venerdì 13 gennaio 2012

attali libro La crisi, e poi?

LA CRISI, E POI?
Jacques Attali

INTRODUZIONE
Iniziamo con la più breve: questa prima crisi finanziaria della globalizzazione si spiega in gran parte con l’incapacità della società americana di dare salari accettabili alle classi medie, spingendole a indebitarsi per finanziare l’acquisto della casa e causando una crescita del valore dei patrimoni e della produzione.

Essa esige soprattutto di riequilibrare su scala mondiale il potere dei mercati attraverso quello della democrazia. E inizialmente quello dei mercati finanziari tramite quello del diritto, quello degli “iniziati” tramite quello dei cittadini. C’è ancora tempo: si può evitare una valanga, non fermarla.

Affinché una società di mercato funzioni efficacemente, occorre allo stesso tempo che uno Stato di diritto garantisca il diritto alla proprietà, imponga il mantenimento della concorrenza, crei una domanda attraverso salari accettabili e commesse pubbliche; ciò presuppone un intervento politico, possibilmente democratico e non totalitario, nella ripartizione dei redditi e dei patrimoni.

All’inizio di settembre del 2008 si passa così dall’economia della fiducia al panico. Esplode una grave crisi finanziaria.

Il 3 ottobre 2008, il sistema finanziario mondiale sfiora il crollo, in mancanza di liquidità. Il 13 i governi del G8 annunciano la loro intenzione di fornire alle banche delle risorse che però non hanno. Dopo una formidabile carambola ideologica, banche e assicurazioni americane e inglesi vengono salvate da una sostanziale nazionalizzazione e dalla promessa di denaro pubblico inesistente. Il debito privato diventa un debito pubblico.

La crisi finanziaria mondiale, diventa economica, si trasformerebbe allora in un’enorme crisi sociale e politica; centinaia di milioni di persone si troverebbero minacciate dalla disoccupazione; il regime politico stesso sarebbe criticato, respinto come incapace di gestire il “golem” dei mercati che avrà contribuito a creare. Poi arriverebbe, violenta, l’inflazione. Tutta l’ideologia delle nostre società individualiste e sleali sarebbe rimessa in discussione. E la democrazia con essa.

La crisi dei subprime, prima vera crisi della globalizzazione, potrebbe accelerare considerevolemte la presa di coscienza della necessità di realizzare, un giorno, una socializzazione della maggior parte delle funzioni monetarie, strumenti di sovranità, un accesso uguale per tutti alla conoscenza, una domanda mondiale stabile, un salario mondiale minimo, uno Stato di diritto mondiale, che porterà nel tempo a un governo mondiale.

1. LE LEZIONI DELLE CRISI PASSATE

Nel 1989, la caduta del Muro di Berlino apre al commercio e all’economia di mercato un continente, e poi altri ancora. All’inizio degli anni Novanta, grazie all’irruzione dei nuovi paesi industrializzati, e della Cina in particolare, che adottano anche la loro economia di mercato, la globalizzazione, certo, ma non lo Stato di diritto.

Il commercio tra filiali delle stesse aziende rappresenta allora una parte crescente del commercio internazionale. Vengono stabilite ovunque regole ultraliberali di sviluppo, raccolte in una dottrina denominata “consenso di Washington”. Esse predicano la libertà dei mercati finanziari, la riduzione del ruolo dello Stato e la flessibilità del lavoro, ovvero la globalizzazione dei mercati senza la globalizzazione dello Stato di diritto.

2. COME TUTTO E’ COMINCIATO

Una crisi che parte dagli Stati Uniti e che, per la prima volta – grazie a internet, alle compagnie di assicurazione, ai fondi di investimento e alle banche d’affari – diventa letteralmente planetaria.

Scarsezza della domanda
Tutto comincia con la liberalizzazione dell’economia senza che venisse sostenuta da contromisure democratiche.

Ciò comporta una crescita della diseguaglianza dei redditi: l’1 per cento più ricco della popolazione americana accumula più del 16 per cento del reddito nazionale, contro il 7 per cento del 1948; il 5 per cento della popolazione americana si prende il 38 per cento dei redditi e detiene la metà dei patrimoni creati dal 1990 al 2006 – e, naturalmente, un’influenza politica sempre più dominante.
Nessuno vuole ammettere che un’economia che cresce del 5 per cento l’anno non può garantire in modo duraturo una crescita del 20 per cento del reddito.
I salari invece si abbassano di conseguenza: benché la crescita americana sia dal 1990 intorno al 4 per cento il salario medio ristagna. Quello di un cittadino americano è ancora oggi inferiore al livello del 1979, e lo è ancora di più per il 20 per cento dei più poveri. Il 50 per cento dei meno ricchi detengono soltanto il 2,8 per cento dei patrimoni.

Creazione della domanda con il debito
Per garantire la crescita degli Stati Uniti senza rimettere in discussione  la distribuzione della ricchezza, occorre sostenere la domanda senza aumentare i redditi, e quindi indurre la classe media a indebitarsi: e ciò che la società americana decide implicitamente di fare, a partire dall’inizio degli anni Ottanta, con le carte di credito per il consumo corrente e con i prestiti ipotecari per acquistare una casa.

Intermediari indipendenti, pagati a premio, propongono ai mutuari, con i peggiori precedenti sui rimborsi, contratti di credito ipotecario subprime, a tassi progressivi, su un importo talvolta superiore al prezzo della casa, e per una somma finale che può essere trenta volte più alta dei loro redditi annuali.

La riduzione dei tassi, l’effetto leva e l’effetto ricchezza
Affinché questo incremento del debito delle famiglie e delle imprese sia tollerabile, occorre che i tassi d’interesse diminuiscano ed è ciò che decide la Fed negli Stati Uniti a partire dal 2001. Decisione capitale del signor Greenspan, applaudita da tutti quando è stata presa, ma che si rivelerà, in seguito disastrosa. Essa, infatti, ha permesso alle aziende, ai fondi d’investimento e ai singoli di chiedere ulteriormente prestiti. Questo “effetto ricchezza” permette a una famiglia indebitata di indebitarsi ancora di più e di consumare maggiormente, spingendo ancora al rialzo i patrimoni. Il fenomeno non è soltanto americano; il valore del settore immobiliare mondiale (che aumenta anche per ragioni demografiche) è valutato, nel 2006, a 75 T (unità di conto uguale a 1.000 miliardi di dollari), cioè una volta e mezza del Pil mondiale, contro meno dei tre quarti del PIL mondiale di dieci anni prima.
Parallelamente risulta aumentato il valore delle imprese, calcolato come un multiplo dei loro profitti. All’inizio perché, lo si è visto, aumenta la parte dei profitti nel reddito nazionale; in seguito perché la speranza di un aumento dei profitti spinge a far crescere questo multiplo stesso, che può di conseguenza raggiungere ottanta volte i profitti. Il valore di tutta le obbligazioni e azioni del pianeta, uguale al Pil mondiale nel 1980, è stimato a 100 T a metà 2006, cioè due volte il valore del PIL mondiale; a ciò occorrerebbe  aggiungere, lo vedremo, i debiti globali dell’insieme dei titoli e dei derivati, che supererebbero, secondo alcune serie, i 70 T, raggiungendo i 100 T. In totale, il patrimonio mondiale finanziario e immobiliare è quindi valutato a più di 250 T, finanziato essenzialmente dal debito. Una montagna di debiti. Tutto è pronto per la valanga.

Questi diversi prodotti, cartolizzati e/o derivati, che promettono rendimenti eccezionali, sono allora rivenduti in mezzo ad altri prodotti finanziari da banche d’affari (Bear Stearns, Merryl Lynch, Citigroup, Lehman Brother, Aig) e da hedge fund a tutte le istituzioni finanziarie del mondo, impazienti di approfittare della nuova manna, fabbricando così loro stessi tali prodotti senza che più nessuno possa stabilirne la “tracciabilità”e risalire all’origine. Nelle banche e negli hedge fund qualcuno è a conoscenza del rischio che si corre, ma senza resistere per questo alla tentazione del profitto; i risparmiatori privati, loro, non hanno alcun mezzo per conoscerli e valutarli. L’asimettria dell’informazione è di un’ampiezza record. Questa è la causa principale della crisi.

Esplosione del debito globale
In questa convivenza generale, i debiti non possono far altro che esplodere nel 2007, gli americani accumulano 900 miliardi di dollari di debiti privati con le carte di credito, cioè il doppio di dieci anni prima. Il debito delle famiglie americane passa dal 46 per cento del PIL nel 1979 al 98 per cento del 2007. Il debito estero americano supera i 7 T, corrispondente al 70 per cento del PIL. Solo il suo servizio, nel 2007, vale 165 miliardi di dollari, cioè il doppio rispetto al 2002. Il debito totale degli americani raggiunge il 350 per cento del PIL nel 2007, cioè molto più che nel 1929. Lo stesso dicasi per la Gran Bretagna, dove i salari si contraggono da dieci anni mentre il debito delle famiglia esplode passando in trent’anni dal 20 all’80 per cento del PIL. Lo stesso accade in Francia e altrove, almeno per il debito pubblico.

Il 18 agosto 2004, Martin Wolt, noto commentatore del “Financial Times”, scrive che “l’America si avvia ora con leggerezza verso la rovina”.

Pochi esperti intuiscono che è il debito privato, e non l debito pubblico, il principale imputato.

Cronologia
Nel giugno del 2007, la banca d’investimento Bear Stearns annuncia il fallimento di due hedge fund che avevano investito nel subprime. In luglio due milioni di americani, incapaci di rimborsare i loro crediti, hanno già perso la loro casa.

La prima società di assicurazione mondiale, fiore all’occhiello dell’America, è così nazionalizzata tra lo stupore di tutti.

Nel mese di settembre tutto cambia: Lehman è fallita, Bear Stearns e Merril Lynch sono state riacquistate sull’orlo del disastro, Goldman Sachs e Morgan Stanley sono state recuperate in extremis, AIG è stata nazionalizzata.

3. IL GIORNO IN CUI IL CAPITALISMO STAVA PER SCOMPARIRE
Il Piano Paulson è riscritto a gran velocità sul modello di quello che Gordon Brown si prepara ad annunciare a Londra, il quale prevede di stanziare 500 miliardi di sterline per aiutare svariate banche: non si parla più di isolare i “cattivi” debiti.

In questa giornata Nouriel Roubini ripete che la caduta del sistema finanziario mondiale è prossima. Molti paesi, fra cui l’Islanda e l’Ungheria, indebitati e con forte deficit estero, vedono gli hedge fund ritirare i loro capitali e le loro borse crollare.

Riassumendo, l’Europa garantisce 1.700 miliardi di euro, di cui 840 per la coppia franco-tedesca. L’essenziale di questi 1.700 miliardi riguarda garanzie e ricapitalizzazioni delle banche per 250 miliardi.

A Londra, tutti si rendono conto che la City è in gran parte sovradimensionata, che la produzione finanziaria è eccessiva e che presto si avrà bisogno di meno banche. Da un giorno all’altro, tutte queste persone super pagate diventeranno, una volta licenziate, dei paria agli occhi dei loro colleghi.

Ma è soltanto una breve tregua; nulla è risolto e i prodotti “tossici” sono sempre  là, nel bilancio delle banche. I consumi stagnato. La riduzione dei debiti continua. Gli attivi perdono valore.

Il vertice del G20 del 15 novembre non raggiunge alcuna decisione, se non quella di rinviare a un altro summit del G20  a fine aprile, a Londra, sotto la presidenza britannica. Non si è sbloccato nulla: il sistema finanziario resta fermo, comincia la recessione economica. Ciascuno organizza piani di riforma nazionali senza una riforma globale, e in particolare delle regole. Sono le banche centrali continuano a finanziare gli istituti di credito (e anche le imprese in America). Tutto lascia presagire un rischio di depressione per il 2009.

Il 20 dicembre George W.Bush, imperturbabile, ritiene che i 17,4 miliardi di dollari (12,4 miliardi di euro) del piano federale di soccorso all’industria automobilistica dovrebbero permettere ai produttori americani di uscire “rafforzati” dalla crisi.
Il 30 dicembre, a Tokyo, l’indice Nikkei termina il 2008 con la peggiore caduta annuale in percentuale della sua storia: 42,12 per cento. La Borsa di Francoforte ha perso il 40,4 per cento in un anno. La Borsa di Shangai termina il 2008 con una perdita del 65 per cento. Il CAC 40 nel 2008 ha perso il 42,68 per cento del suo valore e la Borsa di Londra il 31,33 per cento.

Geroge W. Bush chiede al Congresso, a nome del suo successore Barack Obama, lo sblocco della seconda metà del fondo Paulson di 700 miliardi di dollari.

Solo il 26 gennaio 70.000 persone sono licenziate in Europa e negli Stati Uniti.

E’ il momento di fare un primo punto della situazione: su un totale di fondi propri delle banche mondiali stimato a 4 T, le perdite ammontano per il momento a 2,2 T secondo il FMI, e a 3,6 T secondo Roubini, per i soli Stati Uniti, ai quali occorre aggiungere 4,5 T di crediti incerti al consumo nei soli Stati Uniti, Standard e Poor’’s stima a 10 punti di prodotto interno lordo (1 T) quello che potrebbe costare, in totale, ai contribuenti. Roubini lo stima almeno a 3 T. A oggi, solo 0,8 T delle perdite è stato finanziato. Il totale delle perdite sui crediti è dell’ordine di 3,6 T, di cui 1,8 negli Stati Uniti.
Il totale dei prestiti bancari mondiali (84 T) rappresenta 18 volte il totale dei fondi propri di queste istituzioni finanziarie, invece delle 15 autorizzate. Per alcune di esse, tra le più rispettate, questo indice è pari a 50! E’ necessario iniettare fondi dell’ordine di 1,3 T perché al sistema bancario americano non fallisca. Quanto al ribasso dei mercati delle azioni e a quello del settore immobiliare, hanno comportato la distruzione di circa 37 T di ricchezza nominale. La crescita mondiale per il 2009 si preannuncia uguale a zero, con una depressione per lo meno del 5 per cento negli Stati Uniti e del 2 per cento in Europa.

4. LE MINACCE PROSSIME VENTURE

La recessione
Riassumendo, il rallentamento economico, iniziato ben prima della crisi finanziaria con l’aumento del prezzo delle materie prime, peggiorerà, almeno nel 2009 e nel 2010. I settori più esposti, le banche, l’edilizia, l’industria dell’immobile, le compagnie aeree, i grandi negozi di lusso. Non è neppure escluso il fallimento dei servizi pubblici.

Ciascuno prenderà  allora decisioni conformi al suo solo interesse: nazionalizzando alcune aziende e sovvenzionandone altre, ristabilendo così un ritorno al territorio come centro di interesse, diverso da quello del 1929, ma che condurrà agli stessi effetti protezionistici disastrosi.

Meno la gente consuma, meno le imprese fatturano; meno le imprese investono, meno la gente ha lavoro.
In altre parole, l’eccesso di prudenza ci farà passare dalla recessione alla depressione.

L’inflazione
Quest’inflazione significherà anche la vittoria su scala mondiale dei più giovani, i più numerosi  sul pianeta, sui più vecchi, i più numerosi nei paesi sviluppati. Sarà ancora il risultato di una decisione maggioritaria, ma a favore di un altro corpo elettorale, questa volta planetario.
Per questo il ritorno dell’inflazione sarebbe la prima vera decisione democratica globale.

Il fallimento dei grandi paesi e il futuro del binomio.
Gli Stati Uniti resteranno certamente, e per molto tempo ancora, la prima economia del mondo, il primo esercito e la più grande massa di ricercatori.

La crisi sociale, ideologica e politica
L’ideologia, che serve a consolidare il potere di un gruppo, per durare deve anche avere la capacità di spiegare alla gente il senso della vita, dando un motivo per lavorare anche a quelli che soffrono. Oggi l’ideologia liberale avrebbe grossi problemi a spiegare il capitalismo mondiale fa solo gli interessi di una piccola minoranza, che è giusto versare fino al 2008, come gli anni precedenti, 10 miliardi di bonus ai banchieri, e che la democrazia, che si presume debba equilibrarlo, si prende realmente cura  degli interessi dei più poveri e delle prossime generazioni!Democrazia e mercato, di conseguenza, diventeranno valori minacciati. L’ideologia delle democrazie di mercato è in pericolo.

Questa crisi è anche l’occasione per comprendere come un piccolo gruppo di persone, senza produrre ricchezza, possa accaparrarsi nella più completa legalità e senza essere controllato da nessuno una gran parte della ricchezza prodotta.

5. LA BASE TEORICA DELLE CRISI E DELLE SOLUZIONI: LE CONTRADDIZION TRA LE ESIGENZE DELLA DEMOCRAZIA E QUELLE DEI MERCATI.

Finché l’analisi e l’azione contro la crisi resteranno fondate, per la destra, sul semplice rammarico di dovere trasgredire i principi del liberalismo, e per la sinistra, sul solo ritorno nostalgico allo Stato-provvidenza, nulla di serio potrà essere intrapreso per risolverla.

Il concatenamento degli eventi che hanno portato alla crisi attuale comincia dall’aggravarsi negli Stati Uniti e in tutti i paesi sviluppati delle ineguaglianze sociali che deprimono la domanda. Si può continuare con la decisione implicita della società americana di fare del suo sistema finanziario un sostituto a una giusta distribuzione dei redditi.

Di qui l’importanza del controllo della banca centrale, che non può né essere delegato, né ridotto al minimo, e che deve essere gestito senza cedere alla pressione dell’enorme potere politico di cui l mondo finanziario dispone.

In generale, questi due tipi di crisi finanziarie si scatenano una dopo l’altra. In entrambi i casi, la finanza dichiara che è possibile guadagnare denaro, molto denaro, senza produrre beni reali.

Per risolvere quest’enigma, bisogna, a parer mio, ritornare al motore principale delle nostre società, che è il rispetto della libertà individuale.

Per risolvere quest’enigma, bisogna, a parer mio, ritornare al motore principale delle nostre società, che è il rispetto della libertà individuale.

Mercati, democrazia e “iniziati”
Secolo dopo secolo, l’Europa del Nord, poi tutta l’Europa, poi il mondo intero scelgono di preferire la libertà individuale a tutti gli altri valori (giustizia, solidarietà, immortalità). Vengono perciò messi in atto due meccanismi che permettono in linea di  massima di organizzare questa libertà in un contesto di penuria che definisce la condizione umana: il mercato e la democrazia. Meglio: i mercati (del lavoro, dei beni, delle tecnologie, dei capitali) e i livelli democratici (nazione, regione, comune). Il mercato permette di allocare liberamente risorse scarse per produrre e acquisire beni privati. La democrazia permette di allocare liberamente risorse scarse per produrre e distribuire beni pubblici.

Allora mercato e democrazia si rafforzano reciprocamente. La democrazia ha bisogno del mercato perché non ci può essere libertà politica senza libertà economica. E il mercato – che non è né infallibile, né giusto e nemmeno efficace – ha bisogno della democrazia, o almeno di uno Stato, per proteggere i diritti di proprietà, la libertà intellettuale e quella imprenditoriale, e per sfruttare pienamente i mezzi di produzione.

La parola “iniziati” rinvia qui al fatto che l’informazione è diventata una delle risorse preziose.

Lo stato deve imporre un contratto sociale che fissa dei principi di equità e di sicurezza validi per tutti, evitando l’inasprirsi delle diseguaglianze tra gli “iniziati” e gli altri, e attivare strumenti di controllo delle loro azioni.

Slealtà e primato del finanziere
Questa coppia formata da mercato e democrazia non è, per natura, armoniosa.

Scomparsa dello Stato di diritto
Esiste una grande contraddizione tra i due meccanismi che si suppone debbano servire la libertà. All’inizio la democrazia è applicabile soltanto su un territorio, all’interno di frontiere certe; mentre, per natura, i mercati sono frontiere, che siano per i beni, per i capitali, le tecnologie o il lavoro. Ma oggi non esiste alcuna democrazia planetaria, e nemmeno uno Stato di diritto planetario, praticamente in nessun settore (eccetto per alcuni sport o per certe professioni auto organizzate, come i ragionieri), mentre esistono invece i mercati planetari; in particolare quelli finanziari, capaci, più di tutti gli altri, di evolvere rapidamente e svilupparsi fuori da ogni costrizione nazionale, di scivolare negli interservizi dei regolamenti, di piazzarsi ovunque, in particolare nel mondo virtuale di Internet.

I mercati, essendo globali senza che lo Stato di diritto lo sia, si sostituiscono a poco a poco allo Stato di diritto di ogni singola nazione e alla democrazia che lo dovrebbe fondare. La capacità di regolamentare i mercati finanziari scompare di fronte alla concorrenza che le piazze finanziarie si fanno per stabilire la legislazione più favorevole ai loro “iniziati”.  Ci si trova quindi in una nuova situazione: mentre in ogni nazione è lo Stato forte che crea il mercato (il quale, in cambio, crea la democrazia), su scala planetaria, il mercato si determina da solo facendo a meno di uno Stato che lo generi o lo controlli. Ci si trova così, a livello mondiale, in una situazione dove non esiste alcuna istituzione capace di creare lo Stato di diritto.

La soluzione: il riequilibrio del mercato con lo Stato di diritto
Quest’analisi spiega perfettamente come l’attuale crisi finanziaria si sia sviluppata e stia degenerando. Ha permesso persino di prevederla. Grazie a questo approccio, diventa chiaro che la soluzione comporterà sia il ritorno a mercati limitati da frontiere e a uno Stato di diritto nazionale, ovvero al protezionismo e alle svalutazioni competitive; sia l’organizzazione su scala mondiale di uno Stato di diritto, cioè di un sistema politico possibilmente democratico, capace di controllare i mercati senza però permettere che una piccola minoranza di “iniziati”si attribuisca profitti derivanti dai rischi e dal monopolio delle informazioni.

Sarà necessario decidere una distribuzione prevedibile, contrattuale e onesta del risparmio mondiale, imponendo una riduzione dell’indebitamento dei paesi senza risparmi fino a un livello finanziabile con la loro produzione reale.

6. UN PROGRAMMA D’URGENZA

Questo programma può avere una sola ambizione: riequilibrare su scala nazionale continentale e mondiale il potere dei mercati con quello della democrazia. E prima di tutto riequilibrare il potere dei mercati finanziari con quello dello Stato di diritto.

Il problema non è dunque di “moralizzare” il capitalismo, ma di inserirlo in uno Stato di diritto.
Quanto detto dimostra che il controllo della finanza è una progressiva della cosa pubblica, e non deve essere lasciato, anche solo in parte, nelle mani del settore privato e nemmeno di un solo governo, che potrebbe imporre norme conformi ai propri interessi ma disastrose per gli altri.

Rimettere ordine in tutte le economie nazionali.
In tutti i paesi, la crisi impone di mettere ordine nella finanze pubbliche.

Ricostruire i propri fondi delle banche.

Proibire gli strumenti finanziari fondati su valori di attivi speculativi.

La nazionalizzazione almeno parziale di alcune banche e organizzare un accantonamento dei prodotti “tossici”.

Rafforzare la regolazione europea
Gli Stati membri dell’Unione, o almeno quelli dell’Eurogruppo, dovrebbero dunque dotarsi di autorità capaci di sorvegliare ogni operatore finanziario europeo (anche e soprattutto quelli che non lavorano nelle banche), impedire alle loro istituzioni finanziarie di lavorare con centri off  shore e paradisi fiscali situati fuori dell’Unione, e proibire, secondo definizioni comuni per tutti, pratiche simili nell’Unione, in particolare nella City.

Il FMI deve finalmente iniziare a riflettere su una moneta unica mondiale sul modello del “bancor” di Keynes, o di un canestro di valute che includano almeno il dollaro, lo yen, il renminbie e l’euro.

Una gestione internazionale
Per stabilire l’equilibrio del mercato e della democrazia,  condizione per uno sviluppo armonioso su scala planetaria, occorrerebbe evidentemente creare gli strumenti necessari all’esercizio di una sovranità globale: un Parlamento (un uomo, una voce), un governo, un’applicazione planetaria della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e dei suoi protocolli futuri, un’attuazione delle decisioni dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro in materia di diritto del lavoro, una banca centrale, una valuta comune, tasse planetarie, una polizia e una giustizia planetarie, un reddito minimo planetario, agenzie di rating planetari, un controllo globale dei mercati finanziari.

Grandi lavori planetari
E’ probabile che non si farà nulla o quasi di ciò che si è detto: a meno che una catastrofe, che nessuno potrebbe augurarsi, non imponga una revisione lacerante.

Per cominciare, occorre dunque accontentarsi di una gestione mondiale minimale. Ciò passerà attraverso cinque decisioni che possono essere prese molto rapidamente:

1.      Allargare il G8 al G24;
2.      Fondere il G24 e il Consiglio di sicurezza in un “Consiglio di gestione” che raccolga potere economico e legittima politica;
3.      Mettere il FMI, la Banca Mondiale e le altre istituzioni finanziarie internazionali sotto l’autorità di questo Consiglio di gestione;
4.      Riformare la composizione dei consigli e dei diritti di voto in queste istituzioni finanziarie internazionali, fra cui il FMI e la Banca Mondiale, perché siano lo specchio del nuovo Consiglio di sicurezza;
5.      Dotare queste istituzioni di mezzi finanziari adeguati.




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