venerdì 13 gennaio 2012

cassano libro

I SUD. CONOSCERE, CAPIRE, CAMBIARE.
Marta Petrusewicz, Jane Schneider e Peter Scneider

TRE MODI DI VEDERE IL SUD
Franco Cassano

Puntualità ed egemonia
Ci sono più modi di leggere il Sud, quadri concettuali diversi all’interno dei quali è possibile inserire, definire e spiegare la condizione meridionale. Questa osservazione non è certo inedita o sorprendente: da tempo, infatti, è noto che le scienze sociali non sono caratterizzate da una situazione di monopolio paradigmatico, nella quale un quadro concettuale domina da solo e stabilmente il campo, ma dalla permanente ed insopprimibile esistenza di una pluralità di paradigmi a confronto fra loro. E le differenze tra una prospettiva e l’altra sono rilevanti, costituiscono un vero e proprio salto: laddove un paradigma vede anatre l’altro vede conigli. Data questa insuperabile pluralità e tensione tra le prospettive non si può parlare di un monopolio fermo e stabile di una di esse, ma solo, di prevalenza temporanea, di periodi, di egemonia.
Ovviamente i paradigmi nelle scienze umane, generano non solo teorie ed analisi diverse, ma anche politiche differenti.

Ogni egemonia individua responsabilità e propone  protagonisti, premia alcuni e penalizza altri. Il conflitto tra prospettive è un confronto non solo tra studiosi, ma tra immagini del mondo e tra interessi spesso aspramente contrapposti.

In sintesi, ci pare che si possano individuare tra paradigmi diversi, che non hanno certo lo stesso peso, ma illustrano sicuramente le alternative teoriche più rilevanti.

I. il paradigma della I dipendenza ovvero dello sfruttamento;
2. il paradigma della modernizzazione ovvero del ritardo;
3. il paradigma dell’autonomia ovvero del Sud come risorsa critica.
Nei paragrafi successivi proviamo a ripercorrere i tratti essenziali di questi tre paradigmi.

2. Il paradigma della dipendenza
Secondo questo paradigma il Sud è vittima di un meccanismo sistematico di sfruttamento, espropriazione e spoliazione delle risorse a favore delle aree forti. Le aree sviluppate e quelle cosiddette arretrate non rappresentano dei dislivelli temporali tra i processi di modernizzazione, ma sono le due facce di un medesim meccanismo di dominio. Lo sviluppo e la modernità, di cui si vantano i paesi più avanzati, sono inconcepibili senza lo sfruttamento dei paesi coloniali.

Al suo interno tutto ruota intorno alla coppia concettuale centro/periferia. I paesi “arretrati” non sono in ritardo rispetto a quelli sviluppati e l’aggettivo sottosviluppato non illustra uno scarto temporale, ma il compimento di una subordinazione funzionale dell’area debole. Quest’ultima, infatti, non è un’area sempre uguale a se stessa e attardata da una tradizione arcaica,  ma diventa periferica, specializzandosi in quelle attività marginali e subalterne che si conciliano con gli interessi del centro. Essa in altri termini si trasforma, si sottosviluppa, perdendo sempre più la sua autonomia.

Secondo questo paradigma chi sta prima ed avanti in realtà sta sopra, e quindi la vera soluzione del problema non viene dalla rincorsa o dalla pedagogia dello sviluppo, ma dal conflitto e dal rovesciamento del rapporto di subordinazione.

Nessuno sviluppo autonomo è quindi ipotizzabile senza mettere a tema l’antagonismo di interessi esistente tra le aeree periferiche  e quelle centrali.

La variante oggi più conosciuta del paradigma della dipendenza è quella dell’economia-mondo messa a fuoco da  Immanuel Wallerstein.

Il rischio di dare all’analisi una torsione deterministica è segnata da un profondo pessimismo, che nega alle aree sottosviluppate la possibilità di migliorare in modo significativo la propria condizione. L’interdipendenza tra le economie sembra disegnata da un destino immutabile, da un’asimmetria cosi profonda da negare qualsiasi mutamento reale, qualsiasi apertura di opportunità. Proprio per questa ragione il paradigma della dipendenza, con il suo rigido funzionalismo, viene messo in crisi da tutti quei casi di successo che hanno consentito ad alcuni paesi sottosviluppati di risalire nella gerarchia internazionale, dall’ascesa delle “tigri asiatiche” allo sviluppo della Cina e dell’India, alle dinamiche innovative di alcuni paesi dell’America Latina.

Lo sviluppo viene visto sempre come un gioco a somma zero, nel quale, dietro l’apparenza di un movimento in cui tutti guadagnano, la gerarchia rimane immutata.

Proprio per questa ragione l’influenza del paradigma della dipendenza, che negli anni ’60 era stata rilevante, si è ridotta rispetto ad allora.

Immanuel Wallerstein è venuto allargando il suo quadro teorico e mettendo a fuoco l’esistenza, tra il centro e la periferia, di aree semi-periferiche, innovazione che permette di assorbire meglio e spiegare una fenomenologia varia e inquieta, difficilmente riducibile ad una dicotonomia rigida e statica.

3. Il paradigma della modernizzazione
Questo paradigma, che è stato ed è, nelle sue diverse varianti, di gran lunga il più diffuso, legge il Sud come un’area territoriale affetta da ritardo. Se l’evoluzione di tutte le società umane è segnata dal passaggio dalla tradizione alla modernità.

La condizione meridionale non è un handicap ontologico irreversibile, ma uno svantaggio che può e deve essere superato attraverso una massiccia trasformazione sociale e culturale.

Ci limiteremo a ricordare le due versioni più importanti di questo paradigma.

1. Nel trentennio che segue la fine del secolo conflitto mondiale la versione dominante del paradigma è stata quella riformistico-progressista. Secondo tale prospettiva il ritardo deve essere affrontato e combattuto attraverso politiche d’intervento straordinario da affidare all’autorità pubblica, cui spetta il compito di ridurre gli squilibri territoriali e le disuguaglianze tra i cittadini.

Il Sud va quindi sollecitato in primo luogo dall’esterno e dall’alto, attraverso politiche capaci di promuovere le forza più innovative e allargare lo sviluppo e il benessere.

2. Del paradigma del ritardo esiste una versione molto diversa, affermatasi negli ultimi vent’anni, quella liberista, che vede con preoccupazione e con ostilità l’intervento dello stato. Secondo questa prospettiva le più arretrate vanno sollecitate allo sviluppo con una strategia diametralmente opposta. Chi è arretrato è l’unico responsabile della propria arretratezza e quindi se vuole svilupparsi deve imitare chi è più avanti di loro.

Perché questo accada è necessario usare una strategia dura, spingere il Sud a contare solo sulle proprie forze, tenendolo lontano dalle scorciatoie ingannevoli e corruttrici che nascono all’ombra dell’intervento statale.

Secondo la versione riformistica l’autorità pubblica ha l’obbligo di ridurre le disuguaglianze e di aiutare le aree arretrate a svilupparsi: la trasformazione culturale deve essere accompagnata da strategie che aiutino lo sforzo alla modernizzazione . Secondo la versione liberista, invece, l’intervento dello stato non è la soluzione, ma il problema , perché la dipendenza di intere aree dai trasferimenti statali genera passività e irresponsabilità, l’esatto contrario della solidarietà  operosa da cui nasce lo sviluppo.

Le disuguaglianze  non nascono né da meccanismi strutturali né dall’assenza di politiche pubbliche, ma solo dal differente grado di mobilitazione ed impegno.

Questa morale selettiva e darwiniana perde l’ottimismo universalista che animava la versione riformista. Il mondo non è di tutti, ma di chi è capace di guadagnarselo : agli altri è giusto che spetti solo ciò che rimane.
Di questo imperativo (contare sulle proprie forze) esistono tuttavia versioni più sofisticate e sociali, che assegnano un ruolo cruciale  alla dimensione locale, per sollecitare tutte le energie occorre iniziare dalla piccola  scala e dall’autogoverno municipale. In questi casi l’individualismo liberista viene temperato dall’enfasi sulla dimensione locale e comunitaria. La competizione non avviene solo tra individuo o imprese, ma anche e soprattutto tra sistemi locali.

Tale coesione è garantita da un’altra dotazione di beni relazionali, come la fiducia che nasce dalla prossimità e il capitale sociale, in altre parole da risorse non economiche. In questo quadro il localismo virtuoso, vale e dire la mobilitazione costante di tutte le condizioni non economiche dello sviluppo, è la chiave di volta che consente ad una comunità locale di reggere ed affermarsi nella competizione  globale.

L’impegno dello stato di sostegno alle zone arretrate appare come una vera e propria forma di sfruttamento delle aree forti da parte di quelle più deboli. Il federalismo e la rivolta fiscale illustrano questa tendenza che liquida e dissolve i vecchi legami e le vecchie solidarietà territoriali. Ogni accenno alla questione meridionale viene dipinto come una costruzione ideologica che legittima nel Sud vittimismo, passività e rivendicazioni

4. Il paradigma dell’autonomia
Questo paradigma, che vede il Sud come punto di vista critico, rovescia tutte le carte del gioco e mette in discussione l’assunto principale della questione meridionale, perché ritiene che la rappresentazione del Sud come una condizione patologica, e quindi categorie come quelle di ritardo e arretratezza, siano una costruzione culturale  elaborata dal soggetto più forte. Secondo questa costruzione il Sud, nella migliore delle ipotesi, è un Nord eternamente imperfetto.

Al suo interno il Sud ha uno statuto diverso se non opposto a quello essenzialmente negativo attribuitogli negli altri paradigmi: lungi dall’essere un concentrato di patologie ed anomalie dalle quali occorre emendarsi più presto, esso costituisce una forma di vita diversa ed autonoma dalla modernità e quindi estranea si alle sue conquiste, ma anche alle sue patologie.

Insomma lungi dall’essere una patologia il Sud rappresenta l’occasione per l’avvio di un percorso autonomo e di una visione più ricca e complessa di quella che viene celebrata dai cantori delle “magnifiche sorti e progressive”.
Di questo paradigma sono possibili parecchie declinazioni. In primo luogo ne ricorderemo due che si muovono in direzioni nettamente divergenti.
1. La prima è quella che, per comodità, definiremo postmoderna. Secondo essa la differenza meridionale è una differenza tra le tante, una componente importante di una policromia che permette di sostituire al monoteismo della modernità, della ragione calcolante e dello sviluppo, il politeismo delle culture, tutte ugualmente degne di rispetto e di considerazione.

Il cuore di questa posizione sta nella rivendicazione del valore di un’identità ricca e molteplice, lontana da ogni ossessione di purezza e aperta al valore della contaminazione.

2. la seconda variante è quella che potremmo definire apocalittico-comunitaria. Essa vede l’avvento della modernità come l’affermazione di una megamacchina, di una forma di razionalità calcolante, astratta e senza freni, che distrugge tutti i vecchi legami comunitari e sostituisce ad essi un individualismo governato dagli imperativi utilitaristici del mercato. Si tratta di una critica più radicale, di quella proposta dagli orientamenti postmoderni, perché, più che esaltare il politeismo delle culture, propone un’alternativa radicale e globale alla macchina globalizzante e distruttiva della modernità.

Tra queste versioni opposte se ne pone poi un’altra che, pur muovendo da una critica radicale della modernizzazione reale del Sud e delle sue devastazioni, cerca di sottrarsi all’attrazione di uno scontro frontale tra Sud e modernità.

La dimensione chiave di questa idea del Sud sta nella convinzione che sia possibile costruire un’idea di ricchezza diversa, autonoma  dalla rincorsa infinita dei profitti e dell’appropriazione privata, ricca di beni comuni. Il Sud non ha solo da imparare, ma anche qualcosa da insegnare.

Lo sviluppo può battere strade diverse, da quelle già conosciute e all’autonomia spetta il compito di ricostruire percorsi originali e interpretare in forma nuova ed aperta le tradizioni. Spetta alle classi dirigenti del Sud scoprire rotte che spesso sono antiche ed inedite, saper distinguere, praticare la difficile arte di gettare via la chiusura senza perdere forme di esperienza non dominante dal fondamentalismo  della velocità  e della produzione, da una progressiva e distruttiva “compressione spazio temporale”.

3Confronti e bilanci
E’ opportuno a questo punto richiamare il presupposto epistemologico del nostro discorso: ognuno dei paradigmi descritti mette in luce alcuni aspetti della realtà meridionale, ma nello stesso tempo rimuove quelli che mal si adattano al suo quadro concettuale.

Riprendendo la metafora di Kuhn, conviene che chi vede solo papere si alleni a vedere anche conigli e viceversa. Insomma la sfida sta nel riuscire a rendere conto della maggior porzione possibile di realtà.

Questo confronto va fatto però, vale la pena ribadirlo, senza rimuovere un dato essenziale di forza extracognitiva esistente tra i paradigmi, alcuni dei quali sono solidamente insediati nelle istituzioni internazionali, proprio perché rappresentano le aree più forti del pianeta, mentre altri si appoggiano su soggetti spesso deboli e molto meno dotati delle risorse necessarie per farsi conoscere o ispirare politiche di un qualche peso.

Abbiamo ripetutamente ricordato i limiti del paradigma della dipendenza e le falsificazioni a cui le previsioni pessimistiche da esso formulate lo hanno esposto. Ma questi “incidenti”, che pure hanno favorito il declino di un’egemonia, non devono condurre alla convinzione che  le teorie della dipendenza non abbiano messo a fuoco alcune dimensioni decisive della condizione meridionale, in primo luogo il peso del dislivello nei rapporti di forza, tra le aree sviluppate e quelle sottosviluppate.

Sull’altro versante occorre riconoscere che la versione riformista e progressista del paradigma della modernizzazione possiede, specialmente si la si paragone all’avarizia pedagogica della versione liberista, una sincera ancorché moderata aspirazione all’uguaglianza dei cittadini. Il modernismo progressista ritiene il mercato un sicuro valore ma sa bene che esso, lasciato alla sua spontaneità, non ha interesse a ridurre i ritardi delle zone arretrate, e quindi postula che tale compito spetti allo stato.

Nel caso italiano l’egemonia d questo orientamento ha portato alla politica dell’intervento straordinario (che ha avuto in Pasquale Saraceno la sua figura più influente), segnando un periodo storico che ha conosciuto fasi differenti, ma tutte costantemente ispirate alla convinzione di poter ridurre se non annullare il “ritardo” meridionale.

Ma con il passare degli anni, nonostante i massicci investimenti è diventato evidente che il divario tra il Nord e Sud non è scomparso, mentre i flussi della spesa pubblica hanno prodotto assistenza, parassitismo e clientelismo molto più che dinamismo economico. Al vecchio blocco agrario si è sostituito un blocco sociale nel quale diventa sempre più forte il peso del ceto politico e di figure non produttive e dipendenti dal flusso delle risorse pubbliche.

E’ in quegli anni che inizia il ribaltarsi l’immagine del Sud esso non è più arretrato ma dipendente e parassitario. La crescente visibilità di questi effetti perversi logora la versione riformistico-progressista del paradigma e apre la strada all’egemonia di quella liberista.

A questa logica centralistica la versione liberista contrappone, almeno nelle sue formulazioni più sofisticate ed equilibrate, la necessità dell’autonomia, un ribaltamento della dipendenza della società meridionale dal flusso delle risorse pubbliche. Si tratta di rovesciare il rapporto tra economia e politica e di provare a costruire il mercato laddove autonomia è debole, in quanto è costantemente corroso dall’invadenza della politica, dalla ricerca ossessiva del consenso e dalle patologie che normalmente la accompagnano.

Il limite di questa prospettiva sta proprio nel suo esasperato moralismo volontaristico.

Se è vero che trascurare la dimensione locale è stato l’errore compiuto nel passato, è altrettanto vero che attribuire solo alla mobilitazione virtuosa delle classi dirigenti meridionali la capacità di cancellare l’arrtratezza significa ridurre il numero della variabili su cui si deve intervenire, accorciare il respiro della politica necessaria.

La specificità del Mezzogiorno non solo non va cancellata o abolita, ma è la traccia decisiva per annodare i fili di una soggettività nuova, per scoprire, sulla scia di percorsi antichi, la possibilità di convenienze  future. Ad esempio saltare la dimensione mediterranea del Sud italiano sarebbe un errore grave, impedirebbe di sfruttare il grande vantaggio competitivo che viene da una posizione privilegiata nel rapporto con i paesi della costa sud orientale del mare di mezzo. Pensare di poter mutare una condizione, che Wallrstein chiamerebbe periferia della semiperiferia, solo con la mobilitazione del localismo virtuoso espone, e sta esponendo, ad amare disillusioni.

Va infine osservato che il localismo sottostima in modo drastico l’aspetto conflittuale e darwiniano che lo accompagna.

Non appena può chi gode di una posizione di vantaggio catalizza risorse e costruisce barriere. Il gioco delle secessioni non è una forma di follia, ma il risultato necessario della competizione tra sistemi locali.

Uscire da una collocazione periferica, farsi centro, e un processo complesso che passa attraverso il conflitto perché richiede forti discontinuità sia al proprio interno sia nelle relazioni con gli altri.
Abbiamo già esposto gli aspetti innovativi che caratterizzano il paradigma dell’autonomia, ma va subito detto che la strada che esso indica, proprio perché batte percorsi inesplorati, è anche piena di trappole. Il primo pericolo è che la critica della colonizzazione della marginalità, in un’apologia che idealizza il Sud, disegnandolo come se fosse un’entità compatta ed unitaria da cantare liricamente.

Dai migranti al clima, dai paesaggi in offerta speciale allo sviluppo endemico della criminalità organizzata, gran parte del Sud  non è fuori, ma all’interno e in posizione periferica rispetto al grande meccanismo dello sviluppo, non è fuori dalla modernità, ma ne occupa i sottoscala.
E anche per questo che non esiste un solo Sud.

Non solo i Sud sono diversi, ma tra essi esistono contraddizioni, che aprono il varco a divisioni e conflitti, come sempre succede a chi è più debole. Quindi nessun idillio comunitario, nessuno forma di orientalismo rovesciato.

Il paradigma dell’autonomia deve imparare a confrontarsi in modo non dogmatico con gli altri paradigmi. Esaltare la differenza del Sud non significa rassegnarsi al margine, chiudendo gli occhi sul fatto che le decisioni importanti (come insegna il paradigma della dipendenza) vengono prese quasi sempre altrove, dai più forti e nel loro interesse. E’ forse questo il punto più importante e delicato, quello de differenziali di potere tra il Sud e le aree forti, ma anche tra i diversi Sud, un tema che sembra essere uscito da tutte le agende e che invece oggi torna ad avere un calore cruciale.
Autonomia significa quindi evitare di chiudersi in piccole nicchie identitarie perdendo il gusto dei grandi scenari e del futuro (come insegna l’ottimismo riformistico). L’autonomia non è seduta sul vittimismo plebeo, ma su una crescita della cittadinanza, su un’assunzione forte di responsabilità da parte del Sud. L’attribuire ad altri, ai “nemici” del Sud, ogni responsabilità è una grave semplificazione, ma anche un gioco che non fa crescere e incrementa le patologie.

L’autonomia è una cosa seria solo se chi decide di praticarla sa nello stesso tempo essere esigente con se stesso e disturbare i rapporti di forza. Altrimenti non va da nessuna parte. Autonomia quindi non significa autarchia culturale, ma apprendimento e immaginazione, confronto con tutte le esperienze che tentano di battere strade non disegnate sulle mappe esistenti e che proprio per questo hanno bisogno di collegarsi e conoscersi.

La via dell’autonomia è quella che punta al plusvalore che viene dalla cooperazione, dalla costruzione di una nuova area geopolitica e geoeconomica, di un nuovo centro capace di affiancare quelli esistenti. La questione meridionale è parte della questione mediterranea: affrontarle separatamente non ha senso e porta solo a risultati parziali. L’autonomia richiede un’immaginazione geopolitica coraggiosa.

Di fronte alla secessione fredda non federalismo solidale, ma subito un’area euro mediterranea, incalzare l’Unione Europea e il governo italiano, spingendoli ad uscire da una micidiale miscela di retorica ed inerzia. Ma occorre far presto e saper pensare il conflitto perché, in un quadro così complessivo, chi attende è destinato alla sconfitta.

   

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