giovedì 12 gennaio 2012

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New York Times

25 Settembre 2011
Di PAUL KRUGMAN
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E' possibile essere contemporaneamente terrorizzati e annoiati? Ecco come mi sento a proposito dei negoziati attualmente in corso su come rispondere alla crisi economica dell'Europa, e ho il sospetto che altri osservatori condividano la stessa sensazione.
Da un lato, la situazione in Europa è molto, molto spaventosa: paesi che rappresentano un terzo dell'economia della zona euro sono ora sotto attacco speculativo, l'esistenza stessa della moneta unica è in pericolo, e un crollo dell'euro potrebbe arrecare grandi danni a tutto il mondo.
D'altro canto, i dirigenti politici europei sembrano ripetere sempre le stesse cose. Riusciranno probabilmente a trovare il modo di fornire più credito ai paesi in difficoltà, cosa che potrebbe o meno evitare il disastro imminente. Ma non sembrano disposti a riconoscere un fatto fondamentale,   e cioè che senza politiche più espansive monetarie e di bilancio nelle economie più forti d'Europa, tutti i loro tentativi di salvataggio abortiranno.
Ecco la storia fino ad oggi: l'introduzione dell'euro nel 1999 ha portato a un grande boom del credito alle economie periferiche d'Europa, perché gli investitori hanno creduto (erroneamente) che la moneta comune avrebbe reso il debito greco o quello spagnolo sicuri come quello tedesco. Contrariamente a quanto si sente spesso dire, questo boom del credito non è dovuto per lo più ad una spesa pubblica allegra: Spagna e Irlanda erano in realtà in eccedenza di bilancio alla vigilia della crisi, e avevano un basso debito pubblico. Al contrario, i flussi di denaro hanno soprattutto alimentato un enorme boom della spesa privata, soprattutto nell'edilizia abitativa.
Quando il boom dei prestiti si è però bruscamente interrotto, questo ha portato sia ad effetti economici, sia ad una crisi di bilancio. Una selvaggia recessione ha spinto verso il basso le entrate tributarie, spingendo i bilanci in profondo rosso; nel frattempo il costo dei salvataggi bancari ha portato ad un improvviso aumento del debito pubblico. Il risultato è stato un crollo della fiducia degli investitori verso i titoli dei paesi periferici.
E adesso? La risposta europea è stata quella di chiedere, ai debitori in difficoltà, dure misure di austerità di bilancio, con tagli particolarmente accentuati della spesa pubblica, fornendo nel frattempo finanziamenti tappabuchi fino a quando la fiducia degli investitori privati non faccia ritorno. Questa strategia può funzionare?
Non per la Grecia, che in realtà è stata dal punto di vista del bilancio piuttosto allegra durante gli anni buoni, e oggi ha un debito maggiore di quanto possa plausibilmente rimborsare. Probabilmente non per l'Irlanda e per il Portogallo, che per ragioni diverse hanno anche pesanti oneri del debito. Ma dato un contesto esterno favorevole - in particolare, una forte economia europea, con un'inflazione moderata – la Spagna, che ancora oggi ha un debito relativamente basso, e l'Italia, che ha un elevato livello di debito, ma un deficit sorprendentemente piccolo, potrebbero farcela.
I responsabili politici europei sembrano però decisi a negare purtroppo ai debitori l'ambiente di cui hanno bisogno.
Pensatela in questo modo: la domanda privata nei paesi debitori è affondata con la fine del boom  finanziato dal debito. Nel frattempo, la spesa del settore pubblico viene drasticamente ridotta da programmi di austerità. Allora, da dove possono provenire i posti di lavoro e la crescita? La risposta dovrebbe essere dalle esportazioni, soprattutto verso altri paesi europei.
Ma non ci può essere un boom delle esportazioni se i paesi creditori seguono anche loro politiche di austerità, molto probabilmente spingendo così l'Europa intera verso la recessione.
Inoltre, i paesi debitori hanno bisogno di tagliare i prezzi ed i costi relativamente ai paesi creditori come la Germania, cosa che non sarebbe troppo difficile se la Germania avesse un 3 o 4 per cento di inflazione, permettendo così ai debitori di guadagnare terreno semplicemente mantenendo una  inflazione bassa o pari a zero. Ma la Banca centrale europea ha una tendenza deflazionistica: ha già fatto un terribile errore aumentando i tassi di interesse nel 2008 proprio mentre la crisi finanziaria stava guadagnando terreno, e ha dimostrato di non avere imparato nulla ripetendo lo stesso errore quest'anno.
Di conseguenza, il mercato si aspetta ora un'inflazione molto bassa in Germania - circa l'1 per cento nei prossimi cinque anni – cosa che implica una significativa deflazione dei Paesi debitori. In questo modo si accentuerà sia la loro caduta in basso, sia il peso reale dei loro debiti, più o meno garantendo in questo modo che tutti i tentativi di soccorso falliscano.
Non vedo inoltre alcun segno che le élite politiche europee siano pronte a ripensare il loro dogma “moneta forte e austerità”.
Parte del problema può stare nel fatto che queste élite politiche hanno una memoria storica selettiva. Gli piace ricordare l'inflazione tedesca dei primi anni '20, una storia che, di fatto, non ha alcuna  relazione con la nostra situazione attuale. E quasi mai ricordano però un esempio molto più rilevante: le politiche di Heinrich Brüning, cancelliere della Germania nel 1930-1932, la cui insistenza sull'equilibrio di bilancio e sulla difesa dello standard aureo rese la Grande Depressione peggiore in Germania che nel resto d'Europa, ponendo così le premesse per sappiamo tutti cosa.
Non mi aspetto per la verità che accada qualcosa di altrettanto terribile nel 21° secolo.
C'è tuttavia un divario molto ampio tra ciò di cui l'euro ha bisogno per sopravvivere e ciò che i leader europei sono disposti a fare, o addirittura a dire di fare. E di fronte a questo divario,  è difficile trovare motivi di ottimismo.

PAUL KRUGMAN.


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