venerdì 13 gennaio 2012

libro romanzo montesano nel corpo di napoli

NEL CORPO DI NAPOLI
Giuseppe Montesano

Eravamo arrivati a una questione secondo noi fondamentale, e ci stavamo chiedendo se la verità faceva bene alla vita o se invece la vita era fondata sulla menzogna, quando la porta della stanza di Landrò si aprì sbattendo sul muro, ed entrò un uomo basso e rotondo, con i capelli bianchi e un elegante vestito blu. Landrò aveva appena finito di sostenere che nel crollo di tutto il vecchio mondo la verità dei filosofi contemporanei "esprimeva solo la loro miseria", quando l'ometto con voce stridula ]0 interruppe.
"Sì, si. .. lui vuole sapere "la verità" ... 'A verità? 'E ppatane so' bbone cotte, è vero o no? Le patate sono buone cotte, cheesta è 'a verità! Tieni quasi trent'anni e non ti sei laureato, chesta è'a verità!"
Landrò ammutolì, e sembrò fisicamente ritrarsi, come faceva davanti ai piatti che non gli piacevano.
"È vero o no? Ma è pure domenica, e a messa non ci sei andato, eh?" disse rivolto a Landrò, e subito, picchiando a terra un bastone da passeggio che finiva con una punta di metallo, riprese. «Ehhh! 'E ppatane so' bbone cotte ... Ma mio figlio non tiene rispetto per niente, e si crede di capire la veerità. Lui pensa, lui pensa! Sempre con questo Nicce ... Ma chi è 'stu Nicce, che 'a fatto? Uno che è uscito pazzo, è!"
Landrò si era fatto prima paonazzo e poi pallidissimo, e non parlava. Soltanto muoveva rapidamente e impercettibilmente la testa a destra e a sinistra, arricciando il naso e mordendosi le labbra tirandole in dentro. Il vecchio, implacabile, avanzò lentamente nella stanza, picchiando il bastone sul pavimento.
«Ti guadagni il mangiare, tu? Te lo guadagni? Ma che, niente! Tu non sai da dove ti viene, tu tiene 'a pappa pronta! Eh? E che, vuo' fà 'o filosofo? lo so' viecchio, ma tengo ancora chisto» e sbatté con frenesia il bastone su una poltrona che aveva davanti. «Questa è la bella vita tua, senza lavoro, libero e Tanncoi E tu vulisse pure penzà? Sì, sì, domani... E che cosa stavate dicendo? Scusatemi, se vi ho disturbato ... Scusatemi assai, che io sono un vecchio padre stanco, sono ... E nessuno sa com'è veramente mio figlio, nessuno lo conosce a questo qua! Non ci parla, con me, dice che nun capisco niente ... Ma io 'o ssaccio, io 'o ssaccio ... So tutto! 'E ppatane so' bbone cotte, eh? Ma lui con me non ci parla, lui è filosofo ... E allora, me lo volete spiegare voi? O so' troppo ignorante?»
Ora il vecchio si rivolgeva a me puntando mi contro un dito peloso e grassoccio. Pensai che Landrò stesse per svenire, perché si era afflosciato come un cencio, e ora non muoveva nemmeno più la testa di qua e di là, ma un tremito visibile sembrava scuoterlo tutto. Con una voce appena udibile sibilò:
«Vattene ... Per favore. Ti prego di andartene ... Questa è la mia stanza» concluse con un tono quasi implorante
«Ahà ... La mia. stanza! Eh, mio figlio parla bene, non è vero? È preciso, mio figlio, e non va a messa, eh? Non dice chiù nemmeno 'e preghiere ... »
E il vecchio cavò di tasca un libriccino bianco, rilegato in pelle e con sopra stampato un calice con l'ostia.
«Se l'è scordato, questo qua, è vero? Lui pensa! Ma questo non ve lo spiega, a voi. .. Che lui diceva sempre 'e preghiere quann'era piccerillo ... Ma ora non va a messa, non ci va! Lo sentite? Non parla, non dice niente ... E fà bbuono, fà! Lui la vita non sa nemmeno cos'è. 'E ppatane so' bbone cotte, cheesta è 'a verità, e la robba cruda non piace a nessuno, a nessuuno ... Ah, ma lui pensa! Tiene quasi trent'anni e pensa ... Te si' laureato? Eh? Rispondi!»
Landrò si prese la testa fra le mani e gridò: «Statte zitto ... Statte zitto ... »
«Ahà! Mi devo pure stare zitto ... A casa mia? lo il diritto di parlare lo tengo, hai capito? lo sono o-ne-sto! Rovìnati, rovììnati con le mani tue! Facisse almeno 'nu poco'e sport, come il figlio di Savione ... Ti iscrivi alla sua palestra, là so' tutti bravi giovani, figli di amici miei ... E no! Qua ci sta il supeel'uomo, eh? Tengo'o superammo din't' 'a casa mia ... »

Landrò si era addossato al muro basso su cui si apriva la finestra. Di colpo voltò le spalle al padre e appoggiò la fronte al vetro. Intanto il vecchio, sempre lentamente, come spossato dallo sforzo di girarsi, e picchiando con forza il bastone, uscì dalla stanza. lo ero ammutolito, e non avevo il coraggio di guardare che cosa stesse facendo Landrò. Intanto la voce stridula del vecchio aveva ripreso a salmodiare il suo odioso ritornello, e finché si sentì l'urto del bastone che lo ritmava nessuno di noi due si mosse. A un tratto Landrò si staccò dalla finestra, attraversò a scatti isterici la stanza oscillando le braccia come un bizzarro fenicottero, e si precipitò fuori sbattendo la porta proprio come aveva fatto suo padre entrando.
Quella scena così imbarazzante si ripeteva quasi ogni volta che andavo a casa sua. Spesso Landrò ribatteva a suo padre, ma con frasi mormorate e lasciate invariabilmente a metà, o gridava, anche lui in dialetto: "Vavattenne! Vavattenne!", agitando le lunghe braccia come a scacciare un fantasma. Ma questo accadeva molto di rado. I due non si parlavano, o rispondevano oggi a una cosa detta una settimana prima, gridandosi frasi vecchie di anni come se le avessero appena scoperte. Ma il malessere che queste scene mi davano era forse accresciuto da un particolare che col tempo mi apparve quasi osceno: era la straordinaria somiglianza tra padre e figlio. Nel vecchio Landrò il pallore della carnagione si era fatto cadaverico, gli occhi chiari erano diventati acquosi e i capelli biondi si erano scoloriti, come se tutto fosse stato toccato dal decadimento. Eppure, soprattutto dimenticandosi della loro statura, che era sproporzionatamente a favore del figlio, e della magrezza di Landrò, i due avevano la stessa espressione facciale, gli stessi tic, e la stessa voce molle e isterica che nei momenti di rabbia finiva in una sorta di stridulo lamento. Ma in realtà, come si accaniva a dimostrarmi Lanndrò, non c'era niente che potesse legarli. Suo padre era un borghesuccio, un essere che non si era mai sviluppato, e poi era pure un pezzente.
«Un pezzente, sì, un pezzente!»
Si metteva a ridere istericamente, in questi casi, e gridava.
Sua madre invece, quella era una vera signora, che aveva avuto l'unica debolezza di sposare quel pezzente. Quando pensava al matrimonio da cui era nato cominciava a balbettare, e gli compariva agli angoli della bocca una schiumetta bianca.
«Figurati, lui. .. Per lui tutto deve essere piccolo ... È meschino, ecco cos'è! Dirigente? E chi lo ha messo, là, eh? Chi lo ha messo in quel posto? Mio nonno ... E lui non è stato capace di muoversi da quella sedia, e dice pure che è stato onesto! Onesto? Onesto? Quello è un incapace! Lo-ne-stà pri-ma di tut-to!»
Faceva il verso con rabbiosa voluttà a questa frase che il padre ripeteva spesso, digrignava i denti, e cominciava a saltare da un argomento all'altro: la fabbrica di suo nonno, la villa enorme dove aveva giocato da bambino, la mancanza di coraggio del padre. "Mio padre è un inetto" diceva disgustato. Nella sua ditta tutti si erano fatti i soldi, anche il direttore generale che sì, era finito davanti a un tribunale, ma era stato grande almeno a rubare.
«E lui, lui con la sua o-ne-stà e la sua messa ogni domenica .. Povero, è rimasto povero! È 'nu spellecchione!»
Pronunciava male il dialetto, ma si beava di quella parola, I;, ripeteva, ne assaporava tutto il disprezzo. Poi, di colpo, mentre girava in tondo nella stanza si fermava, e a piccoli passetti rapidi andava alla porta, come per vedere se qualcuno stesse origliando, Poi ritornava al centro della stanza e ricominciava, ma con un tono di voce basso, quasi inudibile. Sc io parlavo a voce normale si avvicinava con un Salto e mi prendeva per un braccio facendomi segno di abbassare la voon:. Non si poteva parlare! C'era una congiura contro di lui, il "rimbambito" sicuramente ci spiava, e io sarei stato testimone di tutto. Dovevamo uscire per forza, perché in casa non si poteva più parlare. Sì, c'era solo suo padre, "ma è più che abbastanza", concludeva misteriosamente. Allora uscivamo frettolosi, come due cospiratori, e andavamo a prendere il treno o l'autobus per Napoli. E questo per Landrò era un altro motivo di recriminazione: lo vedevo, lo vedevo dove lo aveva fatto nascere suo padre? E non l'aveva fatto apposta, eh? Noi stavamo proprio dentro "il buco del culo del diavolo", quella era la verità, mi gridava salendo e scendendo dai marciapiedi e urtando incurante i passanti.

Landrò era uno specialista nel parlare camminando. Facevamo a piedi chilometri, sempre parlando e gesticolando, alzando la voce e lanciandoci frasi che dovevano essere ogni volta definitive. A volte eravamo così sprofondati in quelle discussioni che non ci rendevamo conto di essere tornati già due o tre volte sullo stesso percorso: un giro che poteva partire da piazza Garibaldi, salire per il Rettifilo, arrivare a Montesanto e ritornare al punto di partenza scendendo per i Tribunali e ripetendosi da capo uguale. E fu in uno di questi giri che Landrò cavò fuori una sua nuova teoria, che includeva anche suo padre. La nostra principale preoccupazione in quel periodo era se avremmo potuto continuare a "cercare la verità", e nello stesso tempo se dovevamo o no affrontare la realtà: insomma, saremmo stati costretti anche noi a lavorare? Landrò; che si ostinava a combattere quella che definiva la mia "aristocratica accidia", ripeteva che per lui si trattava invece di "fare come tutti". Ma lo diceva soprattutto quando voleva contraddirmi, anche se sosteneva di farlo per aiutarmi a non cadere in un "semplicistico idealismo". La sua teoria su che cosa avrebbe fatto "da adulto", era invece molto diversa da quei propositi di normalità. Una volta lo avevo inchiodato.
"Tu sei così, e parli, e parli, solo perché non devi lavorare.
Ma quanto durerà, eh? Fra dieci anni, ti voglio vedere!. .. Sì, ti voglio vedere fra dieci anni!»
Lui era rimasto interdetto. Dieci anni? Che volevo dire? Si era avvicinato a pochi centimetri dalla mia faccia, fissandomi con sospetto e appuntendo lo sguardo dietro gli occhialetti dorati.
"lo? lo non sono ... lo non voglio essere un privilegiato!
Sei tu che vuoi fare l'aristocratico ... Fra dieci anni! Fra dieci anni? E che ne so!»
Si era messo a ridere istericamente, sbottando poi a dire che tanto lui aveva già passato da molto tempo il punto più alto della sua parabola.
"Guarda qua! Guarda! Mi stanno pure cadendo i capelli!» Si picchiava con l'indice al centro della testa, sghignazzando e facendo smorfie ..
,,'E rughe, tengo pure 'e rughe!»
Tra poco ci sarebbe stato solo il ricordo, dei suoi capelli biondi e lunghi, e allora che cosa gliene poteva importare di se stesso fra dieci anni?
"Già mo' sono un cadavere. Nu muorto!»
Ma questo non voleva dire ancora niente, perché un piano per il futuro ce l'aveva, lui non agiva "con leggerezza". La questione non mi doveva preoccupare, no, se mi preoccupavo ero proprio fuori strada. Lui avrebbe fatto il portiere in un albergo. niente di più niente di meno. Là avrebbe avuto tutto il tempo per pensare, perché tanto a un vero filosofo a che gli servivano i libri? E se non gli riusciva quel piano, ne aveva pronto un altro.

"Mille! Ne tengo mille, di piani! Uno più sicuro dell'altro ... » Poteva fare qualsiasi lavoro, che ci voleva? Andava di moda il turco? E lui avrebbe insegnato il turco. Sì, sì, non lo sapeva, il turco, e con ciò? Si poteva insegnare benissimo quello che non si sa, anzi, meno si conosceva una cosa e meglio era. Ma comunque quelle erano sciocchezze, era inutile che gliela dicessi io, lo sapeva già da solo. E poi il suo vero progetto era un altro.
"È tutto previsto, tutto calcolato. Che ti credevi?»
Si era documentato, aveva studiato la questione a fondo.
Sua madre era morta giovane, nella sua famiglia erano morti i tutti giovani, anche i genitori, i fratelli e i cugini di sua madre. Insomma nella famiglia materna c'era "oggettivamente" quella tendenza alla morte precoce.
"E io ho preso da mia madre! Non arrivo a cinquant'anni, è sicuro. Morirò all'età di Nietzsche, no, all'età in cui è impazzito ... Ora ho già ... Diciamo ventotto anni, quasi...»
Sull'età cominciava a diventare misterioso, come sempre, ma i calcoli li faceva lo stesso: quelli della famiglia paterna vivevano a lungo, suo padre per quanto fosse decrepito si manteneva in forma, e sarebbe arrivato almeno a novant'anni. Poi sbottava: "Sono figlio di un vecchio, 'e capito? Ma perché mia madre si è sposata a 'stu scemo? Lei si è sposata 'o viecchio e a me mi cadono i capelli!»

Comunque suo padre si curava, e sarebbe vissuto esattamente fino a novant'anni, proprio quando lui, Landrò, sarebbe morto. Allora si lanciava in calcoli che scendevano fino ai dettagli più minuti. Sprezzante com'era nei confronti dei soldi, cominciava a invischiarsi in una serie di cifre suddivise per anni, basate sul presunto ammontare della pensione di suo padre, "tanto", sosteneva, "io ho bisogno di pochissimo". L'idea sembrava conquistarlo, ci tornava sopra, e si vedeva che doveva già averci pensato. Eh, il "rimbambito" teneva pure certi soldi da parte, qualche centinaio di milioni, e parecchi dollari, una bella cifra in dollari, mi diceva sogghignando. Ma proprio quando tutto sembrava risolto, e anch'io mi includevo nel "piano per l'eredità" di Landrò, lui cadeva in una sorta di assoluto, disgustato autodisprezzo. Come poteva aver pensato una simile stronzata? Gli tornavano in mente le manie del padre, le sue massime ottuse, il fatto che il vecchio lo "oltraggiava" ogni santo giorno.
«Non è possibile, no! Niente, non se ne fa niente.»
Allora ripiegava di nuovo sull'idea di dover fare "come tutti", di non potersi permettere di essere un privilegiato. Sì, avrebbe fatto il portiere d'albergo, "ma di notte, portiere di notte", così avrebbe avuto tempo, "fin troppo tempo", per dedicarsi alla filosofia.
Il padre di Landrò in realtà non lesinava sui soldi, ma ogni volta che glieli dava cercava di umiliarlo ripetendogli il suo ritornello: «'E ppatane so' bbone cotte» o dicendogli che non andava a messa, non si laureava e voleva pensare? Il risultato era che Landrò aveva quasi meno soldi in tasca di me, cosa che ci rendeva difficile qualsiasi progetto, e soprattutto quello del piano di approfondimento "poetico, scientifico e filosofico".
Da anni giravamo per le facoltà di via Mezzocannone sottoponendo i professori che ci sembravano 'intelligenti alle domande più contorte e impensate, ridendo apertamente di fronte a quelle che ci sembravano solo - come diceva disgustato Landrò - "meschine fughe dal problema della verità". Ma eravamo odiati da tutti. Una volta a un corso su Platone gli studenti erano insorti contro di noi ("Qua ci dobbiamo prendere una laurea!" "Cafoni!" "Un po' di rispetto!") perché avevamo fatto piangere la professoressa di Storia della filosofia antica mettendo in dubbio che "il suo corpo voglioso potesse mai essere in grado di capire la teoria delle idee. E a un corso di Logica ci avevano quasi picchiati quando ci eravamo abbandonati a un irrefrenabile attacco di sghignazzi di fronte ai tentativi secondo noi "irresponsabili e meschini" di dimostrare l'inutilità della metafisica. Insomma il progetto di studi comparati non era più attuabile in quella città, e, a detta di Landrò, "forse nemmeno in Italia".
Ci eravamo ormai convinti che la filosofia non era sufficiente a raggiungere la verità, e avevamo progettato un piano di studio che avrebbe dovuto coinvolgere tutte le discipline principali. Come potevamo fare a meno di fisica, chimica, biologia e cibernetica? Avevamo ripreso a studiare la chimica da un libro di liceo, ma Landrò si era arenato alla pnma pagina.
«Ma sono nozioni elementari, Landrò.»
«Lo dici tu, la questione invece è profondamente filosofica.» In realtà aveva cominciato a mettere in discussione "i fondamenti" stessi della materia, per finire poi col "sospendere" la sua fiducia persino nella tavola degli elementi. E lo stesso ci era capitato affrontando i più semplici teoremi di geometria analitica, dove ci eravamo impantanati già sul concetto di linea. Eppure, per quanto considerassimo in fondo la scienza meno rigorosa della metafisica, non potevamo trascurarla. E il progetto doveva includere anche la teologia, le lingue orientali, lo studio dei fenomeni paranormali.
Ma il tempo? Quanti anni o mesi ci volevano per ogni singola disciplina? II tempo da dedicare al progetto si dilatava oltre ogni possibile prospettiva. E come avremmo vissuto in quei "dieci anni minimo" di studio? Era certo impossibile pensare di lavorare. Così io avevo aderito con vero entusiasmo al progetto di Landrò di vivere alle spalle del padre, progetto nel quale mi ero incluso pensando che in fondo non fosse più assurdo usare i soldi del vecchio Landrò piuttosto che mettersi a lavorare. Il lavoro mi sembrava un'assoluta follia. Credevo ciecamente nelle parole di Rimbaud: Non lavorerò mai! E mi esaltavo quando ripetevo che nei confronti del mondo io ero in sciopero, o quando pensavo a Rimbaud che in un tema alle elementari aveva scritto che non voleva imparare niente perché di "posti" lui non ne voleva: "Vivrò di rendita", aveva detto, e noi interpretavamo alla lettera quelle parole. Eravamo convinti che bisognasse agire però con circospezione, con astuzia, cercando di aggirare alle spalle la realtà. Così la teoria di Landrò diventava ai miei occhi sempre più seducente, e lui stesso, fra alti e bassi, sembrava aver risolto così il problema dell'entrare nella vita".
Ma la situazione non migliorava, e una sera Landrò mi informò che da quella mattina aveva "completamente rotto" con suo padre.
E capito che 'a fatto? È venuto a trovarlo un suo amico, un rincoglionito come lui, uno che ogni volta che mi vede mi dice: "Non ti sei laureato ancora? E quand'è che cominci a lavorare?" Ma tu capisci? 'Sti duie viecchie rincoglioniti stavano là a parlà 'e strunzate, allora mio padre mi ha chiamato ... »
Qui cominciò ad alterarsi, proprio come doveva essere successo nella realtà. A lui? Suo padre lo chiamava come se fosse un bambino per salutare quello stronzo che gli diceva sempre la stessa cazzata? Come si permettevano? Ma lui non voleva mettersi contro, doveva essere furbo, più intelligente di loro, perché lui aveva il suo progetto! C'era andato, aveva salutato, si era sentito umiliare come sempre, ma non aveva detto niente, perché voleva resistere. Ma poi era successo" 'o fatto".
«Io stavo uscendo, e vedo che quel citrullo di mio padre l'O' ccirere 'na mosca.,. Eh, ma tu 'e capito?»
Quei due vecchi rimbambiti si erano messi a dare 1a caccia alla mosca, a saltellme, a salire su divani e poltrone, ad appendersi alle tende ... L'amico cercava di acchiappare la mosca al volo, ma suo padre aveva preso qualcosa dal tavolo, un libro.
«Le poesie di TrakI! 'E poesie 'e Georg Trakl!»
Quasi si strangolava raccontando, non ci poteva pensare, la l'osa era troppo enorme. Come si era permesso quel demente? Trakl? Georg Trakl per schiacciare una mosca? Lui si era precipitato nella stanza e aveva cercato di strappare il libro di mio  al padre, ma quello lo sbatteva sul muro cercando di uccidere la mosca, mentre Landrò gridava che sulla copertina c’era un quadro di Franz Marc, e non si doveva permettere di dire le sue stronzate con quello, il vecchio però, aizzato dall’amico, aveva detto che lui se ne fregava, e aveva continuato a saltellare di qua e di là come lino scemo, Allora Landrò si era chinato  di colpo, e aveva detto a suo padre che se usava il film "pe' scamazzà 'a mosca", lui lo avrebbe ucciso.
«Eh? 'E capito? lo lo uccidevo là stesso, era sicuro!»
Si era veramente sbiancato al pensiero, e tra frasi sconnesse ripetè:
«Come lvan Karamazov! Come Ivan Karamazov!»
Un furore che non,gli avevo mai visto lo agitava facendoo1',li involontariamente sbattere le palpebre. Cominciò a citare Dostojevskij, a dire che suo padre si sarebbe meritato di morire solo per aver pensato di toccare il libro. Poi tornò sul racconto del fatto: il padre aveva scaraventato a terra le poesie,; di Trakl e lo aveva "insolentito".
('E capito? Mi ha detto che le mie erano tutte stronzate! E quel coglione dell'amico che gridava pure lui che io ero solo un uomo di niente, che mio padre mi doveva punire severamente! Una punizione esemplare, mi doveva dare ... "E che?
Nu figlio che parla accussì al suo vecchio padre dove mai s'è visto?" ... '0 strunzo! 'E capito, 'e capito chillu strunzo?"
Lui aveva raccolto il libro da un angolo quasi con le lacrime agli occhi, e era uscito mentre quei due continuavano a inveire e a intervalli, come uno schiaffo, gli arrivava la voce stridula di suo padre che ripeteva:" 'E ppatane so' bbone cotte!".
Non riuscii a calmarlo né quella sera né i giorni seguenti.
Del resto mi vedevo la scena davanti agli occhi, e pensavo che questa volta Landrò aveva ragione. Franz Marc e Georg Trakl per schiacciare una mosca! Franz Marc e Georg Trakl mandati a morire alla nostra età, anno più anno meno, in una fottutissima merda di guerra mondiale ... E una guerra fatta da chi? Da un pugno di vecchi maniaci rincoglioniti con la bocca piena di "patria", di "onore" e di "moralità" ... E quel vecchio bacucco voleva pure uccidere la mosca con le poesie di Trakl! Era la conferma che la realtà girava per un verso sbagliato, o almeno in un modo che non poteva a nesssun costo essere il nostro.
Da quell'episodio Landrò cominciò a cambiare il suo atteggiamento verso il padre. Ormai lo evitava, perché, così mi diceva, si sentiva "come Ivan Karamazov", e allora le cose sarebbero finite male, non poteva essere diversamente. Lui gliela aveva anche detto, a suo padre, che aveva a che fare con Ivan Karamazov, e si doveva stare attento. Sì, glielo aveva spiegato, e una volta lo aveva seguito per tutte le scale leggendogli una pagina dei Fratelli Karamazov. Ma il vecchio non aveva capito niente, e che doveva capire? E allora era meglio, molto meglio se si evitavano. Il libro di Dostoevskij però glielo aveva messo sul comodino, e con un segno alla pagina giusta.

Spinto dall'episodio di Trakl, o forse perché si era messo a rileggere I Fratelli Karamazov, aveva cominciato a fissarsi con le questioni riguardanti l'eredità. Landrò aveva una sorella non ancora maggiorenne che viveva all'estero in una specie di pensionato, una scuola dove secondo suo padre avrebbe imparato le lingue per entrare in una ditta importante, per fare una carriera simile alla sua, la stessa che suo figlio "non era in grado nemmeno di immaginarsi". Ma su questa sorella Landrò era misterioso, e solo ogni tanto si lasciava andare a parlare di lei. Una volta mi aveva raccontato di averle fatto leggere Rimbaud a tredici anni, e che lei aveva capito tutto. Il padre si illudeva, ma si illudeva molto se pensava di farle fare il suo stesso lavoro da coglione! Sua sorella era troppo intelligente per il commercio! Il vecchio rimbambito l'aveva chiamata come sua madre, Giada, ma lei aveva fatto tanto di quel casino contro quel "nome da troia borghese", che alla fine se lo era fatto cambiare anche sui documenti. Sì, figuriamoci se sua sorella stava a sentire a quel rimbambito.
Ma poi si innervosiva se io gli chiedevo ulteriori spiegazioni. Tagliava corto, diceva che sua sorella non la vedeva mai, solo di sfuggita nelle vacanze. E poi lui che cosa c'entrava con sua sorella? Certo, si metteva a rimuginare, suo padre non si arrendeva facilmente. E se lo avesse punito lasciando solo a lei? E se addirittura li diseredava tutti e due? Ma no, non lo poteva fare ... O sì? La cosa era "tecnicamente possibile"? O gli spettava comunque una parte dell'eredità? Di colpo si inferociva.
«La casa è di mia madre! Quel pezzente non ha portato niente, niente! 'E capito? Lo dice pure, 'o scemo, fa l'orgoglioso ... Chillu spellecchione fetente dice che lui quando si è· :;posato non teneva manco 'a cammisa!"
Ma lui non si sarebbe fatto gabbare, no, lui non avrebbe commesso nessuna leggerezza. Si era fatto prestare un volume enorme di diritto privato, e diceva che se lo stava studiando. In realtà si era fermato alle prime pagine del diritto di successione, anzi alle prime righe. Come era sua abitudine, aveva cominciato a contraddire l'autore e a commentarlo al contrario fin dalla prima affermazione, sostenendo che non era ben fondata. Dal diritto privato era tornato poi a sua sorella, convinto che lei non avrebbe mai accettato un testamento che lo diseredava ... No, lei non lo avrebbe tradito, e insieme avrebbero fatto passare un guaio a quel pagliaccio, a quel rimbambito! Ma poi si calmava, e si ricordava preoccuupato di alcune frasi che suo padre aveva lasciato cadere qua e là. Il vecchio era abile in queste cose legali, non ci si poteva fidare di lui... No! No! Ma mi rendevo conto? No, lo doveva soltanto uccidere, a quello, e sarebbe successo, lui lo sapeva che sarebbe successo.
"È infido, è infido. Lo vedi? Sembra sempre che sta schiattando ma po' tene 'na resistenza 'e cane. Tu non ti puoi neanche immaginare che resistenza ha! È testardo, sì, è pure ca Patos ta! »
"Va be'» gli obiettavo, «ma sei anche tu che lo aizzi. Lascialo in pace e non ti darà fastidio.»
"Non mi darà fastidio? Sei scemo? Tu non conosci assolutamente mio padre!»
"Dovrà pure far qualcosa, no? Tu invece lo vorresti far stare chiuso nella sua stanza dalla mattina fino alla sera.» "lo? Ma lo sai che cosa ha cacciato fuori? La novità ... » "No, che cosa?»
"Ehhh» faceva Landrò lanciando una sorta di risata cavallina, "ehhh ... Dice che deve mettere a posto la casa, da solo ... Niente muratori o pittori, no, lui farà tutto da solo! Dice che io mi devo vergognare, 'e capito? Ma lo capisci? Ma che, tu non hail idea ... »

Questa storia dei lavori in casa era vera. Le poche volte che in quel periodo andavo da Landrò, ci trovavo sempre suo padre in giro per la casa con un metro e una matita. Misurava, faceva segni sul muro, e a sentirlo pareva che avesse dovuto rifare casa sua da cima a fondo: "Sé, sé ... Eh, a parlare
sono buoni tutti! No, no ... Tutto io, faccio tutto da solo. 'E lampadine? E che? Ci vuole l'elettricista? E io non so' meglio dell’elettricista?" Se non riuscivo a evi tarlo mi bloccava, mi prendeva per il braccio e mi portava in giro per la casa. L’impianto di riscaldamento? E che, quello era un impianto? Rifare Rifare! E la scala interna, chi l'aveva progettata? Gli architetti? Mariuoli! Sanguisughe! E che, lui non sapeva fare niente? Mi faceva vedere, prendeva il martello dalla tasca della giacca e ficcava un chiodo nel muro: "Lo vedi? E che ce la Ah?". Staccava con cura un quadretto della madonna di pompei che aveva già cambiato di posto più volte, lo baciava'': "io vi rispetto, io vi voglio bene, voi siete grande" e lo appendeva al nuovo chiodo, poi si allontanava per guardarlo, non era soddisfatto. " 'O metro, me serve 'o metro per le misure!" diceva, e andava a cercare il metro, dopo aver baciato di nuovo il quadro ed essersi segnato rapidamente ripetendo a mezza voce il suo ritornello preferito.
Questi maneggi, il continuo martellare, schiodare, sbattere di porte, l'inchiodare, facevano impazzire Landrò. Con una bavetta bianca all'angolo della bocca mi diceva qualche cosa incomprensibile facendomi cenno di entrare nella sua stanza. Ma una volta chiusa la porta non riusciva a mantenersi calmo. Si alzava di continuo per andare a sentire con l’orecchio sulla porta, ogni piccolo rumore lo faceva sobbalzare, e per interi minuti restava muto, con le braccia penzoloni e lo sguardo assente. Allora non restava altro da fare che uscire di casa.


Nell'ottobre di quell'anno cominciammo a vederci io, Landrò e Gala. Gala era un'amica di Landrò che lui aveva sempre evitato di farmi conoscere, e alla quale, anni prima, aveva detto più volte di voler affidare la traduzione "finalmente corretta" dell'opera di Nietzsche. Solo lei, che sapeva tutto' del romanticismo tedesco ed era "anche medico", avrebbe potuto fare un'opera "veramente filologica". Però ogni volta che io cercavo di sapere qualcosa di più su questa misteriosa amica, o gli chiedevo di farmela conoscere, Landrò svicolava, inventandosi le scuse più inverosimili. Ma una sera Gala si era presentata a casa mia, e senza neanche salutare mi aveva detto tutto d'un fiato che Landrò non voleva che la conoscessi perché era geloso di lei, che era un pazzo, e lei lo sapeva bene perché era psichiatra, ma che la sua pazzia a volte era grandiosa, e a]]ora bisognava prenderlo così com'era.
Questo me lo aveva detto sulla porta, stretta in un cappotto scuro molto lungo, e con in testa un cappello nero a tesa larga. Poi si era precipitata dentro attaccando a parlare di H61derlin e di Eichendorff, e del rapporto tra Kleist e Goethe. "Quello schifoso di Goethe!Quell'animale! Lui era forse in grado di capire Heinrich von Kleist? Un von Kleist! Un prussiano dall'anima pura!" Non riuscivo a inserire più di una parola ogni tanto, un cenno di assenso o di sorpresa, mentre lei continuava a parlare senza interruzioni. Goethe in realtà era un verme, un uomo senza coraggio, uno che faceva solo chiacchiere. Si torceva le mani, spiegandomi che cosa aveva dovuto subirei! "suo" KIeist da quel "soddisfatto borghesuccio", e mi aggrediva. Che i francesi, i "nostri" francesi, erano gentucola di fronte a KIeist, e lui, così indifeso, .Aveva avuto un destino che spezzava il cuore ... Lo conoscevo il terzo tempo dell'Appassionata? Be', quello era per il suo I kinl-ich, era lui stesso trasfigurato in musica! Ma chi le capiva queste cose? Chi lo sapeva veramente che cosa era successo tra KIeist e la sua amica? Nessuno. Ma lei sì, lei lo sapeva. Come aveva scritto, Kleist? "Ho trovato un'amica la cui anima vola come una giovane aquila ... Una donna che comprende la mia tristezza superiore ... " Ah, quanto si era sbagliatonel suo entusiasmo per quell'oca di Enrichella Vogel!
Come si era illuso! Quella stupida era solo riuscita a convincerlo ad ammazzarsi, da vera cretina tedesca ... Ma Kleist non si sarebbe suicidato se al suo fianco ci fosse stata una donna vera, una come lei! Il dolore non è invincibile, basta il coraggio, e lei lo avrebbe avuto!

Mi guardava quasi con astio, o così mi sembrava, e cominciai ad avere paura. La voce le si era spezzata in gola, e ripeteva: "Lo avrei salvato, lo avrei salvato!" Non si era tolta né il cappotto né il cappello, e si teneva le mani sulla faccia. Ad un tratto però si era alzata dalla sedia sull'orlo della quale stava seduta e si era avventata sul pianoforte dicendo: "Sì, perché tutto è possibile se si ama", e aveva cominciato a suonare il finale dell'Appassionata. Per qualche minuto pensai che volesse distruggere tutto. In piedi, con ferocia, suonava Beethoven saltando interi passi e picchiando selvaggiamente sui tasti. Poi di colpo, come aveva attaccato a suonare, smise, e cominciò a tenersi le mani sul petto. "Non ce la faccio! Non posso, non posso!" ripeteva, "non posso farlo, non devo suonare ora sto male, lo sapevo, starò male tutta la notte ...
lo non devo mai suonare! Sono medico, le capisco queste cose Se suono ancora morirò. Scusami, scusami se ora piango " lo avevo cercato di farla calmare, dicendole che non c'era motivo di agitarsi così, e che la capivo, ma lei scuoteva agitata la testa. Le avevo anche portato un bicchiere d'acqua che aveva appena toccato, togliendosi finalmente il cappello.
Se ne stava rannicchiata sulla sedia, tremando e ripetendo che non era niente, e le scorrevano ancora sulla faccia delle lacrime. Guardava nel vuoto, con i capelli scomposti e gli occhi grandi e distanti. Ma poi rialzò la testa con uno scatto, si rimise il cappello e se ne andò, dopo avermi teso una mano umidiccia e grassottella, fredda come quella di un cadavere.
Quella sera andai a letto spossato, e mi addormentai subito.
Con Gala andammo a molti concerti. Ma quasi mai restavamo fino alla fine. Brahms le faceva venire la tachicardia, Wagner era un pericolo mortale, sulla sorte di Schumann come si faceva a non piangere? Landrò invece scopriva invariabilmente negli esecutori quella che definiva "la malattia del nichilismo".
"Lo vedi? Lo vedi? È inequivocabile: il nichilismo è alle porte!»
Al San Carlo, all'Auditorium, dovunque andassimo era sempre la stessa solfa. Una battuta, un attacco, una frase, scatenavano i nostri commenti.
«Io veramente la musica non la capisco. Anzi, mi dà fastidio.» "Come! lo non potrei vivere, senza musica ... »
E insomma, la musica c'entrava con la verità? Nietzsche aveva detto di no, e questo risolveva la cosa. Ma no, ribatteva Gala, non era vero, e poi senza Wagner come si poteva capire Nietzsche? Allora la discussione si accendeva, ci dimenticavamo completamente di quelli che stavano suonando, e finivamo col suscitare l'ira del pubblico. Era fondamentale l'accusa di Wagner a Nietzsche? E il fatto che Nietzsche fosse vegetariano e scopasse poco o niente, eh? Non era questo quello che Wagner gli aveva rimproverato?
Continuavamo per le scale, in strada, in autobus. Ma da qualsiasi punto partissimo, le discussioni arrivavano sempre a girare intorno alle stesse ossessioni: Cos'era la volontà? Come si definisce il coraggio? E la realtà? Ed era già finita la nostra giovinezza? E Nietzsche era veramente pazzo oppure era tutta una montatura?
«Se aveva la sifilide già da prima, allora la sua filosofia non vale niente.»
"E chi te l'ha detto che ce l'aveva? Non c'è nessun dato scientificamente valido.»
"Ma così allora è tutto ciò che ha pensato, a non essere valido.»
"Anche Baudelaire aveva la sifilide, è una cosa da considerare. E se ci fosse un collegamento?»
Allora io e Landrò cominciavamo a ragionare su questa ipotesi: c'era forse una particolare forza conoscitiva nella siil'ilide? Quasi certamente anche Van Gogh ce l'aveva, e probabilmente lo stesso Kierkegaard.
"Ma non vorrete sostenere che è necessario avere la sifilide per pensare!»
No, non volevamo dire esattamente questo, ma erano veramente casuali tutti quei segni?
"La volontà è legata al problema della malattia, questo non si può negare.»
"Chi è intelligente è sempre malato. E non vi dimenticate che sono morti o impazziti tutti prima dei cinquant'anni.» "Sì, ma io so che ]a diagnosi fatta per Nietzsche era sbagliata.»

"Dove l'hai letto? È una stronzata! Se è per questo qualche coglione ha pure detto che Baudelaire era vergine ... »
Ma Gala aveva visto i documenti, e c'erano molti dubbi, dubbi serissimi, che lasciavano in piedi l'ipotesi più ambigua, e cioè che Nietzsche era impazzito a causa dei suoi pensieri. «Non vuol dire niente! E comunque quello che è stato scritto su Nietzsehe non risolve niente. Sono tutte cazzate Nessuno ha capito niente ... "
«E perché, avresti capito tu?» «Ehhh, lascia stare, lascia stare.»
Le discussioni non avevano mai un punto finale. Si esaurivano perché bisognava andare a dormire, per spossatezza, perché il tempo non bastava, ma ricominciavano ogni volta da capo con accanimento. Landrò si trovava sempre contro qualcosa o qualcuno, e sembrava che la sua massima preoccupazione fosse quella di dire no, di negare qualsiasi possibilità positiva o conclusione. Ma eravamo entrambi in preda a interminabili manie interpretative. Tutti i passi che consideravamo degni di una qualche attenzione venivano scavati fino all'inverosimile. Uno di questi era il verso finale del Rinnegamento di San Pietro. Che cosa aveva voluto veramente dire Baudelaire con quel "San Pietro ha rinnegato Gesù ... e ha fatto bene"? Era un'ironia da leggere al rovescio o un'affermazione letterale? Secondo Landrò da questo particolare dipendeva !'interpretazione da dare a tutta l'opera di Baudelaire. Che voleva dire "ha fatto bene"? La frase significava forse che San Pietro col suo gesto aveva fatto la volontà di Dio? E poi perché Baudelaire diceva:
"Uscirò felice da un mondo dove l'azione non è la sorella del sogno"? Forse il sogno era quello di cambiare il mondo? E inevitabilmente arrivavamo al frammento che diceva: "Viva la rivoluzione! Sempre! Nonostante tutto!".
Quello sì che era un rompicapo. La rivoluzione? Ma se Baudelaire aveva elogiato il reazionario de Maistre, e parlato male della rivoluzione! E poi, a leggerlo per intero, il frammento parlava della voglia di rivoluzione come di una voglia di morte ... Chi voleva essere rivoluzionario, lo voleva solo per fare il male, coscientemente, deliberatamente. E quindi la rivoluzione era il male ... Sì, forse: ma era salito o no Baudelaire sulle barricate? Aveva gridato o no nel '48: "Andiamo a fucilare il generale Aupick!", il patrigno che lo aveva fatto mettere sotto tutela? Lo aveva detto, sì o no?
«Di sicuro ha esaltato Caino il ribelle contro Abele, il borghese ricco.»
«Sembra, sembra ... Ma che vuol dire veramente?"
Certo era che Baudelaire odiava la democrazia liberale che credeva beata nel libero commercio e nel progresso. Non voleva essere gabbato da tutta la merda che si proclamava moderna, ottimista, sicura di sé. E allora era proprio la borghesia che lui odiava: le "bestie feroci della proprietà", come le aveva chiamate ...
Ma a questo punto ritornavamo da capo, al cattolicesimo, alla morte di Dio, alla verità. Come si poteva trascurare Léon Bloy per capire quelle cose? Baudelaire, Nietzsche Bloy erano uguali nell'odio del moderno. Scartavamo insofferenti Il Disperato e l'Esegesi dei luoghi comuni, .sprofondandoci nell'Anima di Napoleone, nel Sangue del Povero, nella Salvezza viene dai Giudei. Landrò si attaccava fanaticamente alla lettera dei testi, e ne ricavava profezie apocalittiche sull'Europa, l'America, l'Asia, la finanza, la religione, la verità, e persino sulla sua stessa vita personale e su suo padre.
Queste profezie disgustavano profondamente Gala, che contrapponeva a quello che definiva "un nebuloso misticismo" la sua concezione della passione e del corpo, il corpo che, come diceva lei, "conosce tutti i nostri segreti". Spesso in queste discussioni Gala si schierava dalla mia parte contro Landrò, facendolo andare in bestia. In questi casi tirava fuori la genetica, la patologia medica, le ricerche scientifiche degli psichiatri, e accusa Landrò di "leggerezza", sapendo che il solo sospetto che lui, proprio lui, che diceva di aver fatto del rigore assoluto "il suo solo metodo", potesse essere accusato di leggerezza, rendeva Landrò feroce.
«lo? lo sono l'unico tra i contemporanei che non può essere accusato di leggerezza!»
"Ma hai mai assistito a un parto? Lo sai cos'è una cellula?
E una sala settoria, l'hai mai vista?»

Che non avesse mai visto una sala settoria era un'accusa che aveva il potere di far tacere Landrò a lungo. In quei casi si metteva a borbottare tra sé, gesticolando e guardandoci con astio, o affrettava il passo per staccarsi da noi, fissando con aria piena di sospetto tutte le persone che gli passavano vicino. Così Gala ne approfittava per invitarmi a vederci, a fare una passeggiata per parlare senza quell'esaltato di Lanndrò. lo tergiversavo, dicevo di sì per prendere tempo, ma poi le telefonavo sostenendo che non mi era stato assolutamente possibile liberarmi, che dovevo finire la tesi, che ero malato, o nervoso, o che stavo scrivendo. Quando ero sul punto di cedere, mi venivano in mente Heinrich von Kleist e Enrichetta Vogel, e resistevo. Ma non potetti durare a lungo con le mie scuse, e alla fine ci vedemmo io e lei da soli.
Gala non perse tempo, e mentre salivamo per Mezzocannone, arrivò subito alla questione.
«Quanto potrà continuare?»
«Cosa?»
«Non fare finta di non capire, Tommaso: questa situazione, voi due, io ... »
«Non ti capisco, veramente.»
«Non dire così. Non è giusto. Tu che sei... No, lasciamelo dire, un animo superiore ... »
Gala usava abitualmente un linguaggio zeppo di espressioni come "animo superiore", e pronunciava frasi del genere con la più grande disinvoltura. Quella mattina aveva un paio di mezzi guanti ricamati e un cappellino con una rosa gialla che si era calzato appena un poco di sbieco. lo cercai di negare il fatto dell'animo superiore", lo sapevo come andavano a finire di solito le cose superiori, ma lei mi mise una mano sulla bocca per non farmi continuare.
«Shhh. Non dire cose che mi dispiacerebbero. Sai, la vostra, anzi la nostra ... È una situazione senza vie d'uscita ... No, io non sono nichilista, come dice Landrò. lo amo la vita, mi piacciono le poesie e tutte le cose delicate ... Ma so anche essere forte. Lo capisci? Forte!"
«Sì, lo so ... Tu sei una persona straordinaria ... "
«Non prendermi in giro. Questo non lo permetto neanche a te!"
Mi guardò con un'aria che forse voleva essere altezzosa, ma io veramente non riuscivo a capire. Ero ipnotizzato dalla rosa finta sul cappello, e rimasi a fissarla. Lei continuò.
«Non posso essere sempre così, così dura ... Che cosa sai, tu? Sezionare cadaveri non è facile ... Ci sei mai stato in una sala settoria? È là che dovrei portarti, perché se vuoi conoscere la vita devi passare di là ... »
«Lo sai che non vorrei altro» dissi senza troppa convinzione. Poi, a un tratto, mi venne come una premonizione: e se ora mi chiedeva di sposarla? r;idea mi attraversò fulminea, lasciandomi a bocca aperta. Cominciai a gettare occhiate sempre più nervose sulla rosa, sui passanti, sulle facciate delle case, e allungai il passo.
«Insomma, cosa pretendete da me? Che stia sempre in guardia, sempre in guerra?»

lo non pretendevo niente. Vedevo solo che si accostava sempre di più, e che il suo sguardo diventava sempre più sfocato e nebuloso, e il tono di voce quasi da moribonda. Intanto eravamo arrivati nello spiazzo davanti a San Domenico.
"Tu sai capire le persone, tu non parli tanto. Tu lo sai, che a volte non c'è bisogno di dire niente. lo voglio molto bene a tutti e due, lo capisci questo?»
Accennai di sì con la testa, tanto per guadagnare tempo.
Lei mi aveva preso la mano di nuovo, e stava dicendo che eravamo buoni amici.
"lo però sono sola. Atrocemente sola. Non ho nemmeno più la musica ... Questo lo devi capire ... »
Fu allora che ebbi come un'ispirazione. Col tono più persuasivo che riuscii a trovare, le sussurrai:
"Gala ... Secondo me, tu hai bisogno di una persona particolare ... »
"È vero! È verissimo!»
" ... Una persona con cui hai delle vere affinità ... »
"Sì, si.»
"Secondo me dovresti sposare Landrò.»

Sentii che ritirava di colpo la mano, e continuai.
"Lui è fatto per te. No, non negare. lo vi conosco bene, lo conosco bene ... Con chi potrebbe stare Landrò? lo purtroppo sono una persona impossibile, e poi per me sei come una sorella ... »
Gala era rimasta sbalordita da questa mia uscita, e mi fissò con gli occhi sbarrati, sbattendo le palpebre come in preda a un tic irrefrenabile.
"Sei odioso! Siete odiosi tutti!» sbottò a un tratto, "non vi vergognate?»
"Ma ... »
"Non ti vergogni, tu? Lo sai che cosa mi ha detto Landrò?
Ieri abbiamo passato due ore al telefono ... Lo sai?» "No, non lo so.»
"No! Non lo sa, il grand'uomo. Lui noi1 sa niente!»
"Gala ... »
«Che Gala! Che Gala! Lui mi ha detto che con te sarei stata bene ... Ha detto che così potevamo restare tutti insieme, lo sai? Esattamente questo, ha detto.»
Ora aveva cominciato a singhiozzare, senza lacrime, a sussulti.
"Mi ha detto che ti vede in una "situazione terribile", e che per te non ci sono vie di uscita ... Se proprio lo vuoi sapere, secondo lui tu stai impazzendo! Ecco, ecco il tuo amico che cosa ha detto!» .
"lo sto impazzendo?»
"Sì, tu!. .. E ha detto che avevi bisogno di trovare un equilibrio, una stabilità ... Ma anche, anche ...»
Quasi non riusciva a parlare, ora.
" ... Ma anche una persona sensibile, intelligente ... Dove sei Heinrich von Kleist, dove sei amore mio?»
Gala si era alzata dagli scalini della chiesa e gridava, singhiozzando di rabbia. Cercai di calmarla, ma lei mi respingeva, mentre i passanti mi guardavano ridacchiando. II maledetto Landrò! lo stavo impazzendo, eh? Così potremo sempre stare tutti insieme, eh?
"Lo vedi? Sei il solito maschio vigliacco! Tu non sai nemmeno cos'è la passione! Tu e quella specie di filosofo da quattro soldi... Vuoi proprio sapere che ne penso di voi due? Che ve ne state là a strepitare e a giocare a chi è più lord Chandos dell'altro! Parlate, parlate, e se uno di voi confessa di avere scritto qualcosa, è almeno dieci anni fa, o quindici, o trenta! E perché no nella culla? O prima di nascere? Certo! Voi avete smesso prima di Rimbaud, molto prima ... »
"È Landrò che ... »
"Ah, è Landrò, vero? Voi due giocate soltanto! E tu, che hai consigliato a quel ragazzo calabrese di rubare i libri da Guida a piazza San Domenico? "Primo perché è difficile, e secondo perché Nietzsche nella Volontà di potenza dice di fare così" ... Che dice Nietzsche nella Volontà di potenza?»
"Ma lui si era lamentato che non poteva comprarsi i libri, allora ... »
«Allora tu parli! Ah, se ci fosse un uomo vero come il mio prussiano!» e mi puntava il dito sul petto, gridando a voce altissima.
«Non sei un uomo, tu! Non ti illudere ... »
"Ma Gala, io volevo dirti che Landrò ... »
"Impiccatevi, tu e lui! Blok e Belyj, eh? È quello, che voi credete di essere? O forse Rilke e Pasternak, e io sarei Marina Cvetaeva? Mi volete fare uscire pazza come lei, come quei due vigliacchi fecero con Marina ... »
"Tu hai un'anima grandissima, e meriti...»
"Ancora? Pagliaccio! Due pagliacci, siete ... Lo so io, quello che sei. Che ti credi, che non lo so che a Parigi volevate comprare cento rose rosse per metterle sulla tomba di Baudelaire? E poi come al solito, grazie a te, tutto è finito da miserabili ... Avete spogliato la tomba a fianco, quella del generale Aupick, e avete messo i vasi di gerani, i lumini, i mazzolini, tutto,Sul vostro sifilitico schifoso! Begli eroi! Volete fare i "rivoluzionari del pensiero", ma siete solo due vandali incivili! Due furfantelli! E tu ... »

"Ma Gala, che c'entra la rivoluzione? E poi quella volta ... » «Non mentire! Me l'ha raccontato il tuo amico, l'altro grand'uomo ... Sì, l'altro vigliacco!»
«Ma Gala, non dire così, io sono sicuro che Landrò ti ama ...
Sì, si, non vuole dirlo,lo sai, è orgoglioso ... » «E tu saresti un uomo?»
Insisteva, fuori di sé:
«Heintich von K1eist, dove sei?»
Le presi la mano, per cercare di calmarla.
«Gala, è vero, te lo giuro. Lui non ha il coraggio di parlare ... Ha fatto un sacrificio, ma lo ha fatto per te ... »
Gala liberò la mano e mi arrivò uno schiaffo violento in piena faccia, poi si mise a correre. lo la seguii, aveva perso ogni ritegno, e seguitava a sbraitare che Kleist! che la morte è l'unica liberatrice! che basta poco! che la viltà è infinita e nessuno ha il coraggio di vivere fino in fondo ...
«Non venirmi dietro!» si girava a gridarmi.
«Non posso Jasciarti così» le rispondevo io andandole dietro, ma non sapevo che fare. Mentre scendevamo per Mezzoocannone un ragazzino grassoccio si mise a seguirci, imitando i nostri gesti, facendo smorfie e ripetendo "dateme mille lire! dateme mille lire!" Tutti i passanti si voltavano a guarrdarei, e io cercai di nascondere quanto più potetti la faccia tirandomi su il bavero del cappotto. Maledicevo Landrò, e Gala, e sferrai un calcio al ragazzino, ma non lo colsi. Continuammo a lanciarci frasi mozze, accuse e giustificazioni, finchè Gala non salì nella sua macchina tirandomi in faccia il cappello con la rosa. Dovetti scendere per il Rettifilo a piedi, nella folla che sgomitava ferocemente, augurando a Landrò le peggiori sciagure. Ma come gli era venuta in mente quella stronzata del matrimonio? E comunque, stava fresco, perché il suo progetto deficiente era fallito lo stesso. E poi, pensai mentre salivo sull'autobus, la storia delle rose di Baudelaire avrebbe anche potuto raccontarla meglio.
Con noi allora c'era anche Toni Marciano con un suo amico, - uno che la prima sera a Parigi si era commosso alla vista di una Pizzeria Vesuvio e aveva inutilmente insistito per andarci, - e insieme avevano impedito a Landrò, l'unico che aveva qualche soldo in tasca, di comprare le rose. Ma come, aveva urlato Marciano, non mangiavamo carne da dieci giorni, i suoi pettorali stavano "perdendo tono", andavamo avanti "cu' 'sti cazzi 'e panini francise" e volevamo mettere cento rose rosse su una merda di tomba? Ma come, giravamo con una "borraccia fetente" appesa al collo del suo amico per non comprare nemmeno l'acqua minerale nei locali, e Lanndrò voleva comprare le rose con lo stelo lungo per un coglione mono un secolo fa? Ci fissava minaccioso col suo sguardo vitreo, slavato come quello di un pesce in una boccia, e quasi si voleva buttare addosso a Landrò. E io, io che gli davo pure ragione, a quel pazzo! Ma allora eravamo proprio stronzi tutti e due, "o pazzi o stronzi", non c'era scampo! Ma Landrò replicò dicendo che lui con i suoi soldi ci comprava quello che gli pareva, e quel "bestione tutto muscoli" questa volta non glielo poteva proibire. Me l'ero già dimenticato che era stato lui a impedirci di andare a Charleville per rendere omaggio a Rimbaud? E quel "culturista del cazzo" che ci costringeva a visitare tutte le stronzate turistiche, che smaniava per le bistecche e per andare sulla Costa Azzurra, voleva pure fare lo scrittore? Sì sì, domani... Ma mentre Landrò parlava mi era venuta un'idea. E così, mentre Marciano e il suo amico si allontanavano di qualche passo, disgustati e facendo finta di non conoscerci, avevamo coperto la tomba di Baudelaire con i fiori e i vasi rubati a quella del generale Aupick. Ma che cosa c'entrava con tutto quello la rivoluzione? Era stato solo un ragionamento logico, togliere a chi aveva troppo per dare a chi non aveva niente ... Poteva almeno raccontare le cose con precisione, quel deficiente di Landrò.
Però su Blok e compagni, Gala forse non aveva tutti i torti. "Dire no ai giorni del presente" era un verso di cui io e Landrò ci contendevamo la proprietà, citandolo fino alla nausea. E anche la fissazione per il "triangolo metafisico" fra Blok, Belyj e Ljuba Mendelev, non era del tutto una falsità. Be', era anche vero che ci chiedevamo seriamente se Ljuba fosse veramente "la bellissima dama" di cui aveva favoleggiato Blok, o solo una troietta incapace di capire le poesie del marito. E insomma Belyj, "il fratello poeta", Ljuba se lo era scopato sì o no? E il profeta del panmongolismo, Solo'ev, che parte aveva avuto nella storia?
Ero caduto in una profonda fantasticheria, e in ritardo mi accorsi che avevo superato di tre fermate quella dove avrei dovuto scendere. Solo dopo essermi incamminato verso casa, mi resi conto che tenevo ancora stretto nel pugno il ridicolo cappello di Gala, e con un gesto sconsolato lo buttai in una fogna aperta.

Avrei dovuto saperlo bene che Landrò avrebbe sacrificato chiunque alla sua smania di conoscere, a quello che lui chiamava "il mio metodo sperimentale". Dopo la storia con Gala i rapporti .Tra noi tre diventarono più distaccati, e per molte settimane lei ci evitò, fino a farsi sentire solo per telefono ogni tanto. Landrò sosteneva che era stato uno sbaglio da parte mia rifiutarmi di sposare Gala, che al contrario di me era pure ricca, e che sarebbe stato interessante vedere come sarebbe andata a finire la cosa. E soprattutto, mi rinfacciava, avrei potuto vivere senza lavorare: non ero stato io a teorizzare il matrimonio con una donna ricca per non lavorare? Allora facevo solo chiacchiere? Quello che più lo faceva rammaricare era che il nostro progetto di un piano di studi comune, "poetico, scientifico e filosofico", era svanito.
Ma io non lo seguivo più su questa strada. l miei dubbi sulla "verità" aumentavano sempre di più, e preferivo pensare che solo la bellezza potesse veramente trasformare il mondo. Mi dichiaravo per l'amore assoluto, totale, l'amore che riconosce l'altra al primo sguardo e cambia la vita. Ma Landrò storceva il naso infastidito dalle mie parole, fino a rinfacciarmi che poi, alla fin fine, me la facevo sempre con delle troie. era inutile spiegargli che anche in una puttana si poteva trovare una scheggia della bellezza vera, una rivelazione che durasse sia pure pochi attimi.
In quel periodo giravo con in tasca i fìori del male e Lulu, ed ero convinto che l'amore, come diceva Baudelaire, non facesse questioni di proprietà. Per Landrò invece, le puttane fanno puttane e basta, e per lui io volevo solo indorare la cosa, fare il vizioso e sentirmi anche nobile. Lui sì, mi aggrediva, lui sì che poteva dirmi che cosa è veramente una zoccola:
"L’inferno e nient'altro", e per farmi arrabbiare citava la frase di Baudelaire su George Sand che era una bestiona e una latrina, e quell'altra dove sosteneva che le donne non dovessero entrare in chiesa perché che c'entravano le donne con lo Spirito? Se io però gli ricordavo che Baudelaire aveva amato i n realtà una puttana, e pure negra, allora mi ribatteva la frase del Mio cuore messo 'a nudo dove stava scritto che solo al bruto gli si rizza bene, e il letterato non sa scopare. E concludeva che avevo fatto un errore clamoroso a non sposare Gala. Poi, per dimostrarmi il suo totale disprezzo per le donne "dallo sguardo voglioso", mi raccontava per l'ennesima volta di quando aveva pagato una puttana per stare a guardare mentre quella si scopava un cafone ("Perché dovevo studiare le loro reazioni ... Il mio metodo è scientifico.,."), ma l'unica cosa che aveva notato era il culo sporco del cafone che "se la chiavava", o di quando aveva fatto spogliare davanti a lui, che era rimasto vestito di tutto punto, ("pure con la cravatta"), una ragazza splendida, per poi rifiutarla perché era una "troppo intelligente". Del resto, se Gala non fosse stata così intelligente, l'avrebbe già sposata lui da tempo. E quando gli obiettavo che era fissato con il matrimonio, lui si trincerava dietro una serie di misteriosi "eh, ora non posso parlare", rifiutandosi di starmi a sentire, e ripetendo che il rapporto tra Lou von Salomé, Nietzsche e Paul Rée si poteva ancora tentare, ma bisognava essere pronti a dedicarsi completamente alla conoscenza, sacrificando l'attrazione "poco rigorosa" per la bellezza.
Ma io me ne fregavo di questo presunto rigore di Landrò, e procedevo nel buio, a tentoni. Ero ossessionato dalla realtà che mi sfuggiva, e dall'amore che sembrava sempre finire nel suo contrario. Mi perseguitava una frase: che l'amore senza soldi può essere solo un'orgia ignobile o un dovere coniugale. Disprezzavo il denaro, ma sognavo di arricchirmi di colpo, da un giorno all'altro, per miracolo. Era vero, l'amore senza soldi, senza agio, senza lusso, era solo una trappola ... E allora, perché lottare? E quando la Contessa, come chiamavo Lea, mi telefonava per invitarmi a casa sua, mi arrendevo come un miserabile, senza sottilizzare con troppi distinguo sull'amore assoluto e quello relativo, sulla rivelazione e i pompini, e mi ripetevo fino a stordirmi le parole di Rimbaud: Oisive jeunesse à tout asservie, par delicatesse .fai perdu ma vie ... Ma quale delicatezza? E quale giovinezza? E dov'era più, la mia vera vita?

Quel Natale la situazione a casa mia peggiorò. Come ogni volta quando si avvicinavano le feste, i miei genitori cominciarono ad asfissiarmi. Avevo quasi trent'anni e ancora non mi trovavo un lavoro? Loro erano anziani, c'era una sorella piccola da sposare, e quando avrei finito"'di studiare? L'idea che il figlio istruito avesse potuto farsi strada nella vita, dar lustro alla famiglia, quella l'avevano abbandonata da tempo. Ormai si accontentavano anche solo che me ne andassi, ma non come uno sbandato: mi dovevo sistemare, fare quello che fanno tutti, trovare un posto statale e una brava ragazza e sposarmi. Le feste furono penose. lo a tavola non parlavo, c mi ero comprato un paio di occhiali da sole che portavo continuamente, anche di sera. A qualsiasi questione, domanda, minaccia, implorazione, rispondevo con il silenzio più intransigente, e spesso per non sentire per la millesima volta che loro erano "poveri pensionati", e che avevano "lavorato onestamente tutta la vita" e ora avevano "un figlio simile", mi tappavo le orecchie con dei pezzetti di cera, ripetendomi come uno scongiuro: "La vita è altrove" ... "Sono in sciopero!" ... "Dovunque sia ma fuori di questo mondo!" ... Ma invaariabilmente, dopo mangiato, mi buttavo sul letto, chiudevo tutte le imposte, e cadevo in un sonno cupo.

«I cani ci vogliono, perché quelli là mi vogliono morto ...
Hanno delle idee strane su di me ... Perché sono l'unico che è rimasto a conoscere la verità di santa madre chiesa!»
«Quelli chi, don Sesamo, se è lecito» chiese Landrò.
«I miei nemici, figlio mio, i miei nemici. Ma è cosa triste, questa. Tutto è decaduto, oggi, marcio, a pezzi... Vogliono fà 'a rivoluzzione! ... È sempre vero che la peste è dovunque e non c'è illazzaretto! Per grazia di Dio, però, io c'ho la salute. E qua ci stiamo noi, e siamo ancora forti.»
«Di chi parlate, monsignore?»
Il prete fece un ampio gesto circolare con la mano.
«'O sud, figlio mio, 'o sud. Questa bella regione nostra ... Eh, qua ci stanno tanti bravi giovani. Manca 'o lavoro, è vero, però quella è cosa che si risolve ... Ma solo se ci sta la fede!»
La stanza dove don Sesamo ci aveva fatti entrare era stipata di mobili. Era una stanza grande, ma al centro era occupata da un tavolo con molte sedie, e sui lati da buffet, vetrinette, scaffali, colonnine di marmo, campane di vetro con sotto statuette di santi e fiori di plastica, centrini di merletto sui ripiani, polverosi cumuli di libri e immaginette sacre ammonticchiate dovunque. La stanza aveva solo un piccolissimo finestrino molto in alto, protetto da un'inferriata.
«Qua è tutto rimasto come quando era viva la buonanima 'e mammà» disse don Sesamo, e si segnò.
Mentre osservavo la parete di fronte a me, dove erano appese delle fotografie incorniciate di uomini e donne robusti e vestiti di nero, notai che le due porte che la stanza aveva erano rinforzate da fasce di ferro e doppi chiavistelli. Il prete aveva notato la mia sorpresa.
«Mi devo difendere, quelli hanno già tentato di togliermi di mezzo ... A me! A me!»
Sembrava essersi irritato al solo pensiero dei suoi nemici, c si sbatté la mano sul petto con un rumore cavernoso. Don Sesamo era ancora più alto di Morvo, una specie di pezzo di legno squadrato, con due mani che sembravano pale.
«Ma voi siete ospiti, non vi voglio annoiare» disse, di nuovo con un tono normale.
«Don Sossio, scusate, mi permettete di farvi qualche domanda?» gli chiese Landrò. E al cenno di assenso del prete, cominciò.
«Don Sossio, noi abbiamo sentito voci particolare, e va ,diamo sapere la verità ... »
"La verità" pensai io, "è che qui si gela, e io sono più idio la di Landrò perché gli do pure retta." Mi ero distratto per un momento, e sentii ora il prete che stava rispondendo a Landrò.
« ... Tutto in quell'anno, l'anno maledetto! Il 1789 ... Eh, i Il'c numeri della grande malattia: il sette, l'otto e il nove.» Don Sesamo continuò a parlare, solenne, Lo sapevamo, no? E chi non lo sapeva? Il male era cominciato tutto da quella "fetenzia" di rivoluzione, e ormai era nel mondo. «Perché il male ci sta, ci sta, e non si cancella! Tutto è malato in questo mondo ... »
La malattia stava nel disordine, nel caos della società moderna, nel relativismo giacobino che non riconosceva "l valori autentici". E dove ci si poteva riparare, dove si poteva trovare la salvezza se non "tra le braccia dell'unica verità"?
lo e Landrò gli chiedemmo allora di spiegarsi meglio. Che cosa intendeva esattamente con la parola verità? Si poteva divinare profeticamente la verità? E lui come considerava la metafisica? E soprattutto: la verità fa sempre bene a chi la cerca? Morvo invece restava ostinatamente zitto, e girava circospetto per la stanza, ridacchiando tra sé per chi sa quale ragione.
"E lo spirito profetico, don Sossio?»
"Shhh, figlio mio, abbassa la voce. Dio non parla che per simboli.»
«Che volete dire, don Sossio?»
«Simboli, simboli: tutto il mondo è un mistero dietro il quale c'è un solo segreto ... Eh, il mondo è una rappresentazione, 'nu teatro!»
«Sì, va bene ... Ma è veramente possibile prevedere il futuro? » «Tutto si può realizzare, figlio mio»
«Ma che cosa prevedete, vol. .. »
Qui il prete fece una pausa e un gesto con la mani rivolte in alto, poi con un tono di voce più basso proseguì.
«Vi voglio parlare chiaro. Tu sei entrato in casa mia e sei un privilegiato. Ma lo sai perché? Perché sei figlio di gente sicura, di gente perbene, se no ... Hai mai sentito parlare dei Fratelli d'Italia?»
«I Fratelli d'Italia per il Lavoro e la Morale? Sì, ne ho sentito parlare.»
«Bene, figlio, bene. l' Fratelli sono galantuomini, e procurano il lavoro: hai capito? Il lavoro per questo nostro sud martoriato Se comandassero loro la disoccupazione non ci sarebbe più E voi vi potete iscrivere, come fanno tanti giovani.»
«Ma è come un partito politico, quello. Che c'entra con la verità?»
«E sì, fanno nu poco 'e politica, che ce sta 'e male? Basta che è politica giusta, con la santa benedizione nostra. Là ci stanno solo bravi ragazzi che lavorano, producono, creano ricchezza ... Quelli so' il futuro! E sono sani, sani! La salute è la prima cosa ... »
«Ma se oggi tutto è malato, avete detto, come si può essere sani?»
«Ah, eccolo qua, il sofista»
Il prete scuoteva la testa, contrariato, Landrò con uno scatto si spostò quasi addosso a lui.
«Ma Léon Bloy disprezzava la politica, e odiava il denaro!» «Va bbuo', 'o ssaccio, 'o ssaccio. Voi volete "conoscere", eh? Non vi bastano i Fratelli, è vero? A voi il lavoro non vi interessa ... Volete sapere "la verità", volete vedere "dentro", "dietro", "sotto", eh? È giusto, è giusto ... »
«Sappiamo che voi conoscete anche le cose che devono venire. Che sapete "cose segrete".»
«E a voi vi piace 'o segreto, eh? Il mistero ... »
Don Sesamo ora aveva alzato il tono di voce a tal punto che la stanza sembrava rimbombare, lo stavo gelando, non mi sentivo più i piedi, e quella voce mi risuonava nel cranio come colpi di martello, Dietro di me sentii Morvo che diceva tra sé "ma 'stu scemo che wo'? Chisto nun sape niente, ccà stamme sul tanto a perdere tiempo",
«Il lavoro è tutto, per la vera chiesa! Questo solo è il mistero: ora et labora! Gli uomini sono malvagi, e si devono sottomettere a lui. .. »
«A lui chi? Al lavoro?»
«A lui, a lui, giovane. Il lavoro rende liberi! Gli uomini devono rispettare il lavoro come Dio stesso. Lo sapete altrimenti che resta? Le bestie dell'Apocalisse! Ribellione, comunismo e libertinaggio!. .. No, l'uomo si deve sottomettere a chi lo fa lavorare, e chi lo fa lavorare si deve piegare davanti al santo consiglio della chiesa»
«Ma il vangelo non testimoniava la fine della politica?» «Guaglio', l'ordine eterno della chiesa è tutto ... Il rispetto della società e della legge non conta niente se non è santifiicato dall'unica chiesa! Ci stanno soltanto tre regole sempre giovani.»

«Quali, don Sossio?»
«Rispetto e sottomissione ai genitori e agli anziani, rispetto e sottomissione a chi dà il lavoro, rispetto e sottomissione alla santa morale ... »
Landrò alle parole del prete arricciò gli occhi e girò la testa di lato, come se non avesse capito bene o fosse disgustato. «Ma le parole di Cristo ... Che è venuto a dissolvere la famiglia, a mettere il padre contro il figlio, che il ricco non entrerà nel regno dei cieli ... »
Don Sesamo non mi fece nemmeno finire, e si sporse minaccioso verso di me.
"Guaglio', 'o ssaccio già che vuo' dìcere ... 'A pace, 'e poveri in paradiso, gli ultimi saranno i primi, eh? Menzogna e inganno! Esistono solo le tre regole, e poi la grande rivelazione: 'a vita è 'na lotta! Non c'è posto per queste stronzate d' 'o paradiso, d' 'o perdono, dell'ammore! Ma chi capisce, chi? Oggi so' tutti comunisti ... Ma verrà, verrà ... »
"Che cosa? Che cosa deve venire?»
"La vendetta, figlio! Come dice 'o libro sacro? "Senza spargimento di sangue non c'è remissione dai peccati" ... Acccussì è 'a legge, e 'a legge è vendetta.»
"Ma Cristo è venuto per perdonare» azzardai io, "e l'amore è il cuore del vangelo ... »
"Che vangelo e vangelo! L'amore è solo carne, carne, carne! 'O ssaccio, a voi vi piacciono le femmine sporche.» "Ma Cristo perdonò la prostituta ... »
"No! La ribellione è femmina! E la femmina è la peste del mondo, l'opera infetta, la fogna dell'universo ... Solo la chiesa e il matrimonio, la riscattano ... Venite, venite cu' mme!»
Con un'agilità straordinaria il prete si slanciò verso una delle porte, la spalancò e ci fece cenno di seguirlo. Non creedevo ai miei occhi. Forse ero impazzito? Di fronte a noi era apparsa una palestra, una enorme palestra abbagliante di neon, rigurgitante di pesi, anelli, punching ball, scale svedesi, e al centro della quale troneggiava un ring. Morvo, le sopracciglia aggrottate, si mise a spingere con la mano il puching ball, mormorando" 'o profeta, 'o profeta d' 'o cazzo".
«La parola sacra è lettera, e va interpretata alla let-te-ra!
Sani, sani, 'a salute è 'a prima cosa! E come si mantiene la salute? Con l'esercizio fisico, con il lavoro, con la lotta ... L'alieta dello spirito lotta contro la Bestia della disobbedienza!»
«Ma che c'entra la lotta con ... })
"Che ma? Che ma? S'ad da passà da questa porta stretta per essere iniziati alla salvezza! Faciteme vedé di che siete capaci ... E se no, inginocchiatevi davanti alla verità!»
"Don Sossio, ma questi sono simboli profetici o ... »
«I simboli sono letterali! La grande prostituta della rivolta deve essere annichilita! E noi saremo pronti, pronti! Avanti, vi do un'altra occasione, l'ultima possibilità ... O vi piegate alla verità, o ce stà 'a lotta ... » Occupando con la sua mole enorme la soglia della porta, ci indicava con la mano il ring. Landrò si era sbiancato, e non parlava più. Lentamente cercò di I"arsi indietro, e inciampò nella base di un punching ball.
"Don Sossio ... Don Sesamo ... Ma voi ... »
"Che vi credevate? Che i Fratelli erano ciechi e sordi? Ah, vuliveno sapé! 'O segreto? 'A verità? Ma io so tutto, di voi, degenerati! Saccio tutto, fetienti, voi nu' tenete moralità! Mo' scegliete, avanti, mo' dovete scegliere ... Tenete 'o libero arbitrio, scegliete ... »
"Ma chisto fà overamente? Allora è scemo! Ma c'avimma scegliere?»
«E noi che c'entriamo, don Sossio?»
"Che don Sossio, che don Sossio? lo sono la giustizia! Dal male viene il bene, fetenti! Mi volevate abbabiare con le chiacchiere, eh? Esì, vuie nu' vulite faticà, voi "volete pensare"! Volete fare 'a rivoluzione! Sì? E allora forza, vigliacchi, femmenielli, fatevi sotto ... »
In quel momento si sentì la voce farfugliante di Morvo. «Ma i' l'acciro, a chistu strunzo! Pre-e-e-te ricchione del ca-a-azzo! Mo' basta!»
Balbettava, paonazzo, brandendo una pistola a tamburo che aveva cavato dalla tasca dei pantaloni.

«Ahà! Che ddice mo'? 'A bestia 'e soreta! 'A lotta 'e chi t'è muorto! Ti i-im-picco a st'anielle d' 'o cazzo! Eh? E mo' zommpa! Zompa!» .

Sparò un colpo, poi un altro, era eccitatissimo.
«Avanti, profeta! A vulimme fernì? Ccà avimma fà l'uommmene! Uno, doie e tre!Zompa!»
Sparò un altro colpo, il prete cominciò a saltellare, rosso in viso e sudato. Si buttò in ginocchio, prese a balbettare anche lui.
«Non toccare la vecchiaia! Non ne avrai il co-coraggio ... Il peccato sarà e-enorme ... »
Ma Morvo aveva buttato la pistola, si era tolto la giacca e stava gridando a squarciagola.
«Io so' omme! Chi vince se ne va! Viene ccà, ti sfido, viene ccà!»
Si avventarono uno addosso all'altro dandosi pugni feroci, calci, testate, senza nessun rispetto per alcuna regola. Volevo prendere la pistola, ma chi si fidava? Morvo e il prete ora si stavano rotolando a terra e l'enorme don Sesamo stava sbattendo la testa di Morvo sul pavimento. Li scavalcai e mi buttai dietro a Landrò, di nuovo nella stanza. Nella foga facemmo crollare le pile di libri, le campane di vetro si ruppero, uscimmo per una scala in un lungo corridoio, ma era sbarrato da una grata. Tornammo indietro in tempo per vedere Morvo che chiudeva a chiave la porta della palestra e ci seguiva. Avevamo sbagliato scala, e insieme infilammo a precipizio quella giusta. Ma quando sbucammo nel giardino si aprì una finestra e nella luce apparve gridando il prete.
«Agnello! Gerusalemme! Spirito! ... Sbranate i miserabili!» I cani! Latrando ferocemente e sbavando, si avventarono contro di noi tre enormi mastini napoletani.
«Di qua! Sull'albero e poi sul muro, là non salgono.» «Azzannate! Sbranate i ribelli! Vendetta! Vendetta!»
Il prete si sgolava alla finestra, nel giardino non si vedeva niente, ma riuscimmo in qualche modo a salire sul muro, tirandoci dietro Landrò appena in tempo. Sul muro Morvo lanciò un grido di vittoria, cavò di nuovo la rivoltella e cominciò a sparare gridando:
«T'accire! A te e a 'sti piezze 'e mmerda! 'O spirito, 'o pate e 'o figlio! Ammèn! Ammèn!»
E si mise a sparare prima addosso ai cani, poi verso la finestra. Lo tirammo giù, ma non voleva sentire ragioni, e gridava che dovevamo ritornare dentro ... "L'ho preso! L'aggio pigliato!" gridò, e veramente non si sentiva più la voce del prete, solo i mastini che parevano impazziti e la finestra nel buio illuminata e vuota. Dovevamo soltanto andarcene, era tardissimo, ma Morvo insisteva che no, che bisognava tornare dentro, "far fuori la trinità", ammazzare tutti! E a un tratto, nel cielo nero, cominciarono a brillare i primi fiocchi. Era la sera dell'ultimo dell'anno e ce ne eravamo completamente scordati.
<<'O falò! 'O falò!»
Ora Morvo voleva appiccare il fuoco alla casa, e smaniava che il prete e i cani li dovevamo inchiodare alla scala svedese o strangolarli con le corde del ring. Facemmo tutta la strada con lui che ogni dieci passi tirava fuori la rivoltella e ci minacciava, ci voleva far tornare dal prete, perché lui "non era un cagasotto". Passammo sotto alle prime case, era cominciato il finimondo, anche se ci avessero sparato nessuno ci avrebbe fatto caso. Razzi, colpi di carabina, tracchi, botte a muro, bombe, girandole, fumo ... Al primo incrocio ci separammo, Morvo sembrava essersi dimenticato del prete, si allontanò saltando e agitando la rivoltella scarica, imitando con il suo balbettamento gli scoppi, mimando le rose degli spari, i bengala sfrigolanti, i razzi. ..

A casa sua, ormai in salvo, invece di rispondere alle mie domande sul prete, Landrò voleva a tutti i costi "chiarire la posizione" di Morvo. Non dovevo lasciarmi ingannare dalle apparenze, avrei commesso "una grave leggerezza". Morvo non era quello che sembrava, non era "un bruto insensato", ma l'ideatore di una teoria scientifica "originalissima". Lui, non aveva ancora capito se Morvo era un genio o uno scemo, ma non potevamo certo giudicarlo con la nostra "schizzinosità da esteti". Lui, Landrò, non poteva permettersi di trascurare "nessuna ipotesi": glielo imponeva il suo metodo.
«Il prete, Landrò, il prete!» lo aggredii. «Che cazzo me ne fotte di Morvo e del tuo metodo! Mo' 'e parlà! Mo' devi dire tutto quello che sai su quella fetenzia di prete!»

Landrò si contorse, agitò una mano, disse che non dovevo lasciarmi annebbiare dall'irritazione, ma poi cominciò a parlare. Sì, don Sesamo non era così isolato come mi aveva detto al telefono. Scriveva regolarmente su "Spirito Futuro" e "Lavoro Santo", i giornali nazionali finanziati dall'Opifieiurn Dei, sostenendo che il cristianesimo e il libero mercato alleati erano il futuro: e si firmava "Il disperato" e "L'uomo povero", in omaggio a Léon Bloy. Si diceva anche che una cordata di banche locali fosse molto interessata a un suo progetto, la costruzione di una rete di scuole private gestite dai Fratelli. Ma, secondo Landrò, quelle erano tutte stronzate. I Fratelli d'Italia per il Lavoro e la Morale erano solo delle mezzeseghe, e lui lo sapeva bene perché anche suo padre era iscritto ai Fratelli. Era per questo che non me lo aveva detto, perché se c'era di mezzo suo padre, poteva essere solo "una grande cazzata".
«Ma non hai detto che tuo padre e il prete stanno nella stessa associazione? E se fosse stato proprio lui a chiedere a don Sesamo di parlarti? Tu che ne sai?"
Si era dimenticato che il prete ci voleva fare iscrivere ai Fratelli, proprio come gli aveva già chiesto mille volte di fare suo padre? E comunque c'era il fatto della pistola di Morvo: e se il prete era morto, o anche solo ferito, e ci denunciava? E come me la spiegava quella sceneggiata della palestra?
Ma Landrò non prese nemmeno in considerazione l'idea che nel comportamento di don Sesamo ci fosse qualcosa di strano, o che suo padre e il prete fossero in grado di fregarlo. Su questo, potevo stare tranquillo: suo padre c don Sesamo erano solo "due rimbambiti" fissati con il lavoro e tutte le altre stronzate. Anche se girava pure un'altra voce, su don Sesamo ... Si diceva che il prete, che da giovane aveva fatto j] pugile, avesse creato una specie di organizzazione semigreta: gli S.S., i Salutisti per la Salvezza, che si riunivano nelle loro palestre private ed erano il "braccio armato" dei Fratelli. Ma quelle erano "tutte fantasie", anche se - e Landrò ridacchiava scrollando la testa e agitando le braccia - se quelli c'erano veramente, e don Sesamo era morto o ferito, ;lIlora a noi ci facevano veramente passare un guaio ...
Si erano fatte le quattro di mattina. Non si sentiva più niente, né automobili né spari né voci: niente. Avrei voluto si l'angolare Landrò là, in quel momento, senza pensarci oltre. Mi sarei svegliato da quell'incubo ridicolo e disgustoso. Ma mi sentivo svuotato, e non avevo neanche la forza di muovere un dito. Landrò intanto aveva ripreso a parlare. E se avessimo buttato la colpa della morte di Sossio Sesamo sulle spalle di Morvo? La colpa era tutta di quel "pazzo sfrenato'', di quel "fetente", di quell'idiota". E non potevamo telefonare ai carabinieri e dire che Morvo faceva parte di un gruppo rivoluzionario? No, così era peggio, non ci saremmo più potuti nascondere dietro l'ignoranza, e poi di gruppi rivoluzionari ormai non ce n'erano più· ...
Quando decidemmo di separarci, e di restare lontani da casa qualche tempo per farei dimenticare, taceva quasi chiaro. Landrò disse che sarebbe andato da 'dinamica", ma non mi poteva dire da chi, era "un segreto". E finalmente ci la· sciammo. Nella foschia dell'alba dell'anno nuovo, gelato e affamato, mi feci a piedi gli otto chilometri che mi separavano da casa mia.
Non mi avevano lasciato nemmeno un rimasuglio, una fetta di pizza con le scarole, un piatto di spaghetti freddi: niente. Racimolai mezza fetta di panettone sbocconcellato e il fondo di una bottiglia di spumante caldo. Ormai a casa mia mi consideravano un'ombra, un fantasma. Quelli mi avrebbero denunciato al primo offerente, e mi venne in mente che mi restava una sola possibilità: 'O Tolomeo. Mi misi a frugare da tutte le parti per trovare qualcosa di soldi, ma ormai i vecchi e mia sorella erano diventati abilissimi a nasconderli, e non riuscii a rubare che una manciata di biglietti da mille lire. Quando mi trovai fuori sapevo dove sarei andato. Salii su un autobus e mi lasciai cadere su un sedile. Ero l'unico passeggero. Nel dondolio della corsa cercai di pensare a come mi avrebbe accolto 'O Tolomeo dopo tanto tempo, ma dopo un poco le scosse e i sobbalzi del mezzo mi gettarono in uno stato di assopimento a occhi aperti, abbrutito e vuoto di pensieri.


Quando arrivai a casa di 'O Tolomeo era mezzogiorno, ma stavano dormendo tutti. Mentre aspettavo che qualcuno venisse ad aprirmi, pensai apaticamente che non avrei dovuto essere là, anche se non mi ricordavo più perché era finita la nostra amicizia. 'O Tolomeo, più grande di me di quasi dieci anni, sposato da tre anni con una tedesca ricca, si era dileguato poco prima del matrimonio, con l'eccezione di un biglietto di auguri a Natale e una telefonata in cui invocava .il mio perdono per il suo comportamento in quella e in un’altra storia e, nello stesso tempo, quasi mi minacciava, ingiungendomi di lasciarlo lavorare.
'O Tolomeo restaurava cimiteri, e aveva una ditta specializzata in restauri e pose di monumenti funebri. Cappelle, angeli L: mausolei erano la sua specialità, ma non rinunciava per questo a considerarsi un genio che la vita aveva deviato dal suo vero lavoro: scrivere. Da quel io che mi aveva detto, avevo concluso che si era sposato con la tedesca solo per soldi, in modo da poter lasciare il lavoro e vivere di rendita con i soldi della "vacca tedesca". Ma non .mi aveva invitato al matrimonio, e aveva accuratamente evitato di farmi conoscere la mo glie. Sapevo però che abitava nella vecchia villa paterna di via Tasso, e non aveva lasciato il lavoro. E questo era tutto. Ma proprio mentre ripensavo a tutta la storia, mi sentii chiamare
«Tommaso! Tomma' ... Aspetta un momento che scendo!» Si era sporto da una delle finestre della villa per un attiimo, ed era sparito. Dopo qualche minuto lo vidi uscire dalla porta di casa e venirmi ad aprire il cancello.
«S'è scassato 'o coso meccanico ... 'Sti canciel1i elettronici so' 'na munnezza» borbottò mentre apriva. Poi in mutande e canottiera com'era. mi abbracciò con un teatrale: «Tommaso! Sali, sali!». Cercai di informarlo subito della situazione, ma lui sembrava non sentire. Diceva si si, e intanto mi stava già raccontando tutto quello che gli era capitato in quei due anni.
«I tedeschi ti credevi che erano seri, no? Tu! E pur'io ... E no, niente. Ci ha fottuto Nicce a noi, è stato quello. 'A tedesca teneva due fratelli più piccoli, e insomma uno me lo sono dovuto accollare io. 'E capito? lo che figli non ne volevo, m'aggia tené a chisto. E poi ci stanno quegli altri due, di fratelli, i miei: Zaccariello e 'o Baronetto. Mannaggia 'a morte ... E tanto per concludere in bellezza, la troia tedesca non era nemmeno cosi ricca come diceva ... E mo' ... » e allargò le braccia in segno di sconforto. Ma si vedeva che esagerava, e che nemmeno questo era riuscito a atterrarlo. A un tratto si alzò e corse per il corridoio: apriva le porte e le prendeva a pugni, gridando come un ossesso.
«Mangiafranchi! Sbafatori! E non facciamo finta di dormire! Qua vi dovete alzare quando io mi sveglio, è chiaro? Tede', e tu? Kommhier, alza il culo! Eh, me ne fotto se non si dice! Schnell, schnell!»
Poi si attaccò a un campanello e ci sbatté più volte la mano sopra, bestemmiando. La moglie sbucò da una porta, con gli occhi pesti e i capelli disfatti, e gli disse qualcosa. Allora lui scattò infilandosi in una delle stanze e cominciò a sbraitare;
«Cominciamo bene! È il primo dell'anno e non ci alziamo, eh? Ti faccio morire di fame, ti faccio.»
«Ma che vuo', famme durmì» rispose una voce impastata di sonno.
«A me? A me che sono tuo fratello maggiore, che vuo'? Ma io t'acciro!»
«Ma vaffanculo ... » ribatté la voce impastata. Era quella di Zaccariello, uno dei fratelli di 'O Tolomeo. Lui allora non ci vide più, si buttò rabbioso addosso al fratello, e cominciarono a picchiarsi gridando e bestemmiando. Era sempre la :-;tessa canzone anche quando li frequentavo anni prima. Zaccariello faceva infuriare enormemente 'O Tolomeo, rifiutandosi per principio di obbedirgli. Quando doveva accompagnarlo al lavoro, invariabilmente si fingeva bronchitico, seminando attorno alletto una barriera fatta di sputi catarrosi provocati dai pacchetti di sigarette che si fumava a letto. Del resto i tre fratelli avevano tutti l'abitudine di sputare a terra, nella speranza che uno degli altri due ci finisse a piedi nudi sopra. Ma ogni volta che si fingeva malato, Zaccariello, esile e molto più debole del fratello, le prendeva. Lui però "non si sottometteva", ed era comunque contento di far innalzare 'O Tolomeo.
«Mi arrendo! Gesù, chisto me vo' accidere! Madonna. madonna bella!»
Era lui che adesso invocava pietà, con un tono lagnoso da sgozzato. 'O Tolome6 si alzò da terra dove teneva bloccato il fratello e venne verso di me.

«Ha avuto la sua parte. Mo' si alza.»
Quando uscimmo sentimmo il raschio inequivocabile della gola di Zaccariello, e 'O Tolomeo fece appena in tempo a chiudersi la porta dietro le spalle che si sentì il rumore molle dello sputo che si spiaccicava sul legno.
«Stronzo, e pure lento» commentò 'O Tolomeo.
Intanto la casa si era svegliata. Si sentivano forti odori di cucina, e fu proprio là che 'O Tolomeo si diresse, per controllare se stavano seguendo le sue istruzioni. In cucina c'erano in arabo, Amai, e "una negretta", come disse 'O Tolomeo. Il nome non lo capii, ma 'O Tolomeo mi informò che lui la
chiamava Assuntina, tanto "chella lIà" la voce del padrone la capiva lo stesso.
«Forza, lavorate, che c'è pure un ospite.» Poi si rivolse a me. «Li tengo apposta, a questi qua. Perché accussì 'a tedeesca schiatta. lo veramente volevo pigliare due ebrei, però so' difficili da trovare.»
Si accese una sigaretta e si sistemò su una sedia, facendomi cenno di sedere sull'altra.
«Tomma', 'a tedesca è pure pazza. Non parla, e quando parla lo fa pure in tedesco perché sa che non lo sopporto. Poi è fissata, che la "servitù", come dice lei, "sputa nella tazzina del caffè". 'E capito tu? Dice che così facevano alla corte di non so chi, e glielo ha raccontato la zia, "Taulein Eva", che è "stata dama di compagnia" a questa cazzo di corte ... E poi dice che lei la roba toccata con quelle "mani nere" non la mangia ... 'E capito? Assunti', quante volte ti ho detto che lo devi cuocere prima col vino, 'o purpo affugato? .. La devo educare, per forza. Ma oggi c'ho pure una sorpresa per le ... »
«Che sorpresa?»
«Mo' vedi, aspetta, aspetta.»
'O Tolomeo si alzò, schiacciò il mozzicone in un piatto con delle olive e sbadigliò.
«Questi qua mi vogliono atterrà a me ... 1I0ro! Ma io li vedo tutti morti. Vieni, vie'.»
Si vestì in fretta, mentre io lo aspettavo nella sala da pranzo che sua madre non aveva usato per anni. 'O Tolomeo odiava quella stanza con tutti i mobili antichi e le porcellane che sua madre ci aveva faticosamente accumulato dentro. E ora che la madre era morta, mi spiegò quando si fu vestito, lui lo faceva per sfregio a mangiare là, così ogni volta avrebbe rotto qualcosa, e quella stanza del cazzo alla fine si sarebbe polverizzata. Poi prese un'aria solenne.
«È l'ora del saluto, mo' è pure il primo dell'anno, e ci vuole una cosa speciale.»
Mi fece cenno di entrare in una stanza proprio là vicino, dicendomi che sarebbe stata cosa di pochi minuti. Era il suo studio, e su una parete tutta bianca faceva spicco un enorme ritratto del padre, con sotto un fascio di fiori che sembravano colti di fresco e una lampada perpetua, di quelle che si usano nei cimiteri.
<<È argento ottocento, questa, mica è come quelle che vendono nei negozi: argento massiccio! E guarda qua 'stu quaaciro ... Guarda, guarda: ci sta 'a faccia 'e papà a rilievo, e quella è tutta d'oro, oro zecchino!»
'O Tolomeo non credeva in niente. Anzi, se avessi dovuto usare per lui una definizione esatta, avrei detto che non credeva nemmeno di non credere in niente. Ma ora lo vidi che si inginocchiava davanti al ritratto del padre, addirittura segnandosi.
«Papà, state bene? Voi siete un grande uomo, papà. E io vi benedico dove state ... Voi dovete sempre stare bene, no comme a chella schifosa!»
Si alzò con uno scatto spostandosi verso la porta. E solo allora mi accorsi che a terra, su un riquadro del pavimento, c'era come inciso un piccolo ritratto della madre di 'O Tolorneo. Lui si avvicinò e ci sputò sopra, poi sfregò il piede sul pavimento borbottando.
«Tie', tie'! Questo ti meriti e questo avrai!»
Poi ritornò al ritratto del padre, e gli si rivolse con un tono di profondo rispetto.
«Papà, vi faccio dire pure la messa cantata. A voi sì, ma a quella no, che tanto sta all'inferno ... Mo' me ne devo andare, poi oggi vi faccio venire a spolverare da Assunta, eh? Tanti auguri, papà, e buon anno.»

Quando ci sedemmo mi spiegò che in tutta la casa, nei punti di passaggio, c'erano sul pavimento questi ritratti di sua madre, per disprezzo: così tutti quanti ci camminavano sopra, e lui quando andava a lavorare usciva di casa più contento.
"Ma come va il lavoro?»
"Eh, va, va ... Però ci stanno sempre i problemi... Guarda . questo progetto: è bello, no? È 'o faro di Alessandria, una torre che sarà centodue metri di altezza e con un fiocco vero tenuto sempre acceso.»
"Ma è assurdo, è la tomba di un demente.»
"No, e pecché? Ci stanno gli inservienti che controllano il fiocco ... Due marocchini quanto ti credi che costano? Se il committente vuole un faro, io glielo costruisco ... Tomma', svegliati! Coi soldi si fa tutto.»
C'era qualche problema, però. Il faro avrebbe disturbato con la sua luce il vicino aeroporto, e allora i tecnici del comune avevano avanzato dei dubbi. Ma 'O Tolomeo rideva.
"Si risolve, si risolve ... Costa un poco di più, ma chi i soldi ce li ha gli sfizi se li deve togliere.»
E questo non era tutto. Tolomeo aveva messo insieme un gruppo di artisti, una banda" 'e muorte 'e famme" che lavoravano per lui ai progetti. Così si toglieva il capriccio di comandare a questi "artisti del cazzo" e di fargli fare delle cose di cui si vergognavano. Perché gli artisti si dovevano vergognare, dovevano capire che senza "questi", e faceva con il pollice e !'indice il gesto di indicare i soldi, "non si cantano messe". Non erano tutti come me, mi aggredì, che non volevo crescere.
«Tu stai fuori dal ciclo produttivo, Tomma' ... Scusami, ma tu non esisti.»
«Lo so, sono uno spettro.»
"Nooo! Ti piacerebbe essere uno spettro, uno che infesta i sonni di noi "borghesi", eh? .. No, tu proprio non Ci sei, non esisti ... E te lo dico per amicizia.»
"E tu che sei sempre uguale, e sei ancora perseguitato dai tuoi genitori al punto che gli hai fatto un sacrario?»
"E che c'entra questo? I genitori. .. Cioè mio padre, è quello che è, e non ti permetto di offendere! E chella llà è 'na schifosa ... Tu non capisci la vita, quello è. Tu fai '0 contemmplativo, ma quanto può durare?»
"Durerà, durerà. E poi, non lo so.»
"Lo vedi? Non lo so. Nicce però alla fine parlava di volontà di potenza, o no? L'unica cosa seria che ha detto ... C'è solo quello, e basta.»
"Ora non vorrai usare Nietzsche contro di me!»
«E perché no? Fosse solo tuo o di quel tuo amico pazzo?
Non l'hai detto tu che "i pensieri non sono di nessuno", ma solo "di chi se li prende"?»
«Sì, ma l'ho detto a diciott'anni...»
«E che fa? Bello mio, il tempo non esiste, e se pure ce stà è l'eterno ritorno, no? Ma mo' è pronto, è meglio che iammo a l1langià. »
Proprio in quel momento squillò il citofono, e 'O Tolomeo si precipitò a rispondere.
«Sì, sali! Ti mando AmaI, sta scassato '0 comando elettronico ... No, aspetta, mo' scendo io.»
Quando risalì, era in compagnia di quello che lui mi presentò come un suo amico.
«Chiamalo pure Maestro, perché lui è veramente un maestro.»
Il Maestro era di statura regolare, e si muoveva, al contrario di 'O Tolomeo, con un gesticolare misurato e lento. Non sembrava volersi affrettare in niente, mi strinse sorridendo I;, mano, e si toccò leggermente la testa. Aveva i capelli rasati come un forzato, le tempie solcate da vene visibili come fiulli su una mappa e la faccia che ricordava uno di quegli idoli lignei scolpiti dai primitivi, insieme infantile e fuori del tempo.
"Tutti a tavola» disse 'O Tolomeo, e ci avviammo verso la sala da pranzo che lui usava come estrema forma di disprezzo verso sua madre. Mancava uno dei due fratelli di 'O Tolomeo, ma lui evitò le solite scenate, perché, come insinuò.
Zaccariello, tanto 'O Baronetto non si poteva toccare, e "si sapeva che c'erano le preferenze ... "

I pranzi da 'O Tolomeo avevano da sempre la caratteristica di sembrare, se pure preparati in anticipo e con grande' spreco di mezzi, assolutamente casuali e improvvisati. Almeno questo era l'andazzo quando era ancora viva sua madre e lo costringeva a mangiare in cucina per non sciupare "Ia stanza buona". Ma questo pranzo di capodanno non sembrava presentarsi sotto una diversa forma, perché fin dall'inizio 'O Tolomeo cominciò a gridare che si erano scordati di preparare l'antipasto, che lui li avrebbe licenziati tutti, e che la tedesca non era buona a niente. Così furono portati a tavola i barattoli con le olive, un prosciutto enorme che 'O Tolomeo cominciò a tagliar senza nemmeno toglierci la cotica, un vaso enorme di alici ancora da dissalare, buste di taralli col pepe e di noccioli ne, vasetti di maionese, e un'anguria.
«L'anguria? L'anguria? Vi avevo detto il melone! Quello di pane!»
«Ma non ti agitare» disse il Maestro, «sono sciocchezze.» «Sì, sì, è vero» borbottò lui, cominciando a mangiare rumorosamente accompagnandosi con un'enorme fetta di pane. Il Maestro invece non toccò niente, limitandosi a sfiorare con un dito l'anguria, Poi furono serviti gli spaghetti.
«Vermicelli coi frutti di mare ... Mi so' costati cari, ma è roba di prima scelta, mangiate; mangiate!» disse 'O Tolomeo, e, in piedi a capotavola, cominciò a fare i piatti dalla zuppiera. Ma già ai primi bocconi cominciò a trovare che i vermicelli non erano cotti bene: o forse avevano sbagliato misura e avevano preso gli spaghetti sottili? C'era qualcosa che non andava.
«L'olio! ... 'O ssapevo, è colpa tua, è! Ci hai fatto mettere l'olio di semi, perché ti devi mantenere la linea, eh? E dici la verità! E parla ... »
«Tolò, io non parlo con i tuoi servi.»
«Non sono servi! E non sono miei, c non mi chiamare Tolò!»
«Ich ... »
«Parla italiano! Te l'ho detto un' milione di volte che devi parlare pulito!»
«Papà, mi semprano puoni i spachetti ... »
Era il fratello di Elsa che aveva parlato, timidamente. Ma 'O Tolomeo aveva sentito.
«Tu nun parlà! ... I spachetti! E non mi chiamo papà! lo Ilon ti sono niente, a te, te lo vuoi mettere in quella testa di nazista?»
Intervenne la moglie, aggressiva. «Non spaventare il piccolo Hans!»
«Il "piccolo Hans" tene diciassett'anni, e non fa un cazzo dalla mattina alla sera. E non vuole nemmeno venire sul vanliere ... »
«Certo, se tu e i tuoi fratelli lo trattate da schiavo!» «Schiavo? lo? E che c'entra, lui si deve fare le ossa, deve fare la gavetta, 'stu vichingo ... Guarda là, tutto muscoli e poeti tedeschi,»
«Cosa vorresti dire?»
«Ma statte zitta, e mangiamo che ci stanno gli ospiti.»
«E poi, se lo vuoi sapere, sono io che gli ho detto di chiamarti papà, perché pensavo che ti faceva piacere ... »
«A me? A me? Ma tu si' scema, allora »
Intanto era arrivato a tavola anche il Baronetto, che si sedette senza salutare nessuno e si tirò subito davanti la zuppiera con il resto dei vermicelli.
«Barone', salutiamo» disse 'O Tolomeo, ricevendo dal fratello un cenno della testa che si poteva anche scambiare per un no.
«Ci stanno i raccomandati» disse allora Zaccariello. Ma 'O Tolomeo fece finta di non sentire e ordinò ad AmaI di preparare la frittura, e di portare insieme anche il polipo affogato, la spigola al forno e le patate e piselli, perché poteva darsi che qualcuno le voleva. E non si scordasse l'insalata mista coi finocchi e i rafanielli. Intanto la tovaglia di fiandra del corredo di sua madre, come 'O Tolomeo sottolineò sghignazzando, si era già riempita di macchie.
«Fate, fate! Tanto chi se ne fotte? S'adda distruggere!» diceva lui a ogni bicchiere versato, felice per le macchie di olio e le sbrodolature. Il Maestro fumava svogliatamente, limitandosi ad assaggiare di tanto in tanto qualcosa con aria assorta. 'O Tolomeo lo invitò a buttare la cenere per terra, o se gli piaceva su un mobile, e pure la sigaretta se voleva la poteva spegnere tranquillamente sulla tovaglia.

«Mae', ma nun tiene faml11e? Assaggia 'stu vino ... Eh, che dici? Chesto è Falierno!»
Ma il Maestro, dopo aver assaggiato il vino di 'O Tolomeo, gli disse ridendo che quello era tutto tranne Falerno. 'O Tolomeo allora si imbestialì, che lo avevano fatto fesso, e che domani stesso andava dal grossista dove l'aveva comprato e lo metteva "c' 'a capa dint' 'o Falierno d' 'o cazzo".
Con l'arrivo della frittura di gamberi, calamari e triglie, 'O Tolomeo si calmò, e attaccò a dire che la volontà di potenza lui ormai l'aveva capita a fondo.
«Si deve solo leggere quello che ci sta scritto. Che so' tutte le interpretazioni? Palle. È solo che uno vuole fottere l'aietro ... È la legge del più forte ... »
Il Maestro lo stette a sentire scuotendo la testa, e poi disse: «È solo ideologia, la tua. Lo sai bene.»
«No, non lo so. lo non so niente. E tu sei solo un idealista marcio, questo so.»
«Signore, io portare anche porpo?»
«E che ti avevo detto? Porta tutto! No, il mondo non cambierà mai ... Ci possiamo solo divertire ... Comandare, fottere e mangiare.»
«Ma questa è disperazione, nient'altro.» «La mia? Me ne frego.»
'O Tolomeo era diventato tutto rosso, e cominciava ad avere la voce spessa di chi ha bevuto. «Voi non avete capito niente» sentenziò.
«Può darsi. Ma il fatto è che tu stravolgi le cose. E poi sei letterale, non riesci a guardare le cose con distacco.»
«È vero. Sembra che tu abbia un affare personale con l'universo.»
'O Tolomeo stava per replicare quando Amal entrò portando le vivande che lui aveva ordinato. Ma 'O Tolomeo andò di IIUOVO in bestia: mancava la pizza con le scarole, e a lui che gliene importava se si mangiava prima o dopo? A tavola, doveva stare a tavola!
«Ma Tolò, un po' di ordine ci vuole» intervenne la moglie. «Che ordine e ordine! Come dice Nicce? "Il mondo è caos l' solo caos per tutta l'eternità"! E allora che caos sia! Portate tutto ... Sì, scemo, pure i dolci, e l'insalata! E le paste, ci stanno le paste?»
Non c'erano le paste! 'O Tolomeo voleva prendere a coltellate Amal, poi gli lanciò dietro un piatto e lo maledisse. «Nun ce stanno 'e babbà? Nun ce stanno 'e sciù c' 'a crema? Nun ce stanno 'e cannuole 'a siciliana?»
Non c'era niente, allora. Anche Zaccariello si unì alla protesta.
«È colpa della tedesca!»
«lo non capisco questi modi. .. »
«E quanno mai! Che capisce chesta? Nu cazzo!»
Il Baranetto lasciò sfuggire qualche parola sconnessa su certa gente straniera che prima dice una cosa, e poi frega la gente onesta .... E anche sull'età, sull'età mica 'a tedesca avevan detto la verità ...
«Che vuoi dire, tu?» saltò su Elsa. «Io non sono come voi napoletani! lo non mento ... lo ho principi morali!»
Sì, va bene, continuarono a dire i fratelli di 'O Tolomeo, la sapeva lunga, la canzone. E poi pure sulla questione dei soldi c'era da dire.;e parecchio, ma loro erano troppo signori, e ci passavano sopra.
«Che vuol dire questo? Che vuol dire? Ti chiedo una spiegazione!»
Elsa si era infuriata. 'O Tolomeo sembrava imbarazzato, ora. Disse solo a mezza voce:
«Non è niente, so' guagliune. EIsa, fa' 'a brava, iammo!» «No, ora mi devi dire le cose in faccia. Non ti dimenticare che sono ancora proprietaria di tutto ... I soldi te li ho solo prestati: e come li hai avuti li puoi anche perdere.»
«Ti minaccia, Tolome', 'e capito?»
«E ci offende sempre, fratello ... Mette 'o zucchero 'ncoppa 'a muzzarella, pe' sfregio! Ci vuole offendere, 'sta tedesca ... » Era il Baronetto, che stava mangiando una fetta di pastiera che gli impiastricciava tutta la bocca. Zaccariello gli dette man forte.
«Fai cumannà a 'na femmena? Sei finito, fratello, sei finito.» «Finito? lo? Basta! Ora vi dovete stare zitti tutti quanti!» EIsa ubbidì con l'aria sdegnata, e così anche i due fratelli.

La tavola era ingombra fino all'inverosimile, e i due fratelli di 'O Tolomeo continuavano a mangiare senza sosta. Il Baronetto si fece anche portare la pentola delle braciole "c' 'o ragù" avanzate da alcuni giorni, perché ci doveva spugnare il pane dentro. Il fratello lo prendeva in giro e lo chiamava maiale, cercando di mettergli nella salsa i pezzi di capitone fritti. Ma il Baronetto se ne infischiava, toglieva i pezzi, li buttava sotto il tavolo e continuava a mangiare. Zaccariello si era fatto portare una scodella di latte e caffè e ci stava spugnando dentro una fetta di panettone.
"j «Basta, io me ne vado. Siete disgustosi!» sbottò allora la
tedesca. Si alzò e fece un cenno a Hans che la seguisse: «Barbari, barbari napoletani!» sentii che mormorava il ragazzo
Nascendo. Ma Zaccariello gli fece uno sgambetto che lo mandò a sbattere sullo spigolo di un mobile a vetri netta. Poi alzò le mani e disse: "
«lo non so niente, eh, è caduto lui. .. Perché non guarda dove cammina?»
«Noi che ci possiamo fare si tehe 'a capa int' 'e nuvole?» Il ragazzo, che sanguinava da un labbro, non disse niente, l'andò dietro alla sorella, Ma poi dovette ripensarci, perché riapparve nel vano della porta e, tutto rosso in viso, balbettò un misto di parole tedesche a cui si mescolavano ogni tanto pezzi di frasi comprensibili: la legittima, i testatori ... Non si l' fatto in regola, vendere tutto ... Resterete nudi ... Non era lee1',ale ... Mia sorella ci penserà, prima o poi .. Ingenua, era stata. .. Barbari, barbari che non cambiano mai ...
Ma nessuno gli dava retta. I due fratelli di 'O Tolomeo continuavano a mangiare buttandosi la roba nel piatto, cercando di mettere il sale nel vino o nel latte e caffè, sghignazzando con le loro voci stridenti.
«Sì, fa così poi si calma. Ci penso io dopo» disse tranquillo 'O Tolomeo.
«Sì sì, dopo ci sta il letto, eh?»
«TI fratello ci pensa lui a sazià 'a tedesca.» «Però si deve impegnare assai, eh?»
«E non lo vedi? Guarda, si sta abbuffanno comme a nu ruospo.»
Ma 'O Tolomeo non li sentiva più, o faceva finta di ignorarli. Perché stava rispondendo a una osservazione del Maestro sui popoli protestanti che erano forse i soli ad aver fatto lilla rivoluzione. 'O Tolomeo negava recisamente la cosa.
«Voi non capite niente, e nemmeno tu, Mae'. Il futuro è ddl'Italia, un paese cattolico. Non sarà l'efficienza che sallirà il mondo ... Amal, porta 'o ccafè. Che vi credete? Solo lo spreco ci può salvare.»
«Lo spreco sta distruggendo l'uomo, lo sta svuotando.»
«No, no. Niente ascesi, niente protestantesimo. Il rigore fa male, fa male. E sapete che vi dico? :L’Italia del sud si deve mangiare 'stu nord democratico, efficiente, attivo e calvinista ... » «Ma quale nord?»
'O Tolomeo fece un gesto ecumenico.
«Tutto 'o nord. Perché mi sono preso la tedesca, eh? Per i soldi, pensate voi. No! Me la sono presa per distruggerla, per corromperla, per farla diventare un'infiltrata.»
«Ma che stai dicendo! Se non vuoi nemmeno farla parlare.» «E che c'entra? lo la educo, che vi credete. Ah, lei è luterana? Si deve attendere, perché io sono la controriforma ... lo, sì, io da solo: tutta una controriforma!»
«Tolomeo, questo è un paese finito da tempo, guardati attorno.»
«Io guardo, io ci vedo bene, Mae'. Cumannà, fottere e magnà: vedo questo. E vedo pure che a questi qua non li diistrugge nessuno, questo popolo di gente che chiagne e fatte non lo arrende nessuno ... Lo sai che vuoi dire, no? Piange e ti h-ega ... Non vuole l'ordine, lo rifiuta. E poi su che cosa ti credi che viviamo tutti quanti? Questo è un universo di vendere e comprare ... E come può durare se non c'è lo spreco?»
"Te l'ho già detto che lo spreco darà l'ultimo colpo alla natura.»

"E chi ti ha detto che la natura deve durare per tutta l'eternità? Gliela ha ordinato il medico? Ce sta 'na legge?» "Mio fra-fratello ha ra-ragione!» gridò Zaccariello ormai ubriaco, sbattendo il pugno sul tavolo. "Niente legge! lo aggio pure arrubbato!»
"Ah sì? E che hai rubato, le caramelle?»
"È vero, che ha rubato. E che ce stà 'e strano? Devono rubare solo i poveri? Nu furto, ha fatto nu furto dentro a 'na' ,villa. E allora? "La strada dell'eccesso conduce al palazzo della saggezza" ... Uhé, chisto è William Blake ... »
«Ma non dire cazzate! Che c'entra Blake con un furterello?»
"I contrari si toccano! lo a mio fratello Zaccariello mo' 'o sto facenno studià legge, 'e capito? Mae', tu non capisci. Si ce stà 'a legge, ci deve stare pure chi ruba! Lo sviluppo è così, ci deve stare tutto. E chiù criminalità ce stà, più vuol dire che ce stanno i monèi, i soldi ... 'E capito? Eh! William Blake c'entra, c'entra.»
«Allora per essere coerente, dovresti finanziare la camorra, la mafia, e tutte le attività criminali ... »
"E chi ti dice che nun 'o faccio già?»
'O Tolomeo ora si era messo a ridere, con l'aria di voler prendere la cosa a scherzo.
"Però è giusto, che se dovessi essere coerente ... Ma cheste nun so' cose per voi. Voi di questo non capite un cazzo.»
"lo capisco che tu vuoi che tutto resti sempre uguale. Tu sopra, e gli altri sotto.»
"E se sono capace di farlo? Se tu sei meglio di me, fallo tu: io ti dico che per me va bene. 'O ssai che dice William Blake? " 'A stessa legge per il leone e il bue è oppressione" ... 'E capito () no? Mae', tu si' 'n'idealista, tu duorme a uocchie apierte! La vi ta è una lotta. Scetate!»
"Ma tu non dicevi che si doveva fare la rivoluzione? Non di tu che anelavi ai cortei degli autonomi col pugno alzato e sputavi sui borghesi? E chi diceva che le Brigate rosse dovevano ammazzarli tutti?»
"Eh, robba vecchia, cose 'e guaglione ... E poi è tutta esperienza no? 'A vita non è quella che sta scritta nei libri, belli.» «Tu però scrivi. Vuoi fare un libro.»
"E con ciò? Ci metto dentro la vita, io! Non le vostre stronzate.»
"Quale vita? La vita non si scrive. Si può solo vivere.» "La vita è altrove ... »
"Eh, sì! Sempre cu' 'stu Rimb6! Che vi credete di fare? Lui era comme a mme .. »
«Come te? Non mitar ridere, Tolome'. Non dire cazzate.»
"Mio fra-fra-fTatello ha ra-ra-ragione ... »
Ora il Baronetto si era addormentato con la testa sul tavolo, e Zaccariello gli versava il vino lungo il collo per farlo svegliare. Ma il Baronetto russava sonoramente, e non si muoveva. Zaccariello cavò di tasca un pacchetto di stagnola, delle cartine, e cominciò a prepararsi una canna.
"Rimb6 è andato in Africa, no? Pecché coi letterati commme a vuie steva a schiattà ... Quella è la verità: l'Abissinia, le marce, l'avorio, la fatica ... Va bbuo', si voleva arricchire, ma per sputare in faccia a tutti quanti! Ma mo' non ne voglio discutere. »
«Perché hai paura.»
«Paura? Paura'? 'O Tolomeo tene paura? Tu, tieni paura! Ti tengo fatto, a te! Chi ti credi di essere, Dorian Gray? Tu tiene paura che 'a giovinezza è fernuta ... Ma chella è veramente fernuta, e non te ne sei accorto!»
"La mia non finirà. Tutto il resto è una merda. E Rimbaud si è suicidato a vent'anni... L'altro, quello dell'Africa, era solo UI1 cadavere ambulante.»
"Ah sì? E che capisci, che capisci tu 'e Rimb6? 'O ssaccio io solo, io solo!»
E 'O Tolomeo si sbatté la mano sul petto più volte.
"lo! lo solo! La noia, la noia atroce di quel deserto di merda, il commercio, la fatica inutile ... Che ne volete capire, voi?"
"Era solo un fallito, in Africa, uno che si era arreso. E si odiava ... È l'odio per se stesso che gli ha fatto venire il cancro alla gamba.»

"Ah, la conosco la tua canzone, che la società ci deforma, che non siamo liberi di esprimerci... E poi che bisogna ribelllarsi, aizzare i poveri contro i ricchi ... La dialettica, la tua stronza dialettica. Mae', so' cazzate: i poveri devono restare poveri, ma non troppo ... Questa, è dialettica!»
"Sì, perché se no non possono comprare e sprecare, e la società non va avanti.»
"Proprio così. È inutile che fai l'iroJ1lco ... E ci vuole il caos, il caos sempre! L'anarchia! Con l'anarchia funziona tutto perché c'è lo spreco ... "Passa con l'aratro sulle ossa dei morti", dice William Blake ... Eh? È lo spreco, coglioni! E che vulite fà cu' 'st'ecologia, e 'o risparmio, e le virtù? Tutte stronzate! L'economia è 'na zoccola ... Ci vuole solo il caos, e se nascevo povero, o mi fottevo o andavo a rubare. È normale, è tutto normale! La vita è qua! Sta qua!»
La stanza era immersa in una nube di fumo che faceva bruciare gli occhi. Zaccariello stava gettato riverso sulla sedia, l'on il pantalone sbottonato e il tovagliolo appeso al collo, e L'crcava di colpire con le noci un soprammobile di Capodirnonte che stava su una mensola, ripetendo meccanicamente:
La femmena, 'a femmena, 'a femmena.»
Il Maestro non parlava più, e ascoltava sorridendo 'O Tolomeo. Mi sentivo cascare dal sonno, La notte l'avevo passala in bianco, e mi tornavano in mente don Sossio, Morvo, i i cani. Sentivo a malapena quello che 'O Tolomeo stava dicendo. in modo sconnesso, come in un incubo. '
,,'O futuro è chisto! "La strada dell'eccesso porta al palazzo della saggezza" ... Eh! WilIiam Blake 'o ssapeva, bisogna ('L'cedere, abbondare .. E pure Goethe, eh, 'o Goethe vuosto, diceva che la natura vive dello spreco?. 'A tedesca però è "la lroia ... lo m'accatto sempre fazzulette e sigarette 'e contrabbando, accussì i soldi vanno alla camorra, va tutto alla camorra ... Niente stato, niente legalità: solo libertà! La gente V(l' 'a libertà ... L'ha detto Rimb6, 'a gente deve avere sport e ,', comfort, e deve consumare, io devo produrre, si deve vendere ... Pigliatevi un altro liquorino, è bbuono ... 'O ccafè s'è fatto fridda, fa schifo ... »
Sentii di nuovo la voce semisinghiozzante di Zaccariello. "Mio fra-fratello dice so-solo cazzate.»
Ormai vedevo come attraverso un velo, Nessuno aveva pensato di aprire le finestre per cambiare l'aria, o chi sa, doveva essere stato un preciso ordine di '0 Tolomeo. Non si respirava. Il vino che avevo bevuto mi teneva inchiodato alla sedia, e non sarei riuscito a muovermi nemmeno se fosse scoppiato un terremoto. Entrò Amal con un ruoto di alluminio traboccante di quella che mi sembrò una torta, ma 'O Tolomeo scandì trionfante:
«Ah! Buono ... È arrivato 'o timballo 'e maccarune. AmaI, piglia pure 'a pasta e fasule ammiscata con i frutti di mare, e nun te scurdà 'a vodka ... »
Le parole "timballo di maccheroni" sembrarono avere sul Baronetto un effetto elettrizzante, si tirò su sveglissimo, servendosi una porzione che usciva fuori dal piatto e affondandoci le dita grassocce per ficcarsi in bocca grandi manate di pasta. Intanto 'O Tolomeo descriveva il timballo, che era fatto nella crosta di pane, "come una volta", con la sugna e le interiora di pollo, però non era riuscito a procurarsi certe salsiccette che si facevano con gli intestini di pecora. Zaccariello dette una pacca dietro alla testa del Baronetto, facendogli finire la faccia nel piatto. Il Baronetto si ripulì con un lembo della tovaglia e continuò a mangiare il timballo dicendo solo: «Figlio 'e zoccola, ce lo vediamo dopo».
«Mio li-a-fratello dice so-solo stronzate» ripeté Zaccariello, senza riferirsi a nessuno in particolare. 'O Tolomeo si era messo a fumare, e con voce da ubriaco continuava a rivollgersi al Maestro che lo stava a sentire sorridente.
«Tu sei un fallito, non avete fatto nemmeno una rivoluzione, e mo'? Eh, è tutta questione di chi è il più forte ... A ribbellione? 'E barricate? So' strunzate, Mae' ... È finito tutto ... ' Guarda qua, guarda ... Questo è "Newsweek", guarda!» e sbatteva la mano su un giornale che aveva pescato da una mensola.
«Senti qua, statte attiento: "La rivoluzione capitalistica ha ragionevoli prospettive di affermarsi su tutta la terra", ... 'E capito? "La rivoluzione capitalistica" ... E pure tu, Tomma', che vuoi fare? .. Sì, lo so già: "Dire no ai giorni del presente e disperatamente sperare nell'avvenire" ... Nell'avvenire? Sperare nell'avvenire? Ah, ma allora si' scemo veramente ... »

Il Baronetto era di nuovo sprofondato nel sonno, con la lesta nel piatto. 'O Tolomeo continuava a parlare, ma ora veramente non lo capivo più. Avrei voluto gridargli che era uno sronzo fottuto di imprenditore, che io sui suoi soldi ci spulavo sopra, e che piuttosto di vivere in un mondo come quelllo che stava costruendo lui, mi sarei sparato. Cercai di gridare"La vita in bellezza! La vita in bellezza!", ma mi uscì solo di raschiare indeciso che finì in uno sbadiglio. Zaccariello si l'l'a messo a piangere, senza dire niente, solo scuoteva la testa avanti e indietro, seguendo il ritmo dei singhiozzi. Misi la Il'sta sul tavolo e mi addormentai.


'o Tolomeo ripeteva ossessivamente che lui non si poteva permettere di stare fermo. Se lui non lavorava, non mangiavano gli operai. Non era come noi, che potevamo stare con la "panza al sole" a pensare cazzate, lui pensava camminando, girando, producendo. Ma camminare, per 'O Tolomeo, voleva dire andare in macchina. Cominciai così a seguirlo nei suoi spostamenti di lavoro insieme al Maestro, in giro per l'enorme periferia napoletana. 'O Tolomeo non badava ai chilometri, se ne ubriacava, e era diventato ormai una sola cosa con la sua macchina. A suo dire aveva sviluppato una tecnica particolare per cui negli spostamenti da un cantiere al1'altro, riusciva a pensare al suo libro e a scriverne intere pagine. Ci fece anche vedere un piccolo registratore da tasca, che aveva pensato di usare per dettare in viaggio idee che gli venivano, ma poi il sistema non lo aveva soddisfatto, e si era messo a "registrare direttamente la realtà". Nel porta oggetti del cruscotto c'erano Così parlò Zarathustra in un'edizione rilegata e Viaggio al termine della notte. Insieme a questi libri aveva anche un maltrattato volumetto di poesie di Majakovskij, e ogni tanto se ne usciva a declamare "Bello, ventiduenne" o "Rallò, mamma! È primavera, vostro figlio è magnificamente malato, ha un incendio nel cuore", per concludere che lui se ne fregava delle contraddizioni, e se pure aveva quasi quarant'anni e non era bello, teneva il diritto di recitare tutto quello che gli pareva. 'O Tolomeo aveva cantieri aperti quasi dovunque, e altri contava di aprirne, e per' tutto gennaio e febbraio ci facemmo su e giù infinite volte Barra, Ponticelli, San Giuseppe Vesuviano, Sant'Anastasia, Marano, Calvizzano, Giugliano, Sant'Antimo, Afragola, Secondigliano, Poggioreale, San Giorgio a Cremano ...
I posti per i quali giravamo avevano a volte l'effetto di ammutolirmi per ore. Non riuscivo nemmeno più a pensare che erano brutti, insensati, atrocemente disumani. Mi afferrava una sorta di spavento, e persino 'O Tolomeo si azzittiva. Ma il suo silenzio non durava a lungo. Ci diceva che eravamo schizzinosi, e che quella era la vita. E poi, sosteneva, "ccà ce stà 11'00ro!" Secondo lui proprio quei posti osceni, come sopravvissuuti a un'esplosione innominabile, erano miniere d'oro. Noi ci credevamo forse che la gente non se ne accorgeva di stare dentro alla fetenzia? Se ne accorgevano, se ne accorgevano! Ma continuavano a spararsi in bocca l'uno con l'altro, e godevano e fottevano come animali lo stesso. E allora si volevano assicurare un po' di pace e di ordine almeno nell'altro mondo.
«Pagani autentici, questi qua. E quando loro cominciano a sentire la voglia segreta di durare, di tranquillità, di una vita più di lusso, allora ci sto io.»
Quando entravamo nei cimiteri, a dare un'occhiata ai lavori, 'O Tolomeo si entusiasmava.
«Guardate qua! C'è ordine, pace, silenzio ... Vogliono durare? Vogliono tombe di lusso, monumenti spropositati, angeli di bronzo con la fiaccola? E che male ci sta? Li avranno, li avranno. Se ne fottono dell'uguaglianza, questi, vogliono la tomba più bella, il monumento più esclusivo ... E che problema c'è? Ci penso io, a loro.»
Con i piedi calzati in larghi stiva Ioni di plastica ci squadernava davanti i suoi progetti più belli. Non c'era veramente niente che avesse risparmiato ai suoi artisti.
«Guardate, fatevi gli occhi ... Questa è la piramide di Cheope: uguale, no? Solo su una scala più ridotta, ma le proporzioni, eh, ho preteso che si rispettassero ... Maestro, guarda questo: questo è il tempio di Apollo che stava a Delfi: è tale e quale, eh? Lavorano bene, i miei artisti.»

Il Maestro gli diceva ridendo che lui era un impresario teatrale, un venditore di oppio dell'oltretomba. Ma 'O Tolomeo non si offendeva, anzi prendeva queste osservazioni del Maestro come complimenti, se ne lusingava, e concludeva dicendo che noi delle tombe così non ce le saremmo mai potute permettere, e che quello non era ancora niente. A me invece quei cimiteri, e peggio ancora i progetti, sembravano già essere andati oltre ogni possibile realtà. Erano delle vere città, ormai a più piani, a livelli diversi, giganteschi termitai costantemente in crescita. li per i meno ricchi facevano venire in mente le celle degli alveari, o i cassetti di un mobile da ufficio. E quando tornavamo di sera dal giro passando per la Tangenziale, alcuni di essi balzavano davanti ai nostri occhi in tutta la loro grandiosa bruttezza. Illuminati a giorno, alti come grattacieli, robusti da sembrare in grado di sfidare i secoli, quei cimiteri toglievano il respiro. Allo sfascio e alla fatiscenza che scrostava le case dei vivi, dissolvev2 gli intonaci, ne arrugginiva o scoloriva i cancelli e le inferriate facendo colare le acque lungo gli infissi di alluminio anodizzato, i cimiteri opponevano le loro luci perpetue, la loro geometria cementi zia e un ordine veramente definitivo.
Ma un pomeriggio 'O Tolomeo ci portò in una zona che non avevamo mai ispezionato prima. Era dall'altro lato della cintura napoletana, verso Caserta. Per vari chilometri ci allontanammo dai centri abitati, fino ad arrivare in aperti:' campagna. Attorno c'erano filari di viti alte e campi coltivati a tabacco, e nient'altro. Ma proprio al centro di questa sorti:' di piana, davanti a noi, si apriva uno scavo che ingoiava i campi e le viti in un buioterroso. Lo scavo pareva abbandonato da pochi giorni. C'era ancora una scavatrice immobile, con le mandibole in aria, mucchi di sabbia e terra di riporto.
«Questo qui sarà il mio capolavoro» disse 'O Tolomeo. «Ma questa non è la vecchia zona archeologica che era chiamata" 'O Castiello"?»
«Esatto. Perfetto, perfetto. È proprio quella.»
«E dove sono finiti i recinti, i pavimenti a mosaico, le mura di perimetro delle stanze?»
«Eh, no, Maestro. Non sei informato, vedo. Non ti aggiorni! Qui c'era tutta l'anticaglia, ma poi. .. Com'è come non è, è sparito tutto. Niente, nun ce stàcchiù niente!»
«E le fotografie? E i libri?»
«Eh, le fotografie spariscono, sono roba deperibile E i libri, chi ci crede ai libri? I libri so' fantasie di scrittori »
Anche io avevo sentito parlare di quella zona archeologica, ma il Maestro sembrava molto informato. Ora aveva lanciato un'occhiata a 'O Tolomeo e stava girando attorno all'enorme scavo guardando e cercando di trovare qualcuno dei resti che aveva nominato.
«Sì, guarda, guarda. Non ci sta neppure un coccio piccolo come un microbo. Tutto pulito, un lavoro magnifico ... Sapete, il fatto è che bisogna innovare, cambiare, anticipare i tempi. Come dice Rilke, no? "Bramo il cambiamento!"»
«Sei pazzo» disse il Maestro. «No, al contrario.»
are, ma a guardare attentamente, 'O Tolomeo cominciò a spiegarci che cosa aveva in mente. Sì, i soldi della tedesca non lo avevano arricchito, ma perché? Perché aveva fatto una società, "ma per finta", tanto aveva tutto lui in mano, per comprare l'intera zona: e fece un gesto che inglobava oltre allo scavo anche i campi attorno. Lui guardava avanti, lui non si poteva fermare a quello che Fanno tutti, la volontà di potenza vuole pure dire qualcosa!
«Qui sorgerà la Necropoli di 'O Tolomeo» mormorò con gli occhi che gli brillavano.
I suoi artisti erano al lavoro da mesi, anche se uno stronzo di assessore aveva cercato di fermare i lavori, e per ora c'era pure riuscito, ma alla fine non poteva certo competere con gli interessi della collettività, no?
«È vero, Mae'? Non lo hai sempre detto tu che conta la comunità? E io che faccio, mi fermo di fronte a uno che parla senza capire che il passato è solo una cosa morta? Eh? E la gente non deve lavorare, secondo voi? La bellezza » ora si rivolgeva a me: «La bellezza è ciò che è moderno Bisogna essere assolutamente moderni! Non lo diceva Rimb6? E com'è quell'altra stronzata? .. La bellezza sarà convulsa o non sarà Sì? E io sono moderno, modernissimo! E pure convulso » '

«Tu sei pazzo. Hai sottratto reperti archeologici, vuoi costruire qualche delirio da mentecatto qui. Hai violato almeno un centinaio di leggi. Ti potrei denunciare.»
«Ho sottratto, ho violato ... Ma per la co-mu-ni-tà ... E le rivoluzioni non si fanno per il bene collettivo? E poi non mi denuncerai. Alla fine ti verrà qualche scrupolo, sei un contemplativo, come lui ... E poi non ci sono prove, niente. Tutto re-go-la-re, amici cari. Ma venite, venite a vedere.»
Da una tasca interna della giacca a vento tirò fuori una specie di enorme carta stradale, che una volta spiegata a terra si rivelò un progetto per un edificio. 'O Tolomeo ci indicava e spiegava il disegno con un entusiasmo infantile. L'idea gli era venuta una notte, pensando a dove avrebbe voluto essere seppellito lui. Su quella superficie si sarebbe estesa una gigantesca necropoli completamente sotterranea. Vedevamo? Lo scavo era progettato per una profondità di centodieci metri: un lavoro grandioso. Non era ancora tutto risolto, naturalmente.
«A una certa profondità si trovano le falde acquifere, e dopo i quaranta metri il piperno ... Ma quelle le possiamo prosciugare, e il piperno si può utilizzare sul posto. Era il problema dello spazio che non mi faceva dormire. Come razionalizzarlo? E allora mi è venuta l'idea ... 'E tombe, 'e corridoi, 'e mausolei, 'e vasi funerari, 'e monumenti ... Tutto sotto, cchiù sotto, sempe cchiù sottoterra.»
Si era alzato un vento gelido che spazzava la piana, e sollevava la grande mappa facendone svolazzare gli angoli. 'O Tolomeo la fissò con delle pietre, e continuò. Il vento soffiava senza una direzione precisa, e il sole stava calando.
«Ma non è superato, il vecchio sistema? Sempre in verticale, sempre soltanto in alto ... E poi così il terreno non è utilizzabile tutto, no? E allora i cimiteri io li faccio sottoterra, e 'ncoppa ci costruisco nu centro residenziale con negozi, uffici, giardini, infrastrutture ... »
Guardai il Maestro. Non parlava, e fissava la mappa immobile. 'O Tolomeo continuava a parlare.
«È chiaro, no? Sopra ci vivono e sotto ci muoiono, è normale! E poi ho risolto il problema degli scoli, dei liquami... Il problema così non esiste, perché va a finire tutto sottoterra. E ci saranno le zone a seconda del prezzo, per tutte le tasche ... E la comodità di avere i defunti sotto casa, proprio subito sotto 'o garage? Chi ci potrà rinunciare? E questo centro si chiamerà come me: La Tolomea ... La Tolomea, ah, è grande!»
«Ma chi vuoi che venga qui ad abitare? Non c'è niente.» «Ora, perché tu non hai fantasia. Ma quando cominceranno i lavori? E partirà la campagna pubblicitaria? Non sarà difficile farci passare vicino l'autostrada, sono solo trentacinque chilometri a ovest ... E una volta arrivata l'autostrada ... »
«Ti dovrebbero solo ammazzare. Qualcuno ti dovrebbe ammazzare.»
Era il Maestro che aveva parlato, come tra sé. Ma 'O Tolomeo aveva sentito.
«A me? Allora veramente nun 'e capito niente. Mi saranno riconoscenti! E questo sarà solo 'o progetto pilota, .. Che ti credi? Che sto fermo? Sto già facendo fare qualche prova, degli esperimenti. .. Se si possono sfruttare le falde senza prosciugarle, perché costa troppo. E poi, se ci sono case per tutti, ci devono essere pure tombe per tutti. 'O popolo tiene pure il diritto di morire, o no? lo so' democratico! E i poveri non si potranno permettere né mausolei né nicchie, e nemmeno le casse zincate ... E allora li mettiamo in un sacco di plastica speciale, resistente all'acqua, e li ammucchiamo nelle falde ... 'E capito? Accussì 'e pariente li possono pure guardare e riconoscère, perché le acque le teniamo dietro uno schermo. Insomma come un acquario ... Eh, i miei tecnici stanno già facendo qualche prova.»
Mi balenò il pensiero che 'O Tolomeo fosse veramente impazzito, o che volesse farci uno scherzo. Lui liberò accuratamente la mappa dalle pietre e la piegò in una grossa fisarmonica fino a farsela entrare in tasca. Sui campi e sullo scavo era sceso un silenzio profondo, interrotto soltanto dalle raffiche di vento. Di colpo si era fatto buio.
«Fà friddo, però» disse 'O Tolomeo tirandosi su la cerniera della giacca e avviandosi verso la macchina. Guardai di nuovo lo scavo, ma ora non si distingueva più niente, tutto era disceso in un vago nerume di pece.
«Saglite, uhé! Fà fTiddo!» ci gridò 'O Tolomeo dalla macchina. Noi lo seguimmo dentro, dove aveva già piazzato nello stereo una cassetta del "più tosto dei musicisti, una bomba, un vero anarchico" ... E la via del ritorno la facemmo tutta con il Requiem di Mozart i11 sottofondo. Noi restavamo zitti, ma 'O Tolomeo era allegrissimo, e continuò a sviluppare il suo progetto. Gli era venuto in mente proprio stasera che sopra alle mansarde si potevano costruire delle piattaforme a palafitta per le pire, per chi lo chiedeva nel compromesso del contratto. E anche le "tOlTi del silenzio", come le costruivano i babilonesi per farci sbranare i cadaveri dagli uccelli da preda ... Sì, c'era il problema di trovare gli avvoltoi per divorare i cadaveri, ma niente era impossibile. E questa
idea almeno ci doveva piacere, no? Non era ecologica? Dopo restavano solo la cenere o gli scheletri, e così si guadagnava spazio. Eh, bisognava accontentare tutti, ci aspettava una società multirazziale, l'offerta doveva essere diversificata ... Lui le rispettava le credenze degli altri, era de-mo-cra-ti-co, lui! E poi nella Tolomea si poteva trovare un lavoro adatto anche per noi. Potevamo aprire una libreria nel centro residenziale, per i testi specialistici: Il libro dei morti egiziano, il Bardo Todol ... E Psiche di Erwin Rohde, il Talmud, la Bibbia ... E poi Morte e pianto rituale ... No, non doveva mancare niente. Eravamo perfetti, noi, per quel lavoro, lui ci vedeva.
«Eleganti, raffinati. lo vi vedo bene. E poi si guadagnerebbe, vi posso fare un prestito, questo non è un problema ... Sì, Il libro tibetano dei morti non ci deve mancare in questa libreria ... E i libri illustrati? Là vi fate i soldi a sacchi ... Le tombe cinesi, quelle dei primitivi, degli scandinavi, gli ipogei, le catacombe ... E poi i poster, gli adesivi, le magliette. I.:indotto, no? E sarebbe cultura, ma utile però, con uno scopo serio ... »
L’idea gli piaceva, la arricchiva, ci ricamava sopra. A furia di parlare era diventato roco, si raschiava la gola, giurò che non avrebbe fumato più, che sarebbe tornato in forma. E in quel momento il maestro attaccò a ridere. Una risata quasi senza rumore, ma così irrefrenabile che lo scuoteva tutto, e che sembrava non dover mai finire. 'O Tolomeo taceva, e si sentì per qualche minuto solo la spaventosa risata e la musica del Requiem. Il Maestro scese poco dopo, e ancora rideva asciugandosi le lacrime che non riusciva a trattenere. Ci fece un gesto con la mano e si allontanò, ingoiato dalla strada male illuminata. 'O Tolomeo non commentò nulla, limitandosi a passarsi più volte la mano sul cranio semicalvo. Neanche io parlavo, e a un trattò mi vidi: competente e affabile servivo i clienti nella libreria dell'oltretomba, scivolando discreto come un'ombra tra gli scaffali di ebano.

La vita a casa di 'O Tolomeo era impossibile. Soprattutto la domenica, quando 'O Tolomeo non usciva, e quindi anch'io restavo in casa. Sempre seminudo nella casa surriscaldata, si chiudeva nella sua camera da dove si sentiva arrivare un ticchettare di tasti. Era una vecchia macchina da scrivere che secondo lui era uguale a quella di Hemingway, e che avrebbe dovuto favorirlo nell'ispirazione. Ma si interrompeva di continuo, ora perché la macchina che era cadente si inceppava, ora perché si era ricordato che doveva "dire una cosa ai servi", ora per comunicarmi la sua ultima trovata. Pretendeva che la moglie allestisse dei pranzi sontuosi, ma rigorosamente napoletani, o al più meridionali, ma poi si alzava a metà pasto per ributtarsi a pestare sui tasti, gridando che quello non era mangiare da cristiani, e che lui lo sapeva che i tedeschi erano buoni solo a fottere gli ebrei, e che ci si poteva aspettare da una zoccola del nord? I fratelli di 'O Tolomeo la domenica dormivano fino a dopo l'ora di pranzo, arrivavano a tavola in pigiama e pretendevano dall'assonnato Amai che ricominciasse daccapo a servire. Si picchiavano tra loro, poi picchiavano il fratello di Eisa, ma di nascosto, sostenendo che si era fatto male cadendo, e che "teneva 'a capa nelle nuvole". Allora 'O Tolomeo usciva dalla sua stanza per dargli una lezione, e i tre cominciavano a picchiarsi di santa ragione, con Eisa che gridava: "Basta! È orribile!" e finiva col correre in camera da letto dove si chiudeva a chiave con il fratello per proteggerlo. Il Baronetto e Zaccariello si calmavano per un po', ma poi ricominciavano. Anche loro dicevano di star scrivendo un libro, e giravano allora nel pomeriggio con i computer portatili che il fratello gli aveva regalato, cercando un posto adatto per sistemarsi a scrivere.
«Non è bbuono. Mio fratello non è bbuono» mi diceva confidenziale Zaccariello.
«E è pure invidioso, che noi scriviamo meglio.» «Chi scrive meglio? Barone', statte zitto!»

E i tre ricominciavano a beccarsi su chi fosse lo scrittore più bravo. Poi 'O Tolomeo usciva di nuovo dalla stanza e andava a prendere i fogli che i fratelli avevano scritto, per riderei un po' sopra. Ma invece di ridere, finiva con l'andare in bestia. I fratelli gli copiavano le idee! Frasi intere no, quello no: ma gli imitavano lo spirito, gli copiavano "il tono"! Allora diceva che avrebbe chiuso tutto a chiave, li avrebbe fatti morire di fame, e che per lui potevano già ora cominciare a chiedere l'elemosina.
«È tutt'invidia!» replicava Zaccariello. E il Baronetto con la sua voce spessa argomentava:
«Tene quasi quarant'anni, 'e capito, Zaccarie'? Il suo problema è che si deve vedere superato dai giovani.»
<<È finito, chisto è 'o fatto. Perché sta sempre a chiavarsi 'a tedesca, si no chella se piglia 'n'ata vota i soldi indietro. Lui chiava, e 'o cervello si esaurisce.»
'O Tolomeo allora replicava che se lui si scopava la tedesca, loro si facevano le seghe guardando. Non li aveva visti a spiare da dietro la tenda della finestra? E tenevano venticinque anni uno e venti l'altro! E poi, lui non aveva ancora quarant'anni, e la testa gli scoppiava di idee. Invece loro, loro sì che si stavano svuotando il cervello a furia di seghe, questa era la verità! Non gli bastavano le zoccole che si portavano sopra? Non c'era una mattina che non li trovasse col coso in mano a trastullarsi sotto le coperte! Ma lui li faceva morire di fame, lui li buttava in mezzo a una strada, lo giurava e lo avrebbe fatto. Il Baronetto allora si impressionava, e diceva che non era stato lui a cominciare, ma che era stata un'idea di Zaccariello, "quant'è vero Dio!" piagnucolava, e concludeva mettendosi una mano sul cuore e levando l'altra per aria. Zaccariello negava indignato, ma poi si gettava sul fratello minore chiamandolo Giuda, e ricominciavano. 'O Tolomeo li separava tirandoli per i capelli o prendendoli a calci, ma più spesso li lasciava là che si picchiavano e ritornava alla sua macchina da scrivere.
Ognuno aveva il suo televisore, e gli apparecchi stavano accesi dalla mattina alla sera. Tutti allora cercavano di sentire meglio aumentando il volume, per cui il frastuono era feroce. 'O Tolomeo se ne disinteressava, perché era convinto che il rumore lo aiutasse a concentrarsi. E poi, se l'ispirazione cresceva, allora era il momento del Requiem. Lo stereo di 'O Tolomeo aveva delle casse così grandi che occupavano quasi tutta la sua stanza, e quando lui lo metteva al massimo del volume sembrava che le pareti della stanza stessero per scoppiare, le porte e i ninnoli cominciavano a vibrare, e il pavimento di tutta la casa tremava sotto i piedi. Allora era impossibile udire qualsiasi cosa, e la musica stessa, distorta, del Dies me Dies llla ripetuta sempre da capo, diventava un solo blocco di rumore e di scosse, come un terremoto.
Assuntina e l'arabo correvano avanti e indietro, chiamati ora da questo ora da quello per i motivi più insensati. 'O Tolomeo spesso li prendeva da parte e gli parlava all'orecchio, come lui mi disse, per metterli contro alla tedesca, sobillandoli a portarle le cose sbagliate e a rispondere in modo sgarbato. Voleva a tutti i costi che si leggessero le Istruzioni alla servitù di Swift, perché là c'era da imparare. Si metteva a compitargliene delle frasi e gliele traduceva in un fantasioso afro-napoletano, aggiungendo che se una notte avessero tagliato la gola alla padrona, chi li avrebbe presi? Chi li trovava più in mezzo a tutti gli altri negri come loro? Si dovevano pigliare i soldi liquidi e i gioielli e filarsela. Che pericolo c'era? Non pigliavano mai a nessuno, i poliziotti, e non vedevano quella schifosa di nazista come li trattava? Sempre sprezzante, dall'alto in basso ... E che, erano bestie, loro? Forse non erano uomini coi loro diritti? Nel sonno, la dovevano sgozzare nel sonno, così non strepitava ... E pure a quell'altro stronnzetto tedesco gli dovevano fare il servizio, zac! Però si dovevano stare attenti, perché 'a tedesca teneva il sonno leggero, e loro non dovevano fare bordello, ma una cosa fine fine, pulita e senza rumore.

Io per lo più stavo senza fare niente, fingevo di leggere o di pensare chiuso in camera mia, ma mi distraevo facilmente, mi mettevo a sentire le voci, e seguire il filo di qualche straccio di pensiero in quel marasma non era facile. Alle volte scendevo a passeggiare in giardino, ma !'inverno era freddo, umido, e dopo un poco dovevo risalire di sopra. Di uscire per strada a piedi non mi fidavo. Avevo sentito Landrò, e le notizie non mi sembravano buone. Lui diceva che era meglio far calmare le acque. Il prete forse era rimasto ferito, ma non aveva sporto denuncia, niente: muto come un pesce. Ma chi ci assicurava che i Salutisti per la Salvezza non ci stavano cercando?
«Allora è sicuro?"
«È quasi sicuro. È una setta di fanatici mezzo esoteristi, e fanno anche politica ... Sì, così dicono. No, di sicuro non si sa niente. lo mi devo guardare le spalle ... No, no, tu fai come vuoi."
Fai come vuoi? Non avevo nessuna voglia di essere massacrato da una banda di idioti, e di tornare a casa mia ancora meno voglia. Nemmeno da '0 Tolomeo la vita era facile, ma almeno ero al sicuro. Con Landrò decidemmo che avremmo fatto passare ancora un paio di mesi, e poi ci saremmo visti a casa sua. Aveva grandi novità da annunciarmi, ma non me le poteva dire per telefono. C'entrava anche Morvo, sì, e la sua teoria "sull'universo vero". Ma avremmo avuto tutto il tempo di parlarne, concluse.
La verità, sempre la verità .. Ma di che? E a che scopo? E se pure Landrò avesse avuto la verità in persona tra le mani, chi gli garantiva che quella non lo avrebbe fatto a pezzi? Erano pensieri che mi venivano all'improvviso, e che non riuscivo a concludere. Sapevo che la bellezza ormai mi aveva disertato, ma ero convinto, contro ogni logica. che l'avrei ripresa di nuovo, per i capelli o per un lembo del vestito. Ma quando?

Della necropoli di 'O Tolomeo non si parlò più. Lui stesso, sempre così loquace, evitò di tornare sull'argomento. E i giri in auto, le discussioni, le visite ai cantieri ripresero. Forse però da qualche giorno 'O Tolomeo si trovava in una situazione non facile, o aveva meno lavoro, perché queste ispezioni diventarono meno frequenti. Ma uscivamo lo stesso ogni mattina all'alba, passando a prendere il Maestro come se facesse parte integrante del lavoro di 'O Tolomeo, e le discussioni riprendevano, interminabili.
Insieme a loro cominciai a rendermi conto che di quella che avevo sempre definito con disprezzo "la cosiddetta realtà", conoscevo ben poco. L'avevo rifiutata e la rifiutavo con un gesto assoluto: ma sapevo veramente che cosa fosse, ciò a cui dicevo di no? Il Maestro e '0 Tolomeo mi apparivano come dei veri cacciatori di realtà, anche se ognuno di loro vedeva una realtà opposta a quella dell'altro. Il Maestro aveva nello sguardo ironico qualcosa che ricordava il sacerdote di una religione scomparsa, e nei movimenti una sorta di nervosa pigrizia. Anche a fissarlo a lungo, non si riusciva a dargli un'età, e quanti anni avesse veramente non lo sapeva nemmeno '0 Tolomeo.
«E chi 'o ssape? Una vita fa una mia amica lo prese per uno 'e cinquant'anni! E allora 'o Maestro quanti anni poteva tenere? Venti, ventuno ... E mo', invece, se fa sempe cchiù giovane ... E 'o schifuso piace pure 'e piccerelle, 'e capito?»
Il Maestro vestiva in modo anonimo, apparentemente trascurato, ma ogni cosa che indossava risultava su di lui quasi elegante. Di rado, svogliatamente, lasciava cadere qua e là accenni e mezze frasi che rivelavano una profonda conoscenza di profumi e vestiti, cuoi per scarpe e lane, cosmetici e norme dell'etichetta. Ma queste cose erano come smussate sotto un velo di trasandata distanza, e liquidate inesorabilmente con l'appellativo di "fantasticherie per ricchi". 'O Tolomeo era affascinato esattamente da questa misteriosa noncuranza, e cercava di batterlo moltiplicando il numero dei suoi vestiti, sfoggiando un'eleganza vistosa che lo faceva apparire ancora più grassoccio e tarchiato, un sileno mercuriale che in fondo si sentiva a suo agio solo in canottiera e mutande.
Anche la rivoluzione, le rarissime volte che il Maestro pronunciava questa parola, in bocca a lui smetteva di essere un ratto o una teoria per diventare di colpo, discretamente ma recisamente, qualcosa di misterioso. 'O Tolomeo lo accusava di essere un fallito, di dover ammettere che le sue teorie erano solo aria fritta, che il prossimo millennio ne avrebbe fatto solo polvere e cenere, e meno ancora. E se pure avesse avuto ragione, a chi faceva paura? Le teorie "non le cacava nessuno", se ne voleva rendere conto? Ci voleva la realtà, la pratica. E il fucile il Maestro non era capace di prenderlo, no, la lotta non era cosa per lui! A tutte queste accuse, il Maestro opponeva spesso solo un sorridente silenzio, al più accompagnato da un gesto della mano che aveva il potere di far salire al culmine d'irritazione di 'O Tolomeo.

Il Maestro sembrava aver letto la cronaca di tutti i giornali passati e futuri. Proprio come 'O Tolomeo, collegava fatti che sulle prime apparivano lontanissimi tra loro, ma che poi cominciavano, nel disegno che lui accennava, ad apparire vistosamente intrecciati. lo che non guardavo la televisione né leggevo i giornali ormai da anni, avevo a volte !'impressione che avesse passato tutto il suo tempo davanti a un televisore. Un fatto criminale accaduto in Sicilia per lui andava collegaato con una notizia di cronaca rosa che riguardava un paese microscopico del Canada, e la notizia di uno sciopero a Parigi era da connettere con un film a puntate che la televisione aveva dato l'anno scorso. Sembrava contento di tutte le esagerazioni di quella che chiamava la "restaurazione integrale" del capitalismo, perché "solo l'esagerazione è vera" sosteneva. Ma a chiedergli spiegazioni, ecco che metteva in discussione quello che aveva appena detto, affermando che forse, dopo tutto, la sua era solo una concezione visionaria della realtà. Un'altra volta aveva spiegato che lui non poteva dire apertamente le cose, perché le idee sono usabili da chiunque, e bisogna parlare cancellando qua e là alcune parole. Dove tutti guardavano ipnotizzati lo stesso spettacolo bisognava negarsi, secondo lui, il piacere di apparire "compiuti". Chi era ormai in grado di contraddire quello che avevamo sotto gli occhi? E così, diceva, "ciò che è" si contraddice da solo, impersona tutte le parti, recita in tutti i ruoli. Quello che contava per il capitalismo era che le persone dimenticassero anche la sola possibilità di "qualcosa di diverso". Lui non poteva apertamente istruire nessuno, perché qualsiasi cosa sarebbe stata usata poi al rovescio: e se avesse parlato di liberazione, l'organismo che ci dominava avrebbe ribaltato anche quella liberazione in prigione. .
Giravamo per i paesi della camorra cercando di indovinare nelle facce delle case informi, nelle strade dissestate e senza progetto, la fisionomia di ciò che le aveva come partorite da un incomprensibile ventre. 'O Tolomeo godeva nell'addentrarsi in quel labirinto insensato ripetendoci che quella era una vera prova di resistenza. E poi, ci gridava, non li vedevamo? Fuori alle pizzerie abusive, con le mani unte, sbafandosi in mezzo agli scarichi delle macchine panzarotti e polli allo spiedo morti da anni? L’oppressione, la disoccupazione, lo sfruttamento? Ancora con queste cazzate? Ma non li vedevamo i ristoranti aperti fino all'alba, con i tavolini in mezzo alla strada, la gente in fila, gli ingorghi?
«So' disoccupati, eh? Però accattano 'o stesso! E magnano, vanno magnà!"
Quella era la magia dell'economia, ma noi che ne potevamo capire? Gli idealisti del cazzo come noi davanti a quella "munnezza" che proliferava tenace, a quella malaria "benedetta d' 'o Pataterno", a quelle case abusive che spuntavano in periferie brulle come deserti, si dovevano solo inginoccchiare! 'O Tolomeo esaltato citava Nietzsche.
«Il deserto cresce! Il deserto cresce!"
Quella era la vita, e ce la dovevamo tenere. Il resto erano solo parole, parole, parole.
«La vita, belli! 'A vita! Questi qua manco la bomba atomica li distrugge, Mae'! E tu, Tomma', con la tua bellezza ... Ma qua' bellezza? lo vi faccio vedere la realtà carnale, ve la sbatto in faccia! Scetatevi!"
Ma anche il Maestro, in un suo modo obliquo, si esaltava a quello spettacolo. Conosceva bene, come 'O Tolomeo, tutte le fabrichette abusive di scarpe negli scantinati tra Grumo Nevano e Aversa, i sottoscala dove si lavorava fino alle nove di sera per quattro soldi, e sapeva anche che chi lavorava là sotto non 'si rendeva nemmeno conto di essere ridotto all'estrema infelicità: quella dello schiavo contento. E secondo lui quello non era ancora niente. Un cambiamento spettacolare era in cammino, e solo un cieco poteva in mezzo a tanti sellni non accorgersi di nulla. "L'organismo che ci domina" usava ancora dei riguardi verso gli sfruttati, non si era ancora liberato dalle tracce di scrupoli di altri tempi, da precauzioni ormai inutili. "Quelli" avevano distrutto il vecchio mondo, ma gli assoggettati credevano di viverci ancora dentro, e l'illusione era così forte che anche gli stessi distruttori erano esitanti.
«Ci credono anche loro, loro che pure sanno bene che il mondo di carne e terra, le "cose di una volta", non ci sono più, perché sono loro che le hanno massacrate ... È l'ultima contraddizione. Quando però i veri padroni si accorgeranno che possono agire liberamente ... »

Qui si fermava, lasciando girare la mano nell'aria come a significare che sfruttamento, miseria e distruzione dei sensi sarebbero andati al di là di ogni possibile immaginazione ... "L'emergenza sarà la regola, per quelli che stanno sotto", sosteneva. E lo stupore che molti fingevano o provavano davvero pensando che tutto questo fosse ancora possibile alle soglie di un nuovo millennio, ora che erano crollati i muri e le vecchi e ideologie, era tutto fuorché una possibilità di scampo. Aveva ragione 'O Tolomeo, concludeva, il progresso non esisteva, o se c'era serviva solo a murare viva ogni ribellione.
E comunque aveva parlato troppo, e sicuramente a vuoto: probabilmente era anche lui solo una specie di chiacchierone sorpassato dalla nuova epoca, che discuteva per occupare un po' di tempo, come tutti.
Ma questo suo continuo tentativo di sminuire le proprie affermazioni, con 'O Tolomeo non sempre riusciva. A un tratto, come inventate da lui al momento, nei discorsi di 'O Tolomeo comparivano frasi e teorie che avevo già ascoltate dal Maestro, a volte copiate letteralmente, altre leggermente modificate. Così 'O Tolomeo ripeteva spesso, imitando persino il gesto del Maestro, che "tutti i colpi decisivi verranno portati con la mano sinistra", o che "le idee non sono altro che l'espressione ideale dei rapporti materiali", e le sue teorie sullo spreco come libertà e risoluzione di tutti i problemi, si mescolavano di espressioni come "l'immane potenza del negativo" o "le condizioni di vita degli uomini sono casuali". 'O Tolomeo però finiva sempre con la conclusione che l'unica vera rivoluzione permanente era quella dei soldi, e che ormai tutto quello che succedeva gli dava ragione, potevamo sfiatarci a contraddirlo quanto ci pareva. Quello che era importante era la comunità, il benessere di tutti, e sì, il Maestro diceva pure bene, qualcosa la indovinava, ma in lui purtroppo la realtà era capovolta, e bisognava rovesciare il suo pensiero: solo così, dietro le sciocchezze, si poteva trovare qualche brandello di verità.
Una mattina però il Maestro non si fece trovare all'appuntamento solito, e lo stesso accadde nei giorni successivi. 'O Tolomeo si infuriò, dicendo che faceva sempre così, ma che lui lo sapeva dove si rintanava, sicuramente a fare qualche cazzata delle sue, o a vivere alle spalle di qualche troia.
E a pezzi e a bocconi, inframmezzata dalle sue divagazioni, uscì fuori .la storia del Maestro. Lui, 'O Tolomeo, non sapeva tutto, questo nO. Ma sapeva che il Maestro era da anni in rotta assoluta con la sua famiglia, gente ricca.
«C'hanno i monèi, c'hanno. E assai, ma proprio assai!
Quello prima non lo sapeva nemmeno che cosa vuol dire lavorare, faceva 'o signore, s'atteggiava a dandy.»
Ma poi aveva dovuto trovarsi un lavoro, e glielo aveva procurato proprio lui, 'O Tolomeo. Il Maestro per qualche anno aveva insegnato in un istituto privato femminile, e 'O Tolomeo si scompisciava dal ridere solo all'idea: era stato come affidare "le pecore al lupo". E infatti il Maestro alla fine si era fatto cacciare. Le ragazzine scrivevano il suo nome nei cessi, e sul suo armadietto era stata cancellata più volte la scritta l LOVE ANDRÉ. Questo collegio tranquillo, di bravi cattolici e di ricchi, era diventato pian piano una specie di vulcano pronto a esplodere. E lo sapevo io che ci faceva là dentro il Maestro?

Lezioni su Hegel e sul fascino ... Mi rendevo conto? Si metteva a sconsigliare i jeans e le scarpe da ginnastica, e diceva che quella era una protesta arretrata, superata, già ingoiata dal siistema. E che si dovevano curare e profumare, e se mettevano i collant Kant non lo avrebbero mai capito. La rivoluzione doveva essere erotica, incantare e profumare, frusciare e caarezzare, danzare e appassionare. Sì, ma a chi voleva fare fessso, il Maestro? Secondo 'O Tolomeo la "rivoluzione amorosa" era tutta una scusa, e con le ragazzine il Maestro si voleva sooIa spassare. Ma quando lui gli aveva proposto di organizzare una festicciola insieme, il Maestro si era messo a ridere, e gli aveva pure detto che era il "solito borghese represso". Insommma, il Maestro era un egoista e un corruttore, e queste ragazzzine con la divisa e il colletti no si erano presto trasformate in rivolto se al cui confronto Robespierre era un chierichetto.

'O Tolomeo lo aveva salvato dal licenziamento più volte, ma un giorno era successo quello che doveva succedere. Una di quelle piccerelle si era imparata a memoria il discorso del marchese de Sade: Francesi, a71COra uno sforzo se volete essere repubblicani, ed era stata pescata dalla preside mentre lo declamava di fronte a uno sconvolto professore di religione. E insomma avevano scoperto negli zainetti delle ragazze La philosophie dans le boudoir, i Carnets di Saint-Just, Le Nouuveau Monde amoureux, i Manoscritti economico filosofici del J 844 e I Canti di Maldorar, ed era scoppiato un putiferio. Quelle avevano mezzo devastato l'educandato, inciso sui muri LUXE CALME ET VOLUPTÉ, scritto per i corridoi che bisognava liberarsi dalle catene e tutte le altre stronzate che il Maestro gli aveva messo in testa. Erano intervenuti i genitori, si era parlato di inchiesta, di corruzione di minorenni, di carcere. Ma 'O Tolomeo era riuscito a far finire la cosa lì, le ragazzine erano tornate a scuola almeno in apparenza pentite, e il Maestro se l'era scampata. Del resto nessuno stava '1osto commentò 'O Tolomeo, e lui aveva ricordato ai gestori della scuola certe vecchie storie di licenze e tasse, e non si era parlato più né di polizia, né di inchieste. Il Maestro era rimasto senza lavoro, e ora era sparito del tutto. Ma quello là, secondo 'O Tolomeo, non era facile da eliminare, e sì, che ci credessi o no, non era così perbene come fingeva di essere, e sicuramente ora viveva sfruttando qualche ragazzina, era il tipo di farlo, perché era un immorale. Ci doveva essere per forza qualcosa di losco sotto, i rivoluzionari del cazzo come il Maestro erano capaci di qualsiasi cosa, lui li conosceva bene, era inutile che insistessi, lui lo sapeva, lo sapeva, volevano fare la rivoluzione, ma era tutta una finta.

La mattina del primo maggio fummo svegliati da uno scampanellare frenetico. Era ancora buio, e 'O Tolomeo, che aveva fatto staccare tutti i telefoni per dormire fino a mezzogiorno, bestemmiava per il corridoio, maledicendo la moglie, i fratelli, i servi, che non erano "buoni a niente", e doveva pensare lui a tutto, e quella storia prima o poi però doveva finire. Dall'atrio vennero le voci di due operai e la sua che si intrecciavano tra loro, incoerenti.
«Dotto', dovete correre subbeto!»
«Dotto', 'o 'ngignere 'a ditto che sta succedenno 'nu disastro!» «Ma che cosa? Mi venite a svegliare per una cazzata! E che lo pago a fare, a quel coglione laureato? Ci pensasse lui!» «Dotto', escono fuori ... »
«Ma che cosa? Dove? Fuori da dove?»
«Vicino 'o lago, dotto', add6 ce sta 'o cantiere ... »
«Ma che cazzo dici? 'O cantiere 'ncopp' 'o Fusaro? E che esce?»
«'E ssalme, dotto' ... 'E muorte!»
'O Tolomeo alla fine doveva aver capito di che cosa si trattava. Disse agli operai di avviarsi, che lui veniva subito. lo ero già pronto, ma aspettammo ancora perché 'O Tolomeo pretese che con noi venisse pure Zaccariello. Lo estrasse letteralmente dal sonno, gli mise in mano le scarpe e un cappotto, e se lo tirò dietro. Nel viaggio in macchina non riuscii a cavargli f-llori che delle parole smozzicate, incomprensibili. Ogni tanto si girava per dare uno schiaffone a Zaccariello, che si doveva "scetare", ma quello ricadeva dopo un secondo in un sonno ebete. 'O Toolomeo era così eccitato che sbagliò strada, finimmo a Pianura, poi a Quarto, e dovemmo passare per la Montagna Spaccata, Arco Felice, il lago d'Averno e scendere poi al Fusaro. Pioveva già dalla sera prima, una pioggia fitta e umida fuori stagione, e quando arrivammo al cantiere, verso le otto, non si vedeva quasi niente. Il cantiere si trovava alla periferia estrema del Fusaro, verso Cuma, ed era stato aperto, come aveva detto una volta 'O Tolomeo, per ampliare e modernizzare un vecchio cimitero non più in uso. Scendemmo dalla macchina e ci venne incontro quello che doveva essere l'ingegnere.
«Dottore, è successa una cosa imprevedibile ... Chi se lo poteva immaginare?»
Venne finalmente fuori la verità. Quel cantiere era proprio il posto dove 'O Tolomeo faceva gli esperimenti di inumazione nell'acqua di cui ci aveva parlato.
«E allora? Che è successo?»

«È successo che qualcosa non ha funzionato ... Non capisco, avevamo controllato il livello di pressione delle acque, e poi, all'improvviso, pare che siano fuoriusciti alcuni involucri...»
I sacchi trasparenti in cui 'O Tolomeo aveva fatto inumare i cadaveri sperimentali erano usciti, non si sapeva come, dal complicato sistema di chiuse e livelli ideato dall'ingegnere. «Sì, va bbuo', ma se stanno fuori si mettono sotto 'n'ata vota ... »
«Il fatto è che sono finiti nel Fusaro ... Due cadaveri nelle
coltivazioni di cozze.. »
«Dentro il lago? Dint' 'o Fusaro?»
'O Tolomeo aveva afferrato per il bavero !'ingegnere.
«Non si preoccupi, sono stati recuperati. .. È tutto a posto, solo che ... »

«Ce ne dobbiamo solo andare, restare qua è inutile» disse 'O Tolomeo, e ci avviammo verso la macchina, seguiti da Zaccariello. L'ingegnere si era alzato in piedi, ma era subito ricaduto in ginocchio.
«Vi denuncio ... lo vi denuncio tutti... lo non c'entro, non sapevo niente ... Mi avete rotto la gamba!»
Si rialzò di nuovo, veniva barcollante verso di noi, allora Zaccariello prese uno dei pali che stavano ficcati nel terreno e lo minacciò che lo infilzava, e se non si stava zitto lo faceva guarire subito lui, per sempre. 'O Tolomeo dovette spingerlo a forza nella macchina, ma non prima che Zaccariello fosse riuscito a colpire l'ingegnere con una sassata. Quello continuava a gridare di nuovo in ginocchio, ma non lo sentivamo pil1 perché 'O Tolomeo aveva già avviato la macchina e ci stavamo allontanando dal cantiere. Zaccariello si era ripreso la bottiglia di cognac, e si stava scolando quello che ne restava. 'O Tolomeo, nonostante la pioggia, andava oltre i cento, e sembrava in preda all'ira più cupa. lo non avevo un centimetro di pelle asciutto, e maledicevo silenziosamente 'O Tolomeo, il cantiere, le salme sperimentali e me stesso. Ma 'O Tolomeo si era già ripreso. Ora sghignazzava, dicendo che la pioggia avrebbe rovinato la festa a quegli "stronzi di sindacati", e che li voleva vedere, a fare i cortei con quel diluvio.
«Guarda che acqua! Li deve affondare ... Ma che tengono da festeggià 'sti quattro spellecchioni? Che ce stà 'a festeggià, eh? 'A festa dei lavoratori? lo sì sono un lavoratore, c'ho le responsabilità, chisti ccà nun vonno fà niente! Sì, sì, compagno ... Tu fatiche e io magno ... »
Poi ritornava all'argomento cantiere, che qualcosa si sarebbe fatto, aveva una giornata quasi intera avanti. Chi se ne sarebbe accorto dei morti nei sacchi di plastica? Solo c'era il pericolo delle cozze, che quelli dei vivai le andavano a pigliare nella mattinata ... No, questo no, era impossibile, perchè quel lavoro di raccolta lo facevano il giorno prima ... E comunque, i sindacati del cazzo non capivano niente. Ma sì, che volevano fare quei quattro pezzenti che protestavano? Il popolo? Il popolo voleva solo fottere e mangiare.
«'O popolo vo' 'e cozze! A zuppa, c' 'o limone, 'a 'mpepaata ... Che vonno fà? 'A rivoluzzione cu' chisti ccà?»
Mi indicava i venditori di cozze, vongole e taratufi per strada, a ogni angolo, sotto agli ombrelloni, nella pioggia battente ... Il primo maggio? Sì, per quelli era solo una giornata dove si abboffavano fino a schiattare, e era bene così... Se ne stavano tranquilli, a lui non gli davano fastidio, e faticavano più contenti: il Maestro era solo un illuso. Saltò su che Zaccariello.
«Pezzenti! Spellecchioni! Mio fratello ha ragione, devono morire tutti!»
Si affacciò dal finestrino, sporgendo tutto il busto fuori. «Do-ve-te mo-ri-re tutti! Mezzeseghe! Miserabili! Froci ... » Si era allungato quasi tutto fuori e gridava con la sua voce isterica.
«Plebe siete e plebe rimarrete, e froci! Ricchione, ricchi 00lIe ... Nun fà finta 'e nun sentì, sì, proprio tu ... Sei ricchione e pezzente, e sei pure cornuto, tie', tie', tiene 'e ccorna! Sì, sì... Te l'aggio fatte ieri, ieri sera! Mo' vai al primo maggio? E va', va'! Cornutone! Tie', tie'! E pure tu, che guardi, eh? Ce le hai grosse accussì, 'e ccorna, comme 'o cervo!»
Faceva segno con le due mani, con la testa, roco, sul punto di cadere fuori dal finestrino. 'O Tolomeo rideva, lo incitava, faceva apposta a passare nelle pozzanghere per schizzare i passanti di melma. Poi sembrò ricordarsi l'affare del cantiere, ritornò silenzioso per un poco, borbottava. Zaccariello si era messo lungo disteso sul sedile di dietro, e dormiva o fingeva di farlo. Eravamo arrivati a Miano. 'O Tolomeo si fermò fuod a un casermone popolare per comprare un pacchetto di sigarette di contrabbando. Quando risalì in macchina avevo deciso, e gli dissi che io me ne andavo.
«Eh, hai ragione. A te la cosa non ti riguarda, a te. Tu non ce le hai le responsabilità, tu non produci ... E che ti manca? È facile per te. Ma io mo' sparisco un poco, forse vado in Germania qualche giorno, e tutto si aggiusta. L'ingegnere? Quello si piglia un poco di soldi e diventa muto. Ma tu che ti credi? Quello il progetto è buono, è buono!»
Cominciò a spiegarmi che se non era per i due stronzi con gli aghi e per quell'incompetente di ingegnere non sarebbe successo niente. Aveva speso "un pozzo" di soldi per il progetto, per i materiali speciali, per il sistema di chiuse e canali che regolava la pressione. Non avevo visto ancora niente, oggi. I sacchi erano sottovuoto, ci avevano risucchiato l'aria per occupare meno spazio, così la fibra plastica aderiva proprio al corpo ... E ora per colpa di quel coglione incompetente si erano gonfiati, e potevano pure scoppiare, e allora veramente erano problemi cogli allevamenti di frutti di mare ...
Non pioveva quasi più. Quando lo salutai, 'O Tolomeo mi ripeté che non mi dovevo preoccupare, che lui c'era abituato a " 'ste cose ccà" , e se la cavava. Lui era "uno buono", e al mondo c'erano sempre abbastanza fessi: " 'A mamma d' 'e fesse è sempe prena", e allora che problema c'era? Ma ero proprio sicuro che non volevo andare in Germania con lui? Sbagliavo, sbagliavo! Là sì che si poteva lavorare alla grande, ma io non volevo proprio capire la vita ...
Ripartì sgommando e pestando sul clacson, mentre io mi avviavo a una fermata dell'autobus. Ero stanco, e l'unico posto dove ormai potevo andare era la casa dei miei genitori. Per me, potevano anche ammazzarmi, gli S.S. di don Sesamo. Basta che mi facevo una dormita al caldo.
Passai proprio sotto un palco che doveva servire a un comizio per il primo maggio. La stoffa trasudava l'acqua di tutta una mattinata, e due bandiere rosse pendevano afflosciate come strofinacci. Non c'era ancora nessuno. Allora, come un sonnambulo, senza quasi rendermene conto, alzai il pugno de]]a mano sinistra non sapevo nemmeno io se per salutare qualcosa o per riderne, ma mi vergognai subito di quel gesto che mi avevano insegnato a disprezzare fin da bambino, e mi ficcai di nuovo la mano in tasca.

Non ero neanche entrato, che mia madre mi assalì. Dov'ero stato? Ah, allora li volevo proprio far morire di paura! Si erano dovuti stare zitti, come avevo scritto nel biglietto, ma una telefonata la potevo pure fare, no? O loro non erano più nessuno?
«E almeno un lavoro, l'hai trovato, un lavoro?»
No, ma che me lo domandava a fare? Lei lo sapeva che ero senza coscienza. E ora capitava là all'improvviso, dopo tre mesi, con l'aria di chi non ha fatto niente di strano.
«E il cappotto? Guarda qua, Gesù! 'O cappotto buono ... I sudori miei, i sacrifici miei ... Tieni quasi trent'anni, lo vuoi capire?» lo volevo solo andarmi a buttare sul mio letto, ma lei mi tratteneva, tirandomi per la manica, palpando il bavero, torcendosi le mani.
«Qua cade tutto addosso a me, tutto ... Lo sai com'è tuo padre, sta di là, con quella televisione accesa dalla mattina alla sera, e non vuole sapere niente ... Solo la televisione e il mangiare ... E io sono sola, sola!»
Non riuscivo a capire che cosa volesse, erano anni che non diceva tante parole tutte insieme. In pratica da tempo io con loro ci parlavo a gesti, e loro si erano abituati a non farci quasi caso. ~ poi avevo veramente sonno, e le feci un cenno per dire che volevo solo dormire. Ma lei si torse di nuovo le mani, fece una smorfia, e ricominciò.
«Ah, non parli, non vuoi parlare, ti vergogni di noi... E ti abbiamo fatto studiare, e papà ti aveva pure trovato un posto ... Ma no! Lui deve pensare, lui non si può abbassare a lavorare ... E mo vivi sulle spalle di due poveri pensionati!»
Non le risposi, mi divincolai dalla stretta al bavero e attraversai il corridoio, spingendo la porta della mia stanza.

«Chi è? Chi è? .. Uhé, sei tu! Mi hai fatto pigliare uno spavento!»
Era la voce di mia sorella, e all'inizio pensai di aver sbagliato stanza. Ma la mia stanza non esisteva più. Un grande letto matrimoniale ne occupava più della metà, le pile di libri erano sparite, c'erano dei parati nuovi, e alla finestra pendevano delle tendine rosa confetto con la mantovana coperta di merletto celeste. In mezzo al letto, seduta, c'era mia sorella, e dall'altra parte, lentamente, si stava svegliando Alfonso Tauto, il fidanzata.
«Che c'è? Che guardi? Ti piace? Abbiamo fatto qualche modifica, la stanza era troppo scura ... Dici la verità, Tommaso, ora è più luminosa, più calda. È vero?»
«Si può dormire, almeno i giorni di festa? O da questa casa me ne devo andare?» grugnì Tauto da sotto la coperta ricamata.
«Te ne stai là ... Non dici niente alla tua sorellina? E dici almeno che è una bella camera, mo'! Senza le mie modifiche faceva schifo ... E lo sporco! Per pulirla non ci sono bastate due settimane, lo sai? E quei libri pesantissimi! Per portarli nello scantinato che c'è voluto ... »
Mia madre intervenne con tono conciliante.
«Non è niente, non è successo niente ... E che dovevamo fare? Mica Tommasino non capisce, lui è moderno, è vero Tommasi'?»
Ma Tanto la interruppe:
«lo non mi devo giustificare con nessuno. E sia chiaro, che se le cose non vi vanno bene così, lo dovete solo dire ... Patti chiari e amicizia lunga!»
Mia sorella e mia madre si precipitarono a dire che no, che si stava sbagliando, e non doveva prendersela a male. Andava tutto bene, e Tommaso, si sapeva, era un ragazzo evoluto ... E poi dove se ne voleva andare? Perché, da loro non stava bene, non era servito e riverito come sua maestà in persona?
«Come il prete all'altare! E te lo meriti, te lo meriti.»
Tauto era emerso dalle coperte, si era acceso una sigaretta, e stava a sentire le scuse delle due donne fumando e lisciandosi ogni tanto i baffetti sottili o tirandosi i peli riccioluti che gli coprivano il petto.
Era ridicolo, pensai, era tutto troppo ridicolo. Che potevo fare se non riuscivo ad arrabbiarmi? Ad alta voce dissi:
«Me ne frego delle vostre stronzate lo voglio solo dormire.» Non avevo finito di dire che o mi facevano dormire o gli rompevo la faccia a tutti e due, e già mia madre si era interposta: ci pensava lei, ci pensava ... E non ero più suo figlio? L’avevo abbandonata, sì... Ma "Tommasino suo" ora era tornato ... E ci pensava lei, ci pensava lei a tutto. Mi tirò di nuovo per la manica, che mi dovevano scusare se ero così sgarbato, ma ero sempre stato strano fin da piccolo ... Chiuse la porta, ma si sentivano lo stesso le voci dei due dentro.
«Ora mi alzo e me ne vado! lo non sono abituato a queste cose! Chi si crede di essere? Ma lo sa che non lo spezzo in due solo perché t'è fratello a te? Eh?»
«Alfonsino, non fare così.»
 «Faccio, faccio. Faccio quello che mi pare! lo sono una persona seria, io non mi vado spassando, io lavoro!»
"Ma lo so, è che lui è strano, lo devi scusare ... Amore mio, allora non ci amiamo più?»
"Non è questo. È un fatto di principio! Non si parla così, non si dice "me ne frego" a Alfonso Tauto ... A me! A me!» «Alfonsino, non ci pensare più, ci penso io a farti scordare tutto ... Bello, cuore mio ... »
«Se dice ancora una parola ... Me ne vado!»
«No, no ... Vieni qua, vieni da me che- ti faccio dimenticare le brutte cose ... »
Mia madre mi tirò via per il corridoio, e poi si fermò vicino alla porta dello sgabuzzino. '
"Sta già tutto preparato ... Vedi, entra ... Ci ho messo la branda buona, quella vecchia, come le facevano una volta.»

Si dava da fare a prepararmi il letto, e intanto parlava senza interruzione: che io ero moderno, no? certe cose le dovevo capire ... Lillina aveva questo fidanzato da tanto tempo, ora che dovevano fare?
«lo sono cattolica, e tu lo sai. Cattolica cattolica, eh! Ma oggi pure la Chiesa dice che si deve capire ... l giovani non devono essere umiliati... Vabbe', non sono sposati ancora, ma è cosa prossima, eh, un bel matrimonio coll'abito bianco ... »
lo mi ero spogliato e infilato sotto le coperte. La branda si ingobbiva al centro, e il materasso di gomma sintetica era molle e bozzoluto, e mi rigirai più volte. Sapevo che sarebbe stato inutile cercare di far smettere mia madre ora che aveva cominciato, ma avevo così sonno che mi sarei addormentato dovunque.
"Pure tuo padre, non parla ... Dice che me lo devo piangere io, che lui non vuole sapere niente ... "lo non vedo e non sento", dice. Ma io lo so che poi tutta la colpa è mia se le cose 1I0n vanno come devono andare.»
Dalla parete sulla testa del letto venivano gli applausi di un programma televisivo, le risate, gli squilli del telefono. Mia madre mi spiegava che Lillina nostra era brava, e poi che quello non era un cattivo ragazzo, no, no ... Teneva un "posto dolce, un posto sicuro, statale ... Eh, non si voleva sposare se non era tutto pronto e come diceva lui, ecco tutto. E i genitori di lilla ragazza che dovevano fare? Tauto e Lillina dicevano che vivendo in casa con loro avrebbero risparmiato, e così si potevano comprare "i mobili di marca", e non c'avevano ragione pure loro? I mobili buoni durano di più, ed è meglio cominciare bene Lei e papà gli avevano offerto la loro camera da letto, il salone Ma lui diceva che gli piaceva assai la luce della mia stanza, la finestra sul poco di giardino ... E in famiglia non ci dovevamo aiutare l'uno con l'altro? E se non capivo io che avevo letto tutti quei libri, chi doveva capire? Tauto mangiava con loro, c'era una bella spesa da fare, ma così almeno Lillina era. contenta, e i genitori non si devono sacrificare?
Gli applausi, poi la partita, le voci impostate che parlavano della giornata di festa, del grande concerto ... Lillina, Tauto, mia madre ... "Sì, è polemica tra gli schieramenti" ... "Ha ancora un senso una giornata così?" ... "Ormai dobbiamo entrare nella nuova epoca, leggeri, senza la vecchia ossessione del lavoro sicuro" ... E lavoro, lavoro, lavoro, fu l'ultima parola che mi risuonò in testa prima di affondare nel sonno come un pezzo di piombo nell'acqua.
Quando aprii gli occhi la prima parola che mi venne in bocca fu: 'o terremoto! Colpi come sacchi che cadevano, il pavimento che ballava, voci pesanti, uno stridio feroce. Saltai giù dal letto e uscii nel corridoio. Era tutto pieno di polvere, e un uomo che doveva essere un operaio mi passò davanti tirandosi dietro una sacca di cemento. Ma che stava succedendo? Dalla direzione opposta a quella da dove era venuto l'operaio, spuntò mia madre.
«Tommasino, è pronto, vieni. .. Ti sei svegliato, eh? Si dorme bene su quella branda, è vero? Ci ho messo pure il materasso nuovo ... Vieni, vieni che è pronto.»
Mi vestii e andai in cucina. Tutta la parete che dava su un piccolo giardino era stata buttata a terra per metà, e un operaio sul balconcino stava sfondando il pavimento con un martello pneumatico. Mia madre, per farsi sentire, doveva gridare.
«Pigliati la zuppa di latte, Tomma'! Ci vuoi i biscotti? No?
Il pane?»
Mio padre stava guardando il televisore portatile, e intanto si inzuppava nel latte un grosso tarallo. Fece finta di non avermi visto, e non ci salutammo. La tazza col latte sobbalzava sul tavolo, e era difficile anche evitare di batterci i denti o di centrarla con la fetta di pane.
«Stiamo facendo qualche modifica ... Un'idea di Alfonsino, sì. .. La casa era piccola, la allarghiamo. un poco ... Non sei contento? Così pure tu starai meglio ... »
Venne fuori che avrebbero costruito nel fazzoletto di terra che stava dietro la vecchia casa. Ma si doveva sfruttare lo spazio razionalmente, fare delle modifiche importanti, che sarebbero durate tutta l'estate.
«Lillina vuole la cucina grande ... È giusto ... E poi il salone buono, su due livelli, come si porta adesso.»

Ma le cose non erano proprio semplici. I vicini avevano già bloccato tre volte i lavori. Eh, gli invidiosi ci stavano sempre, e sempre per pensare a male. E che, sua figlia non doveva tenere una casa? Abusivo, abusivo, dicevano ... E pure che la cubatura era fuori legge ... E che voleva dire? Loro erano gente onesta, li conoscevano tutti e lo potevano dire. E allora uno non si poteva fare una casa sulla sua proprietà, non era padrone in casa sua? E che volevano, togliere la proprietà alla gente? Comandavano già i comunisti? Intanto mio padre aveva alzato al massimo il volume del televisore, e si era messo con la faccia proprio sopra, incurante delle proleste della moglie. L'operaio sul terrazzino ogni tanto smetteva col martello pneumatico e si incantava a guardare anche lui lo schermo.
«Sì, vabbe', il doppio della cuba tura consentita ... E non siamo a casa nostra? Non è proprietà nostra, dei nostri sudori? Che c'entra la legge?»
Mia madre continuava a spiegare che cosa aveva fatto. Lei "non si era stata ferma", e pure Tauto, che aveva uno zio che era una persona importante, si era dato da fare. Avevano lavorato di nascosto una notte intera, gli operai, e così alla mattina già c'erano lo scavo e i pilastri. E che voleva il comune? Li voleva far stare stretti, a quei figli suoi? Per le spese avevano dovuto ricorrere "alla libretta della posta", e Stavano quasi senza soldi, ma ora però si costruiva. Solo che, per guadagnare spazio, la casa di Tauto e di mia sorella doveva cominciare dal lato dei balconi, era una cosa tecnica, che lei non capiva. Dovevano buttare a terra metà cucina e il terrazzino, per metterei i pilastri di cemento armato per il pericolo sismico.
Avevo capito. Ma ormai mi ero già fatto in testa una specie di piano. Così mi sistemai gli occhiali da sole sul naso e lasciai là mia madre mentre malediceva "quella zoccola di fronte" che ogni volta che vedeva un pilastro nuovo portava la spia ai vigili.


I pasti in comune si svolgevano in un fracasso continuo. Ci eravamo spostati nella stanza da pranzo, ma il rumore delle betoniere, i colpi di martello, le voci, arrivavano anche là. lo mangiavo senza dire una parola, sempre con gli occhiali da sole sul naso. Meno li vedevo e meglio era. Mia madre, rassicurata dal fatto che non le avessi mosso nessuna obiezione, aveva smesso di parlarmi, o lo faceva solo perlamentarsi che c'erano certi figli che non capivano i sacrifici, e si credevano che il mangiare cade dal cielo, e a quasi trent'anni non hanno ancora un lavoro. Ma di solito era troppo occupata con il futuro genero, per interessarsi a me. Tauto, magro come un'acciuga ma atletico, sempre vestito in modo accurato, trovava da ridire su ogni pietanza. La pasta era poco cotta, nella salsa c'era troppo sale, la frittura di calamari era dura, l'olio sapeva di olio di macchina, e quella ciofeca imbevibile la chiamavamo pure vino? E poi dentro al vino ci voleva la gassosa, lui, perché così era abituato a casa sua. Eh, casa sua sì che era una casa, una famiglia vera, non come certe famiglie moderne che conosceva. Lui era cattolico, da piccolo aveva pure servito messa, e certe schifezze non le poteva vedere.
«E che ti fai a fare rossa? Tu che c'entri?» diceva a mia sorella, e lei allora gli allungava una timida carezza sulla manica della giacca, attenta a non sciupare la stoffa.
Tauto faceva continue allusioni al "mondo". Lui lo conosceva bene com'era schifoso, come erano tutti ladri e imbroglioni. Ma a lui, Alfonso Tauto, non lo fregava nessuno. Il posto statale ce l'aveva, e poi come libera professione faceva il fiscalista. Era un benefattore, lui, perché la gente lo ringraziava pure. E che, mica lo stato si doveva mangiare i soldi che uno aveva guadagnato onestamente! Lui le ingiustizie non le sopportava, e allora dava una mano a tutti per pagare "il giusto", perché lui la legge la sapeva meglio dei giudici nei tribunali. E che li aveva letti a fare tanti libri certa gente oziosa che conosceva lui, se poi "si puzzava di fame"? Lui invece era un tipo pratico, studiare aveva studiato giusto quello che serviva, e anche a scuola, modestamente, aveva sempre "fatto ressi a tutti quanti".
Mia madre e mia sorella lo interrompevano solo per dire che sì, che aveva proprio ragione, o per chiedergli se il pranzo era andato bene, se voleva un altro bigné, se il caffè era "bello forte" come piaceva a lui. Mio padre non diceva niente, limitandosi a fare un grugnito o un cenno caso mai volesse qualcosa, e mangiava con il piccolo televisore portatile proprio davanti al piatto. lo non riuscivo a staccare lo sguardo dal dente d'oro di Tauto, un canino che lui si stuzzicava di continuo con l'unghia del mignolo che portava lunga e arricciata. Osservavo attraverso gli occhiali neri il suo modo schifoso di rovistare nel cibo che aveva nel piatto facendolo diventare alla fine una poltiglia, e dichiarando ogni volta che solo a casa sua sapevano cucinare veramente, e mi incantavo a guardare come appallottolava le molliche di pane sotto le dita fino a farne delle sudice palline nerastre.

Ma che cosa aveva a che fare tutto ciò con la bellezza o con la conoscenza, questo non riuscivo a capirlo. lo uscivo di mattina presto, e con i soldi rubati da un cassetto o da una borsa riuscivo appena a pagarmi il viaggio per la Biblioteca Nazionale, o dovunque potessi leggere senza comprarli i libri che secondo 'O Tolomeo il Maestro leggeva e rileggeva. Tornavo solo di sera, quando le biblioteche chiudevano, e proprio quando mi sembrava di essere vicinissimo a una rivelazione definitiva. Perché quello che cercavo era sempre lo stesso, lo stesso che con Landrò avevamo cercato in Nietzsche o in Rimbaud: qualcosa che cambiasse la vita, che modificasse insieme il cervello e il corpo, dalla cima dei capelli Fino alle unghie dei piedi. Tornando a casa sballottato dall'autobus che ogni volta sembrava dovesse andare in pezzi nelle voragini che si aprivano nell'asfalto, mi ripetevo le frasi che mi erano rimaste inchiodate nella memoria: "L'uomo si sente libero soltanto nelle sue funzioni animali" ... "Al posto di tutti i sensi fisici e spirituali è subentrata la semplice alienazione di tutti questi sensi" ... "Quanto più l'uomo produce cose spirituali, tanto più egli diviene privo di spirito" ... "Il lavoro produce cose dello spirito, ma per l'operaio solo idiotaggine e cretinismo" ...
Insieme a me i pochi sfessati che ritornavano a casa dal lavoro non dicevano niente, e forse non pensavano nemmeno. Tutti tacevano, e nelle scosse dell'autobus, nelle luci accecanti dei fari, si limitavano a sbattere le palpebre o a tossire. Solo qualche marocchino e le negre chiacchieravano fittamente, ridendo. lo che non avevo mai lavorato in vita mia, mi ripetevo quelle schegge di frasi spesso incomprensibili dove il lavoro ritornava ossessivamente, aggirandomi smarrito tra frasi come "l'arcano della forma di merce consiste dunque nel fatto che tale forma, come uno specchio, restituisce agli uomini l'immagine dei caratteri sociali del loro lavoro" o come "quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto tra cose è solo il rapporto sociale determinato che esiste tra gli uomini stessi". Non riuscivo a sottrarmi al potere di frasi monche come "la magia del denaro", e mi perdevo in un circolo misterioso di "Forza-lavoro", "valore di scambio", "circolazione delle merci" e "plusvalore". Improvvisamente mi veniva in mente Tauto, o mia sorella Lilla, che in realtà si chiamava Carmelina, e si era cambiata il nome perché Lilla era più "Fine". Un nesso tra tutte queste cose ci doveva pur essere, mi ostinavo a pensare. Ma mi afferravano scoraggiamenti profondi, che mi afflosciavano sul sedile come un sacco vuoto: si poteva cambiare solo la vita? O, come si era lasciato sfuggire il Maestro, bisognava anche cambiare il mondo? E cosa aveva a che fare tutto ciò con "la vita in bellezza, la vita in bellezza!", l'unica cosa che per anni mi era sembrata capace eli trasFormare le cose attorno a me? Ora leggevo che "quanto poco c'è un brutto che sia tale e basta, tanto poco c'è un bello che sia bello e basta" ... Sì, pensavo io, e Tauto? E Sossio Sesamo? Non erano forse il brutto e il male assoluti?
Quando scendevo dall'autobus dovevo farmi a piedi ancora un paio di chilometri, in mezzo a case coi sette nani e le dee dell'Olimpo in gesso colorato, passando vicino a cappelline con le madonne di Pompei, di Fatima, di Montevergine, badando a tenermi lontano dai cancelli dietro cui balzavano 1'8roci enormi cani da guardia. Evitando nel semibuio dei lampioni scialbi le pozzanghere e i baso li semidivelti, mi ripetevo che "l'identificazione dell'arte col bello è insufficiente", ed ero sicuro di trovarmi solo a un passo, appena un piccolo passo, .dalla rivelazione.
Ma quando arrivavo a casa, quello che mi sembrava di aver capito si confondeva di nuovo in una nebbia. La cena in comune, quando arrivavo in tempo, e nello sgabuzzino se facevo tardi, mi risprofondava in un torpore ottuso. A tavola tutti ripetevano ossessivi "lavoro", "soldi", "ricchezza", "comprare", "bello", "futuro", e io cominciavo a confondere queste parole con quelle che avevo letto nei libri. In fondo che differenza c'era? Tauto non parlava forse con tono convinto di "diritti", di "suo", di "proprietà"? Tutto si univa nella mia testa come in uno spettacolo di fantasmi, e quando mi laasciavo cadere sulla branda in cerca del sonno, l'ultima parola che mi percuoteva il cervello era sempre quella: "lavoro". E subito, come in un'evocazione magica, sentivo il martello pneumatico che mi stritolava il ventre con i suoi colpi frenetici, copriva con il suo singhiozzare ossessivo persino le voci del televisore, gli squilli del telefono, gli applausi e le risate, e disgustato di me e di tutto mi arrendevo al sonno.
Una sera di giugno arrivò a casa mia Landrò. Era isterico come sempre, e ripeté più volte che aveva dovuto venire a piedi perché non c'erano autobus e il padre non gli voleva comprare una macchina. Comunque, dovevamo assolutamente andare da Ciro Morvo, era inutile che dicessi di no, la cosa era importantissima: mi avrebbe spiegato tutto per strada. Quando gli accennai, cautamente, a cosa avessi pensato in quei mesi, ascoltò impaziente senza togliermi gli occhi di dosso per tutto il tempo, per concludere poi che lui quelle cose le aveva già pensate "anni prima": ormai erano superati.. Ora il vero problema era agire,' agire nella realtà, in qualsiasi modo: ma mi rendevo conto che lui era dovuto venire a piedi perché non aveva la macchina? E che suo padre lo umiliava in continuazione? E fino a quando poteva continuare a vivere così? Poi, con un vago roteare della testa,si affrettò a liquidare le mie domande su don Sesamo e gli S.S. dicendo che era tutto a posto e non mi dovevo preoccupare.
"Non posso parlare troppo. Devi capire a volo.»
Per la situazione a casa sua ebbe come unico commento con una smorfia, e sputò per terra in segno di'massimo disgusto. Io tra l'altro avevo una mia idea su chi fossero i due che il guardiano del cantiere di 'O Tolomeo aveva visto piantare gli aghi giganti nella terra, e gliela dissi. Landrò non affermò né negò, limitandosi a una risatina e a un gesto della mano che poteva voler dire qualsiasi cosa. Mentre prendevamo prima un treno e poi la metropolitana per arrivare dalle parti di piazza Cavour dove abitava il suo amico, cominciò a spiegarmi chi fosse "veramente" Ciro Morvo. lo gli dissi che mi era sembrato solo uno scemo, ma Landrò insorse.
"No ... sembra, sembra. È rozzo, questo sì, però forse sa qualcosa che io e te non sappiamo ... Te lo dico una volta per tutte: io non mi posso permettere di trascurare niente ... Niente!»
Ma quelli di Landrò erano accenni vaghi: che Morvo avesse una teoria nuova, questa sembrava l'unica cosa chiara. E poi che questa teoria era costruita su basi matematiche, e voleva collegare la matematica alla psicologia e anche a fenomeni "seriamente paranormali". Lui, Landrò, l'aveva eviitato per qualche settimana, perché erano successe tra loro certe cose fastidiose. Il fatto era che Landrò gli aveva dato da leggere L'Idiota, e per questo Morvo un giorno lo voleva buttare sotto le ruote della metropolitana.
"Sì, sÌ.,. Diceva che l'avevo fatto apposta, 'e capito? Che lo volevo far diventare" 'nu pazzo", ma che lui allora se era pazzo mi buttava sotto al treno! E mi rideva in faccia, hai capito? E poi gridava che era meglio se si buttava pure lui, e anzi che ci dovevamo buttare tutti e due ... Non c'era nessuno, mi aveva preso per il braccio e me lo stritolava, ero sicuro che mi buttava!»
io scoppiai a ridere, e non riuscivo a frenarmi.
"Tu ridi, non ti rendi conto! Quello è veramente pericoloso, è un pazzo ... »
"Ma non aveva una teoria geniale?»
"Non vuol dire niente, che vuol dire? Si era messo a dire che gli volevo far scoppiare il cervello con quel libro, che l'avevo fatto apposta, e "mo' devi morire" mi urlava ... Sì, ridi tu, stronzo.»
"E tu che gli hai detto, al pazzo?»
"Eh, che gli dovevo dire? Proprio mentre stava arrivando il treno, gli ho detto che se moriva non poteva completare la teoria, e nessun'altro ci sarebbe riuscito ... Allora si è calmato, si è calmato di colpo.»
Ci inoltrammo alle spalle di piazza Cavour, per la salita Stella e poi lungo San Nicandro, finché non arrivammo fuori alla casa di Morvo. Abitava al terzo piano di un condominio fatiscente, e quando bussammo alla porta fu proprio lui ad aprirci.

"Ahà! State qua! Trasite, trasite!»
Con il suo balbettìo che si mangiava le frasi e le finali ci spiegò che veniva proprio allora da lavorare, e aprì la porta di una stanza. Seduto dietro alla scrivania c'era un ragazzino di dodici-tredici anni, con la radio accesa, che pareva stesse studiando. Morvo spiegò che era il fratello, e che tenevano lilla sola stanza perché loro erano una famiglia di operai. Poi cominciò a blandire il ragazzino, a dire che la stanza gli serviva, che gli avrebbe dato poi qualcosa domani, ma "mo' te ne devi andare" gli ripeteva. Il ragazzino non voleva accontentarsi delle cinquemila lire promesse dal fratello per il giorno dopo, ne voleva dieci, e le voleva subito. Allora Morvo gli mormorò qualcosa a bassa voce, e un attimo dopo si stavano accapigliando sul pavimento. Il fratello di Morvo era robusto, ma dopo un minuto di lotta si trovò spalle a ten-a e con le ginocchia di Morvo che lo immobilizzavano premendogli le braccia. Morvo gridava:
"T'arrienne? Ti vuoi arrendere o no?»
Il fratello ribatteva che non si arrendeva, e cercava di morderlo, e Morvo a ripetere: "T'arrienne? 'E perzo! Ho vinto! Ho vinto, e 'a stanza è 'a mia!». In un angolo, Landrò osservava con una smorfia disgustata e impaziente la scena, alla quale doveva già avere assistito altre volte. Poi Morvo si sollevò di scatto, prese il fratello, lo sbatté nel corridoio e chiuse la porta a chiave. Quello tempestò per qualche minuto la porta a calci e pugni, poi si stancò e se ne andò, lanciando alla porta un ultimo calcio che la fece scricchiolare. Morvo intanto aveva spinto la scrivania sotto la finestra, e da un armadio aveva tirato fuori una pila di scatole di scarpe. Era là, ci spiegò, che teneva schedati i fogli con le dimostrazioni della teoria. Aprì le scatole e cominciò ad ammucchiare tutto sul pavimento, dove ci dovemmo sedere per poter seguire le sue spiegazioni. Per qualche minuto girò ancora intorno alla questione della lotta col fratello, dicendo che quello non voleva mai ammettere di essere stato vinto in una "lotta leale". Ma era logico, no? La stanza era una e loro invece due, e allora quando non si accordavano c'era solo la lotta come via di uscita. Ma lui, Morvo, vinceva sempre, e senza trucchi, lo potevano vedere tutti che la lotta era stata alla pari: non era così? Poi, senza alcuna transizione, passò a spiegare le modifiche che aveva fatto alla sua teoria sull'universo. Si mangiava mozziconi di parole e di frasi, incagliandosi nel parlare e sprofondando in vuoti di parole, che sostituiva con gorgoglii della gola e manate sui fogli che di volta in volta rimetteva e tirava fuori dalle scatole di scarpe. Io lo capivo a stento, perché più si addentrava nella teoria e più si faceva concitato e balbuziente. Landrò doveva di continuo tradurmi le frasi e persino i gesti di Morvo, che a lui sembravano essere ben noti.
La teoria, disse subito con disprezzo Morvo, era "completamente scientifica", e dunque per noi ignoranti "letterati e filosofi" sicuramente impossibile da capire. La base di tutto era la teoria della relatività e quella dell'inconscio collettivo. L’energia fisica di cui parlava Einstein, e questa era la scoperta di Morvo, era strettamente collegata all'energia psichica di lungo lung aveva sostenuto che massa e velocità, come risultava dalla formula dell'energia cinetica, erano concetti in qualche modo collegabili alla psiche: ma si era rifiutato di ammettere che dei "fattori fisici" potessero essere applicati alla psiche in modo diretto.
"È sbagliato! Tutto sbagliato!» gridava Morvo brancicando i suoi foglietti, da cui ci leggeva brani estrapolati da libri, formule fisiche e equazioni lunghe si era fermato troppo presto. Eppure proprio" 'o svizzero" aveva scoperto che l'inconnscio collettivo non aveva una natura "esclusivamente psichica"! E poi l'identità "relativa o parziale" del continuum fisico l'aveva ammessa ... E allora? La psiche non faceva parte del continuum fisico? Certo che sì! E dunque la verità era che la psiche aveva certamente un aspetto quantitativo.
"È lung! 'O ddice lung ... Liegge ccà! Stateme a sentì: "Se queste quantità fossero in qualche modo misurabili, la psiche dovrebbe apparirci un che di mobile nello spazio al quale applicare la formula dell'energia" ... Eh? La formula dell'ener-gi-a, è chiaro? La psiche è energia fisica! E l'energia non è misurabile? E come no! L'energia è uguale alla massa per la costante al quadrato!»
Morvo sbatteva trionfante il pugno sul pavimento, rimescolava i foglietti, non trovava più quello che cercava.

«Addi stà? Ah ... State a sentì: "Questa ipotesi presuppone però una psiche che in qualche modo tocca la materia" ... 'E capito? Tocca la materia! E po': "E viceversa presuppone una materia con una psiche latente!". Eh? Avite capito?»
Ma lung era stato "nu vigliacco", e si era fermato là. Anzi, si era fermato perché non capiva niente di matematica e di fisica. Perché la teoria della relatività diceva proprio che l'energia poteva essere racchiusa in qualsiasi oggetto.
«Pure ccà! Dint' 'a 'sta capa!» E riprendeva a schiaffi la testa, indicando che là dentro, in quell'oggetto, valeva la stessa legge dell'energia che valeva nell'universo. E insomma la massa, ora che diventava energia, non era più un qualcosa di indistruttibile, ma si poteva trasformare in altre forme di forza ...
<<'A particella? E che vi credete ... 'E particelle si distruggono, ma resta l'energia cinetica di tutto, più l'energia 'e tutte 'e masse! O no? Eh? Che dicite?»
In pratica, a suo dire, in tutto l'universo c'erano solo spostamenti di energia, e la materia spariva, non c'era più: al suo posto restava solo l'energia della psiche, e con la forza della psiche si poteva controllare la materia.
«E Mach? E 'a teoria dei campi? E 'a quantistica?» Sempre più esaltato, Morvo si sprofondò a parlare della teoria dei quanti e del fatto, su cui ritornava ossessivo, che tutto l'universo era legato in una sola connessione, e le cose infinitamente insignificanti e quelle grandissime erano strettamente correlate. Intanto alla porta aveva bussato sua madre per dirgli che era pronto a tavola, ma lui aveva aperto solo per dirle che non lo doveva scocciare, e poi a lui" 'e ppatane" non gli piacevano.
«Fanno sempe 'e ppatane! Patane, patane ... » ripeté disperato per qualche minuto, poi si alzò e corse in cucina. Lo sentimmo gridare a sua madre che la doveva finire, e che lui voleva" 'e maccheroni", sì, pure la sera, sempre! E se non glieli faceva lui non mangiava, e se poi si stufava buttava tutta la cucina con la madre dentro in mezzo alla strada.
Tornato nella stanza attaccò con i fotoni, cominciando a scrivere sul retro dei fogli già scritti, perché nella stanza non si trovava più un foglio pulito. Che se l'energia di una particella m si poteva scrivere E = mc2 su radice quadrata di l-v2 fratto c2, allora si poteva dimostrare pure che E per la radice quadrata di l-v2fratto c2 era uguale a mc2 ... E questo che voleva dire? Non ci rendevamo conto? Eh, ora veniva il bello! E cioè che se quello era così, e quell'altro tendeva a zero, allora m era uguale a zero! Si era spiegato?
«'A massa è uguale a zero! A zero!»
Voleva dire che i fotoni avevano la massa nulla. "Niente massa, niente materia!" ripeté Morvo, con un gesto come a indicare una bolla che fosse scoppiata.
Bussarono di nuovo alla porta. Era sua madre, che gli aveva portato "almeno nu poco 'e patane c' 'a sarza", perché non mangiava da ieri, e lo vedeva sciupato. Allora Morvo prese il piatto e senza neanche guardarlo lo buttò nel corridoio, minacciando che se non lo lasciavano in pace faceva una strage, e che più tardi gli doveva fare 'a pastina, se no lui non mangiava c non mangiava. Si era spiegato bene? Chiuse di nuovo a chiave la porta, ma ormai aveva perso il filo delle dimostrazioni Inatematiche, e ritornò sul collegamento tra la psiche e l'energia. Jung era solo un "chiachiello", un fesso, un pagliaccio! Sì, sc non ci fosse stato lui a scoprire l'energia psichica forse non sarebbe mai nata una nuova scienza, ma poi? Jungsi era "messo paura", e ora toccava a "Ciro Morvo in persona" andare avanti. Landrò gli fece notare che però in un passo Jung aveva già sostenuto che spazio e tempo di per sé non erano materiali, l' quindi dovevano essere di "natura psichica" ... Ma Morvo non lo fece continuare. E che si credeva, Landrò, che lui non se lo ricordava? Jung era stato grande, ma ora bisognava andare 01-, Il'C, e tutto si doveva "scrivere con la matematica", perciò non l'l'a cosa per noi. Lui ormai era sicuro: mettendo insieme Jung L' Einstein si apriva la possibilità di agire direttamente sulla materia,e senza più bisogno di strumenti e laboratori.
«Con questa qua! Con questa qua!» e si toccava con le due I1lé\lli la fronte senza riuscire a fermarsi. Perché lui, Ciro Morvo, aveva anche scoperto uno che aveva già pensato quelle cose. E lui davanti al maestro, davanti al "grande Luiil',i Fantappiè", si poteva pure inginocchiare! E proprio mennI l'e si era veramente inginocchiato, si accorse che nella scatola apposita non c'erano le schede su Fantappiè, e cominciò Il bestemmiare. A quattro zampe com'era prese a girare per la camera, ficcandosi nell'armadio, dietro la scrivania, lungo disteso sotto i letti, senza riuscire a trovare le schede.
«'E schede 'e Fantappiè! Aggio perzo 'e schede 'e Fantappiè!» Ma in quel momento la porta fu presa di nuovo a manate.
Morvo balzò in piedi ad aprire e sulla soglia comparve suo padre, che cominciò a inveire contro di lui e contro di noi. Il figlio era "nu zuzzuso", lui aveva solo buttato i soldi per farlo studiare, e noi che ci stavamo a fare sempre là a casa sua? Quella, fino a prova contraria, era ancora casa sua! Ce ne dovevamo andare, e subito! Perché se no lui faceva un macello! Poi cominciò a scambiarsi feroci accuse con Morvo, mentre sua moglie cercava di tirarlo indietro ripetendo che Ciro era " 'o criaturo" suo ...
Io e Landrò ci infilammo per la soglia lasciata libera da Morvo e, con un saluto appena abbozzato, ci precipitammo fuori. Prima di buttarci di corsa per le scale sentii Morvo che accusava il padre di avergli nascosto le schede, e che adesso dovevano solo fare la lotta, se no la cosa non si poteva risolvere lealmente.
Da casa di Morvo arrivammo di nuovo a piazza Cavour, di corsa per riuscire a prendere l'ultima metropolitana. Per un po' non potemmo parlare, prima per la corsa per i vicoli e poi per l'affanno. Ma volevo capire se quello che avevo sentito, metà con le mie orecchie metà tradotto da Landrò, aveva anche un seguito. E chi era quel Fantappiè di fTonte al quale un pazzo esaltato come Morvo sentiva il bisogno di inginocchiarsi? Ma Landrò era pensieroso, e mi rispondeva a monosillabi. Poi tacque completamente, dopo avermi chiesto se potevo andare a casa sua, dove mi avrebbe spiegato tutto. Scesi dal treno dovemmo farci anche i cinque chilometri che separavano la stazione dalla villa di Landrò. La strada che portava a casa sua era periferica, con delle lampade oscillanti nel vento caldo che facevano cadere sull'asfalto tutto avvallamenti e crepe una luce mortuaria, e a un tratto mi vennero in mente don Sossio Sesamo e i Salutisti per la Salvezza, ma scacciai subito il pensiero.
A casa sua Landrò entrò come un ladro, a piccoli passi silenziosi, per non farsi sentire dal padre, che altrimenti avrebbe cominciato la solita litania. Una volta nella stanza di Landrò ci buttammo sulle poltrone dando fondo a una scatola di biscotti che stava su un tavolino, e mentre ancora masticava, Landrò disse che Fantappiè sembrava veramente "un pensatore notevole". La sua idea era che questo universo non può essere spiegato completamente se non immaginando un universo più ampio. Ma immaginare, come sosteneva anche Morvo, non era il termine giusto. In realtà erano stati soprattutto i fenomeni paranormali a spingere Fantappiè verso la sua concezione. Servendosi della teoria matematica dei gruppi, Fantappiè aveva cercato di classificare tutti i mondi possibili oltre il nostro. L'autore di Nuove possibilità di inquadramento dei fenomeni paranormali aveva parlato di un "io spirituale" che era in grado di potersi muovere in tutti questi "altri mondi", i quali, probabilmente, erano di numero infinito: anche se "comunque nuull1erabili". Questa della numerabilità degli infiniti mondi era però un'aggiunta di Morvo, il quale aveva scoperto che Lawden parlava già di "psichismo delle particelle elementari", e che il biologo Lillie ammetteva apertamente che la psiche avrebbe potuto influenzare la materia. Questo, concluse Lanndrò che aveva parlato girando in tondo per la stanza e avvicinandosi per scrutarmi a ogni giro, era il centro della questione: che con la mente si poteva trasformare a piacere la materia.
"E tu ci credi a questa follia?» "lo? No, però potrebbe essere.»
"È vero. È una cosa partorita da un pazzo nevrotico, però potrebbe essere vera! Ma ti rendi conto che quello è scemo?»
Landrò nei confronti di Morvo sembrava oscillare tra il disprezzo più profondo, che esprimeva ogni volta che lo nominava con una smorfia che gli arricciava il naso, e una sorta di oscura ammirazione.
"Forse è scemo veramente. Ma ne siamo sicuri?»
"Alla fine ci metteremo a far ballare i tavolini» dissi come parlando a me stesso.
Ma Landrò non sembrò scosso dall'ironia. Che ne capivamo noi di matematica? Bisognava vedere chiaro nella teoria di Morvo, sostenne, lasciandosi sfuggire che lui aveva fatto anche "qualche esperimento", ma che non poteva dire altro. E comunque se era vero che esistevano fenomeni che andaavano oltre il secondo principio della termodinamica, come sosteneva Morvo, allora poteva avvenire una vera rivoluzioone fisica: l'energia non andava più verso un'inevitabile degradazione.
Lentropia era stata a lungo una fissazione per me e Landrò, e la prospettiva che ora vedevo nascere mi sbalordiva. Avevamo scoperto che l'universo sarebbe arrivato, a un certo punto del tempo, alla morte termica e alla distruzione: "Non resterà altro che uno stenl1inato sciame di molecole vaganti senza senso, avanti e indietro per l'eternità". Ma se davvero esistevano altri infiniti mondi, allora l'entropia non doveva per forza raggiungere un punto che coincideva con la dissipazione totale dell'energia! Secondo alcuni fisici il sistema nel quale vivevamo si stava realmente degradando, perché era concepito come un sistema chi uso: ma se c'erano molti mondi, come in un gioco di scatole cinesi infinito, allora il fenomeno non era più irreversibile. In questo modo crollava infine tutta la concezione che l'energia è ottenibile solo attraverso un qualche lavoro. La maledizione del lavoro sembrava estendersi secondo i fisici all'intero universo: in esso tutto era ossessivo e frenetico lavorare, e gli infiniti mondi sconosciuti altro non erano che lavoro fattosi realtà. Ma se queste catene andavano in frantumi, allora l'universo in persona entrava in sciopero e incrociava le braccia: il lavoro non era più una maledizione, e si apriva per la materia la possibilità dell'ozio perpetuo. Schiavitù e sfruttamento sarebbero spariti, non avremmo più dovuto preoccuuparci del posto fisso e dei soldi, e la mente avrebbe creato senza fatica una nuova realtà. "Ma forse» dissi a voce alta, "sto solo diventando scemo appresso a voi.»
Non avevo neanche finito di parlare, che una mano bianchiecia si infilò dietro la porta semi aperta e spense la luce. Si sentì un fischiettare, e subito dopo la voce del padre di Landrò.
"Ahà! 'E ppatane so' bbone cotte! A quest'ora, rientra? E io gli spengo 'a luce ... Va facenno 'o zezo, se ne va a spassare? E io stuto 'a luce, pecché ccà è casa mia e s'acida sparagnà l'energia elettrica! Eh ... 'E ppatane so' bbone cotte, e chi non lavora sta senza luce!»
Poi la voce si affievolì, e si sentì solo il tiechettìo del bastone che segnava i passi del padre di Landrò. Si era avvicinato di soppiatto mentre eravamo immersi nelle nostre fantasticherie, e ora se ne tornava di sopra trionfante. Landrò intanto aveva l'i acceso la luce, e stava sulla soglia della porta, pallidissimo. Si passò una mano nei capelli e disse:
"Lo ammazzo. Uno di questi giorni giuro che lo ammazzo.» Poi si lasciò cadere in una poltrona, e quando me ne andai mi fece solo un cenno incomprensibile con la mano.
Sulla strada di casa ripensai a tutto quello che avevo sentito quella giornata. Sentivo che ora i libri del Maestro sprofondavano nell'oblio, forse perchè mi ricordavano troppo da vicino ciò che con tutte le mie forze odiavo di più: la realtà. E poi che cosa avevo da perdere con quella storia dell'energia? Come aveva detto Rimbaud, la cosa più importante era "trovare il luogo e la formula", evadere dalla trappola della realtà. E dovevo trascurare anche solo una probabilità su un miliardo che promettesse un'evasione assoluta?
Quando arrivai a casa e mi sprofondai nella branda mi ritornò in mente quella frase che parlava di altri mondi nei quali si poteva entrare: infiniti altri mondi ... E mi addormentai senza quasi fare caso alle voci del televisore che passavano attraverso la sottile parete divisoria.


Landrò non mi aveva detto tutto. Nella teoria di Morvo era prevista ogni cosa, ma c'era un problema pratico: come "attivare" l'energia psichica? Le formule matematiche non bastavano, ci voleva un manipolatore esperto, un evocatore di forze segrete. E così, grazie a un suo misterioso parente, tre mesi fa lui e Morvo erano stati presentati a uno "straordinario esoterista", Gerolamo Fu1caniello, che aveva ascoltato con grande interesse l'esposizione della teoria di Morvo. Ma l'esoterista aveva sostenuto di non poter ancora agire. Per lui i giorni intorno al solstizio di primavera erano rischiosi, e sarebbe stato lontano dal pericolo solo a partire dal nove luglio. Morvo aspettava impaziente la data dell'appuntamento, minacciando a ogni momento di spezzare il collo a Fu1caaniello se quello "faceva lo scemo". Fu1caniello abitava alle spalle di piazza Nilo, in un vicolo fra i Tribunali e San Biagio dei Librai, il cui nome però non si doveva mai pronunciare, nemmeno tra persone dalle "emanazioni positive", perché là c'era un "centro essenziale di forza" che poteva essere preservato solo nel segreto. Così ci aggiravamo intorno alla zona in estenuanti passeggiate nella calura, perché Morvo pretendeva che non dovevamo perdere di vista l'esoterista, altrimenti quello ci avrebbe fregati. In quei giorni Landrò aveva anche prestato a Morvo alcuni libri di Nietzsche per-

ché, come mi aveva confidato, voleva vedere che effetto facevano "in quella testa di barbaro". Morvo aveva considerato !Il di là del bene e del male e Aurora solo delle "cazzate", e di Così parlò Zaratrustra gli era piaciuta unicamente l'idea dell'Eterno Ritorno. Ma Morvo accusava Nietzsche di essere stato "poco serio": un pensatore serio non avrebbe dovuto specificare ogni quanto, precisamente, avveniva il ritorno del tempo su se stesso? Se lui avesse avuto "tiempo 'a perdeere" ci sarebbe riuscito, e comunque un qualche calcolo l'aveva pure fatto. Sì, quel Nietzsche non era proprio del tutto scemo. Come aveva detto Einstein, l'universo era una curva, cioè tornava sempre su se stesso, e era sempre lo stesso universo, no? Ma quando era che il tempo tornava esattamente all'inizio? Eh, lui avrebbe potuto scoprirlo facilmente, ma comunque a lui, "a Ciro Morvo", - e sputava a terra disgustato, - ci mancava solo quello, solo che "chella mmerda" dell'Eterno Ritorno fosse vera! Così tutta la sua "munnezza di vita", tutte le stronzate, le botte che aveva preso, gli zero a scuola, la sua famiglia, tutta quella felenzia, insomma, tornava uguale per sempre! E che dicevamo, eh? Che pure se lui si sparava, pure quello tornava uguale? E lui allora si sparava sempre, "ppà! ppà!", per l'eternità? No, "Nicce 'o pazzo" era meglio se si stava zitto, ma proprio meglio, perché a lui tutte quelle stronzate filosofiche lo facevano solo vomitare.

Finalmente arrivò il nove luglio. La sera dell’appuntamento da Fulcaniello, anche dopo il tramonto, il caldo si appiccicava addosso afoso e molliccio, e nei vicoli che portavano alla casa dell'esoterista non c'era un filo di vento. Quando arrivammo su da lui, la porta era già aperta, perché, come ci disse poi Fulcaniello, lui ci aveva "sentiti arrivare già da un'ora". Le scale della casa erano di piperno corroso e slabbrato, e nei muri portanti si vedevano le iniezioni di cemento fatte all’epoca del terremoto. Per la scala non c'erano lampade, e dovemmo salire facendoci luce con una pila che Morvo si era parlato  dietro insieme a un coltello, "pecché nun se pò mai sapé!" La casa di Fulcaniello sembrava vastissima, e dislocata su due piani, perché girammo per molte piccole stanze semibuie inerpicandoci poi per una stretta scala di legno, che portava alla "stanza delle forze", dove trovammo Fulcaniello che sbatteva col dorso della mano su quella che sembrava una specie di enorme carta geografica che ricopriva tutto il tavolo.
<<Venite, venite. Vi aspettavo. E ho trovato dove abbiamo fatto l'errore ... Errore gravissimo, che vi poteva costare, eh! E costare caro!»
Sul tavolo c'era stesa una mappa. Di quella mappa avevo già sentito parlare da Landrò e Morvo: era una mappa disegnata da Fulcaniello per identificare "i luoghi del potere" su cui si poteva far agire l'energia psichica.
«Eh, il ragazzo ha ragione. 'A teoria è buona veramente.
La materia e lo spirito ... Chiedo scusa, come dite voi? La psiche ... La materia e la psiche sono in collegamento, e la psiche ha la stessa energia della materia ... Anzi, di più, molto di più ... Perché anche la materia è spirituale ... »
Però la Tradizione ci diceva che c'erano punti su cui era più facile agire sulla materia, punti dove "le porte" per quegli universi di energia erano già mezze aperte. Solo che Morvo e Landrò avevano fatto "due errori": uno, quello di andare senza di lui, e secondo, quello di usare gli aghi, che erano un sistema ancora troppo materiale. Ma c'era stato pure un terzo errore, e Fulcaniello lo sottolineò battendo di nuovo col dorso della mano sulla mappa.
«Qua, vedete? Se la stella deve stare con la punta di sopra verso nord, allora il Fusaro non c'entra per niente.»
Sulla mappa era disegnata a matita una stella a cinque punte, ma era semicancellata. Spostata rispetto a questa ce n'era un'altra, marcata in rosso, le cui punte indicavano Cuma e il lago Patria a sinistra, il Vesuvio e Nola a destra, e nella punta superiore Capua.

«Abbiamo sbagliato angolazione! Anche per questo l'operazione non è riuscita. Eh, io ve l'avevo detto.»
Ma qui cominciarono le contestazioni colleriche di Morvo, e, anche se più sfumate, quelle dello stesso Landrò. Di chi era stata l'idea degli aghi? Non era stato lui ad averla? E era poi sicuro che ora la stella si dovesse orientare a nord? E il punto di forza in alto non doveva essere, come aveva sostenuto lo stesso Fulcaniello l'altra volta, la chiesa di Sant'Angelo in Formis? E poi l'errore più grave poteva consistere proprio nell'orientamento della stella: perché se invece la punta della stella cadeva a sinistra, cambiavano anche gli altri luoghi dell'energia! Fulcaniello controbatteva che queste cose non ci riguardavano, e lui aveva già fatto uno strappo alle "sacre regole" lasciando che vedessimo la mappa. E poi, cos’era questa storia? Forse non si fidavano più di Gerolamo Fulcaniello?
Ma un'osservazione di Landrò lo precipitò di colpo nello smarrimento: così com'era, il disegno non faceva cadere il litro della stella, il pentagono, nella città di Napoli: e Fulcaniello stesso aveva detto più volte che proprio nella città ,vanno distribuiti i luoghi dell'energia più propizi.
«Sì... Aspetta, aspetta ... È vero! Com'è possibile? Ah, le forze nemiche hanno lavorato sotterraneamente, le mie difese non sono servite a niente!»
Allora si voltò verso Morvo, rabbioso, e gli picchiò col dito il petto, senza riuscire a parlare. Fulcaniello era di statura piccolissima, quasi un nano, risecco e tutto ossa, e per toccare il petto di Morvo doveva alzarsi sulle punte dei piedi, scoprendo sotto la vestaglia delle lucidissime scarpe nere con il tacco appuntito.
Tu! Tu! Tu hai nominato la mia strada ... È colpa tua, mi hai rovinato! Come mi sono fidato? Ah, i nemici adesso stanno in  casa mia!» .
Si rivolgeva anche a Landrò, sostenendo che lo avevano dietro insieme a un coltello, "pecché nun se pò mai sapé!" La casa di Fulcaniello sembrava vastissima, e dislocata su due piani, perché girammo per molte piccole stanze semibuie inerpicandoci poi per una stretta scala di legno, che portava alla "stanza delle forze", dove trovammo Fulcaniello che sbattteva col dorso della mano su quella che sembrava una specie di enorme carta geografica che ricopriva tutto il tavolo.
<<Venite, venite. Vi aspettavo. E ho trovato dove abbiamo fatto l'errore ... Errore gravissimo, che vi poteva costare, eh! E costare caro!»
Sul tavolo c'era stesa una mappa. Di quella mappa avevo già sentito parlare da Landrò e Morvo: era una mappa diseegnata da Fulcaniello per identificare "i luoghi del potere" su cui si poteva far agire l'energia psichica.
«Eh, il ragazzo ha ragione. 'A teoria è buona veramente.
La materia e lo spirito ... Chiedo scusa, come dite voi? La psiiche ... La materia e la psiche sono in collegamento, e la psiiche ha la stessa energia della materia ... Anzi, di più, molto di più ... Perché anche la materia è spirituale ... »
Però la Tradizione ci diceva che c'erano punti su cui era più facile agire sulla materia, punti dove "le porte" per quegli universi di energia erano già mezze aperte. Solo che Morvo e Landrò avevano fatto "due errori": uno, quello di andare sennza di lui, e secondo, quello di usare gli aghi, che erano un siistema ancora troppo materiale. Ma c'era stato pure un terzo errore, e Fulcaniello lo sottolineò battendo di nuovo col dorrso della mano sulla mappa.
«Qua, vedete? Se la stella deve stare con la punta di sopra verso nord, allora il Fusaro non c'entra per niente.»
Sulla mappa era disegnata a matita una stella a cinque punte, ma era semicancellata. Spostata rispetto a questa ce n'era un'altra, marcata in rosso, le cui punte indicavano Cuuma e il lago Patria a sinistra, il Vesuvio e Nola a destra, e nellla punta superiore Capua.
«Abbiamo sbagliato angolazione! Anche per questo l'opeerazione non è riuscita. Eh, io ve l'avevo detto.»
Ma qui cominciarono le contestazioni colleriche di Morrvo, e, anche se più sfumate, quelle dello stesso Landrò. Di chi era stata l'idea degli aghi? Non era stato lui ad averla? E era poi sicuro che ora la stella si dovesse orientare a nord? E il punto di forza in alto non doveva essere, come aveva sosteenuto lo stesso Fulcaniello l'altra volta, la chiesa di Sant'Angeelo in Formis? E poi l'errore più grave poteva consistere prooprio nell'orientamento della stella: perché se invece la punta della stella cadeva a sinistra, cambiavano anche gli altri luooghi dell'energia! Fulcaniello controbatteva che queste cose Ilon ci riguardavano, e lui aveva già fatto uno strappo alle "sacre regole" lasciando che vedessimo la mappa. E poi, coos'l:ra questa storia? Forse non si fidavano più di Gerolamo hllcaniello?
Ma un'osservazione di Landrò lo precipitò di colpo nello ',marrimento: così com'era, il disegno non faceva cadere il , l'litro della stella, il pentagono, nella città di Napoli: e Fulcianello stesso aveva detto più volte che proprio nella città ,hanno distribuiti i luoghi dell'energia più propizi.
«Sì... Aspetta, aspetta ... È vero! Com'è possibile? Ah, le l, forze nemiche hanno lavorato sotterraneamente, le mie difese non sono servite a niente!»
Allora si voltò verso Morvo, rabbioso, e gli picchiò col dito nel il petto, senza riuscire a parlare. Fulcaniello era di statura bassissima, quasi un nano, risecco e tutto ossa, e per toccaaI,' il petto di Morvo doveva alzarsi sulle punte dei piedi, scoprendo sotto la vestaglia delle lucidissime scarpe nere con il tacco appuntito.
l,Tu! Tu! Tu hai nominato la mia strada ... È colpa tua, mi hai rovinato! Come mi sono fidato? Ah, i nemici adesso stanno in casa mia!» .
Si rivolgeva anche a Landrò, sostenendo che lo avevano tradito, tradito. Avevano consegnato il nome di casa sua ai suoi "nemici occulti", e ora per lui c'era la rovina, solo la rovina, che lo aspettava. Morvo lo lasciò parlare per un poco, poi disse che se non la finiva lo faceva fuori là, con le sue mani, e gli faceva pure "magnà 'sta munnezza 'e mappa". Ma Fulcaniello non se ne dette per inteso.
«Siamo in pericolo, tutti. Non vi rendete nemmeno conto di quello che può accaderci ... Insensati, insensati e pazzi!»
A un tratto, mentre girava intorno al tavolo, si sentì un boato, e il pavimento tremò, tremò la mappa sulla tavola e il lampadario si mise a oscillare.
«'O terramoto! È 'na scossa 'e terramoto!»
«No! No! Ignorante, guarda, guarda in strada ... Che ci veedi? Qualcuno fugge?»
Si udì di nuovo il boato e la stanza si mise da capo a tremare. Noi tre eravamo tutti alle finestre che si aprivano a destra e a sinistra di un angolo. E veramente in strada la gente sembrava tranquilla, e nelle case di fronte nessuno pareva essersi accorto di nulla.
«Non credono a Fulcaniello, non ci credono ... Sono le for- r ze, i nemici. .. Per colpa vostra si è aperta una breccia nella mia difesa ... Ci sta solo una cosa da fare, e presto ... Zinàaa! Zinàaa! Zinàaa! ... Voi non vi muovete da là, sì, là, vicino alll'angolo ... Non uscite da questa stanza, o sarete in pericolo di vita ... Zinàaa!»
La porta allora si aprì, proprio mentre si faceva di nuovo sentire il misterioso boato e il rollìo del pavimento, e entrò la persona che Fulcaniello aveva chiamato.
«Questa è Zinaida, mia moglie ... È russa, russa nobile, fiiglia dell'esodo e dell'apocalisse rossa ... Ma vieni, vieni subito, siediti ... No, qua.»
Zinaida Fulcaniello era una donna dall'età indefinibile, e di una grassezza smisurata. Per fare i pochi passi che separavano la soglia della stanza dalla pesante sedia che Fulcaniello ora si affrettava a sistemarle dietro, ci aveva messo allmeno un minuto. Aveva i capelli tirati all'indietro in una orrdinatissima crocchia, e gli occhi forse chiari si intravedevaano a malapena, annegati in una faccia che traboccava da tutte le parti, tremolante a ogni minimo movimento. Portava alle orecchie dei lunghi e pesanti pendenti di forma bizzarra, che terminavano in una pietra che sembrava uno smeraldo. Sul petto le ricadeva una sorta di collana a più fili che sci nnlillava di pietre. Pareva semiaddormentata, o sul punto di star sprofondando nel sonno.
«Mettetevi qua, qua attorno ... Sì, così...»

Fulcaniello liberò il tavolo dalla mappa e ci fece disporre intorno, mentre di nuovo si faceva sentire il boato e il sobbbalzare del pavimento. Dovemmo unire le mani in circolo, e a me capitò di tenere la mano enorme e molle di Zinaida.
«Concentratevi! Concentratevi!» sussurrò Fulcaniello. «Dormi, Zinaida, dormi. Te lo ordino!»
L'ordine di Fulcaniello non sembrava necessario, perché la donna, appena posatasi sulla sedia, aveva già reclinato la lesta all'indietro, e le palpebre le avevano completamente coperto gli occhi. Landrò e Morvo sembravano davvero preoccupati, e dovevo ammettere anch'io che quei boati e il continuo rollio, che pareva colpire solo noi, erano inspiegabili. Zinaida a un certo punto fu scossa come da una scarica, e una voce cavernosa chiese: "Chi è che mi convoca?".
Cominciò allora un serrato dialogo tra Fulcaniello e la voce,  dialogo del quale a noi arrivavano solo parole staccate: "nemici", "lo scatenamento", "i padroni delle porte" o forse "della sorte", "lui", "le tre parole" ... Finché la voce tacque e si sentì netta, ma incomprensibile, la voce di Fulcaniello che gridava forse tre parole, e subito dopo diceva alla moglie:
"Ora ti puoi svegliare. Svegliati, te lo ordino". Intanto il tremito del pavimento sembrava essersi placato, lentamente la donna aprì un poco le palpebre, e potemmo slacciare le mani. Ma distinta si udì ancora una voce, che era quella naturaale della moglie di Fulcaniello.
«Fulcanie', tengo famme ... Fulcanie', famme magnà ... Ma mo', subbeto, nu' pozzo aspettà!»
Fulcaniello voleva farla rialzare, ma Zinaida non si muooveva. A un tratto la sua mano coperta di anelli si strinse inntorno alla gota di Fulcaniello e la donna sollevò l'uomo da terra come fosse stato un pupazzo, ripetendo: «Fulcanie', aggia magnà mo'! Subbeto!»
Fulcaniello. liberato, corse di là per ritornare due minuti dopo con una pentola alta che reggeva a fatica, e che posò sul tavolo davanti a Zinaida.
«Piglia tutte 'e ccose!» ordinò ancora Zinaida, e, caccianndo da una tasca del suo mostruoso giubbetto di velluto un cucchiaio gigantesco, cominciò a mangiare direttamente dalla pentola una collosa pasta e fagioli.
Fulcaniello Faceva appena in tempo a portare pentole di spezzatino, braciole al ragù, peperoni imbottiti, polpette, innsalate di polipo, che Zinaida già aveva fatto sparire tutto con il suo cucchiaio, e spingeva di lato la pentola o la zuppiera. Morvo se ne voleva assolutamente andare, o almeno prendeere a calci "chella chiattona", ma Landrò lo trattenne. Alla fiine Zinaida si fece portare una "guantiera" di sfogliate ricce e [Tolle, che ingoiò una alla volta come se fossero state pillole. Si pulì la bocca con un minuscolo fazzolettino e, lentamente come era arrivata, sostenuta da Fulcaniello, lasciò la stanza.
Quando Fulcaniello tornò dentro ammucchiò tutto in un angolo, mettendo le pentole in mezzo ai libri e agli strumennti, e riaprì di nuovo la mappa sul tavolo.
«Zinaida fa un grande spreco di energia, dovete scusarla ...
Le forze erano molto pericolose. Ma lei è meglio di Staniislawa Tomczyk ... Sì, la grande Stanislawa, la medium polaccca. Zinaida è superiore! Eh, senza di lei non saremmo riusciti a sconfiggerli... Però questa puzza di pasta e fagioli ... »
Andò verso la porta, poi ci ripensò e rivenne vicino al taavolo. Ma Morvo e Landrò si erano impadroniti della mappa, l'indicavano col dito le probabili direzioni della stella. Fulll'uniello cercò di inserirsi, ma Morvo lo minacciò: «Mo' faccio io! 'A vulimmo fernì? Qua dobbiamo fare gli uomini!»
«Sì, ho capito ... Ma la questione della stella è risolta.» "Ma statte zitto nu poco!»
«Ragazzo, taci! Ti ho detto che è risolta.»
Fulcaniello riuscì ad accostarsi di nuovo al tavolo e cominciò a illustrare la sua nuova idea. La stella era posizionati bene, ma doveva essere calcolata su una superficie nuova, più piccola, che rientrasse nei confini della città. Lui e Morvo allora cominciarono a scribacchiare direttamente sulla mappa, ma Fulcaniello si innervosiva, perché secondo lui Morvo non adoperava i simboli numerici giusti. Morvo replicava tenendolo col braccio teso lontano dalla mappa, che intanto andava riempendo di formule che poi, rabbioso, cominciava, dicendo che era tutta colpa di Fulcaniello se sbagliava i calcoli, e che nessuno di noi capiva la matematica. Allora Fulcaniello lo sfidò a una gara di calcolo mentale, invitando Morvo a sottoporgli equazioni e calcoli di analisi matematica. E dopo un poco Morvo, a bocca aperta, dovette arrendersi all'evidenza: Fulcaniello, che di matematica sembrava veramente non capire niente, era però in grado di effettuare calcoli molto complessi a grande velocità.
Ora Fulcaniello sembrava essersi del tutto ripreso. Scostò ,'on un gesto altero lo sbalordito Morvo dalla mappa e, inforcati gli occhiali, si mise a disegnare sulla mappa strane sequenze di numeri e lettere, borbottando che quello non era niente ancora, e lui poteva fare molto di più. Ma dovevamo farlo lavorare, perché se no non saremmo mai arrivati a una soluzione. Lui ora sarebbe restato in piedi tutta la notte anche per noi, e se le potenze lo aiutavano, forse in pochi giorni, o domani stesso, avremmo avuto in mano le chiavi di "quell'altra parte". Adesso era sicuro della strada da seguire.
<<È il quartiere Stella, nella Sanità, era così facile. È là che deve cadere la punta della stella con i luoghi dell'energia ... Si deve solo vedere come dev'essere l'inclinazione, perché se no una punta va a finire di nuovo a mare ... »
Lo lasciammo che fissava la carta ormai scarabocchiata da tutte le parti mentre ripeteva che una punta non poteva finire a mare, e quella che cominciava sarebbe stata una notte giusta ...

Fuori, per i vicoli, si sentivano i motorini accelerati al massimo, e la puzza di frittura si mischiava agli scarichi delle macchine e ai richiami sguaiati. lo e Landrò non riuscivamo a spiegarci la faccenda dei boati e del rollìo. Il terremoto lo avevamo sentito veramente? E com'era possibile che spio noi ce ne fossimo accorti? O forse era che il terremoto ce l'avevamo nel cervello? Morvo ci ignorava, camminando più avanti, agitato, e presto ricademmo nel silenzio. Dopo un po' senza salutare, con la testa affossata nelle spalle, Morvo se ne andò, sibilando tra i denti che se Fulcaniello non faceva quello che doveva fare, lui lo ammazzava a coltellate. Salì di fianco al Policlinico quasi di corsa, mentre noi scendevamo stancamente giù per i Tribunali.


I "pochi giorni" che Fu1caniello aveva posto come limite alle ricerche si moltiplicarono. Intanto l'esoterista andava rivelando un carattere molto meno semplice di quanto avessimo pensato la prima volta, e ci appariva bizzarramente certe  volte io e Landrò parlando di lui avanzavamo l'ipotesi che i  tratti che a noi apparivano ridicoli, da spiritista di terz’ordine, fossero in realtà solo una copertura da lui prudentemente adottata per non svelare appieno la sua reale forza. Lo stesso Fulcaniello una volta si era lasciato sfuggire una frase dell'autore delle Dimore filosofali che condannava un’ opera scritta o comportamento dove si svelassero in modo palese i "segreti dell'arte". E se anche l'aria così poco magica di Fulcaniello fosse stata una maschera? Del resto quella specie di terremoto che aveva colpito quella sera solo la sua casa era rimasto inspiegato, e così la facoltà che Fulcianello aveva dimostrato di possedere al più alto grado: il calcolo mentale.
Ma Fulcaniello ci sorprese una sera anche con la storia della moglie. Quella che lui chiamava Zinaida, abbreviandone spesso il nome in Zinà O Zizì, non si chiamava veramente cos’. Il suo vero nome era Pasqualina Pozzo, "in arte Zizì, soubrette di café-chantant". Fulcaniello l'aveva conosciuta molti, molti anni prima, e ne aveva divinato, a suo dire, le capacità medianiche. Lui le aveva detto chiaramente che la sposava per fare di lei una medium, e per nessun'altra ragione. Un "vero mago" disse accigliato Fulcaniello, non poteva certo dissipare la sua forza in "infantili giochetti corporali", e doveva restare rigorosamente casto. Zizì si era lasciata convincere a sposarlo, ma appena fuori dal café-chantant, era sprofondata in una paurosa bulimia, che l'aveva condotta a essere come ora potevamo vederla. Ma la cosa davvero sconcertante, ci confidò un giorno Fulcanielo, era che in lei
riviveva Zinaida Gippius, la poetessa e spiritista russa, e lui, Fulcaniello, ne aveva delle prove certissime.
«Prima di tutto, l'età. Avete fatto caso alla sua pelle, qualche volta?»

Noi dicemmo di sì, e che appariva straordinariamente giovanile rispetto all'enorme grassezza e alla probabile età che aveva. Soddisfatto, Fulcaniello si fregò le mani e, come parlando a se stesso, disse che lui aveva anche altre prove, ancora più sicure.
«Non pretendo che mi crediate, ma posso dirvi che Zinaida ha più di cento anni. Molti, molti di più! ... Questo però è, un argomento su cui non voglio più tornare.»
Era uno scherzo? Fulcaniello si prendeva gioco di noi, e continuava la sua mascherata? Era difficile districare in lui il serio dal ridicolo, il possibile dall'impossibile. Una sera ci riferì anche che lui e sua moglie, anni prima, su richiesta di alcuni aristocratici russi, avevano fatto parlare il poeta Alessandro Blok e l'altro, quello che gli voleva togliere la moglie ... Ah, sì, Andrea Belyj ... Si chiamava così, no? Landrò a sentire questo scattò su a dire che lui non ci credeva, ma se era vero dovevano evocarli di nuovo, davanti a noi. Fulcaniello accettò, e disse che avremmo tentato una "evocazione" quella sera stessa.
Ma la seduta, nonostante l'assenza di Morvo, richiesta esplicitamente da Fulcaniello, fu un fallimento. Nel suo dialetto strettissimo Pasqualina-Zinaida vomitò fuori solo una serie interminabile di ingiurie. I tre rappresentati dalle sue voci - Blok, Ljuba e Belyj - sembravano vaiasse o zoccole che si scannano a un angolo di via. Solo a tratti dal garbuglio voci sguaiate uscivano mozziconi di frasi che parevano in russo, e brandelli in un italiano sfigurato da una profonda cadenza dialettale: "Boia caro, devi capire" ... "Ascolto una musica inaudita" "Hai avuto le dieci libre di zucchero, Ljuba carissima?" "Non temo la tenebra notturna" ... "Sì, è stato Vladimir Sergeevic Solov'ev" ... "Caro fratello, stimatissimo Aleksandr Aleksandrovic!" ...
A questi lacerti di frasi, la voce, anzi le voci di Pasqualina sovrapponevano frasi concitate, frenetiche, sconcitate: " 'O mistico? 'A bellissima dama? Isso è ricchione e è 'na zoccola!" ... "'E poeti nun so' bbuoni ... Che ti credee\'i) Scema!" ... "Adda murì! 'Nn. palla dint' 'a capa. lo 'o spaal' ,! ..... "Me ne vaco io, io ... Sì! faccio 'a soubbrette, che c'hai dai dire:, Sasà?" ... "Sì, sì, te piace 'e fà 'a schifosa! Schifo'!" ... "Anarr\ Il ismo mistico? E che è? Tu si' sulo nu pagliaccio ... ".
Zizì faceva tutte le parti: una vocetta melliflua di donna, di suono metallico e appena roco, e un isterico falsetto. Alla fine della seduta Zizì precipitò come in un marasma, sembrava che i tre venissero alle mani tra loro, si sfidavano a dirglielo, si sparavano, si lanciavano improperi da carrettieri. Si capiva che Belyj voleva a tutti i costi andare a letto con la moglie di Blok, e che lei ora diceva di sì e ora lo prendeva per fesso, mentre Blok le recitava versi in cui la paragonava alla "Santa Vergine" e le affidava "la salvezza dell'umanità".Quella sera Pasqualina-Zinaida mangiò ancora più delle altre volte, e Fulcaniello dovette correre in una pizzeria vicino a casa sua per ordinare, dopo il gelato che la moglie si era risucchiato direttamente dalla vaschetta, tre pizze sovrapposte un vassoio di calzoni imbottiti e una busta enorme di zeppole fritte e panzarotti.
La seduta spiritica ci disgustò profondamente. Era quello l'uomo che diceva "no ai giorni del presente"? E la bellissima dama era solo un'oca senza cervello? Non era quella, non erano quelle le voci che avevamo sentito noi. Le nostre parlavano di "simboli arcani", di un "cerchio non aperto", di uno "stregato tenebroso amore" ... Dov'era "la musica di altri mondi" in quel guazzabuglio? Erano rimaste solo l'umiliazione, la sporcizia, la cupezza, la miseria. Di evocare Blok e tutta la compagnia non ne parlammo più. E a un certo punto, che Zizì fosse o no l'incarnazione di Zinaida Gippius, concludemmo, forse era meglio non scoprirlo mai.
Lo spiritismo si confermava come una cazzata: ma la "trasformazione" operata dalla "magia fisica" a cui a volte accennnava misterioso Fulcaniello? Quella sembrava interessante, e si poteva collegare a Nietzsche, a certi passi incomprensibili di Così parlò Zaralhustra e alla teoria della volontà di potenza. E Fulcaniello ci prestava i libri di Agrippa, del conte di Saint-Germain, di Nicolas Flame!' di Eliphas Levy e di tutti gli altri. Voleva sapere che cosa ne pensavamo, e le discussioni giravano ostinate intorno a un chiodo fisso: era da interpretare alla lettera, tutto ciò? O si trattava solo di esperienze interiori? E cos'era esattamente che si trasformava nell'opera magica? E soprattutto: la realtà, la bestiale realtà, esisteva davvero? Qui Landrò si ritrovava nel suo elemento. Lui e Fullcaniello potevano stare ore intere a rigirarsi una frase, a spremerla, a rivoltarla, facendole dire tutto e il contrario di tutto. Morvo invece non veniva quasi più da Fulcaniello, perché secondo lui quelle discussioni erano cose "da ricchioni", e Fullcaniello invece di "sbariare" con noi avrebbe fatto meglio a perfezionare la mappa. E poi lui aveva scoperto uno scritto di un allievo di Fantappiè che modificava alcuni dei suoi calcoli, e ora doveva riordinare le schede. Comunque, se il vecchio pazzo non finiva presto la mappa, lui gli apriva la pancia, e dopo faceva lo stesso pure con noi.
Ma Fulcaniello andava avanti. A volte si lamentava della posizione esoterica di casa sua.
È un luogo di forza, sì, perché qua ci sono stati i maghi egiziani. Ma è anche situato troppo vicino alla cappella di Rai mondo di Sangro, il principe di Sansevero, e l'equilibrio allora si rompe. Non ci sta più equilibrio, niente più. Ma 'o principe ... »
Quando era particolarmente nervoso, Fulcaniello si lasciava sfuggire anche lui qualche parola in dialetto, e la questione del principe di Sansevero era di quelle che lo innervosivano.
«Eh, 'o Cristo velalo è importante. La statua che fanno vedere non è quella autentica ... No, no! Quella vera non sta più nella cappella.»
Secondo Fulcaniello il "vero" Cristo velato concepito da Raimondo di Sangro giaceva a grande profondità, "da queste parti", in una cava dove ardeva il Lume Eterno che Raimonndo di Sangro era veramente riuscito a costruire. Sì, perché quella era una cosa che nessuno sapeva. Tutta la cappella Si mise vero era solo uno specchietto per le allodole, fumo negli occhi. Il principe la vera cappella l'aveva costruita sotto terra. E là dentro ci stava il Lume Eterno, una lampada dall'energia inesauribile che realizzava il sogno del moto perpefilo. E secondo noi qual era l'energia con cui funzionava il fiume, eh? "Energia spi-ri-tu-a-Ie", scandiva Fulcaniello. E lo Sapevamo l'enorme quantità di energia che il Lume Eterno risucchiava per funzionare? Quella era tutta forza in meno a cui poter attingere per il nostro tentativo ...
Ma lui non sapeva queste cose quando si era stabilito là? gli chiedevamo. Eh, lui sapeva tutto, ma aveva fatto un piccolissimo errore di calcolo, e comunque noi che dovevamo capire di quelle cose? Aveva già parlato troppo. E poi non ci dovevamo preoccupare, perché nonostante il risucchio di energia, il lavoro della mappa proseguiva. E questo doveva essere l'anno buono.
«I calcoli dicono che è l'anno giusto. I due nove che si accoppiano al centro, e i due uno ai Iati È una simmetria perfetta. E quanto fa nove e uno? Dieci E dieci è numero di perfezione. Ma il giorno, eh, quello è più difficile da calcolare ... Ma ci sto vicino, molto vicino.»
Così le discussioni sull'energia riprendevano. Per Fulcaaniello, Morvo su questa cosa aveva assolutamente ragione. L'energia psichica era equivalente a quella fisica, e la materia non contava niente. Così solo quella che si poteva suscitare con mezzi non materiali era la vera energia, l'energia inesauribile. L'uovo mitologico che scoppia, e da cui esce il mondo, non era una fantasia: l'uovo alchemico conteneva la materia prima, cioè l'energia che rompeva tutte le barriere e "faceva nascere le cose". Non lo aveva detto anche Nietzsche? "Una forza più grande cresce, e un nuovo superamento. Grazie ad essa si frantumano l'uovo e il suo guscio ... " Non era così? L'aveva scritto in Così parlò Zarathustra, e Nietzsche di energia ne capiva, no? Ma tutti si erano sbagliati nel raffigurare quello che c'era dentro l'uovo: solo lui, Fulcaniello, aveva trovato un accenno: oscuro agli altri ma evidentissimo per chi sapeva capire, una traccia che spiegava tutto.
«E dall'uovo lo sapete che esce? Ve lo riuscite a immaginare? ... Dall'uovo che scoppia spunta un fungo ... Eh, nu fungo ... »
Ci faceva vedere un'antica incisione con questo fungo e la didascalia che diceva "nato in una sola notte". E cos'era quella forza che faceva nascere il flmgo se non l'energia atomica? Anzi, qualcosa di molto più potente.
«E che vedete, qua? 'O sole! 'O l'fuoco! L'energia primordiale dello spirito ... »
La cosa per lui non aveva bisogno di commenti. E la stella, la "stella fiammeggiante" e quel sole-fungo erano esattamente la stessa cosa: il centro di tutta l'energia che aveva fatto nascere il mondo dallo scoppio dell'uovo, e che ora si era immagazzinata in particolare in certi luoghi. E non c'erano dubbi, non ci potevano essere dubbi: quell'energia noi l'avremmo trovata.


In realtà io e Landrò ci rendevamo conto di esserci messi da soli in un vicolo cieco. Sarebbe finito tutto nelle sedute spiritiche e nelle intenninabi1i discussioni sull'interpretazione da dare al Saggio sulle visioni di spiriti e al Grande Arcano? O Fulcaniello e Morvo sarebbero davvero riusciti a suscitare l'energia di cui erano a caccia? Morvo ci minacciava in continuazione di ammazzarci, o di ammazzarsi lui sotto i nostri occhi, e più di una volta ~Iveva tirato fuori il coltello dicendo che doveva fare un buco nello stomaco di Fulcaniello, e dopo avrebbe pure sgozzato quella fogna della moglie facendole uscire dagli occhi tutta la roba che si ingozzava. Ma continuavamo a dire che, certo, anche se pareeva impossibile e pazzesca, la cosa non poteva essere trascurata. E poi nessuno di noi voleva fare la figura del vigliacco, di quello che si tira indietro per paura. Landrò se ne usciva fuori di continuo con l'esempio "psicologico" di Yeats. Chi era Yeats prima di L'ntrare nella Golden Dawn, la famosa associazione esoterica? Solo un poeta come tanti, anzi "anche più fesso". Era diventato WiIliam Butler Yeats solo grazie alle forze occulte, e con l'aiuto (kgli "istruttori" evocati dalla moglie medium.
Ma non credeva veramente alla favola delle "facoltà", delle "fasi cicliche", delle"tinture" e a tutte le farneticazioni di una Visione? gli obiettavo debolmente. Non ci credeva neanche per il cazzo, rispondeva Landrò, ma mi ricordavo del passo sulle energie? Come diceva? "Le cose che vengono dal soprasensibile danno volontà", e Nietzsche aveva scritto che "volere libera". E questo era importante, la volontà era il problema dei problemi, o no?
E così tornammo a leggere Yeats, ad aggirarci nel labirinto delle "tre energie", dei "cicli" e del "tredicesimo Cono", mescolandoci la volontà di potenza, la libertà e la teoria di Morvo.
Intanto in qualche misterioso modo Morvo e Fulcaniello cominciavano a trovarsi sempre più spesso d'accordo. Fulcaniello provava a tradurre nel proprio linguaggio quelle che ormai considerava le "visioni" di Morvo, e addirittura cercava di provocarle. Una sera, alla fine di agosto, ci fu una discussione che si prolungò per ore. Aveva cominciato Fulcaniello portando il discorso sulla setta di don Sesamo, sostenendo che fino a quel momento aveva taciuto solo per "opportunità strategica".
"Eh, quelli là non sono nemici da niente. Quelli so' pericolosi. Sono guidati da comandi delle forze inferiori, questo è vero, però hanno un profondo contatto con le tenebre ... »
«1' 'o prevete l'acciro cu'.'ste mmane!» gridò Morvo facendo il gesto di spezzare qualcosa sul ginocchio.
"Eh, fosse facile! Quello là, 'o capo, don Sesamo, non è scemo. Eh, quello è il capo di una setta segreta dedita al male.» «Ma don Sesamo cita in continuazione i testi sacri.» "Appunto, perciò è pericoloso. I figli del male non sono spariti, anche se ora si chiamano Salutisti per la Salvezza. Il male non sparisce, ma si traveste da bene. E loro si travestono ... Che vi credete? Voi siete entrati in contatto con una forrza che non potete capire. Per me» e Fulcaniello fece una smorfia di disprezzo, «per me quelli sono come una manciata di sabbia, ma per voi ... »
«Cheste ccà so' strunzate, so'. A loro ci pensa questa!» disse Morvo, tirando dalla tasca dei pantaloni la pistola con cui aveva sparato a don Sesamo.
"Sì, sì... Così ti credi. Come se fosse facile uccidere un salutista! Ma comunque, ormai sono vicino alla soluzione.» Come? Aveva individuato sul serio il luogo specifico delle forze? Assalito dalle domande, Fulcaniello ci disse di fare silenzio. Cerrore principale era stato fatto con la stella.
"La stella doveva andare sotto alla città, sottoterra. Tutto quello che ci sta sopra non conta, è nelle profondità che si nascondono le forze.»
Ogni luogo geografico aveva una sua specifica forza psichica, e solo riconoscendola si poteva agire su di essa. La conoscevamo la storia di don Carlo Ulcano? Quando questo nobile napoletano era arrivato nel convento dei Girolamini, si era scatenata la fine del mondo: rumori infernali, macigni che cadevano, preti spinti a terra mentre dicevano messa, un'energia spaventosa che minacciava di distruggere tutto si era messa in moto. Ma quando l'aspirante monaco fu allontanato dal convento, di colpo i disordini cessarono. Forse Carlo Ulcano era uno stregone? No, non era don Carlo Ulcano, secondo Fulcaniello, che faceva scatenare i demoni: lui l'l'a solo il catalizzatore incosciente di "una forza di ribellione" che animava i monaci, e sotto e attorno a loro, la città.

"E allora?»
«E allora abbiamo sbagliato tutto. Questa città vive sottoterra, e così le sue energie. È chiaro?»
Nel 1656, nel tempo della peste, la fogna sotto a via Toledo, il "chiavicone", era stata inzeppata di cadaveri, materassi, piatti, vestiti, con la speranza che un' "lavarone" si portasse via tutto verso il mare. E lo stesso era accaduto con la grotta degli Sportiglioni, che ora non c'era più. Là si buttaroo110 non soltanto i cadaveri, ma pure i moribondi, e gente ancora "viva viva", solo per il sospetto che fosse stata contagiata. Era sempre stato così, la città di sopra buttava sotto tutto quello che considerava infetto.
"Ma là ci sta un'energia che farebbe scoppiare diecimila mondi: l'energia della sopravvivenza!»
Che erano, al confronto di quell'energia tutte le bombe atomiche della terra? Perché non veniva mica dai cadaveri, quella forza! Era proprio il fatto di avere sempre buttato energia sottoterra, di non averla mai adoperata nella realtà, che aveva accumulato sotto la città una forza immensa.
Si erano mai veramente 'ribellati a qualcuno, in quella viltà? O a qualcosa? Tutte rivolte fasulle, finite subito, dove l"erano quattro coraggiosi e dietro a loro il vuoto. Non era stato così nel novantanove? Le ribellioni vere quelli le facevano per il cardinale Ruffo e il Re, benedetti dal loro unico dio, " 'a panza". Sì, forse la loro era un'energia maligna, però sempre energia era. Non stavano sempre attaccati alla famiglia, tutti insieme a odiarsi felici, figli di mamma fino a quando non morivano? Quanta energia avevano risparmiato, così? E li avevamo visti come mangiavano? Pareva che da quello sciaccquarsi in continuazione la bocca di "vermicielle a' vongole" dipendesse la loro vita, che ogni boccone dovesse essere l'ultimo. Avevano subito tutto, da tutti, sempre. Eppure non schiattavano mai, sopravvivevano, si moltiplicavano. Dove l'avevano messa la loro forza? Avevano detto sempre di sì, ringraziato pure per la monnezza che gli davano da ingoiare, baciato mani e piedi a vivi e morti. Ma la tenacia, ('energia della cozza che si "zuca" ettolitri di fogna e sopravvive, da qualche parte doveva pur stare! E dove? Dove si era nascosta l'energia della sopravvivenza? Solo sotto terra, solo là c'era spazio abbastanza ... Lo potevamo forse contraddire? Erano secoli e secoli che quella gente buttava tutto sotto, lo seppelliva, lo faceva succhiare alle caverne scavate sotto la città.
«Questa città è una bomba, e noi la dobbiamo far scoppiare! » Secondo Fulcaniello, tutto il sottosuolo era un'enorme riserva. Dove aveva preso le "energie" don Raimondo per il suo Lume Eterno? Ora anche lui lo aveva capito: dalla volontà di sopravvivenza, l'unica cosa che quegli sfessati producevano.

Morvo era quasi fuori di sé. Girava attorno al tavolo e si sbatteva i pugni sul petto, sul tavolo, sul muro, dove capitava. Afferrò per un braccio Fulcaniello e si mise a ballare con lui, trascinandoselo appresso in un selvaggio pestare di piedi. Poi lo lasciò andare, dopo averi o abbracciato e baciato, e, sempre senza fermarsi, cominciò a parlare lui. Era giusto, era assai giusto. Tutta "chella munnezza" si sarebbe trasformata in energia, un'energia spettacolare! Perché se Jung "tene ragione", gridava, allora quella era l'energia che poteva veramente mettere in moto la materia. "È vero" ripeteva, "è vero!" L'altra dimensione di Fantappiè esisteva, ed era quella. E pure "Nicce 'o pazzo", non diceva che la volontà di potenza era tutto? E che la voluttà, la sete di dominio e l'egoismo erano la grande forza del mondo, l'unica potenza? Eh? Che diceva mo' Landrò? "Tutto quello che è peggiore nell'uomo è anche la sua migliore energia"! 'O profeta diceva proprio bene. E che ci stava di più potente della volontà di sopravvivenza? Morvo pareva fuori di sé, e ben presto le sue frasi Sconnesse si trasformarono in interiezioni, alzate di spalle, e in un tic che gli faceva muovere a scatti la parte sinistra della faccia come se trenlasse.
Intanto Fulcaniello aveva steso sulla tavola un'altra mappa, e ce la stava illustrando.
«Qua, vedete? Il problema è per dove entrare, in questi luoghi. Perché ci stanno nemici che tappano le uscite e gli ingressi. Ma noi ci entreremo da qui: dentro 'o Corpo 'e Napule!»
Il Corpo di Napoli, ci spiegò Fulcaniello, era proprio la zona dove ci trovavamo ora. Là, sotto piazza Nilo e tutto intorno, si concentrava la forza principale. Ma per dove saremmo scesi, e come avremmo catalizzato le forze? Fulcaniello aveva pensato a tutto. Per dove saremmo scesi, questo per  lo sapeva lui solo, perché era meglio tenerlo il più segreto possibile. Ma ci poteva dire che con noi avrebbe collaborato anche Zinaida. Solo Zinaida poteva riuscire a convogliare le energie e a resistere al loro primo urto.
«Zizì soltanto è forte abbastanza. Funzionerà da accumulatore e insieme da suscitatore ... Ma ci dobbiamo stare tutti quanti. E non ne dovete parlare con nessuno.»
L'impresa era rischiosa, non ci poteva spiegare tutti i perché, ma se volevamo ci potevamo ancora tirare indietro. Solo vite avevamo ormai poco tempo: il giorno fissato per la discesa 'l'a il venti nove del mese, e non si poteva più aspettare, perché agosto era il mese del fuoco. I suoi calcoli ormai sicuri, la somma del nove e del due dava un numero a due facce, un numero doppio che indicava la congiunzione possibile fra il Sopra e il Sotto. Non c'era più tempo, disse FuJcaniello: e solennemente ci dette appuntamento per la sera del ventinove.
Quando fummo in strada, Morvo ci ingiunse di non fare scherzi, e di presentarci in orario all'appuntamento.
«O se no ... » e batté la mano sulla tasca dove teneva la pistola, infilandosi con un guizzo in una stradina.
Per un po' proseguimmo in silenzio. Poi, come parlando a me stesso, dissi:
«È 'na strunzata, Landrò.»
«E secondo te io non lo so, eh? Ma quello non farà niente, so' mesi che parla di scendere sottoterra ... Sarà 'a solita seduta, quello fa solo chiacchiere.
«È una stronzata lo stesso.»
Sì, lo sapeva anche lui. Ma mi ero scordato di "quel pazzo scatenato" di Ciro?
Landrò si mise a sghignazzare.
«Quello ci fa a pelle! Quello ci spara prima che diciamo a! II E poi mi rendevo conto che ero contraddittorio? Ero stato proprio io a sostenere che in tutte le cose "bisogna sempre andare fino in fondo": e ora che volevo? Feci un gesto come per dire che non volevo niente, e allungai il passo per non sentirlo. Lo sapevo, che ci saremmo andati: per ozio, per vedere come. andava a finire, perché non ci facevamo mai i cazzi nostri.
Era tardissimo, e scivolavamo per i vicoli con l'aria di chi è inseguito da qualcosa, ma non si volterebbe indietro per nessun motivo al mondo. Mi sentivo come se mi mancasse il tempo di pensare, e le domande si affollavano a brandelli nella testa. Non vedevo niente di quello che mi circondava, e mi accorsi che ormai da qualche minuto ripetevo solo tra me e me, come una formula magica o un ritornello imbecille: 'o cuorpo 'e Napule, 'o cuorpo 'e Napule, 'o cuorpo 'e Napule ...
La sera del venti nove, alle undici, eravamo tutti riuniti da Furnaciello. L'esoterista dette a ognuno un paio di occhiali scuri: quando l'energia avrebbe brillato nel suo pieno fulgore, disse, gli occhiali ci sarebbero bastati a malapena per non diventare ciechi di colpo. Ma la vera sorpresa non era ancora arrivata. "Madame Zinaida", come proferì pomposamente Fulcaniello, doveva venire con noi, giù.
«Ma non doveva restare sopra a fare da accumulatore e lutto il resto?»
«Non ce la faremo mai a portarla nei cunicoli» constatò schifato Landrò.
«La dobbiamo portare sul posto. Non può riuscire, se non  Fulcaniello corse di là e ritornò nella stanza portando una specie di basso carretto di legno con sei rotelle di metallo, tre per lato.
«E questo giocattolo dovrebbe sostenere Zinaida?» «Ce la fa, ce la fa. È già sperimentato.
Più che un carretto il marchingegno era una tavola che, comprese le rotelle, non era più alta di quindici centimetri. SII di essa, a dire di Fulcaniello, Zinaida sarebbe stata trasportata nei percorsi in piano.
«Ci stanno due maniglie per farla reggere, e qua ... Qua sotto, sì, c'è una doppia corda per tirare il carretto.»
Ma non era tutto. Fulcaniello sparì di nuovo per qualche minuto, ritornando con uno zaino che a stento riusciva a trascinare. Lo posò a terra e lo aprì.

«Vedete? Ci stanno tre thermos da due litri. Zinaida potrebbe aver bisogno di mangiare ... Anzi, dopo l'esperimento dovrà assolutamente sostenersi, e abbiamo preparato un pasto caldo.»
«Ma si se schiatta p' 'o calore!» sbottò Morvo, che fino a quel momento era stato zitto.
«Lei è abituata così. È un broclino ristretto, assai tirato, con le polpettine di carne e la pastina. Così non serve il cucchiaio o il piatto, eh? Zizì mangia e beve tutto in una volta ... Ah, mi scordavo di dirvelo, ma là sotto farà freddo, un freddo tremendo.»
E da un angolo Fulcaniello portò alla luce quattro coloratissime giacche a vento imbottite, tutte a fiori gialli e azzurri, scusandosi perché era riuscito a trovarle solo così. «All'ultimo momento me l'ero proprio scordato.»
In quel momento, comparve Zinaida spalancando la porta. Aveva addosso tutti i suoi gioielli, e portava, su una gonna giallo-oro e un bolero da cui si intravedevano uscire le enormi braccia nude, una pellicca azzurro stinto a pelo lungo, che la faceva somigliare a un inverosimile animale nordico. Sentii Morvo che bestemmiava sottovoce, come in una litania, poi mi fece un cenno e prendemmo Zinaida reggendola sotto le ascelle. A Landrò fu affidato lo zaino con i thermos, e cominciammo a scendere. Ci precedeva Fulcaniello con il trabiccolo. La discesa delle scale (u tormentosa. Non ci stavamo tutti e tre su uno scalino, e a malapena ci passava Zinaida. Allora un poco la spingevamo e un poco la tiravamo, ma bisognava stare attenti a non farla capitombolare giù. Per giunta Fu1caniello ci metteva (Tetta.
«A mezzanotte! Dobbiamo entrare nel Corpo a mezzanotte! Fate presto, presto ... »
Per fortuna in strada dovemmo percorrere così non più di centocinquanta metri. Sull'acciotolato Fu1caniello ci impose di non usare il trabiccolo, per paura che si rompesse qualche ruota o il rumore ci facesse notare. Noi ci aspettavamo che, superato lo spiazzo del largo prima di piazzetta Nilo, ci saremmo fermati. E invece, sospinti dai cenni frenetici di Fulcaniello, dovemmo proseguire, fermandoci poi di fronte alla chiesa del GesLl Nuovo, che lui chiamava palazzo Sanseeveri no. Dopo essersi guardato sospettosamente intorno, Fullcaniello estrasse dalla tasca una chiave enorme, aprì ed entrammo, richiudendoci la pesante porta alle spalle.
«Lo dovevate sapere solo ora: è luogo magico, questo! Luogo di accesso alle forze segrete. Li avete visti i segni sul bugnalo? Nessuno li ha saputi decifrare, i segni, nessuno! Ve lo avevo (letto, eh? Ma Fulcaniello conosce, Fulcaniello sa, e decifra.»

Come risvegliata dal suo perpetuo dormiveglia, aprì le palpeebre e disse:
"Tengo famme! Voglio magnà!»
Da giù arrivava la voce di Fulcaniello.
«Presto, che aspettate? Dobbiamo rispettare l'ora!»
Allora Landrò prese un thermos dallo zaino, ,svitò il tappo, e dette il thermos a Zinaida. La donna lo afferrò e se lo portò alla bocca come un poppatoio, mentre noi cominciavamo a spostarla. Appena avuto il thermos, infatti, Zinaida aveva richiuso le palpebre e si era lasciata sospingere senza proteste. Le scale erano scavate nel tufo, e giravano in circolo, proprio come in un pozzo. Mentre scendevamo, con la paura di cadere o di far cadere Zizì, nel silenzio e nel buio si sentiva solo il risucchio gorgogliante del brodo che veniva aspirato e ingoiato da Zinaida. Finalmente arrivammo su una superficie in piano.
"Ora ci riposiamo un poco» disse Fulcaniello.
Eravamo sudatissimi, ma ci accorgemmo che, proprio come aveva previsto Fulcaniello, la temperatura là sotto si era abbassata di molto.
«Qui si può spingere col carro» disse Fulcaniello, mentre cercavamo di sistemare Zinaida sul carretto. Non era facile, perché la donna, inerte, lasciava cadere ora una ora l'altra coscia fuori dal carretto. Allora Fulcaniello disse che potevamo tirarla anche come stava, tanto i piedi non le servivano. Così la sistemammo alla meglio, e Morvo ebbe l'idea di legarle le caviglie insieme con uno spago, per non far cadere le gambe fuori dal trabiccolo. E ci mettemmo in marcia.

Il sudore mi si era ghiacciato addosso, e ora quasi battevo. i denti. Ma spingere il carretto con Zinaida mi fece di nuovo sentire caldo e sudare, e a ogni piccola sosta l'umidità penetrante del sotterraneo mi faceva rabbrividire. Fulcaniello pareva ripreso dall'entusiasmo, e ci incitava a proseguire: "Siamo vicini, vicini", ripeteva. Landrò non parlava, mentre Morvo sembrava riafferrato dal nervosismo. Lo sentivo mormorare a ogni passo contro Zinaida " 'sta fetenzia 'e femmeena", intercalando al ritornello frasi e gesti osceni. Ogni tanto si sfogava sferrandole, di nascosto, un calcio nella pelliccia, ma senza suscitare nella donna alcuna reazione.
Andavamo avanti. Ma già da un poco mi sentivo preso da una specie di vertigine, come se stessimo ruotando in circoolo. Lo dissi a Landrò, e lui mi rispose che provava la stessa sensazione, ma che forse era per la scarsità di aria. A un tratto Fulcaniello si fermò, cacciò di tasca la mappa e, inginocchiato a terra, si mise a consultarla. Qualcosa non andava.
"Ma questa gira!» esclamò Fulcaniello. "Gira! E invece deve essere diritta, e poi finire a angolo ... La punta, capito? La punta della stella ... »
Illuminando la mappa con la torcia elettrica, Fulcaniello L'i spiegò che quella strada, come lui solo aveva scoperto, doveva essere la via di accesso al. Lume Eterno di don Raimondo, ma qualcosa non funzionava: la stella "non si disegnava". Ci eravamo fermati in un slargo, e più avanti si vedevano I re archi, ognuno dei quali sembrava portare in una direzione: diversa. Secondo Fulcaniello prendere la strada sbagliata poteva esserci fatale.
«E mo'?» disse Morvo con aria minacciosa.
"E ora, e ora dobbiamo consultare Zinaida.» Fulcaniello .i avvicinò alla moglie e le ruotò di qua e di là la testa, più volte, per poi lasci aria andare di colpo.
"Ecco! Ecco!» disse trionfante, "la testa indica là, a sinistra. Andiamo!»
Ma Zinaida con quelle manovre si era svegliata, e dovemmo allungarle un altro thermos. Fulcaniello ora sembrava dinuovo sicuro.
« È il labirinto di don Raimondo! Ho capito! Perché non si doveva permettere a nessun profano di arrivare al Lume, e allora lui per ingannarli ha costruito un vero labirinto.»
Ma Morvo non sembrava per niente convinto, e i due cominciarono a dialogare fittamente tra loro. Fulcaniello dispiegò di nuovo la mappa, e vi si chinarono su entrambi, continuando a discutere. A un tratto Morvo scoppiò a ridere istericamente, e, tirata fuori la pistola, la fece girare sulla propria testa gridando: «1' v'acciro a tutte quante! Avite capito?»
Ora basta, gridava Morvo, ora dovevamo "fare l'uommene!", era venuto il momento. Se l'energia della sopravvivenza c'era, c'era pure là, e era solo una fisima andare a cercare il Lume di "chill'ato strunzo aristocratico!" Fulcaniello provò a spiegargli che ormai erano vicini, gli indicava un punto sulla mappa, ma Morvo non ne voleva sapere. Zinaida intanto si era messa a gridare come una gallina sgozzata.
«Tengo famme! Voglio magnà!»
Ma Fulcaniello non voleva che le dessimo un altro thermos, perché se no dopo come avremmo fatto? Il cibo per Zinaida si doveva conservare, ora non era il momento di sprecarlo. Ma Morvo si mise a urlare che lui se ne fotteva, e non ce la faceva a sentirla, e era meglio che" 'o brodo c' 'a pastina a chella cesssa" g]ielo davamo subito. Fu allora che mi accorsi che stava succedendo qualcosa. Avevo i piedi bagnati, non a causa de]]l'umido, ma proprio perché il suolo del cunicolo era coperto da uno strato di acqua. Se ne erano accorti tutti.
«Sopra sta piovendo!» disse Fulcaniello.
Ma non era possibile, aggiunse poi. Non solo la serata era limpidissima, ma i suoi calcoli non prevedevano alcuna pioggia. E allora? L'acqua pareva aumentare di livello a vista d'occhio: che dovevamo fare? Fulcaniello parlava ad alta voce, da solo. Che quello non era nei segni, e quindi non era possibile! E se passava il giorno giusto, avremmo dovuto aspettare anni e anni! Aveva ragione Morvo: dovevamo tentare subito!
Si era deciso. Senza far scendere Zinaida dal carretto, Fulcaniello ci disse di disporci in cerchio, tenendo le mani allacciate. Zinaida dopo il terzo thermos era di nuovo caduta nel sonno, e sembrava non essersi accorta dell'acqua che la bagnava.

«È una stronzata» disse Landrò, <<io me ne vado.»
«E dove? Dove vai? Non sai nemmeno per dove si risale ... » «Voi da ccà nun ve muvite! Si no i'v'acciro!»
Intervenne Fulcaniello:
«Ora basta! Dobbiamo avere la massima concentrazione.
Forza! Liberate la mente dalle meschinità, fate il vuoto, conncentratevi.»
L'acqua continuava a salire, e aveva superato il livello delle cosce di Zinaida. Cercammo di concentrarci, ma il (reddo diventava sempre più forte, e non era facile non pensare a niente. E a un certo punto Zinaida rovesciò la testa all'indietro, poi in avanti, e cominciò a russare. Inutilmente Fulcaniello cercò di "stabilire il contatto": quello di Zinaida non era uno stato medianico, ma un sonno profondo.
In quel momento si sentì Morvo che, puntando la pistola verso la donna, gridava:
«Mo' l'aggia fà fora!»
E sparò. Ma la pistola fece cilecca. Allora Morvo riprovò, puntandola su Fulcaniello, ma Con lo stesso risultato. Preso da una specie di isteria, si mise allora a frugarsi addosso ripetendo " 'o curtiello, 'o curtiello!", ma senza riuscire a trovarlo. lo e Landrò avevamo ripreso a spingere il trabiccolo, liutati da Fulcaniello. Morvo ci seguì, sempre frugandosi addosso e mescolando in una fiumana di maledizioni i neutrilIi, Fantappiè, l'energia. la pistola, l'acqua d' 'e fogne, il coltello e !'inconscio d' 'o cazzo. Ripercorremmo il cammino d'indietro, veloci per quanto ce lo consentiva Zinaida, Finchè arrivammo a una scala. L'acqua ora ci arrivava alla vita, (' quasi alla gola di Zizì, gorgogliante di pomodori mollicci, farsi di cavolo, buste di plastica, carte unte. Abbandonammo I carretto, che aveva perso una rotella, e cominciammo a salire. Ma questa volta la scala girava in una serie di zig-zag, e non a spirale, e arrivati in cima ci trovammo di fronte a una grossa porta di legno massiccio. Morvo sembrava ormai rimbecillito, e mentre io e Fulcaniello reggevamo Zinaida, Landrò cominciò a picconare la porta. Dal foro che aveva fatto riuscimmo a sollevare la sbarra che c'era dietro e ci trovammo in una palestra. La palestra sembrava la copia esatta di quella di don Sesamo, e per un lungo istante io, Landrò e Morvo restammo a bocca aperta. Il rumore doveva aver svegliato qualcuno, perché si sentirono dei passi precipitosi, e nella palestra irruppero due uomini in pantaloncini neri.
«Sono loro!» disse Fulcaniello, e rivolto a noi ci gridò di andarcene, e di portare Zinaida in salvo. A quelli della setta di don Sesamo ci pensava lui, da solo. Ma con un grido selvaggio, Morvo si era già buttato addosso a uno dei due, e gli stava mettendo le mani attorno al collo. Fulcaniello ci spinse ingiungendoci di andare, e noi, con Zinaida, ci infilammo nella porta che doveva condurre fuori. Lultima cosa che vidi prima di lasciare la stanza fu uno dei due in pantaloncini che clava pugni sulla testa di Morvo, e Fu1caniello che, con la giacca a vento a brandelli, sollevava in alto le braccia sostenendo una minuscola stella a cinque punte.
Fuori pioveva a dirotto. Eravamo usciti ai Tribunali, poco lontano dai Girolamini. Risalimmo la strada sotto gli schiaffi dell'acqua, spingendo Zinaida che camminava a passettini lentissimi. Le fogne dovevano essersi in parte otturate, perché la pioggia ci arrivava alle caviglie, e correva fangosa per i vicoli. Scivolavamo di continuo sul selciato, e ad ogni momento ci pareva di non potercela fare. Zinaida aveva ripreso a strillare che voleva "magnà", ma gli strilli si confondevano agli scrosci, ai risucchi, ai gorgoglii.
Nonostante la pioggia, l'aria era appiccicosa, pesante, calda, e ogni passo diventava una fatica immane. A metà strada la pioggia smise di frustarci spinta dal vento afoso, e si mise a cadere fine e regolare, avvolgendo tutto in un polveri o di gocce. Dovevano forse essere le tre passate quando arrivammo, stremati, su da Fulcaniello. Ci eravamo appena tolti le giacche a vento a fiori, che il lamento di Zizì riprese altissimo.
«Aggia magnà! Pe' pietà, i' me mmoro 'e famme! Uhé, uhé ... Chiste me fanno murÌ. .. Maronna mi', maronna bella ... Faciteme magnà! Voglio magnà!»

Landrò si accostò a Zinaida cercando di l'aria star zitta, la blandì come si fa con i bambini, poi perse la pazienza e le urlò che doveva rendersi conto della situazione. Ma la donna non gli prestava assolutamente ascolto, e gridava sempre più forte. Allora decisi di andare a vedere se in cucina c'era qualcosa di pronto, e mi precipitai di là mentre Landrò cercava di farla tacere mettendole uno straccio sulla bocca.
Il disordine della cucina era completo, e in mezzo alle padelle unte, al tritacarne sporco, alle pile di piatti, agli schizzi di salsa sui muri e ai mucchi di gusci d'uovo, non c'era niente da mangiare. Aprii un enorme frigorifero da macelleria e ci trovai quarti di bue sanguinolenti, agnelli interi, polli con le piume: ma tutto congelato. Dall'altra stanza arrivò un urlo feroce, era la voce di Landrò. Che stava succedendo? Di cuocere quella carne congelata non se ne parlava, allora sollevai un sacco, e sotto ci scoprii una montagna di cipolle. Senza starci a pensare sopra, riempii il sacco e lo trascinai di là. Nella stanza Landrò saltellava sbattendo per aria la mano sanguinante.
«Mi ha morso! 'Sta troia ... Ma ti rendi conto, mi morde, mi voleva mangiare!»
«Non dire cazzate, Landrò.»
«No, no! È sicuro, se non facevo in tempo mi sbranava la 111<:mo! »
Mi avvicinai a Zizì e le porsi una cipolla intera, con tutta la sfoglia esterna. Ma proprio un attimo prima che la sua bocca mi raggiungesse feroce il braccio, saltai indietro. Era vero, allora! Per la fame Zizl stava diventando una cannibale. La donna giaceva dove l'avevamo lasciata, con il dorso sul pavimento, agitando i quattro arti con i movimenti di un enorme insetto capovolto. Allora le lanciai la cipolla, cercando di centrare la bocca. Con un guizzo del braccio impossibile da prevedere in quel corpaccione, Zizì la agguantò e la sgranocchiò in due bocconi, e così di seguito con tutto il sacco. Landrò, con la mano fasciata da un fazzoletto, guardava inorridito, e io non facevo in tempo a lanciarle le cipolle che quelle sparivano, divorate dalla donna. Finché Zizì piano piano rallentò il ritmo della masticazione, eruttò profondamente, e chiuse gli occhi.
Proprio in quel momento si aprì di nuovo la porta e entrarono Fulcaniello e Morvo. Fulcaniello si diresse subito verso Zizì per controllare come stesse, poi, rassicurato dal suo torpore, cominciò a spogliarsi dei panni fradici di acqua, e si infilò una vestaglia col collo di pelliccia sul magrissimo corpo nudo. Morvo si era seduto, e batteva sul tavolo con le dita, sollevando l'occhio e l'angolo sinistro della bocca a intervalli regolari, come in preda a uno spasmo. Aveva un occhio pesto con la palpebra semichiusa, il labbro spaccato che lasciava uscire ancora un filo di sangue, e le nocche delle dita spellate.
«Come siete usciti da lì?» gli chiesi, ma lui non parve aver udito, e continuò con le sue smorfie.
«Eh, siamo usciti, siamo usciti. Voi che ne dovete sapere?
Fulcaniello ha il potere, ha ... Che vi credete?»
Fulcaniello cominciò a spiegare che cosa era andato male, ma tornava sempre sullo stesso argomento: la setta di don Sesamo.
«Chille là sono pericolosi assai... La palestra, l'avete vista?
Eh, la casa loro scende nei sotterranei ... Mo' i luoghi delle forze sono inquinati.»
Avevamo fatto un errore essenziale, disse Fulcaniello. Non ci eravamo preoccupati delle "forze nemiche". Lui aveva anche indagato, ma quelli si proteggevano con lo "schermo esoterico", e proprio perché erano "rozzi e bestiali", gli S. S. erano riusciti a ingannarlo. A lui! Proprio a lui!
«A me, a Fulcaniello ... A me!»
Non era possibile, eppure era accaduto. Quelli avevano anche loro una mappa del labirinto, però gli mancava l'ultimo pezzo, eh, quello gli mancava, perché ce l'aveva solo lui, Fulcaniello. E adesso, dopo la discesa sotto terra, la mappa era completa. Fulcaniello si mise a frugare nella sua giacca, alla ricerca della mappa, ma ne trasse dei fogli appiccicosi, ridotti Come dei cenci sbrindellati e mollicci. Si mise allora le mani nei capelli, inorridito.
<<'A mappa, 'a mappa segreta!»
Stese quella poltiglia di carta sul tavolo, ci soffiò sopra, ci alitò cercando di scollare i pezzi, ma non ci riusciva.

«Tutto da capo, tutto ... '0 labirinto ... 'O Lume ... Mannaggia 'a morte!»
Intanto la stanza andava riempendosi di un fetore pungente: era il sacco di cipolle mangiato da Zinaida che cominciava a trasudare dalla digestione. Aprimmo le finestre, ma "odore era asfissiante lo stesso. Fuori la pioggia era cessata, e l'afa entrava pesante. Ci sfregavamo gli occhi, cercando di frenare le lacrime, mentre FulcanieJJo, piangendo abbondantemente, continuava a spiegarsi. Doveva esserci stato un passaggio sbagliato sulla mappa. AI ritorno avevamo preso una strada per un'altra, perché le influenze arcane erano negative. I Salutisti per la Salvezza erano più forti di quanto avesse pensato, ma lui non si faceva intimorire ...
«lo sono Fulcaniello! Basto da solo, da solo contro tutti!» Certo, lui non si arrendeva. E là sotto ci scendeva da solo, L' senza aspettare.
«Domani! Anzi stasera stesso, contro tutti... Ma voi no, non potete venire. È pericoloso, e poi ci basta Fulcaniello ... Zizì! Zizì! ... Tu stai troppo calda ... Togliti 'a pelliccia ... Povera Zizì! Ma chili là saranno annientati. Sarà la battaglia suprema! Zero, zero, diventeranno uno zero ... E voi qui non dovete tornare più! Avete capito? Mai più! Mai più!"
Si accanì a togliere la pelliccia a Zinaida, ma non ci riusciva. Provammo ad aiutarlo, ma la pelliccia sembrava essersi incollata alla donna, e il puzzo che veniva dalla sua bocca rendeva impossibile restarle vicino a lungo.
Era quasi giorno, e Fulcaniello continuava a girare intorno a Zinaida, mescolando "l'energia" a "Zizì mia". scandendo formule magiche e canticchiando brani di canzoni napoletane per tenerla tranquilla. Morvo non si era mosso, e non mi dette ascolto quando gli dissi che dovevamo andarcene. Così scendemmo io e Landrò da soli, mentre Fulcaniello, sul pianerottolo, girava in tondo sempre più velocemente, facendo svolazzare i lembi della vestaglia come ali di un uccello notturno e ripeteva "energia". "lume", "da solo", " 'o labirinnto", "te si' fatta 'na vesta scullata" ormai senza più alcuna connessione. Proprio mentre stavamo a metà delle scale, acuto, lamentoso, risuonò ancora il grido di Zinaida: "Aggia magnà, aggia magnà, aggia magnà!".
I giorni seguenti passarono come in un continuo dormiveglia. Morvo si rifiutava di vederci, e si era rinchiuso in casa. Non ["LI possibile sapere che cosa stesse facendo perché sua madre, quando Landrò provava a chiamare, rispondeva invariabilmente: "Ciro nun ce stà". Ma Landrò mi riferì che si sentiva chiaramente la voce di Morvo che le suggeriva la risposta. Finché una volta la donna aveva dato in escandescenze, e aveva detto che "Ciruccio" suo era uscito pazzo per colpa nostra e per la vendetta del prete, e proprio ora che doveva fare" 'o concorso dint' 'e Poste!". Che volevamo ancoora "d' 'o criaturo" suo? Era meglio che non ci facevamo vedeere mai più, e se Landrò telefonava ancora, lei "chiamava 'e carabinieri". Per due settimane io e Landrò ci vedemmo pochissimo, e di sfuggita. Gli dissi che durante il giorno sentivo improvvisamente strane voci, mormorii, fischi, proprio come se qualcuno mi avesse parlato nella testa. Erano le stesse cose che accadevano a lui. Nel pieno della notte, mi confessò per telefono, si era svegliato, era sceso giù semi nudo e solo il) strada si era accorto di star camminando scalzo dietro una voce che gli ripeteva: vieni, vieni, vieni ...
Che cosa aveva fatto Fulcaniello? Era davvero andato di nuovo, da solo, "sotto la città"? lo, per me, non avevo nessuna voglia di approfondire la cosa. Mi risuonava in testa la strana  frase della madre di Morvo: " 'a vendetta d' 'o prevete" ... Che voleva dire? Di continuo mi capitava di inciampare, di andare a sbattere contro uno spigolo come se qualcuno mi avesse spinto o fatto uno sgambetto. Erano incidenti minimi che mi sforzavo di attribuire al caso, ma vivevo in uno stato di continua insicurezza, e mi imponevo di restare a letto per evitarli, fino a sprofondare in un'abulia assoluta. Ma anche lì, nello sgabuzzino, si verificavano piccoli incidenti: cadevano scatole di scarpe ben incastrate sulle mensole, si apriva l'anta di un armadio che di solito chiudeva ermeticamente, e a volte una specie di soffio si faceva sentire passandomi umido sui capelli, costringendomi a pensare al "vento dell'ala dell'imbecillità" che sicuramente mi stava fischiando nel cervello.
«Figlia mia! Povera figlia mia!»

Una nausea improvvisa mi fece barcollare, così scavalcai i detriti e li lasciai lì, con TaCito che rimproverava mia madre di avermi viziato, che a "trent'anni passati" facevo ancora il figlio di famiglia e che guardasse lui, invece: lui sì che era slato educato bene dalla "buonanima 'e mammà", da quella santa!. .. "E add6 stanno cchiù femmene accussì?" sentii anncora che diceva prima di sbattermi la porta dietro le spalle.
Una mattina mia madre entrò nello sgabuzzino e mi annunciò che dovevo sgombrare. Le modifiche dovevano andare avanti, perché se no " 'e figli miei nun se ponna spusà", afffermò. Però io potevo sistemarmi giù nello scantinato, tanto faceva ancora un caldo che si schiattava, e poi lei avrebbe aggiustato tutto proprio bene, anzi, alla fine sarei stato meglio di tutti quanti, fresco come "un pascià". lo mi rifiutai recisamente di andarmene dallo sgabuzzino, e mia madre uscì senza più dire niente. Pochi minuti dopo dei colpi tremendi rintronarono alle pareti, e nel tempo che misi a saltare dalla branda, la parete divisoria era già stata semidistrutta da due operai col piccone. Dietro di loro comparve Tauto, impeccabile nel suo completo di fresco lana e sorridente. Ma che mi saltava in mente? Volevo farmi male? E poi mi rendevo conto di che ora fosse? Alle otto la gente normale andava a lavorare, anche se io, certo, questa parola proprio non la capivo. E comunque, ora gli operai avevano da fare, e nello sgabuzzino non potevo restarci più. Mia madre dovette rendersi conto che stavo per gettarmi addosso a Tauto, perché gridò;
Da qualche giorno gli incidenti si erano fatti più rari, e sdraiato sulla branda giù nello scantinato, mi stavo abituando a pensare anche nei frastuono continuo dei lavori di ristrutturazione. Ma non riuscivo a tenere fermo il pensiero su qualcosa. Mi venivano in testa i. discorsi di mia madre a tavola, che ormai mi portava continuamente a esempio Tallto: " 'E capito, Tommasi'? Ha vinto un'altra volta al totocalcio ... Quello è 'nu genio, quel figlio mio!" E TaCito con aria modesta replicaava che no, non era un genio, ma certo lui "quello che faceva faceva", riusciva sempre in tutto. Infatti vinceva anche al lotto, al totonero, ai cavalli, e pure ai quiz delle trasmissioni televisive. Ma soldi per la ristrutturazione diceva di non paterne dare, perché aveva le spese dell'ufficio, gli impegni, e si doveva sposare "bene". Una famiglia nuova aveva bisogno di una "base solida", la vita era cara, e chi ci doveva pensare? Ci doveva pensare 'Tomme'e casa", cioè lui, Alfonso Tauto.
Io di colpo mi sprofondavo in tutt'altre questioni. Che fine aveva fatto, Fulcaniello? Era morto come un topo nel chiavicone di Raimondo di Sangro? E la setta? E Zinaida? O Fulcaniello aveva veramente trovato il lume dell'eterna energia? Ma non riuscivo a concentrarmi. Ritornava la voce insistente di mia madre: "Piglia un poco esempio da Tauto ... Lo vedi? Tu c'hai un'istruzione non indifferente, che ti manca per trovare un posto?". E poi: "Hai visto come Tauto sa fare tutto? La denuncia per la casa ... Sì, sì... Dicevano che eravamo abusivi ... No, niente più! Ha detto che ci pensava lui, e dall'oggi al domani ... Zac! Ha risolto lui tutto". Poi tornava sulla mia "furia assassina" verso il genero, giungeva le mani e si disperava. "Allora tu nu' vuo' bene a Lillina! Tu, che quando eri piccerillo facive sempe 'o bbravo! E mo' ... " Altre volte invece, mi ricordava che Tauto era "un atleta", andava a fare la lotta in palestra, e era meglio che non ci pensassi proprio, a certe "brutte cose" ...
Era quella, la realtà? Così mi chiedevo quando, a notte fonda, si sentiva altissimo il televisore portatile di mio padre, e le voci dei televisori dei vicini arrivavano a folate nello scantinato. Allora aveva ragione 'O Tolomeo? La realtà esisteva, e non si poteva ignorarla? Ogni evasione riportava più dentro nella cella, più giù, più a fondo? O erano sbagliate le strade che avevamo tentato fino a quel momento? Su un muro del garage avevo scritto con la penna tre parole: LE BARRICATE MISTERIOSE, il titolo di una sonata per clavicembalo di Couperin. Ma a me del clavicembalo e di Couperin non mi importava niente. Quelle tre parole mi elettrizzavano perché mi facevano venire in mente "i magici selciati drizzati in barricate" di Baudelaire, la guerra contro il mondo, e me le ripetevo come uno scongiuro ... "Le Barricate misteriose" ... Sì, il Maestro non aveva torto. Non potevamo fare "come se la realtà non ci fosse", ma la dovevamo prendere alle spalle e metterle lo sgambetto. Bisognava che me ne andassi da casa mia, e per farlo dovevo lavorare, non c'era un'altra possibilità. Ma appena arrivavo a questo punto, ricominciavo a cavillare. Che lavoro avrei fatto? E non ricadevo così di nuovo, in modo completo, nella trappola? I liibri del Maestro mi ritornavano in mente, a brandelli: se tutto il lavoro era alienato, lavorare non sarebbe stata l'ultima resa?
Ormai avevo smesso del tutto di mangiare con loro, di sopra. Mia madre mi portava il piatto coperto o un tegame con il cibo nello scantinato, lamentandosi che ero "il solito asociale", che mi nascondevo, che dovevo sempre creare problemi. Non lo capivo che sarebbe stato meglio per tutti, e per Lillina soprattutto, se avessi veramente fatto parte della famiglia?
«Tauto ha promesso che se hai voglia di lavorar'e, lui te lo trova, un lavoro onesto. E tu? Tu fai come se lui nemmeno esistesse. E pure con me, con noi ... Ma perché non parli? Perché? Che ti abbiamo fatto, noi? Tommasino, parla ... »
Io mi giravo da un lato, guardavo il soffitto, ma lei non la smetteva. Avevo rimesso gli occhiali da sole, e li tenevo anche nel garage. Ma né gli occhiali né il mutismo scoraggiavano le giaculatorie. E a volte pensavo di essere davvero nient'altro che un parassita, un mammista della specie più vile, quella passiva. Me ne stavo là a vivere alle loro spalle, rifiutavo il lavoro e le responsabilità, e avevo quasi trent'anni.
Di sopra ora ci salivo solo per rispondere qualche volta al telefono. Una notte aveva chiamato 'O Tolomeo, dalla Germania. Non si capiva quasi niente, la linea era disturbata da fischi l' scoppiettii, e lui non mi sentiva, Aveva trovato come "risolvere chella cosa", coi soldi si faceva tutto, e pure "chillu strunzo" dell'ingegnere si era stato zitto. Del Maestro non sapeva niente, e poi non gliene [yegava. Lui aveva progetti grossi, ora, e ci doveva entrare" 'a politica", per forza. Ma non poteva parlare, io non capivo qùelle Cose ... E a proposito, si era "chiavato" la sorella di EIsa, "sì, sì, è pure cchiù bona!" Ma con la moglie stava in pace, e la famiglia di lei aveva anche cacciato altri soldi. Ah, e lui stava sempre scrivendo" 'o romanzo", ed era arrivato Il settecento fogli. Che ne dicevo, eh? ... Poi cadde la linea, in un l'igurgito di scrosci, pernacchie, ronzii.
Avevo detto a mia madre di non passanni per nessuna ragione la Contessa, che lei si ostinava a chiamare "la signorina  Lea", e di rispondere a Gala che non c'ero, che ero malato I) partito, o quello che le pareva. Mia madre a volte obbediva, i1lli"e no, e più di una volta dovetti rispondere contraffacendo la voce e dicendo che "non ero io". Mia madre però origliava, e ogni volta spuntava da una porta dicendo che la dovevo smettere di fare lo scemo, che quella era "una brava figlia", di buona famiglia.
«Io lo so, stanno pure bene a proprietà. Perché non ti piace?
Lo vedi l'altro figlio mio? Lui sì che vuole farsi una famiglia ... »
Laltro figlio suo era Tauto, che voleva bene a Lillina, andava a messa e si sapeva pure divertire. E Gala non mi piaceva proprio? E certo, certo, era troppo perbene, e a me mi piacevano le zoccole, quella era la verità, e non capivo le brave ragazze. Eh, ma loro, lei e il "povero papà", che erano due pensionati, mica mi potevano mantenere per sempre. E se poi morivano? Una madre non si deve preoccupare dei figli suoi? ,
Io mi ero abituato al punto da non sentire nemmeno più la sua voce. Lei parlava e io pensavo ad altro, qualsiasi cosa dicesse. Soltanto di sera tardi smettevano le lamentele, il lìstuono dei lavori, i rimproveri, e rimaneva solo il rumore incancellabile dei concorsi a premi, degli squilli, degli applausi.
Era allora che la fame di bellezza mi l'i tornava in gola, come un rigurgito. L’avevo intravista, a volte sfiorata, ma come potevo ancora crederci? 'Tamore senza soldi è solo un'ignobile orgia o un dovere coniugale" ... Quelle parole mi sembrava no definitive, come una lama che mi tagliasse a metà. Niente lavoro, niente soldi: niente soldi, niente amore. Dovevo arrendermi? Lavorare? Ma risentivo la voce di mia madre: "Ti sistemi pure tu, sarebbe ora, ti fai 'na bella famiglia ... Piglia esempio, vedi a Taùto ... Quando ti decidi?", e di colpo la nausea mi soffocava, e prima di cadere in un sonno agitato, mi ripetevo ad alta voce:
"Sono in sciopero! Non lavorerò mai, mai ... ".
Quando ricominciai a vedere più spesso Landrò, era venuto ottobre. Ora Landrò era attirato da un nuovo progetto: doveva "trovare un equilibrio".

«Sarebbe?»
«Eh, sarebbe che mi devo sposare. No, è proprio inutile che fai dell'ironia, il mio non è un capriccio. Devo salvaguardarmi.»
«Io non dico niente. Solo, non è la prima volta che ... » «Sì, sì, già ci pensavo da anni. lo non agisco a caso.»
Lui ci aveva riflettuto. La sua vita era senza un ancoraggio, non aveva zavorra. E poi lui disprezzava gli intellettuali aristocratici, e voleva essere come tutti. La sua ricerca era "terribile", e aveva esitato molte volte prima di un passo simile, ma anche lui aveva diritto a una vita normale.
«Tanto, io non avrò mai una vita normale. A proposito, lo sai che fra qualche giorno è l'anniversario del compleanno di Nietzsche? Siamo nati nello stesso mese ... »
Ma lui, Landrò, non si poteva permettere di impazzire come aveva fatto Nietzsche, quella era una verità che aveva intuito già a quattordici anni, e ora ne aveva anche "le prove sperimentali". Lui non era un pagliaccio immondo, e parlava solo perché sapeva. Che io ci credessi o meno, il matrimonio era una prova molto seria, e non l'avrebbe affrontata con leggerezza.
«La leggerezza degli stronzi io non me la posso permettere!» In quegli anni aveva esplorato, "lanciato ami", e aveva scartato un mucchio di possibilità. Le aspiranti certo non gli mancavano, ma lui non poteva lasciarsi prendere come tutti dalla fregola, no, e poi aveva il suo metodo. Ancora non poteeva dirmi chi era la prescelta, ma lo avrebbe fatto sicuramente. E poche settimane dopo, a casa sua, mi fece conoscere Regina. Mi aveva già anticipato qualcosa in una lunga telefonata: lui era come Kierkegaard, e forse non poteva amare veramente ... E non per gli ignobili motivi sessuali ai quali io slavo sicuramente pensando, ma per una causa indicibile ed essenzialmente filosofica ... Anche lui avrebbe potuto scrivere come Kierkegaard sulla propria tomba "Quel singolo", che credevo? Anzi, [Ta i contemporanei, forse lui solo ne aveva il diritto! A poco a poco uscì fuori anche che Regina in realtà si chiamava Concella, ma lui l'aveva l'i battezzata Regina in onore di Regina Olsen, e come sfida al fallimento di Kierkeegaard. Per il resto non dovevo farmi ingannare dalle apparenze, e badare all'essenziale.
Regina appariva placida e indifferente, nonostante il rossore che a tratti le colori va la pelle, e non provava nemmeno più a tirare giù la gonna che le risaliva sulle cosce. Landrò a un tratto la prese per un braccio e le disse di andare un momento di là, in cucina, perché tanto quello che dovevamo dire l'avrebbe annoiata. Appena la ragazza, pigra e ubbidiente, fu uscita, lui riprese.
«Non è stata scelta a caso ... Sì, sì, io sulle cose ci rifletto.
Lo sai che cosa le ho dato da leggere? Le ho detto che se mi voleva capire, doveva assolutamente leggere quei libri. È intelligente, e ha fatto delle osservazioni acute ... "
Le aveva dato da leggere Girotondo, la Lettera di Lord Chandos, e "soprattutto" L'uomo difficile, e adesso stava stuudiando "le sue reazioni". Sì, Regina aveva grandi possibilità ... No, no, era un bene che avesse smesso di studiare, a scuola si annoiava perché aveva "un'intelligenza pratica" ... No, L'uomo difficile non l'aveva ancom cominciato, e da quello dipendeva quasi tutto. Perché lui era proprio l'uomo difficile in persona, ma non poteva dirglielo, doveva capido  da sola, altrimenti non sarebbe servito a niente farle leggere quelle cose. La ragazza l'avevo vista, no? Era giovane, aveva i denti tutti bianchi, insomma era un "animale sano" ... Sì, si erano fidanzati ufficialmente perché la madre di lei se  non la lasciava andare fuori di casa, ma a lui di tutte queste sciocchezze non gliene fregava niente. Lui doveva solo capire se Regina andava bene per il suo progetto. Suo padre ormai era inoffensivo, non avrebbe detto niente neanche se lui ne avesse fatto la propria concubina. "Il vecchio Karama si era rotto un femore, e doveva stare in camera sua SL:nza muoversi per almeno due mesi. Non si era voluto operare, e tanto meglio, che così stava segregato e non rompeva più le scatole con le sue stronzate.
L"'essenziale" era una ragazza di almeno dieci anni meno di lui, che sembrava appena uscita dalla scuola. Bruna e molto Formosa, indossava un tailleur azzurro cupo con i bottoni dorati, da collegiale. Aveva la carnagione piuttosto scura, sotto la, quale traspariva a tratti una vampa di rossore, e sullle labbra gonfie e pronunciate una lieve peluria. Il tailleur aveva una gonna strettissima che le risaliva lungo le cosce, lasciando!e scoperte per quanto lei cercasse di tirada giù. Ma il gesto, più che pudico, pareva solo distrattamente e pigramente abitudinario.
Lui ci presentò rapidamente, e poi cominciò a parlare.
Non riusciva a restare fermo sulla sedia, e si alzava in continuazione, ora facendo un rapido giro, ora avvicinandosi a me o a lei per scrutarci da vicino e vedere l'effetto che facevano le sue parole. Parlava quasi da solo, e dopo un poco la scena diventò imbarazzante. Landrò mi informava dei particolari più minuti quasi con gusto, e indicava di continuo la fidanzata col dito: la ragazza aveva ventun'anni, era diplomata alla ragioneria, "una scuola pratica", e non aveva voluto continuare. Sì, stava a casa, aiutava i genitori ... Stavano bene, avevano degli aranceti, lui era anche andato sul posto a vedere, per rendersi conto di persona.
Ogni tanto Landrò si volgeva alla ragazza chiedendole: è vero? E Regina, arrossendo, annuiva o mormorava una breve frase dalla marcata cadenza dialettale. Ma lui non la face- ' va finire, e riprendeva a parlare. Era agitatissimo, mentre
«Sta là, chiuso, a dire le preghiere ... 'E capito? 'O rusario! '0 rusario!" e sghignazzava ferocemente all'idea del padre
che sgranava il rosario. «Lui e la polacca ... Sì, si è preso una polacca imbecille, e dicono le preghiere insieme. Eh, giù non ci può scendere più, e le sue stronzate le dice alla polacca ... 'E ppatane so' bbone cotte? Sì? E magnatelle tu!»
Ma mentre rideva, la faccia gli si fece pallida, e di colpo ammutolì, sostituendo le parole con un gesto rotatorio del braccio che risultò incomprensibile. Tornando a casa non riuscivo a trattenere un sorriso pensando alla scena: Concetta, alias Regina, che a stento metteva insieme due parole sensate, preoccupata solo delle sue gambe, doveva rompersi la testa sulla Lettera di Lord Chandos o sull'Uomo diffìcile, per rispondere poi alle domande di Landrò, corrugando la [Tonte bassa e sforzandosi di capire "la ferita in suppurazioone" di Lord Chandos o il "gli uomini non mettono rigore in nulla" dell'Uomo difficile. Ma presto il sorriso mi si disfaceva sulla faccia. Intanto io stavo tornando a casa mia, allo scantinato, agli interminabili lavori di ristrutturazione, all'abulia. Quando sarebbe finito tutto questo?
Una mattina di dicembre, Landrò bussò da noi. Mia madre lo fece entrare nello scantinato. lo stavo a letto e lui in piedi, vestito con un cappotto striminzito color nocciola, e mostrava la solita impazienza.
«Perché non ti vesti?» «E perché?»
«Mio padre è morto.»
«Che cosa? Ma come è successo?» dissi, e già mi stavo vestendo. Lui però non rispose, e ci avviammo in silenzio alla fermata dell'autobus. A un tratto Landrò scoppiò a ridere, una risata isterica che si rompeva in acuti femminili.
«Ma 'e capito? Chillu strunzo! Si era fissato che lui stava bene, che la madonna di Pompei gli aveva fatto la grazia ... E diceva che si doveva alzare, si doveva vestire bene, perché allla madonna le doveva mettere i fiori freschi davanti ... »
«Chi ci stava, con lui?»
«Eh, 'a polacca. Quella gli dice di no, ma lui capotico insiste ... E che fa? Piglia e va nel corridoio, come un invasato ... "Eh, 'e ppatane so' bbone cotte!", poi si mette a strepitare che si sono scordati di accendere il lumino alla madonna di fatima sul ballatoio Allora sale lui sullo scaletta con il baslone e l'accendino Ah! Ah! Ma tu te riende conto? È caduto 'nterra e s'è rutto 'a capa!»

via i fiori? Quanti anni avevano? E perché erano venuti loro e non l'altra ditta? E come lo trovavano, il morto? Gli impieegati sembravano volerlo assecondare, ma appena Landrò si distraeva, si guardavano picchiandosi il dito sulla fronte. Poi si affrettarono a comporre il morto nella cassa, e dissero a Landrò che doveva parlare col padrone, loro non potevano più restare. I due delle pompe funebri sembrarono a Landrò "poco professionali", come mi spiegò appena se ne furono andati.

"Non sanno niente. Secondo te che pensa, un becchino?
Dovrebbe pensare cose interessanti ... »
Gli risposi che non me lo immaginavo proprio, cosa pensasse un becchino, e non me ne importava nemmeno. Regina entrò nella stanza del morto, e ci disse che dovevamo mangiare qualcosa. lo acconsentii subito, e Landrò ci seguì senza dire niente.
Io e Regina ci mangiammo quasi una zuppiera intera di mozzarella di bufala portata dai visitatori, che Landrò, dopo averla guaI-data sospettosamente, si rifiutò di toccare. Assaggiò la minestra in brodo che la polacca e Regina avevano preparato e poi allontanò disgustato il piatto. Ogni tanto la polacca si portava il fazzoletto agli occhi e se li asciugava, finché Landrò saltò in piedi urlando.
"E mo' basta! Questo è scan-da-lo-so ... Ma che chiagne?
Che chiagne a ffà? Basta! Mangia, mangia e fammi il piacere di non cacciare più fuori quello straccio ... È chiaro? Sono stato chiaro?»
La donna, fissandolo con gli occhi sbarrati, fece cenno di sì col capo. Poi, quasi di soppiatto, si fece il segno della croce, tirando su col naso rumorosamente. Landrò allora levò in aria la mano, come a scacciare via qualcosa, e lasciò la cucina. La polacca, una cinquantenne dall'aria piagnucolosa, era rimasta in piedi, con il fazzoletto appallottolato in una mano e gli occhi sgranati. Regina dovette ripeterle più volte che poteva sedersi prima che lei capisse e, meccanicamente, senza lasciare il fazzoletto, con la mano libera, cominciasse a ingoiare rumorosamente grandi cucchiaiate di minestra.
Quando lasciai la cucina per raggiungere Landrò lo trovai che sfogliava un libro e leggeva a mezza voce dei brani. Era un volume dei Fratelli Karamazov.
«Il diavolo? Ah, ah ... E chi lo dice che è stato il diavolo? Tu per esempio che ne sai? E quella là?»
Era ent~-ata anche Regina, che si era acciambellata in fondo a una poltrona e lo guardava con una faccia assente, ma con gli occhi spalancati fissi su di lui.
"Che ne sapete? E se ... Ahà! E se sono stato io a ammazzare mio padre? lo, io. Lui si era alzato, allora io l'ho portato nel corridoio e gli ho dato una spinta, uno sgambetto ... E ppà! C' 'a capa pe' terra!»
"Amore, e mo' perché dici queste brutte cose? Non hai rispetto per i morti?»
"Brutte cose? Regi', tu statte zitta ... Ahà! E quale rispetto, e che ne sapete? Sì, 'a polacca sa tutto! Ma non dice niente per paura ... Ivan, è stato Ivan Karamazov che lo ha ucciso, lo sappiamo. L'altro era solo uno strumento, un esecutore ... E mo' sono ricco, e libero! Devo vedere, a proposito!»
Balzò fuori della stanza e salì di sopra facendo gli scalini a due a due. Lo seguimmo, e quando entrai nella stanza del padre, lui si stava accanendo su un cassetto.
"Non si apre! 'O scemo, 'o scemo ... Tanto è tutto mio e di Arcana ... Liberi, liberi. Che ti credevi?»
Ora si era rivolto al morto, che stava disteso nella cassa. "Ti credevi di campare eterno? Ma io però ... lo ... »
Poi si ributtò sul cassetto, lo estrasse, ne svuotò il contenuto sulla scrivania, ma non trovò quello che cercava. Allora si mise a tirare fuori tutte le carte dagli altri cassetti.
"E la collezione di monete? Dove sta 'a colJezione? Addo sta ... »

sole ... Mi sarei preso una negra, mi sarei convertito alla poligamia, l'avrei ripudiata: mi sarei fatto crescere i baffi e tagliaato i capelli ... Un bel vantaggio è che adesso posso ridere dei vecchi amori menzogne/L. Avrei accumulato un capitale enorme, sarei tornato ricco sfondato, e non avrei lavorato mai più ... Mi sarà lecito possedere la verità in un'anima e un corpo ... Sì, la verità era quella: il sole, il commercio, il deserto.
Cominciai a sudare. T1 sudore mi scorreva sulla lì-onte, apppiccicava .i capelli, mi bagnava sotto le ascelle, .le gocce cadevano sugli occhi, rigavano le guance. Mi vedevo camminare, con la mazzetta dei soldi stretta nella tasca, la mano sopra per non farmeli scippare da qualche altro morto di fame. Alllora, che aspettavo ancora? Era tempo di l'aria finita con tutte le attese. Bisognava agire, dovevo alzarmi e andarmene, ora, per sempre, senza voltarmi indietro, mai più.



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