venerdì 13 gennaio 2012

salvatore rossi libro

CONTROTEMPO
Salvatore Rossi

Prefazione
Perché questa crisi planetaria, così violenta, così onnicomprensiva, rimescolerà tutte le carte del gioco competitivo mondiale. Se la virulenza della tempesta gelerà sui rami i germogli di ristrutturazione del sistema produttivo italiano che avevamo iniziato a notare, allora potremo davvero ritenere che sia iniziata una lunga e penosa fase di declino storico del nostro paese.

Capitolo primo
PRIMA DELLA CRISI
Negli ultimi quindici anni, giusto quelli in cui l’economia nostra si fermava, il mondo cambiava pelle. La coincidenza è troppo singolare per essere solo il frutto del caso. E’ evidente, e vedremo più avanti come e perché, che la metamorfosi del mondo ci ha colti impreparati, attardati. E’ come se fossimo distratti mentre le cose ci cambiavano sotto il naso, e questo ci abbia impedito una reazione.
Ma in che consiste la metamorfosi di cui parlo?
Un aspetto di essa è certamente la cosidetta “globalizzazione”, ma non è da qui che intendo iniziare. Vorrei soffermarmi prima su un altro grande mutamento che ha rivoluzionato il pianeta precisamente in quegli stessi anni, di cui invece si parla molto meno: è cambiato il “paradigma tecnologico”.

Bene, sono proprio queste applicazioni della telematica alla vita delle imprese produttive che stanno sostanziando il cambio di paradigma tecnologico. E’ una rivoluzione silenziosa, lenta che avviene all’interno delle aziende, di tutte le aziende, di qualunque settore, privare o pubbliche, di qualunque dimensione.

UN GLOBO, UN MERCATO
Il Nuovo paradigma telematico ha enormemente favorito, direi innescato, l’altro grande fatto che ha cambiato il mondo in questi anni, quella globalizzazione.

A scatenare la globalizzazione dei nostri tempi sono state altre innovazioni scientifiche e tecnologiche: appunto quelle che abbiamo complessivamente chiamato telematica. Esse hanno abbattuto il costo del trasporto a distanza di informazioni e dati.

Fra i detrattori si annoverano innanzitutto quelli che definirei gli “apocalittici” (no global e consimili): coloro che pensano che la globalizzazione voglia dire solo disastro ecologico, sfruttamento e perdita d’identità.

Fra gli estimatori della globalizzazione vi sono invece quelli che chiamerò gli “sviluppasti”, i quali vi vedono, all’opposto degli apocalittici, l’occasione attesa da secoli per far uscire immense masse di esseri umani dalla povertà estrema e dall’oblio della storia.

Ad esempio, nelle aree emergenti dell’Estremo Oriente il reddito pro capite è aumentato di oltre il 7 per cento l’anno nella prima metà di questo decennio; fra l’8 e il 9 per cento in Cina. India e America Latina mostrano risultati inferiori, ma comunque indicativi di una salita dai recessi del sottosviluppo. Si calcola che nel mondo circa mezzo miliardo di persone abbiano potuto affrancarsi dall’estrema indigenza negli ultimi venti anni. Vi è un vastissimo corpus  di ricerche empiriche molto sofisticate che prova in modo del tutto convincente il nesso positivo tra globalizzazione – intesa appunto come aumento degli scambi commerciali, dalla mobilità dei capitali e delle persone, della diffusione delle conoscenze – e accelerazione della crescita nei paesi emergenti.

Non propriamente detrattori della globalizzazione, ma certamente critici, sono gli “egualitarismi”, cioè coloro che, pur ammettendo gli effetti di riduzione globale della povertà nel mondo, sono preoccupati per la distribuzione diseguale dei benefici nel campo dei paesi emergenti, che genera vincitori ma anche perdenti fra i poveri e i poverissimi di taluni paesi. In effetti, se in Cina il numero di poveri assoluti (intesi come coloro che non dispongono di più di un dollaro al giorno per campare) è sceso in vent’anni dal 64 al 14 per cento della popolazione, nell’Africa sub sahariana è invece salito, dal 42 al 44 per cento. I divari di reddito pro capite tra i paesi cosidetti “ad alto reddito” e quelli emergenti si sono ridotti solo per l’Asia, e in particolare per la Cina, in cui si è passati da un reddito nel 1980 pari a un miserando 4 per cento di quello del gruppo dei paesi ricchi a uno che sfiora il 20 per cento un quarto di secolo dopo. In America Latina si partiva da un buon 37 per cento e si è scesi al 25, nonostante i progressi assoluti comunque conseguiti.

Ma il dibattito più caldo si è spostato da ultimo sui paesi avanzati. Vi si fronteggiano i tradizionali schieramenti dei “liberoscambisti” e dei “protezionisti”, con vari gradi di favore e di ostilità, rispettivamente, alla globalizzazione.
I liberoscambisti sono stati la larga maggioranza, anche da noi in Italia, finché le cose sono andate bene o benino.

Le risposte di politica economica a una situazione così variegata e complessa non possono seguire ricette facili, demagogiche: né fintamente liberiste, né infantilmente protezioniste.

Capitolo secondo
LA CRISI
Ma nel frattempo arriva la crisi. Nell’agosto del 2007 inizia a scricchiolare il mercato immobiliare americano, che era stato per anni teatro di una folle corsa agli acquisti, a prezzi costantemente in rialzo, fino a livelli storicamente assurdi.

La crisi nasce evidentemente come una degenerazione della Finanza.

Finanza, mercato, globalizzazione, sono concetti a rischio di linciaggio, anche da parte di osservatori delle cose economiche normalmente moderati. Ma l’invettiva non è mai buona consigliera.

La finanza è ciò che fa funzionare il circuito risparmio-credito-investimento in una economia monetaria.

Molti sono però concordi sul fatto che il grosso dell’aumento di liquidità sia stato causato dalle politiche monetarie condotte negli Stati Unitii e in Giappone.

Ovviamente se in un’economia nazionale tutti si indebitano nei confronti di tutti bisogna che alla fine della catena vi siano dei creditori esteri sostenere il gioco. Infatti, gli Stati Uniti accumulavano un debito netto crescente nei confronti del resto del mondo, che serviva a finanziare il continuo eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni; in altri termini, il paese intero stava vivendo al di sopra dei propri mezzi.

Ad accumulare crediti nei confronti degli Stati Uniti erano (e sono tuttora) effettivamente in tanti nel mondo. Investono in quel paese (in ogni forma, dall’acquisizione di aziende all’acquisto di titoli finanziari) i soggetti più svariati, aventi in comune il fatto di appartenere a paesi che, al contrario degli Stati Uniti, risparmiavano molto e importavano dall’estero molto meno di quanto esportassero: fondi pensione giapponesi, risparmiatori tedeschi, il governo cinese, quello russo, “fondi sovrani” di paesi produttori di energia, ecc. Insomma, nel mondo si erano formati degli ampi e crescenti “squilibri globali” di ordine macroeconomico: bilance dei pagamenti in continuo avanzo in Asia, in Germania, nei paesi produttori di energia e in altri paesi emergenti.

L’INNESCO E LO SVOLGERSI DELLA CRISI
Il guaio che ha fatto precipitare le cose non si è prodotto sul terreno della macroeconomia, ma su quello della struttura finanziaria e della sua regolazione e supervisione. L’aspetto più visibile del guaio è costituito nella incredibile piramide finanziaria che era stata costruita negli Stati Uniti sopra i mutui immobiliari.
Da qualche anno le banche e ogni altro soggetto finanziatore avevano preso l’abitudine di trasformare i crediti vantati nei confronti di imprese e famiglie in pezzi di carta da vendere sul mercato a qualcun altro, tipicamente a grossi operatori finanziari, bancari e non bancari, che ne assumevano in pieno il rischio.

Il modello di far banca (detto “origina e distribuisci”) che è all’origine delle cartolarizzazioni cambia la natura stessa delle banca e fa quasi venir meno la loro ragion d’essere di intermediari che sanno selezionare gli imprenditori meritevoli di credito proprio grazie a una superiore capacità di raccogliere ed elaborare informazioni sulle imprese e sulla loro attività: infatti, se poi il rischio passa di mano, l’incentivo a bene operare quella selezione viene meno, e coloro che si assumono quel rischio sul mercato in particelle omeopatiche non hanno a loro volta incentivo sufficiente a sopportare i costi di un monitoraggio costante della buona salute dei debitori finali.

Nel momento  in cui queste note vengono scritte si stanno valutando gli effetti di stabilizzazione dei mercati e delle economie di una serie impressionante di misure prese da quasi tutti i paesi avanzati e si discute di ulteriori interventi, ancora più incisivi. Si intrecciano due piani: innanzitutto, come uscire dall’emergenze; poi, come rifondare il sistema delle regole e dei controlli sul sistema finanziario a livello nazionale e internazionale.

Il consenso sul fatto che tocchi ai governi salvare col denaro dei contribuenti le banche più cariche di “attività tossiche” (le salsicce finanziarie di cui parlavo) è unanime, non c’è purtroppo  alternativa per sbloccare la paralisi.

La rarefazione del credito alle imprese produttive, causata dalle difficoltà dei sistemi bancari, è un canale importante attraverso cui le economie reali risentono della crisi. Non è l’unico. Se i prezzi delle case e quelli delle azioni cadono molto, i consumatori che possiedono le une o le altre si spaventano e si mettono a risparmiare di più, consumando di meno, deprimendo la domanda e la produzione. A loro volta le imprese, che fanno piani d’investimento prevedendo la domanda futura dei loro prodotti, se percepiscono che questa sta indebolendosi, all’estero e all’interno, ridimensionano o bloccano i programmi di espansione. In complesso, la crescita dell’economia rallenta o s’inverte, con detrimento per l’occupazione e per i salari, retroagendo sulle stesse condizioni del sistema finanziario.

UNA MANCANZA DELLO STATO
Chi ha mancato in questa vicenda, lo Stato o il Mercato? Lo Stato, non c’è dubbio. In virtù di un paradosso.
Un risultato secolare, solido e netto, del pensiero economico è che, il Mercato, o è che, il Mercato, o è “regolato” o non è. Se lo Stato pratica un laissez faire assoluto, il libero mercato concorrenziale non dura a lungo, finisce con l’essere soffocato dalla naturale tendenza dei soggetti che vi operano ad attenuare la concorrenza o a collocarlo su traiettorie esplosive. E’ una legge di natura, una sorta di entropia.

Occorrono regole esaustive e precise, regolatori e supervisori occhiuti, attenti, non catturabili dagli interessi dei “venditori”.

La teoria standard della regolazione come basilare interesse pubblico (un lascito degli economisti che hanno lavorato fra il 1930 e il 1960) era basata su due assunzioni: che i mercati lasciati a se stessi spesso “falliscono”, per problemi di monopolio e di esternalità; che i governi sono in generale animati da buone intenzioni e sono capaci di correggere i fallimenti del mercato attraverso la regolazione. A partire dagli anni Sessanta questi assunti hanno preso a essere criticati in misura ampia e crescente, e al loro posto sono stati sostenuti i seguenti tre: 1) i mercati stessi, o al più l’esercizio di potestà regolatorie da parte di privati a ciò incaricati dall’autorità pubblica, possono porre riparo a quasi tutti i fallimenti del mercato, senza bisogno alcuno di intervento pubblico; 2) nei pochissimi casi in cui i mercati non funzionano correttamente, bastano i tribunali civili a risolvere le controversie che ne discendono; 3) se anche dovesse accadere che né i mercati né tribunali civili riescono a risolvere il problema, non ci riuscirà certamente l’autorità pubblica, che è di necessità incompetente, corrotta e “catturata” dagli interessi che dovrebbe dirimere, sicché essa può solo far peggio. Queste critiche vengono normalmente associate alla scuola di Diritto ed Economia di Chicago e ai nomi di Coase, Stigler, Posner e altri.

L’apparato di regolazione e supervisione dei mercati e degli intermediari finanziari negli Stati Uniti è state reso deboli e imbelle da scelte politiche precise e consapevoli, figlie degeneri della temperie intellettuale alimentata dalla Scuola di Chicago.

La crisi globale di questi mesi è nata nel mondo finanziario, politico, culturale americano, ed è figlia di una mancanza dello Stato: lo Stato ha mandato per inazione, non per eccesso di azione; per non aver voluto vedere e contrastare una sequenza di evidenti fallimenti del Mercato.

LA GLOBALIZZAZIONE
La globalizzazione consiste in un complesso di fenomeni eterogenei, che coinvolgono l’economia “reale” (merci e servizi prodotti e scambiati), quella finanziaria, le persone fisiche, le loro idee e conoscenze, tutti accumunati da una caratteristica: l’accentuata mobilità, anche attraverso le frontiere, consentita dalla rivoluzione telematica e dalla scia di innovazioni tecnologiche che l’accompagna. E’ la tecnologia il primum movens, anche se le politiche di liberalizzazione commerciale e finanziaria attuate in molti paesi negli anni Novanta hanno favorito il processo.

Il problema fondamentale sta, lo abbiamo visto prima, nelle regole: nazionali e internazionali.

Dalla crisi deve venir fuori un sistema globale in cui gli intermediari mettano in gioco più soldi propri (più capitale proprio) e prendano meno rischi, occupandosene comunque in presa diretta; che ubbidiscano a regole precise e incisive e siano, tutti, nessuno escluso, sottoposti a una vigilanza organica, il più possibile coordinata a livello internazionale.

La finanza va posta al riparo da chi ne stravolge senso e missione, che sia per avidità, per insipienza, per spirito corporativo, per cecità ideologica.

L’ECONOMIA ITALIANA: PREPARARSI AL DOPO-CRISI

Capitolo terzo
LE IMPRESE
E’ limitato ridurre il problema di crescita e di competitività italiana a un  fatto di specializzazione produttiva troppo orientata verso settori che sono fatalmente soccombenti.

LE IMPRESE SUL MERCATO
Per trovare quella risposta, un buon inizio è analizzare il più comune indicatore statistico di competitività, quello che si ottiene confrontando i costi del lavoro per unità di prodotto in Italia e nella media dei suoi concorrenti, esprimendoli tutti in una stessa unità monetaria. Questo indicatore combina tre fattori: le dinamiche salariali relative, quelle della produttività (perché il costo che vi si considera non è quello del singolo lavoratore ma quello della singola unità di prodotto che si realizza), quelle dei tassi di cambio. Già nei primi anni del Duemila esso offriva una evidenza netta: il costo unitario del lavoro stava crescendo in Italia molto di più che negli altri paesi, e non già perché i salari stessero aumentando in misura spropositata (al netto delle perdite di potere d’acquisto erano anzi quasi fermi); solo perché la produttività aveva smesso di progredire da noi, mentre saliva parecchio altrove.
Ma se il problema italiano stava nella stagnazione o nel regresso della produttività e si voleva proprio trovare un colpevole fuori d’Italia, nel contesto mondiale, allora non era la globalizzazione che andava evocata, ma l’altro mutamento epocale che ha interessato il mondo in questa nostra era, il cambio di paradigma tecnologico.

Una dimensione piccola e bloccata è d’ostacolo all’adozione di tecnologie avanzate, sia nella organizzazione d’impresa sia nel prodotto.

Le sorti delle imprese italiane si decidono sempre meno sul fronte strettamente produttivo e sempre più nelle attività a monte e a valle della produzione. Attività terziarie relative alla creazione del prodotto (ricerca e sviluppo, design) e del marchio (pubblicità e marketing), all’organizzazione della produzione, alla commercializzazione (rete di vendita), all’assistenza post-vendita permettono alle imprese di andare oltre la pura concorrenza di prezzo, terreno sul quale la sfida con i paesi emergenti è ardua, e di offrire un prodotto caratterizzato e differenziato.

Nel campo esposto alla concorrenza internazionale, che include quasi tutta l’industria e alcuni comparti dei servizi (quelli turistici e pochi altri), la pressione competitiva degli emergenti ha dato uno scossone al sistema delle imprese. Molte non sopravvivono; quelle che sopravvivono non sono tuttavia poche, e si ristrutturano sfruttando la tecnologia e tutto ciò che ne consegue, ridiventando competitive. Il sistema dimagrisce ma si rafforza. Il declino del paese, se è in atto, non si origina dal suo sistema produttivo.

Questo contorno ambientale influenza i loro atti, direttamente e con la mediazione di fattori psicologici come le aspettative, le percezioni. Dunque, le sorti del sistema produttivo italiano sono anche nelle mani dei decisori pubblici, per molte e complesse vie: la politica macroeconomica del saldo del bilancio pubblico, che influenza il ciclo economico; le mille politiche “micro” legate alla manovra di singole voci del bilancio, a cominciare dalla tassazione delle attività produttive e dalla panoplia dei sussidi alle imprese; infine, regole e stanziamenti per il sistema pubblico d’istruzione , che forma il capitale umano, per il mantenimento dell’ordine pubblico e l’amministrazione della giustizia, precondizione della sopravvivenza e del normale funzionamento delle imprese, per la operatività del mercato del lavoro, per la erogazione di servizi pubblici locali, per contrastare le disparità territoriali di sviluppo.

In Italia il concetto di Stato regolatore, anziché gestore, delle attività economiche si è imposto tardivamente rispetto alle esperienze di altri paesi, soprattutto anglosassoni.

Ne è dato un equivoco di fondo, alimentato presso l’opinione pubblica dai soggetti coinvolti e dai media, a volte in buona fede e altre volte no: che passare da un regime monopolistico a uno concorrenziale fosse tutt’uno con il passare da una proprietà pubblica a una privata o, ancora peggio, da una forma giuridica pubblicistica a una privatistica.

Quello che è successo in Italia in questi anni con i servizi pubblici locali a rete, nella generalità dei casi, è stata una vestizione privatistica superficiale delle vecchie municipalizzate, alle quali si è continuato ad affidare il servizio, spesso senza gara, a condizioni stabilite in modo collusivo da giunte e amministratori appartenenti allo stesso ceto politico. Il peggio del pubblico, con solo la foglia di fico dell’apparenza privata, fornita dalla forma giuridica di una bella spa. Liberalizzazione? Zero.

Una maggiore concorrenza nell’offerta di servizi consente una miglior performance a chi li usa. Nei settori industriali più dipendenti dall’imput di servizi, il valore del prodotto potrebbe aumentare fino a un punto percentuale l’anno in presenza di sostanziali liberalizzazioni nell’offerta di quei servizi.
Insomma, un’altra concorrenzialità nel mercato interno dei servizi stimola la crescita non soltanto delle imprese dei comparti interessati, ma anche di quelle che ne utilizzano l’output, a cominciare da quelle industriali esposte alla competizione internazionale.

Capitolo Quarto
LA FINANZA

I problemi economici italiani dipendono anche da una struttura finanziaria che, pur da tempo in evoluzione, fa fatica ad assumere i connotati che sarebbero richiesti per aiutare il sistema produttivo a compiere la sua trasformazione.

La public company  è una delle massime manifestazioni dell’economia di mercato, al punto da poter essere considerata un caposaldo della stessa democrazia liberale.

Da noi le public companies sono l’eccezione, non la regola. Il valore totale delle azioni quotate nella borsa italiana era pari nel 2007 (cioè prima del crollo dovuto alla crisi), al 48 per cento del Pil. In Francia era del 93 per cento, negli Stati Uniti del 145 per cento. Ma anche quando sono quotate, le aziende italiane sono, nella maggior parte dei casi, solo finalmente pubblic, mantenendo la quota azionaria di controllo saldamente nelle mani di una persona, di una famiglia o di un gruppo ristretto di persone o famiglie. Ciò viene ottenuto anche mediante il ricorso ad artifici legali, come le catene societarie scatole-cinesi, che consentono di minimizzare la dimensione della quota di controllo della società partecipata messa in fondo alla catena, o i patti di sindacato, che legano in un blocco unico quote di più soci.
L’impresa italiana tipica è, quindi, essenzialmente familiare. Molte imprese, anche di dimensione medio-grande, anche di grande successo sui mercati internazionali, non sono neanche quotate in borsa, dunque non sono contendibili nel senso prima indicato. Ma anche quelle quotate si difendono dalla odiata contendibilità con ogni mezzo.
Abbiamo visto in precedenza come il nodo centrale che attarda il sistema delle imprese italiane nell’adeguarsi al mondo cambia sotto il loro naso stia proprio nella difficoltà a cogliere le opportunità di crescita offerte dal mercato, per timore che la maggior dimensione debba implicare la perdita o l’annacquamento del controllo familiare sull’azienda. In altri termini, che ne venga messa in discussione la natura private.

Stava crescendo, ma gli scandali finanziari nostrani degli ultimi anni gli anno dato un colpo da cui ancora stentava a riprendersi prima dello scoppio della crisi, figuriamoci ora. Le banche sono quindi chiamate a coprire la gran parte delle esigenze finanziarie delle imprese italiane. Va subito detto che è così che in altri paesi dell’Europa continentale, a iniziare dalla Germania, quindi il caso italiano non è affatto isolato. Ma le nostre imprese sono particolarmente bisognose di crescere, sia quelle neonate (o anche solo concepite) intorno a una idea innovativa, sia quelle adulte che fronteggiano una opportunità di salto dimensionale, e avrebbero bisogno di più di altre dell’assistenza di intermediari specializzati nel forzare i processi di crescita.

Il sistema italiano delle imprese resta finanziariamente meno assistito di altri nei due momenti cruciali della vita aziendale; la nascita e l’adolescenza.

FINANZA PER LE FAMIGLIE
In Italia, la cattiva fama della finanza presso vasti stati di opinione pubblica aveva cominciato a diffondersi con virulenza ben prima della crisi mondiale, alimentata dai ripetuti scandali imprenditoriali a cui abbiamo già fatto cenno (Parmalat, Cirio e altri) e dalle loro implicazioni.

Agli inizi degli anni Novanta la famiglia media italiana risparmiava ogni anno il 22 per cento del suo reddito al netto delle imposte, contro tassi del 13, del 10, dell’8, del 7 e del 6 per cento in Germania, Francia, Spagna, Stati Uniti e Regno Unito, rispettivamente.

Alla vigilia dello scoppio della crisi globale il tasso di risparmio delle famiglie italiane era sceso al 9 per cento, non dissimile da quello osservato in Germania e in Francia, ma ancora molto più alto che in Spagna (3 per cento), negli Stati Uniti e nel Regno Unito, dove era divenuto addirittura nullo o negativo.

L’Italia è giunta tardi a sviluppare una finanza moderna.

DUE PASSAGGI OBBLIGATI

Capitolo quinto
IL RUOLO DEL SINDACATO

SINDACATO O PARTITO?
Nel mercato del lavoro in questo arco di tempo sono accaduti due fenomeni vistosi. Il primo riguarda la distribuzione funzionale del reddito, cioè come la torta del reddito prodotto nell’economia si ripartisce fra il lavoro e il profitto d’impresa.

Se ci spostiamo sul piano della distribuzione personale del reddito, cioè di come il reddito nazionale si distribuisce nell’intera popolazione, rileviamo alcuni ulteriori fatti assai spiacevoli: a) l’Italia era e resta uno dei paesi avanzati più sperequati del mondo, innanzitutto a causa del suo dualismo territoriale (Brandolini); b) guardando ai redditi familiari, rilevati ogni due anni da una indagine della Banca d’Italia, negli ultimi venti anni le famiglie di operai e impiegati hanno perso parecchio terreno nei confronti delle famiglie di lavoratori autonomi; c) alla metà di questo decennio il salario d’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro si era ridotto in termini reali, rispetto al 1992, del 10 per cento circa, tornando ai livelli dei primi anni Ottanta (Rosolia, Torrini).

Il secondo fenomeno che ha caratterizzatoo il mercato italiano del lavoro dagli anni Novanta è la diffusione del precariato.

Una ricerca del 2006 (Cipollone, Guelfi) ha stimato come il ricorso ai “precari” abbia consentito alle imprese, secondo un calcolo molto prudente, un risparmio di costo del lavoro fra il 10 e il 22 per cento nel periodo 1995-2003.
Accanto al grosso della forza lavoro dipende a tempo indeterminato impiegata nelle imprese maggiori e nel settore pubblico, intensamente sindacalizzata, protetta da norme, prassi e giudici, è nata allora una fungaia di lavoratori in tutto e per tutto dipendenti ma malpagati e maltrattati, in alcuni casi con uno schema previdenziale ridotto, senza la possibilità di assentarsi per malattia, senza diritto alle ferie (caratteristiche recentemente attenuate, ma non eliminate); gente di fatto ignorata dal sindacato, al di là di qualche dichiarazione retorica; sindacato a cui d’altronde essi si guardano bene dall’iscriversi.
Secondo stime del 2006 dell’Isfol i finti autonomi ammontano a 1,3 milioni di persone. Si tratta di lavoratori co.co.co., a progetto, occasionali o con partita Iva (come il figlio di Franco nel racconto che precede). A questi vanno aggiunti 2,2 milioni di lavoratori dipendenti a tempo determinato e 600 mila lavoratori dipendenti a tempo determinato e 600 mila lavoratori che subiscono involontariamente il tempo parziale. In totale, sono oltre 4 milioni (quasi un quinto del totale degli occupati) i lavoratori che hanno in Italia trattamenti economici e protezioni decisamente garantiti. Le quote sul totale salgono a oltre il 30% per i giovani sotto i 30 anni e a oltre il 50% per cento per i lavoratori al primo impiego. Gran parte dell’aumento di occupazione osservato in Italia in questi anni è stato dovuto a contratti “atipici”, che in qualche caso si sono tradotti in impieghi stabili in tempi ragionevoli, ma spesso si sono rivelati trappole senza possibilità di uscita. E non stiamo conteggiando il lavoro nero!
Come mostra uno studio del 2008 (Rosolia) è proprio alla frammentazione del lavoro nel corso dell’anno, dovuta alla diffusione del precariato, che va attribuito il calo o il mancato progresso delle retribuzioni pro capite annue osservate tra i primi anni Novanta a metà del decennio corrente.

Ricapitoliamo, con un po’ di inevitabile semplificazione: i salari da anni perdono terreno rispetto a profitti, rendite, redditi autonomi; la forza lavoro è spaccata fra una maggioranza di “anziani”, protetti da norme e prassi sindacali che perseguono la indistinguibilità dei lavoratori al costo di mortificare merito e talenti, e una robusta minoranza di “giovani” allo sbaraglio.
Mentre tutto questo accadeva, i sindacati italiani giocavano al gioco della grande politica.

Il sistema pensionistico eccessivamente generoso costruito in Italia nei primi anni Settanta fu una tipica risposta del ceto politico del tempo alla pressione montante del sindacato e delle piazze: si concede oggi anche ciò che è irragionevole e insostenibile, tanto il conto lo pagheranno domani le generazioni venture. Perché si potesse porre almeno in parte riparo agli squilibri intrinseci di quel sistema si dovette aspettare la crisi valutaria/finanziaria del 1992-95. La riforma approvata in quella circostanza gettò le basi di un risanamento che restò in parte irrealizzato, anche per la costante, ostinata opposizione dei sindacati, soprattutto preoccupati di difendere due capisaldi del vecchio sistema: mina dell’età di collocamento a riposo (attualmente 65 anni per i maschi e 60 per le femmine). Queste due caratteristiche concorrono a mantenere oggi in Italia l’età media effettiva di pensionamento poco sopra i sessant’anni, a fronte di un’aspettativa di vita residua per coloro che vanno in pensione che si colloca statisticamente sui 21 anni per i maschi e sui 26 per le femmine. Trentacinque anni fa, quando il sistema fu impostato, l’aspettativa residua di vita a 60 anni era, rispettivamente, più bassa di 4 e di 6 anni. Una età media di pensionamento così bassa, fra le più basse del mondo, e la discriminazione antifemminile implicita nell’obbligo di lasciare il lavoro cinque anni prima dei maschi, sono improponibili alla luce delle tendenze demografiche, penalizzano milioni e milioni di lavoratrici e lavoratori che prenderebbero volentieri in considerazione l’ipotesi di restare attivi più a lungo e guadagnare di più, magari con modalità flessibili di impiego; penalizzano quei datori di lavoro che in numerosi casi preferirebbero mantenere, anch’essi nelle opportune forme flessibili, preziose riserve di esperienza; compromettono l’equilibrio delle finanze pubbliche, impedendo di dirottare risorse finanziarie adeguate verso obiettivi più urgenti e meritevoli, come ad esempio una rete di ammortizzatori sociali più efficaci ed equi, la cui esigenza in Italia è particolarmente avvertita nei casi di avversità grave del ciclo economico, come quella che stiamo vivendo.

Dunque l’atteggiamento sindacale in questi anni è stato di pura conservazione ideale, animata dall’ansia di continuare a svolgere un ruolo politico generale purchessia.

Capitolo sesto
LA CULTURA GIURIDICA

IL DIRITTO, LA GIUSTIZIA, L’EFFICIENZA
Che le forme fondamentali dell’agire economico (i commerci, gli investimenti) deperiscano e si spengano in assenza di saldi diritti di proprietà e di regole efficaci per l’applicazione dei contratti ce lo hanno insegnato secoli di pensiero politico ed economico, da Montesquie ad Adam Smith. In linea con questa tradizione possiamo affermare che una delle più antiche e pervivaci ragioni dell’irrisolto difetto strutturale di produttività del sistema economico italiano sta proprio nel mancato riconoscimento, nelle norme giuridiche e nelle prassi giudiziarie e amministrative presenti nel paese, delle ragioni del mercato e dell’efficienza economica, se non addirittura in un’aperta ostilità.

L’Italia è di gran lunga il fanalino di coda nell’ampio novero dei paesi avanzati, con una durata media dei procedimenti civili almeno tripla di quella altrui. Un’autentica catastrofe.

Perché tutto questo? Al fondo, il problema è culturale. Nel nostro sistema di pensiero la giurisdizione è intrinsecamente a-economica: essa è espressione di sovranità e garanzia dei diritti, dunque è una funzione senza costo e senza tempo, in cui ogni singolo processo ha valore assoluto (Mirabelli). Questa assolutezza di principio esclude che si proceda a una valutazione di costi-benefici per la collettività, perché il solo bene in gioco è l’affermazione del diritto controverso, che non è un “servizio” ai cittadini ma un bene di valore infinito, dunque da perseguire costi quello che costi e senza limiti di tempo. E’ una concezione astratta e statica (ancora Mirabelli), destinata a rivelarsi incompatibile con il funzionamento di una economia moderna se non sarà sottoposta a una profonda revisione.

La cultura e la tradizione giuridiche italiane appaiono essere, nel manifestare ostilità per il mercato e le libertà economiche, un caso estremo nel ventaglio dei paesi che si rifanno alla tradizione di civil law, cioè di un diritto basato sulla legislazione dello Stato.

Mentre i sistemi di common law si adoperano principalmente a sostenere il libero operare dei mercati, quelli di civil law preferiscono sostenere l’intervento dello Stato; i primi assicurano, nella maggior parte dei casi, risultati economici superiori, mentre non è dimostrabile che i secondi consentano, pur all prezzo di un minor benessere economico, un miglior accesso alla giustizia o una maggiore equità dei giudizi.

Il punto nodale si conferma essere di ordine culturale: di filosofia del diritto di costumi. Riguarda  il nesso fra diritto e mercato. Su questo nesso sono state scritte recentemente da Angelo Panebianco alcune pagine che ritengo illuminanti. Nel commentare l’affermarsi nell’Europa continentale – segnatamente in Germania e in Italia – del liberalismo statalista come variante indebolita del liberalismo giuridico, egli ne vede l’origine di una tradizione culturale che crede nel primato morale dello Stato, tempio in cui custodire l’ara del bene collettivo, sulla società, palude di interessi egoistici. Questa tradizione forgia da sempre le elites politiche, amministrative e intellettuali, privilegia la formazione giuridica nell’accesso a queste, affida l’insegnamento universitario, così come l’amministrazione della giustizia, a dei funzionari pubblici. In questo clima culturale il concetto economico di libero mercato suscita diffidenza: la libertà nell’agire economico è vista come fonte di disordini e periodi, dunque come moralmente subordinata a tutte le altre manifestazioni della libertà. Nella vigente Costituzione italiana a quella libertà non si riconosce nemmeno lo status di diritto fondamentale, ma solo quello, inferiore, di interesse legittimo.

“A cominciare dal livello costituzionale, è necessario ripensare l’intera cornice del diritto positivo entro cui l’economia italiana opera” (Ciocca). Per questo, occorre una vera, profonda, vasta rivoluzione culturale, che solo la migliore scuola giuridica italiana potrà e saprà promuovere.

RITROVARE IL TEMPO GIUSTO
La crisi è globale in un duplice senso: non risparmia alcun aspetto della vita economica e sociale, dalla finanza più sofisticata alle code dei disoccupati davanti agli uffici di collocamento; investe tutto il mondo, a cominciare dalla potenza militarmente ed economicamente egemone fino ai paesi più poveri e marginali.

Dagli anni Novanta, di fronte alle novità rivoluzionarie delle tecnologie digitali e della globalizzazione, l’Italia e la sua economia fanno fatica.

Organizzazione del  lavoro e assetto giuridico-istituzionale sono i due campi in cui il nostro paese deve attuare le riforme più profonde.


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