giovedì 12 gennaio 2012

GUIDO DORSO TESTI SELEZIONE DE SANTIS

Dorso. Il Risorgimento dimezzato: la conquista regia e la sconfitta della rivoluzione

Nel primo capitolo de “La rivoluzione meridionale”, che qui riproponiamo, Guido Dorso individua e analizza i limiti del processo di unificazione, realizzatasi non nei termini di una auspicabile grande rivoluzione condivisa dalle masse popolari, ma come mera estensione dell’apparato burocratico-militare sabaudo. Venivano così a generarsi, nelle dinamiche politiche nazionali alcuni tratti illiberali destinati a perdurare almeno fino alla caduta del fascismo.

Sul finire del 1925, anno decisivo nel passaggio alla dittatura aperta da parte del regime mussoliniano, usciva per le edizioni della “Rivoluzione liberale” il volume “La rivoluzione meridionale” di Guido Dorso, esponente del nuovo meridionalismo democratico e collaboratore anche del quotidiano di Piero Gobetti.
Si trattava di un volume importante, destinato a fare da spartiacque per molti versi rispetto al vecchio meridionalismo dei Fortunato e dei De Viti De Marco. L’intellettuale irpino individuava infatti la nascita della questione meridionale nel Risorgimento stesso. Ad essere criticato non era in realtà il processo di unificazione, di cui anzi si affermava il valore, ma le particolari modalità con cui quello si era realizzato. “La rivoluzione meridionale” si apriva proprio con il capitolo denominato “Il Risorgimento e la conquista regia”, il testo sotto riprodotto. Nello scritto Dorso individua e analizza i limiti del processo di unificazione come grande rivoluzione nazionale condivisa dalle masse popolari. Sottolineando questo dato l’autore riprendeva un tema, quello del carattere minoritario dell’epopea risorgimentale, già presente nel dibattito politico italiano sin dall’apparizione del volume di Alfredo Oriani “La lotta politica in Italia” (1892). Se Oriani aveva però celebrato l’incontro/scontro tra le duplici minoranze costituite dal Piemonte e dal gruppo democratico-mazzianiano conclusosi con la sostanziale vittoria del primo, per Dorso la radice del distacco tra paese legale e paese reale era dovuta proprio al verificarsi del «dissolvimento di tutte le correnti ideali che si disputarono la direttiva della rivoluzione, nel grigio incedere della conquista piemontese». Pensando il Risorgimento in termini di grande rivoluzione, insieme per la conquista dell’indipendenza e della libertà politica, lo studioso meridionale denunciava la scelta dell’apparato burocratico-militare sabaudo di costruire il nuovo Stato italiano come sua mera estensione «dal Piemonte alle altre regioni italiane, attraverso una serie di aggiramenti, di compromessi, di accorgimenti». In questo modo si era sì unificato il paese ma, al contempo, si era cancellata l’indispensabile connessione tra indipendenza nazionale e cittadinanza attiva per le masse popolari che lo spirito rivoluzionario del Risorgimento potenzialmente proponeva. «Il meccanismo della conquista fu quello di evitare, di eludere le soluzioni ideali, per stendere su di esse il velo della transazione politica», scrive Dorso.
La transazione politica appare dunque il tratto dominante di questo Risorgimento dimezzato dai moderati, di cui Cavour viene considerato l’ispiratore principale. Lo statista piemontese avrebbe sempre tentato «di spegnere ogni intransigenza ideale, che avesse potuto maturare, per lo meno nelle élites, una più accesa passione di libertà», isolando «gli uomini che si rifiutavano tenacemente di aderire al suo sistema» e affogando così «nello stretto circolo di conservazione della monarchia piemontese, l’incendio romantico del Risorgimento». Cavour, per Dorso, è dunque il maestro del trasformismo che avrebbe poi caratterizzato l’Italia liberale, e la «conquista regia», oltre che illustrazione dell’integrazione su basi conservatrici delle classi dirigenti degli Stati preunitari nella nuova statualità appena nata (tema poi ripreso da Gramsci nei “Quaderni del Carcere”), è usata quale metafora di un sistema di potere destinato, nel corso degli sviluppi della nostra storia nazionale, a corrompere la spinta dal basso, democratica prima e socialista poi, nel momento stesso in cui quest’ultima avrebbe riproposto la questione della libertà, «una delle necessità ideali rimaste insolute nel processo formativo dello Stato italiano».
Incentrato sull’assenza di opposizioni solide, il sistema politico italiano risultava secondo Dorso privo di «un vero e proprio centro di stabilità». Per questo esso tendeva ad assumere «diverse fisionomie» e «doveva vivere continuamente di espedienti, sempre più necessari e sempre più numerosi a mano a mano che il paese progrediva verso forme più alte di maturazione civile». In tale quadro il riconoscimento della sovranità rappresentativa, lungi dall’essere una costante, era accettato «sol quando non eccedeva i dati storici della conquista regia, anzi meglio quando si prestava compiacentemente a nasconderli dietro la parvenza di un giuoco politico anonimo». Tale illiberalità di fondo avrebbe accompagnato anche il periodo giolittiano, dove la «conquista regia» si sarebbe tradotta nell’ingabbiamento delle nuove forze sociali rappresentate dal socialismo dentro la cornice industrial-protezionistica voluta da Giolitti, sacrificando nuovamente le masse contadine e il Mezzogiorno ad un destino di marginalità e subalternità. Travolto infine anche quest’assetto dal primo conflitto mondiale, sarebbe giunto il fascismo a fare da ancora di salvezza del regime creatosi a partire dal 1860. Anche l’arrivo al potere del fascismo, avrebbe spiegato Dorso nella introduzione scritta per la ristampa della “Rivoluzione meridionale” uscita nel 1944, era in realtà il frutto di «un nuovo compromesso istituzionale». Quest’ultimo sarebbe stato messo in crisi dallo scatenarsi della violenza fascista in occasione del delitto Matteotti, ma la scelta di casa Savoia «in nome di un costituzionalismo formale, che tante volte era stato violato, e che già non esisteva più» di «accordare i pieni poteri» a Mussolini avrebbe permesso la sua ricostruzione su basi profondamente mutate, permettendo al duce di fascistizzare lo Stato e di legare ancor di più a sé pezzi della classe dirigente liberale. Nel patto scellerato con il fascismo tramontavano definitivamente gli ideali risorgimentali, la cui eredità sarebbe stata raccolta invece dall’antifascismo, che con l’occasione aperta dalla Resistenza avrebbe ricollegato la riconquista dell’indipendenza nazionale con la costruzione della democrazia aperta alle masse popolari (“Introduzione” a La rivoluzione meridionale, Einaudi, Torino 1997, pp. 14 e 16, pp. 18-19).


Il Risorgimento e la conquista regia[1]

Il fallimento ideale del Risorgimento

La storia del Risorgimento italiano è ancora da scrivere. Troppo ha gravato su questo genere di studi l’ossequio al fatto compiuto e l’insufficienza di generazioni, immiserite dal fallimento di ogni sforzo ideologico per giustificare la realizzazione dell’unità nazionale.
Tuttavia alcuni scrittori, con quel caratteristico genio degli italiani di intuire di slancio alcune idee centrali, hanno tentato la sintesi senza aver compiuto l’analisi, hanno cercato di penetrare il meccanismo interno della formazione unitaria senza aver fatto il processo ad ogni momento di essa.
Taluno movendo dal fallimento delle ideologie federaliste repubblicane (Cattaneo, Ferrari) e da un romanticismo neo-imperiale (Oriani), talaltro, invece, prendendo le mosse dal liberalismo classico (Missiroli, Gobetti) e dallo stesso processo di sviluppo del socialismo nazionale (Salvemini), talaltro, infine, risalendo alla mancanza di una riforma religiosa (Missiroli, Gangale), hanno tentato tutti di misurare le soluzioni storiche al lume di principi ideali per determinarne le incomparabili deficienze.
Ma anche tra essi vi è un residuo teorico comune che è conosciuto nel mondo della dottrina con la frase comprensiva di conquista regia.

La conquista regia

La caratteristica essenziale del nostro Risorgimento è costituita dal dissolvimento di tutte le correnti ideali, che si disputarono la direttiva della rivoluzione, nel grigio incedere della conquista piemontese.
Lo Stato non si formò negli animi dei cittadini, per poi affiorare, a mano a mano che la maturazione si completava, ma si estese dal Piemonte alle altre regioni italiane, attraverso una serie di aggiramenti, di compromessi, di accorgimenti, che appiattirono la conquistata indipendenza, e scoprirono l’assenza del concetto di libertà come principio rivoluzionario.
Il risultato di questo processo fu, dunque, uno Stato piemontese territorialmente più vasto, ma, come ispirazione ideale, egualmente angusto. Anzi la continua necessità di transazione con i ceti dominanti degli ex Stati ne restrinse sempre più l’ispirazione ideale.
Ne derivò una conquista grigia, fredda, uniforme, che, a mano a mano che progrediva, lasciò insoluti tutti i dati ideali della rivoluzione: la libertà, le autonomie locali ed i rapporti fra lo Stato e la Chiesa, campo classico ove si saggiano le limitazioni della libertà.
Il meccanismo della conquista fu quello di evitare, di eludere le soluzioni ideali, per stendere su di esse il velo della transazione politica.
Così la monarchia dimostrava di temere la spinta della rivoluzione, per impedire che questa, trasportando gli animi in atmosfere più fortemente ossigenate, rendesse inutile il suo grigio intervento.
Di qui, anche dopo l’unificazione, la necessità delle continue transazioni con la rivoluzione, ogni qualvolta questa tentava di rimettersi in marcia, transazioni finora riuscite per la profonda immaturità politica delle masse italiane e per la scarsa zona di risonanza dei tentativi rivoluzionari.

La politica di Cavour

Cavour fu il grande ministro di questa politica, il realizzatore per eccellenza.
Egli fu l’avversario più deciso delle correnti rivoluzionarie espresse dal travagliato spirito nazionale. Fedele ministro del suo re, egli pose quei dati storici della conquista regia che gli anni successivi più ampiamente svilupparono.
Così s’iniziò quel processo di eviramento della rivoluzione mercé le transazioni personali con i capi, che costituì l’insegnamento più duraturo del grande ministro nella storia unitaria italiana. Servendosi delle peggiori caratteristiche della razza, quali la debolezza nella fede e l’amore eccessivo per il comando, Cavour tentò spegnere ogni intransigenza ideale, che avesse potuto maturare, per lo meno nelle élites, una più accesa passione per la libertà, isolò gli uomini che si rifiutavano tenacemente di aderire al suo sistema, affogò, nello stretto circolo di conservazione della monarchia piemontese, l’incendio romanico del Risorgimento.
Gli storici regi lo giustificano rispondendo che l’immaturità delle masse ed il compito demiurgico, cui egli si accinse, non comportavano altre soluzioni. Ma per noi è preterintenzionale ogni ricerca, che ecceda i freddi dati obiettivi, senza dei quali ogni comprensione degli ulteriori sviluppi è vietata.
Anzi, tanto più ci sembra rilevante l’esame dei dati obiettivi, quando si possa provare esatta l’affermazione degli storici regi, perché non è nostro compito, in questa sede, fare il processo al genio politico del conte di Cavour, ma rilevare quelle caratteristiche essenziali della sua azione che debbono servirci a comprendere – pure a così lunga distanza di tempo – gli avvenimenti odierni.
Perciò non ci sembra di dover dimenticare che Cavour insegnò alla monarchia il metodo attraverso cui distruggere i fermenti rivoluzionari, che, riprendendo la marcia, interrotta nel 1860, avessero preteso, anche dopo l’unificazione, alterare i dati storici della conquista piemontese.
La monarchia socialista

Questo metodo costituisce ormai il sistema di governo dello Stato italiano ed ogni fenomeno politico può essere ricondotto ad esso od alle sue reazioni.
Di tanto in tanto alcuni ministri hanno preteso staccarsene o la marea, montante nel paese, ha dato l’impressione di sommergerlo; ma non è passato gran tempo che, all’infuori delle passioni contingenti, esso è nuovamente emerso e si è avuta la prova che era stato, pur nel silenzio della storia, sicuramente operante.
Perché la verità è sempre la stessa: l’unica contrapposizione dialettica esistente è quella tra conquista regia e rivoluzione, tra soluzione storica e necessità ideale. E la rivoluzione, o che sia bandita in nome della classe, o che sia fatta in nome della Nazione, o che sia desiderata in nome della libertà, è sempre diretta a placare una delle necessità ideali rimaste insolute nel processo formativo dello Stato italiano, e perciò implicitamente rivolta contro la conquista regia.
Ma, attraverso queste antitesi, avviene un giuoco di interesse eccezionale, perché è fenomeno comunissimo nella nostra storia unitaria che forze di provenienza rivoluzionaria siano adoperate in funzione della più gretta conservazione, e forze, così dette conservatrici, lavorino in senso sovvertitore.
Tutto ciò dipende da una parte dall’immaturità generale del paese e dall’altra parte dal fatto che i politici italiani non si rendono esatto conto di tale antitesi ed agiscono come se fossero in grado di svolgere una politica autonoma.
Il più probante esempio di questa verità ci è fornito dalla storia del Partito socialista italiano, che lentamente, attraverso il giuoco dell’intervenzionismo statale, si lasciò aggiogare al carro del giolittismo. Così forze di origine schiettamente liberali, elaborate direttamente dal paese, furono saldate al sistema imperante attraverso il connettivo economico, senza che esse stesse si rendessero sufficientemente conto di questa verità. La critica salveminiana a questa peculiare posizione del socialismo italiano non ebbe vaste risonanze in seno al partito e valse, tutt’al più, ad alitare lo spirito di nuove élites che al socialismo non appartennero mai.
Per lungo tempo Salvemini sembrò un estraneo a tutti i politici italiani, perché questi aderivano al sistema giolittiano, anche quando sembravano avversarlo.
Ed in effetto, quando le opposizioni non fondino la teoria e la prassi su impostazione radicalmente nuova, finiscono per aderire implicitamente alle maggioranze e si autodefiniscono come opposizioni di comodo.
Se tale precisamente non fu la posizione del Psi, tuttavia esso entrava così vivamente nel giuoco della dittatura giolittiana da giustificare la concezione missiroliana della monarchia socialista.
Eppure nessun movimento più di quello socialista avrebbe potuto infrangere il metodo tradizionale per tentare di costringere il regime al giuoco dei partiti moderni.
Ma tale movimento, senza soluzioni critiche della questione italiana (che invece Salvemini cominciava ad elaborare come materia antisocialista) dominato da spirito insurrezionista, per quanto costituito di accortezze riformiste, era esso stesso un esempio vivente della insufficienza italiana alla creazione del partito moderno.
La sua azione contro il regime, dunque, non poteva arrivare al cuore, ma doveva necessariamente limitarsi all’epidermide.

Il sistema delle dittature personali

Queste considerazioni spiegano a sufficienza perché il nostro paese non poté altrimenti essere governato che attraverso le dittature personali. Dopo aver limitato il giuoco dei partiti, anzi dopo aver intuito che esso è potenzialmente diretto a rompere il circolo tradizionale della conquista regia, lo Stato italiano dovette, volta per volta, fondare la sua speranza di conservazione sull’abilità personale dei primi ministri e sulla capacità di adesione, più o meno estesa, che essi manifestavano al sistema tradizionale.
Così i governi italiani furono un quid medium tra il cancellierato germanico ed i gabinetti parlamentari, essendo la sovranità rappresentativa riconosciuta sol quando non eccedeva i dati storici della conquista regia, anzi meglio quando si prestava compiacentemente a nasconderli dietro la parvenza di un giuoco politico autonomo.
Da ciò, conseguentemente, nacque lo scarso ossequio per il Parlamento, anzi il tentativo di paralizzarne le funzioni ogni qual volta ostacolavano le transazioni del regime; il prepotere della stampa, avvelenatrice della pubblica opinione, sovvenzionata da scarsi gruppi finanziari per la difesa d’interessi particolari; la durezza della repressione dei moti popolari, sol che fossero animati da un anelito di libertà, e l’abuso della piazza quando si trattava, invece, di vincere resistenze legalmente manifestate. Ne risultava, quindi, un sistema politico, che non aveva un vero e proprio centro di stabilità, che assumeva diverse fisionomie, secondo le vicende della lotta, che doveva vivere continuamente di espedienti, sempre più necessari e sempre più numerosi a mano a mano che il paese progrediva verso le forme più alte di maturazione civile. Un sistema che ha sempre richiamato ed ancora richiamerà l’attenzione degli studiosi per i suoi continui mutamenti.
E, infatti, se nell’ordinato svolgimento della lotta politica presso le nazioni che hanno raggiunta la piena maturità del regime liberale, può taluno trovare motivo di conforto spirituale, nessuno si meraviglierà se io affermo che dal punto di vista critico i regimi preliberali, come l’Italia, offrono tale varietà di combinazioni da riuscire di gran lunga più interessanti della fredda meccanicità dei primi.
Ma, quando il critico ha scoperto il filo conduttore e lo ha denudato agli occhi del lettore, non potrà non apparire a quale specie di espedienti il regime è costretto a ricorrere sotto la spinta del suo istinto di conservazione, quale grado di immaturità svelino invece i partiti di opposizione.

La nuova conquista attraverso le masse

In verità è questa la constatazione ultima cui ogni esame della lotta politica in Italia deve condurre: constatazione che sola può, quando sia generalizzata, suggerire il rimedio opportuno.
La conquista regia fu possibile tra il ’48 e il ’70 perché la rivoluzione italiana fu opera di minoranze contro od in assenza delle maggioranze.
L’assorbimento delle opposizioni, quindi, non doveva essere molto difficile, sia perché erano ristretti gli interessi in giuoco, sia perché le opposizioni stesse non erano eccessivamente incoraggiate sul terreno dell’intransigenza ideale dall’assenza delle masse.
Però, a mano a mano che queste vengono immesse nella vita pubblica dall’azione elevatrice del progresso economico e culturale, se crescono le possibilità del giuoco transattivo, nella prima fase dell’apporto, per l’immaturità dei nuovi venuti, che vengono utilizzati dal regime in una opera di contrapposizione ai ceti già maturati, a lungo andare non dovranno tardare ad apparire le benefiche conseguenze di questo fatto liberale.
È necessario, però, non perdere mai di vista i concetti che abbiamo tratteggiato per non commettere il facile errore di esaltare movimenti, che, in prosieguo di tempo, si è costretti a sconfessare! Molti italiani, in perfetta buona fede, hanno avuto continue crisi di coscienza, appunto per questa ragione.
Occorre convincersi che la conquista regia continua ancora imperturbabile, riproducendo i suoi schemi e le sue soluzioni, e che, quando taluni strati della popolazione italiana hanno dimostrato di essere pervenuti ad un certo grado di maturità e, perciò, si avviano a reagire ai sistemi di dittatura personale, vi sono sempre vaste riserve su cui fare leva per ripetere il giuoco tradizionale.
Se si vuole, quindi, uscire una volta per sempre da questo mortificante sistema politico occorre conoscerne a fondo la natura per determinare i punti di leva per l’azione politica.
Questo libro si propone di schematizzare l’applicazione del giuoco in quest’ultimo turbinoso periodo della storia italiana, di mostrare, attraverso la natura delle opposizioni, come esso tenda a riprodursi, ed infine di chiarire quando e con quali mezzi la rivoluzione italiana, avviandosi a risoluzione, potrà uscire dal cerchio ristretto della conquista regia, per entrare nel più vasto respiro della rivolta ideale.
Forse la preparazione storica dell’autore ed il suo senso critico non sono adeguati ad un compito così vasto, ma egli si lusinga più di approntare materiale di osservazione per gli altri che conclusioni definitive per sé.


[1] G. Dorso, “La rivoluzione meridionale”, Torino, Einaudi 1977 (ed. or. 1925), pp. 73-81.

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