venerdì 13 gennaio 2012

BENNATO BRIGANTE SE MORE libro

BRIGANTE SE MORE
Eugenio Bennato

Viaggio nella musica del Sud

LA PAROLA DI CARLO D'ANGIÒ

Dopo infinite discussioni sulla riforma costituzionale riguardante la forma di stato, dopo estenuanti dibattiti oscillanti fra le ipotesi di "semipresidenzialismo alla francese" o di "cancellierato alla tedesca" o di "presidenzialismo americano" e non so di quale altra diavoleria istituzionale, alla fine, a sorpresa, la scelta era caduta sulla monarchia assoluta federale. Dopo un referendum confermativo, che aveva visto il Nord schierato tutto per la monarchia, il Centro Sud diviso fra repubblicani e monarchici borboniani, il 2 giugno di settant'anni dopo il referendum istituzionale con cui si era scelta la repubblica, si insediava il Monarca d'Italia. Corsi e ricorsi della Storia.
Ora si sa che il Nord dell'Italia e il suo partito di riferimento, la Lega, facevano il bello e il cattivo tempo dettando leggi e decreti nell'interesse esclusivo di quella parte della Nazione; d'altra parte lo stesso Monarca d'Italia era un milanese. Le continue vessazioni sui popoli del Centro e del Meridione stavano alimentando un'avversione verso lo Stato, e qui e là si registravano i primi piccoli moti insurrezionali.
Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu l'avvenimento passato alla storia come "il secondo schiaffo di Anagni". Il sindaco di quel paese fu affrontato nella piazza principale dal podestà leghista che, appellandolo "sporco terrone", gli disse di togliersi dai marroni perché non capiva un cazzo e gli appioppò un sonoro manrovescio in pieno volto.
Il sindaco, animo gentile e mite, replicò all'offesa declamando una poesia di Quasimodo.
A questo si fa risalire l'inizio della guerra di secessione del Centro Sud, la cosiddetta "guerra dei giusti".
Tutti sanno che le truppe del Sud andavano all'attacco cantando canzoni popolari del Sud Italia. Tali canzoni, tutte definite tradizionali, erano, in ordine di importanza: Brigante se more, Vento del Sud, Canzone per Juzzella e man mano che il conflitto andava avanti si aggiungevano altre canzoni tmUe dal repertorio di Musicanova, composte da D'Angiò e Bennato, che passavano dalla condizione di canzone d'autore a quella di canto tradizionale di anonimo.
Insomma i due poveri musicisti che all'inizio del millennio si erano visti disconoscere la paternità di Brigante se more, alla fine della guerra di secessione furono privati del riconoscimento d'autore di metà del loro repertorio, con notevoli danni anche economici dovuti alle richieste della SIAE di risarcimento dei diritti d'autore impropriamente erogati per anni.
I due, esasperati dalla paradossale situazione, una sera di novembre presero una solenne decisione: non avrebbero più composto canzoni in italiano, e meno che mai in dialetto. «Il prossimo disco solo blues, soul e jazz in lingua inglese!», proclamarono all'unisono.
Fu così che fu pubblicato il loro primo CD americano, che per la verità ebbe anche un certo successo negli States.
E fu proprio in quel periodo che iniziò in America la seconda guerra di secessione; gli Stati a prevalenza nera e latinocana dichiararono guerra allo Stato federale.
Sapete quale era l'inno delle truppe di neri e messicani? I Wanna Be The Man or God, il brano di punta del primo disco americano di D'Angiò e Bennato. Solo che si era diffusa la voce che non era d'autore, ma che anzi era un canto tradizionale nero contenuto addirittura nel disco degli anni Cinquanta Le radici del blues. Tutto ciò era patentemente falso, perché nella copia dell'Athlantic, che noi (Eugenio e io) abbiamo, quel pezzo non esiste.
Eravamo destinati a perdere tutto quello che avevamo composto di musica in tanti anni, una specie di malattia degenerati va.

Ci interrogammo sul perché avvenisse questo e giungemmo a una conclusione: noi partorivamo solo espressioni genuinamente etniche, avevamo il dono di dare voce a un popolo, neroamericano o del Sud Italia non importa; l'ethnos era la nostra ispirazione.
Eravamo come i cantori di Carpino, o i pescatori di pesce spada di Milazzo, come le raccoglitrici d'olive calabresi. Tutta gente che ha composto la musica popolare e poi è scomparsa nel magma della propria cultura etnica.
Da allora, quando inventiamo una nuova canzone invece di firmarla con i nostri nomi, scriviamo direttamente: «Pezzo di tradizione orale raccolto dal vivo» e ci inventiamo pure dove e come l'abbiamo trovato.

Carlo D'Angiò Napoli, 26 aprile 2010


PROVE TECNICHE DI ESPROPRIO*

Vorrei dire a quel gran signore di Bennato di non sparare ca va la te! E soprattutto di non appropriarsi di una canzone popolare della mia terra di cui lui non è originario!!! solo perché ha successo!!!.
Ma perfavore!!! non ci faccia ridere signor Bennato!!!

Sulle origini del brano c'è stato un po' di mistero, ma oggi è sicuro che si tratti di un canto tradizionale campano, riadattato a suo tempo da Bennato.
Hanno cambiato "due sole [rasi"? Ammazzate oooooh! Hanno stravolto completamente il senso, altro che "due sole [rasi"! Bella differenza tra «non ce ne fatte» e «combattiamo per il re»!!!
Bella differenza tra preghiera e bestemmia! E poi dicono ahh la violenza contro il Sud!
Ma la violenza continua ancor oggi, a quanto pare! Vioolenza contro la verità storica del brigantaggio!!! Di quello che realmente esso è stato!!! Come sempre si adegua il passsato ai propri comodi!
Brigante se more una canzone popolare lucana?

È molisana, cantata sui monti di Sepino, terra di briganti. Tutte le volte che i miei zii al paese ... si riuniscono per far festa, la canzone preferita è sempre quella, da anni ... sulla montagna eravamo in tanti a cantarla.

Dunque, direi al sig. Bennato, la mia parola contro la sua. La mia parola contro la sua, non ho timore. Nel modo più assoluto, non ne ho. E allora è bene che consideri che certa cultura esiste da prima che lui stesso nascesse. E con essa musiche, e balli, e canti. Non scherziamo su questo. Lui e D'Angiò, altro autore che stimo moltissimo, che mia madre mi ha insegnato ad apprezzare, avranno rivisto, ripreso, rivisitato, quello che volete, questo pezzo. Ma certo è che mio nonno lo cantava prima ancora che questi due soggetti fossero concepiti nel pensiero del Padreterno.

Il brano tradizionale, così come risulta da un facile lavoro di riscontro sul territorio, nella tradizone viva, riporta il verso: «Nuie cumbattimmo p'o Re Burbone», e nell'ultima strofa: «Menate nu sciare e 'na preghiera pe' sta libertà». Ebbene l'edizione da un certo momento in poi proposta da Eugenio Bennato e poi diffusasi tra la maggioranza degli interpreti che a Bennato si rifanno, presenta invece «Nun ce ne fotte d'o Re Burbone» e «Menate nu scio re e na bestemmia pe' sta libertà». Non vorrei sembrare brutale, ma, scusate, e che 'r'è? Un'interpolazione? Un camuffamento ideologico? Una truffa in barba alla tradizione autentica? E in nome di che, mi chiedo, è possibile fare violenza al popolo e alle sue tradizioni in questo modo?

Sono in possesso di un 45 giri degli anni Sessanta contenente Brigante se more ... Non è sua, ne ho la prova!
Sono un ragazzo calabrese, e ho il seguente dubbio: visto che i briganti erano decisamente credenti, perché avrebbero dovuto incitare alle bestemmie?
Con una più accurata indagine ho scoperto che Brigante se more il cui titolo originale è Libertà, un canto del 1860.

l

HO SCRITTO UNA BALLATA

Mi è successa una cosa stranissima. Ho scritto una ballata.
L'ho scritta insieme a Carlo D'Angiò, con il quale ho condiviso tante composizioni.
La ballata era semplice ed efficace e per questo si è diffusa spontaneamente nel repertorio di tutti quelli che si portano appresso una chitarra per cantare tra amici.
La ballata era emozionante e ha acceso l'interesse per una vicenda storica praticamente sconosciuta: la ribellione della gente meridionale all'invasione piemontese del 1860.
Qualcuno ha cominciato confusamente ad affermare che quella ballata, nata a Napoli una sera di primavera nel 1979, sarebbe stata scritta un secolo prima non si sa dove e non si sa da chi. Qualcuno ha cambiato un paio di versi per adattarla a esigenze di bigottismo politico, e l'ha resa un po' più brutta e più banale (non toccate le opere scritte con il cuore). Qualcuno, folgorato come tanti da quella composizione, ha cominciato a sognare che i briganti dell'Ottocento l'avessero potuta cantare, magari prima della battaglia.
Nel frattempo la nostra ballata si è diffusa sempre più, facendo strada a una rinnovata attenzione per la storia del brigantaggio e dell'emigrazione, per una diversa interpretazione della secolare Questione meridionale.
Un coro di centinaia di migliaia di voci ha cantato in questi trent'anni quell'inno, e la celebrazione del 1500 dell'Unità d'Italia dovrà fare i conti con le masse di giovani e di intellettuali che non ci stanno più a subire passivamente la retorica risorgimentale.
Quella ballata per la sua enorme diffusione ha contribuito a scalfire miti e tabù centenari: Carmine Crocco e Ninco Nanco escono dall'anonimato della Storia e si avviano a diventare perrsonaggi popolari al pari di Garibaldi e di Bixio.
Una generazione di studenti, studiosi, intellettuali artisti, ribalta oggi gli storici complessi di inferiorità e sbandiera l'orgoglio di essere meridionali.
Alle feste popolari di musica dei Sud del mondo si vendono magliette con la scritta «Ommo se nasce brigante se more».

LA STORIA DI BRIGANTE SE MORE

A un certo punto su Brigante se more si è accesa una flebile voce di disinformazione che si è andata lentamente ingrossando, e qualcuno ha cominciato a credere che quel canto scritto da noi nel 1979 fosse stato composto da un anonimo un secolo prima.
La genesi dell' equivoco è in parte dovuta alla struttura della composizione (era un canto scritto per una ricostruzione storica della lotta tra briganti ed esercito unitario), in parte al meccanismo di diffusione di quel canto (veicolato oralmente da tutti quelli che l'hanno spontaneamente cantato e se lo sono trasmesso l'un l'altro), in parte probabilmente a una vaga macchinazione ideologica e politica (sull' onda di Brigante se more sono sorte associazioni e addirittura partiti politici che hanno inserito i miei versi nella loro ragione sociale).
L'intento di questo libro non è certo quello di affermare e rivendicare la paternità mia e di Carlo quali autori di Brigante se more in quanto è cosa scontata e a dilungarmi sull' argomento farei offesa all'intelligenza dei miei lettori: la composizione è del 1979 e ovviamente tutto il polverone sollevato dagli ottusi sostenitori dell'origine ottocentesca cade nell'assenza totale di tracce che possano riportare anche una sola parola o immagine di quella composizione nata dalla sensibilità e dal furore dei nostri anni giovanili.
In questo libro intendo invece analizzare e sottolineare come sia sorprendente che una composizione artistica, percorrendo vie alternative al meccanismo disco grafico e alla diffusione classica dei moderni mass-media, arrivi a incidere così profondamente nel gusto e vorrei dire nella cultura di intere generazioni. Certo Brigante se more ha indirizzato profondamente le coscienze di migliaia di uomini, perché un canto che emozioni vale più di tanti libri e dibattiti e discorsi, e quella nostra ballata ha fatto in trent'anni quello che non si era fatto nei centoventi precedenti, e di questo, nella modestia e nell'incertezza del nostro umile mestiere di menestrelli, siamo profondamente orgogliosi.
Altro intento di questo libro è valutare le aberranti mistificazioni che l'odierna civiltà tecnologica riesce a subire e ad assorbire. La storia di Brigante se more deve far riflettere su come sia possibile che oggi si accendano casi inesistenti come questo, che tende a retrodatare di centoventi anni un canto scritto nel 1979, regolarmente depositato alla Società degli Autori e contemporaneamente pubblicato in vinile dalla Phonogram e trasmesso sulla Rete nazionale (Rai Uno) come titoli di testa e motivo conduttore dello sceneggiato in otto puntate del celebre regista Anton Giulio Majano, tratto dal romanzo storico di Carlo Alianello, L'eredità della Priora.
Ma soprattutto questo libro mi dà l'occasione di riandare a quel periodo, affascinante come tutte le giornate della giovinezza e del passato, in cui mi affacciai per la prima volta a un segmento di storia ignorato o raccontato in maniera di storta, deformato dalla retorica dell'ufficialità, che ci faceva apparire Garibaldi, Cavour e Vittorio Emanuele di Savoia mostri sacri e intoccabili della Patria, vincitori ineluttabili di scialbi avversari e trionfatori su squallidi nomi sbiaditi nella loro storia indecorosa, che erano non a caso chiamati briganti, al servizio di un re borbone pavido e ottuso e insignificante.
Era per me la stagione di una scoperta, che da solo e con grande sforzo dovevo fare. Proprio in quel periodo veniva fuori che gli Indiani d'America non erano poi così spaventosi e crudeli come la cinematografia, i fumetti e l'industria dei soldatini ci avevano insegnato.
Erano gli anni del successo del film americano Soldato blu di Ralph Nelsori, che per la prima volta ribaltava i termini della questione e delineava il genocidio fisico e culturale delle civiltà precolombiane ad opera del dio dell'Occidente. Erano gli anni in cui avevo in casa un fratello maggiore che si chiama Edoardo, quasi scugnizzo quanto me, che se la prendeva con le storiografie ufficiali di tutti i tempi e di tutti i vincitori, nella sua notevole intuizione de I buoni e i cattivi: sono arrivati i buoni e hanno fatto una guerra per eliminare tutti i cattivi ... ma hanno assicurato che è l'ultima guerra che si jàrà. Erano gli anni in cui ci toccava dare una mano per sottrarre all'anonimato quei perdenti che avevano perso due volte, una prima volta per la ragione delle armi, e una seconda per le ragioni della politica, anzi, ancor più, della storia; e questa seconda sconfitta era l'antefatto dell'umiliante Questione meridionale e riguardava direttamente tutti noi ragazzi del Sud.

ALLA SCOPERTA DELLA MUSICA DEL SUD

Nel 1976 abbandonai la Nuova Compagnia di Canto Popolare e mi misi a fare da solo. Ritrovai Carlo D'Angiò, con il quale sette anni prima avevo fondato lo storico gruppo.
La NCCP era stata una notevole intuizione che era nata a Bagnoli, periferia industriale ovest di Napoli. Carlo e io, già da allora insofferenti alle mode esterofile che instradavano legioni di adolescenti sul percorso musicale di una formazione standard di batteria basso e chitarre elettriche, seguimmo istintivamente una strada diversa, e ci trovammo a compiere un gesto provocatorio e, nell'ambito delle scelte adolescenziali, rivoluzionario; pensammo di allontanarci dalla luccicante ,attrattiva dei suoni moderni, assistiti da esperti designer e supportati dalle nuove emergenti tecnologie, e di imbracciare mandoloncelli e tammorre.

Il risultato fu la: formazione di un gruppo di giovani che con i loro strumenti e il loro repertorio appariva come una compagine non c1assificabile nell' ordine delle cose che la storia assegna al succedersi delle generazioni: ci permettevamo di non rifiutare la musica dei nonni, andavamo a estrarre polverosi strumenti a corde dalle vetrine degli antiquari, compravamo i tamburelli da Buccino, che li costruiva con il legno ritagliato per fare setacci e li vendeva in un'oscura botteguccia della Ferrovia; eppure non eravamo degli imbranati, quegli strumenti e quelle voci non risuonavano della patina del vecchiume, in quella proposta artistica non c'era niente di nostalgico ma il modus musicale era alternativo e inquietante, pur riguardando cinquecentesche villanelle, tammurriate processionali e primitive tarantelle della cultura arcaica.
Certo le divine ragazze degli ultimi anni Sessanta non ci c1illvano retta e si perdevano appresso ai rockettari teneri e maledetti. Ma non potevamo farci niente, quella musica che avevamo scelto, per come l'avevamo scelta, era per noi il massimo della trasgressione e ci faceva sentire più vivi perché meno banali, e ci permetteva di infrangere la cortina di mistero di un Sud che qualcosa doveva pur nascondere nelle pieghe di un paesaggio sonnolento e rassegnato nel quale vedevamo apparire improvvise scintille di bellezza.
La NCCP ebbe un successo veloce: Eduardo De Filippo scese nel seminterrato alternativo del Teatro Esse, a Napoli, dove debuttavamo, e ci portò prima al suo San Ferdinando e poi, nel '72, al Festival dei Due Mondi di Spoleto.
Quel gruppo era la prima voce giovanile di un Meridione diverso.
Dopo sette anni di successi e di tour in tutta Europa e anche oltre, lasciammo la Nuova Compagnia per un progetto diverso e innovativo, svolgemmo una ulteriore ricerca sul campo per individuare le forme a nostro avviso più importanti della musica tradizionale del Sud Italia e realizzammo un disco in vinile dal titolo Garofano d'amore, una sorta di definitiva antologia che spaziava dalle tarantelle del Gargano alle pizziche del Salento alle forme di musica rituale calabrese, cilentana e campana in generale. Sulla copertina di Garofano d'ammore riportammo che per noi era quello l'ultimo disco di folk revival, una sorta di reportage dei repertori e delle forme stilistiche di tradizione orale degni di essere riproposti e ricordati, e dichiarammo che dopo quella pubblicazione avremmo abbandonato il lavoro di "ricalco" per cimentarci in un'attività di composizione nuova e autonoma, anche se comunque legata allo stile e all'estetica che i maestri della tradizione ci avevano insegnato e indicato.
E così fu. Nel 1978 uscì Musicanova, che conteneva le nostre prime composizioni: io scrissi Canto allo scugnizzo (ballata sulle Quattro giornate di Napoli del 1943) e poi Pizzica Minore e ancora A la muntagna e altri brani da solo o insieme a Carlo D'Angiò, il quale inserì in quell'album un'assurda composizione dal titolo A morte 'e Zi' Frungillo, nella quale ironizzava affettuosamente su un certo conformismo del nostro maestro Roberto De Simone, sospettoso delle nostre manie innovative in versi e musica.
Proprio in quell'anno mi fu commissionato dalla Rai un lavoro che nello stesso tempo mi lusingava e mi spaventava: la mia prima colonna sonora per la realizzazione di una produzione imponente, uno sceneggiato televisivo in sette o otto puntate per la regia del celebre Anton Giulio Majano, che in quella gloriosa epoca di televisione in bianco e nero si era inventato il format televisivo-cinematografico che per otto settimane, sull'unico canale esistente, calamitava ogni venerdì sera, ovviamente in prima serata, l'attenzione di milioni di spettatori ed entrava praticamente nelle case di tutti gli italiani.
Lo sceneggiato era tratto dal romanzo di un autore nato a Roma, ma di origini meridionali, e più precisamente lucane:
Carlo Alianello. Un suo primo romanzo, L'alfiere (1943) era diventato il primo sceneggiato della neonata Rai (1956), sempre per la regia di Majano. Ora era la volta de L'eredità della Priora, un romanzo storico che raccontava il breve e intenso periodo della rivolta antiunitaria e delle imprese dei briganti, dall'occupazione sabauda di Napoli al mancato assalto alla città di Potenza da parte delle bande di Carmine Crocco (1860-61).

Era questa una delle prime opere letterarie che guardavano quella storia dalla parte dei vinti. Era il primo colpo, e sicuramente il più spettacolare, scagliato contro il palazzo inaccesssibile della granitica retorica risorgimentale. Era l'epopea dei briganti fino ad allora disprezzati, sminuiti e offesi come criminali.
Ero chiamato a scrivere dunque una colonna sonora per un regista di primo livello, irruente e determinato, meticoloso ed esigente. lo avevo da poco terminato gli studi universitari, e ricordo perfettamente che l'ansia e l'emozione che mi prendevano ogni volta che entravo nello studio di Anton Giulio Majano per fargli ascoltare le musiche che andavo componendo erano le stesse che mi avevano accompagnato a ogni esame universitario fino alla tesi.
Mi chiedevo perché mai quei signori si erano rivolti a me che ero alla prima esperienza, timido e insicuro come tutti quelli che si debbono cimentare con una creazione, cioè con l'invenzione di qualcosa che un attimo prima non esisteva e un attimo dopo esiste, e che deve prendere vita per ottenere il suo scopo, in questo caso dare alle immagini dello schermo una "terza dimensione" non geometrica ma emotiva.
Si erano rivolti a me, evidentemente, perché sapevano che io conoscevo e amavo i linguaggi tradizionali della gente del Sud, ma che da quei linguaggi mi distaccavo nell'ambizioso progetto di scrivere cose nuove, e forse avevano ascoltato qualcosa di quello che io e Carlo avevamo scritto, qualcuna delle mie prime composizioni che li aveva convinti, e forse puntavano sull'entusiasmo dei miei anni giovanili per ottenere quello che, a loro avviso, un più esperto musicista accademico o filologo non avrebbe saputo inventare.
Quel lavoro mi indirizzò a un nuovo intenso percorso nei misteri del mio Sud: dopo aver girato vallate, colline, e biblioteche sulla traccia di villanelle e canti a distesa, e dopo aver incontrato i fantastici maestri di una tradizione ancora viva, dopo aver ascoltato le strepitose invenzioni delle voci e delle tammorre e delle chitarre battenti, dopo aver esplorato i riti della magia musicale della civiltà contadina, mi inoltravo in un Sud ancora una volta inesplorato e misterioso, mi addentravo nella sua storia nascosta e dimenticata, nel fragore di una lotta che aveva dimostrato la dignità di una etnìa, il suo individualismo, che si manifestava nell'insofferenza alla sopraffazione e vibrava dei ricordi di un grande e ineguagliabile passato, in quelle terre che avevano espresso grandi idee e grandi uomini, da Archimede a Pitagora a Tommaso Campanella a Giordano Bruno a Filangieri a Gian Battista Vico, e che subivano adesso l'onta di un esercito colonizzatore.
I briganti, così definiti dal nemico, erano anche questo, e i loro nomi vituperati, i loro volti straziati dalla lotta e dalle fucilate mi raccontavano una storia diversa, e mi suggerivano una nobiltà che paradossalmente si collegava alle espressioni dei grandi poeti popolari che avevo incontrato. La luce di Sacco Andrea, di Rosa Balistreri e di Matteo Salvatore la ritrovavo nelle storie maledette di Carmine Crocco, Ninco Nanco e Michelina De Cesare.
Ma quale era nel 1979 la conoscenza della Storia e dei nomi e dei fatti del brigantaggio postunitario? E quali erano, più specificamente, la conoscenza e la memoria di canti popolari legati ai briganti e alla loro lotta?
Mi posi allora questa domanda, perché evidentemente l'analisi di tracce storiche e autentiche era un buon punto di partenza. .
Con la Nuova Compagnia di Canto Popolare e con la geniale ricerca di Roberto De Simone avevamo una panoramica pressoché completa dei canti e delle ballate relative a episodi e personaggi della Storia del Sud.
In particolare avevamo inserito nel nostro repertorio un Canto dei Sanfedisti che si riferiva al 1799, quando le bande dell'Esercito della Santa Fede condotte dal Cardinale Ruffo, dopo una marcia -lunga quanto tutta la Calabria, entrarono a Napoli nel giorno di Sant'Antonio (13 giugno) e fecero fuori l'effimero governo repubblicano filofrancese della Repubblica Parrtenopea. I giacobini furono imprigionati, e molti condannati e giustiziati in piazza Mercato. Fra questi la poetessa Eleonora Pimentel Fonseca, e il Canto dei Sanfedisti rivolge a lei le sue strofe violente e dissacranti:


PRIMA DEL 1979

A lu suono de grancascia
viva lu popolo bascio
a lu suono de tammurielle
so' risorte li puverielli
a lu suono de campane
viva viva li pupulane
a lu suono de viuline
morte a li giacubine

Addò è ghiuta Donna Eleonora
c'abballava dint' o Teatro
mo abballa 'mmiezo o Mercato
 'nzieme cu mastro Donato
so' venute li Francisi
auti tasse ce hanno mise
liberlé egalité
tu arruobbe a me io arrobbo a te

Un altro canto"popolare sulla questione unitaria lo avevo ascoltato invece dalla viva voce "del celebre cantastorie e ricercatore calabrese Otello Profazio, che cantava una ballata ambientata proprio nel 1860, nel suo dialetto dello Stretto, dove si ritrovano Calabria e Sicilia:

Vulimo a Garibaldi
però senza la leva
e si iddu fa la leva
cangiamo la bandera

Questi versi si riferiscono al rifiuto della leva obbligatoria imposta da Garibaldi dittatore, ed esprimono un atteggiamento diffuso fra i tanti che avevano accolto con entusiasmo o comunque non ostacolato la marcia dei Mille, ma avevano "cambiato bandiera" alle prime leggi vessatorie imposte dai nuovi governanti.
Ma sul brigantaggio attivo è rimasto poco e niente vuoi perché i briganti nell'agire non potevano evidentemente troppo pensare a cantare seppure strofe di ira e di battaglia, vuoi perché quei canti, se sono mai esistiti, sono stati cancellati e sono scomparsi dalla memoria senza lasciare traccia.
Carlo Levi, nel suo celebre romanzo Cristo si è fermato a Eboli, dedica pagine straordinarie alla memoria, o meglio alla damnatio memoriae della storia del brigantaggio, e racconta che i contadini di Basilicata erano tutti testimoni, ma reticenti, di quella storia: il brigantaggio era stato tanto diffuso in quelle zone che ogni famiglia dovrebbe avere un parente di prima o seconda generazione che sia stato brigante. Eppure nessun ricordo musicale portava a quella guerra e a quella epopea. E infatti tutti i saggi storici, e in particolare Piemontisi, briganti e maccaroni di Ludovico Greco (1975), che è forse l'opera storica moderna più completa e documentata sull'argomento, riporta in appendice i canti dei briganti, ma si tratta solo di canti di prigionia, di rimpianto e lamentazioni per le catene e la perduta libertà, cantati quindi da ex briganti detenuti nelle carceri dello Stato unitario. Tutti canti molto lontani dalle zone calde della battaglia e dall'epica di una lotta ideale.
C'è un'unica eccezione ed è una bellissima e fiera quartina riportata dalla memoria del popolo, che risale sicuramente all'Ottocento, molto probabilmente al periodo dell'eroica contrapposizione all'esercito piemontese, ed è comunque un canto di lotta che esprime il coraggio del brigante e la sprezzante sfida al nemico:

Quant'è bello lu murire acciso
'nnanze a la porta de la 'nnammurata
l'anima se ne saglie 'mparadiso
lu corpo resta a la sventurata

E nel 1975, tre anni prima di Brigante se more, era stato realizzato un film storico per la regia di Ennio Lorenzini, che riguardava una storia molto vicina all' epopea del brigantaggio post-unitario e si rifaceva all'avventura di Carlo Pisacane del 1857. Il film citava la quartina popolare addirittura nel titolo, che era appunto Quant'è bello lu murire acciso, e così si intitolava pure il disco della colonna sonora firmata da Roberto De Simone che l'aveva realizzata con noi della NCCP dopo aver musicato quei versi della tradizione popolare.
È forse proprio in seguito al film di Lorenzini che io, che muovevo allora i primi passi di autore nell'inesplorato mondo del linguaggio popolare, mi ero maggiormente interessato e appassionato all'argomento, cosÌ che nel 1977 scrissi una prima canzone sul tema del brigantaggio dal titolo A la muntagna. Il testo è il seguente:

Quanno fa notte a la muntagna
tremma 'e paura la pecurella,
si 'a vede 'o lupo se la magna

Pure p'o lupo 'a vita è dura,
0' quanno 'o pastore le dà a caccia
e 'a pecurella dorme sicura '
'Ncopp'a muntagna 'o cchiùferoce
mò nunn'è 'o lupo, è 'o brigante,
quanno 'o vedite,faciteve 'a croce

'Ncopp'a muntagna quanno fa scuro
pure 'o pastore mò nun trova pace,
sente nu canto che fa paura:
songo 'e briganti ca se danno 'a voce

E chi 'e cunosce, 'o ssape bbuono,
ca nun l'è mai piaciuto 'o rre Burbone,
ma mo nun sape chest'ata storia
ca nun le piace manco '0 rre Savoia

Se n'è fujuto 'o ne Burbone
e n'è venuto n'ato cchiù putente:
cagna 'o guverno, cagna 'o padrone,
sulo pe' chi sta 'a sotto nun cagna niente

Chi nun l'accetta sta legge nova
a fare lu brigante ce fa la prova,
ma si ce saglie 'ncopp'a muntagna
'a vita soja è comm'a na cundanna

Contro 'e surdate 'e rre Vittorio
mò c'è rimasto sulo sta paranza,

E quann'o pigliano 'ncopp'a muntagna
more senza paura, senza rimpianto,
e quanno 'e ppigliano dint'e paise
diceno: quann'e bello murire acciso

Quindi A la'muntagna e la ballata di Roberto De Simone erano le prime canzoni d'autore sullo sfondo storico del brigantaggio meridionale.
Unica notevolissima eccezione era la ballata Pontelandolfo che il gruppo milanese degli Stormy Six aveva composto nel 1972. In quegli anni noi della NCCP incontrammo a Milano i ragazzi degli Stormy Six. Frequentavamo gli stessi teatri alternativi, e diventammo amici. Il loro ritornello diceva:

Pontelandolfo la campana suona per te
Per tutta la tua gente
Per i vivi e gli ammazzati
Per le donne ed i soldati
Per l'Italia e per il re


Ma a parte i pochi episodi che ho citato, la nutrita e capillare storiografia e le raccolte dei canti popolari, da Imbriani a Pitrè a Molinaro del Chiaro a Benedetto Croce non riportano nessun canto, verso o parola di lotta sulla vicenda del brigantaggio. E sono studiosi così attenti e scientifici che possiamo concludere che questi canti o non sono mai esistiti o sono stati, con l'avvento dei vincitori, completamente distrutti e rigettati nel dimenticatoio della Storia.

Pier Paolo Pasolini nel suo Canzoniere italiano dedica una sezione ai Canti popolari del Risorgimento.
L'attento Pasolini, il poeta dell'Italia dei dialetti, innamorato della cultura del Sud, deve però, da storico, limitarsi a riportare quello che ha ritrovato: il primo reperto è l'ingenuo canto d'amore di un soldato nordista che parte sulla tradotta militare:

Da Canti popolari del Risorgimento:

PARTIRÒ PARTIRÒ

Partirò partirò, partir bisogna
Dove comanderà 'l nostro sovrano
Chi prenderà la strada di Bologna
E chi andrà a Parigi e chi a Milano

Ah, che partenza amara
Gigina cara, mi conviene fare.
Vado alla guerra, spero di tornare

Se il nostro imperator ce lo comanda
Ci batteremo e finirem la vita
Al rullo dei tamburi, al suon di banda
Farem dal mondo l'ultima partita
Ah, che partenza amara
Gigia mia cara, Gigia mia bella,
di me più forse non avrai novella

Pasolini è uomo intelligente e trasgressivo. Pasolini è un artista. Ma quando fa il filologo lo fa con rigore. E nulla si può inventare, e nulla può trascrivere che non sia storicamente autentico. E nulla può tralasciare. Non può farci niente se dal Nord gli giungono questi versi infantili e generici, quasi filastrocche che esprimono disciplina e acritica dedizione al dovere, versi da cantare in relax accompagnati da un'allegra fisarmonica di cortile.
Riporta ancora Pasolini questo secondo canto, sicuramente più bellicoso e preciso del precedente, un vero canto della guerra contro il Regno delle Due Sicilie:

DIMMELO BELLA

Dimmelo, bella dove tu l'hai l'amor?
L'amore l'ho in Piemonte tra fucili e cannon
L'amore l'ho in Piemonte, bandiera tricolor.
Giovane son, voglio morir così
Con Garibaldi in Mantova, o vincere o morir.

Giovane so n, voglio morir così:
Vo' andar con Garibaldi, o vincere o morir

Rivedo in questi versi la consueta mancanza del guizzo poetico, l'assenza di quella scintilla che è invece presente e forte nelle follie dei cantori meridionali. Ritrovo la puntuale piattezza di chi è "schierato", di chi è "a favore di una bandiera" e segue ciecamente l'imperatore e la guerra.
Al Sud tira altra aria, da sempre; al Sud non ci possono essere che rime contro, non può esserci che rifiuto e diffidenza. Ma sulla guerra del Risorgimento, mancano del tutto le voci dei combattenti meridionali, i tamburi del dissenso sono assolutamente silenziosi. Dall'altra parte della barricata i briganti tacciono: dal fronte dei perdenti non ci giungono voci.
O non ce ne son rimaste. Neanche Pasolini le ha trovate.
Per cui quando scrivemmo Brigante se more dovevamo muoverci su un piano di pura invenzione, perché i riferimenti poetici erano praticamente inesistenti.

MARZO 1979: NASCITA DI BRIGANTE SE MORE

Lo sceneggiato L'eredità della Priora realizzava le sue riprese in parte negli studi televisivi di via Marconi a Napoli, in parte, per gli esterni, nel paesaggio storico della Basilicata, negli ambienti e nei luoghi descritti dal romanzo.
A un certo punto della lavorazione il regista Majano mi chiese di pensare alla musica più importante per lo sceneggiato, quella che doveva aprire ogni puntata, il canto dei cosiddetti titoli di testa.
Io e Carlo D'Angiò, come ho detto, lavoravamo insieme a quell'operazione, e una sera Carlo se ne venne con una romantica ballata dalla musica molto dolce e dal testo tenue e sfumato che aveva appena pensato:

Melo-granato spuntato 'a agosto
fuori stagione che purtarrà
porta la morte de lu brigante
c'a a la muntagna era juto a campa'

Se ne era juto addò nasceno e fiure
addò o nemico nunn'o po' truva'
addò se contano stelle a miliune
che a una a una nun se ponno cunta'

La musicalità era straordinaria e, per quanto riguarda il testo, Carlo si dimostrava convinto (e lo è ancora oggi) che la trovata del melograno che, essendo spuntato ad agosto, cioè fuori stagione, recava un terribile presagio di morte, era qualcosa di forte che sarebbe piaciuta ad Anton Giulio Majano.
Ma quando io andai da solo (Carlo mi abbandonava in questi momenti più critici) a farla ascoltare al regista, questi rispose con un ruggito e una serie di esternazioni che sul momento mi apparvero esagerate, e le giudicai per certi versi vere idiozie di vecchio tradizionalista rimbambito incapace di cogliere la vivacità di quella poesia moderna e surreale. Majano veniva dal grande successo ancora caldo de L'isola del tesoro, e ancora risuonava nella testa dei telespettatori la sigla di apertura, un canto già diventato celebre, un coraccio che molti ricorderanno, che diceva:

Quindici uomini quindici uomini
sulla cassa del morto
oh oh oh oh oh oh
e una bottiglia di rum

Di fronte alla tenera ballata lui si mise a urlare col suo accento romanesco da cinematografaro d'assalto, quello che usava nei momenti di alterazione, e mi disse: <<A Benna' ma nun aj caapito niente, a me me serve un canto de battajia, questi briganti devono canta' tutti in coro, capito!?, e tutti quelli che sentono 'sto coro non se lo devono scorda', me so' spiegato?» e si mise a sbraitare ripetendo le note che aveva appena ascoltato con i toni violacei di un coro di avvinazzati.
Mi allontanai inorridito: guarda che bisogna fare per campare, pensai. Majano è un televisivo, va per il grande pubblico, e ci costringe a cambiare la nostra raffinata poesia del melo grano.
Tornai a casa, raccontai il tutto a Carlo. Ci guardammo in faccia perplessi e sdegnati, poi sorridemmo e pensammo: Majano vuole la guerra? E guerra sia!
Scrissi di getto una strofa dopo l'altra. E che ci vuole a fare un coro? Un coro di guerra?
Le scoppette al posto dei tamburi, una chiamata a raccolta dalla Calabria alla Basilicata, una maledizione al soldato piemontese che è più infame e infido del lupo (questo l'avevo già scritto nella precedente A la muntagna e così avanti, senza mollare un verso o una rima: nel coro è tutto più efficace, basta non dire cose complicate e usare immagini forti e rime ad effetto.
Nella penultima strofa mi permisi un riferimento preciso alla storia che Majano raccontava: uno dei protagonisti, il brigante Gerardo Satriano, muore perché la sua innamorata, Juzzella, gli corre incontro urlando il suo nome e attira su di lui i colpi del nemico (<<femmene belle ca date lu core I si lu brigante vulite salva' I nun '0 cercate scurdateve o nome»): una tenera divagazione romantica, sicuramente giusta prima dell' esplosione dell'ultima strofa, violenta e decisiva, il giusto finale per un coro di guerra: «Ommo se nasce brigante se more».
Il giorno dopo andai alla Rai, fui ricevuto da Anton Giulio Majano. Ero sicuro di me, ma pur sempre timido e impacciato di fronte al professore. Presi la mia chitarra e gli cantai:

Ammo pusato chitarre e tambure
pecché sta musica s'adda cagna'
simmo brigante e jacimmo paura
e cu a scuppetta vulimmo canta'

E mo cantammo sta nova canzone
tutta la gente se l'adda 'mpara'
nun ce ne fotte d'o Rre Burbone
ma a terra è a nostra e nun s'adda tucca'

Tutte e paise d'a Basilicata
se so' scetate e vonno lutta'

pure a Calabria mo s'è arrevutata
e stu nemico 'o facimmo tremma'

Chi ha visto o lupo e s'e miso paura
nun sape buono qual è a verità
o vero lupo ca magna e criature
è o piemontese c'avimma caccia'

Femmene belle ca date lu core
si lu brigante vulite salva'
nun 'o cercate, scurdate o nomme
chi ce fa guerra nun tene pietà

Ommo se nasce brigante se more
ma fino all'ultimo avimma spara'
e si murimmo menàte nu fiore
e na bestemmia pe sta libertà

La mia voce era forse incerta, ma le parole risuonavano preecise nella sala dove, oltre al regista c'erano la sua giovane assii
stente Marisa, Rosa, la montatrice che lavorava sulla pellicola 16mm, e Alfredo Quaranta, che era l'assistente musicale interno Rai, e poi Renato Marengo, esperto giornalista e mio produttore disco grafico, (che aveva mollato la storica NCCP quando io me ne ero andato per collaborare al mio progetto innovativo di Musicanova) ed Enzo Aprea, tecnico Rai, amante e profondo conoscitore di cose napoletane.
Majano mi guardava assorto nell'ascolto, alla fine mi venne incontro e ruvidamente mi abbracciò, mentre le sue assistenti erano commosse, e si diffuse in quella stanza del Centro di Produzione di via Marconi a Napoli un clima di euforia.
Loro avevano raggiunto lo scopo, lo sceneggiato aveva una sigla di apertura capace di calamitare lo spettatore; e io e Carlo ci ritrovavamo con una nuova creatura nel giovane repertorio delle nostre composizioni, Brigante se more, e con un debito di riconoscenza verso il regista che ci aveva imposto di scriverla in quel modo per renderla nazional-popolare, come allora si cominciava a dire, e con un insegnamento di vita notevole: l'esperienza del vecchio Anton Giulio Majano aveva avuto ragione della nostra esuberanza e sana arroganza giovanile.
Era il marzo 1979, ed era nato uno dei canti più popolari degli ultimi decenni della musica italiana.

6
I DUE VERSI CONTRAFFATTI

A un certo punto della sua storia, Brigante se more ha subìto una violenza, una contraffazione.
Un anonimo si è preso la briga di alterarla, seppur di poco, e di cambiare due versi, uno nella seconda, uno nell'ultima strofa, e allora il nostro canto ha subito un danno dal punto di vista stilistico: la versione che ne viene fuori ha peggiorato la composizione originale.
Il problema è che, per di più, la manipolazione del testo originale è avvenuta per mani inesperte e maldestre: vi assicuro che scrivere versi di carattere popolare non è impresa facile.
L'equilibrio stilistico da rispettare è delicatissimo, la poesia popolare si caratterizza sempre per una semplicità e un'immediatezza che, se vengono infrante, producono danni irreparabili.  
Ora non esiste-una scuola di "stile popolare", ce la dobbiamo inventare, e di lezioni forse noi ne possiamo dare se, al primo colpo, con Brigante se more, abbiamo centrato una composizione che ha ottenuto tanto successo, e che evidentemente è stata da noi scritta in maniera così efficace da essere assimilata alla poesia popolare della storia e del passato.
Quindi penso di avere i titoli per affermare che l'''anonimo" (lui sì!) autore della contraffazione, ha commesso due grandi cavolate, ha agito come un elefante in una cristalliera, ha imbruttito il nostro canto, e questo non gliela possiamo permettere.
Come ho già detto la storia di questa ballata inizia nel 1979, quando Carlo e io la componemmo; e la componemmo nella nostra lingua napoletana senza riferirci a nessun testo, espressione o parola preesistente nell' assoluta assenza storica di canti di guerra del brigantaggio antipiemontese. Dunque un'opera di pura invenzione, l'inno dei briganti che non era mai esistito e che un regista ci invitava a scrivere.
Nella seconda strofa io scrissi:

E mo cantammo sta nova canzone
tutta la gente se l'adda 'mpara'
nun ce ne fotte d'o rre Burbone
ma a terra è a nostra e nun s'adda tucca'

Lo sconosciuto manipolatore, a cui evidentemente dava fastidio il verso «nun ce ne fotte ... » (non capendo che in quella espressione non c'è per la verità un intento antiborbonico ma, al contrario, la dichiarata volontà di non affrontare la questione dinastica: si tratta quindi di una sfumatura "guappesca" di linguaggio, aggressivo e provocatorio) ha preso l'iniziativa di cammbiare quel penultimo verso, e di scrivere:

nuje cumbattimmo p'o Rre Burbone
a terra è a nostra e nun s'adda tucca'

L'intento è pedissequamente filoborbonico, ma il risultato è patetico e poeticamente insostenibile, e infrange la logica stilistica e l'equilibrio che avevo immesso in quella composizione (e che è sicuramente uno dei motivi del suo successo); se uno urla: «Noi combattiamo per il Borbone», come gli viene di urlare immediatamente dopo «la terra è a nostra e non si deve toccare»?
Un guaio serio, devo dire.
Se qualcuno si fosse rivolto direttamente a me dicendo mi che gli dava fastidio l'espressione «nun ce ne fotte d'o Rre Burbone», che gli sembrava irriverente per la Dinastia e se mi avesse chiesto o costretto con preghiere o con minacce a cambiare l'originale «nun ce ne fotte» con «nuje cumbattimmo», gli avrei fatto notare, da addetto ai lavori, che conveniva a quel punto andare fino in fondo e cambiare anche la frase successiva. Gli avrei suggerito un'altra soluzione (la prima che mi viene in mente, ma sicuramente migliore della sua e non ci vuole molto).
Gli avrei proposto, a titolo di esempio:

... nuje cumbattimmo p'o Rre Burbone
e dammo a vita pe' sta fedeltà

Ecco serviti gli esuberanti e animosi neo-borbonici che al tempo che scrissi Brigante se more non esistevano, che allora forse non sapevano neanche dell' esistenza del brigantaggio post-unitario, e che si sono successivamente mobilitati dando luogo ad associazioni, fondazioni e addirittura a partiti politici, nati, mi viene da pensare, proprio sulla scia del canto di guerra che avevamo scritto (più realisti del re, è il caso di dire).
Per capirci, questa soluzione (<<nuje cumbattimmo p'o Rre Burbone / e dammo a vita pe' sta fedeltà») è coerente. La prima frase prepara e culmina nella seconda, e l'effetto di infiammare i nostalgici fedelissimi sarebbe sicuramente meglio raggiunto; penso in questo momento all'imbarazzo di costoro ogni volta che si devono sorbire nella versione apocrifa il trauma del passaggio improvviso e schizofrenico da un grido di combattimento dinastico (urlo "realista") a una opposta rivendicazione di carattere sociale . (urlo" socialista").
L'accostameno che si legge nella versione alterata è davvero inopportuno e ridicolo, e immagino che avrebbe imbarazzato e irritato lo stesso Re Francesco II se dal suo esilio avesse mai potuto fare in tempo ad ascoltarlo (cioè se io e il mio falsificatore fossimo nati almeno cent'anni prima).
Ma quel «nun ce ne fotte» che scrissi per cantare l'inno dei briganti, come lo sceneggiato richiedeva e come la mia fantasia mi suggeriva, ricorre a una figurazione tipicamente meridionale, e forse napoletana del linguaggio che in questo caso deve essere un linguaggio d'assalto, immediato e aggressivo come un canto di battaglia. «Nun ce ne fotte ... ma ... » è la figura della dialettica popolare precisamente usata per significare, anzi per gridare, come minaccia e sfida di fronte al nemico invasore: «Indipendentemente da», come dire: «Non voglio parlare della questione legittimista, la nostra terra non si tocca, chiunque sia il re».
Insomma, a quel punto del canto avevo bisogno di una frase forte, spavalda e provocatoria, laddove la frase «nuje cumbatttimmo p'o Rre Burbone» proposta dai miei correttori è decisamente banale e tanto superflua e scontata da apparire addirittura ridicola, buona per i tardivi nostalgici che cantano nei salotti, non per i briganti della storia e della sfida e della guerra e della guerriglia. Ma per la mia fantasia, per la mia interpretazione di una lontana vicenda storica, l'urlo meridionale del "brigante" deve innanzi tutto contrapporsi alla banalità del soldato settentrionale, ligio e rassegnato al dovere, quello, per intenderei, della canzone popolare riportata da Pasolini (<<L'amore l'ho in Piemonte tra fucili e cannon / l'amore l'ho in Piemonte, bandiera tricolor»).
E invece chi scrive «nuje cumbattimmo p'o Rre Burbone», ci fa pensare proprio al trionfalismo imposto dalla disciplina militare, allo schieramento, alle divise ordinate e alla retorica della bandiera, e si avvicina alla insulsaggine di quel canto nordista, c'è poco da fare.
In ogni caso, e la Storia ce lo racconta, i briganti combattevano con ardore spontaneo, a differenza dell'esercito regolare che avevano di fronte non combattevano per la paga né per l'obbligo di leva e la componente individualista, pur nella fedeltà a una causa dinastica, era la parte caratterizzante della loro personalità. E fu anche il limite che indebolì l'insorgenza e pose Crocco in contrasto con Borjés, per cui il movimento fu sopraffatto, Borjés fu fucilato e Crocco invecchiò nei lager dei Savoia.
Nello scrivere l'inno dei briganti dovevo usare un linguaggio libero e il"mento come i guerriglieri che rappresentavo, travolgente e immediato, penso di esserci riuscito, e pretendo che non siano banalizzate quelle immagini.
Poi se qualcuno vuol cantarlo in una versione diversa non sarò certo io a impedirlo: gli addomesticamenti e le parodie sono sempre esistite e sono segno di successo.
La questione riguardante l'altro verso, quello dell'ultima strofa, è decisamente più inquietante, e la contraffazione apportata è ancora più sgrammaticata, stupida e insostenibile.
L'ultima strofa, la più bella, quella decisiva, dice:

Ommo se nasce brigante se more
mafino all'ultimo avimma sparà
e si murimmo menàte nu fiore
e na bestemmia pe sta libertà

Nella manipolazione (sarà stato lo stesso insulso autore del pasticcio della seconda strofa) la parola «bestemmia» viene censurata e cambiata con «preghiera».
L'intento, che puzza di sacrestia, è di evitare che un brigante, che si è appena dichiarato brigante e pronto a morire, pronunci il termine «bestemmia», che per i bigotti difensori del nulla è qualcosa che sarebbe in contraddizione con l'indole cristiana del brigante stesso (!).
Il risultato è infernale. Quando scrissi l'ultima strofa pensai alle foto dei briganti uccisi e abbandonati sul ciglio della strada, e a un passante o, meglio, a una passante, donna del Sud che lancia un fiore e maledice la "libertà" imposta dai piemontesi. Una donna del Sud, novella Medea o furiosa Erinni che dall'Olimpo della mitologia classica scenda nella terra polverosa dell'assolata Basilicata e che, di fronte alla drammatica immagine del suo brigante ucciso, levi al cielo alto il suo grido di dolore e di vendetta. È il giusto epilogo per una composizione poetica che vuoI cambiare la visione falsificata di una Storia unilateralmente scritta dai vincitori, sottolineare il dramma di una popolazione e ricordare al mondo l'ingiustizia e la strage.
Ma io, che so di essere un po' ribelle e rinnegato come i briganti che andavo cantando, ho scelto la parola "bestemmia", che è parola forte; e allora qualcuno si è preso la briga di "correggerla", come si farebbe di fronte a un inno di giovani seminaristi o dell'esercito della salvezza. E allora questo sconosciuto moralista cancella "bestemmia» e scrive "preghiera", per cui risulterebbe: "Se noi moriamo, menate un fiore, e (menate) una preghiera per questa libertà".
A parte il fatto che "menare una preghiera" è qualcosa di semanticamente abominevole, una vera barzelletta, in ogni caso la preghiera sarebbe "menata", penso, per ottenere, per misericordia, per vie pie e "mistiche" la libertà. Quindi un fiero canto di battaglia, il mio popolare canto di guerra, subisce a questo punto un attentato devastante: nel tentativo di edulcorare il testo, si toglie al finale tutta la forza del messaggio, il brigante in assetto di guerra diventa un pastorello rassegnato, un timido prete di campagna che, nel caso fosse ucciso, invita i posteri alla moderazione e all'astensione da ogni sentimento di rivendicazione o vendetta.
Insomma il brigante direbbe, secondo l'anonima manipolazione: "Se muoio non arrabbiatevi, ma mettetevi a pregare".
Ma quando io scrivo «bestemmia pe' sta libertà» a quale libertà mi riferisco? A «sta» libertà, a «questa» libertà che ci sbandierano e ci impongono i vincitori, a «questa» falsa libertà promessa da Garibaldi, Cavour e dai Savoia, a «questa» libertà da maledire, nel cui nome si mascherano altri disegni e si consuma il genocidio. E quando qualcuno prende l'iniziativa di scrivere «preghiera pe' sta libertà» a quale libertà può riferirsi, a quale libertà una preghiera può essere rivolta? Evidentemente, alla libertà vera, quella autentica, quella che non ha bisogno di aggettivi dimostrativi, che non è «questa» o «quella», è «la» libertà punto e basta. AVTebbe dovuto scrivere semplicemente «preghiera p'a libertà». Ma ha scritto, impropriamente «preghiera pe' sta libertà» per quadrare la metrica, che è la tipica ingenuità dei dilettanti (e ne conosco tantissimi che da anni mi propongono versi infarciti e appesantiti da particelle insensate e superflue). L'originale è invece perfetto nella musicalità schioppettante delle due "si" ravvicinate, e nell'efficacia sarcastica dell'aggettivo dimostrativo, in questo caso appropriatamente utilizzato (quando qualcuno rovina i miei versi mi va di contrastarlo fino in fondo).
È in ogni caso evidente che la censura sul mio canto cancella le due espressioni più forti di Brigante se more, che sono appunto «nun ce ne fotte» e «bestemmia», le due espressioni urlate che evidentemente danno fastidio ai benpensanti, che offendono orecchie caste e creano imbarazzo se pronunciate nelle recite parrocchiali o nei moralistici salotti dei nostalgici. Ma per quelli che lottano, che si identificano con le anime dei briganti che lottarono davvero, quelle due espressioni sono insostituibili.
Il fatto che si accenda un dibattito su queste due maldestre contraffazioni e che non sia evidente a tutti l'assurdità della questione è un segno chiarissimo che Brigante se more ha provocato un trauma nelle coscienze (questo era il mio intento), e ha sollevato UD. caso che desta grandissima emotività e che fa perdere a molti la più basilare lucidità. È un elemento che lascio all'indagine di psicologi ed esperti in sociologia della comunicazione.
Ma vi prego di non toccare le immagini che mi sono care, di non toccare il debito poetico e umano che ho con gli artisti maledetti che mi hanno affascinato; di non toccare la mia libertà, e di prendervi quei versi e quelle parole così come le ho scritte. Nessun brigante storico le ha mai pronunciate, nessun viandante dell'Ottocento o di gran parte del Novecento le ha mai ascoltate, ma io certo le ho rubate a qualche istante o a qualche lampo della mia vita e le ho nascoste nella mia anima. Non toccate la mia fedeltà a Fabrizio De André che non ebbe esitazioni nello scrivere:

Tutti morimmo a stento
ingoiando l'ultima voce
tirando calci al vento
vedemmo sfumare la luce

L'urlo travolse il sole
l'aria divenne stretta
cristalli di parole
l'ultima bestemmia detta

7
VE LO DIAMO NOI L'ORIGINALE

Corsi da Carlo, lui aveva appena smesso di annaffiare le piante del suo giardino e strimpellava la chitarra, alla ricerca di qualcosa.
«È successo un casino» lo interruppi bruscamente «hanno trovato un nonno che canta Brigante se more da tempo immemorabile e come se non bastasse è venuto fuori un ragazzo che dice di essere in possesso di un 45 giri degli anni Sessanta che contiene direttamente la canzone».
Carlo smise di inseguire l'improbabile sequenza logica di accordi in cui si era impegnato e dette alla chitarra un colpo secco e improvviso, una sorta di dissonante "rasgueado" che assomigliava più a una nervosa percussione che a un suono di corde vibranti.
«Ci hanno scoperto!» pensammo, «ci conviene sputare il rospo». Uscimmo per strada e ci avviammo al Chiostro di Santa Chiara. Terza colonna a sinistra, nella cavità del capitello in alto. Era lì che avevamo nascosto la pergamena.
Carlo, che è più leggero, si arrampicò sulle mie spalle e rovistò con ansia. Guardò e riguardò: della pergamena nessuna traccia.
Brutta situazione: proprio ora che ci eravamo decisi a confessare che Brigante se more l'avevamo copiata pari pari, la pergamena era scomparsa.
Per avere comunque una prova che supportasse la nostra confessione cercammo di contattare la nipote del nonno e il collezionista del 45 giri ma, si sa, nell'inferno di Internet le persone irrompono e si smaterializzano come se niente fosse.
«I libri» disse Carlo «ci sono i libri!».
I libri erano tutti lì, sulla mia scrivania, dal primissimo saggio di Marco Le Monnier del 1862, alla Storia del brigantaggio dopo l'Unità scritta cent'anni dopo.
«Ma questi li abbiamo già letti» dissi scoraggiato «e su Brigante se more il silenzio più totale ... ».
«La biografia di Carmine Crocco!» esclamò Carlo «il Generale di tutti i briganti ha raccontato tutto nel 1903, e certamente non può essersi dimenticato del famoso canto di guerra».
Niente. Anche Crocco ci aveva traditi, lasciandoci soli con il nostro inno.
Passammo a esaminare i libri scritti dopo il 1979 che, ovviamente contano quanto il due di picche. Ma quegli autori, che riportano il testo per intero, qualche notizia devono pur darcela, qualche documento devono pur possederlo.
La prima che prendemmo in considerazione fu, per motivi cronologici, Isabella Rauti, che nel 1989 aveva scritto Campane a martello. La Vandea italiana.
Ma Isabella riportava il testo della canzone con il titolo Canto Sanfedista e il suo libro non riguardava la storia del Risorgimento, ma le vicende del 1799, le guerre contro Napoleone Bonaparte: i piemontesi non c'entravano un fico secco, la poverina si era confusa, e capimmo che non era il caso di infierire né di perdere tempo.
C'era poi il libro di Franco Mario Agnoli, ex magistrato di Bologna, che pure riportava quel testo, ma quando passava a raccontare come e dove l'avesse trovato, diceva tranquillamente, in perfetta incoscienza storiografica, senza porsi troppi problemi, che l'aveva letto sul libro di Isabella, quindi andavamo di male conto; grazie Eugenio e Carlo, state dando dignità e orgoglio a tutti i meridionali. Ecco l'effetto che voi cantanti avete sul pubbblico e sulla sensibilità del popolo! Viva il Sud!)).

Niente da fare. Neanche Ciano poteva aiutarci.
Maledetta pergamena che non si trovava. Melflnaggia la nostra distrazione! Dove l'abbiamo potuta dimenticare? Che fine avrà[atto?
Decidemmo di partire per la Basilicata.
Carmenella e Nannina, le fattucchiere di Alianello, stavano ancora lì, nella spettrale catapecchia sulla strada di Avigliano, belle e giovani come allora, quando le incontrammo nel 1860.
Ci fecero entrare, ed erano passati tanti anni, ma sul letto in fondo alla stanza la madre vecchia giaceva ancora lì nel buio, e senza voltarsi, come allora, si accorse di noi, ci riconobbe, e ci disse con voce stentata: «State ancora cca!? Che vulite, n'ata canzone?)).

8
VULESSE ADDEVENTARE NU BRIGANTE

Torniamo al 1979 e allo sceneggiato televisivo L'eredità della Priora. Dopo' i titoli di testa, i titoli di coda. Vulesse addeventare nu brigante la scrissi da solo e la scrissi, come spesso mi succede, in macchina, sull'autostrada tra Roma e Firenze.
Mi risuonava un ritmo incalzante di tarantella dalla melodia dispari, e, per quanto riguarda il testo, un espediente poetico tipicamente popolare, il "vurria addeventare" o "vulesse addevenntare", che è presente in tanti canti della tradizione, ed è riportato nelle famose raccolte di versi realizzate da illustri studiosi delll'inizio del Novecento. Molinara del Chiara nella sua raccolta di canti popolari, riporta vari capoversi <<Vurria addeventare specchio» e poi «Vurria addeventare ghiaccio», «Vurria addeventare pesce de lu mare» e altri.
Sono espressioni che esprimono il desiderio dell'innamorato di trasformarsi In un oggetto o in un animale, insomma in qual cosa di "altro" per poter stare vicino alla donna amata.
Io scrissi, anche questa volta di getto:

Vulesse addeventare suricillo oi nenna ne
pe' li rusecare sti catene
ca m'astregneno lu pede
e me fanno schiavo

Vulesse addeventare pesce spada oi nenna ne
pe' puterle subito squartare
'ntra lu funno de lu mare
sti nemice nuostre

Vulesse addeventare na palomma oi nenna ne
pe' putere libero vulare
e 'nguacchiare li divise
a tutte e Piemuntise

Vulesse addeventare na tammorra oi nenna ne
pe' scetare a tutta chesta gente
ca nun ha capito niente
e ce sta a guardare

Vulesse addeventare na bannera oi nenna ne
pe' dare unu culore a chesta guerra

ca la libera sta terra
o ce fa murire

Vulesse addeventare nu brigante oi nenna ne
ca po' sta' sulo a la muntagna scura
pe' te fa' sempe paura
fino a quanno more

Anche questa composizione risultò perfettamente funzionale per lo sceneggiato.
Su un ritmo incalzante d'assalto si susseguivano, strofa dopo strofa, lo sberleffo e la sfida al nemico, l'urlo di chiamata a raccolta del brigante, l'esortazione e il desiderio di dare una bandiera a questa guerra frastagliata. E il senso disperato di una lotta senza sbocco da condurre fino alla morte: questo elemento della morte, con cui si chiude il canto, era presente anche in Brigante se more, che termina con un riferimento analogo; i due canti, anche se musicalmente diversi, sono comunque accomunati da immagini simili e dallo stesso linguaggio, ma questo era naturale ed era un pregio perché Vulesse addeventare e Brigante se more, scritte a pochi giorni di distanza, erano i titoli di testa e di coda dello sceneggiato e un collegamento stilistico dovevano necessariamente averlo, visto che si riferivano alla stessa opera drammaturgica.
Vulesse addeventare nu brigante è dunque composizione gemella a Brigante se more, di cui ho scritto parole e musica in quel marzo 1979. E anche questa canzone non è sfuggita allo scempio di disinformazione che scatta, evidentemente, quando si affronntano argomenti che coinvolgono con forte emotività l'ascoltatore, argomenti che appartengono alla Storia e quindi alla terra, argomenti che il pubblico fa appassionatamente "suoi" fino a non voler vedere o addirittura a negare l'identità e l'esistenza dell' autore.
Con Vulesse addeventare nu brigante mi è andata in verità un po' meglio, perché ad esempio il sito "Canzoni contro la guerra" che la riporta dando anche ampio spazio a numerose traduzioni, reca la dicitura: «Testo di Eugenio Bennato sull'aria di una tarantella del XVII secolo». Quindi in questo caso per forrtuna viene confermato che ho scritto almeno le parole (e ringraziamo per la concessione). Ma la musica no, la musica risulta per qualcuno un'aria del XVII secolo (cioè il Seicento). Ora mi rendo conto che all'anonimo estensore del sito non costa nulla scrivere un'idiozia del genere, diciamo la prima che gli è venuta in mente, ma mi chiedo: perché quel secolo e non un altro? E se è il Seicento, certo quell'aria non può averla sentita da una testimonianza diretta e quindi deve averla trovata scritta da qualche parte. Perché non riporta quella fonte? Ovviamente sono domande senza risposta.
E così anche Vulesse addeventare nu brigante è cantata tantissimo ancora oggi sia da cantanti improvvisati sia da gruppi musicali, ed è stata incisa moltissime volte ma il mio nome spesso non è riportato così anche qui rischio di passare lentamente e inesorabilmente da "Eugenio Bennato" ad "Autore anonimo".
Questo è evidentemente il prezzo da pagare quando si scrive un brano che diventa best -seller non nel mercato disco grafico della musica commerciale ma nel circuito alternativo della muusica di strada.

9
JUZZELLA: LA CANZONE DELLA LUNA

Vi volete spogliare prima voi?» chiese dopo un momento. o volete bere? Mangiare? Lu letto è fatto ... ».
Gerardo la stava a guardare trasecolato: ((No, grazie. Non mi occorre niente», protestò. ((Ma tu ... tu come ti chiami?». ((Juzzella, a servire» disse la ragazza.

((Bene ... grazie ... E mo va' pure. Buona notte, ]uzzella». Quella lo guardò spalancando gli occhi: ((Nun avite capito, eccellenza? lo v'agge a fa cumpagnia pe' sta notte ... ha ditto lu patrone ... ». E, senza arrossire, compostamente, cominciò a sciogliersi i legacci del corpetto.
Juzzella, seduta sul letto, sgranocchiava con gioia feroce un torrone. ((Tengo fame!» aveva detto.
Appoggiato su un gomito al suo fianco, Gerardo la sta/Ja a guardare ammirato da quella fame e da quella impudicizia così candidamente o bestialmente naturali.
((Te miette scuorno?» rise lei. Scuorno, vergogna. Lei vergugl/.(J. non ne ha; è svergognata. E il torrone faceva cric sotto i suoi denti bianchi e solidi: ((Si' bello, si' bianco ... ».
(<Anche tu sei bianca» disse Gerardo e ammirava di mala/Joglia, con fastidio quasi, quel candore ambrato dove il lume della lucerna suscitava rossori ed ombre dolcemente brune.
((È per questo che mi tengono qua», rise lei, ((sinnò me tuccava gì a zappa' alla campagna».
((Ma tu chi sei?» chiese lui. ((Che mestiere fai?».
Juzzella tirò indietro con un gesto deciso una ciocca dei capelli neri che le ingombrava la fronte e smise di masticare. ((So' la serva», disse dura.
((E sti servizi ti fanno fare?».
«Aggi'a campa', no?» rispose lei sprezzante, come chi è costretto a spiegare una cosa facile, chiara, che ci arrivano tutti, anche un ragazzetto o un imbecille.
Saltò giù dal letto e andò al cassettone: si versò da bere e sorseggiava il vino golosamente, socchiudendo gli occhi. Poi fece un mucchietto dei taralli e se li strinse al petto con le mani aperte a coppa. Non aveva freddo lei, grande e snella, libera da impacci.
«Vieni qua» la chiamò Gerardo.
«Vuò nu vasillo?» rise lei socchiudendo furbescamente gli occhi. «Parliamo» disse lui.
La donna tornò a sedere sul letto e continuava a sgranocchiare coi denti troppo bianchi quella roba troppo dura. Era notte di festa per lei, un regalo della sorte e quel dono lei voleva goderselo tutto. Ma non ci riuscì; qualcosa le si dovette muovere nel pensiero, perché il suo sguardo diveniva sempre più cupo e il deglutire più rado. Si lasciò cadere le mani in grembo e chiese con una voce lenta, un po' rauca: «Tieni l'innammurata a lu paiese tuo?».
«No» rispose Gerardo anche lui sottovoce e gli occhi gli s'empirono di lacrime. Stupidamente e con sua sorpresa, perché, se è vero che non ha nessuna né a Napoli né fuori che gli sia rimasta in cuore, pure la voce e l'animo gli risuonavano d'una desolazione che non conosceva.
Juzzella si era distesa vicino, guancia a guancia: «Siente ... » gli sussurrò, «t'agge a dicere na cosa. Ma tu nun l'àie a cunta' a niisciuno. Tu nun rire ... È vero ca nun ridi? Siente ... io nun so' figlia di serva: 'o ssaie? Mamma e tata nun erano zappa terra».
«Ti credo», disse Gerardo, ed era sincero; non è carne di cafone questa. Intanto la guardava: quanti anni potrà alere? Quindici, diciotto ... doveva aver superato solo da poco l'adolescenza.
«Sì», disse lei, «sta chiù vicino a me, azzicco azzicco ... Nisciuno ha da senti' ... lo so' figlia di principe e di principessa».
«Eh!» fece il giovane sbalordito. ((E come mai?».
«Sì», fece lei. «Nun vide ch'io tengo gli occhi come lu cielo e la carne come la luna? Na lJota, quanno nascetti io, passò per Rionero ... notte era fonda e nisciuno la vide, na carrozza con dieci cavalli. E i calJalli erano tutti bianchi e la carrozza era d'oro e d'argiento .... Sì. E dentro c'era una bella signora, ma bella, 'o ssaie? Come il sole, bianca e rossa co' na corona d'oro ncoppa 'e capille ... Di furia entrò, di furia passò, di furia ascette ...
Antonella era il nome dell'attrice che nello sceneggiato televisivo di Majano faceva la parte di Juzzella. Una sera, dopo la giornata di lavorazione del film, l'accompagnai, c'era la luna e lei mi disse, prima di andar via: «Quando è luna piena bisogna fare tre volte l'amore».
Io rimasi solo, e quella frase mi suonava come una stravaganza buttata n per caso. Tornai a pensare alla musica, e mi ricordai che il tema di Juzzella era quello che !'implacabile Majano mi aveva chiesto quel giorno, e s'era raccomandato: «Bennà, nun te sbaija', sta storia d'amore e la cosa più importante del film».

A un tratto mi ritornò in mente quella frase detta da Antonella, la luna era ancora li.
Era la luna di Rionero che rischiara o nasconde tre grandi baci d'amore della favola o della vita.

CANZONE-PER JUZZELLA

Quanno nasciste tu forma d'argiento
nasciste a lu tiempo
de la luna nova
'ncielo sulo e stelle pe' curona

Luna crescente e tu da stu ciardino
cuglive a uno a uno
tutti li culure
de la primavera eh iena 'e sciure

A li tre notti de la luna eh iena
tu ce sì venuta
pe'fare l'ammore
pe' vasà tre vuote chistu care

Luna calante e tu te si' addurmuta
comm'a na palomma
ca ce va' murire
novi amanti statemi a sentire

E così, seguendo la suggestione della luna di Rionero scrissi questi versi per Juzzella che aveva gli occhi come il cielo e la carne come la luna.
La luna nuova è la sua nascita, nella notte della principessa e della Cattedrale e della carrozza d'argento e dei dieci cavalli bianchi.
La luna crescente è la fanciullezza di Juzzella, che stagione dopo stagione si tinge dei colori di un giardino del sud illuminato dalla primavera.
La luna piena è il tempo dell'amore.
La luna calante è la triste fine della storia: Juzzella fugge dal convento dove il padrone l'aveva rinchiusa, e cavalcando per le strade e i campi, alla fine raggiunge Gerardo, urla il suo nome quando lo vede in pericolo di fronte ai fucili nemici, si lancia per salvarlo e viene uccisa.
Questa scena (che non c'è nel romanzo), è la più emozionante dello sceneggiato, e come sapete, l'ho ricordata nei titoli di testa (Brigante se more), per sottolineare il sacrificio dei briganti soli nella clandestinità e nella battaglia (<<Femmene belle che date lu core / si lu brigante vulite salvà/nun '0 cercate scurdateve o nome / chi ce fa guerra nun tene pietà»).
Anche il testo di Canzone per Juzzella nacque di getto, lo scrissi quella sera, e mi fermai al penultimo verso: non trovavo un'immagine, mi mancava una rima per «comm'a na palomma / ca ce vo' murire»; non sapevo come chiudere quella poesia, quando improvvisamente, come in un incantesimo, mi apparve nella mente l'immagine dei cantori di Carpino, i maestri della sublime tarantella del Gargano, che avvolti nei loro rituali mantelli neri cantavano al suono delle loro chitarre battenti. Loro chiudevano spesso le loro serenate con il verso «Novi amanti statemi a sentire»: era la rima perfetta, e la citazione giusta e rituale per chiudere la canzone. La musica di Canzone di Juzzella venne il giorno seguente, e nacque dalla sensibilità straordinaria di Carlo D'Angiò che ascoltò quelle strofe, prese la chitarra e scrisse quella melodia oggi amatissima, cantata da tanti ragazzi e ragazze come un prezioso regalo d'amore.

La versione strumentale più importante, nella colonna sonora dello sceneggiato, fu suonata da due musicisti napoletani, il pianista Ernesto Vitolo e il violoncellista Nando Caccaviello. Nando era un bravissimo concertista, girava il mondo con il suo violoncello, e da uno di questi viaggi non è tornato mai più a causa di un incidente, ed è rimasto giovane per sempre.

lO
LA BASILICATA DI ALIANELLO

La donna cantava: «Comme nu zappa terra l'haie pagata sta pazzia ... Ca sempre lu zappa terra pava. Mannaggia la carabina ca t'ha fatto guappo, mannaggia la guapperia ca t'ha stutato ... ca sempre guapperia te fu male vento e mo'te porta nt'a lu bosco oscuro addò lume nun c'è ... a vulive a culla? E figliemo, dove sta figliemo, che s'è spierso p' 'a via? Core freddo e bocca 'nserrata, mo t'arritruove co chi mai nascette».

La giovane sposa Maria Palumba piange così il marito appena ucciso dai piemontesi, colpito nello scontro a fuoco mentre sparava dal balcone di casa.

«Muorto".!i disse lentamente, «comme nuzappaterra ... I). Quella voce senza più pianto e carica d'ira era terribile; giungeva nell'animo prima che nell'udito. Gli uomini aggrottarono le ciglia e uno si morse la mano.
«Aspettate! disse Ugo. Entrò nella camera e si tirò dietro la porta. La donna, come lo vide inquadrarsi nell'uscio, s'era gettata attraverso il letto, ai piedi del morto, come a chiedergli protezione, affondando il viso nella coperta. Dalla camicia lacerata, in segno di doglia, le spalle le uscivano fuori tonde e intere, graffiate a sangue, e sulla pelle bianca i segni delle unghie erano come una rete di filo rosso. Come Ugo s'accostava, quelle spalle sussultarono.
«Su» disse il giovane «su, coraggio. Voleva allontanarla almeno per un istante, ma come? Neppure lui lo sapeva, da quel letto, da quel morto, dirle qualche parola buona di consolazione, ché non piangesse così. «Coraggio, fatevi coraggio ... .
Lei non rispondeva; solo le mani che teneva tutte aperte si serm,rollo a stringere/orte il coltrone, come se volesse aggrapparsi a quello. Allora Ugo volle trarla su. Per non toccare quelle spalle mumtate, né stringerLa alla vita, che sarebbe stato poco riispellO, le Inise le mani sotto le ascelle. Ma, appena tocca, lei fu su; s'era alzata di scatto e Lo guardava, con le ciglia aggrottate e iluiso fiero. Senza staccarsi, appoggiata quasi sul suo petto, immota, respirava forte. Gli occhi nerissimi pungevano; non dolenti, sprezzanti forse.
E subito Ugo sentì accendersi d'un'ira irragionevole contro lei che vaneggiava sicuramente per il troppo dolore; ma non era sicuro che fosse tutta ira. Prendersela con questa poveretta, perché?
Eppure le sue mani si strinsero con forza, sentì la carne morbida e non riusciva a lasciare la presa. La donna lo guardava senza dir niente, pacificata quasi, con le labbra dischiuse.
«Sono un cafone io che combatto per il Re?» le chiese Ugo e gli tremava la voce, «un disperato?».
E, siccome lei non rispondeva, la baciò.

Parte così questa drammatica e intensa storia d'amore.
Ugo non può sfuggire al suo destino: quella donna che ha baciato dinanzi al marito morto è ora la sua donna.
I due fuggono su, nella boscaglia, nei pressi di un lago.
La Guardia Nazionale giunge nei paraggi, ma non li vede. Un militare deluso spara rabbiosamente una raffica. mentre si allontana. Maria Palumba viene colpita da una pallottola di rimbalzo. La sua bellezza si cristallizza nella maestosità della morte. Il suo amante Ugo, impietrito dall'impotenza e dal dolore, si interroga sul senso inesplicabile della vita e dell'amore e maledice !'inutile travaglio del pensiero umano che è incapace di dare risposte di fronte all'assurdità di quell'evento estremo e definiitivo: «Cos'è la vita? E la ragione? Che ti spiega la ragione? Un accidente ti spiega. Evviva la ragione illuminata! E io, fesso, che ci credevo ... chi mi può dire perché io posso ammirare una statua senza vita e una persona cara, ama fa, intatta, ma morta, mi fa ribrezzo? E mi fa ribrezzo appunto perché le ho voluto bene, ché la mia vita adesso è dimezzata e mi guardo con orrore la mia ferita. Venite qua, venite al cadavere di Maria Palumba, filosofi miserabili».
La scena ha la solennità e la potenza drammatica della antica tragedia greca. Ugo si siede sull'erba, in contemplazione dello scempio della sua donna e, quando avverte alle spalle il sopragggiungere della muta dei suoi inseguitori, non si volta e continua a pregare e a meditare, fino alla raffica che lo coglie alle spalle.
La scena, risuona del paesaggio impenetrabile e maestoso della terra di Basilicata, della vitalità intensa degli animali dei boschi, delle emozioni tumultuose dei briganti braccati, avvolti e protetti dalla natura circostante.
Lo sceneggiato, come il romanzo, parte da Napoli, dove ai tavolini di un bar, nella ex Capitale appena occupata, è seduto un giovane dall'aspetto elegante e tranquillo, che in realtà è un ufficiale borbonico in procinto di partire per il terreno di lotta e dare man forte ai briganti. Così inizia il viaggio nella terra di Basilicata, dove è ambientato tutto il racconto.
Alianello nel romanzo circonda i volti, le scene e i personaggi di una musica suscitata nella fantasia del lettore. Ma per il film quella musica bisognava scriverla, e toccava a me farlo.
La Basilicata era uno dei temi musicali che mi venivano richiesti, e riguardava appunto il paesaggio, forse più precisamente il paesaggio come appare a chi viene da Napoli. Il paesaggio dei palazzotti nobiliari, dove si svolgono gli intrighi degli opportunisti. Il paesaggio della lotta selvaggia e disperata di chi combatte e attacca l'invasore.
Nacque una melodia che accompagnava le panoramiche su quelle vallate e su quelle colline, una musica per quelle terre descritte dal pittore letterato Carlo Levi che vi soggiornò in confino politico e che pittoricamente le descrisse nel romanzo Cristo si è fermato a Eboli.
Alla musica aggiunsi un testo, che scrissi subito dopo per sottolineare la civiltà di quella gente che nella Storia non aveva mai portato guerra a nessuno, ma la guerra l'aveva sempre subita in casa con le invasioni e le dominazioni che nei secoli si erano succedute.

BASILICATA

E che ne saccio d'a Basilicata
dice ca Cristo nun c'è mai venuto
e primma'e chesta terra s'èfermato
E che ne saccio d'a Basilicata
è na storia o na favula luntana
ca mentre a siente già t'a si' scurdata
A chi ce vole veni' a sta terra
addò o dulore nun è peccato
addò nun ce po' sta mai la guerra
pecché la pace nun c'è mai stata
E si ce vai de juorno a chesta terra
p'e strade ca so' serpe sott'o sole
ce siente o passo de la tarantella
E si ce vai la notte de la luna
e na voce te chiamma da luntano
tu non la sentire, è na fattura
(E primma 'e chesta terra
n'angelo s'è fermato
e s'è fermato o tiempo
ma o diavolo c'è stato
è o rrosso de la sera

è o nnero d'o cammino
pe' nascere a Matera
e pe' muri' a Torino)

Canzone della Basilicata fu utilizzata nella versione strumentale, il testo, che scrissi subito dopo, nasceva sì dalla suggestione del romanzo, ma riguardava quella terra e la sua storia di sempre, fino ai giorni nostri.
E se cito la città di Torino non è la Torino dell'intrigo di Cavour, ma il vertice del triangolo industriale che nell'ultimo dopoguerra accoglieva legioni di contadini riciclati operai, ma pur sempre terroni, nelle catene di montaggio delle fabbriche e delle officine.
Nello sceneggiato, nella colonna sonora, riecheggiava dunque la sola melodia, un flauto popolare accompagnato dalla cadenza lenta della chitarra battente; quest'ultimo strumento lo suonai io stesso, mentre il flauto fu registrato da un musicista d'eccezione, Enzo Avitabile, artista napoletano poliedrico e sensibilissimo che allora era un ragazzo e che poi sarebbe diventato interprete e compositore di musiche di grande valore.

11
QUANNO SONA LA CAMPANA

L'eredità de la Priora è un romanzo d'azione, è l'intreccio di storie di guerra e di storie d'amore.
E si sa che sia l'una che l'altra cosa presuppongono il viaggio, la corsa affannosa e silenziosa, !'incontro e lo scontro, il sole e la luna, l'abbandono e la morte. Molti e avvincenti passaggi del racconto riguardano quindi il viaggio breve e avventuroso, la fuga, lo spostamento clandestino da un nascondiglio all'altro, con il pericolo di incorrere nella vigilanza del nemico spietato.
Così, per scandire e accompagnare questo cammino, scrissi una melodia abbastanza lineare ma dalla cadenza metrica frastagliata, con battute di ritmo dispari, che determinano un andamento che per sua natura si contrappone decisamente ai ritmi pari, ai quattro quarti o ai tre quarti, che esprimono solitamente andamenti periodici e rassicuranti. Avevo all' epoca molta consuetudine con i ritmi dispari, erano stati per me una importante scoperta avvenuta, non a caso, proprio studiando e appassionandomi a una tradizione popolare che si esprimeva con quelle spiazzanti e inquietanti divisioni musicali.
Nelle campagne intorno a Napoli, nel lontano Cinquecento, erano fioriti generi popolari, come la villanella e la moresca, caratterizzati proprio dall'andamento zoppo dei tempi dispari. Il risultato era straordinariamente coinvolgente e l'interruzione improvvisa della ciclicità non produceva disordine, ma al contrario sembrava rispettare una misteriosa logica numerica, certamente più raffinata e sofisticata delle solite marcette e mazurche. Ma queste sono considerazioni "a posteriori", certo non pensai a tutto questo quando scrissi Quanno sona la Campana, la musica del viaggio e della fuga. La disparità ritmica l'avevo istintivamente scelta per caratterizzare la tensione e l'incertezza di quel cammino.
La vicenda dei briganti, ragnatela incessante di partenze e di abbandoni, è la metafora del più lungo percorso che, alla fine del brigantaggio, sarebbe apparso nel destino delle popolazioni meridionali, per la gente di Sicilia, di Calabria, di Napoli, per i braccianti della Puglia, del Molise e della Basilicata, costretti a lasciare le proprie terre per le Americhe lontane. E mentre provavo a tradurre in musica, a tradurre in melodia e in ritmo quella fuga per la sopravvivenza, mi vennero in mente quei versi tradizionali che ricorrono in svariati dialetti di quasi tutte le regioni del Centro-Sud, e risalgono al tempo delle incursioni dei pirati e dei saraceni sulle nostre coste.

Allarmi allarmi la campana sona
li turchi so' sbarcati a la marina

chi tene e scarpe vecchie se l 'assola
c'avimmo a fare nu lungo cammino

È il destino ricorrente di questa gente, tempestata da una storia di conquiste e abituata da sempre alla fuga, da sempre in vigile e trepidante attesa di un nemico che all'improvviso, in qualsiasi momento, può apparire all'orizzonte. È il racconto secolare dell'incertezza di una terra di frontiera, dell'ansia degli abitatori delle-marine che si danno incessantemente il cambio per vigilare, giorno e notte, dalle torri di avvistamento sparse lungo tutte le coste dei tre mari che avvolgono la grande penisola mediterranea; le meridionali vedette pronte a lanciare il segnale atteso e temuto, il grido convenzionale che si traduce immediatamente in un drammatico e sconvolgente rintocco di campane.

QUANNO SONA LA CAMPANA

Allarmi allarmi la campana sona
li turchi so' sbarcati a la marina
chi tene e scarpe vecchie se l'assola
c'avimmo a fare
nu lungo cammino
Ma nun bastano farina feste e forca
pe sta gente ca n' ha mai vuttato e mmane
nui fuimmo tutte quante assai luntano
quanno sona la campana
E po' vene o Re Nurmanno ca ce fa danno
E po' vene l'Angiuino ca ce arruvine
E po 'vene 'Aragonese, ih che surpresa
E po' vene o re Spagnuolo ch'è mariuolo
E po' vene o re Burbone ca nun va buono
E po' vene o Piemuntese ca ce vo bene
ca possa essere cecato chi nun ce crede
ca possa essere cecato chi nun ce crede
ca possa murire acciso chi nun ce crede
ca possa murire acciso chi nun ce crede


12
LA CASA DELLE STREGHE

Fra' Anastasio andò dritto all'uscio e bussò tre volte, poi una volta piano e poi ancora tre volte forte. E rimase ad attendere, facendo cenno a Gerardo di star zitto e di non far rumore, però dall'interno non giungeva né un frusciar di passi né un bisbiglio né un colpo di tosse. Invece dietro la casa un gallo cantò un suo chiccchirichì rauco e quasi strozzato e si sentirono chiocciare le galline.
D'improvviso, al di là della porticina, una voce, voce di donna, giovanile, ma vibrante e forse inquieta disse chiaramente: «Fulmine e temporale».
«Con la luna nuova», rispose il frate. «Tu chi sei?».
«'O ssapite, Carmenè».
Ci fu un rumore di cose smosse, forse una sedia o uno sgabello, s'udì una chiave girare nella toppa, un catenaccio scorrere e, tra i battenti socchiusi, s'affacciò un viso di ragazza. C'era troppa poca luce per distinguerne i lineamenti, ma i due occhi, occhi grandi, fosforescenti quasi per un fuoco interno, Gerardo li vide bene.

Appena furono entrati, la donna chiuse la porta dietro di loro, mise un paletto e rigirò la chiave. Gerardo la guardò. Si fissò alla ragazza che l'aveva accolto e all'altra che la fiamma del focolare rischiarava tutta. Belle? Non avrebbe saputo dirlo; sono belle le streghe giovani? Forse sì, forse no, ma terribilmente attraenti. La pelle bianca, giovanile e fresca, le labbra rosse e gli occhi ... Occhi terribili: grandi, ombreggiati da ciglia morbide, lunghe, occhi carichi di luce, anche al buio, luce però non umana. L'iride infatti era lucente d'un giallo zolfo, d'un giallo fiamma, occhi simili a lanterne nella notte. Le ragazze s'assomigliavano assai, solo che la rossa era più esile, la bruna più piena, più soda.
«Beh?» chiedette frate Anastasio alla bruna. «Com'è che non vi hanno fatto rientrare a forza nel paese, come cumandava lu bando che nisciuno può abitare fuori, in campagna?».
«Ci hanno provato due volte. Lu sìnnaco ch'è pure capitano della guardia nazionale.
«Embè?».
«Embè ... La prima vota ha fatto chiagne la figlia. Isso teneva na bella figliola, bionda e grassa. E chesta na mattina s'è sosuta co' tutti 'e capilli arrevugliate cu' ciento nodi, come si tenesse ncapo .... che te vuoglio di'? lu nido delle vespe, la rezza de lu piscatore, la lana delle pecure viecchie e, puverella, nun se putette cchiù pettina'. S'è dovuta taglià quelli belli ricci che le arrivano, cu crianza parlando, addò fernisce la schiena. Quante lacreme s'ha fatta, povera figlia! Ci siamo andate noi due, io e Nanninella. E mo ancora sta rapata».
«E poi?», chiese il frate.
Gerardo guardò attonito e sbalordito la ragazza; fratel Anaastasio invece era placido come chi parla di cose note e accertate, cose di ogni giorno insomma.
«seconda vota màmmema è andata propriamente lei addò don Giustino, lu sìnnaco. L'hanno truvato la mattina appriesso legato stretto a lu letto, come nu purcello quanno si castra ... E nun putevano trasì perché la porta steva nzerrata dalla parte di dentro e la fenesta steva chiusa. Legato cu na corda e nu nodo suulamente. Vulite nu bicchiere 'e vino? Ce l'abbiamo buono assai».


Il bando det comando piemontese a Carmenella e Nannina non le ha smosse; sono rimaste lì, nella loro casupola nera solitaria sulla via che va ad Avigliano, con la loro vecchissima madre sempre stesa a letto, di fianco, girata verso il muro, da dove sembra che riesca a vedere ogni cosa. Lì da sole, come sempre, difese solo dalla formidabile potenza dei loro sortilegi. Il sindaco, dopo il secondo avvertimento, si è arreso, e avrà raccomandato ai suoi superiori di lasciarle stare.
Dai briganti alle streghe il passo è breve. La stessa luce di leggenda e di maledizione li circonda.
Le streghe sono le sacerdotesse della fascinazione rituale e custodiscono i misteri di formule magiche e fatture; sono quelle che in Sud e magia descrive Ernesto De Martino nel 1959, alla vigilia della spedizione etnografica che porterà alla pubblicazione de La terra del rimorso che è il testo fondamentale per l'indagine del tarantismo. Sono l'espressione emblematica di un Sud difficile da penetrare e da comprendere.
Nel suo Viaggio in Calabria del 1835 Alexandre Dumas, che pure è figlio della rivoluzione francese, insomma un intellettuale del tempo, si perde nel luogo comune della disapprovazione di una cultura che non comprende. Il resoconto storicostico sulla Calabria rivela il limite della sua visione delle cose; Dumas guarda quella gente con il filtro altezzoso di un aristocratico illuminista che si aggira per quelle contrade con i vestiti lindi del facoltoso turista mitteleuropeo, e si muove per salite e discese, per montagne e marine, avendo soprattutto attenzione a non farsi imbrattare da quelle usanze volgari e primitive che va scoprendo, soprattutto quando entra nelle umili e oscure e malsane case contadine. È il classico atteggiamento del forestiero convinto dell'unicità e superiorità della sua cultura, è lo schema mentale di chi ha poca o nessuna predisposizione a comprenndere una cultura differente, anzi la denigra, come primitiva e selvaggia condizione dello spirito, come deficit di progresso, come manifestazione negativa di una storia di sottosviluppo.

E a sentire il candido sbigottimento di Dumas, che pure è illuminato e incuriosito uomo di pace, è facile immaginare come i contadini dovevano apparire ai soldati del nuovo re, sbrigativi e timorosi come tutti i militari, assolutamente in disponibili a comprendere le ragioni di chi vanno fucilando, a dovuta distanza per evitare di sporcarsi.
L'incomprensione e la chiusura per la lingua e per il dialetto di quegli uomini definiti cafoni e classificati come briganti è il punto di partenza per ogni incomprensione e ogni rifiuto.
E se gli uomini sono tutti briganti, le donne sono tutte streghe. Non solo quelle che fanno direttamente le fatture e hanno gli occhi color di brace, ma anche quelle che credono nel potere curativo del ritmo della taranta, che si affidano al fatalismo della civiltà contadina, che raccontano favole metafisiche, che interpretano i segni delle stelle o i lamenti degli animali nei campi, che si abbandonano alle credenze di un mondo magico distante dalla precisione illuministica e per questo reazionario falso e pericoloso.
Ma io uscendo smanioso dalla mia Università degli Studi di Napoli mi sono avviato per le tortuose strade del Sud e quelle streghe e quei briganti li ho incontrati, e un po' mi sono sforzato di comprendere la loro lingua, e un po' ne sono rimasto affascinato, forse per qualche oscura fattura che ha colpito nel segno.
E così ho cercato di interpretare i suoni e le stranezze della casa di Carmenella e Nannina, sperduta sulla strada che conduce ad Avigliano di Basilicata.

MORESCA TERZA
(Eugenio Bennato 1979)

Canta galla canta
ca juorno è asciuto fora
galla canta' schifa
sta tiranna sott'a casa
Brutta porca si ce trasa
piscia lietta comm'a vasa
porta chiusa non purtusa
galla sta scuntrusa
Cuccurucù si galla 'ncajola
nun pote cantare sta musica nova
Zocco la 'ngrata jatta sta fora
si galla mia canta tiranna ce mora
Si galla canta sta canzona mia
ca mora tiranna cu la tirannìa
Sienta dica a tia
patrona nova vo' trasire
notte vo' restare
pe te cantare gelusìa
Tuttajanca vo' vestire
pe 'nciarmare chistu core
si st'ammore tu traduta
galla sta feruta
Cuccurucù si galla 'ncajola
nun pote cantare sta musica nova
zampogna secca, chitarra nun sona
si tiempa nun cagna tiranna nun more
Si tiempa cagna grilla ca sona
piede ca zompa a chesta canzona
Chicchirichì chicchirichì
dint'a la stalla de la tiranna
 sette carrozze cu sette cavalla
Zoccola 'nzo zocco la 'nzo
dint'a la stalla cornacchia ca vola
trase 'ncajola
Zucche te nzu zucchete 'nzu
lanza scuppetta bombarda bannera
fuje ch 'è sera
Fuja Martina zompa da cca
tubba catubba e nannianà
Sienta tammorra violina chitarra
si musica sona lu pede nun sgarra
Si sienta canta chesta canzona
ce more tiranna ce chiagne padrona*

13
DA BRIGANTE SE MORE A VENTO DEL SUD

Il linguaggio utilizzato è quello della moresca napoletana cinquecentesca, caratterizzato dai ritmi irregolari e dall'impiego di parole tutte ostinatamente declinate al femminile, per sottolineare l'ambiguità degli interpreti travestiti in abiti e movenze femminili.
Mi accingo ora a un'impresa acrobatica, rischiosa e quasi vietata per un compositore: analizzare da un punto di vista stilistico le proprie composizioni.
Ma restringo questo campo di osservazione a cose che ho scritto tanto tempo fa, separate dal presente da una distanza storica e temporale che mi permette di guardarle con maggior diistacco, con la freddezza necessaria per questo tipo di analisi, e mi consente addirittura di rileggerle, ora, con la impagabile curiosità della prima lettura.
Brigante se more, Vulesse addeventare nu brigante, Canzone per juzzella, Quando sona la campana, Quanno o sole è doce, Basilicata sono scritture dello stesso periodo (1979), e sono collegate ad alcune composizioni immediatamente successive: Te saluto Milano e Vento del Sud (1980). Le prime cinque, come ho detto, appartengono -alla colonna sonora de L'eredità della Priora.
Te saluto Milano la scrissi subito dopo, proprio in seguito alla pubblicazione dell'LP Brigante se more. Appena consegnai questo disco, nel rituale viaggio al Nord che ognuno di noi doveva commpiere per far sì che il proprio lavoro prendesse vita, apparisse, non rimanesse un puro fantasma nel limbo della fantasia, fui ricevuto alla lussuosa sede della Polygram di Milano. Nella sua scintillante stanza il direttore artistico mi fece i complimenti per il mio lavoro; i suoi complimenti erano sinceri, così come era sincero il rincrescimento del direttore generale che mi ricevette subito dopo nella stanza a fianco e mi disse, con aria di circostanza: «Bennato, il suo lavoro è egregio, ma è poco commerciale ... Lei è licenziato».
Io, altrettanto sinceramente, non mi scomposi più di tanto; sarà stata l'incoscienza di allora, ma la cosa addirittura mi divertì, come aneddoto paradossale da raccontare nel futuro, e volsi in positivo, a modo mio, quel licenziamento, scrivendo all'istante:

tè saluto Milano
Milano d'a produzione
Milano ca si nun sierve si nu "cuglione"
ma sulo 'e chesto nun se po' campa'
te saluto Milano e nun ce voglio sta'
Te saluto Milano
Milano ca sta a sentire

Milano ca sta canzone la po' capire
pe' tutta,a gente ca p'e vvie 'e Milano
parla calabrese e parla siciliano

Questa canzone è dunque anch' essa, in qualche modo, figlia del mio incontro con Majano e con i briganti.
Così come lo è Vento del Sud che io e Carlo scrivemmo nello stesso 1980, in seguito a un evento che segnò profondamente la città di Napoli e tutta la regione circostante: il terremoto di novembre, che si abbatté su quella gente già afflitta dai problemi di sempre, e ora devastata dalla nuova calamità.

A storia è cumminciata cu e Savoia, e c'amma fa'
che c'hanno liberato da e Burbune, e c'ammafa'
loro erano spagnuole, nuie italiane, e c'ammafa'
dopp'a liberazione eramo n'ata vota
napulitane

Nu prèvete è venuto e m'ha ditto figlio mio
tu cride a li fatture, è peccato a nomme 'e ddio
chesta è superstizione, nunn'è a vera religione
è o diavolo c'abballa dint'a sta tarantella
dint'a sta tarantella

Mo jammo tutte a scola, ce 'mparammo a parla' buono
si nun parle italiano si' brigante o si' cafone
e scuordate a parlata ca sentive 'a mamma toia
si vuo' emigra' a Torino t'e 'mpara' a capi'
quanno chiamma o padrone

A storia è cumminciata, a storia nun fernesce cchiù
mo simmo tutte eguale, sotto e 'ncoppa, nord e sud
e passano cient'anne ma nun passa o male antico
a guerra 'e tutte e juorne pe' truvà afatica
pe' truva' a fatica

E guerra doppo guerra se ne cade sta città
e pure 'ntiempo'e pace tremma a terra e c'ammafa'
comm'a lu 'nnammurato ca vo' bene a la figliola
nuie simmo 'ncatenate a chesta terra sola
a chesta terra sola

(vento del Sud, vento dell'allegria)

Questo testo è stilisticamente molto preciso, e il linguaggio è simile, se non identico, a quello dell'inno dei briganti. In entrambi i canti è il popolo che parla direttamente, quindi il verbo usato è la prima persona plurale. Un solo anno separa le due composizioni, e in un certo senso Vento del Sud è il seguito, il completamento, della precedente ballata. Parte da dove Brigante se more si era fermata: la sopraffazione piemontese, subìta e vissuta con ironica rassegnazione dalla gente napoletana.

E !'ironia vive, nella prima strofa, oltre che nella esplicita allocuzione «e c'amma fa'» cioè «e che possiamo fare», che ricorre tre volte, anche e soprattutto nel gioco di parole e nell'alternanza dei termini e delle nazionalità: per la propaganda preunitaria di Cavour e Vittorio Emanuele il re Borbone era straniero (Spagnolo) e, noi del Sud, italiani, dopo esser stati "liberati" nell'Italia unita siamo ritornati a essere Napoletani, cioè cafoni, cioè terroni.
Nella seconda strofa ritorna la sottolineatura della repressione culturale dei vincitori, della cultura egemone verso la cultura subalterna, della civiltà positivista nei confronti del carattere romantico e irrazionale del "mondo magico", guardato con disprezzo e con sospetto: è il Sud delle fattucchiere, delle superstizioni, dei riti satanici legati alla pratica stregonesca e curativa dei suoi selvaggi tamburi e dei primitivi ritmi della trance. È il Sud che va corretto ed educato, o annientato.
L'emigrazione e l' omologazione culturale sono il tema della terza strofa. Negli anni Sessanta del Novecento, da ragazzi, abbiamo anche noi, sebbene da posizione sociale e culturale privilegiata, visto e vissuto da vicino l'umiliazione della gente meridionale trapiantata nel triangolo industriale del miracolo economico, quando ci si sforzava, per quanto possibile, di mascherare le cadenze dialettali e le congenite abbronzature contadine di un Sud abbandonato e necessariamente rinnegato, per allinearsi più tranquillamente e inosservati ai cancelli d'ingresso del Lingotto o della Pirelli.
L'argomento della penultima strofa è, né più né meno, la famigerata Questione meridionale, sollevata dal Parlamento di Torino agli albori dell'Unità. La spoliazione della nascente promettente industria del Regno delle Due Sicilie, lo scacco matto al florido Banco di Napoli, il farsesco razzismo pseudoscientifico che teorizzava e stigmatizzava la scarsa efficienza imprenditoriale (quando non la vocazione criminale) della gente del Sud; tutti questi elementi avevano bloccato l'economia e avevano affamato quelle popolazioni costrette a inseguire a qualsiasi latitudine il miraggio di un lavoro, e a percorrere il cammino della speranza sui bastimenti che partivano per le Ameriiche o sulle terze classi dei treni verso il Nord di Torino, Milano o Svizzera o Germania o Belgio nella diaspora dei cent'anni che seguirono all' evento storico dello sbarco dei Mille.
E nel 1980 arriva il terremoto ((tremma a terra, e c'amma fa'») come un fulmine a ciel sereno, come una guerra in tempo di pace, che infierisce e lascerà per anni i suoi segni; ma ancora di fronte a tutto questo c'è chi non vuoi partire, e non partirà mai, incatenato a quella terra come un innamorato alla sua donna.
Ad analizzare i versi di Vento del Sud ritrovo, oltre all'ironia che ho già sottolineato, quegli elementi di stile compositivo che per me sono stati sempre fondamentali, che ho sempre cercato di tenere presenti nelle cose che scrivevo, e che qui si manifestano con grande evidenza.
Innanzitutto la comprensibilità del testo, che è in dialetto, ma un dialetto utilizzato con la cautela di evitare termini incomprensibili all'ascoltatore o al lettore di altre regioni, insomma al fruitore italiano: è necessario che i concetti fluiscano con una chiarezza che tenga conto del destinatario.
E certamente per noi che scrivevamo quelle strofe, il destinatario non poteva essere un pubblico provinciale, un audience di anacronistica rimpatriata paesana, perché oltretutto si trattava di un testo di denuncia, e quindi, scritto non per autocommiserazione o ammiccamento o ristretto sfogo, ma per raggiungere i luoghi e le coscienze più lontane.
Ma al dialetto non si può rinunciare, sia per la sua intrinseca superiorità espressiva sia per la sua musicalità insostituibile; e certamente raggiungere un equilibrio fra queste due istanze non è impresa da poco.
Un secondo elemento stilistico, mutuato dallo stile della letteratura popolare è l'uso dei giochi di parole, dell'altalena dei termini contrastanti e antitetici. Queste coppie di antitesi verbali sono presenti e sparse in tutto il canto: «italiano-napoletano»; «superstizione-religione»; «italiano-brigante o cafone». E le immagini appaiono accoppiate in modo speculare: ancora «sottosopra», «Nord-Sud», «tempo di guerra-tempo di pace».
Un terzo elemento è l'utilizzo ricorrente di un modulo discorsivo musicale che nella poesia popolare tende a spezzare e a sdrammatizzare la continuità logica con le allitterazioni ripetitive e improvvise tipiche della filastrocca; e questa funzione stiilistica è svolta dalla esclamazione «e c'amma fa'», che in questo caso ha una valenza sia musicale, per il suo valore metrico e per la facile rima cile produce, sia concettuale, perché esprime sarcasmo, rabbia, fatalismo.
Questi elementi che mi hanno indirizzato nella scrittura di Vento del Sud li avevo tenuti presenti e rispettati anche in Brigante se more.
Infatti anche Brigante se more è una composizione pensata per il grande pubblico, e vista la sua continua e crescente diffusione, è valsa la pena pensarla così. Anche un solo termine astrusamente dialettale o difficilmente pronunciabile le avrebbe tolto quella leggerezza, quell' agilità e fruibilità immediata che lo ha reso, con gli anni, un canto di tutta la gente.
Ed è anch' essa, come Vento del Sud, in dialetto napoletano, ma anche in questo caso si tratta di un dialetto particolare, lontano mille miglia dall' epopea della canzone classica, innanzitutto per gli argomenti di coscienza storica e di lotta e di rivendicazione che in quel celebre filone cartolinistico-sentimentale della mia città non sono stati mai trattati (tranne in rari eccezionali casi), ma anche perché il dialetto scelto è un napoletano pan-meridionale, che tende a contenere immagini e ritmi e colori di tutti i dialetti del Sud.
E ancora, in Brigante se more l'elemento stilistico popolare dell' allitterazione o dei giochi di parole e delle contrapposizioni verbali è presente e frequente. A cominciare dalla prima strofa (posare «chitarre e tamburi» e cantare «cu a scuppetta»), per finire con l'ultima strofa che parte con la notevolissima simmetria «ommo se nasce brigante se more» (nell'istante che mi venne in mente pensai che sarebbe rimasta memorabile), e si chiude con la contrapposizione violenta delle immagini presenti nell'ultimo distico: l'invito a menare «un fiore» e, contemporaneamente «una bestemmia».
Ho utilizzato nella costruzione della ballata quell' elemento di ironia e spiazzante paradosso, che a rileggere attentamente è vera e propria provocazione; è un espediente dialettico che ho sempre ritrovato nei canti popolari della tradizione e ho sempre amato e interiorizzato nel mio linguaggio.
Questo avviene già nella prima strofa, dove si esprime la furbesca risposta alla ghettizzazione ideologica operata dal nemico, e si lancia la sfida: siamo noi, quelli della tarantella primitiva, quelli delle «chitarre e tamburi», quelli dell'antica civiltà magna-greca, delle feste orgiastiche e liberatorie, delle serenate che non fanno male a nessuno, che ora dal nemico veniamo proditoriamente definiti "briganti", un colpo basso, un marchio preconcetto e infamante. Allora mettiamo da parte i nostri innocui strumenti musicali e da perfetti briganti non possiamo fare altro che terrorizzarlo quel nemico, con la nostra nuova canzone della lotta e del fucile.
E da briganti combattiamo (certamente dalla parte dei Borboni), ma non vogliamo entrare nella ragnatela della diplomazia, nella vischiosa tessitura del "tessitore" Cavour, nell'intrigo internazionale della questione dinastica, nelle menzogne di Pallmestorn, nei capricci di Napoleone III che si lascia invischiare dai Savoia, e da Parigi ridisegna la carta politica: al nemico piemontese diciamo con chiarezza che questa terra e questa civiltà ci appartengono, e non gli consentiremo di usurparle.
In questo senso, nella seconda strofa, !'ironia e lo sberleffo dialettico sono presenti soprattutto nella famigerata espressione «nun ce ne fotte», che mette a tacere qualsiasi tentativo di invooluzione verbale di fronte all'azione, alla determinazione e alla battaglia.
E il paradosso e il gioco di parole e il linguaggio della favola e dell' infanzia è ancora la cifra stilistica della quarta strofa: il fiabesco lupo delle foreste e delle montagne, che incombe da sempre come minaccia e pericolo per la gente del Centro-Sud, ora non fa paura più di tanto; la sua proverbiale famelicità passa in secondo piano. Il vero lupo che mangia i bambini è il piemontese, e per questo gli diamo la caccia.
Infine, l'ironia, il rabbioso sarcasmo sono forti nell'ultima strofa, e chiudono il canto: i Savoia si sono presentati come "liberatori", e lo hanno affermato nella melliflua propaganda politica, nell'autentico intrigo internazionale che prepara e precede !'invasione, lo riaffermano sfrontatamente dopo lo sbarco nei proclami lanciati alle popolazioni.


14
LA CANZONE POPOLARE D'AUTORE:
ROBERTO DE SIMONE

Roberto De Simone è stato per me un grande maestro. Ed è lui che, all'inizio della elettrizzante avventura della Nuova Compagnia di Canto Popolare, ha instradato e diretto me, Carlo D'Angiò e gli altri componenti di quello storico gruppo. Le serate passate insieme a concertare, a raffinare tecniche strumentali e vocali, a parlare di storia e di arte, di Napoli e del misterioso senso di una vibrazione musicale nascosta, che dalle regioni circostanti avvolgeva quella città, sono state esperienze entusiasmanti e fondamentali per la mia formazione.
Roberto De Simone proveniva dalla scuola colta del Conservatorio, ma è stato sempre studioso ed esperto di cose popolari, dalle favole della tradizione contadina ai rituali sacri e profani, alle feste processionali dei devoti e degli invasati, a tutte le forme ed espressioni della cultura "altra" da quella egemone. E Roberto, che è anche e soprattutto un artista, cominciò nel clima creativo della NCCP a comporre ballate di stile e argomento popolare.
La ballata popolare d'autore è un oggetto delicatissimo, perché richiede un equilibrio costante tra la dimensione poetica nuova e il linguaggio espressivo tradizionale.
Il punto di partenza può essere un personaggio o un evento storico, che è preferibilmente da scegliere tra quelli che hanno inciso direttamente sul quotidiano di un popolo, e che per questo hanno lasciato un segno vivo e incancellabile nella memoria e nella fantasia popolare.
E così Roberto De Simone, nella sua ballata O cunto 'e Masaaniello, si riferisce a un evento storico eccezionale della Napoli del 1647: un umile pescatore, Tommaso Aniello D'Amalfi, detto Masaniello, riesce a venire a capo di un sollevamento politico che coinvolge l'intero popolo del quartiere Mercato, e poi tutta la plebe della capitale.
La Spagna impegnata nella rivolta dei Paesi Bassi, nella Guerra dei Trent'anni, nella rivolta di Catalogna e nella secessione del Portogallo, per riassestare le sue finanze infierisce sul vicereame di Napoli con tasse e gabelle: dopo i primi moti di ribellione in Sicilia, la protesta scoppia violenta e decisa a Napoli capitale; la popolazione esasperata dalla pressione fiscale chiede al viceré spagnolo l'abolizione della gabella sulla frutta.
Il 7 luglio da piazza Mercato, un corteo di lazzari armati giunge a Palazzo Reale, il viceré fugge, e Masaniello viene proclamato Capitano Generale del Popolo. Ma la rivolta dura pochi giorni: irretito dalla nobiltà che lo blandisce e lo invita a palazzo, insieme alla moglie, la pescivendola Bernardina, Masaniello cade nella trappola e viene abbandonato dal popolo; si sparge velocemente la voce che sia stato avvelenato, e che sia diventato pazzo.
Il 16 luglio, nella chiesa della Madonna del Carmine, Masaniello, per l'ultima volta, parla al suo popolo:

Amice miei, popolo mio, gente: vuie ve credite ca io sò pazzo e forze avite raggione vuie: io sò pazze overamente. Ma nunn'è colpa da mia, so state /loro che m'hanno fatto'ascì ajforza n 'fantasia! lo ve vulevo sulamente bene e forze sarrà chesta 'a pazzaria ca tengo 'ncapa. Vuie primme eravate munnezza e mò site libbere. lo v'aggio fatto libbere. Ma quanto pò durà sta libbertà? Nu juorno?! Duie juorne?! '0 vedite? A me m 'hanno avvelenate e mò me vanno pure acciidere. E ci hanno raggione lloro quanno diceno ca nu pisciavinnolo nun pò addeventà generalissimo d'a pupulazione 'a nu mumento a n'ato. Ma io nun vulevo fa niente 'e male e manco niente voglio. Chi me vo' bene overamente dicesse sulo na preghiera pe me: nu requia-materna e basta pé quanno moro. Annudo so' nato e annudo voglio murì.

Masaniello ha finito di parlare, scende dal pulpito, e si spoglia in chiesa; un colpo di archibugio proveniente da quella plebe che lo ha seguito, lo ha eletto e abbandonato, ora lo uccide.

O cunto 'e Masaniello di Roberto De Simone è del 1973 e viene incisa da noi della Nuova Compagnia di Canto Popolare.
La chiamano "libertà" quella che vogliono imporre con la legge marziale e con le fucilazioni. Ma contro quella loro libertà noi "briganti" lanciamo la nostra ultima estrema maledizione.
La ballata ripercorre la breve epopea del "capitano del popolo". I lazzari che corrono a Palazzo vengono assimilati ai "fujenti", i devoti scalzi vestiti di bianco che, ancora oggi, ogni lunedì in Albis, corrono per ore in pellegrinaggio al Santuario di Madonna dell'Arco, in un'atmosfera di fanatismo mistico tra canti e grida rituali e il battito di una inesauribile tammurriata.

A lu tiempo de li turmiente
Masaniello se veste 'a fUjente
senza rezza e senza cchiù varca
 fa nu vuto a' Madonna 'e l'Arco.
Vene o prèvete e o Viceré
'sta Madonna spetta a me
tutta a me e niente a te
chesta è a tassa p"o Pateterno
o vai subito all'Inferno

E i rivoltosi ottengono l'effimera concessione della riduzione delle gabelle, e Masaniello diventa la bandiera della rivendicazione:

.A lu tiempo de primavera
Masaniello se vesta 'a bannera
na bannera p'o popolo vascio
sona arreto tammorra e grancascia.
Attenzione battaglione
s'è sparato nu cannone
è asciuto pazzo o padrone
oggi ci ha avasciato o ppane
ma nun sai fino a dimane

Gli ultimi versi riprendono le rime del "pazzariello", pittoresco personaggio che a ritmo di tarantella va in giro per le strade popolari, accompagnato da grancassa piatti e rullante, per decantare i prezzi bassissimi di un negozio, preferibilmente una cantina, con il classico slogan pubblicitario «È asciuto pazzo o padrone» (Il padrone è impazzito). Ma in questa storia a "impazzire" è proprio lui, il protagonista, Masaniello, che non può sostenere più di tanto il difficile ruolo di capopolo:

A lu tiempo de l'intrallazze
Masaniello è vestuto da pazzo.
Quanno tremma e vestito se straccia
pure o popolo '0 sputa 'nfaccia.
stu vestito fa paura
Masaniello se spoglia annudo
'a Madonna nun se ne cura
e po' a capa 'nterra ce lassa
accussì paga l'ultima tassa

La tragedia è compiuta. A Masaniello che ha lottato per i' abolizione delle tasse il padrone impone la tassa estrema: la sua vita, la sua testa che viene recisa e portata in giro per le strade principali della città.

In un'altra ballata De Simone percorre l'intera storia della città di Napoli: Nascette 'miezo o marf! è lo sviluppo in ampie strofe della breve, antica e misteriosa canzone, forse secentesca, del Michelemmà:

È nata 'mmiez'o mare
 (Michelemmà, Michelemmà)
oi na scarola

Li turche se nce vanno
a reposare

Chi pe la cùnma e chi
pe lu streppone

Viato a chi la vence
a sta figliola

'SIa figliola eh 'è figlia
oi de notaro

E 'mpietto teneva na
stella diana

Pe fa' murì l'amanti
a doje a doje

È una sequenza di versi e immagini di antica origine (Di Giacomo ne attribuisce la paternità al pittore seicentesco Salvator Rosa) e le interpretazioni sono varie, ed è possibile individuare nella "scarola", cioè il cavolfiore nato in mezzo al mare, l'isola di Ischia, dove i Turchi vanno a riposarsi, chi sul monte Epomeo (la cima) chi sulla spiaggia (il torso, lo streppone).
In ogni caso De Simone cita tutti quei versi, che diventano capoversi della sua ballata, e sceglie quindi il tradizionale canto di Michelemmà come filo conduttore per un percorso che lo porta a raccontare la Napoli capitale e il suo destino di terra di conquista.

Nascette 'miezo o mare
 na scarola e Michelemmà
comm'a storia 'e sta città
io te la voglio raccunta'
senza bugie ma a verità
Assai bella è Michelemmà
sulo bellezze pote' vanta'
funiculì funiculà
ma qua' bellezza si vuo' campa'
aie voglia sempe 'e t'a sciuscia'l
Ah, comma a femmena pezzente
 senza dote e senza niente
cu a bellezza sulamente
fa' o mestiere malamente
accussì Napule Na

a'o puntone
staie sempe là
arrisuolve sta iurnata
cu a pusteggia e a serenata

È la storia di Napoli bella e ruffiana, cortigiana contesa da tutte le corti d'Europa, oggetto di desiderio, vittima della sua bellezza:

Li Turche se la jocano
se la jocano a primmera
 sulo chesta è a storia vera
chi ce passa a sta città
vede si s"a po' iuca'
E nove rignanti
Ce passaieno a cavallo
Napule ce facette o callo
e ogni vola cagna o giuoco
cca ce appenneno a "si loca"


Le nove dinastie si succedono l'una all'altra: i Normanni, gli Angioini, gli Aragonesi, i Viceré spagnoli che la contendono ai saltuari assalti dei Turchi, i Borbone, i Savoia, Mussolini fino ai pittoreschi sindaci del dopoguerra.

Sta figliola è na figlia
 è na figlia de notaro
 Carlo III fa o cumpare
ca s'arape ne cantina
proprio 'miezo a la marina
Stu rre Burbone
se 'mparaie bona a canzone
canta lloco ca faie buono
cante 'n cielo e a luna sponta
io m'assetto a Cap'e Monte
Ah, viva sempe sta cantina
cu chitarre e manduline
ca stu re dà ogni matina
feste e forca cu a farina
accussì Napule Na
feste e forca p'o magna'
si te piace sta canzone
viva ancora o rre Burbone

E quindi, dopo essere entrata nel vivo del favoloso Settecento borbonico, del regime paternalistico di "festa farina e forca", la ballata passa a presentare l'avvento dei Savoia e il conseguente decadimento della ex capitale:

E 'mpiette teneva na
teneva na stella diana
Garibaldi s"a pigliaie 'mmano
po' facette o ruffiano

cu o scarpone italiano
Vene Savoia
e s'infila a scarpa toia
cu o piluscio
d'e Bersagliere
ma cu 'st'atu cantiniere
cca se sta peggio d'aiere

E infine l'enigmatico distico finale del canto secentesco dà l'avvio all'ultima strofa della ballata, che pone l'accento sul triste destino della città ferita nella sua bellezza dallo scempio edilizio del dopoguerra:

Pe' fa' muri'
murì l'amante a doie a doie
ognuno ha fatto e fatte suoie
e cu tutti chisti amante
si' rimasto a lu vacante
oggi chi t'avante.
na canzone sempe canta
e t'avvie '0 camposanto
ca ogni femmena è cchiù brutta
quanno arriva stracqua e strutta
Ah so' sbarcate a la marina
ati turche cchiù assassine
e a Pusillipo addiruso
l'hanno fatto nu purtuso
sta città pe 'ncopp'a l'onna
chianu chianu mo sprufonna
San Gennaro nun risponne
chistu canto nun ce 'nfonnelO
e accussì Napule Na
a che serve canta' cchiu?
vide Napule e po' muore
ca ce muore pure tu

Nascette 'miezo o mare è una notevole lezione di "canzone popolare d'autore" perché evidenzia il perfetto intreccio della citazione popolare con il linguaggio di autore moderno, l'armoonia metrica e letteraria tra il favoloso passato riportato dai menestrelli dell'età dell'oro e l'inquietante visione e ideologia dell'uomo contemporaneo.
Nel canto sono presenti e visibili gli intercalari musicali che scandiscono le strofe Ce accussì Napule Na ... ) e le citazioni che dall'antichità del barocco popolare vanno al recente passato della produzione romantico-ottocentesca o primosca che culmina nell'ironico riferimento allo stereo tipo della Napoli canzonettara e cartolinistica (funiculì funiculà, sponta a luna a Marechiaro, O sole mio, Vedi Napoli e poi muori). E ancora sono presenti le scene e le espressioni di un malaffare e di un intrigo di situazioni e di personaggi che riportano alle ambientazioni estreme di Mastriani o di Salvatore Di Giacomo, o alle immagini del grande teatro di Vivi ani o De Filippo.
Il Michelemmà di partenza fornisce le immagini fantastiche e surreali di sbarchi di corsari, di figli illegittimi, di contese, di stelle luminosissime, di amanti e di amori immensi e tragici: De Simone raccoglie queste immagini e creativamente le allinea in un racconto di storia e di leggenda, di eventi memorabili e di miserie quotidiane, e i versi procedono tra i ritmi fragorosi degli eserciti delle rivolte delle battaglie e delle guerre, e le lune di Marechiaro che accendono le voci a distesa dei posteggiatori, i sorrisi delle prostitute e i sospiri degli innamorati.
Un'ultima citazione di canto scritto da De Simone, infine, mi riporta più strettamente alla collocazione storica di questo libro, che è la guerra del 1860: il canto si intitola Italiella Italià e interrpreta !'ironico stupore del popolo napoletano di fronte al connvinto trionfalismo degli artefici dell'incompiuto "risorgimento".

T"e fatto la vunnella Italià
 te l"e fatta de tre culure
e nui simmo rimaste annude
comme t'ha fatto mammà
scàuze annude e muort"e famme

T"e fatto la cazetta Italià
 te l"e fatta de seta inglese
e nui avimmo fatto li spese
pavammo nui da sotto
e 'Manuele se ne fotte

Qui l'eleborazione creativa di De Simone è più contenuta: l'autore si limita ad accorpare versi sparsi e motivi risuonanti nelle strade e nei vicoli di Napoli, e privilegia i ritmi e le cadenze infantili, che, in quanto tali, sono inattacabili e più direttamente manifestano un sentimento comune, diffuso, popolare. La voce dei bambini come enfatizzazione del celebre classico detto" Vox populi vox dei".


15
I DUE NEMICI DELLO STILE POPOLARE

Il punto di forza della musica popolare sta nella sua peculiarità espressiva, nel suo inconfondibile stile, sta in tutto quello che in maniera appariscente e immediata la distingue e la separa dalla musica colta. Il punto debole è la sua delicatezza, la vulnerabilità all'insidia di linguaggi e ai gesti che non le appartengono e che, se le si attaccano addosso, la devastano completamente.
Prima di descrivere queste insidie, mi sembra opportuno precisare di cosa sto parlando e cercare una definizione di musica popolare:

• La musica popolare è quella forma d'arte costituita dalll'insieme dei canti che sono tramandati perché salvati dall'oblìo dalla volontà popolare, dall' azione di una comunità che spontaneamente li sceglie; quelli che sopravvivono a questa sorta di "darwiniana" selezione sono ovviamente i più belli o perlomeno i più funzionali, e sono in definitiva democraticamente scelti, preservati e trasmessi dal popolo al di fuori del condizionamento della logica commerciale basata sull'interesse e veicolata dalla pubblicità.
• La musica popolare si basa su un rigoroso codice comunicativo che vede da un lato gli interpreti e dall'altro gli ascoltatori inquadrati in un rapporto diretto, preciso e ritualizzato.
I due principali nemici della musica popolare sono due malintesi atteggiamenti che potrei individuare come "enfasi" e come "fiocchetti colorati".
L'enfasi è del tutto assente nell'interpretazione del canto popolare, che è l'espressione in cui il cantore è il sacerdote di un rito, in comunicazione medianica con la sua tradizione, fatta di storia e di maestri rigorosamente invocati e rispettati. In questo rito non c'è spazio per nessun ammiccamento o concessione volti a compiacere gli astanti e attirare consenso, ma prevale la freddezza di una interpretazione che diventa ogni volta tramite, ponte emotivo tra il presente e la tradizione. Il cantore, per esempio, non può calcare né la voce né il gesto a sottolineare il senso dei versi che sta cantando; quei versi, come nelle preghiere, sono pronunciati per il loro valore evocativo e valgono, più che per il senso letterario del testo, per la loro valenza puramente musicale.
L'altra insidia, per certi versi simile alla precedente, è l’edulcazione, la tendenza a smussare le asperità del fatto musicale basato spesso su improvvisi picchi sonori e su una estenuante e ossessiva iterazione ritmica, a favore di una musica meno inquietante e più gradevole.
Mi viene in mente a questo proposito l'esternazione dei turisti del Grand Tour che ai principi dell'Ottocento si recavano in gita nelle locande di Posillipo ed esprimevano all'oste insofferenza per le irruzioni della strepitante tammurriata portata dalle "foretane", le esuberanti cantatrici e danzatrici che vivevano appena fuori la città, le abitatrici della selvatica collina.
Fu forse per farli contenti che il re favorì la trasformazione di quelle forme musicali in una snervata tarantella di maniera, buona per gli ascoltatori tranquilli, che con Rossini giunto a Napoli e ingaggiato dal San Carlo, raggiunse notevoli risultati musicali, ma spense totalmente la forza trasgressiva e pagana della autentica musica popolare, e veicolò in tutto il mondo l'idea di una tarantella napoletana infiocchettata e rassicurante.
Carlo D'Angiò, voce principale del primo periodo della Nuova Compagnia di Canto Popolare, quando irrompeva nelle strofe della tarantella del Gargano, faceva sobbalzare gli ascoltatori del Teatro Esse. E stava cantando i versi d'amore delle serenate di Carpino, ma quei versi (come d'altra parte avviene nell'interpretazione originale dei grandi vecchi maestri) apparivano come un grido di appartenenza, un canto di riscossa delle culture emarginate e subalterne. Era il messaggio immediato di quella musica, dove le contingenti occasioni musicali (il ballo, la festa, la ballata epica, la lamentazione religiosa) si riconducono tutte a una unica manifestazione alternativa di identità.
Brigante se more è diventato il punto di forza del repertorio di decine, forse centinaia di solisti e gruppi di questo nuovo genere musicale che oggi viene definito "etnico".
Quando la registrammo, nella sala Splash di Fuorigrotta (il super attrezzato studio di registrazione appartenente a Peppino di Capri), era un sabato mattina (il giorno libero dell'ingegnere D'Angiò), c'eravamo io e Gigi De Rienzo, che dirigeva le riprese e all'occorrenza suonava il mandoloncello, e c'era Andrea Nerone, architetto cantore di Mondragone, anche lui compositore.
Io suonai la battente, con quella tecnica particolare di terzinato stretto che la trasforma in uno strumento fortemente rittmico, ma contemporaneamente capace di generare e diffondere un sottile tappeto armonico. Il brano è in 3/4, o se vi pare in 6/8, ma quella tecnica di accompagnamento realizza un andamento ciclico e coinvolgente ed evita l'insidia del valzer che ben conoosciamo e che affligge tanta musica popolare, soprattutto del Centro e del Nord Italia.
Carlo cantò di getto, leggendo su un foglietto le parole appena scritte: buona la prima. Gigi aggiunse la cadenza bassa del mandoloncello. Mancava la percussione, ci voleva un suono di frusta da cavalcata di "esterno giorno", e quel suono fu realizzato dalla cintura di Andrea, che se la sfilò dai pantaloni e la scagliò con movimenti ritmici e rabbiosi sul parquet della sala.
Alla fine aggiungemmo delle grida, e quelle le fecero Andrea e Carlo contemporaneamente.
Le strofe furono cantate, anzi urlate, con la solita freddezza di chi lancia un grido per costruire un potente arco musicale e non ha tempo di pensare alle singole parole che sta pronunciando.
Ma nei numerosi rifacimenti successivi, purtroppo, l'insidia dell'enfasi si manifesta spesso in quel canto; è un'insidia da sempre in agguato nelle esecuzioni dei gruppi dilettantistici, ma Brigante se more è particolarmente vulnerabile e per la sua natura offre una tentazione forte alla "teatralizzazione"che è il contrario dello stile popolare, e gli fa perdere forza, innanzitutto perché la rende antica nel senso di vecchia; sentiamo spesso quelle voci "accorate", che nel corso delle cinque strofe passano dalla rabbia all'implorazione alla lacrima alla preghiera (quella che il cantante canta congiungendo le mani), ed esprimono il campionario delle esternazioni di sentimento e della teatrale sottolineatura con gesti e pieghe della voce che appartengono allo stile del melodramma, della musica leggera, del cantante "strappacuore" delle feste di piazza, della platealità del divo pop-rock, lontanissimo dalla compostezza straniata di quelli che non avvertono la necessità di sbattersi più di tanto; lontanissimo dalla misurata espressività del cantore popolare o folk singer che dir si voglia, dai grandi maestri del blues ai cantori di Carpino, dal poeta brasiliano Chic o Buarque a Giovanni Coffarelli, voce della tammurriata vesuviana, da Matteo Salvatore a Bob Dylan, che ha espresso tutte le denunce del mondo senza smuovere di una virgola la musicale impassibilità del suo volto e della sua voce.

16
I CANTI POPOLARI SUL BRIGANTAGGIO

Cloris, quando eravamo fidanzati già faceva l'attrice. Aveva, oltre ad altre doti, la capacità, non frequente nell'universo femminile, di un umorismo sottile e surreale.
Mi accusava di essere, in musica, un baro: diceva che quando scrivevo un verso o una melodia, in realtà c'era un ornino piccolissimo nascosto in una piega del mio orecchio destro, che al momento opportuno mi dettava le note e io le scrivevo e non dicevo niente a nessuno.
L'insicurezza è il compagno di viaggio che da sempre affianca il musicista. lo che per l'anagrafe universitaria sono laureato in Fisica, e che per questo ho avuto a lungo a che fare con il metodo scientifico e il calcolo infinitesimale, so che di fronte a un problema matematico ci sono due possibilità: o il problema è irresolubile, e questo significa in pratica che è mal posto, illusorio e quindi inesistente, o il problema ha soluzione, e allora la soluzione, non ci stanno santi, esiste e bisogna trovarla, basta avere pazienza e non sbagliare il calcolo.
Ma in musica la situazione è completamente diversa: la composizione di note o di versi avviene per meccanismi per me misteriosi: io che ne ho scritta tanta non saprò mai raccontare quali sono le regole e ogni volta che mi accingo a una nuova composizione, soprattutto quando si tratta di una colonna sonora che è musica commissionata da altri, la solita angoscia mi assale di non riuscirci e di non saperlo fare.
Cloris aveva dunque scoperto che quello che scrivevo me lo suggeriva l'ornino nascosto, e non era roba mia. Un'accusa analoga, e questa volta non scherzosa, me la sono sentita fare da altri a proposito, come sapete, della ballata sui briganti. E quelle voci erano così poco femminili, così insistenti e fastidiose che io, quasi per liberarmene, ho cominciato a desiderare che avessero ragione loro purché la smettessero, ho cominciato a fantasticare che dubbi e illazioni avessero un fondamento, ho immaginato che realmente io quella composizione non l'avessi mai scritta insieme a Carlo, ma l'avessi riportata da un informatore del passato, che me l'avrebbe cantata una sera in una taverna sperduta, tra un primo e un ultimo bicchiere di vino rosso. E che il giorno dopo la sbornia abbia rimosso l'informatore e abbia conservato quei versi e quella melodia.
Un gioco di straniamento che mi porterebbe finalmente ad accettare che il crescente brusio di «Brigante se more di autore anonimo» corrisponda alla verità; un fantastico percorso nelle pieghe oscure della coscienza per qualcosa che avrei vissuto e di cui avrei perso memoria.
Ma mentre provo ad abbandonarmi, rassegnato, risollevato, a questo sortilegio, mi ritrovo tra le mani il libro di Ludovico Greco che si intitola Piemontisi, briganti e maccaroni, un libro di Storia e di reperti storici che riguarda i briganti e la loro lotta, che contiene nomi, date, battaglie combattute e canti cantati, un resoconto semplice e preciso, che sta lì davanti agli occhi e mi smonta seccamente ogni tortuosa divagazione della memoria, m'induce a chiudere in tutta fretta questa nebbiosa fantasia e mi riporta alla realtà.
Questo libro fu pubblicato a Napoli dall'editore Guida nel 1975. Io lo acquistai allora, quando uscì, e la sua lettura mi dette subito informazioni ed emozioni nuove, che influenzarono evidentemente la mia scelta di campo, la mia attività di compositore e la mia dimensione musicale legata alla Storia e alle voci del Sud; inoltre, essendo del 1975, è l'ultima opera storiografica sul brigantaggio apparsa prima del 1979, quindi la più vicina alla data della composizione di Brigante se more.
Certo mi sono sempre interessato all'argomento, per cui conosco quasi tutti i testi, dal primissimo Reazione e brigantaggio in Basilicata nella primavera 1861 di Camillo Battista (Potenza 1861) al successivo saggio di Marco Le Monnier Notizie e documenti sul brigantaggio nelle province napoletane (Barbero, Fiirenze 1862) alla celebre autobiografia di Carmine Crocco Come divenni brigante (1903) scritta in carcere due anni prima della morte; e ancora i più recenti Storia del brigantaggio dopo l'Unità di Franco Molfese (Milano 1964) e Il brigantaggio meridionale. Cronaca inedita dell'unità d'Italia di Aldo De Jaco (Roma 1969).
Ludovico Greco però si dimostra storico attentissimo e decisamente dissacrante verso la storiografia ufficiale del Risorgimento, e invito tutti gli interessati a leggere questo libro, che forse difficilmente si trova, ma io metto a disposizione la mia copia e invito l'editore a ristamparlo.
Riporto alcune righe dell'indice del libro, dalle quali già si può avere un'idea del carattere rivoluzionario nei confronti della storiografia ufficiale e sovversivo della toponomastica di tutti i corsi e le piazze principali dell'Italia unita:

Garibaldi: "né scienza militare, né coraggio guerriero"
"Le menzogne di Garibaldi"
Cavour: "abilissimo nel fare quattrini"
Vittorio Emanuele II: "debole e rozzo"
Uno spietato ritratto di Franceschiello
La Regina Maria Sofia

La generosa e patetica avventura di Borjés
Avrebbe dovuto riconquistare il Regno
Incontro con Crocco, separazione e fuga
La cattura a la fucilazione nei racconti "ufficiali"
Fu anche schiaffeggiato prima di essere fucilato
"Un povero illuso" aveva detto Crocco

Carmine Donatelli Crocco, il Generale contadino
Le vittoriose campagne di Crocco
Anche Crocco scriveva poesie

Piemontesi Go Home! Il Plebiscito
Gridano a Napoli: "Fuori i piemontesi" Sei milioni di ducati "per i martiri"

La rivolta contadina (Cronache di lutti e massacri)
I cadaveri furono messi in mostra sulla piazza
La legge "Pica"
Ucciso a tradimento Ninco Nanco O surdato 'e Gaeta
(Poesia di Ferdinando Russo, Napoli 1918)

LE CANZONI POPOLARI
La leva
Picciotti di Rivera Il Sessanta
Vittorio Emanuele assassino
I tiranni non cambiano mai
Sangue per sangue
Il bel regno è andato gambe all'aria
Mi hanno sotterrato vivo
Occhi pieni e mani vuote
Siamo trattati peggio dei cani
Spogliati nudi dal fisco
Vittorio vattenne!

La fimmina di lu brigante

Quest'indice è già di per sé una lettura interessante, e testimonia l'attenzione dello studioso, il taglio innovativo e la completezza di quest' opera storiografica.
E poi Ludovico Greco è uno dei primi a pubblicare quelle fotografie che raccontano tantissimo dei briganti e dello scempio del massacro.
Ma la cosa più preziosa del libro, per quanto mi riguarda, è l'ultimo capitolo, quello che si intitola Le canzoni popolari, dove è finalmente riportata una lunga serie di canzoni dell'epoca sul brigantaggio postunitario e si apre con la citazione di Antonio Gramsci.

È stato Gramsci a sottolineare - se non erriamo - tra le caratteristiche del canto popolare «il modo di concepire il mondo e la vita in contrasto con la società ufficiale». La delusione e lo scontento per la mancata rivoluzione sociale e per il peggiorato livello di vita si tradusse, anche a livello di folk-songs (in Sicilia, in Calabria, in Lucania, nel Napoletano) in spontanee ed emotive insorgenze protestatarie. Il bando per la leva (la ferma era di otto anni!), il fisco che lascia nudi, il carcere dove si è sotterrati vivi, senza bara e senza sepoltura, i privilegi rinnovati, dallo stesso Garibaldi e dai piemontesi dopo ai "galantuomini" e mantenuti e promossi dal nuovo Stato unitario, ecco alcuni dei motivi più diffusi a sollecitare la musa popolare.
Che immediatamente risponde con canzoni e strofette sempre contestatrici anche se, il più delle volte, intessute soprattutto di amara rassegnazione, quasi la classe più misera si avveda e testimoni la sua impossibilità a reagire. Non sempre, tuttavia: non manca qualche canto dove la denuncia non è più malinconica e sottomessa. E diventa invece protesta spavalda e fiera.
Ma la caratteristica comune a tutti i canti - siano essi di lamentazione o commento oppure di minaccia - è il costante rifiuto della nuova condizione di "italiano". Come costante è il richiamo, a volte nostalgico a volte fiero, alla condizione antica del Regno: poiché - riscontrata la manncata ristrutturazione sociale - è stato accertato anche questa volta (così sottolinea l'anonimo cantautore del 186l) che «i tiranni nun cancianu mai».


La maggior parte dei canti riportati sono in dialetto siciliano.
Ad esempio questa breve strofa contro la leva obbligatoria:

LA LEVA
Vittorio 'Mmanueli, e chi facisti? ..
La mugghi giuventù ti l'afferrasti .
Ti la purtasti a Napuli e a Turino .
- Vittorio 'Mmanueli è malandrino

E ancora siciliani, nel dialetto e nella forma, sono questi altri versi che riprendono lo stile dei cantastorie, gli affabulatori ambulanti che raccontavano le gesta dei paladini cavallereschi e che in quel 1860 passano a trattare gli avvenimenti contemporanei.
Il poeta popolare propone un paragone tra il '48 e il '60: del primo caso sottolinea !'incerto susseguirsi degli eventi (<<.:.u conza e sconza: acciacca e medica»); ma ora nel '60 non si torna indietro, il passo è definitivo, e per la gente di Sicilia quella bandiera tricolore, che pure aveva accolto con favore, appare ora in una luce diversa, addirittura cambia forma, e sembra non più rettangolare, ma quadrata come un fazzoletto in cui raccogliere lacrime di amarezza e di rimpianto.

IL SESSANTA
Parru ppi lu sessanta, o mei signuri:
su' tutti virità, non su' palori!

Si jssau la bannera atri culuri
con contintizza e alligrizza di cori;
ma non è Longa, è quatra, a 'mmucaturi,
ccu la cruci Savoia e auti decori,
e la sustennu novi trapaturi:
chistu è lu munnu: cui nasci e cui mori.
O quarantotto fu la contradanza,
la 'ncugna e scugna, lu conza e lu sconza.
Sicilia dissi: Arrisicu la panza;
quanno si 'sburdi na cosa si conza.
A lu sissanta Sicilia chi accanza?
Li cani grossi mangiano la sponza

I versi appena riportati rappresentano una diretta sintesi dello stato d'animo di tutta la Sicilia di fronte agli avvenimenti del '60. In poche rime c'è tutto il racconto storico, c'è la spiegazione della facilità con cui Garibaldi compì la sua impresa (l'iniziale ingenuo favore popolare), c'è l'improvvisa disillusione (il massacro di Bronte), c'è la "filosofica" rassegnazione della gente isolana di fronte alle imperscrutabili ragioni piovute dall'alto, e alle manovre politiche decise altrove.
C'è addirittura un popolare riferimento alla geometria e alle sue forme, la trasformazione di un rettangolo in un quadrato, e non si può non pensare che non a caso questo avviene tra quella gente e in quella terra dove Pitagora nacque e concepì i suoi celebri teoremi.
Più violento e battagliero (ma si tratta sempre di battaglia politica, lontana dal clamore e dalle grida del fronte), e fortemente indicativo del clima di feroce avversione al nuovo regnante, è il seguente canto di minaccia e di vendetta:

SANGUE PER SANGUE
Lu popolu si java rivutannu.
ma si rivutirà tuttu lu regnu:
aspettammo 'stujuornu, e (cui sa quanno?)
vinnitta si farà sangu ppi sanguI

Sono canti di avversione popolare, una testimonianza forte sicuramente. Ma i briganti? Dove sono i briganti?
Quando cantano e raccontano, lo fanno dall'angusta cella dove sono relegati a vita, "sotterrati vivi".
Ma da quello che si legge in questo canto, nulla ci dice che siano briganti, anzi questo ci sembra improbabile, sia perché sono siciliani (e in Sicilia di brigantaggio classico se ne vide poco o niente), sia perché sono lì in carcere, cioè sono stati presi e sono ancora vivi.

SOTTERRATO VIVO
Stu statu tantu tiempu carceratu,
nisciunu mi ha mannutu nu salutu;
lu pani de caniglia haiu mangiutu,
acqua china di viermi haiu vivutu;
 m'hanno propriu 'mmivenzia suttirrutu,
senza la vara e senza lu tautu

Greco connota un capitolo del suo libro con il titolo Piemontesi, Go Home! e questo rappresenta il carattere esuberante e sanguigno dell'autore, e ci rivela di come il suo scritto sia pervaso dalla nuova sensibilità contemporanea, che vede studenti e intellettuali di tutto il mondo schierarsi contro la logica della colonizzazione, in quel movimento di illuminazione culturale e pacifismo che elegge a simbolo della lotta di liberazione dei popoli del Terzo Mondo la guerriglia vietnamita contro le bombe americane.
Quel titolo pittoresco è la traduzione (in lingua italiana del 1974) del canto (in lingua napoletana del 1860) che l'autore riporta alla fine della sua raccolta.

VITTORIO, VATTENNE!

Vittorio, vatténne ea si' nu mariuolo
Chello eh'he' fatto a Napule nu' sta buono.
Napule he' spugliato e TUrino tu vieste,
Vittorio, fa priesto, vatténne da eea'!

La rassegna dei canti riportata da Greco è dunque una carrellata sui sentimenti dell' epoca, lo stile è inconfondibilmente quello delle strofette popolari che sono cantate ovunque e veicolano uno stato d'animo diffuso, una vox populi vox dei che ci fornisce un racconto coerente, dall'iniziale favore per la "libertà" promessa da Garibaldi alla successiva delusione per la leva, al furore e al grido di vendetta contro le violenze subite, alla rassegnazione e all'imprecazione degli sconfitti, al napoletano sberleffo della disincantata Capitale irriverente a ogni potere.
Ma è proprio questo capitolo a sottolineare il silenzio dei briganti e dei combattenti schierati in prima linea.


17
IL POLVERONE

Certo tutti quelli che hanno pubblicato libri o "saggi" (no romanzi riportando il testo di Brigante se more (e questo è avvenuto ovviamente solo dopo il 1979) senza citare l'autore, a volte attribuendolo ad anonimo dell'Ottocento, non hanno letto Pieemontesi, briganti e maccaroni di Ludovico Greco; perché è evidente che Greco nel suo capitolo specifico sui canti popolari del brigantaggio non riporta nulla che possa avvicinarsi, anche lontanamente, alla canzone che io e Carlo abbiamo scritto. Si sarebbero per lo meno dovuti allarmare, avrebbero dovuto con maggiore energia cercare il fantomatico documento indispensabile a supportare la loro affermazione. E avrebbero potuto capire, leggendo i canti riportati da Greco, qual è lo stile letterario di un canto di anonimo dell'Ottocento.
E come sia diverso da una composizione d'autore del Noveecento.
Ma evidentemente quel libro non l'hanno letto.
E penso che non abbiano letto neanche il libro di Aldo De Jaco (che pure riporta, in appendice tutti i canti del brigantaggio), né forse, tutta la storiografia dal 1860 al 1979. Tantomeno hanno letto o dato un'occhiata alle raccolte di canti popolari realizzate con grande completezza da illustri filologi di fine Ottocento e primo Novecento e oltre, quali Giuseppe Pitré in Sicilia, Luigi Molinaro del Chiaro in Campania e lo stesso sommo erudito Benedetto Croce.
Queste raccolte riportano meticolosamente tutti i canti popolari del passato conosciuti, nei rispettivi dialetti, con citazione dei luoghi di provenienza (come è consuetudine nella corretta prassi etnografica) e con l'aggiunta spesso delle "varianti" (cioè versioni in cui risultino cambiati uno o più versi) cui è soggetto un canto popolare per il carattere intrinseco della trasmissione orale.
Né av'anno mai consultato l'Istituto di Stato Ernesto di Marrtino che ospita tutte le registrazioni e i documenti sulla cultura popolare delle regioni italiane. Né si saranno mai confrontati con le pubblicazioni di artisti come Pier Paolo Pasolini o Itala Calvino, che ai versi e ai canti e alle filastrocche popolari hanno dedicato grandissima attenzione e numerosi scritti.
Insomma in questo caos se ne leggono e se ne sentono di tutti i colori, e non mi riferisco certo alle sciocchezze degli sprovveduti che ancora oggi continuano ad accanirsi sui blog Interrnet, perché questi, poveretti, parlano di qualcosa che su quei libri hanno letto, ma agli "studiosi" che quei libri hanno scritto e pubblicato.
E queste persone, autori di pubblicazioni varie e di libri, muovendosi appunto su questo argomento nella nebbia della reticenza, non si sono neanche accordati sulla falsificazione, e ognuno dice la sua, e lo stesso titolo del nostro Brigante se more diventa, di volta in volta Libertà, Canto Sanfedista, Il canto di riscossa dei briganti e altro ancora.
Sono persone sicuramente per bene, sicuramente intelligenti che però con la bufala clamorosa in cui sono incorsi (che è solo un dettaglio del lavoro che hanno compiuto) perdono credibilità e rendono deboli tutte le altre cose serie e coraggiose e sacrosante che hanno scritto. E sono responsabili di un piccolo grande falso storico.
E allora invito: Isabella Rauti (Campane a martello. La Vandea italiana, 1989), Antonio Ciano (I Savoia e il massacro del Sud, 1996), Lucio Barone, Antonio Ci ano, Antonio Pagano, Alessandro Romano (Briganti e partigiani, 1997), Franco Mario Agnoli (Dosssier brigantaggio, 2001), Pompeo Onesti (Il brigante, 2001), Vincenzo Labanca (Un brigante chiamato Libero, 2004) a uscire dal polverone che hanno sollevato, a porre fine al diffondersi di questo errore, a rettificare quello che su Brigante se more hanno scritto (o hanno taciuto).
Non tutti sono in malafede, ma su quel punto tutti hanno commesso una leggerezza, e in definitiva hanno sbagliato perché sono venuti meno alla regola numero uno del metodo storiografico, e specificamente etnografico: chi riporta un testo deve citare la fonte. Deve dire dove l'ha trovato, quando sarebbe stato cantato o declamato, da chi, in che dialetto, in che paese, in che occasione, in che periodo.
Ma io penso che siano persone rispettabili e attente, e li invito a comprendere finalmente che se Brigante se more ha avuto tanto successo tra i ragazzi meridionali di fine Novecento è perrché è stato scritto a Napoli da due ragazzi meridionali di fine Novecento che parlavano il loro stesso linguaggio ed esprimevano gli stessi loro sentimenti.
Certo se io appartenessi alla categoria degli artisti inflessibili sui propri interessi e protetti da un severo cordone di collaboratori e amministratori e avvocati attenti al diritto d'autore e all'immagine, questi sprovveduti "storici" sarebbero stati da tempo bloccati, e gli autori e gli editori costretti a ritirare le loro pubblicazioni, magari denunciati o intimati a fornire prove documentali (ovviamente inesistenti) delle loro false affermazioni; o comunque, come si usa in questi casi, citati per danni.
Ma questo non è il mio stile. Potrebbe avvenire nelle grandi sedi del business musicale. Non a casa mia.
lo non me la sono mai sentita di perseguire queste persone che comunque sono dalla mia parte, che hanno raccolto il mio appello, che si sono messe in cammino sulla strada che io ho percorso, che si entusiasmano per le cose che ho scritto.
lo ho sempre compreso quei ragazzi che cantano il mio canto e che, in buona fede, appena incappati nella falsa informazione, senza porsi troppi problemi, si sono elettrizzati all'idea che quel canto potesse essere un prezioso ed emozionante reperto storico.
Anche a me, come a loro, farebbe piacere se Brigante se more o qualcosa di simile l'avesse scritta qualcuno nel 1860, se i briganti l'avessero cantata prima della battaglia o nelle veglie sulle montagne, se gli emigranti l'avessero portata in America. Anche io sarei felice (sarei addirittura pronto a rinunciare alla mia paternità) se quel canto fosse appartenuto all'Ottocento e avesse potuto mettere a tacere l'agguerrita compagine degli storiografi di regime, se avesse potuto irridere alla pagliacciata dei plebisciti testimoniando con un canto di lotta che l'adesione all'Unità era stata una farsa sottoscritta da pochissimi e che il popolo nella sua maggioranza stava dall' altra parte.
E se avesse potuto smentire Benedetto Croce che cinquant'anni dopo affermava che «il brigantaggio è nulla più di un movimento di criminalità comune non assistito da alcuna coscienza o rivendicazione politica».
Io e Carlo abbiamo semplicemente scritto una canzone, e non vogliamo atteggiarci più di tanto, ma quella canzone, di cui oggi si discute tantissimo, avrebbe potuto probabilmente, in quegli anni lontani, incidere davvero sulla Storia, e forse con Brigante se more tanta gente in più avrebbe all'epoca sostenuto i briganti e qualche battaglia in più sarebbe stata vinta o per lo meno combattuta.
Ma la verità è un'altra, ed è diversa dal sogno. La fantasia è diversa dalla Storia.
L'Ottocento è diverso dal Novecento.
Brigante se more l'abbiamo scritta centoventi anni dopo:

18
LE MOTIVAZIONI
DEL BRIGANTAGGIO POSTUNITAIUO

«Molti si illusero di poterei usare per le rivoluzioni, le loro rivoluzioni, ma la libertà non è cambiare padrone, non è parola vana e astratta. È dire senza Umore: "è mio" e senUre forte il "mio", e sentire forte il possesso di qualcosa a cominciare dall'anima, è vivere di ciò che si ama, vento forte ed impetuoso, che in ogni generazione rinasce. Così è stato e così sempre sarà".

Oltre alla datazione di Brigante se more, c'è, su questo nostro ormai celebre canto, la questione delle due differenti versioni, ed è questione accanita e tuttora appassionatamente dibattuta. Tra il partito del «nun ce ne fotte» e il partito del «nui cumbattimmo» gli scontri continuano, e ne sono anch'io spettatore sbalordito, con il ruolo speciale di autore responsabile della versione originale, che mi costringe a schierarmi con il primo e a sopportare il dissenso del secondo partito.
Come ho già chiarito, da un punto di vista letterario e poetico, la versione artefatta è inaccettabile, perché è stilisticamente un sottoprodotto.
Ma quando si scrive una canzone, questa vive poi di vita propria e, se diventa "popolare" in senso stretto, può succedere che venga sentita e vissuta in maniera così intensa da passare attraverso modifiche che riflettono la sensibilità di chi la canta, e che possono portare a versioni e fruizioni anche molto lontane e diverse dall' originale.
Per fare un esempio che ancora mi riguarda (e riguarda anche stavolta l'ottimo Carlo D'Angiò: sarà un destino dei brani che abbiamo scritto insieme), nel 1987 scrivemmo una canzone dal titolo Sole sole, che partecipò anche a una rassegna televisiva di grande successo.
Il ritornello di quella canzone fu scelto, in piena autonomia, dal tifo organizzato dello stadio San Paolo di Napoli. Il popolo di Maradona cantava quelle note, io le potei ascoltare addirittura in eurovisione, in diretta dallo stadio di Stoccarda, a celebrare la vittoria nella Coppa Vefa del 1989.
Era la nostra canzone che percorreva l'imprevisto cammino di diventare un inno calcistico, ed era quella la melodia delle vittorie del Napoli, perché l'avevano scelta i tifosi, era perciò qualcosa di molto diverso dalla nostra canzone, anche se le note erano le stesse, e decine di migliaia di voci le intonavano, tutte insieme, e nessuno si chiedeva chi le avesse scritte, nessuno reclamava diritti d'autore, anche perché per noi gli autori erano tutti loro che l'avevano trasformata in un felice e vincente inno sportivo.
Tornando a Brigante se more, è chiaro che, nel momento in cui la scrivevo, ogni verso, ogni parola era una responsabilità, era una scelta, poetica storica e ideologica. Ma per quello che ho detto è altrettanto chiaro che non mi scandalizzo né mi ribello all'idea che la mia versione possa essere modificata, ridotta, accresciuta, perché ognuno è libero di farlo e di cantarla così come meglio la sente. L'originale è il punto di partenza, ma un canto che diventa una bandiera può compiere un percorso autonomo, ed è esattamente questo che dà un più forte senso alla sua esistenza e al suo valore contemporaneo. In definitiva, alla sua funzione popolare.
Brigante se more, i suoi versi, la sua musica sono una nostra interpretazione postuma di un preciso fatto storico, avvenuto più di un secolo prima: l'insorgenza meridionale contro l'invaasione dei Savoia. Il nemico era l'esercito piemontese, ma gli obiettivi e i motivi della lotta, così come le dinamiche di quella che fu prima una guerra e divenne poi una guerriglia sono varie e mutevoli come le vicende che tumultuosamente si susseguirono in quei tempestosi anni dal 1860 al 1870.

In particolare la pretestuosa diatriba fra le due versioni, il «nun ce ne fatte» e il «nuie cumbattimmo», può ascriversi nell'accezione immediata e non meditata a due visioni differenti dei motivi della lotta: il tema dellegittimismo e il tema della rivendicazione sociale.
Ora, a mio avviso, questi due temi sono entrambi presenti, con intensità e peso variabile, in tutta l'intricata vicenda dell'invasione del Regno delle Due Sicilie, e a volte vanno di pari passo e si muovono nella stessa direzione, a volte divergono e si allontanano dando prevalenza a una delle due addirittura contrastanti e antitelici.
La vicenda storica dell'invasione passa attraverso varie fasi.
La prima fase ha come protagonista Garibaldi e le sue Camicie rosse, e lo sbarco in Sicilia è scandito dagli slogan della rivoluzione sociale e dell'assegnazione delle terre ai contadini. l Savoia tramano nell'ombra, fingono addirittura di inseguire alla partenza di Quarto il ribelle Garibaldi, ma in realtà gli hanno commissionato e finanziato la spedizione e lasciano alloro eroe il compito e la responsabilità di sbarcare a Marsala, creare scompiglio, disordine e sollevare le masse rurali e il popolo pronto ad assecondare la rivolta contro la legge dei padroni. È lo scompiglio che Cavour richiede per poter convincere i suoi potenti interlocutori (Napoleone III e il governo inglese) sulla necessità di intervenire nel Sud per riportare l'ordine, cosa che avverrà pochi mesi dopo con l'invasione dell' esercito piemontese che varca la frontiera dello Stato Pontificio ed entra nel Regno dall' Abruzzo senza neppure dichiarazione di guerra.
È questa la fase del carattere di rivendicazione sociale del sommovimento; i Savoia sono assenti dai proclami, che parlano solo di abolizioni di tasse e distribuzione di terre a chi le lavora, e addirittura molti di quelli che combatteranno poi nelle file del brigantaggio si schierano in quel momento con Garibaldi e ne favoriscono, rendendola possibile (a parte l'incomprensibile e imbelle condotta di tanti ufficiali borbonici) la risalita verso Napoli Capitale., La banda Muraca in Calabria, lo stesso Crocco e Ninco Nanco e Pietro Monaco prendono parte attiva all'insurrezione, accorrendo all'appello di Garibaldi.
Nella seconda fase c'è l'intervento di Cavour e Vittorio Emanuele che gettano la maschera del loro intrigo ed entrano in gioco, decidendo però di accantonare la questione dinastica e di dare la precedenza alla questione più urgente: porre un drastico freno alla "dittatura sociale" propugnata da Garibaldi e minacciata dalla sua avanzata.
Il massacro di Bronte per ordine del garibaldino Bixio è il primo segnale del vento nuovo della reazione savoiarda: nella piazza del paesino siciliano vengono fucilati i rivoltosi, quelli che infiammati da Garibaldi si erano rivoltati contro i signorotti. E sono proprio i fucili delle Camicie rosse a fare fuoco sugli sbalorditi contadini allineati contro il muro.
Quindi nella strategia di Cavour priorità all' esautoramento di Garibaldi dittatore: l'enigmatico ed enfatico «Obbedisco» immortalato dai pittori di regime a Teano è il segno che l'avventura libertaria è finita; i potenti d'Europa possono stare tranquilli: ora ci penserà l'esercito piemontese a rimettere le cose a posto, e il popolo dovrà abbandonare le velleità rivoluzionarie, le pretese sulle terre, i vessilli e gli slogan che lo hanno illuso e fregato, e rassegnarsi alla leva obbligatoria, alle tasse, alle vessazioni del nuovo ambizioso despota piemontese. Garibaldi va tolto di mezzo, lui e tutti i suoi proclami; e a quel punto Vittorio Emanuele può decisamente rivolgersi contro il Borbone, il nemico da abbattere, la dinastia da tradire e bombardare e umiliare. È questa la fase in cui nello schieramento avversario l'istanza sociale, in particolare la difesa della propria terra, si allinea con la fedeltà dinastica: contro le sopraffazioni del nuovo governo, contro l'indiscriminata razzia dei beni materiali trasportati al Nord, contro l'incomunicabilità tra i vecchi servi e i nuovi padroni scatta la rivolta di idealisti, di militari fedeli al re Borbone e di briganti ribelli, uniti nel rigettare l'arrogante e sleale esercito nemico.

Cito l'interessante analisi della storica Rosa Cutrufelli (L'Unità d'Italia, Bertani Editore, Verona 1974):

Assai presto si chiariscono dunque i termini della questione, e l'eroe Garibaldi si rivela alla prova come "il più religioso sostegno della proprietà".
A questo punto i contadini sono spinti dagli obiettivi della loro lotta ad attaccare a fondo la borghesia agraria, rompendo così il fronte di lotta antiborbonico e capovolgendo addirittura la situazione.
Francesco II, nemico dei "piemontesi" e dei possidenti vendutisi al nuovo regime, diventa automaticamente un alleato, l'unico possibile in quel momento e in quella situazione.


In quel momento le rivendicazioni libertarie e la fedeltà alla dinastia borbonica si affiancano nel nome di una guerra da combattere contro l'esercito straniero e la sopraffazione di Vittorio Emanuele Il. Tutti insieme, dunque, insieme con lo stesso ardore ma ciascuno con le proprie divergenti sfumature ideali.
Ed è proprio questa divisione fra le componenti del moviimento antipiemontese il punto debole della coalizione.
Le forze che si battono contro l'esercito piemontese fanno capo a due personaggi, alleati e rivali. Il generale contadino Carmine Croccb, mitico e inafferrabile guerrigliero, una sorta di Pancho Villà dei peones della Basilicata, che combatte una vera e propria guerra di liberazione, conscio dei motivi rivendicazionismi e populisti della sua azione. E accanto a lui il generale catalano Josè Borjés, reduce dalle guerre carliste, reclutato a Marsiglia da emissari del comitato borbonico, ricevuto a Roma da re Francesco in esilio, e inviato, con pochi uomini e poco denaro, a Malta. Di lì passerà in Calabria e, dopo una marcia avventurosa, in Basilicata, per ricongiungersi alle bande di Crocco.
L'ordinata strategia di Borjés, formato si alle accademie militari spagnole e investito direttamente dal Re, si allinea in trincea accanto all'estemporaneità avventurosa del brigante Crocco, investito dal tormentato percorso della sua gioventù e della sua personale storia.
Ne L'eredità della Priora, Alianello descrive con grande intensità le ansie e le speranze dell' attesa, nella notte della vigilia di un assalto che non avvenne mai. Il romanzo avvolge in quel punto il lettore con l'energia narrativa dell' autore, che è romanziere ma allo stesso tempo anche storico documentato, e rivoluzionario.
E fu proprio l'appassionata lettura di quelle pagine a dettarmi, per la prima volta, i nomi di Crocco e di Borjés, nomi così ignorati, da me e da tutti, che sembravano appartenere a polverosi e sfuocati personaggi della fantastoria. Ma quei personaggi erano veri, ed era vera la storia che Alianello narrava.
Nell'autunno 1861, dopo varie battaglie e vittoriose avanzate, l'esercito insorgente è alle porte di Potenza. La presa del capoluogo della Basilicata sembra cosa fatta: il debole presidio savoiardo è terrorizzato e rassegnato a essere sopraffatto; passano le ore ma l'assalto non avviene e all' alba è tutto sfumato: la città di Potenza viene risparmiata.
Nottetempo è maturato il contrasto fra Carmine Crocco, generale dei briganti, e Borjés, ufficiale in missione. Borjés minacciato da Crocco è costretto ad abbandonare il campo, rinuncia e cerca di raggiungere lo Stato Pontificio per riferire al Re del fallimento della missione, ma proprio al confine viene intercettato dalla Guardia Nazionale e frettolosamente e vigliaccamente fucilato.
La narrazione romanzesca di Alianello si può incrociare con l'analisi dello storico Ludovico Greco che su quella vicenda ci spiega la ragione del mancato assalto, circostanza decisiva per l'esito della lotta.

Cosa era accaduto? Perché Borjés, con i suoi pochi fedeli, era stato circondato e disarmato dagli uomini di Crocco?
E proprio alla vigilia di un successo, ormai scontato, che sarebbe stato politico oltre che militare?

La realtà fu che, in quella notte, i capi della rivolta contadina, proprio a causa di quell'atteso e ormai imminente successo politico, che sarebbe stato di Francesco e della dinastia Borbone, intesero la profonda differenza fra la loro guerra e quella del monarca esule. E optarono per la loro. Così com'era, rivendicazionista e giustizialista, la loro guerra "sociale".
Più che a Gaeta, di fronte alle sopraffazioni e alle cannonate di Cialdini, potremmo dire che fu sotto Potenza che Franceesco perdette definitivamente il regno. Di converso la guerra contadina diventò più sincera, oseremmo dire "autentica". Le fucilate che spensero la vita di Borjés furono - secondo alcuni autori - il segnale che attestò la fine del "brigantaggio politico". Il fenomeno, insomma, tolto il maggior esponente degli interessi legittimisti, non sarebbe stato ormai che una manifestazione di delinquenza comune, di cieca rapina, da parte della "feccia" della plebe contadina. La suddivisione è arbitraria e convenzionale: spogliato dei galloni e dei pennacchi legittimisti, il brigantaggio marca ancor di più il suo carattere sociale. Già con la sparizione di Borjés (lo stratega delle vittoriose battaglie condotte con tecnicismo militare) il brigantaggio ritorna alla sua tattica di pretta guerriglia. Era la tattica che aveva prediletto, al pari di altri, Carmine Crocco, rifiutando le teorie guerresche di Borjés. ((Non si può fare la guerra con i fucili da caccia!» aveva opposto allo spagnuolo, fin dal primo incontro nel bosco di Lagopesole.

(Confronta il racconto dello stesso Borjés, nel diario da lui scritto, e ritrovato dopo che era stato fucilato).

(Da Piemontisi, briganti e maccaroni di Ludovico Greco, Guida Editore, Napoli 1974)

E, in definitiva, è la logica intrinseca alle vicende storiche che porta alla sottolineatura del carattere individualista della lotta brigantesca. E infatti i briganti continuarono a combattere anche dopo l'abbandono in dignitoso e rassegnato esilio di Francesco II.
lo scrissi Brigante se more così come la scrissi, con immediatezza, perché questo corrispondeva all'immagine che mi ero fatto del brigante e al linguaggio che potevo fantasticamente attribuire a quei personaggi del passato costantemente in bilico fra il racconto e l'esagerazione, tra la storia e la leggenda.
Ma, a trent'anni di distanza, alla luce di tante cose che sono state pubblicate e tante letture che ho poi fatto sull'argomento, devo dire che quella mia intuizione sulla spavalderia assoluta e dissacrante, sprezzante di ogni autorità, irridente del nemico e della morte, corrisponde al carattere e all'ideologia che si può storicamente attribuire a quella vicenda e a quei personaggi, a quella guerra e a quei guerriglieri.

19
NUN CE NE FOTTE D'O RRE BURBONE

La mia scelta della musica popolare, l'elezione dei misconosciuti poeti e dei cantori della cultura contadina a miei maestri di stile è, sì, una scelta estetica, un'attrazione artistica, ma contiene anche delle forti connotazioni ideologiche di cultura e costume.
Le due componenti, quella estetica (più appariscente e immediata), e quella strutturale, non sono separate: se la musica popolare si presentava alla mia curiosità di adolescente come un universo misterioso e attraente e, nonostante tutto, denso di futuro, è perché, a mio avviso, quel mondo contiene dei meccanismi di creazione e di trasmissione dell'arte che si contrappongono al sistema e alle regole che vigono nella cultura ufficiale, nel mondo del consumismo, dell'ideologia del più forte, della logica commerciale, degli schemi del potere e del meccanismo inesorabile dei mezzi di comunicazione di massa.
E così a sedici anni mi iscrissi alla scuola di chitarra classica di Eduardo Caliendo, seguace della tecnica di Segovia, uomo di raffinata e radicata cultura, e maestro di cose napoletane.

Caliendo sospendeva le lezioni nel periodo natalizio, ma noi allievi eravamo comunque convocati nella sua casa del Rione Sanità per assisterlo e aiutarlo nella realizzazione del presepe, che ogni anno il maestro ricostruiva, sempre classico e sempre nuovo.
Non mancavano in quell'atelier di musica le visite di Roberto Murolo, e ogni tanto appariva anche il vecchio padre Ettore Caliendo, virtuoso mandolinista, che si accorse della mia propensione alla musica popolare e un giorno mi regalò lo spartito di una preziosa antica tarantella, da lui trascritta per chitarra e mandolino, dal titolo Tarantella di Masaniello.
La Nuova Compagnia di Canto Popolare, Musicanova, Brigante se more, Taranta Power, Che il Mediterraneo sia, Sponda Sud, sono altrettante tappe, devo dire abbastanza coerenti, di un percorso che, fin dall'inizio si è manifestato come un progetto musicale strettamente collegato a una scelta di campo.
Il risultato, o perlomeno l'intento, era ed è quello di sviluppare una sensibilità che vada oltre il semplice fatto musicale, e coinvolga altre forme di interesse e si allarghi ad altre forme di espressione, dal teatro al cinema alla letteratura alla danza e, per andare ancora più in là, alla storiografia, alla sociologia, alla politica.
Ma torniamo al nostro specifico mestiere e all' esperienza diretta che possiamo comunicare, che riguarda soprattutto la creatività, il difficile percorso di inventare nuove poesie e nuove melodie, l'insidia di fare questo nel segno stilistico della cultura tradizionale, in una parola l'invenzione di una nuova "musica popolare". .
La questione è, a mio avviso, fondamentale, perché, come ogni musica e ogni fatto d'arte, la musica popolare è materia viva e per vivere deve avere un senso, e per avere un senso deve rappresentare la realtà del contemporaneo, e per far questo deve incessantemente rinnovarsi.
I musei hanno la loro funzione insostituibile. Il folk revival ha svolto il suo compito di far conoscere l'esistenza di voci diverse e di forme musicali alternative. Ha avuto il merito, in Italia, di sottrarre a quella che sarebbe stata una definitiva perdita alcune formule musicali collaudate da secoli di funzionalità nell'ambito della collettività popolare, dalle pizziche che hanno indirizzato la guarigione dei tarantati alle serenate di Carpino che hanno comunicato sentimenti e risentimenti di mille e mille innamorati alle finestre delle donne amate. Alle tarantelle di Calabria che hanno animato le "rote" delle feste popolari con gli organetti e i tamburelli agli ordini dell'inflessibile e solenne Mastu a ballu.
Tutto questo c'è stato, c'è ancora e ci sarà. È il motore di un movimento poderoso, che però per sopravvivere all'insidia di una spietata civiltà globalizzante deve anche interpretare il presente. Deve fare qualcosa che è compito degli artisti. Altrimenti rischia di avvolgersi su se stesso, di consumarsi, di essere travolto dal tempo.
E creare nuove opere nella scia della tradizione, cioè scandire le tappe di una nuova cultura popolare, significa opporsi alla massificazione sradicata e globalizzante, e adottare un linguaggio che affondi nella tradizione, ma che riguardi la cultura viva, cioè le istanze della storia presente. Gli spunti possono essere tanti, e gli artisti ai quali lancio l'appello sono artisti proprio nella loro capacità di sognare, scegliere e individuare argomenti nuovi e originali, e di parlare di cose che oggi abbiano senso e possano essere ascoltate.
Se nel passato la musica popolare ha riguardato i temi di una civiltà contadina emarginata, a volte idillica e addirittura felice, a volte animosa e urlante rivendicazioni verso il potere della cultura dominante, deve oggi dare voce ai cittadini del Duemila, deve innterpretare le moderne dinamiche sociali che hanno come poli la nuova casta del potere televisivo e i "paria" della nuova emigraazione, per fare solo alcuni esempi di spunti contemporanei.
Questo concetto di aggancio all' attualità è stato sempre chiaro ai poeti popolari di tutti i tempi, se già nel Cinquecento un anonimo napoletano apriva una sua nuova villanella con lo slogan rivoluzionario «Passai lu tiempo ca Berta filava».
Brigante se more nasce come una canzone, ma per quello che le è successo, passa ad assumere un ruolo più vasto, al di là degli intenti di noi che la scrivemmo, e arriva a indirizzare i sentimenti di tanta gente e in definitiva, seppure in minima parte, a vivere nel presente e a incidere sulla realtà. Brigante se more è stata scelta come una bandiera, la bandiera di un popolo che come primo passo chiede giustizia della storia falsa di un genocidio raccontato e celebrato come una luminosa epopea di civiltà e di liberazione.
Noi la scrivemmo in pura spensieratezza di tutto questo, ignorando il suo destino; la scrivemmo per dare un canto a un film sui briganti.
Ma io mi guardai bene dall'immaginare che il mio brigante potesse partire all'attacco con la bandiera di una casa regnante. Lo avrei pure potuto fare, ma istintivamente, vorrei dire poetiicamente, stilisticamente, esteticamente, la cosa mi creava prooblemi, e non lo feci. Perché non lo feci? Non posso ricordarlo con esattezza, sono passati tanti anni, ma mi viene incontro la cifra stilistica alla quale mi sono sempre attenuto, e che mi indirizzò evidentemente nella scrittura di quei versi.
Ho già detto che ho sempre evitato di ricorrere a espressioni e parole di un dialetto che, se troppo stretto, risulterebbe ai più incomprensibile. Aggiungo che, anche nelle composizion i slrelltamente legate a un fatto storico, ho evitato, quanlo più possiibile, di incatenar mi indissolubilmente a uno specifico periodo, perché lo specifico non deve per me prevalere sul senso più geenerale, vorrei dire universale, che può partire da un singolo evento della Storia e può diventare simbolo di tanti altri eventi lontani nel passato e nel futuro.
E quando immaginai il mio brigante lanciare un grido per la sua terra e non per i regnanti del tempo, pensai evidentemente alla ribellione di tutti i diseredati del mondo e della Storia. Ed è forse proprio questa mia volontà di fuga da ogni possibile intennzione o interpretazione nostalgica uno dei motivi, anzi il motivo principale del successo di quella ballata e della sua diffusione popolare.
Oggi Brigante se more si presta a rovinare la festa del 150° anniversario dell'Unità, diciamocelo chiaramente. E questo lo può fare perché non è l'inno di una dinastia, ma l'inno dei briganti. Perché non è un canto filo borbonico.
Riscrivere la Storia e onorare i caduti di Gaeta e il comportaamento di Francesco e di Sofia; rendere giustizia alle migliaia di soldati e contadini fucilati per rappresaglia, analizzare la spoliaazione del Sud e le cause della Questione meridionale, è un conto. Chiedere la restaurazione del Regno delle Due Sicilie e il ritorno dei discendenti della casa reale borbonica è altra cosa che nesssuna mente libera ed equilibrata, e io fra queste, può neanche lontanamente pensare.
Approfitto per dichiarare che l'Italia Unita è una cosa giusta e seria, è una conquista e una semplificazione che andava fatta, anche se certamente non in quel modo irrispettoso delle diverrsità delle culture. L'Italia unita è l'abbattimento di tante assurde frontiere che un tempo esistevano, volerle dalzare oggi sarebbe ridicola follia.
Oggi la scommessa del futuro è la conoscenza reciproca, l'apertura ai viaggi e agli scambi di tutti i popoli del mondo. La rivendicazione della cultura del Sud non può cadere nella trapppola di una logica nostalgica e provincialistica.
E io, che oggi ascolto Brigante se more cantato da migliaia e migliaia di voci diverse e lontane, ho la coscienza tranquilla che il mio brigante, con il suo grido che lo svincola da ogni dinastia e lo lega alle radici della sua terra, è il personaggio giusto per simboleggiare le istanze del presente, per interpretare le speranze e la lotta di tutti gli oppressi, per vivere non fuori dalla reealtà, e di marciare non fra le pittoresche retroguardie nostalgiche ma tra chi cerca di mettersi in cammino per andare avanti nella travagliata e problematica vita contemporanea.

20
TRENT'ANNI DOPO

Nel 2009, esattamente a trent' anni dalla composizione di Brigante se more e Vulesse addeventare nu brigante, sono tornato sull'argomento del brigantaggio storico. Mi sono deciso a scrivere una ballata su un personaggio che già allora mi aveva colpito e che per anni avevo meditato di trarre dall'oblio in cui la Storia ufficiale l'aveva relegato.

La barbarie e il confuso furore propagandistico dell'esercito di occupazione piemontese avevano diffuso la consuetudine di fotografare i nemici dopo che erano stati fucilati. Fotografie terribili, macabre messinscena con le vittime spesso poste a sedere accanto a squallidi bersaglieri che le sostenevano e le esibivano come trofei di caccia. Quelle foto, oltre a testimoniare la mancanza di sensibilità estetica e di senso del pudore dei carnefici, servivano da monito alla gente meridionale affinché non si opponesse in nessun modo all'invasore. Servivano poi per essere inviate al parlamento di Torino, a dimostrazione che la colonizzazione del Sud procedeva efficacemente, rispettando i programmi, e che l'esercito e la Guardia Nazionale colpivano il nemico in modo esemplare e implacabile. Quelle foto, probabillmente, erano anche funzionali a un'idea di razzismo pseudoscientifico che sfocerà poi nelle teorie di Cesare Lombroso tese a collegare dei caratteri anatomici con la vocazione alla criminalità. E certo quei volti sfigurati dai maltrattamenti e dal massacro ben si prestavano ad alimentare queste tesi aberranti e ad accrescere l'avversione soprattutto verso le popolazioni contadine che abitavano le provincie dell' ex Regno delle due Sicilie
La fotografia era stata appena inventata, e l'esercito piemontese era ben dotato di macchinari all'avanguardia. Io ho sempre pensato che il lavoro di indagine e interpretazione della storia abbia ricevuto un contributo importantissimo e decisivo dall'invenzione della fotografia, perché la fotografia fissa in maniera inalterabile delle immagini del passato, restituendoci dettagli e atmosfere che sono spesso più significativi e intensi dell'osservazione diretta della realtà. La foto è un istante della vita e della Storia che si cristallizza, lo possiamo osservare per minuti, per ore, tornare a osservarlo e scoprire sempre cose nuove, dilatare nel tempo l'emozione e la riflessione. La galleria delle immagini di situazioni e volti colti dall'obbiettivo fotografico consente un percorso parallelo e alternativo alla storiografia classica fatta di documenti, testimonianze e interpretazioni, un percorso silenzioso tutto concentrato sull'osservazione dei particolari e sull'intensità emotiva dell'insieme che, per certi versi, offre soluzioni meno insidiose e meno condizionate dall'ideologia che, nella storia scritta, è sempre l'ideologia dei vincitori.
Tra le foto dei briganti fucilati, mi aveva calamitato da sempre un'immagine straordinaria, un volto sul quale la violenza subita non è riuscita a cancellare la convinzione e la compostezza di chi si offre con coraggio al nemico per dimostrargli la sua superiorità, un volto che sembra un'icona di chi muore per lanciare un segnale ai posteri e raccontare il suo ideale e la sua fede. Quel volto mi ha richiamato per anni. Era lì, dal 1864, e nessuno si era mai preso la briga di dire qualcosa su di lui e sulla sua storia.
Ninco Nanco, luogotenente di Carmine Crocco, aveva continuato a sparare anche dopo il disfacimento della grande banda, combatteva da solo con un manipolo di seguaci ed era imprendibile per i piemontesi, terrorizzati dalle sue gesta e dalle sue improvvise mortali irruzioni.
Fu tradito da qualcuno che gli stava attorno, attratto dalla taglia offerta per la sua cattura. La guardia nazionale localizzò e circondò il casolare dove si nascondeva. I militari gli promisero che se si arrendeva avrebbe avuto salva la vita. Ninco Nanco uscì disarmato, ma appena fuori una guardia che gli si era avvicinata improvvisamente lo trafisse con un colpo alla gola. E poi lo fotografarono. Due immagini, le sole che abbiamo di lui. Quelle immagini esistono, i piemontesi ce le hanno consegnate, e chiunque può guardarle, anche se finora nessuno le aveva guardate attentamente.
E se da quello che la Storia ci racconta rimane poco chiara, come vedremo, la morte del brigante, così come sono poco chiare la sua indole e la sua vita, chiarissime sono invece le fotografie scattate dai tecnici piemontesi, che ci dicono due cose: la prima è che Ninco Nanco è morto in guerra, e fino all'ultimo ha continuato a sparare, da solo con pochi fedeli contro tutto l'esercito e tutta la agguerrita o rassegnata pubblica opinione; la seconda verità certa è che Ninco N'anca nella sua estrema immagine mostra un volto e una compostezza che lo affiancano a tanti ribelli della Storia, a tanti "uomini contro" fatti fuori dal potere. Dalla Basilicata all'America Latina di Pancho Villa di Emiliano Zapata e di Ernesto Che Guevara.

Le foto che la guerra ci consegna fanno per me di quel brigante un personaggio eccezionale, un eroe sconfitto che col sorriso appena accennato e scolpito sul volto ci vuol comunicare la grandezza di chi non è morto inutilmente.
Nicola Summa di Avigliano, in provincia di Potenza, aveva scelto come nome di battaglia Ninco Nanco, un nome che sembra predestinato, un nome musicale e fiabesco, il nome di un protagonista che per anni è stato dimenticato. Ma io so che questa ballata che gli ho dedicato farà conoscere quel nome a migliaia di ragazzi. Questo mi è concesso dalla singolarità della mia carriera, ed è un vantaggio che sfrutto, perché penso che Ninco Nanco me lo stia chiedendo da quando l'hanno ucciso.

NINO NANCO

(Sarà una spina nel fianco
Ninco Nanco quanno campa
sarà una spina nel cuore
Ninco Nanco quanno more)

Milleottocentocinquantanove
muore il vecchio re Borbone
e sul trono va suo figlio,
 ventitré anni, ancora guaglione

È il momento di approfittare
di questo vuoto di potere
in quel regno in mezzo al mare
difeso solo dalle Sirene

E o Banco 'e Napoli è l'ideale
per rifarsi delle spese
per coprire il disavanzo
della finanza piemontese

E Ninco Nanco deve morire
pecché si more ce po' raccuntare
e si parlasse putesse dire
qualcosa di meridionale

E Ninco Nanco deve morire
pecché si more ce po' raccuntare
ca era brigante e murette acciso
pecché nun ce vulette stare

(Sarà una spina nel fianco
Ninco Nanco quanno campa
sarà una spina nel cuore
Ninco Nanco quanno more)

E lo zolfo di Sicilia
e i cantieri a Castellammare
e le fabbriche della seta

e Gaeta da bombardare

È l'ideale che fa la guerra
 una guerra dichiarata
per vedere chi la spunta
tra il fucile e la tammurriata

E tammurriata è superstizione
e questa storia deve finire
e qui si fa l'Italia o si muore
e Ninco Nanco deve morire

E Ninco Nanco deve morire
pecché si campa putesse parlare
e si parlasse putesse dire
qualcosa di meridionale

E Ninco Nanco deve morire
pecché si more ce po' raccuntare
ca era brigante e murette acciso
pecché nun ce vulette stare

(Sarà una spina nel fianco
Nineo Nanco quanno campa
sarà una spina nel cuore
Ninco Nanco quanno more)

E per sconfiggere il brigantaggio
e inaugurare l'emigrazione
bisogna uccidere il coraggio
e Ninco Nanco è meglio che muore

Perché lui è nato zappaterra
e ammazzarlo non è reato
e dopo un colpo di rivoltella
l'hanno pure fotografato

E la sua anima è già distante
e sul suo volto resta il sorriso
l'ultima sfida di un brigante:
quant'è bello murire acciso

E Ninco Nanco deve morire
pecché si campa putesse parlare
e si parlasse putesse dire
qualcosa di meridionale

E Nineo Nanco deve morire
pecché si campa putesse parlare
ca era brigante e murette aeciso
pecché liun ce vulette stare

E Ninco Nanco è da eliminare
e se lui muore chi se ne frega
sulla sua tomba neanche un fiore
sulla sua tomba nessuno prega

E Ninco Nanco è da eliminare
che non si nomini più il suo nome
sia maledetta la sua storia
sia maledetta questa canzone

(Sarà una spina nel fianco
Ninco Nanco quanno campa
sarà una spina nel cuore
Ninco Nanco quanno more)


21
I BRIGANTI E LA STORIA: NINCO NANCO

Il maresciallo d'alloggio e tre carabinieri di Avigliano con due preti e alcuni valorosi giovani associatosi volontariamente ai medesimi, avuto contezza dei briganti, si aggiravano per la campagna nei dintorni di quella città, quando s'incontrarono con le Guardie nazionali comandate da Benedetto Corbo. Unitisi assieme e, saputo che Ninco Nanco con due soli briganti trova vasi accovacciato in una pagliaia si diressero a quella volta. La pagliaia essendo in sito elevato, la Guardia Nazionale arrestossi a mezza strada e il Comandante di essa si pose a gridare: Carabinieri avanti! Il carabiniere Segoni e il prete Pace corsero immediatamente alla pagliaia da cui sbucò per primo il brigante Lo Russo, che si arrese tosto; dopo si vide comparire sulla soglia Ninco Nanco stesso armato di fucile e revolver accennando a difesa; ma il carabiniere Segoni intimogli la resa, minacciandolo di morte. Si fu allora che il famigerato capobanda cedette le armi e, mentre il carabiniere Segoni stava per asssicurarlo con le manette, un colpo d'ignota provenienza colpiva Ninco Nanco al collo e lo stendeva cadavere al suolo. Si procedette in seguito alla cattura del terzo brigante Mangiullo. Si hanno gravi indizi a vedere se chi ha ucciso il Ninco Nanco, quando già era in potere del carabiniere Seegoni, fosse qualcuno che abbia voluto impedire che compromettenti rivelazioni uscissero dalla bocca di Ninco Nanco. In seguito si verrà al chiaro di qualche cosa.
(<<La GazZetta militare», 26 marzo 1864)

Portarono dal bosco
le teste dei briganti uccisi

(Piemontisi, briganti e maccaroni di Ludovico Greco, Guida Editore, Napoli 1975)

Ieri la brava Guardia Nazionale di Avigliano veniva in Potenza recando il cadavere di Ninco Nanco che fu esposto in piazza d'armi e presentò al signor Prefetto la carabina a due colpi, il revolver e le famose decorazioni tolte a Ninco Nanco. Erano l'una una medaglia di bronzo a merito di un istituto militare tolta Dio sa a chi, l'altra un fregio di un 'arma antica che rappresentava un elmo con due rabeschi. La gioia della popolazione fu immensa e la sua riconoscenza al Governo verissima; molti evviva si fecero al Re d'Italia, di cui ieri si celebrò il di' natalizio e con corse di cavalli, luminarie e festa grandissima. Il Prefetto passò in rivista la guardia nazionale e tenne un discorso che fu applaudito; l'inno reale fu suonato per la città e in teatro dove si decZamarono poesie pel Re d'Italia. Un 'altra notizia venne ad aumentare l'allegrezza. Gli usseri di Piacenza e i bersaglieri stanziati in Ripacanndida, reduci da una perlustrazione, avevano portato in paese le teste di tre briganti uccisi nel bosco di Lagopesole, due dei quali furono riconosciuti di Rionero. Ieri furono pagate le 16.000 lire alla guardia nazionale di Avigliano e non succede fatto che non si ricompensi generosamente mettendo lo all'ordine del giorno per stimolare tutte le Guardie nazionali.
(<<Il Pungolo», 16 marzo 1864)

Giuseppe Nicola Summa, nome di battaglia Ninco Nanco, nacque ad Avigliano, vicino Rionero (Potenza). All'età di vent'anni, il ragazzo venne malmenato per una faccenda di gioco e tre anni dopo fu pestato e pugnalato da cinque persone che lo costrinsero a tre mesi di convalescenza. Giuseppe, anziché denunciare l'accaduto alla polizia, preferì la vendetta personale. Qualche mese dopo uccise uno dei suoi aggressori.
Questo gli costò dieci anni di carcere a Ponza, ma da lì riuscì a evadere nell'agosto 1860. Da latitante tentò di arruolarsi nell'esercito di Garibaldi per ricevere la grazia, ma fu scartato. Tentò la stessa cosa presentandosi a Salerno e facendo domanda di arruolamento nella Guardia Nazionale, ma entrambi gli esiti furono negativi. Divenuto un ricercato, Ninco Nanco iniziò a vivere di rapine e furti, rifugiandosi nei boschi del Vulture.
Il 7 gennaio 1861, incontrò Carmine Crocco e divenne subito uno dei più fidati subalterni del generale.
Il brigante aviglianese, assieme a Crocco, partecipò a numerose azioni d'assalto, conquistando prima tutto il Vulture e le città di Melfi, Rionero, Ruvo del Monte (senza mai riuscire a prendere la sua città natia, Avigliano), poi gran parle della Basillicata spingendosi fino all'avellinese e il foggia no.
Di Ninco Nanco si racconta che fosse spietato coi nemici e impassibile nel compiere atti feroci. La sua compagna, Maria 'a Pastora, brigantessa di Pisticci, era sempre accanto a lui durante gli assalti e le imboscate. Si racconta che quando Ninco Nanco strappava il cuore dal petto dei bersaglieri suoi prigionieri, Maria gli porgeva il coltello.
Nel gennaio 1863 uccise un vecchio capitano, quattro soldati e un delegato della Pubblica Sicurezza di Avigliano. Nel marzo 1863 a San Nicola di Melfi, fece fuori un gruppo di cavalleggeri di Saluzzo, guidato dal capitano Bianchi: quindici di loro furono seviziati e ammazzati.
Le truppe sabaude in una controffensiva nel bosco di Rapolla fucilarono e bruciarono duecento briganti. La reazione di Ninco Nanco non si fece attendere. I suoi uomini catturarono e massacrarono dei soldati in arrivo da Venosa per una perlustrazione e il loro tenente venne decapitato.
Ma Ninco Nanco da solo non ce la poteva fare: nel febbraio 1864 la sua banda fu decimata presso Avigliano e diciassette dei suoi uomini furono uccisi. Circa un mese dopo, il 13 marzo, il brigante e tre dei suoi fedeli furono catturati nei pressi di Lagopesole dalla Guardia Nazionale di Avigliano. Vennero uccisi all'istante e Ninco Nanco morì per mano di un caporale della Guardia Nazionale, pare per vendicarsi dell'assassinio del cognato compiuto dal brigante aviglianese pochi mesi prima.
Tuttavia, altre ipotesi ritengono che il brigante fu ucciso per ordine del comandante della Guarda Nazionale, don Benedetto Corbo, appartenente a una delle maggiori famiglie gentilizie della zona, per evitare che potesse parlare, e che venissero alla luce presunte connivenze controrivoluzionarie.
Ninco Nanco ucciso venne regolarmente fotografato. La salma fu portata il giorno dopo ad Avigliano e fu appesa all'Arco della Piazza come monito.
Queste sono le notizie sulla storia del capobrigante, le relazioni ufficiali, le confessioni dei complici, le testimonianze dettagliate o vagamente raccolte.
È certo che la fantasia e la verità si confondono in un groviglio inestricabile, soprattutto quando si tratta dei mitici briganti, e soprattutto quando le voci si spargono e si rincorrono nella Basilicata delle montagne e dei boschi e delle fattucchiere.

Quanto sia vero della ferocia e della criminalità di Ninco Narico, e quanto sia vero della nobiltà della sua azione a favore dei diseredati è difficile dirlo, anche perché l'esagerazione favolistica e la sottolineatura delle iperboliche atrocità è qualcosa che può essere pilotata e favorita dallo stesso brigante, che punta sulla ferocia e l'inafferrabilità come componenti fondamentali per la sua "immagine".

22
LE BRIGANTESSE E LA STORIA:
MICHELINA DE CESARE

Il Sindaco del Municipio di Mignano, in Provincia di Terra di Lavoro certifica che la nominata Michelina Di Cesare del fu Domenicantonio del villaggio di Caspoli, si ha sempre avuta una pessima condotta, tanto che fin dal 1863 scorazza le pubbliche vie e campagne coll'orde brigantesche. In fede ne rilascia il presente.

Mignano, 6 maggio 1868
Il sindaco Don FR. Salvatore

Michelina si affaccia quindi alla Storia presentata dal suo sindaco, che in un documento ufficiale ne sottolinea la "pessima condotta".
Il sindaco ci fa anche sapere fra le righe della sua burocratica prosa che la ragazza è orfana di padre, e nel sottoscrivere questo bizzarro documento involontariamente ci rappresenta il contesto politico, etico e culturale nel quale si dibatte la povera neonata Italia postrisorgimentale.
Da un lato un servile sindaco terrorizzato e attento a prendere le distanze da questa donna scapata e ribelle, dall'altro la minacciosa presenza militare fatta di inflessibili ufficiali decisi a tutto e di solerti soldati pronti a eseguire gli ordini dei superiori e a sparare a vista. È questo il clima della guerra, è questo il clima creato dagli eserciti d'occupazione di tutte le guerre. È questa la confusione della guerra civile che genera anche mostri burocratici come questo documento, che non ci dice su quali accertate prove di eventi e circostanze si basi l'affermazione di "pessima condotta", buttata lì così senza nessun supporto legale, senza nessun intervento tecnico di polizia o di magistratura. E soprattutto questo documento non ci dice a che uso viene redatto, se è stato espressamente richiesto dalle autorità militari o se risponde a una spontanea dichiarazione del sindaco attento a mostrarsi ligio all'autorità e all'ideologia dei vincitori. La ragazza appartiene dunque alle "orde brigantesche", cioè è senza appello condannata da entrambi i termini usati per definirne l'appartenenza.
Ma la prosa e lo stile di questo documento comunale appartengono al periodo storico in cui è stato redatto, segnato da leggi marziali e da proclami come il seguente, dettato poco tempo prima e rivolto proprio alle autorità della provincia di Terra di Lavoro (Caserta) che comprende Mignano, patria del sindaco c della brigantessa:

PREFETTURA DI TERRA DI LAVORO TELEGRAMMA CIRCOLARE

Spedito alle Autorità e Comandanti Guardia Nazionale e Carabinieri Reali della Provincia Bande ladroni infami dirette dal territorio ancora soggetto Governo papale infestano nuovamente e cuoprono di misfatti nostra bella Provincia. Ma è tempo che tresca esecranda sia finita. Dove guardia Nazionale comprende nobile missione non possono sussistere malfattori campagna: Guardia Nazionale Terra Lavoro non sarà seconda a nessuna comprendere soddisfare sacri diritti più sacri doveri. Difenda suo territorio quella di ogni Comune; avvisi Autorità, forze, popolazione vicine di ogni imminente pericolo. Ai ladroni, ai loro fautori, ai manutengoli è delitto lasciare più scampo. Guerra implacabile e sterminio! Governo veglierà senza posa; sosterrà e premierà con larghezza sforzi generosi: punirà esemplarmente malvagi. Il presente sarà pubblicato in tutta la Provincia di Caserta,

10 maggio 1865 Il Prefetto, DE FERRARI

Michelina De Cesare milita quindi tra le fila dei "cattivi", ce lo dice il suo sindaco, e ha tutti i requisiti per essere destinataria di "guerra implacabile e sterminio".
In questo clima di terrore, di distruzione di interi centri abitati e di massacro di intere popolazioni, come a Ponteladolfo e a Casalduni, di fucilazioni indiscriminate ed esposizione di cadaveri a monito delle genti, si inseriscono i documenti e le dichiarazioni dei vincitori e dei vinti che hanno accettato la sconfitta.
Non ci resta altro. Non ci restano che questi documenti da utilizzare. Da leggere con attenzione e da interpretare.
D'altra parte scritti diretti dei briganti non ce ne sono: nella quasi totalità non sapevano scrivere, e comunque da liberi avevano ben altro da fare che attendere alle proprie memorie o fissare sulla carta i loro programmi e i loro pensieri. Non è un caso che l'unico "Diario" che ci resta della fazione antipiemontese è quello di Borjés, che, come abbiamo visto, era di scuola assai diversa dai briganti.
Così di Michelina De Cesare e della sua fama o infamia di brigantessa resta traccia solo in documenti civili o militari del nuovo Stato unitario. Della sua voce, del suo pensiero, non abbiamo nessuna testimonianza diretta.
Nacque poverissima nel 1842 a Caspoli, frazione di Mignano Montelungo, in quella Terra di Lavoro che fu uno dei cuori pulsanti della rivolta brigantesca, e nel 1862 ebbe !'incontro che le cambiò la vita. Conobbe Francesco Guerra, ex soldato borbonico e renitente alla leva indetta dal nuovo Stato, il quale si era dato alla macchia aggregandosi a una banda, fino a diventare capo brigante nel 1861.
Michelina divenne la donna di Francesco Guerra, e in seguito lo raggiunse in clandestinità, come resta testimonianza in un interrogatorio del brigante Ercolino Rasti nel 1863: «Si diè al brigantaggio perché scoverta manutengola».
Come si vede, il rapporto amoroso fu dapprima collaborazione, poi, per sfuggire alle misure repressive, divenne ricongiungimento e piena appartenenza alla banda del proprio uomo. Del resto questo passaggio da manutengola (fiancheggiatrice) a clandestina alla macchia nella banda dell"'innamorato" fu di molte brigantesse e rappresenta un tratto tipico delle storie di queste combattenti. Quanto a Michelina, sempre chiamata spregiativamente "druda" nella propaganda pro unitaria, pare invece che abbia sposato il capo brigante, anche se non c'è reegistrazione dello sposalizio, cosa del resto comprensibile data la clandestinità degli sposi; v'è però testimonianza di questo vincolo matrimoniale nelle carte processuali del maggio 1865 di un brigante caduto vivo in mani piemontesi, che la chiama: «Michelina Guerra moglie di quest'ultimo».

E nell'interrogatorio, aggiunge ancora il brigante:

La banda è composta in tutto di ventuno individui, comprese le due donne che stanno assieme a Fuoco e Guerra, delle quali quella di Guerra è anch'essa armata di fucili a due colpi e di pistola. Della banda solo i capi sono armati di fucili a due colpi e di pistole, ad eccezione dei due capi suddetti che tengono il revolvers.

Dunque non solo Michelina era parte effettiva della banda, ma dalle armi che portava e che appaiono nelle sue foto, era una dei suoi capi riconosciuti.
La tattica di combattimento della banda era tipicamente di guerriglia, con azioni di piccoli gruppi e pare che proprio Michelina fosse un' abile ideatrice di queste tattiche e che il suo intuito abbia parecchie volte evitato alla banda dal finire sotto il fuoco delle forze preponderanti avversarie, che però erano tanto più lente e impacciate negli spostamenti necessari in una guerra di movimento.

La banda di Michelina corse parecchi anni (dal '62 al '68, ce lo dice anche il sindaco) il territorio tra le zone montuose di Mignano e i paesi vicini, compiendo assalti, ruberie e sequestri ai danni per lo più dei notabili apertamente schierati dalla parte vincente. Ma Michelina e la sua banda attaccavano anche direttamente i militari dell'esercito nemico.
Famoso nella fantasia popolare ma anche nei documenti militari è rimasto l'assalto al paese di Galluccio, dove i briganti penetrarono usando lo stratagemma di travestirsi da carabinieri e fingendo di condurre altri briganti nella loro foggia, fintamente catturati.
Le scorrerie continuarono anche quando, dopo il 1865, in molte altre-zone del Sud il brigantaggio era stato fortemente ridimensionato, e anzi è proprio di quell'anno l'allarmato telegramma che la prefettura di Terra di Lavoro spedì «alle autorità e comandanti Guardia Nazionale e carabinieri reali» sulle condizioni d'ordine pubblico in cui la zona versava, sollecitando le drastiche misure che abbiamo visto.
Nel 1868 a tali misure e alle minacce le autorità aggiunsero efficacemente le ricompense per le delazioni e le spiate, e proprio una spiata fece cadere la banda in un agguato che perse Michelina e il suo uomo. Nell'agosto di quell'anno l'esercito piemontese convinse con le buone e con le cattive, arrivando pare a minacciare deportazioni di massa, i proprietari di Mignano, Galluccio e Roccamonfina a collaborare strettamente e a finanziare !'istituzione di forti taglie per i briganti vivi o morti.
Fu così che il 30 di agosto un contadino di Mignano avvisò la guardia nazionale del suo paese che la comitiva Guerra era in sosta nei pressi d'una sua masseria. A guidare sul luogo la spedizione militare subito approntata pare che sia stato il fratello stesso di Michelina, Giovanni De Cesare, allettato da una forte somma di denaro. Così una foto d'epoca del brigante pentito porta scritta nel retro la secca dicitura: «De Cesare, spia» (foto che si conserva nella civica Raccolta d'Arte Applicata e Incisione presso il Castello Sforzesco di Milano). Comunque sia, la comitiva brigantesca fu sorpresa in una notte di temporale alle pendici del monte Morrone, presso Mignano, da un gruppo della guardia nazionale e un drappello di soldati. In quell'agguato, dopo un breve scontro a fuoco, come risulta dal rapporto militare, trovarono la morte Michelina, il suo compagno (o marito?) Francesco Guerra e altri due importanti componenti la comitiva, i briganti Giacomo Ciccone e Francesco Orsi.
Questo è il rapporto ufficiale dell'operazione militare che portò all'uccisione di Michela, nel settembre 1868:

Distruzione della banda Guerra

Erano le 10 di sera, pioveva a dirotto e un violentissimo temporale accompagnato da forte vento, da tuoni e da lampi, favoriva maggiormente l'operazione, permettendo ai soldati di potersi avvicinare inosservati al luogo sospetto; da qualche tempo si stavano perlustrando quei luoghi accidentati e malagevoli perché coperti da strade infossate, burroni ed altri incagli naturali, già si perdeva la speranza di rinvenire i briganti, quando alla guida venne in mente di avvicinarsi a talune querce che egli sapeva alquanto incavate, ed entro le quali poteva benissimo nascondersi una persona. Fu buona la sua ispirazione, perché fatti pochi passi, e splendendo in quel momento un vivo lampo, scorse appoggiati ad una di quelle querce due briganti, che protetti un po' dalla cavità dell'albero ed anche da un ombrello alla paesana che uno di loro reggeva, cercavano ripararsi dalla pioggia. Appena scortili, la guida li additò al Capitano Cazzaniga, che presso di lui veniva con qualche soldato appena; il bravo Capitano non frappone indugio, non cerca di far fuoco, ma sbarazzato anche del fucile che teneva, con un salto fu addosso a quei due ed afferratone uno pel collo, lo stramazza al suolo e con lui viene ad una lotta corpo a corpo, finché venne dato a un soldato di appuntare il suo fucile contro il brigante e di renderlo cadavere.

Pare che uno dei proiettili (giacché il fucile era stato caricato a pallettoni), passando attraverso il petto del brigante andasse a colpire nel dito pollice della mano sinistra del Capitano, che avvinghiatolo con entrambe le braccia, gli impediva qualunque tentativo di fuga.
Quel brigante fu subito riconosciuto pel capobanda Francesco Guerra, e il compagno che con lui s'intratteneva, appena visto l'attacco, tentò di fuggire; una fucilata sparatagli dietro dal medico di Battaglione Pitzorno lo feriva, ma non al punto di farlo cadere, che continuando invece la sua fuga, s'imbatteva poi in altri soldati per opera dei quali venne freddato. Esaminatone il corpo, fu riconosciuto per donna e quindi per Michelina De Cesare druda del Guerra.

(Comando Generale delle truppe per la Repressione del Brigantaggio nelle Provincie di Terra di Lavoro, Aquila, Molise e Benevento. Distruzione della Banda Guerra. Caserta 6 settembre 1868)

Di questo episodio abbiamo un'altra testimonianza ad opera di Jacopo Gelli, un gentiluomo italiano nato in Toscana nel 1859 e vissuto da studente a Torino, tanto gentiluomo da scrivere, nel 1926, niente di meno che il Codice cavalleresco italiano, dove dettava il comportamento corretto da tenersi prima, dopo e durante il duello, che era la cortese e violenta risoluzione di controversie e risentimenti tra i signori dell' epoca. Lui scrisse anche un libro sulle vite (e le morti) di briganti e brigantesse, e così si esprime nel raccontarci la fine di Michela:

La banda accerchiata da reparti del 27rno Fanteria e da Carabinieri sul Monte Morrone, al comando di quell'anima dannata della Michelina tenne testa all'attacco e solo si disperse quando, colpito da una palla, penetratagli nel cervello dallo zigomo destro, il capobanda Guerra cadde riverso e, poco dopo, accanto al corpo suo e a quello del brigante Tulipano, a cui una fucilata aveva asportato metà della testa, cadde anche la Michelina. La rea donna aveva combattuto come una leonessa. Colpita al capo, la femmina morì digrignando i denti per la rabbia di essere stata vinta e non per l'orrore dei misfatti compiuti.

(Jacopo Gelli, Banditi, briganti, brigantesse nell'BOa, 1931)

Il Gelli dunque, che pure è l'autore di un codice cavalleresco, non concede alla giovane donna neanche l'onore che cavallerescamente si dovrebbe tributare allo sconfitto, vinto e ucciso in battaglia.
La sua faziosità esprime ottuso e cieco livore, questo avviene nel 1931, e riecheggia quello che era il clima con cui sessant'anni prima i parlamentari a Torino dibattevano il tema del genocidio, negando lo, liquidando con disprezzo gli avversari nei discorsi al Parlamento dell'Italia unita. Agli avversari non si concedeva neanche il coraggio con cui affrontavano la morte, e si derideva la stessa loro dignità di fronte alla fucilazione, declassandola a incoscienza da ignoranza e abbrutimento.

Non è vero che tutti vadano a morte con coraggio; ciò è avvenuto in taluni casi, ma non è la regola generale: a meno che si voglia confondere la stupidità con lo stoicismo, il forte disprezzo della vita con la freddezza dell'abbrutimento. Per la massima parte vigliacchi, posseggono tutti gli attributi della vigliaccheria, e massimo tra essi la ferocia. Noi non voglia m funestarvi, o signori, con la narrazione delle atrocità che i briganti commettono sugli infelici che cadono nelle loro mani. Più che opera di creature umane sembrano essere quelle di cannibali e di belve selvagge.

(Relazione Massari sul brigantaggio, 1863)


Questa è dunque la ricostruzione possibile dell'avventura di Michelina De Cesare. Ma di lei, oltre a questi documenti e commenti filtrati e arte fatti ci restano anche tre foto, due delle quali scattate quando era viva. E sono davanti ai nostri occhi e nessuno ce le può cambiare.

Così a osservare le foto di Michelina De Cesare e di altre brigantesse costrette, da prigioniere, a posare per il nemico, viene fuori, non posso fare a meno di notarlo e sottolinearlo, la fiera bellezza della donna del Sud, l'eleganza del portamento, la vivacità dello sguardo. E viene fuori lo splendore somatico di una discendenza che parte da lontano, dalla Storia più nobile della Magna Grecia, che si lega alla prontezza di un carattere che esprime distacco e dignità ma anche ironia e disprezzo per i rozzi carcerieri che le stanno di fronte, che immagino sconci slavati e bruttarelli al di qua della macchina fotografica.
Due foto e due diversi vestiti. Entrambi splendidi. E lei è sempre armata. Da seduta con fucile e pistola e pugnale. In piedi con il solo fucile. Sono le foto di una combattente. Sono le foto di una persona che, a differenza del suo sindaco, non si è arresa. E non si arrenderà mai, fino alla fine.
I documenti storici, la sua biografia, scritta con i rapporti delle autorità militari o con le dichiarazioni dei briganti catturati, potrebbero anche lasciare spazio al dubbio che fosse affiliata di una, banda dedita a rapine e incursioni a scopi di arricchimento, in altre parole delinquenza comune, come suggerisce lo stesso epiteto di brigante imposto dalla prosa dei vincitori occupanti. Ma le foto ci dicono altre cose, ci dicono che Michela era una donna fiera, orgogliosa e addirittura tranquilla nella coscienza del proprio ruolo. Un ruolo riconosciuto di primo piano, dal punto di vista gerarchico, secondo il codice militaresco dei partigiani della rivolta antisavoia che assegnava ai soli capi il permesso di apparire con pistola e fucile.
E la dolce Michela, che ci rimanda con i tratti del suo viso e con l'eleganza del gesto e del portamento e con la raffinatezza delle sue dita affusolate al mondo delle fiere amazzoni della mitologia classica piuttosto che a una clandestina organizzazione criminale di viziosi malfattori, è storicamente una donna che non scherzava, che faceva sul serio, che raggiunse fino in fondo lo scopo della sua disperata ribellione, che era evidentemente, come la stessa foto ci dice, di morire in combattimento e di testimoniare per le future generazioni che di fronte alla sopraffazione non tutti fuggirono e si arresero, ma alcuni lottarono e inflissero perdite a un nemico spietato e potente.
E Michela morì uccisa come centomila anime del Sud.
E la sua foto ci dice che è esistita. E si contrappone oggi da sola al silenzio della storiografia ufficiale che per centocinquant'anni di quel genocidio non ha assolutamente mai parlato.


23
LE FOTO DI GUERRA

Il romanzo di Alianello, per condurci nei giorni e nei luoghi della lotta, inizia con una prima scena ambientata a Napoli, nella centralissima piazza San Ferdinando, che oggi si chiama piazza Trieste e Trento. Di fronte allo storico Teatro di San Carlo, su un ampio marciapiede, ci sono i tavolini del Caffè Gambrinus, e lì siede in quell'estate del 1860 un ufficiale dell'esercito borbonico, che è ovviamente in abiti borghesi e in incognito, perché le cose sono da poche settimane cambiate e i fedelissimi di ieri sono i fuorilegge di oggi, come molto spesso succede nella Storia.
Ora per le strade sfilano soldati e ufficiali di un'altra divisa.
I Borboni non ci sono più: è l'appuntamento solito della città con il cambio di guardia. Intorno al nostro protagonista, siedono al caffè le signore eleganti e i ricchi borghesi, quelli di sempre, gli stessi di poche settimane prima, che adesso fanno discorsi diversi.
Oggi il Caffè Gambrinus è lo stesso di allora, sempre di fronte al tempio della musica, costruito da Carlo III nel 1750, sempre a lato della chiesa di San Francesco di Paola fatta edificare nel 1800 da Maria Carolina (quando ritornò sul trono dall'esilio di Palermo sulla scia dell'esercito del cardinale Ruffo), sempre adiacente al grande slargo di Palazzo Reale, che dal 1860 accolse la statua di Vittorio Emanuele II, sempre di fronte alla Galleria costruita nel 1900 da Umberto I di Savoia (che se la intitolò), sempre di fronte alla fontana a forma di carciofo costruita nel 1950 dal sindaco Achille Lauro nella piazza San Ferdinando (che nel frattempo si era chiamata piazza Trieste e Trento), sempre adiacente alla piazza di Palazzo Reale (che nel frattempo si era chiamata piazza del Plebiscito), e nel 2000 era diventata isola pedonale per volontà del sindaco Bassolino che l'aveva chiusa al traffico (ma anche alle bancarelle e ai tavolini dei bar trasformandola in un desertico e immenso fiore all'occhiello).
Dai tavolini di quel caffè, lontano dal fronte ma nel cuore della città, si vede passare la Storia.
A quei tavolini sedevano nei primi del Novecento i nuovi intellettuali e scrittori, che davano vita al dibattito artistico e culturale, comunque vivissimo nella ex Capitale.
Tra questi il poeta Salvatore Di Giacomo, amico di Eduardo Scarfoglio e Matilde Serao, animatore della cultura della ex Capitale, che si è abituata al decentramento politico ma continua a essere un centro di arte e di tensione intellettuale. Di Giacomo ci comunica l'atteggiamento dell'illuminata borghesia verso i fatti di guerra di cinquant'anni prima, l'interpretazione emotiva e politica di un fenomeno storico che riguardava da vicino il ruolo di Napoli.

E potrei continuare, come nella cronaca spaventosa continuano i giornali che ho consultato e che m'hanno rimesso sottocchi a una a una le orribili creature che il fotografo si piacque di tramandare ai posteri in effigie. Rivedo, atteggiate e fosche, tutte le donne che non si tolsero mai dal fianco de'ferocissimi loro amanti per tutto il tempo durante il quale costoro fecero delle piccole borgate della Basilicata e della Puglia il teatro sanguinoso delle loro gesta. Ecco Maria Consiglio, moglie del Tardugno, condannata a venti anni; ecco l'amante di Nunziante d'Agostino, Filomena di Pasa, ventenne, anima della compagnia Tranchella; ecco la moglie del capo banda Coppo lo ne, Arcangiola Codugno; ecco Elisabetta Blasucci, moglie del bandito Giovanni Libertone. Qualcuna è bella, qualche altra ha la piacevolezza volgare delle contadine, qualche altra - come quella virile Filomena Pennacchio - ha, stampati sul volto minaccioso e torvo, i segni d'un animo fiero e crudele. La innamorata di Ninco Nanco, una fanciulla, da' tratti di molta finezza e dalla figura non antipatica, si lascia fotografare vestita da uomo e con tra le mani un fucile!

(Salvatore Di Giacomo, Per la storia del brigantaggio nel napoletano, 1904)

Queste foto, pubblicate all'epoca per uno scopo, possono, essere oggi utilizzate per una diversa indagine su quella storia oscura e maledetta. E, fra tutte, proprio quella della brigantessa Michelina diventa un'icona della fierezza della lotta partigiana contro l'esercito invasore, nonché una conferma della partecipazione giovanile a quella rivolta, che riguardò migliaia di giovani vite stroncate nella tragica vicenda.
Anche la giovane ribelle (unico caso femminile) viene fotografata dopo che l'hanno uccisa, il volto devastato forse dalla tortura e dallo scempio del cadavere esposto al pubblico. L'immagine racconta l'oscena impudenza dei militari che l'hanno tramandata come trofeo anziché censurarla o distruggerla. E si ritorce contro di loro, e peserà per sempre sulla coscienza sporca dei vincitori.
Quando, debellata !'insurrezione, volti e visi di cafoni e pezzenti impressionarono nuovamente lastre fotografiche, saranno i volti e visi della prima grande ondata migratoria.
Emigranti al porto di Napoli

Io vorrei fare, io farò forse un giorno una carta del brigantagggio e una dell'emigrazione e l'una e l'altra si completeranno e si potrà vedere quali siano le cause di entrambi.

(Francesco Saverio Nitti, Briganti, 1899)






24
LE PAROLE DEI VINCITORI

Mentre sto seguendo il filo del racconto e della leggenda di queste "streghe" e questi "briganti", di questi personaggi enigmatici che pure sono esistiti (e niente più dell'obbiettivo fotografico ce lo può assicurare), percorro, in Vespa 50, viale Maria Cristina di Savoia, la discesa a senso unico che da via Tasso porta a corso Vittorio Emanuele, e improvvisamente mi appare su un muretto della prima curva una scritta a caratteri cubitali, tracciata di fresco nell'inconfondibile agilità grafica della bomboletta spray. Il testo, secco e conciso, dice: «GARIBALDI E CIALDINI INFAMI».
Una scritta insolita, impensabile fino a poco fa, perché Garibaldi è sempre stato per tutti un volto rassicurante e indiscusso, e perché Cialdini è sempre stato per tutti un perfetto sconosciuto. Per una strana coincidenza del destino, questa scritta così nuova e spiazzante si materializza in una sera della primavera 2010, proprio in quel viale Maria Cristina dove era un tempo la casa di Carlo D'Angiò, e dove, nella sera di primavera 1979, scrivemmo Brigante se more.
Che significa, che mi vuol raccontare quella scritta metropoolitana? Chi è che si prende la briga di partire in spedizione, percorrere la città e scegliere lo spazio giusto per lasciare il segno impresso sull'intonaco di un palazzo o direttamente sulle pietre di tufo? Chi è la mente che concepisce la dicitura da "pubblicare" e mettere sotto gli occhi di tutti, automobilisti e passanti? Cosa c'è dietro a questo «GARIBALDI E ClALDINI INFAMI»?
Lo sconosciuto che ha concepito questa dicitura ha, a mio avviso, voluto comunicarci due cose: la prima è che ha un animo dissacrante, e vuole sfidare i sentimenti consolidati dei cittadini con un' espressione blasfema, quella che riguarda Garibaldi santificato da sempre, fin dai libri delle elementari. La seconda è che "ha studiato ", che è andato a rovistare fra i libri più rari, quelli che riguardano specificamente una storia messa da parte, e ha tirato fuori il nome di Cialdini, un nome che non dice niente a nessuno e che in centocinquant'anni non aveva mai avuto l'onore di alcuna pubblicità.
Quella scritta rafforza una mia convinzione (maturata dalla lunga frequentazione dei briganti): la storia del brigantaggio postunitario, la guerra fra esercito piemontese e bande di partigiani è in gran parte ancora da scrivere, per il semplice motivo che è stata spesso taciuta o trattata con reticenza dalla storiografia ufficiale.
Il mio contributo al dibattito che oggi è di grande attualità (e il "murales" appena comparso ne è una silenziosa inesorabile conferma) penso di averlo già dato con quella ballata che era una melodia, ma anche e soprattutto un urlo, che risuonava ancora più netto nel silenzio di allora, e che ha sicuramente acceso un riflettore forte su quella zona di penombra della nostra storia.
E su quella storia le cose da raccontare e da analizzare sono ancora tantissime, e così le motivazioni da chiarire e i luoghi comuni da demistificare, e io non posso certamente addentrarmi in quest'impresa che richiede equilibrio ed esperienza, e che lascio agli storici di professione. Ma non posso resistere alla tentazione di dire qualcosa; e per non entrare nel merito della contrapposizione storiografica che si sta delineando oggi per l'entrata in gioco finalmente degli storiografi attenti alle ragioni dei perdenti, e per continuare il mio ruolo di non addetto ai lavori, mi limito a citare qualcosa di quello che i vincitori hanno detto e scritto, in diretta mentre quegli eventi accadevano.
Qualcosa che mi scosse fortemente quando da ragazzo (era ancora aria di celebrazioni del Centenario dell'Unità) dovetti, lentamente e controvoglia, cominciare a perdere un po' di fede e di simpatia per gli eroi nazionali.
Lessi alcuni di quegli scritti, e devo dire che allora, alla prima lettura, mi apparvero bruscamente incomprensibili: non è facile rinunciare a dei concetti radicati, a nomi rassicuranti e condivisi che esprimono fratellanza, unanimità e paterna protezione.
La sorpresa destata da quelle letture era troppo traumatica.
La convinzione poteva maturare solo a fatica, e lentamente.
Ma oggi mi va di riportare alcuni di quegli scritti. Un'antologia degli orrori.

Apre la serie il protagonista di quella guerra, il generale Pinelli. A leggere quello che scrisse nel 1861 non si crede ai propri occhi. Una prosa da esorcista invasato, qualcosa di infernale, di fronte a cui il  peggior razzismo del secolo ventesimo sembra una teoria filantropica da educande.
I casi sono due: o Pinelli urlava come un pazzo, sbraitava convulsamente e i suoi soldati non gli davano retta e lo lasciavano sfogare, o Pinelli parlava seriamente da Generale, e i suoi soldati lo ascoltavano, lo prendevano sul serio, e si comportavano secondo il codice militare ed etico suggerito e imposto dal loro diretto superiore, per cui ai loro occhi il nemico perdeva ogni connotato di essere umano e diventava semplicemente un mostro immondo da eliminare. E tutto questo, pensate, avveniva, come si evince dal documento in questione, nell' ascolano, attuale centro Italia, dove l'aggressività dei nemici di Pinelli era, comunque, un'aggressività umbro-marchigiana: che pensò Pinelli, come si comportò, che ragionamenti fece (lo dico da meridionale con la coscienza sporca) quando si trovò di fronte ai briganti calabresi, o direttamente ai maledetti napoletani di città e dintorni?
Ecco il suo scritto.

Ascoli, 3 febbraio 1861
Ufficiali e soldati
La vostra marcia fra le rive del Tronto e quelle della Castellana è degna d'encomio. S.E. il Ministro della Guerra se /te rallegra con voi.
Correte a snidarlo, e siate inesorabili come il destino. Contro uomini tali pietà è un delitto civili e genuflessi quando vi vedono in numero, proditoriamente vi assalgono alle spalle quando vi credono deboli e massacrano i feriti. Indifferenti ad ogni principio politico, avidi solo di preda e di rapina, or sono prezzo lo. ti dal Vicario non di Cristo ma di Satana, pronti a vendere il loro pugnale ad altri, quando l'oro carpito alla stupida credulità dei fedeli non basterà più a sbramare le loro voglie. Noi li annienteremo, schiacceremo il Sacerdotale vampiro che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della Madre nostra, purifichiamo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall'immonda sua bava e da quelle ceneri sorgerà più rigogliosa lo. libertà anche per lo. nobile Provincia Ascolana.

Il Maggiore Generale
Ferdinando Pinelli

Pinelli che con il suo esercito ha invaso lo Stato Pontificio, lo attraversa avvalendosi del terrore e lanciando proclami come questo, ed entra nel Regno delle due Sicilie, dove senza dichiarazione di guerra pretende che tutti gli facciano largo, reclama il potere e si scaglia contro chiunque tenti di impedirlo.
A L'Aquila si rivolge alla popolazione con questo altro bando che appare addirittura grottesco per la stridente scollegamento fra la premessa (<<Vi parlo da amico») e la minaccia immediatamente successiva (<<Sarete distrutti»).

"Vi parlo da amico"

IL MAGGIORE GENERALE COMANDANTE LE TRUPPE DELL'ABRUZZO ULTERIORE II
Ordina
1 ° Chiunque sarà colto con armi da fuoco, coltello stilo o altra arma qualunque da taglio o da punta, e non potrà giustificare di essere autorizzato dalle Autorità costituite sarà fucilato immediatamente.
2° Chiunque verrà riconosciuto d'aver con parole o con da-
Abitanti dell'Abruzzo Ulteriore!

Ascoltate chi vi parla da amico. Deponete le armi, rientrate tranquilli nei vostri focolari, senza di che state certi che tardi o tosto sarete distrutti. Quattro dei facinorosi sono già passati per le armi: il loro destino vi serva da esempio, perché io sarò inesorabile.

Il Maggiore Generale Ferdinando Pinelli

Questo avveniva tra i "fratelli d'Italia" del 1861. Al confronto della prosa di Pinelli, sbiadisce anche la celebre infamia pronunciata dal suo collega, l'altro Generale che dirigeva le truppe di occupazione, Enrico Cialdini, che ebbe a dire, fra un bombardamento a Gaeta e un eccidio a Pontelandolfo: «Questa è Africa! Altro che Italia! I beduini, a riscontro di questi cafoni, sono latte e miele». (Enrico Cialdini, luogotenente del re Vittorio Emanuele II a Napoli).
Cialdini, rispetto a Pinelli, è di tutt'altra pasta. La sua prosa non è poi così traumatica. Non è precisamente violento, e dice cose che oggi ci siamo abituati a sentire, offese che sono all'ordine del giorno. Ma la genialità di Cialdini è di guardare al futuro, e questo lo rende storicamente un caposcuola, il capostipite dell'intolleranza. La sua frase potremmo definirla "la madre di tutti i razzismi" e di tutti gli insulti che ancora cent' anni dopo subirono (e subiscono) i "terroni" meridionali, i "napoli", "africa", "beduini", quando smisero di fare i briganti e divennero emigranti.
E cent' anni dopo lo storico Franco Molfese così sintetizza l'azione di Cialdini:

Nell'agosto 1861 il generale Enrico Cialdini, inviato a Napoli con poteri eccezionali per affrontare l'emergenza del brigantaggio, comandò una dura repressione messa in atto attraverso un sistematico ricorso ad arresti in massa, esecuzioni sommarie, distruzione di casolari e masserie, vaste azioni contro interi centri abitati: fucilazioni sommarie e incendi di villaggi in cui si rifugiavano i briganti erano all'ordine del giorno, restano famigerati il cannoneggiamento di Mola di Gaeta del 17 febbraio 1861 (dopo l'Unità italiana, dall'aggregazione del borgo con altri Comuni limitrofi nasce Formia), nonché gli eccidi di Casalduni e Pontelandolfo nell'agosto 1861.
L'obiettivo strategico consisteva nel ristabilire le vie di comunicazioni e conservare il controllo dei centri abitati. Le forze a sue disposizione consistevano in circa ventiduemila uomini, presto passate a cinquantamila unità nel dicembre de11861.
Gli strumenti a disposizione della repressione venivano; nel frattempo, incrementati, con la moltiplicazione delle taglie e l'istituto delle deportazioni: questa era la forma reale del domicilio coatto.
Nell'agosto 1863 venne emanata la 'famigerata" legge Pica. Tale legge, contraria a molte disposizioni costituzionali, colpiva non solo i presunti briganti, ma affidava ai tribunali militari anche i loro parenti e congiunti o semplici sospetti.

(Franco Molfese, Storia del brigantaggio dopo l'Unità, Giiangiacomo Feltrinelli Editore, Milano 1966)

Pinelli e Cialdini, dunque, due pazzi scatenati. Classicamente due criminali di guerra. Ma la loro voce di generali non può essere considerata un'eccezione. Era il clima di guerra coloniale che si trasmetteva e giungeva anche ai minori di grado. E non c'era confine geografico alla violenza. Dall'ascolano all'Abruzzo, da Gaeta alla Basilicata. Lo stile, inconfondibile, è sempre quello.

Manifesto del sottintendente Decio Lordi ai cittadini di Melfi

Cittadini di Melfi,

L'obbrobrio e il disonore coprirono la vostra città. Il saccheggio e la rapina fu la legge che vi si impose. Una masnada di briganti tenne per sette giorni nelle mani le vostre sorti. Voi sostituiste la schifosa bandiera dei gigli, su cui stava scritto: servaggio ed infamia, al glorioso vessillo che ha per stemma la Croce, segno del comune riscatto.
Voi muoveste ad incontrare una canaglia di ladri e li preferiste ai valorosi vincitori di Palestro e S. Martino. Rialzatevi dalla bassezza in cui siete caduti, scuotete dai vostri panni la polvere che vi copre, inchinatevi dinanzi alla gloriosa bandiera venerata dal mondo civile, riconoscete i vostri diritti profanati da mano infame, e riscattati in nome di Re Vittorio padre comune a tutti gli italiani. Correte al mio palazzo, giurate di sostenere l'onor vostro sotto il vessillo tricolore, dimenticatevi lo schifoso nome dei Barboni, gridate evviva al Re d'Italia ed io vi abbraccerò come dei figli e sarò per voi quello che fui.
Onesti cittadini: Bandite da voi il timore, ritorni la fede, unitevi a me d'intorno e giuriamo di vincere o morire. Venni tra voi nel giorno 27 agosto, vi proclamai l'Italia una e Re Vittorio Emanuele. Allora non v'ingannai, potrò ingannarvi oggi?
Il cannone e la mitraglia parleranno in vece mia se sordi sarete alle voci dell'onore e del dovere.

Il sottintendente
Decio Lordi

E abbandonando questa prosa inquietante, per passare ai freddi numeri, non meno sbalorditiva è la distaccata enunciazione di cifre ufficiali contenute nei documenti scritti dai vincitori, ad esempio le tabelle del Primo censimento dell'Italia unita (1861).
Evidentemente la burocrazia e la logica dei numeri correvano autonomamente, su un binario parallelo, alla censura politica, e non potevano da quest'ultima essere condizionate, e le aride cifre non potevano essere alterate. E così ci giungono questi numeri che risultano incredibili alla luce dell'immagine veicolata per decenni di un Sud sfaticato arretrato e cialtrone, il Sud dei contadini analfabeti, delle finanze corrotte, dei meridionali inerti e fatalisti. Ma quelle cifre sono attendibili, anzi vere, se non altro perché le hanno scritte i vincitori, gente del Nord, gli antenati degli operosi imprenditori del triangolo industriale e dei meticolosi ragionieri del miracolo economico.

DAL PRIMO CENSIMENTO DEL REGNO D'ITALIA DEL 1861

LA POPOLAZIONE OCCUPATA NELL'INDUSTRIA    

PIEMONTE E LIGURIA   345.563     
LOMBARDIA   465.003    
PARMA E PIACENZA   66.325    
MODENA, REGGIO E MASSA   71.759    
ROMAGNA   130.062    
MARCHE   16.344    
UMBRIA   42.291    
TOSCANA   266.698    
SARDEGNA   31.392    
PROVINCIE NAPOLETANE   1.189.582    
SICILIA   405.777    
TOTALE   3.130.796    

L'ex Regno delle due Sicilie (il Meridione) vantava dunque, nel 1861, un totale di addetti alla nascente industria metalmeccanica di 1.595.359 unità, superiore alla cifra relativa a tutte le altre regioni italiane messe insieme (1.539.437).
E a ripensarci questo dato numerico corrisponde alle sparse positive notizie della prima ferrovia costruita in Italia (Napoli- Portici, 1839) già estesa nel 1860 da un lato fino a Salerno, e dalll'altro fino a San severo in provincia di Foggia, all' efficienza dei cantieri navali a Castellammare (NA), alla fiorente attività delle fabbriche di Mongiana (Calabria!) che costruivano manufatti in ghisa e impiegavano migliaia di operai, alla straordinaria economia dell' estrazione dello zolfo in Sicilia (che attirava i forti interessi dell'Inghilterra) e così via.
Altro primato tecnologico nazionale fu !'introduzione del gas per la pubblica illuminazione (1837) e il telegrafo elettrico. Una rete di cavi elettrici sommersi già collegava la Sicilia al continente attraverso lo stretto di Messina.
E non meno sbalorditiva è la tabella relativa alle riserve bancarie. Sono cifre che sembrano inattendibili, roba da fantastoria per quello che il sentire comune ha maturato per centocinquant'anni; il divario delle ricchezze distribuite fra Nord e Sud della penisola, certificato dalla tabella del 1861 è talmente spiazzante da far pensare che la reale motivazione che scatenò l'impresa di Garibaldi secondo il disegno di Cavour, il vero "ideale" di quella guerra, sia stato il miraggio economico di risanare la finanza del piccolo stato piemontese, dissestata dalle numerosi e ambiziose spedizioni belliche, a cominciare dalla guerra di Crimea. Questo spiegherebbe anche la spregiudicatezza e la virulenza dell' azione militare che escluse ogni tentativo diplomatico di accordo o di possibile federazione fra "stati fratelli".
Ridiamo la parola ai documenti ufficiali dei nuovi governanti.

MONETE DEGLI ANTICHI STATI ITALIANI AL MOOMENTO DELL'ANNESSIONE

REGNO DELLE      
DUE SICILIE                  milioni   443.2  
LOMBARDIA                     "        8.1  
DUCATO DI MODENA      "        0.4  
PARMA E PIACENZA        "        1.2  
ROMA                                  "      35.3  
ROMAGNA-MARCHE EUMBRIA 55.3
SARDEGNA 27.0
TOSCANA 85.2
VENEZIA 12.7

(Francesco Saverio Nitti, Scienza delle finanze, Pierro, 1903)

Facendo una somma, la riserva bancaria totale di tutte le altre regioni d'Italia (Roma compresa) risulta 225.2 milioni: il Regno delle Due Sicilie da solo raggiungeva quasi il doppio. Le conclusioni che si traggono dalla lettura di queste tabelle sono immediate e indiscutibili.
Sono le notizie che ci forniscono i vincitori di quella guerra.
Il problema è che queste cifre, che pongono inquietanti interrogativi sul vorticoso tracollo economico del Meridione, pur non essendo mai state mistificate, sono di fatto state poste nell'ombra, non evidenziate e non collegate alla Questione meridionale, all' emigrazione e a tanti mali considerati endemici delle popolazioni del Sud. Ma ce n'è abbastanza per motivare i moti di ribellione di massa sbrigativamente liquidati con il termine di "brigantaggio" .
Vorrei chiarire, prima di concludere questa mia irrituale sortita nel mondo degli studi storiografici, che mi è perfettamente chiaro che, come in ogni epoca e in ogni guerra ci sono sempre voci e personaggi impresentabili, e che per completezza un giudizio va dato sulla globalità delle voci; ma sicuramente quelle voci andavano smentite, e ancora oggi è tempo di rinnegarle e di chiedere scusa a chi di dovere.
Per ristabilire l'equilibrio di una Storia che è proceduta anche tra i danni che quelle parole e quei fatti hanno provocato.

Ma non tutte le voci dei vincitori erano così dissennate. Per fortuna c'era tra di loro chi, come Massimo D'Azeglio, parlava un linguaggio civile, umano, democratico. Ma le sue parole riimasero lettera morta.
Il 2 agosto 1861, Massimo D'Azeglio, in una lettera al senatore Carlo Matteucci, pubblicata poi sui giornali, scrive:

Noi siamo proceduti innanzi dicendo che i governi non consentiti dai popoli erano illegittimi: e con questa massima, che credo e crederò sempre vera, abbiamo mandato a farsi benedire parecchi sovrani italiani; ed i loro sudditi, non avendo protestato in nessun modo, si erano mostrati contenti del nostro operato, e da questo si è potuto scorgere che ai governi di prima non davano il loro consenso, mentre a quello succeduto lo danno. Così i nostri atti sono stati consentanei al nostro principio, e nessuno ci può trovare da ridire. A Napoli abbiamo cacciato ugualmente il sovrano, per stabilire un governo sul consenso universale. Ma ci vogliono, e pare che non bastino, sessanta battaglioni per tenere il Regno, ed è notorio che, briganti o non briganti, tutti non ne vogliono sapere. Mi diranno: e il suffragio universale? lo non so niente di suffragio, ma so che di qua del Tronto non ci vogliono sessanta battaglioni e di là sì. Si deve dunque aver commesso qualche errore; si deve, quindi, o cambiar principi, o cambiar atti e trovare modo di sapere dai Napoletani, una buona volta, se ci vogliono sì o no. Capisco che gli Italiani hanno il diritto di far la guerra a coloro che volessero mantenere i Tedeschi in Italia; ma agli Italiani che, rimanendo Italiani, non vogliono unirsi a noi, non abbiamo diritto di dare archibugiate ... perché contrari all'Unità.

Massimo D'Azeglio

25
LA NUOVA STORIOGRAFIA SUL BRIGANTAGGIO

"Lo stato italiano è stato una dittatura feroce che ha messo a ferro e fuoco l'Italia meridionale e le isole, squartando, fucilando, seppellendo vivi i contadini poveri che scrittori salariati tentarono d'infamare col marchio di briganti>.
Antonio Gramsci, "L'Ordine Nuovo», 1920

E la storiografia cambia quando non sono i vincitori a parlare.
Un testo nuovo e decisivo è quello di Aldo De Jaco, che nel 1969 pubblica Il brigantaggio meridionale. Cronaca inedita dell'Unità d'Italia:

Negli anni Sessanta del secolo scorso nel Mezzogiorno italiano c'era una guerra feroce, senza leggi internazionali da rispettare, senza prigionieri, senza trincee e retrovie. Dei due eserciti quello "vero", con le divise in ordine e gli ufficiali usciti dalla scuola militare di Torino, se ne stava di presidio nei paesi, isolato come fosse nel cuore dell'Africa, fra gente che aveva lingua e costumi incomprensibili e, quasi sempre, un figlio o un fratello fra le montagne a tener testa agli "invasori". Ogni tanto il presidio veniva a sapere di qualche "reazione agraria" di qualche "ribellione borbonica" e accorreva di zona in zona, sulle poche strade conosciute, a reprimere le rivolte.
Dai boschi e dalle montagne scendeva allora ad affrontarlo l'esercito silenzioso dei briganti. Nei paesi intanto si rinnovavano qua e là gli incendi dei municipi e degli uffici del catasto, i saccheggi delle case dei "galantuomini", si instauravano effimere amministrazioni che rendevano obbedienza all'esiliato Borbone. Tutto finiva con la restaurazione dei simboli dei Savoia e con la fucilazione in piazza dei briganti presi prigionieri. Questa ''guerra'' durò per circa cinque anni; difficile dire il giorno in cui essa cessò del tutto giacché, naturalmente, non fu firmato alcun armistizio. Si può dire che finì quando nelle selve incendiate e semidistrutte a colpi di cannone non rimasero che poche decine di banditi mentre nelle carceri o a domicilio coatto migliaia di contadini d'Abruzzo, di Puglia, di Terra di Lavoro, di Basilicata, di Calabria, incominciavano a scontare le loro condanne.

Lo Stato appena sorto impegnò nella repressione dei "reazionari" metà del suo esercito, circa 120.000 uomini. Il destino del contadino meridionale si delineava ormai nell'alternativa indicata da Francesco Saverio Nitti: o brigante o emigrante.

Tra le pubblicazioni della più recente storiografia sul brigantaggio, uno dei testi più innovativi e documentati è Stato società e briganti nel Risorgimento italiano, di Ottavio Rossani (Pianetalibro Editori, 2003).
Grande merito del libro di Rossani è di essere riuscito a fare il punto degli studi più recenti sul fenomeno del brigantaggio meridionale postunitario, che dell'epoca risorgimentale mettono in evidenza anche le ragioni dei perdenti.

Il termine brigantaggio viene ormai assumendo una connotazione positiva. Continuano a squarciarsi sempre più i veli stesi dagli storici organici al potere ed al regime dei Savoia, tendenti a coprire ed a falsare i tragici avvenimenti degli anni immediatamente successivi all'invasione del Sud da parte dei piemontesi.
Erano possibili molti modi per fare l'Italia. Cavour e i suoi successori scelsero la strada della sospensione delle garanzie costituzionali per larga parte del territorio italiano e della repressione militare del dissenso.
L'atteggiamento repressivo contribuì ad inasprire i rapporti, a provocare la reazione di chi si sentiva ingiustamente perseguitato, andando ad ingrossare le bande dei cosiddetti briganti.
È ben lontana da noi l'ipotesi - scrive il Rossani - di rimettere in discussione l'unità del Paese e nemmeno intendiamo alimentare patetiche nostalgie borboniche o asburgiche o altro, come fanno alcuni polemisti. Si tratta invece di prendere atto di ciò che avvenne veramente e di rispettare coloro che si opposero non al processo di unificazione, ma ai soprusi e agli eccessi di militari e funzionari che ignoravano tutto del Sud ma si calavano nel Sud con il compito di "civilizzatori", portando nei fatti arroganza, ignoranza, prepotenza e corruzione.
Il brigantaggio fu movimento di massa non organizzato che si oppose all'occupazione piemontese, fu lotta armata del popolo napoletano contro il Savoia invasore per il ritorno di Francesco Il. Il brigantaggio fu un fatto politico e sociale, e non una semplice questione criminale come si volle far credere.
Quando le ultime roccaforti in cui si erano asserragliati i soldati borbonici, Gaeta, Messina e Civitella del Tronto, si arresero dopo lunga resistenza, le bande dei briganti proliferarono e la resistenza armata diventò più forte. Ufficiali legittimisti, provenienti da fuori Italia, tentarono un' organizzazione unitaria delle bande, con l'obiettivo di far sollevare tutto il Sud. La primavera 1861 fu il momento di maggiore incandescenza della rivolta.
Ma il "Comitato borbonico" che agiva da Roma era incapace di pianificare le azioni necessarie per sostenere quella guerriglia e farla diventare insurrezione popolare organizzata. La repressione ad opera dell'esercito piemontese fu spietata. Su «La Civiltà Cattolica» dei Gesuiti furono pubblicati una serie di interventi in cui vennero enumerate le azioni di aggressione, inciviltà, rappresaglia, immotivata ferocia, perpetrate dall'esercito piemontese.
L'arresto e la fucilazione di Borjés e di Tristany posero praticamente fine alla tensione politica, anche se le bande di briganti continuarono ancora a lungo a fare imboscate e ad aggredire le truppe dei militari e delle guardie nazionali. Quasi tutti i capibanda furono arrestati o fucilati.
Lo scioglimento del Governo in esilio, ad opera di Francesco II nel 1867, decretò la definitiva fine del Regno borbonico. Ma per il Sud la storia e la ribellione continuarono con la grande emorragia migratoria.
La questione del brigantaggio continua a rimanere uno dei nodi irrisolti della storia italiana. La repressione del brigantaggio fu la continuazione logica della campagna di occupazione militare e fu affidata all'esercito piemontese, con l'impiego massiccio di bersaglieri, carabinieri ed altri corpi militari; all'esercito si affiancarono anche i componenti di formazioni locali chiamate "Guardia Nazionale".
Il brigantaggio mise in crisi il neonato Stato unitario e per poco non riuscì a spezzarlo.
La carneficina degli "italiani" del Sud, ad opera dei piemontesi, fu immane. Risulta che - scrive sempre Rossani - tra il 1861 e il 1872 ci furono 154.850 caduti in combattimento, 111.520 fucilati o morti in carcere, con un totale di perdite quindi tra briganti e complici di 266.3 70. Le perdite piemontesi furono invece di solo 23.013 unità.
Altri italiani del Sud furono internati nei "lager dei Savoia". In totale circa 58.000 uomini, fatti prigionieri, furono deportati al Nord. Il più famigerato di questi campi di concentramento fu Fenestrelle, una vecchia fortezza nella Val Chisone a 2.893 metri di altitudine, in provincia di Torino. Da quella fortezza nessuno riuscì mai ad evadere. I morti venivano gettati, per motivi igienici, in un'enorme vasca di calce viva.

Nell'attènzione degli storici, degli studenti, delle avanguardie culturali e, lentamente, anche dell' opinione pubblica, comincia a diventare tristemente familiare un nuovo nome, il tragico nome di un lager, appunto "Fenestrelle", ed è il segno di una stooria che viene oggi letta in maniera diversa, e sicuramente più completa. Le pubblicazioni si succedono l'una all'altra, e trattano argomenti diversi, ma la direzione è inconfondibilmente alternativa rispetto alla visione unilaterale e compatta fatta passare per decenni.
Cito solo alcune tra le più recenti pubblicazioni: Franco Cassano, Il pensiero meridiano (Laterza, 1996), Mario Alcara, Sulll'identità meridionale (Bollati - Boringhieri, 1999), Pino Aprile, Terroni (Edizioni Piemme, 2010), Dora Liguori, Quell'amara Unità d'Italia (Sibylla Editrice, 2010).

26
I CONTADINI DEL SUD
E GLI INDIANI D'AMERICA

Il primo viaggio di Cristoforo Colombo fu un concentrato di situazioni estreme e poetiche, dalla temerarietà del Navigatore che era riuscito a fregare i Saggi di Salamanca facendo apparire sulla carta il Mondo metà di quello che era, dalla follia della traversata assistita dalla fortuna degli sconosciuti venti Alisei, dall'ammutinamento della ciurma che, terrorizzata da quella navigazione, con il vento in poppa si chiedeva come avrebbe mai fatto a rientrare, all'abilità dell'ammiraglio che chiese altri tre giorni di navigazione, fino al fatidico grido «Terra! Terra!» che nel terzo estremo giorno prometteva a tutti salvezza e ricchezza.
La notte del 12 ottobre 1492 rappresenta probabilmente la notte più significativa e la veglia più intensa della Storia dell'umanità: dal mare, sulle tre Caravelle, i marinai aspettavano l'alba, sognavano e pregavano il loro dio; dalla terra gli indigeni pregavano un dio diverso e di fronte ai tre enormi bastimenti apparsi all'orizzonte pensavano a qualcosa di simile allo sbarco degli extraterrestri.
Il secondo viaggio fu tutt'altra cosa, fu l'arrivo dell'Occidente con il peggio del suo armamentario, fatto di avidità e presunzione, violenza e arroganza. Con Colombo viaggiava il frate domenicano Bartolomeo de Las Casas che, nella sua Brevisima relaci6n de la destrucci6n de las Indias, raccontò lo scontro fra le due civiltà e la cruenta vicenda regolata dalla legge del più forte.
E pensare che Carlo V, che gli aveva commissionato quell'opera, aveva assicurato la liberazione degli Indios, che erano stati nel frattempo già tutti schiavizzati, con le Leyes Nuevas decretate nel 1542. Ma i conquistadores arrivarono a uccidere i messi inviati dall'imperatore per far rispettare quelle leggi illuminate.
Contro le parole di Las Casas il teorico del pensiero colonialista, l'umanista Juan Ginés de Sepulveda, sosteneva che:

Alcuni uomini sono servi per natura, che la guerra mossa contro di loro è conveniente e giusta a causa della gravità morale dei delitti di idolatria, dei peccati contro natura e dei sacrifici umani da loro commessi.

E che, infine:

L'assoggettamento avrebbe favorito la loro conversione alla fede.

Ma, al di là delle dispute di Bartolomeo de Las Casas, il colonialismo va avanti per secoli, e porta alla distruzione degli Inca e dei Maya e degli Aztechi e di ogni civiltà india.
Nel 1860 l'occupazione militare piemontese, che avveniva sulle ali di una propaganda libertaria e di un'ideale sacro di patria unita, presentava caratteri simili a quelli delle guerre coloniali.
È sintomatica la concomitanza con quanto avveniva in quegli anni negli Stati Uniti d'America: la mitica conquista del West classificava ancora gli indiani (oggi "nativi americani") come selvaggi da rendere innocui e confinare nelle riserve. Ovviamente nulla era per i conquistatori recuperabile della cultura degli sconfitti. La civiltà occidentale continuava ad avanzare come una ventata di giustizia e di progresso, la civiltà indiana scompariva.
La definitiva sopraffazione di quegli anni ai danni degli Indios riecheggiava quello che al di qua dell'Oceano avveniva nel Vecchio Mondo, nella vecchia Italia che diventava Italia Unita mettendo a tacere e demonizzando le scintille della cultura contadina, arcaica e incompatibile con l'inarrestabile filosofia della modernità.
L'atteggiamento dei due eserciti era simile, simile il carattere bellico dello scontro: da un lato l'esercito regolare, da un lato le schiere o "orde" di selvaggi indiani in America, di ignoranti contadini nel nostro Sud.
Il massacro di Sand Creek fu una strage che si verificò negli Stati Uniti durante le guerre indiane, nel novembre 1864, quando delle truppe della milizia del Colorado, comandate dal colonnello John Chivington, attaccarono un villaggio di Cheyenne, massacrando donne e bambini.
All'alba, il colonnello Chivington fece circondare l'accampamento, nonostante gli accordi presi e anche se nel mezzo del villaggio sventolava la bandiera americana, comandò l'attacco contro una popolazione inerme.
Gli episodi sconvolgenti - come venne testimoniato dagli stessi indiani e da molti altri bianchi che parteciparono al massacro - non si contarono. L'attacco fu riportato in un primo momento dalla stampa dell' epoca come una vittoria nei confronti di un coraggioso avversario. Nelle settimane successive, una polemica cominciò a diffondersi riguardo la possibilità che si fosse trattato di un massacro. Un'inchiesta del Comitato di Condotta della Guerra, sentenziò:

Per quanto riguarda il Colonnello Chivington, questo comitato può difficilmente trovare dei termini adeguati che descrivano la sua condotta. Indossando l'uniforme degli Stati Uniti, che dovrebbe rappresentare un emblema di giustizia e di umanità; occupando l'importante posizione di comandante di un distretto militare, che gli ha concesso l'onore di governare tutto ciò che rientra nei suoi poteri, ha deliberatamente organizzato ed eseguito un folle e vile massacro in cui numerose sono state le vittime della sua crudeltà. Egli conoscendo chiaramente la cordialità del loro carattere, avendo egli stesso in un certo senso tentato di porre le vittime in una condizione di fittizia sicurezza, ha sfruttato l'assenza di alcun tipo di difesa e la loro convinzione di sentirsi sicuri per potere gratificare la peggiore passione che abbia mai attraversato il cuore di un uomo. Qualunque peso tutto questo abbia avuto sul Colonnello Chivington, la verità è che ha sorpreso e assassinato, a sangue freddo, inaspettatamente uomini, donne e bambini, i quali avevano tutte le ragioni per credere di essere sotto la protezione delle autorità statunitensi; e poi ritornando a Denver si è vantato dell'azione coraggiosa che lui e gli uomini sotto il suo comando hanno eseguito.

In conclusione questo comitato è dell'opinione che al fine di vendicare la causa di giustizia e mantenere l'onore della nazione, pronte e rigorose misure debbano essere adottate per rimuovere coloro che hanno così vilipeso il governo presso il quale sono impiegati, e di punire, adeguatamente al crimine commesso, coloro che sono colpevoli di questi atti brutali e codardi.
Il massacro di Pontelandolfo e Casalduni avvenne nell'agosto del 1861. In quella zona agiva la banda Giordano, ma l'azione militare disposta da Cialdini non fu rivolta contro di loro: i briganti furono lasciati in pace, appostati sulle montagne circostanti: la rappresaglia riguardò l'intera popolazione indifesa, sommariamente accusata di aver fiancheggiato l'azione dei briganti che nei giorni precedenti avevano ucciso quarantacinque soldati della Guardia Nazionale.
All'alba del 14 agosto, mentre a Pontelandolfo si preparava la fiera di San Donato fece irruzione un battaglione di bersaglieri che assalì gli abitanti, ne ammazzò istantaneamente la gran parte e incendiò tutte le case e tutte le cose del paese. Poi passò all'assalto di Casalduni, ma trovò il paese deserto e si limitò alla distruzione e all'incendio.
A Pontelandolfo e Casalduni i morti superarono sicuramente il migliaio, ma le cifre reali non furono mai svelate dal governo piemontese. «Il Popolo d'Italia», giornale filogovernativo e quindi interessato a nascondere il più possibile la verità sui morti, indicò in centosessantaquattro le vittime di quell' eccidio, destando l'indignazione persino del giornale francese «Patrie», filounitario, e quella del mondo intero.
Anche su questo evento le notizie sono tutte di parte governativa. La lettera di Gaetano Negri, tenente del 6° reggimento, scritta e inviata al padre subito dopo l'eccidio, è una testimonianza diretta di un protagonista di quella criminosa azione militare:

Napoli, agosto 1861
Carissimo papà, le notizie delle province continuano a non essere molto liete. Probabilmente anche i giornali nostri avranno parlato degli orrori di Pontelandolfo. Gli abitanti di questo villaggio commisero il più nero tradimento e degli atti di mostruosa barbarie; ma la punizione che gli venne inflitta, quantunque meritata, non fu per questo meno barbara. Un battaglione di bersaglieri entrò nel paese, uçcise quanti vi erano rimasti, saccheggiò tutte le case, e poi mise il fuoco al villaggio intero, che venne completamente distrutto. La stessa sorte toccò a Casalduni, i cui abitanti si erano uniti a quelli di Pontelandolfo. Sembra che gli aizzatori della insurrezione di questi due paesi fossero i preti; in tutte, le province, e specialmente nei villaggi della montagna, i preti ci odiano a morte, e, abusando infamemente della loro posizione, spingono gli abitanti al brigantaggio e alla rivolta. Se invece dei briganti che, per la massima parte, son mossi dalla miseria e dalla superstizione, si fucilassero tutti i curati (del Napoletano, ben inteso!), il castigo sarebbe piu giustamente inflitto, e i risultati più sicuri e più pronti.

Il Generalissimo Enrico Cialdini, dalla sede dell'alto Comando di Napoli, telegrafò al ministro della guerra piemontese e quindi al mondo intero: «Ieri all'alba giustizia fu fatta contro Pontelandolfo e Casalduni».
Importante anche la testimonianza del deputato milanese Giuseppe Ferrari, uomo illuminato e di grande cultura (come si evince dalla sua prosa), filosofo le cui idee erano di origine vichiana e si incentravano sulla concezione della Storia come storia delle rivoluzioni. Queste sono alcune delle parole pronunciate da lui al parlamento di Torino poche settimane dopo i fatti.

Nel turbinìo degli avvenimenti le nuove si ingrandiscono, le morti si moltiplicano nelle immaginazioni del volgo, il terrore prende mille forme, il silenzio paralizza la lingua del cittadino che, reclamando, teme di essere sospetto, e la confusione giunge a tal punto che io a Napoli non poteva sapere come Pontelandolfo, una città di 5.000 abitanti, fosse stata trattata. lo ho dovuto intraprendere un viaggio per verificare un fatto con gli occhi miei. Ma io non potrà mai esprimere i sentimenti che mi agitarono in presenza di quella città incendiata. Chi può dire i dolori di quella città. E quando volli vedere più addentro lo spettacolo celato delle afflizioni domestiche, mi trassero dinanzi il signor Rinaldi, e fui atterrito. Pallido era, alto e distinto nella persona, nobile il volto; ma gli occhi semispenti lo rivelavano colpito da calamità superiore ad ogni umana consolazione. Appena osai mormorare che non così si intendeva da noi la libertà italiana. Nulla io chiedo, disse egli, ed ammutimmo tutti. Aveva due figli, l'uno avvocato, l'altro negoziante, ed entrambi avevano vagheggiato da lontano la libertà del Piemonte, ed all'udire che approssimavansi i piemontesi, che così chiamansi nel paese la truppa italiana, correvano ad incontrarli. Mentre la truppa procede militarmente, i saccomanni la seguono, la straripano, la oltrepassano, e i due Rinaldi sono presi, forzati a riscattarsi, dopo tolto il danaro condannati a istantanea fucilazione ...

(Dal discorso dell'Onorevole Ferrari nella seduta parlamentare della Camera del 2 dicembre 1861)

Dopo centotrentasei anni, nell'ottobre del 2000 il Congresso degli USA chiede scusa agli Indiani per la strage del Sand Creek.
Il Congresso ha approvato una legge per trasformare in un sito storico il luogo del massacro. Le scuse formulate dal Congresso americano ai pellerossa Cheyenne e Arapaho fanno seguito a quelle formulate dalla Regina Elisabetta d'Inghilterra ai Maori per !'invasione della Nuova Zelanda avvenuta ne.l1863.
In Australia il Parlamento, che da sempre bilancia il suo senso di colpa con assistenza economica agli aborigeni, nel 1999 ha espresso ufficialmente «profondo e sincero rammarico» per «le sofferenze e i traumi» causate alla popolazione indigena.
Nell'aprile scorso, per la festa dei cinquecento anni dell'arrivo in Brasile dei portoghesi, la Chiesa cattolica ha chiesto solennemente perdono per gli abusi commessi in mezzo millennio di evangelizzazione del Paese.
Sui massacri del 1860-70 nelle provincie meridionali non c'è ancora stata nessuna revisione della Storia ufficiale italiana, che continua a puntare sull'obbo, sull'insabbiamento della verità, sul quieto vivere e sull'assuefazione ideologica che farà da sfondo e da punto di partenza alle celebrazioni del centocinquantesimo anniversario.
Nel 1945, alla vigilia di Norimberga, i vincitori per istruire i processi contro i responsabili nazisti dovettero definire giuridicamente a livello di diritto internazionale i concetti di "crimini di guerra" e i "crimini contro l'umanità". Queste fattispecie giuridiche corrispondono precisamente ai delitti commessi dai generali, quantomeno a Pontelandolfo e a Casalduni. E qualcuno prima o poi queste cose dovrà dirle.

La verità dopo 150 anni come per i pellerossa

Il brigantaggio meridionale e la Guerra di secessione americana hanno un mucchio di punti in comune. Non soltanto perché si svolsero praticamente in contemporanea ma anche perché si trattò di due guerre fratricide. Secondo molti storici i paragoni, però, finiscono qui perché - a loro dire - in Italia non fu guerra civile. Secondo loro, chi combatté l'esercito dei Savoia non era mosso da «ideali patriottici». Su questo forse bisognerebbe ragionare più a fondo. Ma, volendo soprassedere, c'è un'altra guerra, pure coeva, che può essere di insegnamento per come è stata prima dimenticata e poi - finalmente - portata alla luce. Stiamo parlando della «conquista del West». Pensiamo allora alle frotte di bambini che, per generazioni, hanno giocato a indiani e cow boy. L'indice teso e il pollice alzato: «Pam! Pam!». Le regole, per lustri e lustri, sono state semplici: l'uomo bianco, il cow-boy, era il «buono»; il cattivo pellerossa finiva per terra. Fino a un pugno di anni fa a ripeterlo erano i nonni, ma anche il cinema (basta guardare i vecchi film con John Wayne), ed era scritto pure nei libri di scuola'. È stato così per circa un secolo. Poi, nel 1970, sono arrivati il film Soldato blu e Il piccolo grande uomo (con Dustin Hoffman). Nel 1981, la sensibilità magnifica di Fabrizio De André regalò agli italiani la canzone Fiume Sand Creek. E nel 1990, arrivò Balla coi lupi. I film e le canzoni arrivarono alla gente. Erano la «chiave giusta». Il loro messaggio era potente: gli indiani non sono i cattivi, i bianchi non sono i buoni, tutto è dannatamente più complicato.
Sottotitolo: «Vi hanno presi in giro per cent'anni».
In un baleno, è cambiata la mappa mentale dell'opinione pubblica del globo, anche quella degli italiani.
Qual è il senso? L'America ha dimostrato a se stessa (e al resto del mondo) di aver capito l'importanza della Storia, quella autentica, con le sue crudeltà. Gli americani si sono riappropriati del loro stesso passato. In conseguenza di ciò il Paese non si è spaccato, anzi. La verità è stata un balsamo. I bianchi sono guariti dal cancro dell'arroganza da «civilizzatori» e agli indiani e alle loro tradizioni e sapienze fu restituita dignità. Tutta la dolorosa epopea della conquista del West, oggi, fa parte integrante del patrimonio storico-culturale del popolo americano. In Italia, ogni benedetto libro di Storia adottato dalle scuole, racconta in modo critico la «Storia del West». I nostri ragazzi studiano cosa accadde nel 1864 dall'altra parte dell'Oceano. Conoscono i Sioux e il Generale Custer. Ma, spesso, non sanno cosa è successo quell'anno nel loro Paese, magari proprio nella loro città. Alle volte non trovano una parola, manco una, sulla guerra fratricida che si combatté nel Mezzogiorno. Non sanno «chi» erano i briganti, oppure sanno che erano una manica di criminali depravati. Ai giovani meridionali stiamo insegnando che i loro avi erano i «cattivi», pur sapendo che tutto è dannatamente più complicato.

(Marisa Ingrosso, «La Gazzetta del Mezzogiorno», 19 ottoobre 2009)

Gli eventi paralleli di Sand Creek e Pontelandolfo danno vita a due canzoni del cantautorato italiano.
Nel 1981 Fabrizio De André dedica una ballata alla strage degli indiani e la pubblica nell'album Indiano, scritto in collaborazione con Massimo Bubola.

I nostri guerrieri troppo lontani sulla pista del bisonte
e quella musica distante diventò sempre più forte
chiusi gli occhi per tre volte
mi ritrovai ancora lì
chiesi a mio nonno è solo un sogno
mio nonno disse sì
A volte i pesci cantano sul fondo del Sand Creek

Sognai talmente forte che mi uscì il sangue dal naso
il lampo in un orecchio e nell'altro il paradiso
le lacrime più piccole
le lacrime più grosse
quando l'albero della neve
fiorì di stelle rosse

Ora i bambini dormono sul fondo del Sand Creek

Dagli Indiani d'America agli Indiani del Sud Italia. Sulla vicenda di Pontelandolfo c'è la ballata scritta e incisa dal gruppo storico degli Stormy Six, composto da musicisti di area milanese, e inserita nell'album Unità (1972).

PONTELANDOLFO
Stormy Six 1969

Era il giorno della festa del patrono

E la gente se ne andava in processione
L'arciprete in. testa ai suoi fedeli
Predicava che il governo italiano era senza religione
Ed ecco da lontano
Un manipolo con la bandiera bianca
 Incline ad inneggiare a re Francesco
Ed ecco tutti quanti lì a gridare
Poi si corre furibondi al municipio
E si bruciano gli archivi
E gli stemmi dei Savoia
Pontelandolfo la campana suona per te

Per tutta la tua gente
Per i vivi e gli ammazzati
Per le donne ed i soldati
Per l'Italia e per il re
Per sedare disordine al paese
Arrivano quarantacinque soldati
Sventolando fazzoletti bianchi
In segno di pace, ma non trovano nessuno.
Poi mentre si preparano a mangiare
Il rumore di colpi di fucile
Li spinge ad uscire allo scoperto
E son presi tutti quanti prigionieri
Poi li portano legati sulla piazza
E li ammazzano a sassate,
Bastonate e fucilate

Pontelandolfo la campana suona per te
Per tutta la tua gente
Per i vivi e gli ammazzati
Per le donne ed i soldati
Per l'Italia e per il re

La notizia arriva al comando
E immediatamente il generale Cialdini
Ordina che di Pontelandolfo
Non rimanga pietra su pietra
Arrivano all'alba i bersaglieri
E le case sono tutte incendiate
Le dispense saccheggiate, le donne violentate,
Le porte della chiesa strappate, bruciate
Ma prima che un infame piemontese
Rimetta piede qui, lo giuro su mia madre,
Dovrà passare sul mio corpo

Pontelandolfo la campana suona per te
Per tutta la tua gente
Per i vivi e gli ammazzati
Per le donne ed i soldati
Per l'Italia e per il re

Voglio aggiungere sull'argomento del genocidio degli Indiani d'America una ballata che ho scritto nel 2000, e sono felice di affiancarla a quella scritta da De André. Fabrizio è stato per me un maestro e poi, quando l'ho conosciuto personallmente, un amico.

IO TE CERCO SCUSA
Eugenio Bennato 2000

lo te cerco scusa 'e chello c'aggio fatto
pecché nun sapevo pecché ero distratto
scusa 'e tutto o mmale ca tu aviste allora
scusa pure si io nunn'ero nato ancora

Scusa 'e chillu munno ca s'è perduto
addò tu currive comm'a na criatura s
ott'a luce d'o sole senza stanchezza
sott'a luce d'e stelle senza paura

Scusa 'e chillu suonno de marenaro
ca pe' primmo ascette da Gibilterra
pe' tenta' la sorte e asci' pe' mare
pe' guarda' luntano e scupri' na terra

Scusa 'e chella scienza che navigava
sempre cchiù luntano fino a chella terra
pecché nun sapeva che ce truvava
pecché nun sapeva che purtava a guerra

Ma tutt'a furtuna de Francia e Spagna
nunn'è niente a !fronte 'e chella bellezza
e nun po' bastare pe' riscattarla
tutto l'oro d'o munno, tutt'a ricchezza

Ecu Nina Pinta e Santa Maria
arrivava o viento d'a civiltà
ca purtava a pace e a libertà
e io te cerco scusa 'e chella bugia

Chesta nun sarrà na canzone d'ammore
pecché na carezza nun c'è mai stata
però certamente ce trase o core
pecché è na canzone de 'nnammurato

'Nnammurato 'e nafavola luntana
'e na donna ca nun ha cunusciuto
 'nnammurato 'e chella bellezza indiana
c'appartene a nu munno ca s'è perduto

lo te cerco scusa 'e chello c'aggio fatto
pecché nun sapevo pecché ero distratto
 scusa 'e tutto o mmale ca tu aviste
allora scusa pure si io nunn'ero nato ancora

27
IL SORRISO DI MICHELA

Che cos' è la musicalità del verso, che cos' è la metrica, che cos'è la rima? Sono regole che stanno lì da sempre, e costringono il poeta di turno a inseguire un equilibrio, a mettere insieme parole e fonemi con l'attenzione di scrivere cose degne di essere lette e ripetute e memorizzate e, per questo, cose che in ultima analisi "suonino bene".
Io ci ho provato tante volte, e certamente non posso valutare il risultato dei miei sforzi, ma posso raccontare una sensazione, un'esperienza che si è andata consolidando con ripetute conferme successive: mi sono accorto che la ricerca della musicalità condizionava e determinava a volte il significato dei versi, offriva soluzioni che, partendo da un presupposto di "forma" passavano a diventare presupposti di "contenuto".
È come se una misteriosa entità, una sorta di funzionario del "comitato per il rispetto delle regole di poesia" prenda per mano chi scrive versi e lo conduca per sentieri imprevedibili. E non è escluso che lo stato di "trance" che questo percorso guidato da mano misteriosa determina, porti a scrivere cose di cui l'autore scopre solo successivamente il significato, o più precisamente scopre in seguito significati diversi e più lontani e più generali di quello di partenza.
Questa sensazione di sorpresa e di scoperta per frasi che avevo scritto mi è capitata più volte, lo stesso Brigante se more che è nato come titolo e immagine conclusiva di una canzone che parlava di una storia di guerra, della guerra del 1860, ha preso ad apparirmi come una frase compiuta, a sé stante, autoonoma, che naviga lontano dalla sua terra di origine, e diventa una formula che posso scegliere, senza nessuna difficoltà, come titolo di un libro che parla di tante cose diverse e soprattutto di cose che, almeno nelle mie intenzioni, rappresentano materia della storia di oggi.
Quell'espressione, che per me esce dal fuoco delle battaglie, mi accorgo che riesce anche a raffreddarsi e allora sembra asssumere il senso di un secco divieto o di un segnale di pericolo (tipo non toccate i cavi elettrici), che ci avverte dei rischi che si corrono ad affrontare argomenti come quello dei briganti e della loro storia controversa: il rischio della demagogia, il rischio della generalizzazione, il rischio del settarismo, il rischio degli insulti che possono riguardare chi si pone dalla parte del torto frequentando personaggi indifendibili, e si presenta fuori la casa dei benpensanti con l'allegria insolente del guastafeste.
E ancora, nella formula Brigante se more ritrovo il senso affaascinante della vita breve, la benevolenza che, a dire degli antichi, gli dèi attribuivano a chi muore giovane.
Allora quel titolo mi appare uno slogan efficace nel lanciare un discorso sullo stile, nel dettare criteri di analisi e di giudizio, nell'impostare scale di valori e, per quanto riguarda le mie connsolidate emozioni liceali (per restare nell'Ottocento della nostra Storia), mi rimanda alla differenza tra due artisti che nacquero a pochi anni di distanza, ma vissero l'uno una stagione fugace e intensa, l'altro una vita lunghissima, per certi versi scontata e stanca: sto parlando della differenza che corre tra Giacomo Leoopardi (1798-1837) e Alessandro Manzoni (1785-1873).
Infine, la stessa espressione può risuonare come segnale sinntetico del pericolo mortale che si corre a pensare in maniera traasgressiva e non convenzionale, a ragionare al di fuori degli schemi, a sovvertire le regole correnti, ad anticipare i tempi, a vivere una vita "maledetta" anche se ripagata da uno straordiinario ritorno di immagine.
Gli esempi della Storia e della Storia dell'Arte sono tanti, ne cito per tutti solo due, che mi sono particolarmente cari: Charles Baudeleire dell'Ottocento francese, Pier Paolo Pasolini del Novecento italiano.
Chiudo questo libro con la coscienza inquieta di aver tirato fuori le cose che avevo da dire in maniera immediata e disordinata, così come mi venivano, e spero tanto che la raccomandazione di leggerezza data da Italo Calvino nelle sue Lezioni americane non sia stata infranta più di tanto in queste mie pagine. Calvino fece in tempo a scrivere le Lezioni a fine Millennio, raccomandando per il millennio successivo alcune categorie estetiche perché gli scrittori le tenessero ben presenti. Fra queeste, appunto la leggerezza, che significa sottrarre, semplificare, eliminare parole per rendere il linguaggio più sostenibile e comprensibile.
Mi rendo conto che questo criterio è di diftìcile soddisfazione per chi scrive un libro; non si finirebbe mai di limare un periodo, una frase, un passaggio di ragionamento o di racconto, fino ad arrivare alla leggerezza perfetta. E quelli che ci sono riusciti non so come abbiano fatto.
La cosa mi appare più accessibile quando si scrive una meelodia o un verso, forse perché a questa attività mi sono a lungo dedicato, forse perché so che scrivere una canzone è a volte questione di un attimo, e anzi penso che l'immediatezza sia un preesupposto fondamentale affinché questo tipo di creazione abbia un senso e abbia diritto di venire alla luce e di vivere.
Ho appena finito di mettere insieme le righe di questo libro, e voglio chiuderlo con una canzone che ho scritto in queste ulltime ore, ed è dedicata alla brigantessa Michelina De Cesare:

A Michelina De Cesare, brigantessa, uccisa nel 1868

IL SORRISO DI MICHELA

Tu che stai lì prigioniera
di una guerra senza gloria
di una guerra che hai perduto
perché a scrivere la Storia sono sempre i vincitori
e Michela non sarà
tra i loro eroi

Tu che stai lì prigioniera
nella tua fotografia
che il nemico ti ha scattato
per la sua vigliaccheria
lui confuso nei trofei
non si accorge di chi sei
di chi sei

Tu sei il sorriso di Michela
e così ti metti in posa
e il vestito che tu indossi
non è un abito da sposa
e il fucile che tu porti
è un fucile vero e
non è una rosa

(Bella sta storia
e chi la sente
bella la gente
che la racconta
bella la terra
ca nun s"a scorda bella Michela
ca nun s'arrende)

Tu che stai

lì prigioniera
perché sei donna del Sud
così bella così fiera
nella consapevolezza
che più forte del brigante
non può esserci che la
sua brigantessa

Tu che stai lì prigioniera
tu sei la fotografia
che ci parla di una donna
che ha il sorriso di una dea
che se vive che se muore
non tradisce mai il suo amore
e la sua idea

Tu sei il sorriso
di Michela
e colpisci il tuo nemico
col tuo sguardo di pantera
ed il tuo sorriso antico
è la sfida che tu lanci
come un fiore dal balcone
del tuo Sud

(Bella sta storia,
 e chi la sente
bella la gente
che la racconta
 bella la terra,
ca nun s'a scorda
bella Michela
ca nun s'arrende)


Accussì va la guerra
accussì va la gloria
da che Sud è Sud
accussì va la storia
ma la storia 'e Michela
 è 'na storia diversa
pecché è 'na storia vera
pecché è 'na brigantessa

Accussì va la guerra
accussì va la gloria
da che Sud è Sud
accussì va la storia
ma la storia 'e Michela
è storia differente
pecché è donna del Sud
pecché nun s'arrende

Tu sei il sorriso di Michela
Tu che non ti sei mai arresa
sei il sorriso che combatte
la retorica infinita
di chi ha invaso la tua terra
per rubare il tuo sorriso
e la tua vita

Il sorriso di Michela, Eugenio Bennato, Napoli, 19 marzo 2010

APPENDICE* l
LE TRADUZIONI DI BRIGANTE SE MORE

Il successo popolare di Brigante se more è testimoniato anche dalle numerose traduzioni che spontaneamente ne sono state fatte in varie lingue:

Lingua italiana
Versione di Marco "Che" Randolo

BRIGANTE SI MUORE

Abbiamo posato chitarra e tamburi, perché questa musica deve cambiare. Siamo briganti, facciamo paura
e con ilfucile vogliamo cantare,
e con il fucile vogliamo cantare

E ora cantiamo questa nuova canzone,
tutta la gente la deve imparare.
Ce ne freghiamo del re Borbone,
la terra è nostra e non deve essere toccata,
la terra è nostra e non deve essere toccata

Tutti i paesi della Basilicata
si sono svegliati e vogliono lottare,
pure la Calabria si è rivoltata;
e questo nemico facciamo tremare,
e questo nemico facciamo tremare

* l testi delle tre Appendici che seguono sono tratti da Internet. Si è deciso, per fedeltà agli scritti originali e per non tradire la natura del mezzo, di pubblicarli senza apportare modifiche.

Chi ha visto il lupo e si è spaventato,
non sa ancora qual è la verità.
Il vero lupo che mangia i bambini
è il piemontese che dobbiamo cacciare,
è il piemontese che dobbiamo cacciare

Donne belle che date il cuore,
se il brigante volete salvare

non lo cercate, dimenticatene il nome;
chi ci fa guerra non ha pietà,
chi ci fa guerra non ha pietà

Uomo si nasce, brigante si muore,
ma fino all;ultimo dobbiamo sparare.
E se moriamo portate un fiore
e una bestemmia per la libertà,
e una bestemmia per la libertà

Inviata da MarcoChe, inserita il7 /9/2006 - 21:43

Lingua inglese
Versione di Riccardo Venturi

DIEASANOUTLAW

We laid aside our guitars and drums
for this tune has to change now.
We are outlaws, fear is our tune
and now we want to sing with guns,
and now we u:ant to sing with guns

So let's sing now this new song
that all you people are going to leam.
Don't give a damn ofthe Bourbon king,
this is ourland and nobody takes it,
this is ourland and nobody takes it

All the villages in Basilicata
are rising up and want to fight,
even Calabria is now insurging
and we're going to scare the enemy,
and we're going to scare the enemy

You saw the wolf and got so scared,
but you don't know the truth yet.
The real wolfwho eats children
is the Piedmontese so let's drive him away
is the Piedmontese so let's drive him away

All ye fair maidens who give your heart
ifyou really want to save the outlaw
don 't look far him, forget his name,
we're at war with a merciless enemy,
we're at war with a merciless enemy

You were born as a man, you die as an outlaw,
we'll shoot and fight up to the last.

And if we die, so bring us a flower
and an oath far our liberty,
and an oath for our liberty

Inserita il 25/8/2007 -11:35

Lingua francese
Versione di Riccardo Venturi

ON MEURT DES BRIGANDS

Nous avons posé nos guitares et nous tambours,
cette musique doit se taire maintenant.
Nous sommes des brigands et faisons peur,
c'est avec nos fusils que nous voulons chanter,
c'est avec nos fusils que nous voulons chanter
On va chanter une nouvelle chanson,
tout le monde doit l'apprendre.
On s'en fout bien du roi Bourbon,
mais c'est notre terre, et nous la défendrons,
mais c'est notre terre, et nous la défendrons.
Tous les villages de la Lucanie
se sont soulevés et veulent lutter,
meme la Calabrie s'est révoltée,
cet enemi, on va le faire tremblel;
cet enemi, on va le faire trembler

Qui a vu le loup et a eu peur
ne sait pas bien ce qu'est vrai.
Le vrai loup qui dévore les créatures
c'est le piémontais et faut le chasser;
c'est le piémontais et faut le chasser

Vous les belles femmes qui donnez votre coeur
si vous voulez sauver le brigand,
ne le,cherchez pas, oubliez son nom:
notre ennemi n'a pas de pitié, '
notre ennemi n'a pas de pitié

On naft des hommes, on meurt des brigands,
 mais jusqu'à la fin nous allons tirer.
Et si nous mourons, apportez une fleur
et un juron pour cette liberté,
et un juron pour cette liberté

Inserita il 2/6/2006 - 17:58
Lingua portoghese
Versione di Duilio Tattoo Berni

Para que os portugueses niio se assustem com o portugues transcrito, vale dizer que este portugues vem do Brasil ... a ultima flor do Lacio.Abraços.

BRIGANTE SE MORRE

Deixamos de lado o violéio e o tambor,
porque esta musica deve mudar.
Somos brigantes e metemos medo
e com a escopeta queremos cantar,
e com a escopeta queremos cantar

E agora canLamos esta nova cançiio,
 todo mundo deve aprender a cantar.
Pouco nos fodemos para o Rei Bourbon,
a terra é nossa, e niio se deve tOCal;
a terra é nossa e niio se deve tocar

Todas as cidades da Basilicata
ja se acordaram e querem lutar,
também a Calabria ja se revoltou;
e o inimigo vamos fazer tremer,
e o inimigo vamos fazer tremer

Quem viu o lobo se apavorou,
mas niio sabe ainda a verdade que ha.
o verdadeiro lobo que come criancinhas
é o piemontes que devemos caçar,
é o piemontes que devemos caçar

Moças belas que nos diio o coraçiio,
se um brigante querem salVai;
niio O procurem, esqueçam seu nome;
quem nos declara guerra, piedade niio tera,
quem n05 declara guerra, piedade niio tera

Homem se nasce, brigante se morre,
mas até o ultimo nos uamos dispara1:
E se morremos nos tragam uma fior
e uma blasfèmia para a liberdade,
 e uma blasfemia para a liberdade

Inviata da Duilio l'attoo Berni Inserita il 281 10/2006

Lingua polacca
Versione di Zofia

L'ho sentita quest' estate e sono rimasta affascinata da questa storia scoonosciuta e mi sa che anche un po' censurata dai storicisti ufficiali italiani. Adesso vorrei che anche i polacchi possano conoscerla. Ho fatto questa traduzione in base alla versione italiana; ma perché la chiamate "canzone conntro la guerra"? Comunque, l'ho sentita quest'estate e sono rimasta affascinata da quella storia sconosciuta, e mi sa che un po' censurata dagli storici uftìciali italiani... Vorrei che anche i polacchi possano sentire quallcosa di essa. [Zofia]

7ÌJ historia powstania partyzanekiego, guerilli ehtop6w z Kr6lestwa Obojga Syyeylii przeeiw najazdowi piemontezyk6w zakonezonemu sukeesem i zjednoezeniem Wloeh. Fragment oeenzurowanej, r6wniez we Wloszeeh, historii oporu ludu przeeciwko "poehodowi wolilosei".

APPENDICE 2
LE TRADUZIONI DI
VULESSE ADDEVENTARE NU BRIGANTE

Lingua italiana
Versione di Giuly

VORREI DIVENTARE UN BRIGANTE
Vorrei diventare un topolino, ragazzina
per rosicchiare queste catene
che mi stringono il petto
e mi fanno schiavo

Vorrei diventare un pesce spada, ragazzina
per poter subito squartare
sul fondo del mare
questi nostri nemici

Vorrei diventare una farfalla, ragazzina
per poter volare libera
e sporcare le divise
a tutti i piemontesi

Vorrei diventare un tamburo, ragazzina
per svegliare tutta questa gente
che non ha capito niente
e ci sta a guardare

Vorrei diventare una bandiera, ragazzina
 per dare un colore a questa guerra
che deve liberare questa terra
o ci farà morire

Vorrei diventare brigante, ragazzina
che può stare solo sulla montagna
scura e che ti fa sempre paura
fino a quando muore

Inviata da Giuly, inserita 1'8/9/2006 - 15:32

Lingua italiana
Versione di Carmen

VORREI DIVENTARE UN BRIGANTE

Vorrei diventare un topolino bambina

Per rosicare queste catene che mi stringono il piede
Che mi fanno schiavo

Vorrei diventare un pesce spada bambina
Per poterli subito squartare sul fondo del mare
Questi nostri nemici

Vorrei diventare un colombo bambina
Per poter volare libero e sporcare le divise
A tutti i piemontesi

Vorrei diventare un tamburo bambina
Per svegliare tutta questa gente che non ha capito niente
E ci sta a guardare

Vorrei diventare una bandiera bambina
Per dare un colore a questa guerra
Che libera questa terra
O ci fa morire

Vorrei diventare un brigante bambina
Che vuole stare solo sulla montagna scura
Per farti sempre paura
Fino a quando muore

Inviata da Carmen, inserita 1'8/9/2006 - 18:33

Lingua italiana (rovigotto o rodigino)
Versione di Marco "Che" Randolo

VURlA DEVENTARE UN BRIGANTE

Vurìa deventare un ponteghin,fiòla mia.
Par rosegare le cadena
ca le me strenze el peto
e le me fa s'ciavo!

Vurìa deventare pesse spada, fiòla mia.
Par poder subito s'cuartare,
'ntel fondo del mare,
i nostri nemighi

Vurìa deventare un gabiàn,fiòla mia.
Par podere libero vo'are,
e s'cichenmghe sora le divise
de tuti i piemontesi

Vurìa deventare na tarantola,fiòla mia.
Par svejare tuta sta zente
ca no 'a gà capìo ninte

e'a resta vardare!

Vurìa deventare na bandiera,fiòla mia.
Par darghe on colore a sta guerra
che 'a gà da liberar sta tera
o da farse morir

Vurìa deventare un brigante, fiòla mia.
Che po' el stà lu solo sula montagna scura
par ispritarte sempre
fin ché noi more

Inviata da MarcoChe, inserita 1'8/9/2006 - 12:11

APPENDICE 3
INTERPRETAZONI E TESTIMONIANZE

Quella che riportiamo di seguito è una minima parte degli interventi scritti apparsi su Internet dal 2006 al 2010.
Sulle origini del brano c'è stato un po' di mistero, ma oggi è sicuro che si tratti di un canto tradizionale campano, riadattato a suo tempo da Bennato.
È proprio sui termini di questo "riadattamento" che vorrei sollevare la vostra attenzione: il brano tradizionale, così come risulta da un facile lavoro di riscontro sul territorio, nella tradizone viva, riporta il verso:
NUlE CUMMBATTIMM' PE' 'O RRE BURBONE, A TERRA È A NUOST' E NUN S'fIA DA TUCCA'
e nell'ultima strofa:
MENATE NU SCIORE E 'NA PREGHIJ:."'RA PE' STA LIBBERTA'.
Ebbene l'edizione da un certo momento in poi proposta da B. e poi diffusasi tra la maggioranza degli interpreti che a B. si rifanno, presenta invece:
NUNCE NEFOTTE D'O RREBURBONE,A TERRA ÈANUOST' ENUN S'HA DA TUCCA'
e all'ultimo verso:
MENATE NU SCIORE E 'NA]ASTEMMA PE' 'STA LIBBERTA'.
Non vorrei sembrare brutale, ma, scusate, E CHE 'R È??? Un'interpolazione? Un camuffamento ideologico? Una truffa in barba alla tradizione autentica? E in nome di che, mi chiedo, è possibile fare violenza al popolo e alle sue tradizioni in questo modo??? Rinnovo a Eugenio Bennnato e ai Taranta Power la mia stima per le loro qualità di musicisti, ma vorrei proprio, su questo punto, una spiegazione.
Grazie, Misthia

23/06/2007 -18:37:10, inserita il 29/12/2006 - 21:11:05

***

Gentile Misthia
nel 1979 scrissi insieme a Carlo D'Angià "Brigante se more", e vedo COTI soddisfazione che quella canzone ha avuto una diffusione straordinaria, passata di voce in voce e di chitarra e chitarra, e che in questo meccanismo di trasmissione orale alcuni versi sono stati alterati, ma questo non è importante, può succedere ai brani di successo.

Del tuo scritto mi colpisce l'interesse verso questo mio brano, interesse di cui ti sono grato, e la superficialità incredibile con cui attribuisci la paternità del mio brano ad un fantomatico autonomo autore a me presistente; ti esorto ad una sola considerazione: come sarebbe possibile che un brano scritto come tu credi oltre un secolo fa non sia riportato in nessuna delle raccolte che catalogano tutti i canti tradizionali del nostro paese, Imbriani, Molinaro del Chiaro e tanti altri: la risposta è ovvia, perché quel canto l'ho scritto nel 1979.
La canzone "Brigante se more" era un gioiello, me ne resi conto subito, ed ebbe un successo particolare che dura ancora oggi. Ma il meccanismo di diffusione non era certo la radio o l'industria discografica, ma le migliaia di chitarre e di voci di ragazzi che spontaneamente la cantavano e la trasmettevano agli amici nelle serate di festa: è il meccanismo della trasmissione popolare, che determina il ricordo e il successo di un verso o una melodia di cui si dimentica l'autore, che diventa "anonimo", ma che ovviamente esiste. Nel caso di "Brigante se more" gli autori siamo io e Carlo, e dobbiamo ovvviamente ricordare questo aspetto sia per la verità storica, sia per non passsare, paradossalmente, per "usurpatori" di quello che abbiamo scritto! Eugenio Bennato, 30 dicembre 2006

***

Eugè gli artisti a volte devono subire anche questa!!! Bellissima risposta. Un saluto da Rogliano!!!
••... che si muoue come una luce e risplende come una dea, nel tamburo di Alfio Antico e nella voce di Sacco Andrea e risplende nell'anarchia di Matteo Salvatore e si chesta è la taranta la TARANTA E' VlVAANCORA".
Luigi, Rogliano (CS)

Inserita il301I2/2006 -13:03:00

***

Carissimi amici di Tarantapower.
sono davvero contento di potere finalmente discutere con voi questa facccenda di "simm' briganti", perché col tempo l'ho presa a cuore e mi preme, come a voi tutti, che emergano le cose nella loro semplicità e uerità.
II problema è che qui non ci si riesce. lo vi ringrazio per l'ospitalità che mi date sulle pagine di questo forum, e credo di meritarla. dicendo con chiarezza ciò che so e che penso.
Dunque ancora vi chiedo di aiutarmi:
- in primo luogo: che un testo non sia riportato nelle raccolte significa che non esiste?
- in secondo luogo: quando dicevo che ho fatto un riscontro sul territorio,
Non era per finta, e, se permettete, CHE INTERESSE HA QUESTA GENTE A MENTIRE???
Riporta uno stralcio dalla corrispondenza che intrattengo con una testiimone diretta della tradizione ORALE di questo canto, la quale afferma di averlo sentito cantare da suo nonno e aggiunge:
"Mio nonno ha fatto la prima elementare, non sa scrivere se non il suo nome, non sa assolutamente leggere.
E quello che ha imparato lo ha imparato come emigrante in un paese estero, la Svizzera.
Altrimenti, forse, non saprebbe nemmeno contare.
Non ha mai, e dico mai, e ribadisco mai, comprato o avuto per casa un qualche disco di Bennato.
I dischi che aveva ed ha ancora oggi, e Dio solo sa quanto io li conosca uno per uno sono soltanto dischi di musica popolare di quella spicciola, taranntelle varie, campane, salentine, e molti pezzi di joddle dell'Oberla bernese. Per il resto, manco "finché la barca va" di orietta berti.
Dunque, direi al sig. Bennato, la. mia parola. contro la. sua. La mia parola. conntro la sua, non ho timore. Nel modo più assoluto, non ne ho. II meccanismo di diffusione non era certo la radio o l'industria discografica. Lo afferma da sé stesso. E allora è bene che consideri che certa cultura esiste da prima che lui stesso nascesse. E con essa musiche, e balli, e canti. Non scherziamo su questo.
Lui e D'Angiò, altro autore che stimo moltissimo, che mia madre mi ha innsegnato ad apprezzare,. avranno rivisto, ripreso, rivisitato, quello che volete, questo pezzo.
Ma certo è che mio nonno lo cantava prima ancora che questi due soggetti fossero concepiti nel pensiero del Padreterno».
Misthia

10/0l/2007 - 22:45:28, inserita 1'11/01/2007 -14:18:38

***
UNA MUSICA NUOVA

PER UN'ANTICA STORIA DI INGIUSTIZIE:

LA PAROLA DI RENATO MARENGO

Alla fine di questa carrellata spontanea e pittoresca, mi semmbra opportuno riportare la testimonianza di un addetto ai lavori, uno scritto del giornalista Renato Marengo, ideatore e condutttore, oggi, con Michael Pergolani, del programma radiofonico di Radio Uno Demo. Marengo era, all' epoca della nascita di Briigante se more, il produttore disco grafico che seguì passo passo la realizzazione di quella colonna sonora, che fu poi pubblicata dalla Polygram nel 1980.

La mia amicizia con Eugenio Bennato è di vecchia data; ci siamo incontrati nel 1970 e l'incontro con Eugenio, i suoi rimprooveri sulle mie scelte, su quella che lui definiva una mia esterofilia rockettara (ero il critico di pop e rock italiano su «Ciao 2001», bibbia del rock negli anni Settanta), i suoi inviti a guardare anche la musica "dentro casa", mi hanno stimolato a occuparmi dei gioielli di casa e a diventare, quasi di conseguenza, produttore discografico della NCCP
Eugenio era l'anima progressiva di quella musica popolare alla quale si sentiva profondamente legato, partendo proprio da quel suo background che aveva riscoperto, un po' in controtendenza rispetto ai suoi coetanei, andando a cercarlo nei luoghi d'origine.
A lui interessava andare oltre. Era la continuazione di quella musica antica radicata nei territori del Sud, sopravvissuta e tramandata da generazioni; lui nel nostro panorama musicale degli ultimi quarant'anni è stato realmente il trait d'union tra la tradizione e il presente ... e il futuro.
Per me e per i musicisti rock progressive e jazz, che frequentavo agli inizi degli anni Settanta, il mandoloncello tra le mani di Euugenio Bennato suonava come il contrabbasso di Pastorius dei Weather Report. Il suo modo di cantare e arrangiare ci appariva simile a quello dei padri della bossanova e le tarantelle non ci appparivano più come ridicole cafonate per turisti. Era una musica "nuova" costruita su basi saldamente tradizionali.
In quegli anni Anton Giulio Majano stava per mettere in piedi L'eredità della Priora, altro importante sceneggiato che gli era stato affidato dopo il successo de L'isola del tesoro.
Io avevo da poco terminato la produzione delle musiche di Rooberto De Simone per il film di Lorenzini Quant' è bello lu murire acciso e ricordo che fui contattato dal delegato alla produzione degli sceneggiati Rai (così si chiamava allora la fiction ... ) che mi parlò dell'esigenza di Majano di trovare un autore che fosse in grado di comporre musiche originali, canzoni e sottofondi per il suo sceneggiato sui briganti.
Lo misi subito in contatto con Eugenio, ero il suo produttore e sapevo che era perfettamente in grado di affrontare un'impresa tanto impegnativa. Si intesero subito. Majano voleva testi e musiche originali, composte proprio per lo sceneggiato e strettamente collegati al suo colossal sui briganti. Non voleva rielaborazioni, musiche già sentite, ma brani autentici e al tempo stesso nello spirito della tradizione dell'epoca. Majano voleva anche coinvolgere i telespettatori più giovani, voleva qualcosa di stimolante, non solo musiche di commento o sottofondi: qualcosa che i telespetttatori potessero anche memorizzare e cantare. Eugenio era il commpositore giusto per questo.
Eugenio conosceva molto bene la storia dei briganti, per lui che è sempre stato un anarco-radicale, slegato da qualsiasi dipendenza dai partiti, i briganti erano come gli indiani d'America, una sorta di cangaceiros nostrani braccati dai visi pallidi pieemontesi che li sterminavano davanti alle loro baracche, ai loro indifesi rifugi, senza sentir ragioni, esattamente come le giacche blu avevano fatto con i pellerossa.
Eugenio scrisse i testi e le musiche di quei briganti de L'eredità della priora ispirandosi alla ricostruzione storica della sceneggiaatura tratta dal romanzo di Carlo Alianello, ma anche documenntandosi sulle tante pubblicazioni già esistenti che in gran parte lui aveva già letto sui briganti.
Eugenio compose le sue canzoni sui briganti per il lavoro teleevisivo di Majano, ma quei brani hanno ben presto brillato di luce propria anche al di là dello sceneggiata.
Le canzoni sui briganti e le storie raccontate da Eugenio da alllora hanno affascinato e coinvolto tanti giovani musicisti che, interessati a quelle storie e alla "nuova" musica popolare di Eugenio, hanno inserito tra i piatti forti del proprio repertorio quelle canzoni nuove e maledette.


Renato Marengo


TRA MEMORIA E IDENTITÀ
Lingua e musica popolare:
Brigante se more tra memoria e identità
di Diego Femia

Il mondo delle parole, del loro impiego in versi, il mondo della musica e la diffusione popolare sono pacificamente conciliabili?
Brigante se more, il brano musicale di cui ci occuperemo in queste pagine, ci è parso significativo nella riflessione sul sinncretismo tra "parola poetica/parola in musica". Cercheremo pertanto, per ampi tratti, attraverso la lettura di Brigante se more, di far apparire questo interesse guardando all'incontro tra il verrbale e la sua messa in musica all'interno di un contesto preciso; a similitudini e differenze che si vengono a creare con il testo di partenza e, infine, alle dinamiche tutte proprie del "popolare" di sedimentazione in memorial.
Il brano musicale Brigante se more è oggi diffuso, con signifiicative variazioni morfologiche e semantiche, da tre principali "attori", ciascuno dei quali, a diverso modo, lo rivendica come proprio: a) il musicista Eugenio Bennato (e coloro che a lui si ispirano); b) i movimenti filoborbonici (e coloro che ai moviimenti si ispirano); c) i cantori locali o di tradizione esclusivaamente "popolare" (che attingono a numerose varianti del brano, non di rado·introducendone di nuove).
La versione più diffusa è certamente quella riconducibile al musicista Eugenio Bennato scritta, in collaborazione con Carlo D'Angiò, su richiesta del regista Anton Giulio Majano per accompagnare la sigla e i titoli di coda dello sceneggiato Rai L'eredità della priora, andato in onda nel 1980 e tratto dall'omonimo romanzo di Carlo Alianello, premio Campiello nel 1963:

Ammo pusato chitarre e tamburo
pecché sta musica s'adda cagnà

{. .. ]

e si murimmo menate nu fiore
e na bestemmia pe' stà libertà

Concentriamoci ora, seppur brevemente, su qualche aspetto che, a nostro avviso, contribuisce a determinare il contenuto del testo. La via più facile, diremmo meglio più utilizzata, di differenziazione tra linguaggi è, generalmente, quella che fa appello alla diversa sostanza materiale con cui sono prevalentemente costruiti i significanti dei segni.
Nella musica, così come in ogni altra forma di espressione, non è certo privo di importanza che un significante sia di natura parlata o cantata o visuale, ma la varietà scaturita dall'incontro fra il verbale, con le sue strutture e la sua sonorità intrinseca, e la sua messa in musica conferisce al "testo" una dimensione di senso che non risulta dalla somma dei singoli componenti.
Adottando come riferimento la testualità, un testo commplesso come un brano musicale si potrà, quindi, analizzare a partire dall' ordinamento o struttura degli elementi interni, ciò che lega reciprocamente gli elementi della rappresentazione all'interno del brano stesso, e dalle relazioni tra tali ordinamenti.
Un primo dato che risulta significativo è quello della lingua usatal un dialetto, con cui normalmente sono composti i brani di Beimato. Anche nella produzione di Carlo Alianello troviamo un uso dei dialetti, ma in genere mai troppo accentuato e semmpre molto rispettoso dello spazio linguistico (De Mauro, 1980, pp. 112-124) dei propri personaggi: la comparsa si limita a parole inserite in un cotesto tutto italiano, in genere graficamente virrgolettata o in corsivo, mentre si estende a intere frasi esclusivamente nelle battute di discorso diretto o riportato o, in genere, nelle riflessioni più spontanee, vicine al flusso di coscienza, dei personaggi. Alianello utilizza così un localismo linguistico per accentuare il distacco narrativo e, in questo modo, dare rilievo al personaggio.
Quali ruoli assume il localismo linguistico in Brigante se more? Il primo compito è certamente quello di rimarcare l'apppartenenza a un ambito spaziale e geografico con il quale il linguaggio crea un forte legame essendo, in sé, dipendente dal contesto in cui viene utilizzato dato il forte valore informale.
Un secondo compito è quello di evidenziare la diversità diaastratica: l'appartenenza a determinati strati socio-culturali immpone l'uso del dialetto come lingua della comunicazione primaria in maniera esclusiva mentre, la terza funzione, sottolinea il contesto situazionale in cui avviene la comunicazione, e i registri con cui viene espressa, in quanto il dialettà è usato (per questo aspetto esattamente come nei testi di Alianello) per esprimere emozioni forti, reazioni intime, passioni, moti dell'anima.
Dovendo creare un canto che si integrasse allo sceneggiato tratto dal romanzo e, sostanzialmente, a una realtà circoscritta, Bennato usa codici "circoscritti", nella fattispecie la lingua che gli è più con geniale, una varietà del napoletano (che, attenzione, non è la lingua che parlerebbero i personaggi del romanzo), in cui meglio può esprimere e selezionare un'appartenenza e una diversità linguistica; e usa un ritmo e una sonorità, molto prosssimi alle ballate domestiche (uno stile musicale, secondo la deefinizione di Alan Lomax3) che possono essere riprodotti con tradizionali strumenti musicali - chitarre e tamburi, suggerisce il testo del brano - senza l'ausilio della radio o della televisione e che facilmente possono risultare "familiari" all'interno di un determinato gruppo sociale. Proprio questa estrema riconoscibilità e connotazione dei codici crediamo porti il brano a sedimentarsi in maniera singolare nelle memorie, e sono in tanti che giurerebbero di averlo sentito cantare molti anni prima della realizzazione dello sceneggiato del quale era la sigla.
Altro elemento degno di nota è la valorizzazione del referente che viene differentemente rappresentato nel brano musicale e nel romanzo, portandoci ad assegnare, pertanto, differenti funzioni comunicative.
Anzitutto, come si accennava sopra, l'uso del cantore di una varietà linguistica che si focalizza con i personaggi stessi, al contario del romanzo, dove Alianello tiene distinta la voce narrante. Bennato, identificandosi con i protagonisti del brano ne mette in risalto le azioni più che l'essenza. Cio che interessa più di ogni altra cosa ad Alianello è che il referente, i briganti o il brigantaggio, sia reale, accertabile e storicamente verosimile: la rappresentazione si misura attraverso la tenuta storica degli eventi, la puntuale caratterizzazione dei personaggi, il modo di renderli tipi riconoscibili nella struttura sociale di provenienza. Nel caso del brano musicale, un ideale personaggio è colto nell'attimo metaforico, di mettere da parte uno stile di vita per scegliere la via del brigantaggio. Qui il referente è quindi la vita del brigante (sia pur metaforicamente rappresentata dall'azione musicale): c'è in quanto è "messa in valore". Lo scopo ultimo del brano non è altro che valorizzare il referente, idealizzandolo. In altri termini, Brigante se more ha a che fare con la realtà del brigantaggio secondo la modalità della "valorizzazione", una modalità ben nota allo spettatore del XXI secolo perché è tipica del "discorso pubblicitario" (cfr. Volli, 2003, pp. 17-34).
Probabilmente il brano deve in parte a queste caratteristiche anche la successiva diffusione e riappropriazione, nei modi e con scopi differenti, e non è un caso che questo avvenga con un referente molto delicato qual è quello del brigantaggio per il quale, come per altre importanti questioni italiane (basti pen - . sare al fascismo), il nostro Paese non ha mai attraversato una vera fase di elaborazione storica o critica che ne garantisse una sedimentazione in memoria, in una qualsiasi delle modalità possibili, ma è stato velocemente rimosso, se non del tutto ignorato, e quindi può, molto più facilmente, attraversare fluttuazioni semantiche di vario genere sempre accompagnate, però, da lenta risignificazione e da una certa confusione.

Diego Femia (Ricercatore di semiotica e filosofia del linguaggio presso "La Sapienza" di Roma e l'Università di Viterbo)

Riferimenti bibliografici:

Lucio Barone, Antonio Ciano, Antonio Pagano, Alessandro Romano, Briganti & Partigiani, Gaeta, Campania Bella, 1977.

Tullio De Mauro, Guida all'uso delle parole, Roma, Editori Riuniti, 1980.

Alan Lomax, "Nuova ipotesi sul canto foicloristico italiano nel quadro della musica popolare mondiale", in «Nuovi ArgoomentÌ», n. 17-18, novembre 1955-febbraio 1956, pp. 109-135.

Ugo Volli, Semiotica della pubblicità, Roma-Bari, Laterza, 2003.

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Sincretismo e fluttuazione:
il caso di Brigante se more
di Maria Carmela Monteleone

(da: Il sincretismo tra musica ed altri linguaggi: XXXVI convegno nazionale dell' Associazione Italiana Studi Semiotici. San Marino 28-30 novembre 2008)

Il brano Brigante se more faceva parte della colonna sonora dello sceneggiato Rai L'eredità della Priora, girato intorno al 1979 con la regia di Anton Giulio Majano e mandato in onda in sette puntate tra il marzo e l'aprile del 1980.
Di vasta popolarità, fu replicato varie volte. Tratto dall'omonimo romanzo, Premio Campiello 1963, di Carlo Alianello, è ambientato prevalentemente in Basilicata e si impernia sulle vicende successive all'impresa garibaldina.
Il senso generale del brano è l'incitamento alla lotta delle genti di Basilicata contro i piemontesi che vengono visti come invasori. La lingua utilizzata è il napoletano moderno.

Non si intende, in questa sede, procedere a un'analisi testuale del brano, così come a un'analisi di tutta la colonna sonora, o dei rapporti tra colonna sonora e colonna visiva, in quanto questo lavoro ha lo scopo di offrire spunti di carattere teorico per ulteriori riflessioni e approfondimenti.
Scritto da Eugenio Bennato in collaborazione con Carlo D'Angiò, era eseguito dai Musicanova, gruppo fondato nel 1976 dal cantautore dopo l'uscita dalla Nuova Compagnia di Canto Popolare, di cui era stato uno dei fondatori e dei principali animatori.
I due artisti, dovendo comporre un brano che fosse grido di battaglia dei briganti lucani del 1860, così come gli era stato riichiesto da Anton Giulio Majano, non potevano attingere a una tradizione orale pressoché inesistente, ché la damnatio memoriae riguardante il brigantaggio post-unitario è stata così radicale da cancellare ogni traccia di canti briganteschi autentici. Tanto più che, come riferisce lo stesso Bennato, non vi era intenzione, in quel frangente, di attingere alla ricerca musicologica, ma di recuperare lo spirito popolare per una creazione originale. Non un falso storico, quindi, ma l'interpretazione di un artista degli anni Settanta del XX secolo di una situazione storicosociale del passato.
Del resto la ricerca etnomusicologica, attuata poco tempo prima nella NCCP con l'illuminante collaborazione con Roberto De Simone, forniva a Bennato e D'Angiò una solida base teorica e gli strumenti pratici per operare in tal senso con piena consaapevolezza. In questo modo Brigante se more, album e brano, si inquadra nel dibattito, dai toni anche molto accesi, su metodi e scopi della ricerca etnomusicologica tra coloro che ritenevano che dovesse essere una mera raccolta di dati riferiti a una società preindustriale in via di estinzione e coloro che la consideravano un punto di partenza per la restituzione al popolo della propria identità e dei propri mezzi espressivi.
Pertanto, la colonna sonora dell' Eredità della Priora è opera assolutamente originale, modellata su testi e melodie della traadizione popolare meridionale e riferita a situazioni storiche precise, frutto della cultura degli inquieti anni Settanta e di quel clima di revisione storico-culturale di un passato che non aveva ancora trovato adeguata sistemazione critica.
Brigante se more, in particolare, risulta il pezzo di punta dell'album omonimo, pubblicato in contemporanea con la messa in onda dello sceneggiato. Grazie alla prima diffusione attraverso un mezzo ad alto impatto, quale era allora la televiisione dominata dal monopolio statale, incide in modo efficace sull'immaginario collettivo, dando origine sin dall'inizio a proocessi di decontestualizzazione, primo fra tutti quello attuato dagli stessi autori che, con la pubblicazione dell'album opeerano, di fatto, la rottura del legame tra colonna sonora e coolonna visiva.
L'evoluzione successiva è analoga a quella di un documento della tradizione popolare. Ben presto si registra la perdita della paternità artistica, tanto da essere ritenuto un autentico canto brigante sco riferibile al periodo post-unitario, raccolto o, al più, rielaborato da Bennato e D'Angiò.
L'appropriazione e la ricontestualizzazione sociale e politica, sincroniche e diacroniche, ne determinano trasformazioni linnguistiche, melodiche e testuali. Ripreso da gruppi e cantori di strada, è variato e adattato ai diversi dialetti centro-meridionali.
Il titolo adottato da pièce teatrali sull'argomento brigantaggio. Precisi adattamenti nel testo poetico consentono, poi, agli emiigranti italiani sparsi per il mondo una identificazione regionale, o permette a gruppi politici, come avviene per i filo-borbonici di trovare in un, reale o presunto, appoggio popolare del passato giustificazione alla loro azione attuale e, in genere e in senso lato, diventa bandiera di contestazione a poteri politico-culturali forti e prevaricatori. Basti fare anche una rapida e sommaria ricogniizione su Internet, con la consultazione di un qualsiasi motore di ricerca, per rendersi conto dell' entità del fenomeno.
I meccanismi di fruizione e trasmissione di un testo della traadizione popolare sono particolarmente delicati. Senza entrare nel merito della disputa sull' origine della musica popolare, un canto passando di bocca in bocca, di contesto in contesto, con il trascorrere del tempo, come un organismo vivente, si modifica rapidamente subendo variazioni, o meglio, creando varianti nelle parole e nella musica e perdendo quasi subito memoria dell'autore. In questo percorso il fruitore è chiamato direttaamente a intervenire su un testo che non ha, per sua natura, nesssuna rigidità del supporto.

In questo ambito, decontestualizzazioni e risemantizzazioni sono insiti agli stessi meccanismi di fruizione e trasmissione e non sono infrequenti esempi di completo spostamento semantico.
Maria Carmela Monteleone (Docente di storia dell'arte a Gioiosa Ionica, RC) .


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