni interpretazione, di ogni prospettiva sul mondo rappresentato»20 quale «cifra che qualifica questi scrittori, questi involontari "disertori": è ciò che in fondo li accomuna ai loro coetanei del Centro e dei Nord», nella maggior parte dei casi, però, non vi è abbandono della più preziosa arma a disposizione della letteratura, quella che le permette di conoscere e comprendere secondo modalità altre: né c'è una pessimistica o compiaciuta mimesi del Male. L'indecidibilità assiologica Bene/Male non coincide col relativismo, né è spia di un'assenza di prospettiva da parte dello scrittore: la difficoltà di distinguere tra Bene e Male, la confusione etica, viene semmai tematizzata, dunque esibita e stigmatizzata come caratteristica del nostro tempo proprio in virtù del suo farsi oggetto di rappresentazione: sottoporre al lettore situazioni di forte promiscuità etica lo conduce a prendere atto di una epocale difficoltà a distinguere sempre e nettamente i due campi ..
Fatto sta che il «modo mimetico-realistico» è stato scelto da volti come il più consono a una letteratura enfatizzata nelle sue potenzialità conoscitive, demistificanti, rappresentative e interpretative della contemporaneità. L'opzione realistica nei nuovi narratori meridionali oscilla però tra i due poli della mimesi e della finzione, dell'inchiesta giornalistica (con qualche puntata nel noir, genere caratterizzato, d'altronde/dall' esibizione dell'insidiosa ambiguità del male) e della narrativa pura: cronaca e invenzione si coniugano, poi, sempre più di frequente, all'interno del medesimo testo
in un felice compromesso, talvolta si configurano come opzioni alternative, in una continua sperimentazione. Sperimentazione formale, linguistica, paziente e artigianale lavoro che segue a una riflessione sempre più esplicitamente dichiarata, esibita, ironicamente o metaforicamente allusa, tanto da ribaltare non di rado l'opzione realistica, che pure mantiene il suo profilo, in quella metanarrativa.
Fenomeno analogo riscontra Giuseppe Antonelli, per il quale la sperimentazione letteraria a cavallo tra i due millenni ha vanificato la tradizionale opposizioni tra realismo e sperimentalismo, tra mimetismo ed espressionismo [ ... ]. In questo gioco di specchi, infatti, riflettere i linguaggi circostanti non significa mimetizzarsi con essi, ma anzi riflettere su di essi. E alla riflessione succede la rifrazione: filtrati attraverso lo sguardo della letteratura, i tratti del reale vengono inevitabilmente deformati; le linee si spezzano, i profili si alterano, la realtà esterna assume un'altra angolazio ne, nei casi migliori un'angolazione critica".
La tentazione metaletteraria, d'altronde, lampeggia costantemente nella maggior parte dei narratori del nuovo Sud, tanto da costituirne un tratto identificativo: ne sono eccellenti esempi Franchini (macroscopicamente in L'abusivo e in Quando vi ucciderete, maestro?)23 e poi Pascale e l'ultimo De Silva, i quali disseminano i loro testi di mine metaletterarie - dichiarazioni di poetica, digressioni teoriche, riflessioni estetiche - che aprano squarci nel compatto tessuto realistico del discorso narrativo e fanno deflagrare e dilagare il senso.

2. Fiction e/o faction: il successo del reportage narrativo.

L'urgenza di raccontare la nuova realtà del Sud, demistificando certi irriducibili stereotipi, orienta le scelte formali di questi giovani narratori. È comprensibile dunque che il reportage narrativo sia parso a molti lo sbocco naturale al desiderio di raccontare seriamente il Sud e quello che del Sud non era mai stato raccontato: senza rinunciare né alla forza icastica alle potenzialità emozionali dell'immagine letteraria, né, soprattutto, al potere conoscitivo della letteratura, capace, attraverso una precisione immaginativa, di ridare vita, carne, colore, voce, individualità al «fatto di cronaca».
D'altronde, una virata del cinema e -della letteratura in direzione di una resa della realtà più immediata (ovvero meno mediata dall'arte) cominci3Ava a essere avvertita da più parti. Ed è di qualche anno fa la diatriba che vedeva fronteggiarsi, da un lato, chi credeva che il romanzo potesse ancora dire qualcosa sul presente e qualcosa di più e di diverso rispetto alla cronaca; dall'altro chi riteneva che la forma romanzo fosse ormai inattuale e incapace di rappresentare la dissonante eterogeneità dei «materiali» che galleggiano spaesati in un presente appiattito su se stesso, delegando a una narrazione aderente al dato reale il compito di raccontare il nostro tempo.
Il reportage narrativo è un ibrido che condivide con l'inchiesta giornalistica l'oggetto di rappresentazione e il metodo d'indagine: la realtà (spesso il fatto di cronaca) verificabile e verificata su precisi documenti e testimonianze; poi, però, per. raccontare questa realtà raggiungendo un maggior impatto emotivo, si .avvale della strumentazione retorica della narrativa. Il reportage narrativo utilizza, insomma, gli strumenti conoscitivi è rappresentativi della letteratura per ricostruire quanto più possibile la complessità, le contraddizioni, la frammentarietà di una realtà, molto meno afferrabile di quanto non illuda la sua superficie. La letteratura in questo caso funzionerebbe come certi programmi di morphing che riescono a ricostruire l'immagine, l'identikit di un volto con la massima approssimazione al reale, solo a partire da un dato marginale, da un dettaglio, un frammento del volto stesso. Un altro motivo che rende poco convincente la tesi di chi sostiene che il romanzo, oggi, non sia in grado di raccontare un presente frammentario e senza centro è che, se il reportage concede maggiore spazio alla realtà «esteriore», alla realtà dei fatti di cronaca, alle tematiche sociali, insomma al tempo presente, il romanzo nell'ultimo secolo ha focalizzato l'attenzione non sulla realtà oggettiva - dichiarata per lo più ineffabile - bensì sulla -percezione che l'individuo ha di questa realtà: ed è questa percezione che si fa oggetto privilegiato del romanzo. Nulla di nuovo: già da un secolo il romanzo europeo non pretende più di dare senso (significato e direzione) a questa complessità trascolorante, ambita esista, invece la percezione è un'allucinazione [ .. .].

La questione della «specificità» 'del romanzo, e più genericamente della letteratura, ci interessa in modo particolare, perché sempre più scrittori del Sud tendono verso il reportage narrativo: spesso, naturalmente, sollecitati dagli editori. Non a caso, alla domanda: «Esiste uno specifico della narrativa meridionale?», la scrittrice e promotrice' culturale Antonella Cilento, in occasione dell'importante convegno letterario organizzato a Napoli nel 2002, rispondeva affermativamente e segnalava proprio nella frequente commistione tra fiction e reportage «la traccia che sembra legare i nuovi autori e le nuove autrici». Ma già qualche anno prima la stessa Cilento registrava il successo di un genere di consolidata tradizione quale il reportage narrativo: «in questi ultimi anni (recentissimi) - scriveva -la questione della narrativa civile è tornata con forza alla ribalta, un po' per l'attenzione data al reportage come forma alternativa al romanzo d'invenzione (ciclicamente dato per morto, ma in realtà vivissimo un po' per autentica necessità [ ... ]. Il punto è che raccontare civilmente, raccontare il presente si configura subito come un rapporto con l'identità territoriale, con il rifiuto della stessa, con il bisogno di scavalcare tradizioni, linee artefatte, inscatolamenti di genere e di strumenti».
Certo, pur ammettendo che il favore che il reportage gode presso il pubblico derivi da un'effettiva necessità del lettore di confrontarsi con la realtà del presente e fornirsi di sempre maggiori strumenti per comprenderla, è innegabile che un'a volta scoperto il filone l'editoria cerchi di sfruttarlo. È opinione del critico Ermanno Paccagnini che lo squilibrio in favore della cronaca sia amplificato dal fatto che il fenomeno si sta allargando a dismisura, sino alla standardizzazione, 'con conseguente abdicazione all'immaginario, a favore d'una volontà di denuncia che tante volte traduce la narrazione in cronaca (e non, semmai, viceversa). E buona sorte quando tutto questo - mafia e camorra che «tirano» - resta affidato a sguardi interni, più 'che a esterne prospettive «sociologicamente guardone».
Dalla seconda metà degli anni novanta molti scrittori italiani hanno interpretato nei modi più diversi il reportage narrativo «scrivendo inchieste come se fossero romanzi, romanzi scritti come ricerche di storia orale, automitobiografie spacciate per romanzi o reportages, commistioni di romanzo storico e saggistica etc.». E in molti casi «si è avuta una mera giustapposizione, o un trapianto mal eseguito, con conseguente rigetto»27. Oggi, nel fertile e ibrido terreno del reportage narrativo, fioriscono già da un decennio - ma forse mai come ora - corsi di scrittura creativa e dibattiti, su giornali, blog e riviste on-line: è però vero che, con altre argomentazioni, l'inattualità della forma romanzo, e l'urgenza di «registrare», «documentare» il difficile presente del Sud è .segnalata anche da Vincenzo Consolo. Da anni, infatti, l'autore siciliano rifiuta la qualifica di narratore o romanziere, preferendo quella di scrittore, e da anni professa l'inattualità di una forma-romanzo in senso bachtiniano, attraverso cui si possa trasformare il tempo in kairos e conferire senso e ordine al caos del reale. Proprio nella Postfazione a Narrare il Sud dichiara che «questo è il momento in cui bisogna tornare [ ... ] a registrare, non dico a narrare, perché secondo me non è ancora il tempo di narrare ma è il momento in cui bisogna documentare questa nostra realtà meridionale».
In un'intervista, Saviano così risponde alla giornalista che gli chiede di illustrargli la formula che in Gomorra coniuga felicemente giornalismo e letteratura:

Il metodo è croristico: andare sul campo. La scrittura è il contrario della cronaca: lo sguardo letterario non ha obiettivi prefissati. lo vado nei posti non per vedere le cose, ma perché le cose vedano me. Cioè per guardare trasversalmente i soliti percorsi, senza ossessione di verità [ ... ]. M:olti scrittori italiani avrebbero avuto remo re a inserire brani di intercettazioni o di atti giudiziari, io invece me ne frego della compostezza, voglio mordere. Però, come diceva Orwell: raccontare la verità senza rinunciare alla bellezza'·.

Si dichiarava sereno di fronte alla possibilità di un'ambigua contiguità tra letteratura e cronaca Stefano Giovanardi:

piuttosto occorre capire che tipo di realismo si addice a una certa epoca: oggi il neorealismo come illustrazione di un progetto sociale, politico di cambiamento della realtà non sarebbe proponibile. Oggi c'è, però, necessità di un realismo che morda la realtà. Sembrava agli inizi che potessero farlo i Cannibali, poi sono diventati un fenomeno commerciale. Però dopo, la Tamaro e Eco e il loro seguito hanno segnato l'inizio di un nuovo processo di ricerca: De Silva, Montesano, Romano, Calaciura, sono animati da una tensione etica, civile e da una ricerca linguistica".

La stessa tensione etico-civile che conduce molti dei giovani narrativi ,del Sud a inserirsi nella ben consolidata tradizione meridionale del giornalista-scrittore, che vanta illustri precedenti, da Ortese a Serao. Diverso dal reportage giornalistico puro,. che primariamente, se non esclusivamente, mira all'informazione, il reportage narrativo propone «storie reali, raccontate badando comunque a un effftto drammatico, a suscitare attenzione e, se ci riescono, emozioni». Spia di certa confusione è anche la necessità del critico Francesco Erbani, in occasione dell'uscita del suo L'italia maltrattata, di ribadire il fatto di «non aver scritto un'opera narrativa».
Reporter di viaggio specializzato in «paesologia» è poi Franco Arminio, che da' anni ci regala pagine di grande intensità emotiva e di limpida .Intelligenza. Fa da prefazione al bel Viaggio nel cratere una lettera di accompagnamento a firma di Gianni Celati, che opera una distinzione tra paesologi e scrittori:

di cosiddetti scrittori sono pieni i marciapiedi, tutti con la loro piccola finzione romanzesca dove mettono in scena il loro "io». (Non se ne può più). Per osservare il mondo estern6 da paesologo occorre privilegiare al massimo la percezione delle cose singole, contro le astrazioni degli esperti e le frasi fatte dell'attualità. Occorre riuscire a guardare il mondo esterno come se si fosse già perso tutto, come chi è straniero dovunque, come chi ha rinunciato all'idea consolante di appartenere a un luogo.
Aggallano sulla pagina di Arminio sguardi indimenticabili, volti espressivi, storie individuali, che si muovono in un mondo potentemente umanizzato, sino all'animismo: anche gli oggetti, inerti, conservano in sé la vita che gli conferivano gli uomini. Oltre l'osservazione del dato oggettivo nel presente, la letteratura sfonda le coordinate temporali e, in virtù della potenza dell'immaginazione, prova a restaurare l'immagine, a ridarle vita, ridisegnando i frammenti temporali oggi mancanti, ipotizzando il passato, «immaginandolo», appunto, ma su base reale, «a partire da».
La copertina lo definisce romanze), ma anche stavolta si tratta di un felice ibrido, tra reportage, diario e racconto: parliamo di Cronache dalla città dei crolli]", di Sergio De Santis. La struttura è diaristica, i capitoli coincidono con i giorni della settimana, tranne l'ultimo, che pare alludere alla parola letteraria come forma di salvezza della memoria e alla salvezza di quest'ultima grazie al procedimento informatico con cui il nuovo file viene chiuso e i dati in esso contenuti definitivamente salvati. «Potrebbe essere cronaca sociale [ ... ] oppure un incubo», recita, a ragione, la seconda di copertina a firma di Andrea Di Consoli: ha i colori cupi della nekuia il percorso compiuto dal giovane Schizzo, protagonista e voce narrante, all'interno di una città inno minata in progressivo e violento disfacimento. Disfacimento fisico, reale, ma che pare alludere a un disfacimento s0ciale.e morale: il realismo, emotivamente pungente nel dettaglio, si intreccia infatti a configurazioni simboliche: il percorso procede tra le macerie in atto del fallito sogno di colonizzazione culturale ed economica dell'Occidente.
Un'originale prospettiva, che ribalta il rapporto tra soggetto e oggetto legato a questo «genere», è quella proposta da Francesco Piccolo nel suo Allegro occidentale. Il viaggio descritto da Piccolo, infatti, segue solo apparentemente il confortevole e ben confezionato tour che conduce il tipico viaggiatore occidentale a veder confermata la rassicurante e stereotipata immagine che di quei luoghi esotici egli già possiede. Contestazioni al turismo di massa erano all' ordine del giorno' alla fine degli anni sessanta quando il fenomeno era all'apice del successo: è in quegli anni che si elabora infatti la teoria del sight seeing, secondo cui il turismo massificato non mira a conoscere davvero le realtà che incontra ma solo a tradurle in immagini acquisibili, gestibili, spendibili, comunicabili. Entro una prospettiva simile, il viaggio su cui indaga Piccolo è dunque un viaggio «di secondo grado», un viaggio discenditivo nella psicologia del soggetto conoscitore, ovvero in cui si delineano la mentalità, la cultura o la pseudo-cultura, l'ignoranza magari, l'inettitudine o la disabitudine all'incontro con l'Altro quali caratteristiche del viaggiatore medio occidentale: e così, quello che dovrebbe essere il soggetto che osserva viene trasformato, con abile ribaltamento, in oggetto osservato. Il vero viaggio segue infatti i tracciati di una psiche viziata da uno stile di vita confortevole e quanto più possibile depurato dai rischi - secondo un'esigenza tutta borghese nata ai tempi del Baedeker e delle prime guide a stampa -, una psiche schifiltosamente refrattaria all' esposizione a una realtà non preventivamente organizzata in immagini facilmente archiviabili perché già selezionate e confezionate attraverso i I lavoro del tour operator. In una parola: non stereotipate.
Nasce giornalista, Antonio Franchini: e da giornalista con una ineludibile vocazione a narrare, racconta la sua Napoli ne L'abusivo. È questa una pacata, ironica, amara rievocazione della società campana intorno agli anni settanta, percorsa attraverso due strade parallele talvolta intersecantesi: la prospettiva dei «vecchi» - i parenti anziani e non acculturati, che per sentenze rabbiose o rassegnate esprimono e ribadiscono perentoriamente valori e criteri interpretativi traditi di generazione in generazione - e quella dei giovani, meno agguerriti nella lotta per la sopravvivenza rispetto ai «vecchi» temprati dalla guerra, meno decisi nell'adozione di un criterio, di un valore, meno perentori nell'esprimere un giudizio. Nell'insieme dei «vecchi», Franchini colloca il giornalismo delle opinioni, appunto, perentorie, dei modelli del dover essere e dell' enfasi retorica e la memoria edulcorante che spesso li sostiene; al secondo posto la letteratura dei fatti narrati, la cui evidenza basta a metterli in luce nello scarno scenario della memoria. Malgrado il titolo, L'abusivo, ricomponga subito nella mel].te quel fenomeno topico' della società napoletana, da molti persino esibito con malcelata «fierezza», e malgrado di abusivismo. edilizio si pàrli ampiamente, nel lungo racconto napoletano di Franchini la figura dell'abusivo è soprattutto figura metaforica, eniblematica, potentemente inclusiva. La stessa. voce narrante si presenta come- «voyeur»,. spettatore «abusivo» che sbircia da dietro le quinte uno. spettacolo teatrale il cui protagonista dovrà in seguito intervistare. La prospettiva «realistica» dell'abusivo diventa così una prospettiva straniata, ironica, che rivela inedite visioni della realtà:

Tutto ciò che visto dalla platea è mirabile apparizione, considerato' da qui dichiara la sua natura illusoria [ ... ] di quella piscina il pubblico probabilmente percepiva uno scintillio, e il colore compatto dell'acqua tinta dai fari, e la scia luminosa che lo rompeva quando le ragazze si immergevano. Da dietro io invece notavo le zeppe, l'armatura che assicurava la vasca al tavolato [ ... ] forse allora scoprii che rispetto alla scena del mondo stavo meglio dietro che davanti.

Un registro ironico, in profondità incrinato da un'amarezza asciutta, sostiene l'intero percorso della voce narrante: si sente che è una vera e propria vocazione, una naturale inc1inaziçme al distanziamento ironico, una sensibilità innata, più che una scelta di prospettiva, che spinge Franchini a sollevare il velo dell'apparenza, snidando le meno rassicuranti verità. Abusivo lo sguardo, straniata la prospettiva, asciutta, scarnificante e demistificante la memoria, lontana da ogni enfasi retorica:

La memoria è un organismo che si gonfia, ma ne esiste anche un'altra specie, una che si dissecca. Può darsi che queste osservazioni appartengano alla memoria che si gonfia e trabocca una materia melmosa e collosa di modesta poesia. lo credo di più alla memoria che si dissecca, quella che emerge da acque rifluite denudando un relitto o un osso o una spina; quella che davanti a una rosicchiata apparizione ti fa dire con una strana delusa fermezza:  allora era così? Era tutto qui quello che cercavo?

È una' sorta di dichiarazione di poetica, resa - come spesso accade'nei testi dei nostri narratori - per tasselli sparsi: la letteratura, non di rado esplicitamente chiamata in causa, assurge a sede dell'anti-retorica (mentre all'enfasi opinionista è ascritto, contrariamente alla vulgata, lo stile giornalistico), in una sorta di"decantazione in cui solo i fatti, alla fine, aggallano, magari essiccati all' essenza, come «relitti» o «ossi» di montaliana memoria.

La letteratura si dichiara così

luogo ideale per chi decida di parlare del mondo senza avere opinioni, il luogo dove il bene satura presto e il male ammalia sempre, l'unico luogo in cui raccontare vita, amori, opinioni altrui già basta e il parere dell'autore è quasi sempre di troppo.

E arriviamo al «caso dell' anno» 2006, al reportage narrativo per eccellenza: Gomorra di Roberto Saviano. Pubblicato al crocevia tra il massimo di esposizione mediatica della città di Napoli, il perdurante successo del noir (narrativo, cinematografico e televisivo), il dilagare di inchieste sui più efferati o misteriosi delitti, che provano a ricostruirne le logiche amplificandone gli impatti emotivi, Gomorra è un' opera letterariamente valida, meritevole d'una valutazione e di un giudizio che vadano anche al di là del coraggioso gesto civile che rappresenta c che ha segnato il corso della vita del giovane autore, da anni minacciato di morte dalla camorra e da anni sotto scorta. Per comprendere appieno il lavoro e il successo di Saviano occorre andare oltre lo choc provocato dai fatti narrati e oltre la soddisfazione e l'ammirazione per il coraggio con cui l'autore dice, facendo nomi e cognomi, addentrandosi nei dettagli tecnici, ricostruendo legami, percorsi, processi, cose che mai tanto chiaramente erano state dette per essere ascoltate da tutti. Saviano dichiara esplicitamente quanto Michael Herr, reporter di guerra, autore di Dispatches (1977) che ispirò in parte quel capolavoro che è Apocalypse Now, gli abbia «salato il sangue»: non è un caso che il suo reportage sulla camorra prenda a modello 'un reportage che racconta, con accenti e tecniche letterarie, le esperienze di guerra di una pattuglia di soldati statunitensi in Vietnam. Simili, in modo evidente, le «voci» di entrambi i narratori, sempre sommesse, pacate!
sempre «fuori campo», anche quando il narratore si fa omodiegetico: ed esterna la prospettiva, distanziante abbbastanza per poter osservare e interpretare lucidamente i fatti, ma abbastanza docile a immergersi nell'inferno dellla realtà sino a impregnarsene per poterla dire. _

Ma il valore letterario di Gomorra è determinato da altro. È dato dalla scrittura, quella scrittura letteraria che Saviano stesso tiene a distinguere dalla cronaca per una div~rsità etodologica: «lo vado nei posti non per vedere le cose, ma perché le cose vedano me. Cioè per guardare trasversalmente i soliti percorsi, senza ossessione di verità»J6. Per raggiungere la verità Saviano evita di cercarla, divaga per sentieri casuali, si lascia distrarre, attrarre dai dettagli minimi, con una totale, quasi passiva disponibilità a lasciarsi «impressionare» dai fatti: solo che la categoria dei fatti, della materia da narrare, comprende indistintamente atti giudiziari, dichiarazioni pubbliche, dati Istat, inchieste, interviste, confessioni e testimonianze, notizie o fatti di cronaca ma anche quelle ché, all' epoca del reporter per eccellenza, Tom Wolfe, venivano chiamate jeature, fatti minimi, curiosi, magari, di vita quotidiana. Ancora dettagli,' insomma, proprio quei dettagli a partire dai quali la letteratura riesce da sempre a immaginare versioni di realtà alternative alla verità convenzionale: ecco come racconta, immaginandolo, l'incontro di due vittime del Sistema, Gelsomina e Gennaro, svelando così i I proprio metodo.
Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare il loro incontro, anche se non conosco neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar, i maledetti bar meridionali di  periferia attorno a cui gira come un vortice l'esistenza di tutti, ragazzini e vecchi novantenni catarrosi [ .. .]. Poi i sabati trascorsi assieme, qualche pizza in compagnia, la porta della stanza chiusa a chiave la domenica dopo pranzo quando gli altri si addormentano sfiniti per la mangiata.
Per poter raccontare,Saviano ha dunque bisogno anche di immaginare a partire da certi dettagli-spia che individuano precisamente, vivamente la realtà, la bloccano con uno spillo, impedendole di sfumare nel generico o di lasciarsi contraffare in verità preconfezionata; per scovare quei dettagli Saviano sa che c'è solo da immergersi, liberare la mente e trasformarsi in un medium capace di far s,i possedere dalla realtà, di cederle il proprio corpo -la propria corposa, materica scrittura - di darle, letteralmente, voce. E così la scrittura diventa avviluppante, assorbe l'attenzione dell'intero sistema simpatico del lettore. Non vi è una sola parola, dunque una sola immagine, che sia inessenziale: ogni elemento entra in perfetto accordo nel 'ritmo di una narrazione che si avvicina paurosamente alla vita. Ma Saviano sa bene come tanti dettagli vadano prima ripuliti dai luoghi comuni: per far emergere una realtà corrosiva e non corriva, vi getta un potente acido demistificante. L'occhio del narratore si fa ipersensibile e anaffettivo a un tempo quando scova e interpreta i dettagli più significativi nella folla che segue il feretro di Annalisa, adolescente uccisa per errore: il primo stereotipo da corrodere è il rituale codificato del pianto dello donne.

La bara bianca esce dalla chiesa, una folla preme per toccarla, iniziano le urla belluine, iniziano a incrinare i timpani. Quando il feretro passa sotto la casa di Annalisa, la madre che non ce l'ha fatta ad assistere alla funzione in chiesa, tenta di gettarsi dal balcone. Urla, si dimena, il volto è gonfio e rosso. Un gruppo di donne la trattiene. La solita tragica scena avviene. Sia ben chiaro, il pianto rituale, le scenate di dolore non sono menzogne e finzioni. Tutt'altro. Mostrano però la condanna culturale in cui vivono la maggior parte delle donne. napoletane, costrette ancora ad appellarsi a forti comportamenti simbolici per attestare il 100ro dolore e renderlo riconoscibile all'intera comunità.

E prima, in chiesa:

Dietro scorgo le. panche con le ragazzine, amiche, cugine, semplici vicine di Annalisa. Imitano le loro madri, nei gesti, nello scuotere h testa, nelle cantilene che ripetono: «Non esiste! Non è possibile!». Si sentono investite di un ruolo importante: confortare. Eppure trapela da loro un orgoglio. Un funerale per una vittima di camorra è per loro un'iniziazione, al pari del melarca o del primo rapporto sessuale. Come le loro madri, con questo evento prendono parte attiva alla vita del
quartiere. Hanno le telecamere rivolte verso di loro, i fotografi, tutti sembrano esistere per loro. Molte di queste ragazze si sposeranno tra non molto con camorristi, di alto o infimo grado. Spacciatori o imprenditori. Killer o commercialisti. Molte di loro avranno i figli ammazzati e faranno la fila al carcere di Poggioreale per portare notizie e soldi ai mariti in galera. Ora però sono solo bambine  nero, senza dimenticare i pantaloni a vita bassa e i perizoma. È un funerale, ma sono vestite in modo accurato. Perfetto. Piangono un'amica, sapendo che questa morte le renderà donne.

Nel blocco ,compatto del consenso di pubblico e di critica non mancano così delle incrinature: dalle obiezioni in merito alla verità dei fatti narrati mosse con rabbia da tanti giovani di Secondigliano alle obiezioni di tipo metodologico di Pascale. E arriviamo a Pascale. Reportage narrativo di deciso taglio sociologico e antropologico è La città  distratta In questa fortunata opera prima lo scrittore Iraccia il suo percorso entro una realtà costipata di gente, rumori, colori: tutti segnali da decriptare. Un percorso compiuto da un occhio investigativo già tarato sulla giusta distanza dalla realtà: «competenza», la definisce l'autore, uno sguardo preciso e neutro quanto basta e quanto basta «emotivo». Riverberino infatti sulla pagina due do-o ti preziose in Pascale: la pazienza di andare a conoscere minuziosamente la superficie visibile del reale; riproducendone ogni venatura, ogni imperfezione, ma poi l'irruenza immaginativa, il talento affabulatorio, il piacere del narrare. Il linguaggio si fa assolutamente neutro e referenziale, umilmente disponibile ad accogliere e mi mare linguaggi diversi dunque diverse prospettive; linguaggio che a malapena nasconde, dietro le quinte, un frenetico contrabbando di ammiccamenti, giudizi, ribaltamenti di senso, ironiche prese di distanza. Il procedere, sfacciatamente paratattico o piegato in ipotattiche volute, si presta bene al procedere di ragionamenti articolati nel contenuto, ma sempre informati al prioritario progetto (estetico) di chiarezza espositiva.

Quelli che vendono le sigarette di contrabbando sono i marocchini. E questi non sono (più) soliti mettere il «bancariello" con -le sigarette e sedercisi dietro. Rischierebbero una denuncia. Anonima però. A Caserta ci sono quelli che si lamentano, per-' ché quei marocchini vendono la merce senza rilasciare la fattura e così facendo, sigaretta dopo sigaretta, un pacchetto dopo l'altro, mille lire dopo mille lire, finisce che si fanno i soldi e non pagano le tasse e allora come dicono quelli che non sopportano i marocchini: stann' cchiù meglio 'e te e me e di tuu'è dueje miss'asieme.

Il resoconto di viaggio si rivela, in realtà, più che un resoconto di fatti, un resoconto di come questi fatti sono interpretati dai casertani. L'insaziabile voyerismo e la conseguente, urgente necessità affabulatoria con cui far lievitare ciò che osserva hanno poi condotto Pascale - forse anche su incentivo editoriale - a non abbandonare la ricetta, magari modificando, più o meno sensibilmente, il rapporto tra il gradiente puramente narrativo e quello cronachistico.' Nasce da queste premesse Non è per cattiveria. Confessioni di un viaggiatore pigro)8, personalissimo, eppure verificabile, itinerario nei meandri dì un Molise che s,i propone quale sorta di anti-guida turistica proprio in virtù dell'unicità e dell'assoluta soggettività  ciascuna esperienza di' viaggio. Come sempre, leggendo Pascale, sorge a tratti  sospetto di un percorso metanarrativo che scorra al di sotto del terreno del reportage. Come non pensare, ad esempio, che alluda alla letteratura, al problema del realismo, della verità persino, quando, con esibita onestà avverte:

tutto questo, naturalmente, non mi impedisce di viaggiare e di compilare la mia personale mappa. Ma pretendere che questa mia mappa sia universale, risolutiva, obiettiva è una di 'quelle sciocchezze a cui non voglio neppure stare a pensare.

Il meccanismo è ancora più evidente nèlla dichiarazione che segue: la consapevolezza della propria «cifra» e della «misura» a sé più congeniale permette a Pascale di indicare oggetto e prospettiva con precisione e già prima di intraprendere il percorso di conoscenza ma 'anche di rappresentazione:

I campeggiatori sono così concentrati da essere incapaci di alzare la testa per il tempo della marcia. Assomigliano ai portatori sherpa: tutto metodo e concentrazione per raggiungere la cima. Un altro obbligo che, nella mia vita, non vorrei adempiere.

Quello della cima da conquistare, dico [ ... ]. È inutile che vaga troppo in là, perché non riuscirei a descriver nulla; in quel caso il mio istinto da cacciatore funzionerebbe poco e ben presto perderei la fantasia.

Referto e riflessione obiettività e soggettività si passano di continuo il «testimone» - èi1 caso di dirlo - nei romanzi, nei racconti, nei reportage di Pasca1e, che ha fatto della digressione una sorta di personale stilema.

a patto che le mie meditazioni sul passato e sul futuro, i miei ricordi e i miei stati d'animo non siano annullati dal viaggio, dalla cima o dal traguardo da raggiungere. Sono uomo da pausa, " non da arrivo. [ ... ] Preferisco quando i miei occhi si rivoltano a guardare il fondo del mio animo, le braccia si stancano e allora dico a me stesso: non ce la faccio più, quasi quasi mi fermo un momento.

Fino a che la poetica affiora in superficie e si dichiara tale: la competenza - parola chiave di questo scrittore - è l'unico antiscivolo per eludere il rischio dello stereotipo, già puntualmente demistificato nei titoli dei capito1etti che alludono a vieti modi di dire: «Non è per cattiveria»; «Non si mangia più come una volta»; «È tutta un'altra cosa».

Anche adesso, per questo libro, è stato così. Avrei dovuto assecondare la linea dell'editore, scrivere un reportage sul Sud Italia. Ragionato e analitico, perché basta con queste mappe astratte del Sud [ ... ]. C'è infatti bisogno di precisione. Così m'aveva detto, giustamente, l'editore. Eppure la mattina, poco prima di cominciare il viaggio. Ecco la mia idiosincrasia [ ... ]. Andare in luoghi a me (parzialmente) ignoti, provare a raccontarli col rischio poi, di abbandonarmi a descrizioni di comodo o celebrare immaginari già definiti [ ... ]. Mi tocca, dunque, per poter guardare quel che vedo, scavare nella mia labile dimensione psichica. Non spaventarmi se il percorso è ondivago e divagatorio, perché, in pratica, tutte le storie sono surrogati di un'unica storia che fa da matrice, più viva e palpitante e per questo naturalmente più nascosta.

Il discorso ci indirizza verso un altro nodo generativo della produzione pasca1iana: l'avversione per ogni immagine «retoricamente» costruita ovvero edulcorata, falsata. Il Molise di Pasca1e si mostra per una terra dove le cose non si trasformano, magicamente, in immagini letterarie non appena vengano nominate: le vacche - ché tale è il termine corretto con cui designar1e - restano vacche e non diventano le più poetiche che si aggirano nel nostro immmag1nario «incompetente» e di chiara derivazione mediatica, pubblicitaria. La realtà dei pascoli mo1isani non è quella

di Hedi e ancora prima della mucca Carolina. Com'era diverso l'immaginario dalla realtà. [ ... ] fu una lezione dura, che non mi ha fatto mai apprezzare' del tutto gli scrittori cannibali, troppo legati al gergo dei fumetti, troppo vicini all'uso di quella parola: mucca.


Pasca1e si spinge oltre, paragonando l'istintivo procedere ondivago delle vacche al suo procedere nella conoscenza e nel racconto della realtà. Cosa c'entrano con le vacche una dichiarazione di metodo e un giudizio sulla narrativa cannibale? Ma questo è Pasca1e: l'accostamento è tutt'altro che incongruo. La fluidità linguistica nasce infatti da una meticolosa, gaddiana, scelta termino10gica, che riisponda solo al requisito di aderenza al dato distinguendoo10 in ciò dalla sperimentazione linguistica dei cannibali. È che, per Pasca1e, il metodo è il vero oggetto della narrazione. La sua costante verifica, parallela alla sua applicazione, lo costringe a giocare con sapiente e leggera schizofrenia su cl ue livelli, entrambi rispettati: il racconto della realtà e il Il1c~odo che informa ~ dunque consente tale racconto, narrazione e metanarrazione.
E prosegue sulla linea dello smantellamento delle immagini retoricamente falsificate, anzi, da questo proposito prende slancio, il pamphlet Scienza e sentimento)", viaggio che Pascale compie, ma soprattutto ci fa compie««re, all'interno del mondo agricolo: dei prodotti biologia e di quelli geneticamente modificati, delle produzioni industriali e di quelle a gestione familiare. Semplificando un po', la questione centrale potrebbe essere: è giusto rimpiangere i prodotti agricoli di un tempo? A fronte degli indiscutibili «metodi naturali» ma dell'altrettanto indiscutibile minore produzione, c'erano davvero una qualità superiore e adeguate igiene e profilassi? Il tè ma - di cui l'autore, per carità, mostra una specifica competenza e su cui esercita sapientemente la sua consueta ironia, sino a sconfinare nella più gustosa comicità - è in effetti un'eccellente esemplificazione di un problema che pungola sempre di più Pascale: la vacca va chiamata vacca e non mucca solo per ingentilirla e meglio gestirla all'interno del discorso. Fuor di metafora: Scienza e sentimento è l'ennesimo attacco di Pascale alla falsificazione retorica della realtà, l'ennesima necessità di ripensare il rapporto tra verità e stile, tra il dato e la sua messa in forma estetica, il suo renderlo raccontabile.
Poco prima della pubblicazione di Scienza e sentimento avevamo già avuto un preciso sintomo dell'acuirsi del problema in Pasca1e:' si allude qui all'intervento dal titolo Il responsabile dello stile, racchiuso nel volume miscellaneo Il corpo e il sangue d'Italia. Otto inchieste da un paese sconosciuto, raccolta di resoconti e riflessioni di «viaggi» di otto scrittori addentratisi nelle pieghe geografiche e ideologiche di un «paese sconosciuto»40. La tesi di Pascale nasce dall'insofferenza verso chi si autoinveste dei ruoli di testimone e portavoce del dolore e del disagio altrui: la rap,presentazione «non competente» che ne dà sarà sempre in odor di retorica, perché mirata a suscitare atraverso gli strumenti retorici lo sdegno dell'uditorio - magari per lodevoli fini umanitari - e dunque caricata nelle tinte e nei toni. Esemplare in tal sepso il «patto di disoccupazione creativa» che gli avrebbe proposto Mustafà, un amico senegalese: «disoccupatevi di noi, per carità, siamo amici, andiamo anche a bere insieme, ci raccontiamo i fatti, ma non provate a rappresentare al nostro posto i medesimi fatti, non metteteli in scena». Posizione che, metabolizzaata da Pascale, diventa: «Oggi volta che volete raccontare un posto dove non siete mai stati o che vi interessa sol~ per ideologia, riempite il vuoto di conoscenza con la retorica simbolica»'". Di qui, attraverso un progredire e complicarsi del tema per tasselli di citazioni e riflessioni, Pascale ci sottopone le sue forti perplessità circa le modalità di trattanmento del dolore scelte da Saviano in Camorra: ovvèro circa lo «stile» di Camorra. La scelta di uno stile metaforico, allusivo, di forte impatto emotivo qual è quello attraverso cui Saviano racconta di una Campania sotto il giogo camorristico, coincide con lo stile - fortemente allusivo e necessariamente ambiguo - della stessa camorra, Insomma ricompare - oggi come negli anni sessanta genza di distinguersi, dissociarsi dal potere dando vita ad alternative linguistico formali antagoniste rispetto al linguaggio egemone con cui non ci si vuole compror,nettere. Il problema è che in questo caso il linguaggio allusivo e metaforico di Saviano, ben prima che della camorra, è proprio della letteratura e forse, l'oggetto principale della narrazione non fosse il Sistema, l'accusa di «collusione col linguaggio del potere» non gli sarebbe stata mossa. Non solo: ci sono altre due contestazioni che Pascale muove a Saviano. La prima riguarda l'estetizzazione del dolore, la seconda il rapporto verità/finzione: due questioni, come si vede, da secoli dibattute in sede filosofica 'prima che letteraria. La prima è quella, che genera maggiori rischi di fraintendimento terminologica ed è stata ampiamente dibattuta in occasione di una tavola rootonda organizzata dallo stesso Pascale e da Andrea Cortellessa sul tema della Responsabilità dello stile42• Durante il dibattito, spesso si è confuso il procedimento di «spettacolarizzazione» (nella fattispecie del dolore) con quello di «estetizzazione». La spettacolarizzazione della realtà è pratica consolidata nel reportage anni trenta negli Stati Uniti, come pure, più tardi, nella televisione di Stato italiana che negli anni ottanta subisce la concorrenza delle più spregiudicate reti commerciali4J: da quel momento la spettacolarizzazione del dolore - nei reality show come nei servizi dei telegiornali, risse e pianti e l'indugiare dello zoom sulla lacrima o sull'a traccia di sangue nel perimetro del piccolo schermo livelli imbarazzanti. Ma una cosa è la spettacolarizzazione sfruttata per accrescere l'audience attraverso la stimolazione di sensazioni forti: tecnica da sempre sfruttata, persino' nel medioevo, quando pér richiamare fedeli e riaccendere in loro una fede ormai sbiaditi si Il,1ettevano in scena all'interno della chiesa i momenti salienti della vita di Cristo o dei
santi; riuscendo a infiammare l'uditorio con punte di altissima tensione emotiva. Altra cosa è l'estetizzazione che, pure, nel linguaggio corrente, viene spesso assimilata alla spettacolarizzazione mirata. Non a caso, entrambi gli studiosi di estetica intervenuti nel dibattito, Giuseppe Di Giacomo e Pietro Montani, mostravano,come la questione si risolvesse. semplicemente riportandola entro i suoi confini: l'estetizzazione di un dato reale, se considerata nella sua specifica accezione di messa in forma estetica; entrata in regime estetico o formalizzazione che dir si voglia, è il procedimento attraverso cui a questo stesso dato viene data forma comprensibile, procedimento che lo rende, dunque, esprimibile, comunicabile, che lo inserisce, inoltre, in un tessuto, in un contesto che gli attribuisca senso e quel preciso senso. Così si può distinguere tra documento - di per sé non significante né darsi, attraverso cui dirsi. E in fondo aderiva alla medesima prospettiva Walter Siti quando proponeva un binomio che opponesse il «denso» della letteratura al «disarticolato» del dato, del materiale. bruto, privo di un'articolazione coerente, di un montaggio delle parti ed entro un continuum dotato di senso: privo, insomma, di una messa in forma estetica.
Quest' ottica salverebbe Saviano già da due accuse: quella di rappresentare il reale attraverso il linguaggio evocativo della letteratura incidentalmente, poi, anche della camorra) sia quella di estetizzare - nell'accezione specifica - la realtà, anche quella più dolorosa". Rimane però la questione del rapporto - e non solo espresso in percentuale - tra verità finzione nel reportage di Saviano e nel reportage narrativo in genere. A questo proposito, Pascale mette a duro confronto .due dimensioni: quella della ficction e quella della realtà. Due «voci», dunque: quella dell'autore che, pur calandosi nella realtà raccontata attraverrso la figura del narratore, non ne è sempre testimonie, diiretto ma spesso ne viene a conoscenza per interposta persona o attraverso documenti che, appunto, «estetizza», e quella di una giornalista free-lance, Matilde Andolfo, che in. una lettera a un sito internet (ilRICHIAMO.ORG) confuta il ritratto che Saviano ci dà della giovane Annalisa, colpita per errore da un proiettile destinato ad altri. Nella lettera pubblicata a breve distanza da Gomorra, e che si pone coome uno sfogo e una condanna nei confronti della libertà inventiva che si è presa Saviano, -fa ragazza ristabilisce con esattezza alcune verità: dagli abiti indossati dalla vittima al momento dell'uccisione al suo reale aspetto fisico, sino alla contestazione della prospettiva polemica - ma forse so~ lo problematica - assunta da Saviano nel racconto del funerale in cui il pianto straziante delle donne è ricondotto - è vero, con sguardo spaventosamente lucido - alle sue matrici culturali. Queste le precisazioni. In merito al funerale: lo scrittore fa squillare il telefono cellulare della vittima posto dalle amiche sul feretro: nella realtà resta muto, perché spento; nel racconto di Saviano, durante la processione le amiche della vittima sfilano distrutte da un dolore che non ha però impedito loro - commenta il narratore con spietata lucidità - di ricordarsi di indossare il perizoma alla moda sotto i jeans a vita bassa. Proveremo fra un istante a proporre soluzioni anche per questo secondo problema, non prima, però, di 'segnalare come le accuse di «impietosità» nei confronti delle donne disperate e delle amiche attente al look sianò ingiuste: Saviano, qui, sembra dia per scontate l'adesione emotiva, la compassione provocata dalla morte assurda nella sua gratuità ,di una giovane e innocente vittima; per concentrarsi, piutosto, sull' analisi di quella che gli appare - questa si - come una pietistica ed enfatica esibizione del dolore. Le puntuali, crude, taglienti considerazioni di Saviano sarebbero allora un modo di eludere proprio la vieta spettacolarizzazione del dolore attraverso la scelta di posizionarsi fuori e di lato rispetto alla drammaticità e alla dramatizzazione della morte di Annalisa.
E arriviamo al nodo centrale. L'ibridazione tra finzionalità e verità realizzata già dalla televisione degli anni ottanta - nell'informazione-spettacolo (info-entertainment), nei programmi «contenitore», nei reality-show - è oggi sempre più caratterizzante anche la letteratura ed è ben testimoniata dai reportage narrativi e dalla commistione tra immaginario e tecniche di «ripresa» del cinema e della narrativa. Tale ibridazione può determinare una minore sicurezza del lettore nella decodificazione del «testo» ,che ha di fronte: sempre più difficile è discernere ciò che è realinente accaduto da ciò che è frutto di elaborazione fantastica della realtà, e questo proporzionalmente a quanto è ambiguo lo statut9 del testo la «colpa» di Saviano è semplicemente quella di aver mantenuto una non necessaria ambiguità nel caso di Annalisa. Ad esempio, quando Saviano racconta dell'incontro tra Gelsomina e Gennaro, dichiara esplicitamente e sin dall'inizio la natura finzionale, malgrado la plausibilità, dell'incontro stesso, la sua «tipicità»:

Se mi fermo e prendo fiato riesco facilmente a immaginare [corsivo nostro] il loro incontro, anche se non conosci neanche il tratto dei visi. Si saranno conosciuti nel solito bar, i maledetti bar meridionali di periferia attorno a cui gira come un vortice l'esistenza di tutti, ragazzini e vecchi novantenni catarrosi.
Nel caso di Annalisa,. invece, Saviano mescola finzione e realtà senza segnali che consentano al lettore d'inquadrare i dati entro una griglia che distingua nettamente la realtà dalla finzione: in questo caso la realtà legata a una persona realmente esistita e con precise caratteristiche da una realtà plausibilmente immaginata, magari da una realtà più gramscianamente «tipica», più universale, addirittura «più vera del vero». L'adolescente nel rigoglio della sua bellezza, vestita in modo candidamente sensuale, è figura felicissima letterariamente e rispondente statisticamente a un maggior numero di adolescenti napoletane per abbigliamento e comportamenti: ma non corrisponde alla reale identità della bambina appena sviluppata e più tenera e, goffa di come la descriva Saviano. Questo processo di «estetizzazione» sarebbe stato assolutamente legittimo - e in questo diamo ragione a Pascale - se solo Saviano avesse creato un personaggio sulla falsariga di Annalisa, o se, mettendo in scena la vera Annalisa, avesse suggerito, come altrove ha saputo fare, la funzionalità di alcuni passaggi.
Nascono invece dall' esperienza giornalistica, di Roberto Alajmo, testi come Il repertorio dei pazzi della città di Palermo (1991) e Notizia del disastro (2001)44. n tragico evento raccontato in Notiziu del disastro attraverso la tecnica del repoitage narrativo è il disastro aereo di Punta Raisi in cui morirono 129 persone. Il fatto è rico~.truito dappri~1a entro la prospettiva soggettiva e parziale del personaggio di cui, di volta in volta, vengono scrupolosamente annotati o verosimilmente immaginati pensieri, gesti, azioni, a partire dai dati reali, ovvero dalle testimonianze dei superstiti. L'uso della terza persona, del passato remoto, i vivaci e fedeli dialoghi accolti entro l'italiano medio, colloquiale, 4ella pacata voce narrante, denunciano subito l'impianto narrativo. L'ibridazione tra oggettività della cronaca e capacità immaginativa della letteratura permette così ancora una volta di raccontare «di come morirono e di come vissero centoventinove persone». E anche qui sono i gesti minimi, gli oggetti rinvenuti, ,una battuta scambiata col vicino di posto, una piccola preoccupazione, a ridare colore, spessore ai nomi grigi accatastati sulle pagine di tutti i quotidiani. Le singole persone protagoniste del disastro vengono infatti contestualizzate nel loro habitat, si ripercorre la loro storia all'interno della famiglia e la storia della loro famiglia. Quando, solo alla fine, si cerca di approssimarsi, alla verità, alla più plausibile versione, alla spiegazione di quell'evento tragco, il registro si fa nettamente referenziale, l'immaginazione letteraria cede il posto alla documentazione: dati della strumentazione di bordo, verbali di testimonianze e la registrazione nel voice recorder degli scambi tra i due piloti e con il radar.
Opera singolarissima e affascinante, certo di difficile collocazione, è Il repertorio dei pazzi della città di Palermo, sorta di viaggio nell'altro volto di Palermo, meglio, nel volto altro della città. Col reportage condivide il percorso conoscitivo, l'esplorazione verticale del luogo, al di sotto della superficie, la carrellata di luoghi visti con «1'occhio sinistro». Ma l'esibita volontà di sospendere ogni giudizio, la rinuncia a ordinare, rintracciare o tracciare una logicità nel percorso fa sì che il viaggio di Alajlo proceda per frammenti, mimando, semmai, la forma di conoscenza e di percezione della realtà tipicamente novecentesca. Disegna così un arabesco, in cui Palermo, vera protagonista, esibisce mille volti diversi tra loro e diversi da quello più consueto, schegge impazzite di uno specchio esploso, uno specchio che ne rifletteva un'ingannevole figura omogenea. Se la l1arrazione in terza persona impedisce l'adesione alla prospettiva autre dei pazzi che sfilano nel Repertorio, prospettiva da sempre feconda di illuminanti letture alternative, la sua neutralità riesce a conferire statuto di logici- . tà alla follia, o meglio, alle logiche alternative che governano le azioni di questi pazzi. Teatro e protagonista, la città di Palermo, di cui ogni folle ha una propria versione: la città si colora, si anima;- i suoi luoghi, sempre precisamente nominati, si accendono di virtualità nascoste, di significaazioni riposte. O solo, felicemente e liberaménte, immaginate. Perché l'assoluta gratuità di questo repertorio, che come un'allegr'a cantilena passa per le strade di Palermo generando scompiglio, è proprio ciò che ne garantisce il valore poetico.

3, Il romanzo tra storta, sociologia e noir.

Aggredito in casa dall'immediatezza comunicativa e rappresentativa del reportage narrativo, il genere romanzo, dopo il momento d'oro vissuto tra gli anni ottanta e novanta, pare stia riattraversando una delle sue cicliche crisi.
Se c'è chi gli ricon6sce ancora le sue specifiche «competenze» -la capacità di ritrarre lo spirito del tempo e la commplessità del reale -, c'è chi tenta di detronizzarlo indicandone quale sostituto (temporaneo?) il genere ibrido del reeportage narrativo; se c'è chi invoca un romanzo capace di proporre,un'idea «forte» della realtà - o di rappresentare la realtà informata a un «pensiero forte» -, c'è chi invece destituisce la letteratura di qualunque statuto rappresentativo, dìsciolto nel gioco e nel pensiero debole postmoderno; chi intravede una nuova virata verso la narrazione pure sull'onda di una diffusa esigenza di raccontare la realtà dei fatti, e chi teorizza addirittura un ritorno al romanzo storico c persino all' epopea.
Ora, anticipando un po' i risultati, potremmo dire che i narratori del nuovo Sud già negli anni novanta tendono ad attestarsi St.l posizioni che danno ragione a chi scorge una volontà di tornare alla narrazione dei fatti, una necessità di inventare sopratutto nell'accezione etnologica di invenio: trovare) e raccontare storie. Sebbene, poi, l'analisi di molte opere riveli come sempre più spesso, al di sotto del lesto, scorra una irrinunciabile vena metanarrativa, che dà 'onta, passo dopo passo, del cammino sperimentale di scrittori alla ricerca di efficaci e meno compromessi strumenti di rappresentazione. Sono molti, casi, quelli che ci mentano nel genere romanzo, verificandone la disponibili all'ibridazione a vari livelli. I più si dirigono verso l'ampio e variegato affresco sociale e antropologico, adottando Lino sguardo sociologico,' magari spostando appena, di ~oll1:1 i n volta, l'ago della bilancia o verso la narrativa o verso h cronaca: Pascale, RQmano, Piccolo, Cilento, Cappelli, Argentina, Alajmo, Fois, Soriga. Alcuni scelgono il realismo fantastico con coloriture favolistiche o il grottesco in funzione demistificante, tra Ortese e Gadda, per intenderci: ne sono eccellenti esempi Montesano, Cilento, Braucci. Altri sfiorano il noir provando a rappresentare le dinamiche psicologiche, ma soprattutto sociali, che favoriscono l'insinuarsi del Male, colto nella sua declinazione più dimessa di malessere sociale individuato nella sfera del privato: pensiamo De Silva, Alajmo, Pascale. Non mancano, poi, le rivisitazioni del romanzo storico, della memorialistica, del romanzo di formazi0ne legate alla ricostruzione di un'identità personale che in vari modi intersechi ed esprima l'identità della propria terra o si concentri esclusivamente su questa (Cappelli, Abate, Atzeni, Fois).
La terza opzione, che privilegia le ambientazioni nel passato come radice del presente, è relativamente poco frequentata dai carupani e dai pugliesi, mentre ne troviamo diverse e originali versioni nella narrativa sarda. Tra i nuovi romanzieri del Sud che hanno provato a rileggere il passato tenendo sempre un occhio fisso sul presente ricordiamo almeno Gaetano Cappelli, con Parenti lontani4S, Carrmine Abate con La moto di Scanderbeg e Tra due mari46, Sergio Atzeni con Passavamo sulla terra leggeri. Si tratta di romanzi che focalizzano l'attenzione sul passato anche per scoprire o chiarire le ragioni profonde di un presente sempre, però, alluso, mai direttamente rappresentato.
Pare invece concentrarsi soprattutto sulle trasformazioni intervenute in quei luoghi a metà fra antico e moderno che sono i centri urbani del Meridione d'Italia, il cosiddetto «romanzo sociologico» del Sud. La definizione, ricorrente nelle recensioni dedicate a narratori del nuovo Sud, indica una precisa scelta di prospettiva, quella sociologica, che analizza il proprio oggetto muovendo dal presupposto che la cultura urbana sviluppi tratti assolutamente peculiari rispetto ad altre culture. Tra questi tratti, il più frequente e incisivo pare sia l'inquietante o stimolante esposizione all' Altro: come ci illustra Sennett, ciò che caratterizza il nostro modo di costruire la città è la ghettizzazione delle differenze, implicitamente considerate minacciose per la collettività più che stimolanti. Ciò che costruiamo nel nostro regno urbano sono quindi dei luoghi anonimi e neutralizzanti, degli spazi, che rimuovono la minaccia di contatto sociale: strade racchiuse da pareti 'di cristallo, autostrade che tagliano fuori sobborghi poveti dal resto 'della città, immensi quartieeri dormitorio'''.

Uscire fuori da sé, esporsi all'incontro con l'Altro è invece, per Sennett, uno degli effetti positivi del vivere urbano. Almeno finché non prende il sopravvento quell' ecologia della paura di cui parla Mike Davis, quella meravigliosa casualità e imprevedibilità dell'accadere nella dimensione urbana che si trasforma in spaventoso rischio d'imbattersi nell' Altro da sé. Tutti temi ben rappresentati, come si vedrà, nelle pagine dei narratori del nuovo Sud.
Forte dell' esperienza della narrativa anni novanta, la scelta della prospettiva sociologica in molti casi comporta l'attrazione verso un oggetto specifico, su cui questa narraaLi va tanto si è esercitata: la dimensione giovanile.




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