venerdì 13 gennaio 2012

tronconi libro

I PARTITI ETNOREGIONALISTI
Filippo Tronconi

INTRODUZIONE
Fino a non molti anni fa, le mobilitazioni etnoregionaliste erano considerate un aspetto residuale dello scenario politico europeo e immancabilmente catalogate sul lato dei “perdenti del gioco storico”. In effetti, ad un osservatore degli anni cinquanta o sessanta doveva apparire chiaro che nelle società industriali le fratture sociali funzionali avevano ormai conquistato il centro della ltta politica a tutto discapito di quelle territoriali e identitarie. Queste ultime tenevano però il campo nel vasto “sud del mondo”, in cui negli stessi anni i movimenti di liberazione nazionale facevano della costruzione della nazione il proprio obiettivo fondamentale. Si lavorava così una visione deterministica dello sviluppo politico, per cui le (arcaiche) rivendicazioni etniche e nazionaliste dovevano a un certo punto cedere il passo alle (moderne) lotte di classe, parallelamente con la costruzione di una economia di tipo industriale e con il definitivo imporsi dello stato nazionale come forma ultima di organizzazione politica.
All’inizio del XXI secolo pochi osservatori sarebbero disposti a sottoscrivere un’analisi di questo tipo. Le fratture territoriali non solo non sono scomparse, ma hanno guadagnato visibilità e in molti casi sono tornate a “vincere” nel gioco della Storia, e in quanto vincitrici sono adesso accompagnate da un rinnovato interesse degli scienziati politici e sociali. Non mi riferisco solo alle vicende drammatiche che hanno accompagnato la scomparsa dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia. Anche l’Europa occidentale ha conosciuto una rinascita di numerose “questioni nazionali”, che hanno contribuito a ridisegnare l’organizzazione territoriale del potere e la distribuzione delle risorse fra i diversi livelli di governo all’interno degli stati. Il declino delle mobilitazioni territoriali avvenuto all’indomani della fine della seconda guerra mondiale appare oggi una parentesi nella storia europea più che una tendenza irreversibile.
Per rendersi conto della portata del fenomeno basta dare un’occhiata ai maggiori cambiamenti istituzionali avvenuti negli stati europei nell’ultimo quarto di secolo: il Belgio ha adottato una costituzione federale nel 1993, culmine di un processo di riforma istituzionale avviato negli anni sessanta; in Spagna la tensione fra i sostenitori dello stato unitario e le forze autonomiste non ha di fatto mai conosciuto interruzioni; in Italia la riforma del Titolo V della costituzione costituisce un approdo, probabilmente  non definitivo, di almeno dieci anni di dibattito sul federalismo; nel Regno Unito la devolution ha portato alla creazione di istituzioni autonome in Scozia e Galles, e la recente vittoria elettorale dei nazionalisti scozzesi può preludere a nuove e più radicali richieste di autogoverno; in Francia, paese centralista per eccellenza, le regioni hanno assemblee elettive fin da metà degli anni ottanta, e dal 1991 alla Corsica è riconosciuto uno status speciale che le garantisce benefici fiscali e competenze aggiuntive su istruzione, turismo, agricoltura, ambiente.
Ciò che non sempre viene sottolineato è il legame che unisce queste riforme istituzionali al rafforzamento dei rispettivi partiti regionalisti, che ha dato origine – qui e altrove – ad un fenomeno di proliferazione per imitazione, ovvero alla nascita o alla rivitalizzazione di movimenti e partiti analoghi in regioni diverse dei rispettivi stati (il Galles, in Gran Bretagna, la Bretagna in Francia, la Vallonia in belgio e cos’ via), ma anche a forme di sostegno reciproco trans-nazionale, in cui i successi di un movimento sono adottati come simbolo e legittimaizione per gli obiettivi di un altro. Né è un esempio evidente come il termine devolution sia entrato nel lessico politico italiano sull’onda del successo referendario in Scozia, importato dalla Lega Nord quando “successione” apparriva troppo estremo per un partito che si candidava a governare il paese.
Dal punto di vista elettorale i partiti etnoregionalisti sono di solito partiti piccoli, raramente decisivi per gli equilbri politici a livello nazionale. Tuttavia anche sotto questo aspetto la loro evoluzione presenta spesso punti di grande interesse. Laddove si potrebbe pensare che il voto etnico sia un elemento declinante e ormai marginale per le democrazie dei paesi occidentali sviluppati, i partiti che si fanno carico di rappresentare le identità territoriali nell’arena politica rivelano a volte una vitalità e una capacità di adattamento e persistenza davvero sorprendenti.
Non è casuale lo stupore di molti osservatori di fronte il cosiddetto “revival etnico” e ai successi elettorali di alcuni partiti etnoregionalisti, e non è un caso che una reazione comune di fronte a tale fenomeno sia il fastidio, il rifiuto di comprenderne le cause profonde. Il saggio da cui è tratta la citazione in apertura ha un titolo molto significativo in proposito: Harbinger, Fossil or Fleabile? “Regionalism” and the Weast European Party Mosaic. Vi si riassume bene la tendenza a trattare la questione delle identità territoriali e dei partiti che ne sono espressione come una tessera fuori posto nel mosaico della politica europea: coloro ce gli danno maggior credito tendono a considerare questi partiti come precursori di un nuovo (e generalemente temuto) disordine etnico, gli altri tendono invece a considerarli come un residuo del passato in via di estinzione o come un fenomeno persistente centrale sui tradizionali assi destra-sinistra o liberalismo-socialismo, ma tutto sommato trascurabile, sia in termini numerici che in termini di significato politico.
La dimensione centro-periferia del conflitto politico, dunque, non solo non è tramontata ma continua a costituire un tema fondamentale nel dibattito politico europeo e una sfida attuale alla forma organizzativa dello stato-nazione. La rilevanza dei partiti regionalisti all’interno dei rispettivi sistemi politci peraltro va oltre al puro e semplice peso elettorale, che pure in alcuni casi non è affatto trascurabile, in quanto mette in discussione le basi stesse della legittimità  dello Stato, contrapponendo a questo il concetto di comunità nazionale. Linz riferendosi soprattutto alle transizioni democratiche dell’europa orientale, mette in luce come

Sul piano logico gli accordi sul carattere dello Stato vengono prima della creazione di istituzioni democratiche. La definizione autentica di democrazia comporta l’accordo dei cittadini viventi in un determinato territorio sulle procedure per creare un governo che possa legittimamente reclamare la loro obbedienza. Perciò, se un consistente gruppo di cittadini non ritiene legittimi  i richiami all’obbedienza, in quanto essi non vogliono fara parte dell’unità politica, per quanto democraticamente costituita, ciò rappresenta un serio problema per la transizione alla democrazia e problemi ancor più seri per il consolidamento democratico.

In altre parole non può esistere uno stato democratico dove non c’è accordo sulla legittimità dello stato stesso e dei suoi confini, e questo vale solo per le democrazie “nuove” dell’est europeo, ma anche per quelle occidentali consolidate. E’ evidente che in Europa occidentale i conflitti derivanti dalla convivenza di diversi gruppi nazionali hanno assunto forme meno drammatiche ripetto a quanto avvenuto ad esempio in Jugoslavia e nelle repubbliche dell’ex Unione Sovietica (anche se non bisogna dimenticare i casi dell’Irlanda del Nord e del Paese Basco), ma rimane comunque il fatto che i partiti etnoregionalisti sollevano questioni potenzialmente esplosive per l’organizzazione e per la sopravvivenza stessa dello stato. Questa è, credo, una delle principali ragioni per cui i diversi attori politici si dimostrano tanto sensibili alle richieste di tali partiti e dei loro elettori e una possibile chiave di lettura per i successi di policy da essi ottenuti in diversi paesi.
Se non ci sono ormai molti dubbi sulla rilevanza dell’ogetto di studio – il conflitto lungo la linea di frattura centro-periferia e i partiti che ne sono più diretta espressione – rimane aperta la questione del metodo.
L’approccio utilizzato più frequentemente per la ricerca sui partiti etnoregionalisti è lo studio di caso. Soprattutto sui maggiori partiti (quello scozzese e quelli baschi e catalani, ma anche, di recente, la Lega Nord e il Vlaams Belang belga) la letteratura a volte è imponente, specialmente se, oltre agli scritti strettamente politologici, si prendono in considerazione i lavori di altre discipline, in primo luogo la storia e la sociologia. Anche le ricerche comparate, decisamente meno numerose, si limitano generalmente a considerare pochi casi alla volta, di solito non più di due-tre. I (pochi) lavori più ambiziosi che vanno oltre queste cifre, sono normalmente costituiti da alcuni capitoli dedicati ai singoli partit, mentre la comparazione vera e propria è relegata all’introduzione e alle conclusioni.
Queste tipo di ricerche, che potremmo chiamare comparate intensive , hanno ovviamente il pregio di descrivere in dettaglio le caratteristiche dei partiti in questione, spesso considerandone molteplici aspetti, dall’evoluzione storica al tipo di membership dalla caratteristiche sociopolitiche degli elettori alla leadership, dalla comparazione con le altre forze politiche agli orientamenti ideologici.
Il rovescio della medaglia è altrettanto ovvio: lo studio di caso per sua natura è portato ad enfatizzare le specificità di ciascun partito, le condizioni uniche e irripetibili che ne hanno consentito la nascita e l’evoluzione, quel particolare tipo di evoluzione. Nel nostro caso, per di più, l’oggetto di studio è di per se fondato su una specificità, reale o immaginata, quale una tradizione storica o una serie di tratti culturali distintivi rispetto alle comunità circostanti, che sia alla base della legittimità e della proposta del partito. Date queste premesse lo studio di caso può portare facilmente a “seguire” il discorso politico del partito senza seriamente metterlo in discussione, può portare a perdere di vista il quadro generale, dato dal raffronto con partiti analoghi ma situati in altri contesti geografici e sociopolitici. Può sfuggire così che le specifità che caratterizzano il singolo partito sono in verità comuni a molte altre esperienze e perciò, almeno per certi versi, generalizzabili o comunque comparabili.
La strada alternativa, che cercherò di proseguire in questo lavoro, è per l’appunto quella della comparazione estensiva, ovvero basata su un numero di casi relativamente ampio e volta in primo luogo all’individuazione delle regolarità e delle differenze che emergono dal confronto fra i partiti. E’ una strada, che io sappia, mai tentata prima, anche a causa delle numerose difficoltà poste dalla raccolta di dati cross-nazionali a livello regionale. Questo approccio costringe spesso ad uno sguardo più superficiale sulle dinamiche dei singoli partiti, sulla complessità degli intrecci storici, sociali, culturali che determinano le diverse traiettorie ideologiche e i diversi modi di politicizzare la frattura centro-periferia; costringe, in breve, a perdere di vista ciò che normalmente è al centro delle ricerche sui partiti etnoregionalisti.
I vantaggi di una comparazione estensiva sono però altrettanto evidenti. Allargare la ricerca ad un numero più ampio di partiti permette in primo luogo una maggiore affidabilità nella generalizzazione dei risultati, ovvero nella ricerca di fattori comuni che influenzano il maggiore o minore successo dei partiti in oggetto. Ma permette anche di distinguere modelli divergenti di successo e di insuccesso, di osservare le forme diverse che può assumere il conflitto lungo l’asse centro-periferia e se e come queste sono correlate a diversi tipi di relazioni economiche, politiche, culturali fra le regioni dei paesi europei.
In altre parole il disegno di ricerca che mi propongo di adottare può essere di aiuto nel perseguire due obiettivi distinti: il primo, di natura descrittiva, è quello di disegnare una mappa aggiornata dell’etnoregionalismo nell’Europa occidentale. Da questa discende l’esplicitazione di modelli diversi di regionalismo e di costruzione e politicizzazione dell’identità territoriale. Se alcuni partiti, si sosterrà nelle prossime pagine, sono i diretti e legittimi discendenti delle organizzazioni politiche nate lungo la frattura centro-periferia, altri, specie quelli nati o rinati in epoca più recente, sono pronti ad abbandonare la “nicchia” etnica per cogliere nella struttura della competizione elettorale tutte le opportunità di portare la sfida su territori politici normalmente controllati dai partiti maggiori. Ne consegue una inusuale capacità di manovra e di adattamento tattico e strategico, e una serie di tentativi, più o meno efficaci, di sottrarre a quelli quote di elettorato sfiduciato e scontento. Si vuole sostenere, in altre parole, che i partiti etnoregionalisti svolgono (almeno in alcuni casi, in alcuni momenti) una funzione che va al di là della tutela dell’identità culturale periferica e che si sposta piuttosto sul versante della protesta e della sfida all’estabilishment dei partiti tradizionali.
Se questo è vero, e siamo al secondo obiettivo della ricerca, la spiegazione dell’esistenza e della performance elettorale dei partiti regionalisti deve andare oltre le tradizionali spiegazioni basate sulla presenza di gruppi nazionali separati e valutare in che modo la struttura della competizione politica influenza il successo della sfida.
Ricalcando gli obiettivi appena esposti, il libro è organizzato intorno a due sezioni distinte. Nella prima parte (capitoli 3-7) l’attenzione si concentrerà sul voto ai partiti etnoregionalisti e sulle sue determinanti. A ciascun gruppo di variabili (culturali, economiche, politiche) è dedicato un capitolo specifico, mentre l’ultimo capitolo riassume e integra questi risultati parziali in unico modello complessivo.

Parte prima
I PARTITI ETNOREGIONALISTI

Capitolo primo
I PARTITI ETNOREGIONALISTI: DOVE, QUANDO, QUANTI

Per quanto riguarda specificamente i partiti, in questo lavoro adotterò i termini etnoregionalista ed etnoregionalismo. Non è una scelta immune da critiche, come non lo sarebbe nessuna delle scelte alternative del termine regione e a quella, molto maggiore, del termine etnia. Tuttavia questa scelta, condivisa da alcuni autori influenti, ha il pregio di unire due aspetti essenziali del fenomeno in questione: il sentimento di appartenenza e di solidarietà verso una comunità contrassegnata da un qualche tipo di confini culturali,  a cui rimanda la radice di ethnos, e la concentrazione territoriale a livello sub statale. Questa definizione individua con sufficiente chiarezza (almeno nel panorama politico europeo occidentale) un tipo di partiti e con altrettanta chiarezza ne esclude altri, come mostra la tabella 1.1.
I partiti etnoregionalisti, per il modo in cui li ho appena definiti, corrispendono al I tipo della tabella e soltanto a questo, coniugando l’appello etnico alla concentrazione  territoriale regionale.


TAB. 1.2. La famiglia partitica etnoregionalista

STATO
REGIONE
SIGLA
PARTITO
TRADUZIONE ITALIANA
Belgio
Bruxelles
Fiandre

Vallonia
Fdf
Vb
Vu
Rw
Front Democratic des Francophones
Vlaams Belang (Vlaams Blok)
Volksunie
Parti Wallon (Rassemblement Wallon)
Fronte Democratico dei Francofoni
Interesse Fiammingo (Blocco Fiammingo)
Unione Popolare
Partito Vallone (Raggruppamento Vallone)
Finlandia
Finlandia sud
occidentale
Sfp
Svenska Folkpartiet – Ruotsalaimen
Kansanpuolue
Partito Popolare Svedese
Italia
Val d’Aosta
Alto Adige
Sardegna
Italia del nord
Uv
Svp
Psdaz
Ln
Unione Valdotaine
Sudtiroler  Volkspartei
Partito Sardo d’Azione
Lega Nord
Unione Valdostana
Partito Popolare Sudtirolese
Spagna
Galizia
Paese Basco





Aragona


Catalogna

Andalusia

Canarie
Bng
Ea
Ee
Hb

Pnv

Par

Cha
Ciu
Erc
Pa

Cc
Blocque Nactionalista Galero
Eusko Alkartasuna
Euskadiko Ezkerra
Harri Batasuna (Euskal Herritarrok; Batasuna)
Partito Nactionalista Vasco – Euzko Alderdi Jeltzalea
Partito Aragones (Partito Aragones Regionalista)
Chunta Aragonesista
Convergencia i Uniò
Esquerra Repubblicana de Catalunya
Partito Andalucista (Partito Socialista de Andalucia)
Coalicion Canaria (Agrupaciones Independientes de Canarias)
Blocco Nazionale Galiziano
Solidarietà Basca
Sinistra Basca
Unità Popolare (Noi Baschi, Unità)

Partito Nazionalista Basco

Partito Aragonese

Giunta Aragonese
Convergenza e Unione
Sinistra Repubblicana di Catalogna
Partito Andalusia (Partito Socialista di Andalusia)
Coalizione Canaria (Raggruppamenti indipendenti delle Canarie)
Regno Unito
Galles
Scozia
Irlanda del Nord
Pc
Snp
Sdlp
Sf
Plaid Cymru
Scottish National Party
Social Democratic and Labour Party
Sinn Fein
Partito del Galles
Partito Nazionalista Scozzese
Partito Socialdemocratico e Laburista
Noi Stessi


Capitolo secondo
I PARTITI ETNOREGIONALISTI NELLO SPAZIO POLITICO

1. Il voto ai partiti etnoregionalisti: forza e variabilità
Per alcuni partiti il periodo attuale rappresenta il massimo storico: sono partiti che hanno conosciuto negli anni ’90  un vero e proprio decollo elettorale, come il Bng, la Cha o il Vb o che comunque hanno aumentato il proprio bacino di consensi.

2. Posizione ideologica e radicalità nella richiesta di autogoverno
E’ il caso, ad esempio, dello Snp, che pur essendo favorevole al processo di devolution realizzato nel 1997 e ad un suo rafforzamento, non abbandona il fine ultimo di una Scozia indipendente. Analogamente l’Erc sostiene da sempre l’opzione indipendentista nel lungo periodo, magari collocandola all’interno di un vago progetto di federazione delle regioni europee, e ciononostante si colloca nel numero dei partiti democratici, ed ha partecipato in due occasioni al governo catalano, in coalizione con Ciu negli anni ottanta e con i partiti della sinistra (i socialisti catalani del Psc e i post-comunisti di Inciativa per Catalunya) dal 2003.

Al contrario, i partiti che dominano la scena politica della propria regione, e di conseguenza sono chiamati ad assumere responsabilità di governo a livello nei confronti dello stato centrale. E’ il caso della Svp, del Pnv, di Ln, per la quale i momenti di maggiore moderazione coincidono con i periodi di avvicinamento e di permanenza al governo nazionale (l’inizio degli anni novanta ed il periodo attuale), mentre le posizioni diventano chiaramente indipendentiste nei momenti in cui si colloca all’opposizione (1996).

4. I partiti etnoregionalisti fra governo e opposizione
Come si può notare circa metà dei partiti considerati ha avuto una o più esperienze di governo a livello nazionale (partecipando appieno alla coalizione o fornendo solo un appoggio esterno); più estesa invece la partecipazione ai governi regionali, quasi sempre sotto forma di partecipazione diretta, che riguarda 19 partiti su 24.

In tutti e tre i casi la partecipazione al governo nazionale ha comportato un pesante costo in termini elettorali, che ha indotto ben presto i partiti ad abbandonare la coalizione. Questo, peraltro, a dispetto di alcun sostanziali successi di policy, proprio della devoluzione di poteri da parte dello stato centrale.

Il sostegno esterno al governo è stato spesso utilizzato dai partiti etnoregionalisti spagnoli come strumento di pressione e di scambio per ottenere maggiori spazi di autonomia e maggiori risorse  a livello locale, in particolare attraverso modifiche del sistema di finanziamento delle Comunità Autonome. Lo stesso Pp, che in precedenza aveva contestato al Psoe l’eccessiva arrendevolezza verso i partiti nazionalisti, è costretto nel 1996 a fare concessioni sostanziali in cambio dell’appoggio di questi a Madrid.

I partiti che partecipano o hanno partecipano a governi regionali sono più numerosi. Ai fini di una maggiore chiarezza nell’esposizione possiamo ordinarli in base alla loro forza nei rispettivi contesti regionali. Vi sono innanzitutto tre partiti egemoni (Svp, Ciu, Pnv), ovvero partiti che hanno sempre fatto parte delle coalizioni di governo (quando non hanno guidato governi regionali monocolore) e ne hanno sempre espresso la presidenza.

Al governo regionale hanno avuto accesso recentemente anche i nazionalisti scozzesi e gallesi nel Regno Unito, e galiziani in Spagna. Lo Snp con le elezioni del 2007 ha conquistato la maggioranza relativa dei voti e dei seggi a Holyrood, strappandola per la prima volta al Labour. In forza di questo storico risultato il leader dei nazionalisti scozzesi, Alex Salmond, guida attualmente un esecutivo di minoranza.

La partecipazione ai governi regionali appare, in conclusione, meno problematica per i partiti etnoregionalisti. Questo è spiegabile solo in parte con il maggior peso numerico di cui essi dispongono a livello regionale. Più importante sembra il fatto che il livello regionale è di per sé più congeniale per questo tipo di partito, perché non li costringe a ricercare compromessi imbarazzanti con i partiti e l’establishment statale, a cui normalmente si contrappongono. Il governo regionale invece costituisce una posizione privilegiata da cui non solo gestire e distribuire risorse sul proprio territorio, ma anche perseguire un aumento dei poteri di autogoverni sottraendo competenze allo stato centrale, coerentemente con la strategia etnoregionalista.

5. Conclusioni
Lo abbiamo visto, nel primo capitolo, relativamente alle date di nascita dei partiti: il paradigma rokkaniano di partiti nati in risposta ai processi di nation-building europei si adatta bene ad alcuni di essi, ma la maggior parte nasce ben più tardi, in risposta ad altre sfide ambientali: “la rivoluzione silenziosa” degli anni sessanta e la “controrivoluzione” degli anni ottanta, ma anche le nuove opportunità che derivano dalla nascita in alcuni stati di istituzioni politiche regionali e, forse, dal processo di integrazione europea.

I dati presentati nelle pagine precedenti suggeriscono una cautela nel generalizzare tale instabilità  elettorale. Alcuni partiti hanno consciuto al contrario una perdurante posizione egemonica nei sistemi partiticii delle rispettive regioni: la Svp in Alto Adige, il Pnv nel Paese Basco e, fino alle ultime elezioni, Ciu in Catalogna. Tuttavia i casi di Belgio, del Regno Unito, della Ln Italiana, di alcuni partiti spagnoli segnalano indubbiamento una diffusa difficoltà nel “fidelizzare” il proprio elettorato. Ma anche in questo caso la comparazione induce a sottolineare le differenze più che le similitudini fra le diverse esperienze. Negli anni settanta l’avvio della riforma regionalista e in seguito federalista in Belgio ha segnato, paradossalmente l’inizio del declino dei partiti che ne erano stati i maggiori ispiratori, la Vu in primo luogo. Negli anni ottanta e novanta, al contrario, la federalizzazione della Spagna e la devolution del Regno Unito hanno portato nuova linfa ai rispettivi partiti etnoregionalisti, fino alla conquista  del governo scozzese da parte dello Snp.
Dunque il successo di policy (ovvero l’istituzione o il rafforzamento delle autonomie regionali) sembra senz’altro influenzare le fortune elettorali dei partiti etnoregionalisti, ma con effetti divergenti nelle diverse situazioni. Laddove i partiti etnoregionalisti riescono ad assumere un chiato ruolo di guida de governo regionale (con le conseguenti possibilità di gestire in chiave distributiva le risorse attribuite al nuovo livello di governo, ma anche con l’assunzione di un ruolo di difensore degli interessi – materiali e simbolici – della periferia rispetto al centro dello stato), il voto sembra più incline alla stabilizzazione. Al contrario, se il partito regionalista non è capace di capitalizzare il successo istituzionale (la devolution) con l’accesso al governo, aumenta il rischio che l’elettorato percepisca la sua funzione come conclusa nel momento stesso della concessione dell’autonomia.

Parte seconda
IL VOTO ETNOREGIONALISTA

Capitolo terzo
IL QUADRO TEORICO: LE DUE FACCE DELL’ETNOREGIONALISMO
E’ necessario invece includere nel quadro teorico anche alcune variabili relative alla competizione politica. E’ necessario in altre parole, considerare i partiti etnoregionalisti come partiti politici , e come tali sottoposti alle regole, ai vincoli, alle sfide ambientali che caratterizzato questa forma organizzativa nel suo sviluppo storico, laddove le interpretazioni prevalenti hanno privilegiato di gran lunga gli aspetti che permettono di comprendere la nascita di organizzazioni di difesa di interessi e identità periferiche.

1. Rokkan: i partiti etnoregionalisti lungo la frattura centro-periferia.
Secondo questo approccio movimenti e partiti etnici sono ovviamente il risultato del consolidamento di una frattura fra centro e periferia all’interno della società.

Per illustrare  questo punto Lipset e Rokkan portano, fra gli altri, gli esempi contrastanti della Svizzera e del Belgio. Quest’ultimo costituisce un chiaro esempio di fratture sovrapposte che si rinforzano reciprocamente, data la concentrazione nel territorio vallone di interessi industriali uniti ad una cultura secolare se non apertamente anticlericale e ad una assoluta prevalenza di popolazioni di lingua francese, mentre nel territorio fiammingo si concentrano un’economia prevalentemente agricola, una cultura religiosa cattolica e la popolazione di lingua olandese.

Le condizioni facilitanti per la nascita ed il consolidamento di partiti collocati lungo la frattura centro-periferia sono riassumibili in tre punti: 1) una forte concentrazione della controcultura entro un territorio ben definito; 2) scarsi legami di comunicazioni, alleanze e scambi con il centro e maggiori con centri esterni di influenza culturale o economica; 3) minima dipendenza economica verso la metropoli politica.

Dunque il territorio e le risorse concentrate al suo interno costituiscono il punto di partenza appropriato per lo studio delle “mobilitazioni periferiche”. Fra queste una posizione privilegiata è assegnata da Rokkan e Urwin alle risorse culturali, senza le quali non è pensabile lo sviluppo di una mobilitazione etnica. Si tratta comunque, sottolineano gli autori, di una cultura costruita socialmente, sia pure partendo da tratti distintivi reali, e questo è reso evidente dal fatto che non tutte le popolazioni in possesso di caratteristiche culturali distintive sviluppano un’identità etnica forte, mentre alcune regioni dotate di risorse culturali apparentemente deboli hanno visto svilupparsi movimenti nazionalisti forti e duraturi.
La presenza di risorse territoriali, di uso culturale, economico e politico, costituisce una condizione necessaria, ma non ancora sufficiente, per comprendere il fenomeno della mobilitazione etnoregionale. Per trasformare le distinzioni territoriali in azione politica è necessaria la presenza di “catalizzatori”, di particolari circostanze storiche che rendano possibile, vantaggioso, desiderabile l’utilizzo delle risorse territoriali dell’arena politica.

In generale l’incongruenza fra forza economica e status culturale e politico, accentuato dalle trasformazioni sociali appena ricordate, sembra rappresentare la chiave interpretativa più convincente nei casi di ripresa del conflitto etnico-territoriale.

2.Hecther: il colonialismo interno
La teoria del colonialismo interno di Michael Hecther prende spunto dall’insoddisfazione verso i modelli teorici fino ad allora prevalenti. La critica di Hechter si concentra in particolare sull’interpretazione “diffusioni sta”, secondo la quale ad una diffusione dello sviluppo industriale avrebbe dovuto necessariamente seguire una graduale integrazione culturale ed una penetrazione alle periferie degli standard del centro.

Schematizzando un po’, il processo di divisione culturale del lavoro può essere descritto nei termini seguenti. Un iniziale squilibrio geografico nello sviluppo economico crea vantaggi e svantaggi relativi fra i diversi gruppi sociali e la cristianizzazione di una distribuzione iniqua  di risorse e potere fra il centro, motore dello sviluppo industriale, e la periferia sottosviluppata. Il gruppo sovraordinato agisce per consolidare e perpetrare questa stratificazione sociale da cui trae vantaggio a discapito della periferia. Ai membri dei gruppi sociali periferici invece viene negato l’accesso alle posizioni ed ai ruoli sociali più prestigiosi. Questa è la divisione culturale del lavoro: un sistema che “assegna” gli individui a specifici ruoli nella struttura sociale sulla base di un’oggettiva distinzione culturale.

L’incapacità di creare una cultura nazionale omogenea, dunque, non è il risultato della mancata integrazione della periferia, ma di una integrazione volutamente asimmetrica, di uno sfruttamento economico di questa da parte del centro.

3.Gellner: il modernismo
Richiamiamo la definizione che Gellner dà di nazionalismo: “un principio politico che sostiene che l’unità nazionale e l’unità politica  dovrebbero essere perfettamente coincidenti”. Se sostituiamo “unità nazionale” con “unità culturale” appare evidente che la costruzione della nazione, e quindi il principio nazionalista, non sostengono nient’altro che la sostituzione delle varie culture locali ce caratterizzano la società pre-moderna con una cultura “alta” omogenea su tutto il territorio  statale. Ne desiderano due conseguenze paradossali. La prima è il capovolgimento di un assunto tradizionale.

Una parte importante del lavoro di Gellner e concentrata sui limiti all’”entropia sociale”. Le etnie minoritarie (potremo dire: le nazioni potenziali che non sono riuscite a trasformarsi in stati-nazione) all’interno degli stati hanno due possibili opzioni fra cui scegliere: l’assimilazione alla cultura dominante o il nazionalismo, ovvero il tentativo di trasformarsi a loro volta in cultura dominante, costituendo uno stato autonomo.
La maggior parte delle etnie, come è stato osservato da Gallner,  si lascia assimilare in un arco di tempo più o meno lungo senza oppore resistenza. Ma se per qualunque motivo una minoranza etnica, identificabile in base ad una caratteristica culturale o somatica, si trova concentrata  nei gradi più bassi della scala sociale ancora alcune generazioni dopo l’incorporazione nella struttura economica dello stato in questione possiamo definire quel tratto culturale o somatico “resistente all’entropia sociale”. Il gruppo etnico è spinto e mantenuto in questi casi ai margini dello sviluppo economico del paese e constantemente svantaggiato rispetto al gruppo etnico dominante e questo, se in una società agricola è considerato normale, in una società industriale non è facilmente accettabile, data l’opinione diffusa che l’uguaglianza di opportunità e la mobilità sociale siano valori irrinunciabili. A questo punto la mobilitazione politica su base etnica diventa altamente probabile. La via di uscita più allettante per il gruppo minoritario è creare una propria comunità politica (o almeno ritagliarsi ampi margini di autonomia nella comunità politica esistente) in cui il tratto culturale o somatico che lo contraddistingue non sia più motivo di discriminazione. Se anche l’ipotesi indipendentista è preclusa, per motivi di politica internazionale, o perché la minoranza etnica non dispone di un territorio precisamente definito, o per altre ragioni, ne conseguirà un conflitto etnico incessante e di difficilissima soluzione, che può mettere seriamente in pericolo la legittimità politica e la stabilità dello stato.

4. Il limite delle teorie “macroeconomiche”
Un secondo aspetto importante è dato dalla polarizzazione ideologica del sistema politico. Più grande è la distanza ideologica che separa i partiti maggiori, minori sono le probabilità di successo per i partiti etnoregionalisti.  Questo perché una maggiore distanza ideologica rende più credibile la possibilità di alternanza delle politiche di governo in caso di vittoria delle opposizioni. Al contrario, se gli elettori non vedono nell’opposizione tradizionale una reale prospettiva di cambiamento il voto etnico diventa l’alternativa più credibile. Ma la credibilità del partito etnoregionalista è dovuta anche alla (percezione della) sua possibilità di ottenere vantaggi concreti per la comunità che intende rappresentare, ossia di operare come un gruppo di persone efficiente nei confronti del centro. Dunque in questo senso sono rilevanti anche le dimensioni del partito, le sue capacità organizzative, le sue reali possibilità di essere coinvolto nel governo regionale o nazionale.

Nelle pagine seguenti  si proporrà allora una chiave di lettura che tenga conto, al di là delle tradizionali variabili culturali ed economiche, della dimensione propriamente partitica del fenomeno etnoregionalista e delle sfide che i partiti devono affrontare dopo la fase iniziale di istituzionalizzazione e una volta conquistato l’accesso alla rappresentanza politica, in sede regionale.

5. La dimensione partitica: due facce dell’etnoregionalismo
Di conseguenza, tutte le politiche volte a marcare e riprodotte nel tempo la divisione etnica sono strategiche per un partito di questo tipo, in quanto contribuiscono a mantenere inalterata o a rafforzare la struttura sociale su cui si basa il proprio successo elettorale. Alcuni esempi di tali politiche possono essere l’insegnamento della lingua minoritaria nelle scuole elementari, o ancor più la creazione di beni e servizi secondo proporzioni etniche una rappresentanza istituzionale separata per i diversi gruppi.

Ma se consideriamo come questi partiti si sono evoluti nel tempo e allarghiamo l’analisi ai partiti nati nei decenni successivi, l’immagine di custodi dell’identità etnica periferica non appare altrettanto convincente o, quanto meno, offre un’immagine solo parziale del ruolo che tali partiti possono ricoprire nei sistemi politici europei. Sembra plausibile invece che in alcune circostanze i partiti etnoregionalisti svolgano una funzione che va oltre a quella tradizionale di difesa dell’identità etnica minoritaria e in virtù di questa siano capaci di attrarre voti al di fuori dei consumi del proprio gruppo etnico, spingendosi in territori normalmente controllati dai partiti maggiori. Non più, o non soltanto, custodi dell’identità etnica, i partiti si trasformano in questo caso in sfidanti dei partiti maggiori, capaci di incursioni nelle altrui riserve elettorali.

A partire dalla fine degli anni ottanta il partito aggiunge alle tematiche “di classe” una maggiore attenzione alle questioni pacifistiche (simboleggiate dall’opposizione alla guerra del Golfo) e ambientaliste, che porterà alla costituzione di un’alleanza elettorale con il partito dei Verdi e alla presentazione di candidati comuni con quest’ultimo nelle elezioni politiche del 1992.

Anche l’altro partito etnoregionalista della Gran Bretagna, lo Snp, si trova a fronteggiare un dilemma strategico simile, rimanere ancorato al core issue nazionalista o includere nel proprio programma tematica più ampie con l’obiettivo di estendere i consensi  verso l’elettorato dei partiti maggiori. Nel corso degli anni ottanta anche lo Snp assume un orientamento più definito di partito di sinistra, rassegnandosi all’evidenza che l’obiettivo fondamentale, l’indipendenza dello Scozia, non faceva presa che su una minoranza dall’elettorato. Non a caso quella ridefinizione strategica ha inizio in seguito alla sconfitta nel referendum sulla devolution del 1979. L’opportunità per uscire da questo vicolo cieco è fornita anche in questo caso dalla Poll tax e dalle divisioni di incertezze in merito nel labour party. L’opposizione risolta al provvedimento del governo permette allo Snp di accreditarsi come antagonista diretto dei laburisti sul loro stesso terreno ideologico e la crescita elettorale degli anni novanta sembra essere dovuta, almeno in parte, proprio alle defezioni dal Partito Laburista.

Le riflessioni svolte nelle ultime pagine si concentrano sull’osservazione di alcuni casi emblematici di partiti etnoregionalisti e sul loro diverso modo di declinare la mobilitazione periferica. Sulla base di tali differenze possiamo provare ora a declinare una distinzione più generale all’interno della famiglia etnoregionalista, che prescinda dai singoli casi. Propongo perciò di distinguere i partiti etnoregionalisti in due gruppi: da un lato avremo i partiti vicini al modello della Svp, che potremmo definire puramente etnici, dall’altro i partiti vicini al modello dello Snp che potremmo definire sfidanti.

6. Conclusioni
Questo capitolo è partito da una revisione critica delle maggiori teorie dell’etnoregionalismo. Abbiamo visto in particolare le teoria dei clevages , il colonialismo interno, il modernismo. Ciò che accomuna queste teorie (ed altri autori si potrebbero aggiungere) è il ricorso a fattori di lungo periodo per spiegare  l’origine delle mobilitazioni periferiche contro il centro dello stato: la costruzione degli stati nazionali da un lato, la rivoluzione industriale dall’altro. Questo costituisce al tempo stesso la forza e la debolezza di tali teorie: da un lato capaci di inquadrare il fenomeno del conflitto etnico in una cornice storica di ampio respiro, non come fenomeno residuale e in estinzione, ma come risultato, magari imprevisto, delle grandi forze della storia: dall’altro impreparate a interpretare le fluttuazioni di breve e medio periodo, a seguire da vicino la vita delle organizzazioni (organizzazioni partitiche, per quel che ci interessa in questa sede) in cui i movimenti delle grandi forze sociali trovano espressione.
Allora, se vogliamo studiare il rendimento elettorale dei partiti etnoregionalisti a partire da queste premesse teoriche, anche l’analisi empirica deve cambiare prospettiva. Le consuete spiegazioni fondate sulle specificità linguistiche delle ragioni o sulle relazioni economiche fra centro e periferia colgono infatti aspetti diversi della mancanza o imperfetta integrazione territoriale dello stato. Non sono aspetti secondari; tuttaltro. Ma non bastano. Non bastano in particolare a capire le fluttuazioni dei consensi in tempi brevi a cui sono soggetti molti di questi partiti, essendo aspetti  statici o soggetti a cambiamenti graduali nel corso di decenni. Da qui la necessità di introdurre nell’analisi anche elementi relativi alla competizione politica e al sistema partitico ovvero all’ambiente in cui si muovono quotidianamente le organizzazioni partitiche, e a cui esse reagiscono. Fa differenza infatti (o almeno, può fare differenza in certe circostanze) se e quanto un sistema partitico è “cartellizzato”, se e quanto ci si aspetti che le elezioni siano determinati  nella composizione del futuro governo, e così via. E presumibilmente questi aspetti faranno tanta più differenza quanto meno ai partiti etnoregionalisti possono contare sulle tradizionali risorse culturali e si una divisione nitida delle diverse comunità etniche. Ossia, gli aspetti relativi alle competizione politica sono presumibilmente più importanti per i partiti che poco fa ho etichettato come sfidanti (sul modello di Pc), che per i partiti custodi dell’identità etnica.

Capitolo quarto
L’IDENTITA’ CULTURALE DELLE REGIONI

1. Definire l’identità culturale
Definire in cosa consista l’identità culturale di un gruppo è compito arduo. Se richiamiamo la definizione di Max Weber di nazione come comunità di cultura, regole sociali e valori, ci rendiamo conto che definire la cultura di un gruppo equivale a definire i confini stessi della nazione, o del gruppo etnico. Siamo davvero al nucleo del programmo – la risposta alla domanda: che cos’è una nazione? – che da oltre un secolo divide gli storici del nazionalismo.
Di volta in volta possono essere chiamati in causa quali elementi di una definizione la razza, la lingua, la religione, il sistema di valori, la memoria storica.

La mia proposta in questa ricerca è invece di elaborare un indice di differenziazione della cultura del gruppo etnico periferico, derivato dalla combinazione di una serie di indicatori che colgano aspetti diversi del concetto di “cultura”.

L’ultimo elemento utilizzato per la costruzione dell’indice riguarda la posizione geografica della regione – ma forse dovremmo dire “geo-etnica”. Abbiamo già accennato a questo  punto a proposito delle lingue minoritarie: per un gruppo etnico minoritario la presenza oltre confine di uno stato in cui la stessa etnia è dominante rappresenta una fonte preziosa di sostegno, simbolico ma non solo.

4. Gli effetti sulla presenza dei partiti etnoregionalisti
La conseguenza di oltre due secoli di pressioni verso l’assimilazione culturale delle periferie ha permesso la sopravvivenza di identità minoritarie relativamente forti solo nelle periferie di interfaccia: ai confini con la Germania (l’Alsazia e in misura minore la Lorena), con le Fiandre (il Nord), lungo la catena montuosa dei Pirenei (il Paese Basco, compreso nella regione dell’Aquitania e la Catalogna, nell’odierna Languedoc-Roussilon), oltre che in Bretagna e in Corsica.

In Italia le anomalie riguardano le regioni del centro-nord, dove a partire dagli anni ottanta si è affermato prepotentemente, il fenomeno della Lega Nord. Una caratteristica di questo partito, che ha richiamato l’attenzione di numerosi studiosi anche stranieri, è esattamente quella di avere inventato l’identità padana, creando dal nulla un’entità geografica  - la Padania, appunto – che è in verità un insieme di aree geografiche, tradizioni storiche e culture affatto eterogenee e i cui confini rimangono tutt’altro che ben definiti.

5. Gli effetti del voto etnoregionalista
L’ultimo passaggio di questo capitolo consiste nel valutare qual è l’influenza esercitata da questa variabile sul voto etnoregionalsta. In altre parole: abbiamo osservato nel paragrafo precedente che possedere o meno caratteristiche culturali autonome aumenta la probabilità che emergano partiti etnoregionalisti.

6. Conclusioni
Il presente capitolo si proponeva di affrontare essenzialmente due quesiti. Il primo riguardava la definizione di identità culturale e la sua operazionalizzazione. La tesi che ho voluto sostenere è che il concetto di cultura è troppo complesso per poter essere colto dal solo indicatore linguistico. Molti studiosi autorevoli avvertono che tale concetto è troppo complesso tout court , e che qualunque  tentativo di ricondurlo a indicatori oggettivi è sbagliato in partenza. Pur tenendo nella massima considerazione questo avvertimento, si può cercare una via intermedia fra chi rinuncia del tutto a ricondurre l’identità culturale ad elementi oggettivamente “misurabili” e chi al contrario la appiattisce unicamente sull’esistenza di una lingua minoritaria. Senza avere pretese di completezza, l’indice elaborato nelle pagine precedenti offre quindi una migliore messa a fuoco del concetto e delle sue numerose sfumature.
Il secondo quesito riguardava gli effetti della risorsa culturale sulla mobilitazione etnoregionalista. La presenza di concreti riferimenti identitari, anche diversi dalla lingua, è una risorsa che gli imprenditori politici politici possono utilizzare per mobilitare consensi.
Non è l’unica risorsa, come apparità chiaro dai prossimi capitoli, e non è in molti casi una risorsa sufficiente per far emergere forme di contestazione periferica verso il centro dello stato. Al contrario abbiamo dedicato una parte del capitolo proprio alla descrizione di alcuni casi devianti di particolare interesse: regioni dotate di risorse culturali che non hanno sviluppato una forte mobilitazione periferica e regioni in cui sono attivi partiti etnoregionalisti di successo pur in mancanza di una chiara differenziazione culturale.
Tuttavia, se ci riferiamo al quadro generale, i dati presenti offrono una solida conferma empirica all’idea che l’identità culturale è un elemento di primaria importanza sia nel favorire l’emergere di partiti etnoregionalisti, sia nello spiegare il loro successo elettorale.

Capitolo quinto
GLI SQUILIBRI ECONOMICI

1.Economia e mobilitazione regionalista: il dibattito
Se gli studiosi sono sostanzialmente unanimi nel riconoscere alla differenziazione culturale il ruolo di catalizzatore fondamentale delle mobilitazioni etnoregionaliste, non altrettanto si può dire delle risorse economiche. In questo caso le posizioni divengono sensibilmente fra chi sostiene che i conflitti fra centro e  periferia possano essere il risultato di uno sviluppo economico diseguale, e chi viceversa mette in guardia contro “la seduzione delle spiegazioni economiche”.
Rookkan e Urwik si collocano senza dubbio fra coloro che sottolineano l’importanza   dell’aspetto economico, pur ritenendolo subordinato all’esistenza di qualche forma di differenziazione culturale.

La periferia, all’opposto, è descritta come:

dipendente (dal centro) in grado di controllare, nella migliore delle ipotesi, solo le proprie risorse ed esposta alle fluttuazioni dei mercati a lunga distanza; isolata da tutte le altre regioni ad eccezione di quella centrale, in grado di fornire un contributo limitato  al flusso complessivo delle comunicazioni attraverso il territorio, dotata di una cultura marginale frammentata, parrocchiale subordinata nell’ambito del territorio politicamente definito.

Fra centro e periferia esiste dunque un rapporto analogo a quello fra stato colonizzatore e territori coloniali, in analogia a quanto suggerito da Michael Hechter con la teoria del colonialismo interno.

Un altro punto sottolineato da molti autori riguarda lo squilibrio fra risorse economiche e risorse politiche. Se il centro politico dello stato coincide con l’area di maggior dinamismo economico, ovvero, se le regioni periferiche dipendono dal centro tanto sul piano politico che su quello economico, la nascita di movimenti nazionalisti sarà poco probabile;al contrario le probabilitàà aumentano se le due dimensioni divergono. In particolare un centro politico che si contrappone ad una periferia economicamente sviluppata sembra essere una situazione particolarmente congeniale alla mobilitazione territoriale, tanto più se la periferia dispone anche di tratti culturali distintivi.

Al contrario, quando il centro dello stato si dimostra incapace di promuovere sviluppo, per quanto iniquamente distribuito, le élite locali delle periferie potranno più facilmente fare appello alla possibilità di un futuro autonomo del centro e tale appello avrà  tanto maggior  seguito a livello di massa quanto più potrà essere sostenuto da qualche caratteristica etnica distintiva, da qualche mito di discendenza comune o di glorioso passato da attivare o da riattivare.

3. I fattori economici e la mobilitazione etnoregionalista
La ricchezza relativa delle regioni rispetto allo Stato di appartenenza invece ha un impatto di segno positivo – sia pure non molto marcato – sia sulla presenza che sul voto ai partiti etnorgionalisti. E’ una conclusione, questa, che dà torto alla teoria del colonialismo interno: sono le regioni più ricche, quelle con un’economia più dinamica rispetto al centro  dello Stato, a fornire le basi più solide per la mobilitazione etnica.
Non è un risultato del tutto sorprendente. Ai risultati ormai consolidati di alcuni regionalismi storici – del Paese Basco alla Catalogna, dall’Alto Adige alla Valle Da Osta – si sono aggiunti, soprattutto negli anni novanta, i successi clamorosi del Vlaams Blok/Vlaams Belang e della Lega Nord nelle aree più sviluppate del Belgio e dell’Italia.

Si noti in proposito che partiti regionalisti attivi nelle regioni più sviluppate hanno un chiaro vantaggio competitivo nei confronti dei partiti nazionali. Chiedere misure quali l’autonomia fiscale, o una drastica riduzione dei trasferimenti dalle regioni ricche alle regioni povere, è innegabilmente attraente per i partiti che operano solo nelle regioni ricche. I partiti attivi su tutto il territorio nazionale, per quanto fautori del libero mercato, devono invece raccogliere consensi in tutte le regioni, anche in quelle povere. Per questi, proporre di ridimensionare le politiche di riequilibrio è un gioco potenzialmente a somma zero: i consensi che si spera di ottenere da una parte si rischia poi di pagarli dall’altra. I partiti regionalisti non devono fronteggiare questo dilemma, il gioco in questo caso è a somma positiva.

4. Conclusioni.
L’analisi delle variabili economiche ha consentito di esplorare un aspetto ulteriore delle mobilitazioni etnoregionaliste nei paesi dell’Europa occidentale. Nelle prima pagine del capitolo abbiamo passato in rassegna i principali punti di vista sulle relazioni fra regionalismo ed economia. Le posizioni, abbiamo visto, sono discorsi su vari aspetti, ma concordano almeno su due punti: in primo luogo forti squilibri economici fra il centro e la periferia degli stati possono costituire un potente catalizzatore per la protesta dei gruppi minoritari e rafforzare le pretese autonomiste delle regioni. Allo stesso tempo però le differenze sul piano economico non bastano, da sole, a mettere in moto la mobilitazione della periferia.
Con le analisi multivariate del VII capitolo tornerò sulla relazione fra variabili culturali e variabili economiche. Ma le correlazioni e nelle elaborazioni successive offrono già qualche spunto di riflessione. Il fatto che le correlazioni fra voto etnoregionalista e ricchezza delle regioni siano sistematicamente più alte nelle regioni mobilitate indica che le variabili economiche, più che attivare conflitti fra centro e periferia, li rafforzano dove questi sono già presenti. Dove i partiti già esistono – leggitimati magari da una cultura periferica non assimilata dal centro dello stato – possono essere rafforzati da questo ulteriore elemento distintivo.
L’altro quesito sollevato dalla letteratura (in particolar modo dalla teoria del colonialismo interno di Michael Hetcher e dal dubattito che questa ha suscitato) riguarda il segno della correlazione. Ipoteticamente, infatti, le mobilitazioni periferiche possono trarre forza sia da situazioni di sottosviluppo che da situazioni di maggiore dinamicità. I dati presentati in queste pagine risolvano il dubbio a favore della seconda ipotesi: le regioni ricche sono quelle in cui la protesta verso il centro dello stato è più probabile. L’arretratezza economica, se pure in alcune regioni può affiancare altri fattori di mobilitazione, non rappresenta una risorsa politica altrettanto efficace.

Capitolo sesto
LA COMPETIZIONE POLITICA

1. Partiti etnoregionalisti e competizione politica: un nesso trascurato
Mentre gli aspetti culturali ed economici, di cui mi sono occupato nei due capitoli precedenti, sono stati spesso sottolineati dagli osservatori come fattori rilevanti per la mobilitazione etnoregionalista, poco o niente è stato detto sui possibili effetti della competizione politica. In altre parole i partiti etnoregionalisti sono stati considerati molto più etnoregionalisti che non i partiti. Nel momento in cui la mobilitazione  assume la forma organizzativa del partito, essa deve però sottostare a tutti i vincoli, le opportunità, le “leggi” che regolano la competizione elettorale.
Questo è tanto più vero se è vero ciò che ho sostenuto nel terzo capitolo, ovvero che gli appartenenti a questa famiglia partitica non svolgono sempre e soltanto la funzione di custodi dei confini dell’identità etnica. Limitandosi a questo obiettivo i partiti si sottraggono di fatto alla competizione e ambiscono a rappresentare soltanto coloro che nello spazio politico si collocano nella nicchia etnica. L’obiettivo fondamentale di questi partiti è proprio quello di confermare nel tempo la distinzione etnica, sulla quale la loro stessa raison d’etre è basata. Se al contrario i partiti si collocano, per una ragione o per un’altra, anche su posizioni solitamente presidiate dai partiti di ambito statale, allora la struttura  della competizione politica può entrare  in gioco in modo determinante. Nel terzo capitolo ho portato l’esempio dei partiti nazionalisti gallese e scozzese, che a partire dagli anni ottanta contendono al Labour l’elettorato di sinistra. Si potrebbero aggiungere partiti che portano una sfida analoga da destra, come la Lega Nord o il Vlaams Belang. O ancora partiti che, pur facendo delle questioni strettamente etniche il cuore della propria proposta politica, si collocano  chiaramente come antagonisti dei partiti maggiori anche su tematiche diverse.
La ricerca delle condizioni politiche che influenzano il rendimento elettorale dei partiti etnoregionalisti è un tema raramente affrontato nella letteratura. Come ho argomentato nel terzo capitolo, Margareth Levil e Michael Hecter in un lavoro del 1985 sono i primi a dare spazio a questo tipo di analisi. Levi e Hetcher hanno il merito di aprire una prospettiva realmente innovativa allo studio del fenomeno etnoregionalista. L’inclusione di variabili relative alle competizione partitica, a fianco delle tradizionali spiegazioni basate sulla presenza di risorse culturali ed economiche nella regione periferica, offre spunti interessanti per capire l’evoluzione elettorale dei partiti etnoregionalisti, sebbene né gli autori stessi, né altri in seguito cerchino riscontri empirici a questa ipotesi. Ma il lavoro di questi due autori si ferma sul piano della speculazione teorica.
A parte gli studi specificamente dedicati ai partiti etnoregionalisti, l’utilizzo della competizione politica come variabile indipendente, o di suoi singoli aspetti, non ha avuto che uno sviluppo marginale nella letteratura politologica. Per molti anni si è privilegiato lo studio dei sistemi partitici come risultato di fattori esogeni quali le fratture sociali, a loro volta conseguenza di processi secolari di modernizzazione e state building  o sistemi elettorali, a partire dai lavori classici di Duverger e Rae. E’ solo negli ultimi anni che fanno la loro comparsa alcuni lavori che mettono in discussione questa sequenza causale, ipotizzando che anche i cambiamenti nella struttura della competizione politica possano avere effetti sulle preferenze degli elettori, e quindi sull’emergere di alcuni partiti e sul loro successo elettorale. Questa ipotesi ha trovato applicazione soprattutto in riferimento alla cosiddetta cartellizzazione dei sistemi partitici, con l’aspettativa che la collusione fra i partiti dominanti presti il fianco all’emergere di nuovi soggetti sfidanti al di fuori del cartello.
Talvolta l’attenzione viene concentrata sulla famiglia partitica della nuova destra populistica, talvolta si estende più in generale agli anti-establisshment parties; in generale, ciò che contraddistingue questi lavori è l’uso del sistema partitico o di alcune sue caratteristiche, a partire dalla polarizzazione, come variabile indipendente per spiegare il rendimento elettorale dei partiti. E’ lungo questa direzione che mi muoverò anche io, cercando di analizzare sistematicamente gli elementi della competizione politica che possono influenzare la performance dei partiti etnoregioanlisti.

2. La competizione politica come concetto multidimensionale
Partendo da considerazioni di questo tipo, Stefano Bartolini, ha costruito una teoria multidimensionale della competizione politica, scomponendo il concetto in quattro dimensioni distinte: contestabilità, disponibilità, decidibilità, vulnerabilità. Vediamo brevemente in che cosa consiste ciascuna di esse, per poi formulare delle ipotesi su come la competizione politica può favorire o al contrario ostacolare il rendimento elettorale dei partiti etnoregionalisti.
La contestabilità delle elezioni riguarda il lato dell’offerta politica, ovvero chi è ammesso a concorrere alla ricerca del  consenso elettorale.

Se la contestabilità riguarda l’offerta politica, la disponibilità si colloca sul versante della domanda, ovvero sul versante degli elettori. Con questa dimensione si indica essenzialmente la quota di elettori disposta a cambiare il proprio voto da un’elezione all’altra, ovvero, con un termine economico, l’elasticità del voto.

La decidibilità torna ad interessare il versante dell’offerta. In questo caso non si tratta di offerta di partiti o di candidati, bensì di offerta di programmi di policy alternativi. “Per orientare razionalmente le loro scelte – sostiene Bartolini – gli elettori devono percepire le differenze tra partiti e candidati in termini di enfasi, priorità o rendimento.

Infine la quarta dimensione è rappresentata dalla vulnerabilità degli elettori, ovvero dalla “possibilità per un governo (coalizione, partito) in carica di essere sostituito o altrimenti modificato nella sua composizione come risultato delle scelte degli elettori.

3. La competizione politica in pratica: le quattro dimensioni nei sistemi politici europei.
L’idea che i sistemi elettorali, a cui la letteratura politologica ha invece dedicato grande attenzione, siano rilevanti si, ma solo per i partiti che hanno già superato la barriera dell’ammissione alla competizione e alle risorse ad essa necessarie. Per i partiti nuovi e per i partiti piccoli e debolmente strutturati, come sono buona parte dei partiti considerati in questo lavoro, superare questa prima barriera può essere un’operazione tutt’altro che agevole.

5. Conclusioni
Gli ultimi tre capitoli sono stati dedicati all’analisi di tre diversi gruppi di variabili, per le quali si ipotizza una relazione con il rendimento elettorale dei partiti etnoregionalisti. L’analisi delle variabili di tipo culturale ed economico hanno alle spalle una tradizione di analisi ormai consolidata, mentre lo studio della competizione politica non è mai stato preso in considerazione in modo sistematico a questo fine. Alcune ricerche recenti sono state dedicate ai sistemi partitici come variabili indipendenti nel processo elettorale, rovesciando così un assunto consolidato in letteratura, in riferimento però ad altre famiglie partitiche.
L’inclusione della competizione politica fra i fattori che spiegano le fortune elettorali di questa famiglia partitica sembra però  un terreno di ricerca promettente. In primo luogo perché ha dato buoni frutti negli altri casi in cui questo tipo di variabile è stato utilizzato. Del resto è piuttosto evidente l’analogia dei partiti etnoregionalisti con altri partiti minori del panorama  politico europeo, in particolare con  gli sfidanti – a vario titolo – dell’establishment.
Ma c’è forse un motivo ulteriore relativo specificamente a questa famiglia partitica. Gli osservatori hanno registrato spesso come un dato caratteristico del voto etnoregionalista la sua ciclicità. Ad ondate di espansione dei consensi regionalisti si alternano periodi di riflusso in cui i partiti regionalisti ripiegano e sembrano destinati inevitabilmente ad uscire di scena, per poi andare incontro a nuove, e di solito inattese, resurrezioni. Se si cerca di interpretare questo fenomeno a livello europeo, ci si accorge presto che i cicli elettorali non coincidono, se non parzialmente.
Del resto, non si possono dare spiegazioni soddisfacenti nemmeno basandosi sulle variabili culturali ed economiche, perché queste sono normalmente molto stabili (specialmente gli aspetti identitari), tanto da poter essere considerate costanti nel breve periodo. Le variabili legate alla competizione politica sembrano offrire allora gli elementi appropriati per risolvere questo enigma, come già Margareth Levi e Michael Hetcher suggerivano alla metà degli anni ottanta, senza per altro suffragare le loro intuizioni con le evidenze di una ricerca empirica.
La discussione sul come rilevare i tratti essenziali della competizione politica, per altro, è ancora ampiamente lacunosa. In questo capitolo ho fatto riferimento a quella che ritengo essere di gran lunga la più sistematica ricostruzione teorica sull’argomento; ma quella di Stefano Bartolini è, per l’appunto, una riflessione analitica che trascura quasi del tutto il problema della rilevazione empirica delle diverse dimensioni di competizione. La proposta che sviluppo in queste pagine al riguardo, dunque, non può che essere considerata un punto di partenza. E tuttavia, le correlazioni bivariate basate sugli indicatori proposti offrono in generale una prima conferma delle ipotesi di partenza. Vale la pena, nel prossimo capitolo, esplorare ulteriormente gli effetti della competizione politica, questa volta nel quadro più ampio di un modello statistico multivariato.

Capitolo settimo
VERSO UNA SPIEGAZIONE DEL VOTO ETNOREGIONALISTA IN EUROPA: UN MODELLO INTEGRATO

1La strada fin qui: tre spiegazioni complementari del voto etnoregionalista.
Gli ultimi tre capitoli sono stati dedicati all’analisi di tre possibili spiegazioni della mobilitazione etnoregionalista: la prima riferita alla dimensione identitaria e culturale, la seconda all’aspetto economico, la terza all’aspetto politico, o più precisamente, dall’aspetto della competizione partitica. Le prime due spiegazioni affondano le radici in un profondo retroterra teorico, che vede i partiti della famiglia etnoregionalista come espressione di fratture sociali risalenti alla costruzione degli stati europei e alla diffusione ineguale dei costi e dei benefici della rivoluzione industriale (o forse delle successive rivoluzioni industriali). La terza spiegazione non ha raccolto invece altrettanta attenzione. Solo di recente è stata avanzata l’ipotesi di collegare il successo dei partiti etnoregionalisti a variabili politiche e partitiche in senso stretto, e di solito tenendo l’argomentazione su un piano meramente teorico e quindi senza il supporto dell’evidenza empirica.

I due modelli successivi aggiungono le variabili relative alla contestabilità elettorale. Le tre variabili aggiunte nel modello 2 riguardano la facilità di accesso alle liste elettorali, agli spazi televisivi, ai finanziamenti pubblici. Tutte e tre le variabili presentano coefficienti forti, addirittura più alti della variabile culturale. Questo conferma l’ipotesi formulata nel capitolo precedente e la rafforza oltre le attese: i fattori legati all’accesso alle risorse politico-istituzionali sono altrettanto, se non addirittura più influenti dell’elemento identitario. Più in dettaglio, le tre variabili politiche confermano la direzione della relazione con l’esistenza di partiti etnoregionalisti che già era emersa nel capitolo precedente: è una relazione positiva con la facilità di accesso alle liste elettorali e con l’accesso ai media, mentre la correlazione è negativa con il finanziamento pubblico.
Il terzo modello include l’ultima variabile legata all’aspetto della contestabilità della competizione politica, ovvero il sistema elettorale, valutano dal punto di vista della di sproporzionalità nell’assegnazione dei seggi. Anche in questo caso si conferma il segno del coeficente già evidenziato nella correlazione bivariata nel capitolo precedente così come il valore assoluto modesto. In altre parole, la di sproporzionalità del sistema elettorale non risulta essere un elemento cruciale per l’emergere di partiti etnoregionalisti, e non necessariamente i sistemi elettorali dagli esiti maggiormente di sproporzionali sono di ostacolo alle mobilitazioni etnoregionaliste. La concentrazione territoriale che, per definizione, caratterizzata questo tipo di proposta politica neutralizza infatti gli effetti che sarebbero decisivi per piccoli partiti di altra natura.

Il segno positivo in questo caso indica che un’economia  più dinamica (indicata da un maggior reddito pro capite) favorisce il successo elettorale dei partiti etnoregionalisti.

Il segno negativo indica che i sistemi più vicini alle formule proporzionali favoriscono il successo elettorale dei partiti etnoregionalisti, ma è evidentemente un dato da considerare con qualche cautela. Il fatto di ridurre la complessità dei diversi meccanismi.

4. Conclusioni.
Obiettivo di questo capitolo era la ricapitolazione degli elementi che influenzano la performance elettorale dei partiti etnoregionalisti. Dopo aver osservato separatamente gli effetti delle variabili culturali, economiche e politiche sulle mobilitazioni delle periferie degli stati europei, in queste ultime pagine abbiamo cercato di riassumere i risultati in due modelli statici complessivi, uno avente come variabile dipendente l’esistenza dei partiti, l’altro il loro successo elettorale. Punto di partenza della nostra analisi sono state alcune aspettative teoriche ormai consolidate nella letteratura politologica riguardo all’influenza degli aspetti identitari ed economici (ma in quest’ultimo caso i punti di vista sull’effetto delle variabili economiche sono divergenti).
Per quanto riguarda gli aspetti legati alla competizione politica, invece, si cercano riscontri empirici alle ipotesi formulate nel capitolo precedente, ossia che è rilevante la posizione dei partiti etnoregionalisti all’interno del sistema partitico e all’interno della competizione elettorale, anche al netto della presenza e della forza di aspetti legati all’identità culturale e agli squilibri economici.

Ma la conclusione che possiamo raggiungere è in linea con le aspettative suggerite nel sesto capitolo: le variabili politiche “contano”, sono in grado di influenzare significativamente il rendimento elettorale dei partiti etnoregionalsiti e devono essere tenute in  considerazione accanto alle altre variabili tradizionalmente utilizzate a tal fine.

CONCLUSIONI
Nell’introduzione ho fatto riferimento al bel titolo di un saggio di Derek Urwin – Harbinger, Fossil or Fleabite? “Regionalism” and the west European Party Mosaic. Giunto al termine della ricerca credo di poter escludere tutte e tre le definizioni suggerite da questo autore. L’etnoregionalismo europeo occidentale non ha preannunciato l’avvento di un nuovo (dis) ordine fondato sulle identità etniche: non ne ha la forza e probabilmente nemmeno la volontà. Di certo non è un residuo fossile del passato, se a distanza di oltre un secolo dalla fondazione dei primi partiti di questo tipo, molti hanno conservato o accresciuto la propria forza in termini di consensi, resistendo alle dittature e all’omologazione forzata (in Italia e in Spagna), al discreto derivante dalla collaborazione con l’occupante nazista (in Belgio), alle sconfitte referendarie (nel Regno Unito). E non è neppure una puntura di spillo, se è stato capace di imporre in alcuni paesi riforme profonde dell’organizzazione dello stato.
Il fenomeno dell’etnoregionalismo dunque è tutt’altro che in via di estinzione. Non è certo un fenomeno imponente in termini numerici: se osserviamo i risultati elettorali a livello nazionale pochi partiti raggiungono percentuali rilevanti nel senso martoriano del termine. Tuttavia non solo è un fenomeno persistente, che ha resistito, contro l’aspettativa della maggior  parte degli osservatori, al declino e all’omologazione nel contesto degli stati nazionali, ma è anche un fenomeno sorprendentemente vitale e dinamico e come tale sfugge alle gabbie interpretative e richiede continui aggiornamenti delle chiavi di lettura. E’ un fenomeno vitale dal punto di vista dei consensi che, come abbiamo visto nel secondo capitolo, sono complessivamente cresciuti negli ultimi decenni, ma è anche un fenomeno dinamico, che ha dimostrato di sapersi adattare con prontezza alle sfide ambientali a cui è stato sottoposto nel corso del tempo, ridefinendo i propri obiettivi e le proprie strategie di breve e di lungo periodo.
Le teorie classiche del nazionalismo hanno concentrato la propria attenzione sulle origini del fenomeno, di cui capaci di fornirci interpretazionii convincenti, ma hanno trascurato, salvo rare eccezioni, di spiegare la sua evoluzione e le sue trasformazioni. I partiti etnoregionalisti odierni sono certamente discendenti dalla tradizione nazionalista ottocentesca, talvolta anche discendenti diretti, ma le vicende storiche europee dell’ultimo secolo (in senso alto: le guerre mondiali, l’ascesa e la caduta delle ideologie totalitarie, il processo di integrazione europea) e i vincoli contingenti imposti dai rispettivi sistemi politici (le configurazioni istituzionali, il formato dei sistemi partitici), ne hanno profondamento modificato l’aspetto, costringendoli ad aggiornare le proprie proposte politiche. Muovendo dalla  comune matrice nazionalista ottocentesca, l’etnoregionalismo si è dunque differenziato al proprio interno adattandosi ai diversi contesti e alle diverse sfide politico-istituzionali. In alcuni periodi ha conosciuto fasi di difficoltà  e di declino generalizzato, tanto da suscitare negli osservatori l’illusione di un definitivo tramonto di questa forza, che per un paio di secoli è stata uno dei motori più potenti della storia europea e non solo. Tale declino è sembrato particolarmente evidente negli anni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale, per effetto del discredito che le idee nazionaliste derivavano dalla contiguità, in molti paesi, con le ideologie nazista e fascista. Non a caso proprio in questo periodo si sviluppano le teorie diffusioniste, che prevedono la graduale scomparsa dei sentimenti di identità etnica e nazionale come conseguenza del rafforzamento dei mezzi di comunicazione e quindi della progressiva omogeneizzazione rispetto agli standard culturali del centro degli stati. E invece agli inizi del XXi secolo l’etnoregionalismo, versione aggiornata del nazionalismo, non è scomparso e continua ad impegnare tanto gli studiosi quanto gli attori politici.
L’emergere dei movimenti sociali degli anni sessanta e settanta da un lato e la “controrivoluzione silenziosa” sul fronte opposto hanno portato altra linfa a questo fenomeno ma hanno anche contribuito a complicare ulteriormente il quadro complessivo. L’avvicinamento agli obiettivi e alle strategie dei movimenti sociali hanno infatti spinto molti partiti etnoregionalisti ad abbracciare posizioni termondiste e di sinistra, mentre la fusione delle tematiche etniche con quelle populistiche e xenofobe ha ampliato la varietà delle posizioni ideologiche nella direzione contraria. Da qui l’estrema eterogeneità della famiglia partitica, su cui si è insistito nel secondo capitolo, e l’inadeguatezza delle teorie classiche nel dar conto di un fenomeno che nei diversi contesti nazionali, ma talvolta anche all’interno dei singoli sistemi politici, assume forme tanto variegate.
La mia proposta di distinguere due diversi tipi ideali di partiti etnoregionalisti (i partiti puramente etnici e gli sfidanti, di cui si parla nel terzo capitolo) è un tentativo di dare una risposta a questo problema, di trovare un ordine che, per quanto schematico, ci aiuti a districarci nella comprensione di un fenomeno tanto multiformo. Il tipo etnico si avvicina all’ideale del partito nazionalista ottocentesco, territorialmente concentrato in una regione periferica ed espressione di una identità etnica dai contorni definiti con chiarezza in ragione di differenze culturali evidenti (a partire dalla lingua) o di un passato di indipendenza. La nascita di un partito di questo tipo è spesso il risultato di un processo di nation-building incompleto o imperfetto e di una elite periferica determinata a sfidare il potere centrale, guidata talvolta da un leader carismatico. Potremmo definire questo partito “rokkaniano”, intendendo così sottolineare il suo chiaro posizionamento sul versante periferico dell’asse centro-periferia, a seguito di rivoluzioni nazionali incapaci di assorbire del tutto le comunità etniche preesistenti. La categoria dello sfidante cogli invece le molte comunità minoritarie (più o meno immaginate), ma associati alle rivendicazioni propriamente etniche la politicizzazione di tematiche che li pongono apertamente in competizione con partiti nazionali, di volta in volta sul terreno della rappresentanza di classe, o di problematiche post-materialistiche, o su posizioni tipiche delle forze politiche populiste. Il tema dell’identità etnica finisce talvolta addirittura in secondo piano rispetto ad altre tematiche, come ci ricorda l’esempio dall’opposizione alla Poll Tax all’inizio degli anni ottanta da parte dei partiti etnoregionaliste scozzese e gallese, riportato nel secondo capitolo.
L’analisti dei dati condotta nella seconda parte del volume è stata guidata da questa linea interpretativa. L’inclusione, fra le spiegazioni del voto etnoregionalista, di aspetti che travalicano le consuete variabili culturali ed economiche risponde all’esigenza di interrogarsi su come i partiti etnoregionalisti rispondono agli stimoli dell’ambiente politico-istituzionale ad essi circostante per attrarre quote di elettorato estraneo alla cerchia dei nazionalisti militanti e di coloro che si riconoscono chiaramente in una identità nazionale periferica.
Analogamente a quanto altri studi hanno ipotizzato per i partiti “sfidanti” emersi nei sistemi politici europei fin dagli anni settanta, in particolare i partiti verdi e della sinistra libertaria da un lato ed i partiti populisti o della nuova destra radicale dall’altro, i partiti etnoregionalisti risentono chiaramente della variabili istituzionali (quali le barriere all’accesso alla competizione) e della struttura della competizione politica, o almeno di alcuni suoi aspetti, in modo particolare la polarizzazione. E le variabili politico-istituzionali influenzano tanto la presenza dei partiti etnoregionalisti, quanto il loro rendimento elettorale. Non per questo gli aspetti economici e a maggior ragione quelli identitari cessano  di essere rilevanti. I modelli esplicativi correnti non devono essere abbandonati, ma piuttosto integrati. L’analisi di dati elettorali aggregati presenta certo alcuni limiti e non può fornire risposte definitive alle domande di ricerca sollevate in questo lavoro. Altri strumenti metodologici sarebbero ugualmente utili, e certamente sarebbe utile un loro impiego simultaneo e coordinato. Ne propongo di seguito due, come indicazione per una futura agenda di ricerca.
In primo luogo l’analisi testuale delle proposte programmatiche, osservando in modo particolare qualii tematiche costituiscono il nocciolo della proposta politica del partito fra issues legate alla rappresentanza della comunità etnica (difesa della cultura periferica, richiesta di maggiore autogoverno e così via) e issues di altro tipo, non etniche, di difesa di interessi economici o di classe, o tipiche di forze politiche e movimenti post-materialisti o populisti. Naturalmente nella gran parte dei casi, o forse in tutti, si riscontrerebbe la presenza di un mix di tematiche dei due tipi, ma sarebbe comunque interessante vedere in quali casi prevalgono le tematiche strettamente etniche e in quali le tematiche di altro tipo e in che misura.
Secondariamente attraverso dati su survey si potrebbe capire chi vota per i partiti etnoregionalisti e perché. Si potrebbe dunque cercare un riscontro empirico alla tesi suggerita da Levi e Hechter, secondo vcui anche gli elettori non appartenenti al gruppo etnico minoritario possono votare per un partito etnoregionalista, per protesta verso i partiti maggiori. Più in generale, si potrebbe vedere se e quanto i partiti sfidanti hanno successo nel loro appello agli elettori non-etnici e, in modo speculare, quanto il voto ai partiti etnici sia effettivamente determinato da fattori identitari.
Confrontarsi con la famiglia partitica etnoregionalisti richiede ai ricercatori uno sforza particolare per tenere insieme storie, obiettivi, strategie in parte diverse e senza dubbio più eterogenee rispetto a quelle di qualunque altra famiglia partitica  in Europa. Ed è uno sforza che difficilmente può prescindere da una prospettiva di tipo comparato. Al tempo stesso la comprensione della persistenza e dell’evoluzione dell’etnoregionalismo impone la costruzione di classificazioni, di mappe concettuali che aiutino a orientarsi in un fenomeno che nella sua storia ormai più che secolare ha via via accresciuto la propria complessità e disomogeneità. Il presente lavoro ha cercato di percorrere un pezzo di strada in questa direzione. Le difficoltà non mancano, come si è visto. Ma è una strada che, credo, vale la pena continuare a percorrere.



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