venerdì 13 gennaio 2012

ECONOMIA CRIMINALE libro

ECONOMIA CRIMINALE
Roberto Galullo

UN'ITALIA SENZA MAFIA

Capita a tanti, arrivati all'età adulta, di ripensare agli anni della scuola con un misto di rimpianto e indulgenza, pronti a sorridere di tante fesserie compiute e sogni che la realtà -la più dura delle maestre - ha rivelato vani. Capita anche a me: con una eccezione. Al liceo, con un pugno di ragazzi alcuni oggi famosi in Italia, organizzavamo assemblee e dibattiti non sui temi di una generazione, da Parigi a Berkeley, ma su un fenomeno di cui pochi parlavano. La mafia, la criminalità organizzata.
Era allora opinione diffusa che la criminalità organizzata, i suoi legami con la classe politica, l'effetto di corruzione che produce nella società civile, il logorio che induce sulle aziende sane, mettendole fuori business e lasciando prosperare quelle non competitive ma affiliate, fosse evento residuale. Figlio dei tempi della guerra per l'acqua, la fine del latifondo, la riforma agraria, la rottura di un sistema feudale che in Sicilia era durato fino alla seconda guerra mondiale. Il luogo della ricerca storiografica di Francesco Renda e del kolossal di Peppuccio Tornatore Baarìa. Ancora a metà degli anni Sessanta la gerarchia cattolica poteva dire che "la mafia è un'invenzione dei giornali del Nord", e la politica auspicare, a volte perfino in buona fede, che l'industrializzazione del Mezzogiorno potesse mettere, pian piano, fuori gioco i padrini.
Fu una rivista inglese, la New Left Review, ad argomentare come la mafia sapesse trasformarsi da racket dei campi e dell'irrigazione in struttura urbana, prima organizzando il traffico degli stupefacenti, poi realizzando un network di controllo del consenso politico radicale e infine - come poi ha dimostrato Roberto Saviano - diventando globale. Una holding capace di produrre a Kabul, vendere a New York, trasformare a Marsiglia e Palermo, distribuire in ogni capitale europea e latino americana, con un just in time e un controllo qualità che la Toyota si sogna.
Come noi liceali avessimo intuito tutto questo non so bene. Ci ispirò credo un certo criterio di sussidiarietà, occuparci dei guai vicini e fare qualcosa. La politica arricciò il naso, "la mafia è un relitto, parliamo di modernità" sentii dire a un futuro segretario di partito. Peccato che, come poi dimostrarono Ivan Lo Bello e Antonello Montante schierando la Confindustria di Sicilia contro il racket, la mafia, produzione criminale, fosse l'ostacolo irriducibile a ogni innovazione e sviluppo industriale, dei servizi, del terziario e civile.
La vita e il lavoro mi portarono poi via molto presto dalla mia città e di mafia non mi occupai più. Se non quando il Corriere della Sera decise di catapultarmi da Manhattan alla Kalsa per raccontare il diario di una Palermo in lutto per la morte di Giovanni Falcone e quando, alla testa del Tg 1, invitai l'allora presidente di Confindustria, Luca Montezemolo, a dare man forte ai suoi uomini in Sicilia. Il giorno dopo il Financial Times riprese l'intervista e il mondo scopri che l'Isola era finalmente schierata in ogni suo settore, gli studenti, gli intellettuali, i produttori, la chiesa, contro il racket.
È quindi con gioia e passione che seguo il lavoro del mio collega Roberto Galullo, che con tanti altri, al Sole 24 Ore e in altri giornali, tiene ora il suo diario di denuncia e inchiesta contro la mafia. Per capire appieno queste pagine, la forza che hanno dietro, lo slancio che può portare anche ad alzare la voce, nel senso del monito del vecchio poeta tedesco "noi non si potè essere gentili ... " a coloro che verranno, dovreste conoscere Roberto. La sua scrivania ingombra di ritagli e testi sul racket, le sue telefonate con magistrati e inquirenti, i suoi viaggi e le sue vigilie in tribunale, sui luoghi del delitto, a rileggere un bilancio taroccato. Perfino il suo colletto della camicia slacciato, da cui fa capolino, fiera, la Lupa della Roma Calcio.
Le pagine che seguono hanno la stessa sfrontatezza e lo stesso impegno. Non trovate da ridire davanti a questa o quella affermazione, non argomentate con sottigliezze capziose contro questa o quella conclusione. Si può dissentire su questo o quell' episodio, non essere d'accordo con Roberto su questo o quel personaggio. Ma senza le spallate che i reporter, i giornalisti capaci di credere ancora nel bene e nel male, i collettori di realtà - la dura madre - si ostinano ad affibbiare, torneerebbe anche oggi la stessa indolenza pubblica dei miei anni al liceo. La Mafia? Non esageriamo!
Queste inchieste, questi personaggi, questi traffici, queste denunce, quando le condividerete e quando vi lasceranno con un dubbio dentro, hanno un merito. Ci richiamano tutti a guardare a questa Italia 2010, a un passo dal compleanno di un secolo e mezzo, come un'inncompiuta. Lo sviluppo economico smantellerà, sola medicina, il racket. È l'impegno nazionale più importante in occasione del centocinquantesimo anniversario dell'Unità d'Italia e il libro di Galullo è un omaggio a questa Unità.
Leggetelo dunque per imparare, ricordare. lo l'ho letto con la stessa emozione con cui ricevetti il Premio don Puglisi per le inchieste tv che avevamo sviluppato sulla mafia. L’idea che un impegno non sia mai venuto meno, da ragazzi a oggi, che altre intelligenze e professionalità siano in prima fila e che la criminalità organizzata, come tanti efferati spettri del XX secolo, abbia i giorni contati.

Gianni Riotta - Direttore Il Sole-24 Ore
twitter @riotta

PREFAZIONE

Più che i numeri contano i fatti. Che in Italia l'economia criminale fatturi 100 miliardi all'anno, poco più o poco meno, come affermano fonti statistiche qualificate, nulla importa.
Cosi come poco vale che la sola' ndrangheta -la più potente tra le mafie italiane e tra le più violente nel mondo grazie all' asse con i narcotrafficanti sudamericani - ricavi ogni anno dalle sue attività economiche criminali oltre 51 miliardi.
La sensazione è che i numeri siano sempre stimati per difetto. Torna in mente l'esempio del magistrato antimafia Nicola Gratteri. In un'intercettazione telefonica in stretto dialetto calabrese, due uomini di ' ndrangheta ridevano perché per lungo tempo avevano dimenticato dove avevano sotterrato 2 miliardi di lire in contanti. Quando se ne ricordarono, scoprirono che le banconote erano state rosicchiate dalle talpe o erano marcite. I due ridevano perché i soldi - sporchi o ripuliti nella lavatrice internazionale del riciclaggio - per le mafie non sono mai un problema. I capitali sono illimitati, come scrive il sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi nella sua ultima relazione sulla presenza delle cosche calabresi in Lombardia.
Quel che conta sono i fatti e i fatti raccontano che le mafie, le cui radici malate sono nel Sud, stanno ormai infettando l'intero corpo socionomico italiano. La metastasi ha raggiunto, da anni, il cuore pulsante del Paese, a partire dal Nord ricco e sviluppato. E in tempo di crisi la metastasi si diffonde ancor più velocemente.
E’ questo il motivo per cui la trama del libro si sviluppa partendo proprio dalle regioni del profondo Nord per poi scendere verso il Centro-Nord, con una sola presenza delle regioni meridionali: la Calabria, buco nero politico, economico e sociale, in grado di infettare l'intera Penisola anche grazie alla infelice scelta del confino attuato negli anni Settanta. Come ha messo nero su bianco l'ex superprefetto di Reggio Calabria, Luigi De Sena, mandato lì a riaffermare la presenza dello Stato subito dopo l'omicidio nel 2005 del vicepresidente del consiglio regionale Francesco Fortugno, passeranno almeno due generazioni prima che la Calabria possa mettersi a pari con il resto della società civile italiana. Parole durissime per chiunque abbia a cuore le sorti del Paese.
Il Piemonte - pochi ne hanno memoria - conta la morte per mano di una cosca calabrese di un magistrato incorruttibile, Bruno Caccia, che fin dagli anni Ottanta aveva capito che in regione la 'ndrangheta non solo aveva soppiantato con i suoi vincQli di sangue Cosa Nostra ma, in più, aveva intuito che il ciclo del cemento (dal movimento terra alla consegna chiavi in mano degli immobili) sarebbe stato il business miiliardario in cui investire i soldi provenienti dalle solite attività crimiinali: racket, usura e traffico di droga.

Cosi in Liguria e in Lombardia che si prepara, nei prossimi anni, a investimenti enormi in vista di Expo 2015, la vetrina internazionale non solo di Milano ma dell'intero Paese. Quella vetrina rischia di essere imbrattata da affari sporchi.
Perfino il Veneto dove - ricorda un comandante della Guardia di Finanza, Ignazio Gibilaro - un tempo le mafie di importazione sarebbero state respinte, fa oggi i conti con la presenza sempre più massiccia dei Casalesi che qui si spingono non solo a investire nel mattone ma perfino a occupare le spiagge dove svolgere i propri traffici leciti e illeciti.
I fatti raccontano di episodi che, fino a qualche anno fa, sarebbero stati prerogativa delle regioni del Sud, dove l'omertà è spesso un artificio per sopravvivere quando non si ha la fortuna o la possibilità di scappare lontano. Il controllo del territorio - che nel Mezzogiorno è prassi in vaste aree - comincia ad affacciarsi anche nel Nord: in alcuni quartieri di Milano, a esempio, o in Comuni del Varesotto che fanno i conti con il silenzio delle Istituzioni rotto da qualche voce coraggiosa. A fine aprile, a Monza, si è svolta la prima udienza contro alcuni esponenti di una famiglia di 'ndrangheta. Il Tribunale era superblindato, misure eccezionali di sicurezza, decine di poliziotti e Carabinieri mobilitati per prevenire rischi di fuga. E sorprende notare che se a Reggio Calabria la folla applaude spesso il boss catturato anziché chi lo ha assicurato alle patrie galere, a Lonate Pozzolo, a due passi dall'aeroporto internazionale di Malpensa, c'è chi lascia solo un candidato sindaco che nella fiacco lata contro le cosche non trova al proprio fianco neppure un concittadino.
La speranza, allora, è che le nuove generazioni, dal Nord al Sud, quelle degli studenti che non conoscono colore politico e razzismo, si sveglino dal torpore che spesso li avvolge per scuotere le proprie coscienze e quelle di tutti gli italiani. A questo scopo, oltre che la famiglia e la Chiesa, è fondamentale la scuola. Come spesso ripeteva lo scrittore siciliano Gesualdo Bufalino, la mafia si sconfiggerà con un esercito di insegnanti. Fondamentale appare anche il ruolo di chi ogni giorno fa impresa sul territorio in maniera pulita e onesta rispettando le leggi e le regole del mercato. Chi altera la concorrenza con stile mafioso danneggia innanzitutto loro e poi l'intera spina dorsale del Paese. Benvenga allora il grido di richiamo dei sindacati, delle associazioni economiche e di categoria e di Confindustria, che stanno alzando un muro ogni giorno più alto contro la violenza economica e sociale delle mafie. Mettere un mattone dopo l'altro in quel muro non è facile perché c'è sempre, dall'altra parte, chi cerca di distruggerlo. La differenza, questa volta si, sta nei numeri oltre che nei fatti e nei comportamenti: se gli italiani onesti saranno una maggioranza vigile e attiva, sarà difficile che l'armata Brancaleone dei mafiosi riesca a distruggere di notte il muro della legalità che si alza di giorno.

http://robertogalullo.blog.ilsole24ore.com


CHAMPAGNE DEI BOSS, SLALOM SPECIALE DELLE COSCHE E INFILTRAZIONI AD ALTA VELOCITA’

PIEMONTE E VALLE D'AOSTA

"La democrazia vive di buone leggi e buoni costumi'
Norberto Bobbio

Ogni storia che si rispetti è fatta di facce e nomi. Per raccontarle bisogna partire da qui. Sempre.
In Piemonte i volti e i nomi da cui cominciare il racconto dell' economia criminale e di chi ad essa si oppone sono due. Facce della stessa medaglia: quella che unisce il bene e il male. La storia del mondo insomma e non si può quindi pretendere che il Piemonte, dopo aver fatto la storia d'Italia, faccia storia a sé nell' economia criminale.

La mia è una scelta arbitraria. Tanti nomi e tante facce avrebbero potuto essere scelti per raccontare il bene e il male, il bello e il brutto. L’anima bianca e quella nera negli affari.
lo ne ho scelte due. Poco note ma straordinarie. Una, una sola degna.
La morte di Caccia, magistrato incorruttibile
Il primo volto, il primo nome è quello di Bruno Caccia.
Caccia - magistrato riservato e capace - fu assassinato a Torino il 26 giugno 1983 perché aveva ficcato il naso negli affari sporchi di alcune famiglie della 'ndrangheta che (anche) in quegli anni spadroneggiavano a Torino e in Piemonte.
Questo sostituto procuratore che nel 197 4 istruì il primo processo contro le Brigate Rosse, che nel 1980 fece emergere un nuovo scandalo petroli, aveva toccato anche i traffici di cocaina e scoperto forme di riciclaggio delle cosche calabresi. Soldi sporchi, tanti soldi sporchi che inquinavano l'economia, distorcevano il mercato e sporcavano la concorrenza.
Venticinque anni dopo, il 27 febbraio 2008, stretti intorno alla bara della moglie di Caccia ucciso per ordine dei Belfiore, una delle cosche regine, e non per la mano armata di un brigatista, i magistrati presenti, le Forze dell'Ordine e gli amministratori pubblici avranno ripensato a quell' omicidio eccellente al Nord e alla situazione descritta pochi giorni prima dalla Commissione parlamentare antimafia, che tanto aveva fatto arrabbiare Sergio Chiamparino, sindaco di Torino.
In un'intervista resa a Nando Dalla Chiesa per il numero di marzo 2006 di "Narcomafie", la moglie di Caccia, Carla Ferrari, testimoniò l'importanza della storia di suo marito. Della faccia di suo marito. "Per me è importante che si torni a parlare di una storia che è rimasta confinata in territorio subalpino - dichiarò con pudicizia al figlio di un' altra vittima di mafia, piemontese anch' egli -. Mio marito ha dato se stesso per la magistratura e la sua morte è la prova della pervasività e della pericolosità delle organizzazioni mafiose, che ormai da decenni non sono più un fenomeno limitato al Sud Italia':
La vita di quell'uomo, burbero e crudo, incrociò quella di Domenico Belfiore, trasferito da Gioiosa Jonica a Torino. Uno dei tanti calabresi giunti qui volontariamente e non per il confino.
Già, il confino, una delle maledizioni della politica italiana. Vai fuori, ti allontano, era il generale ragionamento dello Stato, cosi non delinqui più a casa tua.
Per le cosche e i clan il confino è stato come prendere due piccioni con una fava. A casa propria le radici sono talmente profonde che reciderle è impossibile. Se non delinque chi viene allontanato, delinque qualche erede delle famiglie. Ma a casa degli altri s1. Oh se è possibile delinquere. Senza fatica. Senza sforzo. Prima taglieggiando i paisà e poi da Il spiccare il volo è facile: soldo chiama violenza e violenza porta soldo. Belfiore era riuscito a ritagliarsi un ruolo da vero e proprio boss. Tra il 1970 e 1980 era diventato il referente piemontese di una potente cosca calabrese. L’area torinese, ricca ed operosa, si era dimostrata zona ideale per arricchirsi al mercato dell'illecito. Di ogni illecito. Belfiore - come si legge sul sito www.cascinacaccia.liberapiemonte.it che prende il nome dalla proprietà di mille metri quadrati, circondata da un ettaro di terreno coltivabile, già di proprietà della famiglia Belfiore, definitivamente confiscata alla mafia il 12 luglio 2007 e ora data in gestione al gruppo Abele - conosceva le persone giuste: affaristi spregiudicati, altri boss, ma anche poliziotti e magistrati. Ma Caccia no. Lui non si poteva corrompere.
"Con lui non si poteva parlare, ammise in Tribunale Domenico Belfiore che nel 1992, dopo 5 gradi di giudizio, venne riconosciuto mandante dell' omicidio e condannato all'ergastolo, mentre gli esecutori materiali del delitto sono tutt' ora sconosciuti.
In quegli anni i calabresi sporchi "fuori" lavoravano in Fiat con le loro tute macchiate di sudore e olio di motore, quelli sporchi "dentro" già controllavano ristoranti, esercizi commerciali e la grande intuizione negli anni del boom economico: materiale edile ed imprese edili. Qualcuno azzardò che controllassero persino il bar del Tribunale dove, forse, lo stesso Caccia, qualche volta avrà sorseggiato un caffè con i colleghi. Qualcuno avrà pianto al funerale della vedova quel 27 febbraio 2008, qualcun altro non si sarà neppure presentato. E non per ragioni di riservatezza ma perché, forse, anni prima, il caffè lo aveva consumato anche con coloro ai quali Caccia non dava neppure la possibilità di bussare alla porta.

La vita di Lo Presti

Sull'altra faccia della stessa moneta, un'altra effigie. Un altro nome. Quello di Rocco Lo Presti, soprannominato il padrino di Bardonecchia, un comune dove i ricchi e i meno ricchi continuano a sciare a due passi da Modane, nell'Alta Val di Susa, all'imbocco del traforo del Frejus. Bardonecchia, il cui consiglio comunale nel 1995 fu sciolto per infiltrazione mafiosa e commissariato dallo Stato.
ECONOMIA CRIMINALE
Lo Presti era salito in montagna nel 1963 spedito, lui sì, al confino. Forse sarà sbarcato in calzoni di cotone e camicia e, forse per questo, in alta quota aprirà e gestirà un negozio di abbigliamento con regolare certificato antimafia. Anche lui veniva da Gioiosa Jonica. Ma dalla Marina, dove la salsedine aggredisce meno della ' ndrangheta che lì si respira anche quando sei morto.
Lex muratore Lo Presti - che nel 1957 venne arrestato per spaccio di banconote false - si sposa bene. Non perché impalma la sorella di un boss ma perché giura amore al clan 'ndranghetista Mazzaferro. La sua scalata non conosce soste: edilizia, autotrasporto, bar, negozi, sale giochi, ristoranti. E pizzerie. Come Re Artù, di suo nipote Luciano Dorsino, che in Alta Val di Susa richiama commensali come miele per orsi. E raccoglie intorno alle tavolate dove si decidono gli affari anche commensali insospettabili.
La sua impresa edile lavora a pieno ritmo e cementi fica tutto quel che gli viene consentito di ricoprire con colate di calcestruzzo. Nel 1975 un imprenditore edile di Cuorgnè, Carlo Ceretto, che si era rifiutato di assumere personale segnalato dalle cosche, viene rapito e ucciso con la testa spaccata a pietrate. Per quell' omicidio Lo Presti viene condannato in primo grado, nell'82l'appello conferma i 26 anni di carcere ma nel '92 viene assolto dalla Cassazione. Ma per i giudici, come riporta La Stampa in una ricostruzione pubblicata il 6 ottobre 2008, Lo Presti "porta la mafia a Bardonecchià'.
Già nel 1976 Bardonecchia era finita nel mirino della Commissione parlamentare antimafia che aveva individuato personaggi legati alla , ndrangheta nel mondo dell' edilizia.
Il motivo di tanta attenzione è semplice. Quassù si erano rintanati anche i Mazzaferro di Gioiosa Jonica. Dei quattro fratelli, Francesco era stato spedito al confino in quel paese di 3.500 anime. Si era dedicato all' edilizia ottenendo appalti per la costruzione del traforo del Frejus. I lavori pubblici, che passione per i boss. Ieri. Oggi. Domani. Sempre. Nel 1984 un'inchiesta della Procura di Torino, che partì dal traffico di stupefacenti tra Italia e Francia capeggiata secondo l'accusa da Francesco Mazzaferro, si estese anche agli appalti pubblici dell'Alta Val di Susa. A fine '94 la Procura di Torino apre una delicata inchiesta sul Campo Smith, un grande complesso alberghiero da 650 posti letto. Per la sua realizzazione, secondo gli inquirenti, sarebbero state commesse numerose irregolarità amministrative. Il cantiere, bloccato una prima volta a ottobre, fu parzialmente riaperto e poi messo in stato di sequestro preventivo. Secondo gli inquirenti le società che curavano la realizzazione del complesso residenziale sarebbero state infiltrate da elementi in odore di criminalità organizzata.
Il 28 aprile 1995 il Consiglio dei ministri rompe gli indugi e ravvisata "l'esistenza di condizionamento degli amministratori da parte della criminalità organizzata", dopo un' approfondita inchiesta della prefettura, scioglie il consiglio. Fino ad allora lo scioglimento di un consiglio comunale, previsto dalla legge 221/91, era stato una gogna riservata alle sole amministrazioni del Sud.
Quello scioglimento non mise la parola fine alla storia. Anzi. Dopo, solo dopo si cominciò davvero a capire la pervasività dell' economia criminale in grado di prendere a calci l'economia sana grazie alle connivenze in ogni strato della società.

Il vicequestore di Torino Pier Luigi Leone, in un'udienza di fine '99, raccontò di aver "confezionato" il 15 aprile 1991, per i suoi superiori, un rapporto sulle attività edilizie in Val di Susa. Il 19 aprile, quattro giorni dopo quel rapporto, Leone fu trasferito al nucleo antisequestri in Calabria, per ragioni di ufficio. Il Leone era stato messo ... in gabbia. E poi c'è chi mette in dubbio la rapidità e l'efficienza della burocrazia!
Il 18 aprile 2002, dopo un anno e mezzo di dibattimenti, Lo Presti fu condannato a 6 anni di reclusione per associazione di stampo mafioso. La condanna non è interessante quanto il quadro di omertà, controllo del territorio, rapporti dei boss con la politica e le Forze dell'Ordine descritto dai magistrati in 200 pagine di motivazione. "Molteplici - scrivono i giudici - sono le ragioni che ci inducono a ritenere radicata nel territorio di Bardonecchia, sin dagli anni Settanta, un'associazione mafiosa di origine calabrese facente capo inizialmente a Francesco Mazzaferro e in seguito a Rocco Lo Presti ... Innanzitutto viene in evidenza la condizione di omertà e di assoggettamento in cui versano i cittadini e i lavoratori operanti a Bardonecchia e in Valle di Susa ... si assiste a una progressiva sottrazione delle attività produttiva al controllo dello Stato e di una netta ingerenza nella vita politica" .
Sembra una relazione scritta per uno dei tanti Comuni sciolti al Sud. Invece siamo a due passi dalla Francia e a pochi chilometri da Torino, nel 1861 e fino al 1865 prima capitale del Regno d'Italia.

Una valle di lacrime e champagne

Nel 1007 il processo di appello spianò la strada alla conferma in Cassazione della prima e unica condanna per associazione mafiosa di Lo Presti, giunta il 15 gennaio 2009, qualche giorno prima della sua morte, il 23 gennaio 2009, nel reparto detenuti dell' ospedale torinese Molinette. Roccuzzo, 72 anni e da tempo malato, era stato nel frattempo arrestato per usura a febbraio 2008. Gli venne contestato un giro di denaro di 3,5 milioni con tassi del 10% mensile. Come si legge su www.lavaldisusa.it patteggiò 3 anni.
E fu proprio mentre i magistrati stavano indagando che saltò fuori la storia di un progetto politico di voto di scambio alle europee del 2004. La politica del resto era un pallino fisso per il boss di Gioiosa, che secondo alcune fonti confidenziali di Bardonecchia, ovviamente impossibili da dimostrare e magari frutto di leggenda, era in grado di manovrare almeno un terzo dei voti del paese. Nel mirino del voto di scambio i fondi Ue che in Piemonte non sono così copiosi come in Calabria, ma sono pur sempre una manna dal cielo per chi vive di sotterfugi.
Il giorno dopo la morte del boss l'Alta Valle di Susa si risveglia in una valle di lacrime. Il quotidiano Cronacaqui tra il 24 e il 27 gennaio 2009 pubblicherà una serie di servizi che illustreranno, più di ogni altro commento, il potere sociale ed economico del vecchio Lo Presti al quale la badante romena teneva più di ogni altra cosa, tanto da cercare di consolarlo, il 6 novembre 2006, con una tazza di cappuccino bollente rigorosamente senza zucchero a causa del diabete galoppante del "badato".
Nei bar, per le strade, nei ristoranti, insomma dappertutto, in questi giorni - scriverà a esempio il quotidiano "Cronacaqui" il 27 gennaio - si sentono espressioni di solidarietà per il defunto. E giù con i dipinti. "Era un benefattore che in passato ha costruito tante belle case dando lavoro, vitto e alloggio a molte persone che lo chiamavano familiarmente Zio Rocco. Ricordo che portava tutti i suoi operai a pranzo e cena al ristorante Edelweiss, oggi Gaucho': ''È sempre stato perseguitato dalla giustizia e quando ha sbagliato ha pagato, ma di certo anche per altri':
"Finalmente quel pover'uomo ha finito di soffrire': "Veniva tutte le mattine nel mio bar sotto casa sua e spesso offriva da bere. Sempre cortese, mai una discussione o un'intemperanza': "in occasione delle elezioni comunali c'era la fila di candidati che andavano da lui a chiedere voti e poi le stesse persone, in seguito, gli hanno girato le spalle':
Del resto Rocco Lo Presti viveva come un boss. Non come quelli siciliani che vengono beccati dopo una latitanza decennale trascorsa a pane e cicoria ma come quelli che il cinema americano faceva passare nelle pellicole degli anni Ottanta. Quando nacque il primogenito di Rocco Lo Presti, Salvatore, si narra che 300 ospiti si radunarono al Grand Hotel Riki per bere, ballare e cantare al suono delle canzoni di un calabrese doc, il mito della musica popolare Mino Reitano, nato a Fiumara, Sciumara 'i muru in dialetto reggino, il 7 dicembre 1944 e morto al Nord, ad Agrate Brianza, il 27 gennaio 2009. Mescolate tra la folla anche le facce di chi, in quell' albergo, non avrebbe proprio dovuto esserci.
Tra le poche voci fuori dal coro in paese, dopo la morte di Lo Presti, quella di Mario Corino, sindaco democristiano di Bardonecchia negli anni dal 1972 al 1977. Un giorno in piazza Statuto a Borgo Nuovo tenne un comizio per denunciare apertamente la presenza mafiosa nella cittadina, tanto che l'allora settimanale "Candido" titolò a tutta pagina "Bardonecchia come Corleone" facendo riferimento al racket delle braccia. Spiegò Corino a "Cronacaqui": "Di fronte alla morte io taccio e lascio parlare i suoi presunti eredi morali o gente mossa dall'opportunismo. Mi stupisco che dopo tutte le vicende giudiziarie ci sia ancora chi inneggia a Lo Presti. D'altronde più del 50% della etnia di Bardonecchia è formata da calabresi, gente dello stesso sangue':
Quel Corino al quale Lo Presti un giorno - cosÌ raccontano alcune inverificabili leggende di Bardonecchia - brindò con due bottiglie di Dom Perignon lanciate in strada gridando: "perché solo noi dobbiamo bere champagne? Bevilo anche tu, Corino, ma da sdraiato" .
Strana gente quei calabresi che ballano sul confine dell'illegalità, tanto che spinsero l'allora sostituto procuratore della Repubblica a Torino, Maurizio Laudi (morto il 24 settembre 2009), a dichiarare nel corso del convegno "La mafia invisibile" organizzato il 9 e il 10 novembre 2007 dall'associazione milanese Saveria Antochia Omicron che "attualmente il problema della criminalità organizzata in Piemonte e Valle D'Aosta si qualifica al 90% come un problema di 'ndrangheta. Nel nostro territorio, infatti, abbiamo un numero considerevole di soggetti e di famiglie provenienti dalla Calabria che sono da tempo residenti in Piemonte: mi riferisco in particolar modo alla città di Torino ed al suo hinterland, ma anche a province diverse, come la zona del verbano, quella dell'alessandrino o quella delle valli che da Ivrea conducono alla Valle D'Aosta. Queste famiglie, che sono ormai da molte generazioni radicate sul territorio, di sicuro mantengono rapporti strettissimi con le famiglie madri che si trovano in Calabria, sia sulla costa tirrenica che su quella ionica. Attualmente il problema maggiore per il nostro territorio, anche se sarebbe sbagliato parlare di emergenza, visto che si tratta di realtà che sono andate consolidandosi nel tempo, sono proprio queste famiglie di 'ndrangheta". Già, strana gente quei calabresi che ballano sul confine tra legalità e illegalità, al punto che La Stampa con tre inchieste a maggio 2008 condotte nel giro di pochi giorni parlò di una vera e propria lobby del voto a Moncalieri. Il giornale raccolse anche la testimonianza di un ex candidato che svelò che per 1.500 euro gli sarebbero state garantite 200 preferenze elettorali. Vale a dire 7,5 euro a voto. Una corruzione trasversale: destra, centro o sinistra, per i signori dei voti e degli affari non c'è alcuna differenza.

I favolosi anni Novanta a tutta finanza

Anche la relazione della Commissione parlamentare antimafia che nella XIV legislatura dedicò una parte importante al fenomeno mafioso in Piemonte e Valle d'Aosta prese coscienza della pervasività dell' economia criminale. "Sono prevalenti - si legge nella relazione scritta nel 1994 - gruppi calabresi e siciliani, questi ultimi di origine soprattutto catanese e gelese, mentre non si riscontra una presenza degna di rilievo di esponenti della Sacra corona unita e della camorra anche se, con riferimento a quest'ultima, nella provincia di Alessandria sono stati rilevati interessi del clan dei Casalesi ed in quella di Cuneo, del clan Tèmpesta. Le principali attività illecite delle organizzazioni criminali, oltre al traffico di stupefacenti e di armi che rappresentano i settori più rilevanti, sono le estorsioni, il cosiddetto totonero e video poker, l'usura':
E più avanti si leggerà qualcosa di ancora più inquietante, vale a dire le connessioni con il mondo della finanza e l'emersione della cosiddetta ('zona grigia', fatta di colletti bianchi e amministratori. "Nelle due regioni in esame non risultano infiltrazioni mafiose nel settore industriale - scrissero i commissari parlamentari - mentre si segnalano situazioni sospette in quello finanziario. Le ingenti somme di denaro che derivano dal traffico di droga possono essere riciclate direttamente attraverso le società finanziarie, anche se, per quanto accertato, sembrano prevalenti altre forme di investimento nell'economia legale, come la costituzione o acquisizione di imprese, in particolare nei settori dell'edilizia e del commercio. I proventi illeciti che le organizzazioni criminali otttengono vengono solitamente reinvestiti in operazioni immobiliari ovvero in attività commerciali e imprenditoriali, apparentemente lecite, gestite molto spesso da prestanome. Le organizzazioni operanti in Piemonte, radicate sul territorio dagli anni '70, godono di una struttura d'appoggio più che collaudata che annovera anche commercialisti e professionisti che operano comunque esternamente alle associazioni'~
Esponenti politici e amministrativi di alcuni comuni della Val d'Ossola, a inizio anni Novanta, furono arrestati con l'accusa di aver tutelato gli interessi di una cosca della' ndrangheta insediatasi nella zona. In quegli stessi anni si assistette a una proliferazione di società finanziarie e fiduciarie che possono costituire un rilevante canale di riciclaggio di denaro sporco. Secondo la Guardia di Finanza, già nel 1993, il numero elevato di queste società, 2.138 nella sola provincia di Torino, di cui ben 1.805 nella città capoluogo, costituiva un "campanello d'allarme'~ Gli accertamenti sul movimento dei flussi di denaro, come in genere tutte le indagini di tipo finanziario, presentano molte difficoltà che spesso rendono infruttuose verifiche e accertamenti. L’ Ispes (l'Istituto per la Promozione dello Sviluppo Economico e Sociale) stimò in 4.000 miliardi delle vecchie lire il fatturato del crimine in Piemonte nel 1992. Oggi, verosimilmente, quella cifra va moltiplicata per tre.
A metà anni Novanta, secondo i dati del Ministero dell'Interno aggiornati al 1994, sarebbero state in totale 18 le organizzazioni criminali di tipo mafioso attive nelle due regioni e circa 1.000 i soggetti ad esse complessivamente affiliati.
La sezione anticrimine del Ros di Torino, con la collaborazione dei coomandi dell'Arma territoriale, ne avrebbe invece individuate ben 52 in Piemonte ed 8 in Valle d'Aosta, di cui 33 gruppi mafiosi solo a Torino e nel suo hinterland, così suddivisi: 25 collegati a cosche della' ndrangheta, 5 a famiglie di Cosa Nostra siciliana e 3 a clan della camorra. Il numero complessivo di affiliati era di circa 230 soggetti e circa 138 sarebbero stati i fiancheggiatori.
In Piemonte la 'ndrangheta c'è e si vede anche quando non si vede. Non si spiegherebbe altrimenti l'approvazione di una legge che prevede misure per prevenire la criminalità. La legge è di giugno 2007 e a premere perché fosse approvata è stata, per oltre due anni, Libera, l'associazione fondata da Don Luigi Ciotti.
La Commissione nazionale antimafia non mentiva sulle infiltrazioni nelle amministrazioni comunali per pilotare gli appalti. No, non mentiva e, forse, come spesso accade, la realtà è molto più avanti rispetto a una fotografia istantanea pubblicata su una relazione parlamentare. "Appare quest'ultimo - dichiara il sostituto procuratore nazionale Vincenzo Macrì della Direzione nazionale antimafia - il nuovo settore d'interesse, condotto attraverso attività più difficili da investigare, perché riconducibili all'area apparentemente legale dell'economia, ma che nasconde in realtà reati come riciclaggio, corruzione, estorsione e concorrenza illecita'~ Già nel 2003 alcune indagini condotte in gran riservatezza in un grosso Comune (senza soluzione di continuità da Torino) svelarono che alcune famiglie avevano addirittura contatti stretti con l'asssessore ai lavori pubblici. Pedinamenti e intercettazioni ambientali quella volta svelarono la metà penalmente inutile di quei contatti: vale a dire la condotta immorale e senza scrupoli, ma mancò l'aggancio per arrestare l'assessore e tradurre quelle indagini in un procedimento penale. In un'intercettazione si sente distintamente un uomo del clan che, rivolgendosi all'assessore, dice 'se non dai un alloggio di casa popolare, un lavoro o un contratto le persone che ti hanno votato, e sono tante, rimangono scontente. E che facciamo?'~ Lassessore è uscito dalla politica, le infiltrazioni no e si riaffacciano sempre nei soliti posti. Ancora una volta nel mirino la zona della Val di Susa e di Bardonecchia. Questa volta - scrissi in un' inchiesta per il Sole- 24 Ore -l'attenzione cade su un Comune vicino alla stazione sciistica, dove in pochi anni imprese edili minori sono diventate giganti dell' edilizia anche grazie - sospettano gli investigatori - ai buoni contatti con amministratori e funzionari locali. "I soggetti in questione, tutti di origine calabrese - spiegò un investigatore ancora rigorosamente coperto da anonimato sono stati sottoposti a procedimenti penali perché sospettati di aver accolto latitanti di 'ndrangheta':
Torino la "freddà' e l'intero Piemonte, si sciolgono quando c'è da dare riparo (fino in Valle d'Aosta) a ricercati o 'ndranghetisti: l'aria di montagna fa bene alla salute oltre che agli affari. Anche nel Canavaese e ad Ivrea dove operano imprese edili, apparentemente pulite, attive nel settore dei lavori stradali e autostradali. Secondo alcune indagini i contatti tra alcuni titolari e alcuni funzionari addetti nei Comuni al rilascio delle autorizzazioni, sono più che frequenti.
La stessa cosa nella Val d'Ossola, dove intere famiglie di origine calabrese quando possono, nascondono tra i fascinosi paesaggi affari e trame poco limpide. Lo hanno fatto anche negli anni che hanno preceduto i Giochi olimpici del 2006. Non sono mancati i tentativi di infiltrazione nei lavori ma Forze dell'Ordine e magistratura hanno cercato di districarsi al meglio nello slalom parallelo tra legalità e illegalità.

Lo slalom speciale delle cosche

Il Piemonte dal 1 O al 26 febbraio 2006 ospitò i XX Giochi olimpici invernali. Gli impianti di gara erano distribuiti tra sette città, compresa Bardonecchia.
A lanciare l'allarme sulla possibilità che le cosche si impadronissero di molti lavori - a partire dallo sbancamento per proseguire con la fornitura di manodopera e via di questo passo - fu proprio l'allora sostituto procuratore Maurizio Laudi. In realtà tutte le Istituzioni erano allarmate ma, come è naturale che accada, i mille occhi aperti e i mille riflettori accesi poterono ben poco.
In silenzio, però, magistratura e Forze dell'Ordine continuavano a svolgere il lavoro di sempre: indagare, indagare e indagare. Quegli sforzi ed anche questo è ovvio - saranno premiati solo negli anni, man mano che le indagini e le inchieste cammineranno.
Ed è per questo che il 20 ottobre 2009 un'Italia sonnecchiosa scopre l'operazione "Pioneer" condotta a Torino, di cui non si conoscono, al momento, ulteriori esiti e di cui non c'è più traccia visibile.
La cosca smantellata dalla Dia (Direzione Investigativa Antimafìa) del capoluogo, riciclava il denaro sporco proveniente dal traffico di droga. "Un duro colpo per la criminalità organizzata" dichiarò il Procuratore capo della repubblica di Torino, Giancarlo Caselli, che presentò l' ope-' razione della Dia con il procuratore aggiunto Sandro Ausiello, capo della Direzione distrettuale antimafia di Torino.
"Un'operazione importante- continuò l'uomo che resse per lunghi sette anni anche la Procura di Palermo raggiungendo successi straordinari perché tocca il versante, su cui si disquisisce tanto in questi tempi ma poi è difficile intervenire in modo concreto, della trasformazione dell'impresa criminale in impresa economica':
La banda, secondo l'accusa, faceva capo a Ilario D'Agostino di Placanica (Reggio Calabria) e al nipote, Francesco Cardillo, di Caulonia (Reggio Calabria), quest'ultimo attivo nel narcotraffico in Piemonte fin dagli anni Novanta.
La banda, secondo l'accusa, riciclava i proventi del traffico di droga gestito dalla cosca di Antonio Spagnolo di Ciminà (Reggio Calabria). All'epoca furono arrestati insieme al loro commercialista, Giuseppe Pontoriero, 65 anni di Ricadi (Vibo Valentia). Questo professionista veniva considerato il fiancheggiatore di D'Agostino e Cardillo. L’acccusa: associazione a delinquere di stampo mafioso, finalizzata al riciclaggio aggravato. A Pontoriero i due avrebbero intestato la "cassaforte di famiglià, dopo il loro arresto per droga nel 1999.
Per prevenire azioni cautelari, nel 1995 i due reggini avevano costimito la società edile Ediltava sas e l'avevano fittiziamente intestata a familiari e parenti di D'Agostino e della cosca Spagnolo. Ediltava, posta sotto sequestro, di cui Pontoriero era amministratore unico dal 20 luglio 2005, ha un fatturato (dati disponibili a fine 2007) di 325mila euro, con utili pari a 35mila euro. Le cifre non traggano in inganno: gli inquireriti hanno infatti denunciato il largo ricorso al nero da parte delle imprese coinvolte. Intorno allo stesso Pontoriero, D'Agostino e Cardillo, negli ultimi 25 anni ha ruotato una girandola di imprese immobiliari e di elaborazione dati dal portafoglio milionario.

Gli intestatari fittizi, oltre a non avere particolari esperienze professionali nel settore, non avevano capacità reddituali e patrimoniali idonee a svolgere l'attività imprenditoriale. È questo il giudizio, messo nero su bianco, della Dia. La società iniziò fin dai primi mesi di vita ad acquistare fabbricati e terreni e negli anni assumerà sempre più marcatamente le vesti di "cassaforte immobiliare" della cosca Spagnolo.
Nel 1999, l'arresto di D'Agostino e Cardillo per traffico di stupefacenti impose una radicale rivisitazione della compagine societaria della Ediltava, a quella data titolare di un nutrito portafoglio immobiliare. Infatti la proprietà aziendale è stata dapprima trasferita in capo a nuove figure, sempre strettamente legate al D'Agostino e al Cardillo e poi, nel 2005, fu intestata a Giuseppe Pontoriero, commercialista storico del gruppo (sin dai primi anni '90 ha prestato la propria attività per le società riconducibili al D'Agostino) che, secondo gli inquirenti, grazie a una falsa perizia di estimo immobiliare redatta da professionisti compiacenti, ha "acquistato" per soli 30mila euro una società che aveva possedimenti immobiliari del valore commerciale di circa 4 milioni. In sostanza, D'Agostino e Cardillo, tornati in libertà nel 2001, sempre secondo l'accusa hanno abbandonato le vesti di trafficanti e si sono dedicati in via esclusiva all'attività imprenditoriale, gestendo il patrimonio e le imprese operative in cui veniva impiegato il denaro della cosca e hanno fornito con testualmente impulso alla costituzione di ulteriori aziende satellite che - ricorrendo anche al lavoro nero di molti dipendenti - hanno ottenuto commesse pubbliche, specie in forma di subappalto.

La zona grigia dei professionisti e l'ombra dei Casalesi

L’imponente attività di riciclaggio, con ricorso a sofisticati meccanismi di interposizione fittizia in ambito societario, occultamento della provenienza di capitali illeciti e costituzione di un patrimonio immobiliare di notevoli dimensioni, è stata costantemente agevolata dall'opera dei professionisti, in primis, stando ai risultati delle prime indagini, il commercialista, che si sono prestati alla creazione, trasformazione e cessazione delle imprese strumentali agli scopi del sodalizio.
"Ad oggi le aziende riconducibili di fatto al D'Agostino - si legge nel comunicato stampa della Dia di Torino diffuso alle redazioni - sono presenti anche sui cantieri relativi alla costruzione di opere in Piemonte, Liguria e in Calabria" (in particolare a Caulonia). Alla banda, sempre secondo l'accusa, dietro attività lecite, con la copertura legale sotto forma di subappalto, finivano importanti commesse pubbliche, come quelle delle Olimpiadi di Torino 2006, della Tav (la linea ferroviaria ad alta velocità) e del porto d'Imperia.
Le perquisizioni, 17, furono condotte presso sedi societarie e abitazioni private nelle province di Torino, Asti, Cuneo, Imperia e Reggio Calabria e comportarono il sequestro di ville, appartamenti e terreni edificabili, per un controvalore commerciale di circa 6 milioni.
A Torino e cintura furono sequestrati diversi appartamenti, box auto e locali adibiti all'esercizio commerciale. A Caulonia (Reggio Calabria), un terreno edificabile lottizzato per la costruzione di un centro commerciale (altra enorme passione delle mafie che riciclano miliardi e miliardi di denaro sporco), appartamenti e box auto. A Oulx (Torino) villette e box auto. A Cervere (Cuneo), diversi appartamenti ed annessi box auto. In provincia di Torino vari terreni.
Il capo centro Dia di Torino, Gian Antonio Tore, dichiarò in conferenza stampa: "L'indagine è nata da un monitoraggio fatto a tavolino e su strada, dal quale è emerso che uno degli arrestati utilizzasse auto intestate a una società edile con fatturati notevoli, anche di 10 milioni, ma con bilanci, che si chiudevano in pareggio o addirittura in perdita. Ricostruendo l'attività di questa e di altre che facevano da supporto alla capofila è stato delineato il riciclaggio del denaro sporco. La società principale, non ha mai prodotto nulla, ma solo acquistato immobili con denaro la cui tracciabilità non risultava possibile, ma grazie alle indagini è stato documentato che questo soldi provenivano dal traffico di droga in capo alla cosca riconducibile a Antonio Spagnolo':

Tutto qui? Assolutamente no. Tore andò oltre e come riporta La Stampa del 22 ottobre 2009 che lo intervistò, "l'ordinanza di custodia cautelare per ora si localizza sull'Ediltava e riguarda solo un aspetto, quello in cui il riciclaggio è acclarato. Ma la nostra indagine è molto più ampia. Siamo partiti da altre società. E alla domanda su quanti soldi fatturasse un'impresa mafiosa in Piemonte, Tore rispose: "Per rendere l'idea: la capofila di questa indagine, di cui non posso fare il nome, nel periodo olimpico ha fatturato 10 milioni. E parliamo di imprese attive da molti anni ':
Ma già il 26 aprile 2006, vale a dire poche settimane dopo la fine dei Giochi Olimpici, il Manifesto pubblicò un'inchiesta sulle infiltrazioni dei Casalesi e dunque della camorra campana nei lavori per le Olimpiadi.
Lavori di intonacatura per le strutture delle Olimpiadi invernali di Torino 2006 - scriveva il giornale - "utilizzando contratti fittizi per aggiudicarsi appalti pubblici da centinaia di migliaia di euro. Nel mirino l'intero villaggio olimpico, comprese le casette degli atleti: migliaia di sportivi da tutto il mondo che qui hanno condiviso e respirato l'inebriante atmosfera dello spirito olimpico. Un progetto grandioso distribuito su un'area di 52mila metri quadrati, nata attorno ai vecchi Mercati generali. Centinaia di pagine di intercettazioni - all'esame della Procura di Torino aproverebbero scenari imbarazzanti, ma anche nomi e cognomi. C'è l'ombra di Vincenzo Zagaria, boss casertano in doppiopetto, legato a quel Michele Zagaria, plenipotenziario dei Casalesi. Di quell'inchiesta, al momento, non si sa più nulla': E del resto che la camorra in Piemonte provi a forzare i pertugi e fatti
diventare ingressi agevoli nel mondo dell' economia criminale è testimoniato dalle indagini della Guardia di Finanza. Tra i tanti colpi messi a segno dalle Fiamme Gialle, a fine 2009 i militari Cuneo hanno sgominato un' organizzazione dedita al traffico internazionale di cocaina il cui ricavato andava a finanziare proprio la camorra.
Nel corso dell' operazione, presentata il 20 dicembre 2009 a Torino e denominata "Camelot", sono stati effettuati 21 arresti e 37 denunce, principalmente nella zona di Savigliano (Cuneo) ma anche nel napoletano e in provincia di Brescia. L’operazione ha individuato redditi provenienti da attività illecita per quasi 3 milioni, oltre al sequestro di un chilo e mezzo di cocaina purissima per un valore di circa 500 mila euro.

La relazione Forgione

"La presenza della 'ndrangheta in Piemonte è preponderante rispetto alle altre organizzazioni mafiose. Secondo il coordinatore della Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Torino essa continua ad occupare la posizione di maggior rilevanza nel nostro distretto': Queste parole messe nero su bianco dall' allora presidente della Commissione parlamentare antimafia, Francesco Forgione, nella prima e finora unica relazione sulla , ndrangheta approvata il 19 febbraio 2008, fecero venire giù il finimondo in Piemonte.
La relazione, sul punto, del resto lasciava poco all'immaginazione. La 'ndrangheta risulta stabilmente insediata nel tessuto sociale e i rapporti tra le varie cosche sono regolati da rigidi criteri di suddivisione delle zone e dei settori di influenza. Non si tratta però di una criminalità che presenta le caratteristiche di pericolosità sociale e di radicamento sul territorio tipiche delle zone d'origine.
Come riferiscono i Carabinieri del Ros nella relazione relativa al primo semestre del 2007: "in Piemonte continua a registrarsi la pervasiva presenza di gruppi criminali riconducibili alla 'ndrangheta, prevalentemente concentrati nel capoluogo e nella provincia torinese':
Ogni gruppo mafioso, pur operando in autonomia, intrattiene rapporti con gli altri gruppi dislocati nella stessa area e in quelle dell'intera regione.
Secondo la Direzione nazionale antimafia (Dna), "la 'ndrangheta in Piemonte è presente nel settore del traffico internazionale di sostanze stupefacenti, nel riciclaggio e nell'infiltrazione nel settore dell'edilizia, grazie anche ad una rete di sostegno e copertura di singole amministrazioni loocali compiacenti. Il progressivo radicamento nella regione ha favorito la loro graduale infiltrazione nel tessuto economico locale, mediante investimenti in attività imprenditoriali ed il tentativo di condizionamento degli apparati della pubblica amministrazione funzionali al controllo di pubblici appalti. Appare quest'ultimo, in sostanza, il nuovo settore d'interesse, condotto attraverso attività più difficili da investigare perché riconducibili all'area apparentemente legale dell'economia, ma che nasconde in realtà reati come il riciclaggio, la corruzione, l'estorsione, la concorrenza illecita e così via. Sotto tale profilo risultano particolarmente sensibili all'infiltrazione mafiosa i comparti commerciali, degli auto trasporti ed immobiliari. Ad essi si aggiunge quello dell'edilizia che consente, attraverso imprese operanti soprattutto in lavorazioni a bassa tecnologia, di condizionare il loocale mercato degli appalti pubblici. Le aree di criticità maggiore sono quelle della val d'Aosta, della val di Susa e della città di Torino, come viene evidenziato dalle indagini giudiziarie in corso':
Il riferimento riporta l'attenzione su quanto emerso da un'informativa dei Ros del maggio 2007 che ha suscitato grande eco sui media nazionali evidenziando l'attenzione delle cosche sui grandi appalti.
I soggetti appartenenti alla 'ndrangheta, o comunque ad essa riconducibili, mantengono stretti legami con le famiglie mafìose d'origine. Questo però non impedisce a chi opera nel territorio piemontese di avere una certa libertà di movimento e di poter intrattenere rapporti di collaborazione nell' ambito delle attività criminali poste in essere con altre cosche di diversa provenienza, ma operanti anche esse in Piemonte. Per Elr questo non devono chiedere l'autorizzazione alla cosca alla quale bono capo in Calabria. Stretti rapporti si, ma anche autonomia nella gestione della struttura mafiosa in modo da poterla adattare alle esigenze del territorio nel quale svolge la propria attività criminale. bisogna dire che l'azione di contrasto delle forze di polizia e della magistratura ha prodotto negli anni '90 importanti risultati, senza però riuscire ad estirpare dal territorio piemontese le 'ndrine che, a distanza di qualche anno dall'azione repressiva, si sono ricompattate, cambiando strategia e facendo emergere nuovi personaggi di elevato spessore criminale e una nuova generazione di capi figli dei vecchi boss.
Si può affermare che lo storico e stabile radicamento della' ndrangheta sul territorio piemontese ha fatto di essa una componente, ovviamente marginale ma non trascurabile, del tessuto sociale ed economico della regione.

La geografia del crimine e l'inchiesta sul campo

Le principali cosche operanti in Piemonte sono: i Pesce-Bellocco, i Marando-Agresta- Trimboli, che fanno parte della cosca Barbaro di Platì, gli Drsino i Mazzaferro di Gioiosa Ionica, i MorabitoPalamara di Mrico. Tutte cosche importanti della provincia di Reggio Calabria, alle quali si sono affiancate le vibonesi dei Mancuso di Limbadi, dei De Fina e degli Arona di Sant'Onofrio.
Anche il controllo del mercato della droga provoca conflitti, come ha dimostrato l'omicidio di Rocco Femia, avvenuto il3 febbraio 2007: fu trovato carbonizzato in auto tra Gassino Torinese e Bardassano.
Le penetrazioni negli apparati della pubblica amministrazione anche in Piemonte rappresentano uno dei canali privilegiati della criminalità mafiosa per allargare il campo delle sue redditizie attività. Questo è quanto hanno accertato gli investigatori in un'indagine denominata "Magna Charta."
Fino a qui abbiamo raccontato quanto riporta la relazione di Forgione. Di li a pochi mesi dalla relazione Forgione, tutta Italia ebbe l'ennesima riprova che la mafia a Torino e in Piemonte non è un'ipotesi di studio ma una realtà.
A Reggio Calabria, infatti, il 22 giugno 2008, nel corso di una deposizione del processo "Stupor Mundi" il pentito di 'ndrangheta Rocco Varacalli, 39 anni, originario di Careri, piccolo centro nella locride, ma da tempo residente a Grugliasco (Torino), spiegò come funzionava la ' ndrangheta all'ombra delle Alpi. Ovviamente parlò della sua attività criminale e del suo mondo di riferimento, vale a dire uno spaccato di un universo estremamente più esteso.
Nelle dichiarazioni a verbale allegate dal Pm Nicola Gratteri, Varacalli spiegò che in Piemonte agiscono "locali" (vale a dire cellule attive e strutturate di 'ndrangheta) e regole sociali che riproducono quelle della criminalità in Calabria. Il 23 giugno la Gazzetta del Sud ricorderà che i boss in Piemonte tengono a battesimo adepti e che gli sgarri vengono puniti con la morte.
Vale la pena di andare a leggere come replicarono la città di Torino, la Regione, le Istituzioni agli attacchi contenuti nella relazione di Forgione che, in vero, non lasciano adito a troppi dubbi.
Il 25 marzo, il giornale mi mandò a Torino per coglierne gli umori, scossi da chi ha voluto suonare le campane a morto per una città e una regione intera.
Un conto è la città, un conto l'amministrazione: questa fu la difesa. "Se ci fossero stati tentativi di infiltrazione nel Comune di Torino - dichiarò il procuratore generale della Repubblica Giancarlo Caselli vuole che non ne sarei a conoscenza?': I..:allora capo della Dda di Torino, Maurizio Laudi, confermava. "La reazione di Chiamparino - disse - è giustificata. Per Torino non c'è mai stata alcuna vicenda o episodio che potesse essere sintomatico di infiltrazione': Le affermazioni della Commissione avevano suscitato in quei giorni reazioni anche nel mondo politico e dell' amministrazione locale.
Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, aveva dichiarato: "In sette anni di governo, non ci sono mai stati segnalati episodi sospetti negli appalti e nei lavori pubblici. Non ci sono tracce di infiltrazioni mafiose in città. Valuteremo con attenzione le conclusioni dell'Antimafia. Ma sono tesi, queste, che respingiamo con sdegno': Ed ancora: "mi sento diffamato come amministratore pubblico e come cittadino". Il presidente della Provincia di Torino, Antonio Saitta, disse: "La descrizione che emerge da questa relazione all'Antimafia è gravissima e danneggia l'immagine della pubblica amministrazione'. I..:allora presidente della Regione Piemonte, Mercedes Bresso, si accodò: "voglio approfondire, capire bene il dettaglio delle denunce per verificare quanto c'è di vero e quanto fa parte della verità o di una ricostruzione, non dico fantasiosa, ma poco legata con la realtà': Il capogruppo di An al Comune di Torino, Agostino Ghiglia, chiese al sindaco di "difendere Torino dall'attacco della Commissione e di querelare i responsabili':
Torino Comune non era in discussione ma Torino città si: la ' ndrangheta - scrissi in quell'inchiesta - nonostante i duri colpi degli anni Novanta, detta ancora legge e si arricchisce sempre di più. Cosa Nostra ridicolizzata, camorra ridotta al ruolo di comparsa, Sacra corona unita dissolta. E a contendere lo scettro del comando dei traffici di droga, usura, racket ed estorsioni, gioco clandestino, sarebbero ancora loro: i Belfiore. Venticinque anni dopo e nonostante gli arresti, le condanne e i patrimoni confiscati. Ma il loro strapotere è finito. Da lungo tempo è in corso una guerra senza esclusione di colpi con il clan Crea, originario della Piana di Gioia Tauro.
Torino Comune no, dunque, ma sui lavori dell'Alta velocità in Piemonte, è un' altra storia. Chi vince gli appalti è sempre in regola ma è nel meccanismo dei subappalti a catena che la 'ndrangheta si insinua con mezzi per il movimento terra e camion per il trasporto. Molte le imprese - sempre le stesse - messe sotto la lente in questi anni dalla Forze dell'Ordine ma nessuna, nonostante i chiarissimi legami con i capofamiglia in Calabria, è stata colta con le mani nel sacco. "I clan - spiega un investigatore che per ovvie ragioni deve rimanere coperto si sono fatti furbi. Il capo famiglia arriva dalla Calabria ma non mette piede in cantiere o nella sede dell'impresa. Gli appuntamenti sono altrove, all'aperto, magari per strada e per noi le intercettazioni diventano una chimera'~ In questo momento l'attenzione si è spostata alle porte di Novara dove a esempio, nell'ottobre 2007, sono saltati per aria 9 autocarri e 2 autofurgoni nel deposito di un' azienda di movimento terra. Il filo rosso è lo stesso: i lavori per l'Alta velocità dove tra i subappalti non c'è certificato antimafia o informativa che regga.
A Novara, il 21 aprile il Procuratore capo della Repubblica, Francesco Saluzzo, durante la conferenza stampa sulle indagini che hanno portato all'arresto dei responsabili dell'incendio che il 24 gennaio 2010, aveva distrutto sette motrici e una gru elevatrice per container di proprietà di una società di Padova, provocando danni per oltre un milione e mezzo di euro ha lanciato un appello. "Rivolgo un appello agli imprenditori, del Novarese, ma non solo - disse Saluzzo - affinché la smettano di gridare al lupo quando vengono alla luce gravi episodi di criminalità, i cui metodi sono sempre più simili a quelli adottati dalla mafia, e dicano ciò che sanno'~ È infatti emerso che uno dei due arrestati, Franco Trebisacce (in carcere), era titolare di una ditta di trasporti concorrente, e che aveva commesso il crimine, insieme al complice Francesco Ascone (agli arresti domiciliari), perchè la Prc Trasporti si era da poco aggiudicata un contratto del valore di oltre 500mila euro annui con una ditta belga. In seguito all'incendio la Prc Trasporti aveva dovuto rinunciare e la ditta committente aveva affidato nuovamente L’incarico alla società di Trebisacce. "Le imprese - ha aggiunto Saluzzo - fanno benissimo a richiedere l'intervento dello Stato a loro tutela, ma devono anche guardare all'interno del proprio recinto, perché se certi fatti maturano all'interno di uno scambio illegale nel settore imprenditoriale e chi conosce i problemi non li denuncia, allora non si risolve nulla'
La procura novarese sta indagando anche su altri precedenti casi di incendio di mezzi di trasporto merci. "Si tratta - spiega il Pm Ciro Caramore - di episodi che sono indice della penetrazione quanto meno del metodo mafioso sul territorio e su cui ce un forte interesse da parte nostra. Da parte dell'imprenditoria, invece, mancano ancora reazioni adeguate alla gravità dei problemi e la situazione rischia di farsi pesante, come nel limitrofo territorio milanese, dove la presenza della 'ndrangheta è nota e diffusa.

La voce delle imprese sane, l'alta velocità (delle mafie)

Soprattutto dopo che la presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia, ha rafforzato il fronte della lotta alla legalità sulla scia di quanto aveva già fatto autonomamente Confindustria Sicilia, con la delibera assunta il 28 gennaio 2010 di espellere dall'associazione chi non denuncia, le imprese hanno trovato su tutto il territorio nazionale una forza maggiore per opporsi all' avanzata dell' economia criminale. Anche in quei territori che, solo fino a qualche anno fa, venivano considerati isole felici. Tra questi la provincia di Novara, da più parti individuata come l'anello debole della catena proprio per l'appetibilità dei lavori per l'Alta velocità e la vicinanza a due grandi città crocevia di ogni traffico: Torino e Milano.
Il 3 febbraio 2010 l'ufficio stampa di Confindustria Novara diffonde alle redazioni un comunicato che è chiaro fin dal titolo: "Il Direttivo dell'Ain alle aziende: prudenza, vigilanza e trasparenza nella gestione del business" Le prime righe del comunicato sono in linea con il titolo: "Un forte invito alla prudenza e alla vigilanza, sia nei rapporti commerciali fra aziende sia nelle relazioni personali fra imprenditori, al fine di garantire la massima trasparenza nella gestione del business sul territorio.
A dettare questa linea, poche ore prima, all'unanimità, era stato il consiglio direttivo dell'Associazione industriali di Novara (Ain), anche alla luce dei recenti fatti di cronaca che hanno gettato ombre inquietanti in merito a possibili significative infiltrazioni della malavita organizzata nel Novarese.
“Abbiamo deciso di prendere posizione in modo esplicito - spiegò la presidente dell' Ain, Mariella Enoc - in seguito ai gravi episodi avvenuti nelle scorse settimane sul nostro territorio e alle scelte compiute da Confindustria a livello nazionale. Vigileremo con sempre maggior vigore affinché le regole stabilite dal nostro Statuto e dal nostro Codice etico vengano rispettate, e per fare in modo che il sistema imprenditoriale locale rimanga lontano tanto dalle prassi illegali quanto dai comportamenti eticamente inadeguati all'autorevolezza del proprio ruolo sociale':
Il codice etico per gli imprenditori novaresi è in vigore dal giugno 2003 e costituisce una sorta di Carta costituzionale dell' associazione, stabilendo i principi di responsabilità sociale di ogni azienda aderente. Tutti gli imprenditori associati, si legge nel codice etico, si impegnano '::Z riispettare modelli di comportamento ispirati alla legalità, all'autonomia, all'integrità, all'uguaglianza, alla solidarietà" e a sviluppare azioni coerenti con questi modelli.
"Secondo lo Statuto dell'Ain - aggiunse il direttore, Aureliano Curini ogni domanda di ammissione deve contenere l'impegno al rispetto della carta dei valori associativi. I rappresentanti legali dell'impresa devono, inoltre, dare piena affidabilità sotto il profilo legale e morale, in base a quanto previsto anche dal codice etico di Confindustria.

Il 2 agosto 2007 la Stampa intervista Carlo Silva, amministratore delegato di Cavet, il consorzio che raggruppa le imprese che lavorano sull' alta velocità. Il tema, neppure a dirlo, è il rischio delle infiltrazioni nei lavori dell'Alta velocità per i quali, a quanto sembra, il punto debole è la provincia di Novara. In questa provincia, oltretutto, si susseguono strani episodi: dagli incendi di automezzi in depositi alle morti come quella, il 20 gennaio di quest'anno, dell'imprenditore edile Ettore Marcoli, ucciso con un colpo di pistola nel suo ufficio di Roomentino. Le modalità dell'uccisione fanno pensare a un' esecuzione in piena regola. Le indagini sono ancora in corso.
Le parole dell'ingegner Silva sono tranquillizzanti. "Tra il 1996 e il 2006, ogni impresa che si è aggiudicata un appalto per i lavori di costruzione delle linee Bologna-Firenze e Torino-Milano - dichiara alla Stampa - possedeva il regolare certificato dell'Antimafia".
Sufficiente per stare tranquilli? "No - risponde Silva - tanto è vero che, in due casi, Dia e Scoci hanno comunicato che, al di là del certificato Antimafia, c'era qualche sospetto sul conto di due imprese. Avevano motivo di ritenere che avessero avuto in passato, o avessero ancora, collegamenti con la criminalità organizzata. Abbiamo subito stralciato il contratto sottoscritto con entrambe. E, badi bene, si trattava di commesse per 700 mila euro in un caso, e per 200 mila nell'altro. In tutto 900 mila euro su un totale di 5 miliardi”.
Alta, secondo le parole dell' ad del Consorzio, anche l'attenzione sui subappalti. Silva infatti dichiara: "Ogni singola ditta affidataria è stata controllata da noi, e le sue credenziali sono state trasmesse alla Tàv. Non solo, ma i dati sono finiti nelle mani della Dia e dello Sco. Stesso discorso per ogni singola ditta che ha subappaltato un lavoro dalle imprese affidatarie. Per le gare indette mediante trattativa privata tra 4-5 aziende per la realizzazione di piccoli interventi il subappalto è addirittura vietato". Rassicurazione sentite e importanti che, però, non tranquillizzano innanzitutto il popolo contrario all'Alta velocità.
Rassicurazioni sentite e importanti che però hanno bisogno anche della mano tesa dello Stato se è vero che il 18 novembre 2008 tutte le prefetture piemontesi e l'Anas di Torino firmeranno un protocollo d'intesa per prevenire le infiltrazioni mafiose nei lavori pubblici, nei servizi e nelle forniture.

A tappe forzate nel nuovo secolo

Lo scorso anno il sostituto procuratore nazionale antimafia, Vincenzo Macrì, come ogni anno, ha consegnato al capo della Procura, Piero Grasso, la relazione sul distretto di Torino. E, come ogni anno, quella relazione è finita nelle mani del ministro della Giustizia in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario 2010.
È interessante andare a leggere la parte dedicata alla criminalità italiana in Piemonte che, così come accade per la società, cerca forme di integrazione con la criminalità di importazione (a partire da quella nord africana).
"Quanto alle associazioni criminali di origine italiana - è scritto nella relazione - si conferma una presenza tendenzialmente orientata al riciclaggio, all'infiltrazione nel settore imprenditoriale, in una logica di stabilizzazione che evita di suscitare l'attenzione dègli organismi investigativi e giudiziari':
Avete notato? "Si conferma una presenza orientata ... al settore imprenditoriale ... }) Ricordate? Nella relazione della Commissione parlamentare antimafia del 1994 già appariva questa tendenza che, 14 anni dopo, ne esce rafforzata.
"E tuttavia - prosegue la relazione - non può non segnalarsi alcuni elementi di novità, ancora a carattere tendenziale, ma meritevoli di attenzione da parte della Direzione distrettuale di Torino, che ne ha fatto oggetto di specifiche indagini preliminari. Si nota cioè ad opera di Cosa Nostra siciliana un tentativo di riprendere in qualche modo una presenza attiva, ormai da tempo abbandonata in questa regione, come dimostrato dagli esiti delle indagini che hanno portato alla cattura del latitante Salvatore Lo Piccolo. È un tentativo che riguarda Cosa Nostra palermitana, la quale tuttavia consapevole di non avere la disponibilità di presenze organizzate tali da consentirle una qualche forma di controllo del territorio, è orientata a realizzare una presenza di tipo economico-imprenditoriale, in settori ristretti e bene individuati. Nel caso di specie, il settore di interesse era quello dei giochi e delle scommesse sportive, o meglio, del tentativo di inserimento nel settore attraverso pratiche estorsive nei confronti dei titolari della sala Bingo di Moncalieri, definita la più grande di Europa. La consapevolezza che tale attività comportasse necessariamente la messa in discussione degli assetti e degli equilibri esistenti nella zona, saldamente presidiata dalle cosche della 'ndrangheta, lascia intendere la determinazione del tentativo, che non ha condotto a situazioni apertamente conflittuali per il probabile raggiungimento di un accordo”.
Insomma, negli affari, Cosa Nostra palermitana che per lungo tempo ha dovuto chinare la testa o giungere ad accordi con la più potente 'ndrangheta calabrese, comincia a rialzare la testa cercando le proprie nicchie di influenza e potere.
Solo Cosa Nostra palermitana cerca nuovi assetti e rendite? Ma no! L’eterno dualismo Palermo-Catania emerge anche quando si parla di economia criminale.
''Diversa è la situazione della mafia catanese - si legge nella relazione 2009 della Dna - la quale ha in TOrino una presenza consolidata, strutturata e vasta, come le indagini originate dalle dichiarazioni di un collaboratore hanno consentito di conoscere, con particolare riguardo ai settori delle bische clandestine, del controllo di esercizi commerciali, delle rapine. In tale contesto vanno letti alcuni episodi che lasciano chiaramente intendere come, dopo un lungo periodo di quiescenza, siano in atto nuove dinamiche negli assetti della mafia siciliana, volti a realizzare forme di presenza più aggressive e determinate, per l'accaparramento di profitti illeciti di ampio rilievo':
Depongono in questa direzione gli omicidi di Pietro Taormina, ucciso a Torino il 22 gennaio 2008 e di Antonio Laudani, ucciso a Borgomanero il 16 febbraio. Due omicidi piazzati lì, tanto per chiarire che le pedine sulla scacchiera si muovono anche da morte.
E la ' ndrangheta calabrese? Confermata la prevalenza nel traffico di sostanze stupefacenti, sia pure limitato alla fase organizzativa. I contrasti interni sono ridotti e solo raramente risolti con la violenza. Le estorsioni sono realizzate attraverso il condizionamento e l'intimidazione ambientale, più che con l'esercizio di pratiche di violenza esplicita, mentre ripartizione delle zone e dei settori di influenza tra cosche è regolata da rigorosi criteri di suddivisione territoriale.
Il traffico di droga, in altre parole, continua ad alimentare la cassaforte miliardaria delle cosche calabresi presenti in Piemonte, anche se l'uccisione di Pasquale Marando, l'arresto del fratello Domenico, e la sostanziale perdita di influenza della famiglia omonima, ha sicuramente determinato l'ascesa di nuovi gruppi dirigenti in tale genere di attività. Pasquale Marando lo chiamarono di notte, nel 2003, mentre dormiva nella sua villetta bunker di frazione Tedeschi 67 a Lein, nella cintura nord torinese. Al telefono gli dissero che doveva andare a Platì, capitale della 'ndrangheta da cui era partita la sua scalata alla Santa e poi al Vangelo, livelli superiori delle' ndrine calabresi. Quelli vicini alla massoneria deviata e alle Istituzioni corrotte, tanto per intendersi. Pasquale si mise in viaggio, arrivò a destinazione e non tornò più. Scomparso. Secondo il pentito Rocco Varacalli, Pasquale Marando "è stato ucciso e seppellito in una bara anonima che solo i parenti conoscono. Si trova nel cimitero di Platì dove era iniziata la sua carriera criminale e dove oggi riiposa in pace in una cassa che non ha il suo nome. Cosi gli possono portare i fiori': "Nessuno dice che è morto - scrive Giuseppe Legato sulla "Stampa" del 21 maggio 2008 - perché alla famiglia Pasquale serve vivo. Un fantasma necessario ':
Permangono le attività di controllo del territorio nella sua accezione più vasta, che va dalle estorsioni, al controllo, se non totale, di appalti e subappalti di lavori pubblici e privati, al riciclaggio, alle attività illegali secondarie, quali il controllo delle bische clandestine.
Ma ecco arrivare una considerazione interessante. ':Anche la 'ndrangheta - scrive Macrì, uno dei magistrati più preparati a disposizione della Dna - seguendo in qualche modo un processo che interessa l'intero territorio nazionale, ha in corso, in Piemonte, un processo di trasformazione, di riorganizzazione, di redistribuzione di incarichi e ruoli all'interno dei locali. Taie processo può trovare spiegazione nella circostanza che si stanno allentando i legami con i territori di origine, essendo maturate, nel corso degli anni, nuove esperienze, nuove esigenze, nuove forme di presenza, non necessariamente legate ai vecchi moduli del passato. Occorre ancora tenere presente che negli ultimi due anni sono avvenute le scarcerazioni per espiazione pena di alcuni elementi di vertice della 'ndrangheta calabrese, che, o hanno ripreso il loro ruolo di direzione, ovvero stanno tentando di farlo, riannodando vecchie alleanze e reinserendosi in alcune delle attività più lucrose':
La mafia calabrese presente in regione, come vedremo poi accadere in forme molto più nette in Lombardia, fa prove tecniche di secessione dalla madre-patria. Il federalismo criminale corre molto più velocemente di quello amministrativo e fiscale.

L’economia criminale straniera

E a proposito di federalismo e rapporti, diventa interessante l'analisi del sostituto procuratore nazionale antimafia Vincenzo Macrì nella relazione di fine 2009 della Dna sulle mafie straniere. Le operazioni compiute in un anno (da luglio 2008 a giugno 2009) offrono un quadro esauriente delle varie attività criminali nelle quali sono impegnate.
Si va dal consueto traffico di sostanze stupefacenti, compreso lo spaccio di strada, al contrabbando di tabacchi lavorati esteri, alla tratta di esseri umani, allo sfruttamento della prostituzione, all' associazione finalizzata alle contraffazioni e falsificazioni di carte di credito ed alle truffe compiute con le carte contraffatte e falsificate.
I gruppi più impegnati sembrano essere i rumeni e gli albanesi, oltre ai nigeriani e ai maghrebini, mentre mancano episodi riconducibili alla mafia cinese.
"L'impressione che se ne ricava - scrive Macrì - è quella di una criminalità organizzata in piccoli gruppi, ma priva, allo stato delle conoscenze, di una vera e propria organizzazione stabile, strutturata e gerarchicamente ordinata. Per il traffico di stupefacenti, le quantità trattate non appaiono ingenti ed il mercato di interesse è apparentemente quello locale; mentre la tratta e lo sfruttamento hanno dimensioni limitate a qualche decina di donne provenienti dalla Romania, ma non assumono dimensioni tali da far ritener l'esistenza di organizzazioni transnazionali che sovraintendono tali attività. Appare necessario comprendere quali siano i rapporti tra le mafie straniere e quelle italiane; se cioè tra di esse intercorrono rapporti e di che tipo, se vi siano accordi per delimitare contesti territoriali e ambiti di attività, ovvero se la vastità del territorio piemontese consente una libertà di movimento e di mercato criminale che consente ad ogni operatore appena organizzato di inserirsi proficuamente e senza ostacoli':

Anche condannati i boss fanno affari

Che il Piemonte sia una regione in cui i mafiosi fanno affari lo dimostrano anche i dettagli. Il 18 febbraio di quest' anno, dopo mesi di indagini, nel carcere torinese "Lorusso-Cotugno" sono stati sequestrati due cellulari e tre sim card in uso a boss della' ndrangheta.
Ma che il Piemonte sia una regione in cui i padrini mafiosi fanno affari lo dimostra anche una relazione resa nota nel 2008 dello Scico, il Servizio centrale investigativo sulla criminalità organizzata della Guardia di Finanza e della Direzione nazionale antimafia.
La mafia fa affari e si arricchisce anche quando lo Stato la bracca per portargli via patrimoni e, dunque, potere. Tra il 2006 e il 2007 la Guardia di Finanza ha condotto l'operazione "Memento", un piano di monitoraggio e di controllo economico-patrimoniale eseguito sul territorio nazionale nei confronti di 8.051 soggetti. Di questi 5.588 definitivamente condannati per 416 bis (associazione mafiosa) e 2.493 già sottoposti, con provvedimento definitivo, a una misura di prevenzione. "Lo scopo dell'iniziativa- spiegò al Sole-24 Ore Ignazio Gibilaro, allora comandante dello Scico e dal 28 luglio 2008 comandante provinciale della Guardia di Finanza a Catania prima di tornare a Roma - è quello di impedire che i mafiosi, in virtù di provvedimenti definitivi dell'Autorità giudiziaria, possano tornare a costituire dei centri non trasparenti di attività economiche e finanziarie, ciò che in diverse realtà, particolarmente permeate da connotati di mafiosità, accade purtroppo con notevolissima .frequenza, spesso vanificando i risultati raggiunti': L’attività dello Scico è proseguita anche nel 2008 e il monitoraggio ha interessato circa 2.500 soggetti. Tra il 2006 e il 2007, i fari dello Scico si sono accesi - in particolare - su 659 mafiosi, 529 dei quali hanno violato la legge 646/62, che li obbliga a comunicare tutte le variazioni nell' entità e nella composizione del patrimonio non inferiori a 10.329, 14 euro. Il 64,3% delle investigazioni svolte dalla Guardia di Finanza ha dato esito positivo. All'autorità giudiziaria sono stati segnalati 401 soggetti per i quali è stato effettuato o proposto il sequestro di beni e valori per 41 milioni per un valore medio di 109.750 euro per singolo denunciato. L’analisi territoriale è spietata perché se conferma che le regioni del Sud sono quelle maggiormente inquinate, evidenzia che ormai non c'è area del Paese immune dalla criminalità organizzata.
I soggetti colpiti in Sicilia sono stati 145 e per loro è scattato il sequestro di oltre 15 milioni. In Campania 74 camorristi si sono visti sottrarre beni per 8,5 milioni ma quello che fa riflettere sono i 30 mafiosi in Lombardia (ai quali sono stati sottratti beni e valori per 3,4 milioni), i 20 nel Lazio (1,6 milioni sequestrati), i.21 in Piemonte (oltre 2,1 milioni sequestrati), gli 8 in Emilia-Romagna (1,2 milioni sequestrati) e perfino sei nel Friuli-Venezia Giulia, per un importo sequestrato poco sopra i 300mila euro.
Il ruolo della Guardia di Finanza, nello svelare le trame dell' economia criminale, è fondamentale. Il 20 novembre 2009, a esempio, le Fiamme Gialle di Cosenza condussero un' operazione che svelò un incrocio di fatture tra un'azienda fantasma di Carolei (Cosenza) e società con sedi a Panama e in California. La megatruffa (in ballo c'erano 2,5 milioni) era stata orchestrata da settentrionali che puntavano ai finanziamenti della legge 488/92. Il 21 novembre, descrivendo l'operazione, la Gazzetta del Sud titolò: "Piemontesi alla conquista dei soldi facili". Inimmaginabile pensare che una truffa del genere potesse essere condotta senza la sponda di professionisti (la zona grigia) legata a uomini delle cosche i quali lucrano su qualunque attività criminale svolta sul territorio.

La politica riflette ma poi ...

Libera, 1'associazione fondata da Don Luigi Ciotti che proprio a Torino ha il suo quartier generale, poco prima delle elezioni regionali 2010 ha lanciato una provocazione alla classe politica locale.

Il 1° ottobre 2009 ha presentato la cosiddetta piattaforma  , ovvero dieci proposte per un manifesto che durerà fino alla scadenza del mandato regionale, che affronta quattro grandi aree: etica, scuola, pubblica amministrazione e migranti.
La prima richiesta era rivolta alle forze politiche e riguardava la scelta di non candidare, di non assegnare alcun ruolo di dirigenza e di non allearsi con partiti che hanno tra le proprie file persone rinviate a giudizio o condannate per mafia o per reati contro la pubblica amministrazione. "La democrazia vive di buone leggi e buoni costumi': diceva Norberto Bobbio e i ragazzi di Libera Piemonte lo sanno. "Questo manifesto rappresenta il nostro percorso - aveva spiegato Davide Mattiello, referente regionale di Libera Piemonte durante la presentazione della piattaforma - è la nostra testimonianza di amore per il Piemonte di fronte alla grave deriva della nostra democrazia, per spezzare il legame perverso tra mafia e politica e riaffermare con forza i valori della nostra Costituzione, delle leggi e dei simboli della nostra Repubblica e dell'Unità nazionale'.
Bene. La piattaforma ha fatto discutere ma più fuori che dentro il consiglio regionale.
Il novembre 2009 Libera Piemonte ha presentato i risultati su quelle proposte e proprio sul rapporto etica e politica che sono emersi orientamenti che fanno ben sperare, in una regione non immune all' aggressione mafiosa della 'ndrangheta e di Cosa nostra in particolare. Solo l' 1 % degli intervistati, infatti, si è detto favorevole a "candidare persone condannate o rinviate a giudizio per mafia" alle elezioni.
E nel Palazzo? Un disastro.
"La nostra presenza, l'invito al dialogo, la ricerca di una fattiva collaborazione tra rappresentanti delle istituzioni e la società civile - hanno dichiarato i promotori - non ha sortito i risultati desiderati. In molti si sono sottratti al dialogo, con differenze marcate tra gli schieramenti. Solo metà dei componenti della giunta ha risposto alla sollecitazione arrivata dal percorso partecipato, fra questi l'ex presidente della Regione, Mercedes Bresso. Negli schieramenti: il 64% della maggioranza del Consiglio ha risposto e il 21 % di quelli dell'opposizione no ':
Roberto Cota, candidato con il centro-destra e neo Governatore della Regione Piemonte, di Novara, e dunque sensibilissimo al tema delle infiltrazioni mafiose sul suo territorio, il 27 gennaio 2010 esulterà per la risposta sul rischio di infiltrazioni negli appalti dell' alta velocità Torino Lione nel question time a Montecitorio del ministro dell'Interno Roberto Maroni, come immortalò il cronista dell'Asca che dettò poi, lo stesso giorno, questo lancio: "L'Alta velocità Torino-Lione è un'opera fondamentale - afferma Cota - e rappresenta una grande opportunità per la . Val Susa, per il Piemonte e per l'intero sistema infrastrutturale italiano, esiste una tabella di marcia molto serrata per la realizzazione e ce quindi il rischio di infiltrazioni mafiose negli appalti e subappalti. Per questo motivo abbiamo chiesto al Governo di assumere le iniziative anche legislative, così come già fatto per l'Expo 2015 e la ricostruzione in Abruzzo, volte a costituire un organismo decentrato, ad hoc, che garantisca efficienza, e trasparenza sugli appalti per la realizzazione dell'opera, effettuando un'azione di vigilanza contro possibili infiltrazioni mafiose nelle aziende che si occuperanno degli appalti dei lavori, dei servizi e delle forniture, individuando una white list delle imprese e controllando la tracciabilità dei pagamenti di appalti e subappalti':

Valle d'Aosta terra di frontiera

Nel luglio 2004 La Stampa rilanciava con grande evidenza, nelle pagine valdostane, alcuni passi della relazione della Commissione parlamentare antimafia che aveva utilizzato materiale della magistratura raccolto tra ottobre 2002 e novembre 2003.
Nella relazione si leggeva che "la presenza mafiosa più significativa è rappresentata sempre da famiglie calabresi, in particolare quelle dei Nirta e dei Facchineri, che mantengono stretti contatti con le maggiori cosche della 'ndrangheta operanti in Piemonte ed in Calabria'~
L’allora presidente della giunta regionale, l'ex senatore Carlo Perrin, dichiarò: "Non abbiamo manifestazioni tangibili dell'operatività di organizzazioni criminali di tipo mafioso':
La magistratura e le forze di polizia hanno, però, confermato "la presenza di soggetti riconducibili a tali organizzazioni, sia per legami processualmente accertati, sia per correità e parentela. La quasi totalità di tali presenze riguardano la 'ndrangheta':
Venivano citate cosche legate alle famiglie Nirta, Iocolano Cavallo, Iaria, Forgione, Torcasio, Asciutto-Neri-Grimaldi, Iamonte, Facchineri e Libri.
Nella relazione della Commissione parlamentare non si parlava più di omicidi e faide ma della "presenza non sporadica di noti personaggi già ricoprenti ruoli di primo piano nelle cosche, ovvero contigui alle stesse':
Inoltre le cosche di San Giorgio Morgeto, in provincia di Reggio Calabria da cui proviene la stragrande maggioranza dei calabresi stabilitisi in Valle, godrebbero ad Aosta di un "locale di servizio", espressione utilizzata per indicare un gruppo di persone disponibili a fornire appoggio logistico oppure ospitalità ai latitanti. L’allora questore di Aosta, Claudio Proietti, aveva accennato a una informazione raccolta un paio d'anni prima da un investigatore nella quale si evidenziava il fatto che alcuni parenti di personaggi detenuti oppure latitanti avevano fatto richieste di aiuto economico a imprenditori della Valle. /1vevo sentito che nel passato c'era stata - spiegò Proietti - sempre però più a titolo di solidarietà, tra persone vicine a esponenti delle cosche, qualche richiesta di aiuto. Non una forma o una richiesta estorsiva.
Il capitolo investigativo, spiegò la Stampa, non fu mai aperto, anche perché probabilmente frenato dall'arresto del boss Luigi Facchineri, tra i potenziali beneficiari di quegli aiuti.
"Chi aveva avanzato le richieste temeva di essere denunciato - aggiunse il questore - e chi aveva offerto il proprio contributo è rimasto del tutto sconosciuto”.

Un' altra segnalazione dell'Ufficio del Territorio di Reggio Calabria ha consentito di avviare la procedura per sospendere l'appalto all'impresa che si occupava delle pulizie nel Palazzo di Giustizia di Aosta. L’iniziativa risale al 2002, ma l'appalto è stato revocato solo il 30 aprile 2004.

Casinò mon amour

I timori maggiori di infiltrazioni mafìose sono legati al Casinò: a SainttVincent sono stati anche uccisi due prestasoldi, Franco Formica, 1'11 dicembre 1998, e Michele Mariano, 1'8 febbraio 1999, due delitti rimasti irrisolti. Secondo un pentito, non sono stati delitti di mafia: le organizzazioni criminali calabresi si sarebbero accordate per "mantenere Saint- Vincent zona ftanca non sottoposta al tradizionale predominio e controllo territoriale, per consentire a tutti di utilizzare il Casinò come meglio avessero voluto':
Ma è proprio così? Le strategie intorno ai casinò, questo sÌ, possono cambiare a seconda delle convenienze del momento, ma da che mondo è mondo i casinò sono richiami irresistibili per le mafie (si veda approfondimento nel capitolo dedicato alla Liguria).
A volte neppure i giornali riportano tutte le notizie di agenzia, talmente tante sono quelle che riguardano le attività illecite che ruotano intorno al Casinò.
Il 19 febbraio 2007l'Adnkronos alle 15.56 batteva questa notizia: "Torino: Polizia arresta 2 usurai, fra le vittime giocatori di casinò". Le vittime, una quarantina, erano piccoli imprenditori in difficoltà ma soprattutto giocatori d'azzardo che frequentavano il Casinò di Saint Vincent, dove uno dei due arrestati lavorava come scambista applicando tassi del 10%. Ai due furono sequestrati preventivamente centinaia di migliaia di euro, 2 Porsche Carrera slk, una Mitsubishi Pajero, 1 stabile di due piani alle periferia di Torino e alcuni conti correnti. I due, nei mesi precedenti all'arresto, avevano fatto girare circa 400mila euro tra versamenti di assegni e continui prelievi di denaro.
Per dare l'idea del miliardario giro d'affari che ruota intorno ai casinò, lo stesso giorno, il 9 febbraio 2007, alle 16.26, l'Ansa batteva questa notizia: "Prestava soldi a giocatori Casinò al 3.000%, arrestato".
A fonte di 9mila euro pagati per giocare al casinò di Saint Vincent si faceva consegnare un assegno da 10mila euro da incassare il giorno successivo, applicando cosi un tasso annuo effettivo globale (Taeg) di circa il 3mila%. L’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di un sessantunenne fu emessa dal Gip (Giudice per l'indagine preliminare) di Torino nell'ambito di un'inchiesta avviata dalla questura torinese dopo che un giocatore, che doveva dei soldi al sessantunenne, aveva denunciato di aver avuto l'auto crivellata con 4 colpi di pistola, probabilmente a scopo estorsivo. Gli inquirenti hanno contestato al "cambia soldi" attivo e molto noto nell' ambiente malavitoso, ben 23 casi di usura. Il sessantunenne nel 2005 aveva subito una rapina (probabilmente da qualche cliente) da 100mila euro e dagli inizi degli anni Novanta viene periodicamente arrestato o denunciato per usura. Come a dire: impunità garantita. E viene in mente la denuncia raccolta dalla Stampa il 15 novembre 2007 del Gip Alessandro Pninas Tola, che a fronte di un'indagine che la magistratura stava conducendo sul narcotraffico tra il Piemonte e la Calabria con la regia della' ndrangheta disse:
"Non li arresto e nego il carcere perché i 34 narcotrafficanti con queste leggi uscirebbero subito”.
Il 26 aprile 2009 a Saint-Vincent nell' ambito dell' operazione contro alcune famiglie della 'ndrangheta operanti in Lombardia, i Carabinieri di Aosta fermarono all'interno del Casinò de la Vallee, Luigi Mancuso, di 32 anni, residente a Cirò (Crotone) e domiciliato a Busto Arsizio (Varese), pregiudicato, e Fabio Zocchi, di 47 anni, residente a Gallarate  (Varese), pregiudicato. Mancuso e Zocchi sono stati fermati proprio mentre si accingevano a entrare nella casa da gioco.
La politica valdostana, a distanza di cosi pochi anni dalle rassicurazioni I t'se dall'allora presidente di giunta Perrin, deve essersi d'un colpo allarmata se, nel giro di pochi mesi, il consiglio regionale è stato chiamato a discutere di criminalità organizzata ai piedi delle montagne.

La prima volta fu costretta dal collega Lirio Abbate (allora all'Ansa oggi .dl'Espresso) che nel corso di un incontro avvenuto il 26 gennaio 2009 al Teatro Giacosa di Aosta con le scolaresche, organizzato dall'assessorato regionale all'Istruzione e cultura e dal Sap (il Sindacato autonomo di polizia) testualmente disse: "Aprite gli occhi, ragazzi. Il clan dei Casalesi e dei Corleonesi ha investito molto in Valle d'Aosta. Qui ha ripulito il denaro della mafia, sporco di sangue”.
I consiglieri del Pd Gianni Rigo e Raimondo Davide Donzel interrogarono il presidente della Regione e, altrettanto fecero, per lo stesso motivo, i consiglieri regionali del gruppo "Vda Vive-Renouveau" Alberto Bertin, Giuseppe Cerise, Albert Chatrian, Roberto Louvin e Paatrizia Morelli.
Di Il a poco, il 15 luglio 2009, il consigliere Gianni Rigo tornò con un'interpellanza sulla presenza della criminalità mafiosa in valle. Generica, come nella precedente occasione, la risposta del presidente della Regione, Augusto Rollandin. ..
Come già evidenziato in occasione della seduta consiliare del 25 febbraio, si legge negli atti della risposta del presidente, "confèrmiamo l'attuale stato di elevata vigilanza e controllo da parte delle Forze dell'Ordine e comunichiamo che nel frattempo non sono emerse novità. Per quanto concerne in particolare le attività di indagine, mi scuso per non poter fornire informazioni, ma queste sono di competenza di altri attori e soggette comunque a riservatezza. Sappiamo che, secondo le attuali normative vigenti sui beni confiscati alle organizzazioni criminali, lo Stato ha facoltà di attribuire ai Comuni interessati dal fènomeno i beni confiscati, a condizione che siano mirati a progetti di recupero, di reinserimento lavorativo e di valenza sociale. Nessun caso concerne ad oggi la Valle d'Aosta. Non ci sottraiamo comunque al confronto sul tema affrontato, ma la normativa in oggetto è chiara: la ratio di questa legge demanda la possibilità di intervento alla valutazione individuale di ogni singola realtà territoriale, siano esse Regioni o Comuni, nel pieno della loro autonomia operativa. Riteniamo, pertanto, difficile intraprendere strade diverse da quanto disciplinato dalla normativa nazionale, a pena di interferire con le azioni ed i piani che ogni singola realtà intende attuare”.
Nella replica, il Consigliere Gianni Rigo ha detto di cogliere positivamente "la disponibilità espressa in merito ad un'eventuale collaborazione per gestire uno dei tanti beni confiscati alla mafia. Nei prossimi mesi, approfondimenti in materia potrebbero essere effettuati in Commissione consiliare':
L’ipocrisia della politica - tra domande e risposte - è fenomenale. Sembra quasi che ogni volta scopra l'acqua calda. Possibile che i politici valdostani, appartenenti a ogni schieramento, ancora si meraviglino di fronte al fatto che qualunque casinò rappresenta un richiamo irresistibile per l'economia criminale? Ad esempio, tanto per citare un altro episodio, già il 26 settembre 2006 un'inchiesta della Direzione investigativa antimafia di Palermo portò all'arresto di 13 persone con l'accusa di riciclaggio e usura.
I boss mafiosi di Villabate (Palermo) avrebbero riciclato denaro proveniente dalle estorsioni e da traffici illegali nel casinò di Saint Vincent. Dagli accertamenti svolti, emerse che un gruppo vicino al boss Nicola Mandalà - già incarcerato per mafia e accusato di avere gestito negli ultimi anni la latitanza di Bernardo Provenzano - avrebbe riciclato denaro sporco nella sala da gioco con la complicità di alcuni dipendenti del casinò, che adesso risultano indagati. Secondo gli inquirenti sarebbero una decina i milioni di euro riciclati tra il 200 l e il 2005 dai boss mafiosi nella casa da gioco di Saint Vincent, attraverso disoccupati o piccoli gruppi familiari che venivano inviati periodicamente nella casa da gioco. Dagli accertamenti risulta che alcuni dipendenti del casinò avevano notato che gli uomini di Nicola Mandalà facevano spesso cambi di fiches non autorizzati, mentre in diverse occasioni avevano presentato delle apposite relazioni. Il casinò di Saint Vincent, infatti, è risultato estraneo al riciclaggio.
Il casinò de la Vallée di Saint Vincent - successivamente - formò comunque una commissione interna per verificare le presenze e l'attività di gioco delle persone arrestate in seguito all'indagine della Dda di Palermo. Compito della commissione fu anche quello di accertare eventuali responsabilità dei dipendenti della casa da gioco. A comunicarlo III il presidente della casinò de la Vallée Spa Moreno Martini. Di quella indagine interna, giustamente, non si conosce il risultato.

LE MAFIE SVERNANO IN LIGURIA E FANNO IL PROPRIO GIOCO NEL CASINO’ DI SANREMO

LIGURIA E MONTECARLO

Sofia Loren la musica di Ascolese e Fabrizio De Andrè

Nessuno (o quasi) si ricorda del marito, man'e pece, così chiamato perché aveva sempre la mano attaccata alla pistola. Incollata come se avesse la pece.
Tutti invece ricordano Carmela, che doveva il suo soprannome alla pasticceria di famiglia a Napoli. Da una città di mare a un' altra, si era accasata a Genova e la sua incredibile storia, cosl racconta la tradizione, ispirò il film di Vittorio De Sica Ieri, oggi e domani del 1963 che, due anni dopo, si aggiudicò L’oscar come miglior film straniero.
La pellicola era a episodi. Nel primo, Adelina, interpretata da una conturbante Sophia Loren, una scaltra contrabbandiera di sigarette che vive a Napoli con Carmine, marito disoccupato, rischia la galera, ma può evitarla se rimane incinta. Diversi anni dopo e sette bambini dopo, il povero Carmine, stanco ed esausto, non riuscirà più ad avere figli e Adelina dovrà andare in carcere.
L’ispiratrice leggendaria di quel film - Carmela - morirà nella sua casa genovese in via Prè, nel cuore del cuore del centro storico genovese, il 24 gennaio 2004.
Negli anni Sessanta i carrugi genovesi erano questo. Criminalità spicciola che ispirò persino romanticismo e passioni dei bei tempi andati Il cantautore ligure Aldo Ascolese, classe '64, che qualcuno (arditamente) definisce il nuovo Fabrizio De Andrè, il 24 luglio 2009 rilascia un'intervista al sito www.athosenrile.blogspot.comin cui alla domanda dell'intervistatore su Genova e i suoi mitici carrugi racconta: "Guarda, se ti inoltri nei vicoli, ancora oggi ogni dieci metri incontri un personaggio strano, anche se non ci sono più le storie di un tempo.
Prima i vicoli erano governati dalla mafia italiana; io ho conosciuto Carmela Ferro, in arte Marechiaro: era famosa per essere riuscita a evitare più volte il carcere grazie a ben dieci gravidanze ... anche io ne rimasi colpito e scrissi una canzone riguardo quella storia, ma credimi, preferivo i vicoli di un tempo che gli attuali; prima se ti facevi i cavoli tuoi nessuno ti toccava e potevi girare tranquillo, adesso è molto peggio, non sei più padrone della tua città, o meglio dei tuoi vicoli”.
Il poeta Fabrizio De Andrè, nato a Genova il 18 febbraio 1940 e morto a Milano 1'11 gennaio 1999, aveva immortalato con crudezza nella splendida canzone Don Raffaè un altro tipo di finto romanticismo legato ai boss. Quello che faceva capo al criminale Raffaele Cutolo, al quale la canzone inserita nell' album del 1990 Le nuvole si ispira. Il titolo dell' album era emblematico, con la sua allusione ai potenti che oscurano il sole. La canzone-poesia è una condanna crudele della società italiana e ai falsi miti della criminalità che tutto possono. A partire dalla politica. Quella coppia di napoletani rappresentava il pionierismo della criminalità economica. Il figlio di Francesco Fucci e Carmela, Giannino, all'alba della Pasqua 1991, il 31 marzo, fa benzina a Genova in via Lungobisagno d'Istria. Giannino gravitava nell' ambito delle bische. Fu freddato con un colpo alla nuca. Qualche ora prima, almeno così raccontano le cronache locali, avrebbe partecipato a una rissa con sparatoria in una sala d'azzardo clandestina.
Un altro figlio della coppia, Antonio, il15 giugno 2007 - come si può leggere sul Secolo XIX online - aveva trasformato il suo appartamento in piazza Metelino, centro storico, in un bunker protetto da portoncini blindati e sofisticate radio-telecamere per poter spacciare cocaina e hashish in tutta tranquillità. Ma è stato sorpreso e arrestato dalla polizia del commissariato Pré.
Il 30 aprile 2007, Amalia, quarantacinquenne figlia della famiglia dei Marechiaro, viene condannata a 7 anni e mezzo con rito abbreviato per detenzione di mezzo chilo di droga. Con lei - come riporta il sito www;casadellalegalita.it - agli arresti va anche Mohamed Lasmar, 35 anni, marocchino, che ha subito una condanna a 6 anni e 2 mesi. L’accusa è la fornitura dell' eroina per lo spaccio in via Prè. La Fucci ha ammesso la detenzione. L’asmar eseguiva la consegna ai pusher su ordinazione.
Insomma, alcuni dei figli, che avevano con la mamma ispirato film e canzoni, si erano messi in pasticci che di romantico avevano ben poco. Loro, forse, avevano capito che il fascino delle "bionde" - ammesso e non concesso che sia mai esistito - era diventato un inutile smanceria. Per fare i soldi, altro che fumo di sigaretta! Fumo di hashish e strisce di coca. Ecco. Quello si che era business ...
A Genova e in tutta Italia, però, il contrabbando di sigarette continua anche se a piazzare un banchetto e vendere sigarette di contrabbando per i carrugi non è più lo scugnizzo di turno e il traffico si incanala altrove. Il 23 luglio 2008, tanto per citare una delle tante operazioni compiute dalla Guardia di Finanza, nel porto di Genova (crocevia, come tutti i porti, di traffici leciti e illeciti) sono state sequestrate circa 2 tonnellate e mezza di tabacco trinciato per narghilè. I tabacchi erano abilmente nascosti sotto un carico di copertura costituito da oggetti ornamentali e mobili in legno. Il container era proveniente dall'Egitto e destinato a un cittadino egiziano residente nel bresciano.
Ad ottobre 2008, nell' ambito dell' operazione denominata "Top Coat" nello stesso porto furono sequestrate quasi 1 O tonnellate di tabacco lavorato estero, trasportato a bordo di un container proveniente da Singapore, destinato a Valencia (Spagna).
Di li a poco fu individuato un ulteriore container in arrivo nello scalo portuale ligure anch' esso destinato a Valencia, con il successivo sequestro di altri 10 tonnellate di bionde.

Gli ispettori del lavoro minacciati

I ione italiana dei lavoratori edili e affini del sindacato Cis!.
Il titolo del comunicato stampa è chiaro, ma non chiarissimo se non '.i mastica un minimo di economia e di sindacato: "Ispettore del lavoro minaccia rist: 'Lascia stare i cantieri"'.
Un po' più chiaro il sommario: "La vicenda è avvenuta a Genova. Convocazione informale per l'rlst e minacce da parte di un ispettore del lavoro. 'Se continui a visitare i cantieri ci vediamo in Tribunale'''.
Ma cos è 'sto benedetto rlst? Non è nient' altro che il rappresentante dei lavoratori per la sicurezza territoriale, in questo caso del sindacato edile genovese. E cosa aveva fatto di male costui? Aveva provato a visitare un cantiere edile a Cogoleto, a due passi dal capoluogo, cosi come previsto dalla legge sulla sicurezza nei luoghi di lavoro (meglio nota come 626/94), la contrattazione collettiva e il decreto legislativo 81/2008, nient' altro che il Testo Unico sulla sicurezza.
"Dopo aver visitato un cantiere edile- racconta Carmine Cascella, il rappresentante della Filca oggetto di avvertimento - ho ricevuto una telefonata nella quale mi si invitava a recarmi presso la direzione provinciale del lavoro. Lì un ispettore mi ha letteralmente aggredito verbalmente, minacciato e invitato a non entrare in alcun cantiere e non parlare con i lavoratori':
Cascella, solo qualche giorno prima, aveva cercato di fare il mestiere per il quale viene pagato. "Mi sono presentato come rlst, ho lasciato il mio biglietto da visita all'unico lavoratore presente, un extracomunitario che aveva difficoltà a capire la nostra lingua, che non sapeva neppure per quale impresa lavorasse. Nel cantiere non c'era alcun cartello identificativo. All'uomo non ho richiesto alcun tipo di documentazione relativo alla regolarità, compito non mio. E questo nonostante abbia avuto da subito il forte sospetto che fosse in nero. Tutto qui. Ho svolto il mio compito come sempre, rispettando alla lettera la legge 626, contratto e Testo Unico':
Ma a qualcuno quella visita, evidentemente, dava fastidio. "L'ispettore continua nel suo racconto Cascella - mi ha accusato in modo aggressivo di aver effettuato un'ispezione all'interno del cantiere, qualificandomi come ispettore, entrando in un'abitazione, che tra l'altro era chiusa a chiave, non
La seconda storia che voglio raccontarvi è invece una di quelle poco conosciute ma che è spia delle pressioni e dei rischi ai quali è sottoposta l'economia sana ligure.

Il 27 giugno 2008, alle 16.19, giunge al Sole 24-0re un fax che qualcuno spedisce dalla sede della Filca di Genova.

Da questo atteggiamento alle minacce (secondo quanto messo nero su bianco da Fi1ca Cisl e, secondo quanto dichiarato alla stampa, registrato su nastro) il passo è stato breve. "Mi ha detto di lasciar perdere i cantieri - ricorda Cascella - e i lavoratori. Se continui, chi ha minacciato, ti becchi una querela e ci vediamo in Tribunale”.
L’11 luglio, a Genova, il consiglio generale della Fi1ca Cisl Liguria, in- 0teramente dedicato al ruolo dei Rappresentanti dei lavoratori per la sicurezza territoriale - come riporta il quotidiano sindacale "Conquiste del Lavoro" del giorno dopo - si domanda chi ha paura dei controlli nei cantieri.
Della vicenda se ne occuperà marginalmente la stampa ligure, che riprenderà poi la notizia il 16 ottobre 2008. Quel giorno il Secolo XIX riporterà che il funzionario della direzione provinciale del lavoro respinge ogni addebito e risponderà con querela alle accuse del sindacalista che, a sua volta, aveva già avviato un'azione legale. Nel frattempo, la magistratura ligure aveva aperto un'inchiesta di cui si son perse, finora, le tracce. La contesa, evidentemente, è ancora aperta.
Quel che conta però - indipendentemente dall' esito presente o futuro della causa legale - è il clima che, dagli anni Settanta in avanti, si respira nei cantieri edili liguri, molti dei quali, sospettano sindacalisti e Forze dell'Ordine, sono in mano a prestanome delle mafie, in particolar modo calabrese.
Salvatore Teresi, segretario generale della Fi1ca Cisl di Genova, all'epoca eresse un muro intorno a Cascella. "Sarei curioso di sapere- disse - chi ha fatto la segnalazione all'ispettore e se si muove per interesse generale o di qualche gruppo. Si tratta certamente di una persona che non ha a cuore la sicurezza nei luoghi di lavoro e che ha interesse soltanto ad alimentare il clima di veleni in questa città. Cascella è l'unico rappresentante che opera realmente sul territorio e a qualcuno potrebbero aver dato fastidio i risultati che quotidianamente raggiunge”.
Pochi mesi prima di questo clamoroso scontro, il Secolo XIX, il 23 maggio, a pagina 3 titolava: "Bufera su Genova - Voti per appalti, l'inchiesta dilaga". In un passaggio del pezzo si fa, per l'ennesima volta, il nome di Gino Mamone, calabrese, a capo di un impero tra i leader in Italia, Ecoge, che spazia dalla gestione dei rifiuti alle bonifiche ambientali, già oggetto di un'informativa della Dia nel 2002. In un rapporto del 2007, secondo il Secolo XIX, la Guardia di Finanza avrebbe riportato a galla quel rapporto della Direzione investigativa antimafia che evidenziava i rapporti fra esponenti della 'ndrangheta calabrese e diverse imprese edili, tra le quali, appunto, quella di Mamone.
Gino Mamone - sul quale non pende attualmente alcuna condanna e che continua a negare ogni accusa o addebito - risponderà per le rime c lo stesso giorno, sullo stesso quotidiano, intervistato, dirà: "lo sono qui, non scappo. Se ritengono che ho fatto qualcosa di male, vengano i Carabinieri ad arrestarmi. Altrimenti basta con questa campagna contro di noi, che sta uccidendo la nostra azienda e mettendo a rischio il futuro di 120 famiglie ... Sono stufo di essere additato come un mafioso, chiudo l'azienda e non ne parliamo più”.
Non ha chiuso, il suo impero è ancora lì, ancora bersagliato da inchieste giornalistiche che, anche di recente, ne hanno riportato a galla interessi e amicizie pericolose, sempre e comunque negate.

L’asse di potere infranto
Maggio 2008. Il Sole-24 Ore mi manda a Genova per seguire gli sviluppi dell'inchiesta "mensopoli", esplosa lì quasi casualmente intorno a degli appalti per la forni tura di alcuni servizi.
Quella mini-tangentopoli (che poi si rivelerà molto di più) fu un avviso ai naviganti.
Una sirena urlata nelle orecchie dei poteri che hanno abbandonato la vecchia rotta e non trovano la nuova in grado di far navigare tutti.

Il vecchio asse di potere è stato messo in discussione - ma sembra di nuovo correre sui vecchi binari - quando Vincenzi ha cominciato a sparigliare le carte su alcuni fronti caldi. A partire da quello del Porto dove al posto di Giovanni Novi (già ai domiciliari per concussione, turbativa d'asta e truffa in un'inchiesta sulle concessioni dei terminal) presso l'Authority ha voluto Luigi Merlo. E ora sul porto fioccano le inchieste della magistratura e le polemiche sui ritardi nelle inchieste e, soprattutto, sulle loro conclusioni.
Altro giocattolo incrinato è quello delle 33 partecipate del Comune, rifugio di centinaia di presidenti (tra cui un ex piduista), amministratori delegati e consiglieri che costavano oltre un milione all'anno. Nel 2008 erano in tutto 46 e costavano 702mila euro. L’urbanistica infine - con tutto quel che ne consegue, compresa la delega per lungo tempo trattenuta dal sindaco - che sarà terreno di battaglie in cui qualche politico rischia la faccia (e non solo).
In pochi a Genova credono che una Procura si possa muovere solo per qualche appalto nella ristorazione, alcune raccomandazioni, due o tre favori e poco più. In molti ricordano che qui - prima di quei passi che hanno fatto tanto rumore - la magistratura ordinaria si è girata spesso dall'altra parte e quella contabile ha fatto le pulci a tutti tranne che al Comune di Genova.
No. Sotto c'è altro e i ben informati raccontano che affari, inchieste e indagini - quelle pericolose davvero - ruotano intorno agli appalti della Regione (attraverso la finanziaria Filse) e per le bonifiche delle aree industriali. Qui girano i soldi: quelli che cambiano (anche) la vita anche agli amministratori disonesti. Appalti milionari, alcuni dei quali già affidati. Altri da bandire. Altri ancora in fase di stallo. Se le carte in mano a investigatori e magistrati si concretizzeranno in provvedimenti e sviluppi processuali, molto dipenderà da come i pezzi del potere genovese cercheranno di rimettere in sesto l'equilibrio che in questa città - dopo l'addio delle partecipazioni statali - era stato faticosamente trovato. Sotto la lente della magistratura - scrivevo ancora il 27 maggio 2008 - ci sarebbero, da tempo, innanzi tutto gli appalti delle bonifiche delle aree di Cornigliano e Stoppani (fra Arenzano e Cogoleto). Le cifre a disposizione sono milionarie ma nessuno è in grado di quantificarle. Neppure il sindacato. ':Abbiamo provato a chiedere i numeri - dichiarò Sergio Migliorini, segretario generale della Cisl Liguria - ma niente da fare. L'accordo di programma per bonifica, risanamento, riconversione e sviluppo del polo siderurgico di Cornigliano rimanda, per le risorse, a leggi e norme. Di fatto la sola Cornigliano spa è in grado di saperne di più, ma dalla partecipata del Comune non esce nulla. Quanto alla riqualificazione dell'area Stoppani la situazione è critica. Sono in corso alcune opere di mantenimento ma nulla più'~ Nel frattempo sarebbero stati imbrigliati dal cemento fiumi di cromo, veleno allo stato puro.
Migliorini non lo disse ma forse lo sapeva: gli spezzoni di indagine di quelle settimane erano figli di un filone molto più ampio che partì con le denunce alla Dia nel dicembre 2005 di Asia Ostertag, moglie separata di un membro della famiglia Mamone, del ramo bonifiche e smaltimento, che in Liguria ha creato un impero ed è interessato al recupero sia di Cornigliano che dell' area Stoppani. Mamone secondo la stampa ligure compare soprattutto in un rapporto della Dia (Direzione investigativa antimafia) del 2002. Per la Dia la famiglia Mamone è legata da amicizia con la cosca Mammoliti di Oppido Mamertina. E all'Ecoge - tra le società leader dei Mamone - e alle ditte ad essa collegata, la Procura di Genova chiederà il 10 febbraio 2008 la copia di tutti gli atti di concessione o lavori ottenuti anche dall'Autorità portuale.

La regina dell' eros

Asia Ostertag, 42 anni, torinese, sposata con Vincenzo Mamone, fratello di Gino, dal1'85 al '99, accetta di parlare con un giornalista. La incontro il 26 maggio nell' albergo dove alloggio per seguire l'inchiesta "mensopoli". È appariscente in un modo esagerato. La camicetta generosamente aperta sul seno lascia poco all'immaginazione e molto alla pietas cristiana. Da febbraio 2006 all'estate dello stesso anno ha vissuto in regime di protezione, che ha poi lasciato perché, dice, delusa. "Alla Dia - mi raccontò - ho detto tutto quello che sapevo della famiglia. A partire dal fatto che risultavo intestataria di decine di conti correnti, società, negozi e attività di cui non sapevo nulla. Un bel giorno ho detto basta a questo sistema folle che mi vedeva coinvolta anche in società estere'~ Di legami con la ' ndrangheta non parlò ma i fatti che raccontò dicono più delle parole. "Ho fatto da madrina ai figli di Carmelo Gullace- disse - e lui ha fatto da padrino ai miei': E i legami con la massoneria? "Mio marito era iscritto ad una loggia credo prima a Roma e poi Sanremo - dichiarò d'un fiato - mentre io sono stata iscritta a una loggia di Genova dalla quale sono uscita quattro anni fa”.
Asia si è ricostruita una vita che manda a gambe all' aria ogni regola di sangue delle famiglie calabresi. "Organizzo eventi erotici - svelò - in cui sono protagonista. Non c'è nulla che può distruggerli più di questo mio atteggiamento': Prima di ritornare a casa mi fece una considerazione e una previsione. "Per uscire dalla famiglia, dalle società, dai legami e dalla massoneria - dice - ho impiegato anni. Credo, però, che quello che sta uscendo è solo la punta di un iceberg. Ancora non è stato scandagliato il pozzo nero degli affari. Quel giorno potrebbe arrivare e allora avrò paura'~ Previsione (in parte) azzeccata. 1119 giugn02009, oltre un anno dopo la mia serie di inchieste a Genova che proprio su quei settori aveva acceso i riflettori, il Secolo XIX titolerà in prima pagina: "Bonifiche, appalti truccati a Genova. Interessate le aree di Cornigliano e dell' ex oleificio Gaslini". Tra i 36 indagati per i lavori per oltre 20 milioni, anche Gino Mamone, ex muratore e ruspista a 15 anni, re delle demolizioni nelle ex raffinerie. Attraverso i suoi legali, anche in questo caso, Mamone smentisce ogni azione illecita e ogni coinvolgimento. Il 13 gennaio 20 l O Mamone si siede per tre ore davanti al Pm Francesco Pinto che continua a indagare anche su quegli appalti e su quelle bonifiche. Anche in questa occasione, come riporta il Secolo XIX a pagina 25 il 14 gennaio 20 l O, la linea difensiva sarebbe quella dell' assoluta estraneità da ogni ipotesi di corruzione o di accordi illegali che coinvolgerebbero anche politici liguri di primo piano.
Tutte le attività dei Mamone, oltre che sotto la lente della magistratura, lo sono della società civile. "Lo vado ripetendo da tempo - dichiara Christian Abbondanza presidente dell' onlus La casa della legalità - che Genova è lo specchio in cui si affaccia e si rifà il trucco la parte peggiore della Calabria”.

Genova strega e ammalia

Genova strega, ammalia e confonde. A partire dai politici. Non parliamo, poi, delle politiche (donne). Genova strega, ammalia e confonde anche chi vi transita. Come, ad esempio, questori e prefetti. Protagonisti involontari intorno a un tema serio: la mafia.
Prendiamo il sindaco di Genova, Marta Vincenzi. Sulla Stampa del 22 marzo 2009 tuona contro le mafie nel capoluogo e, giustamente, il giornale titolò: "Le mani della mafia nel cuore di Genova'.
Vincenzi, ancora abbracciata ai tiepidi raggi del sole, il 23 marzo rilancerà il suo pensiero attraverso le colonne della "Gazzetta del Lunedì" che titola: "Rischio mafia anche nei vicoli a Genova'. E lì dichiarerà: "L'ultimo rapporto della Commissione antimafia è preoccupante, perché individua l'espansione delle mafie nelle aree più ricche dellt1talia del nord e indica la tendenza dello spaccio di eroina in aumento, perciò ho lanciato un allarme a favore della legalità”.
Il sindaco Vincenzi è talmente allarmata da restare sconcertata da una cosa apparentemente minore: un bando comunale, riservato alle imprese che volevano insediarsi nel quartiere della Maddalena e sviluppare lì la propria attività, era andato deserto. In tutto 1,3 milioni di euro che incredibilmente - in periodo di crisi - non facevano gola e che il sindaco temeva che potessero finire nelle mani della criminalità organizzata.
Ben fatto. Che se ne parli. Sempre. Ma ...
Può un amministratore comunale di lunghissimo corso - Vincenzi è stata consigliere comunale, assessore negli anni '90, presidente della Provincia, eurodeputato e infine sindaco - accorgersi solo il 22 marzo 2009 dell'esistenza delle mafie a Genova e dei suoi tentacoli sulla società e l'economia genovese e ligure?

La risposta è: no, non può. Ma poi ti assale il dubbio. E così ho preso - e letto - le "100 pagine 1 00" del programma con la quale Vincenzi si è candidata a sindaco della sua città: non "una volta una” è citata la parola mafia. Il tema semplicemente non esiste. Si parla genericamente di sicurezza con tante belle parole ma nessuna denuncia diretta e tosta del fenomeno mafioso. Con quel programma è stata eletta sindaco il 27/5/2007. Dei tre numeri due sono ricorrenti: Vincenzi è infatti nata il 27/5/47, 63 anni fa.
Messe a nudo parecchie contraddizioni (sarebbe stata la stessa identica cosa se al Municipio fosse insediato un altro rappresentante di qualunque altra coalizione politica), al sindaco Vincenzi va riconosciuto, comunque, il merito di aver risuonato l'allarme sulle mafie. Giù il cappello, dunque!
Mi sarei aspettato che - suonata la carica - la cavalleria (cioè lo Stato al quale comunque tocca garantire giustizia e sicurezza) avrebbe attaccato lancia in resta.
E invece accade l'imponderabile. In sintesi ecco le dichiarazioni rese nell' ordine a varie testate e agenzie dal prefetto e dal questore. Annamaria Cancellieri (prefetto, attualmente in pensione, spedita da qualche mese a Bologna in veste di commissario dopo lo scioglimento del consiglio comunale per lo scandalo o presunto tale legato all'ex sindaco Flavio Del Bono e alle sue pericolose scappatelle amorose): "Non ci risultano infiltrazioni mafiose, al contrario di quanto avviene nel Ponente”. E vai col tango! Mafia a Genova? /t noi non risulta': affermava il questore Salvatore Presenti. E vai col liscio! De Andrè, forse, si sarebbe ispirato di fronte a simile spettacolo.
Evidentemente hanno ragione loro e torto anche i responsabili di SossImpresa Confesercenti. Il leader Andrea Dameri - riporta il sito di Radio Babboleo - testualmente dichiara: "Tutti sanno tutto ma il problema non è mai stato risolto. La zona della Maddalena, ad esempio, è da anni nelle mani di alcune famiglie vicine alla 'ndrangheta':
E dire che - come ricorda Francesco Forgione nella relazione sulla 'ndrangheta approvata dalla Commissione parlamentare antimafia nella scorsa legislatura, di cui Forgione è stato presidente -la' ndranngheta (e non solo) "svernà' in Liguria fin dagli anni '70.
Di fronte alla lettura del programma elettorale non capisco ma mi adeguo (e del resto non c'erano tracce di lotta alle mafie neppure nel programma del principale candidato alla carica di sindaco, Enrico Misso, dell'allora Casa delle libertà): devo prendere atto che effettivamente il sindaco Vincenzi non pensava che in Liguria e a Genova ci fosse un tale livello di penetrazione delle mafie - a partire dalla' ndrangheta - e così capisco perché il sindaco di lungo corso politico lo scopre solo il 21 marzo, mentre a Napoli sfilava nella Giornata della Memoria contro le vittime della mafia (quasi 900 morti acclarati negli anni).
Allora, per non rischiare che un domani altri politici scoprano che in Liguria ci sono le mafie e per dare qualche elemento in più agli "sprovveduti" amministratori liguri (e a quelli che si trovano sul confine regionale), oltre che ai rappresentanti dello Stato, ecco che cosa si legge nelle relazione 2009 della Direzione nazionale antimafia. Ovviamente ve lo dico in sintesi.

I salmoni criminali

I calabresi operosi e laboriosi - come si diceva un tempo - sono arrivati in Liguria con la rinascita economica del Paese nel secondo dopoguerra, quando si è trasferito nella regione un notevole flusso di immigrati attirati dalle attività di ricostruzione di strutture ed infrastrutture e dalla possibilità di lavorare nella vicina Francia.
Il flusso "buono" ha fatto risalire, come salmoni criminali, anche un flusso "cattivo".
Insediamenti mafiosi si registrano infatti, oltre che a Genova, soprattutto nel Ponente Ligure, dove si riscontra una presenza più numerosa di esponenti delle cosche della Piana di Gioia Tauro e delle cosche di Reggio Calabria, mentre nella Riviera di Levante e nella confinante zona toscana di Carrara (ove a rischio di infiltrazione appare anche il settore lapideo) il dato prevalente è rappresentato da presenze originarie della zona jonica calabrese e dal catanzarese.

Ma quelle che appaiono differenze sociali e geografiche nella propria terra, in Liguria svaniscono nel nome degli affari. " ... le diversità e le differenze delle matrici organizzative originarie - scrive il sostituto procuratore nazionale antimafia Anna Canepa, nata a Sanremo nel 1959, che ha cominciato a formare la sua straordinaria attività antimafia nella Procura di Caltagirone nel 1989 e che poi, volontariamente, nel 2009 è· andata 'in quella di Gela - sfumano notevolmente nella composizione e nell'interagire delle strutture della 'ndrangheta operanti in Liguria, nelle quali anzi le diversità di appartenenza e di collegamento originari cedono dinanzi alle preminenti esigenze dell'organizzazione di assicurare l'adeguata mimetizzazione sociale e il razionale controllo delle attività illegali d'interesse. In significativa corrispondenza con le linee generali di più ampi processi di ristrutturazione criminale, può poi ritenersi fondata l'ipotesi investigativa di un collegamento organizzativo su base regionale delle principali articolazioni liguri della 'ndrangheta, al fine del coordinamento delle rispettive iniziative e sfere di influenza criminali, oltre che della razionale gestione dei legami operativi, definiti per specifici ambiti di affari (operazioni di narcotraffico e controllo del gioco d'azzardo, ma anche l'infiltrazione nel mercato degli appalti pubblici, soprattutto in tema di servizi), instaurati con altre, similari strutture delinquenziali, siano queste anch'esse attive in Liguria ovvero in altre parti del territorio nazionale e all'estero':
In definitiva il tentativo è quello di riprodurre anche in Liguria consolidamenti territoriali e collegamenti finalizzati ad assicurare il più efficace controllo dei settori di intervento criminale prescelti e livelli più alti di coesione associativa e impenetrabilità.
L’attuale articolazione regionale di quegli enti delinquenziali, se pure tradizionalmente organizzata attorno alla funzione dei "locali" (esistenti ,I Ventimiglia, Lavagna, Sanremo, Rapallo, Imperia, Savona, Sarzana, Taggia e nella stessa Genova), vede emergere il ruolo equilibratore di vere l' proprie funzioni di "controllo" o "compensazione", attive soprattutto in funzione di regolazione delle tensioni interne e di coordinamento delle attività delle articolazioni di 'ndrangheta in Liguria e nel basso Piemonte, l' di fatto assegnate al locale di Ventimiglia, dove dunque si concentra la complessiva regia delle manovre di penetrazione nei mercati illegali e legali dell'intera regione. In questo contesto risulta comunque confermata la tradizionale centralità delle 'ndrine del versante jonico-reggino.
Nella riviera di Levante c'è la presenza anche di gruppi di origine catanzarese-crotonese legati ai reggini del capoluogo ligure secondo criteri di subordinazione funzionale, specularmente alla natura delle relazioni che, nella regione di origine, lega i "locali" delle province centro-settentrionali della Calabria a quelli di Reggio Calabria.
Nella Riviera di Levante e nella zona toscana (confinante) di Carrara anche il settore lapideo (sì insomma, il marmo, che freddo come il ghiaccio si posa anche sulle nostre tombe) è a rischio di infiltrazione. Le attività dei gruppi criminali aprono un vero e proprio ventaglio: predisposizione di ambienti idonei all'accoglienza e alla protezione di latitanti, ma soprattutto riciclaggio e reinvestimento speculativo, che vengono raggiunte, diversamente da quanto accade in Calabria, senza l'utilizzo in maniera sistematica delle logiche di intimidazione ed omertà sulle quali ordinariamente si fondano i poteri di condizionamento illecito tipici dei sodalizi delinquenziali.
Peraltro alla tecnica di mimetizzazione e sommersione corrisponde una coerente espansione della dimensione affaristica dei gruppi criminali. La crescente ampiezza della sfera di interessi economici che ruota attorno alle varie anime della' ndrangheta ligure contribuisce a spiegare l'interesse registrato in recenti investigazioni, scrive nella relazione Canepa, 'a individuare in ambito locale specifici riferenti amministrativi e politici, oltre che a rinsaldare e saldare le molteplici relazioni delle proprie rappresentanze economiche fiduciarie con gli ambienti imprenditoriali della regione':
Il fenomeno diventa concreto nelle province di Savona (dove operano soprattutto le famiglie Fameli, Fazzari, Gullace e Fotia) e Imperia (dove sono attivi i gruppi Ventre, Sergi, Pellegrino e Iamundo), ma è nitidamente riconoscibile anche nel Levante (dove sono attive le famiglie De Masi, Romeo e Rosmini) e nel genovese (nel quale operano le famiglie Nucera, Rampino, Fogliani, Asciutto).

"Una ulteriore particolare attenzione- spiega Canepa - occorre infine rivolgere nei confronti della provincia di Imperia ove è stata registrata una particolare recrudescenza sotto il profilo delle azioni criminali, soprattutto incendi e danneggiamenti mediante esplosione di colpi d'arma da fuoco, accompagnata da preoccupanti percezioni informative in ordine all'esistenza di momenti di tensione tra taluni esponenti della criminalità organizzata operativi sul detto territorio':

Cantieri navali e mattone
Per chi credesse che Cosa Nostra è sparita dalla Liguria e dal suo capoluogo, eccovi serviti. "Bisogna tener conto - si legge testualmente nella relazione a pagina 508 della relazione della Dna di fine 2008 della perdurante operatività nella città di Genova e in altre zone del territorio regionale': Perdurante: vi è chiaro?
E anche qui è inquietante scoprire che le indagini investigative stanno portando alla luce proiezioni finanziarie e imprenditoriali nel settore della cantieristica navale con collegamenti tra gli impianti produttivi di Palermo e quelli della Spezia.
A dicembre 2009, nel consegnare al capo della Dna, Piero Grasso la sua parte di relazione sulla Liguria, il sostituto procuratore nazionale antimafia Canepa scrive che: " ... complessivamente, attraverso l'obiettivo apprezzamento della convergenza dei plurimi esiti processuali, risulta confèrmata l'efficacia di un'intensa azione repressiva che, se è valsa a ridurre grandemente la capacità di aggressione di quelle strutture tipicamente mafiose, non ne ha, tuttavia, come confèrmato dalle più recenti acquisizioni investigative, azzerato le capacità operative, tuttora persistenti nella gestione dei mercati illegali degli stupefacenti e, soprattutto, del gioco d'azzardo nell'area metropolitana di Genova, anche in ragione della perdurante capacità di manovra degli affiliati rimasti in stato di libertà e della sopravvenuta scarcerazione di Pietro Fiandaca, a ciò collegandosi l'esigenza di dare avvio a nuove, mirate attività di indagine':
La Liguria continua dunque a essere approdo sicuro per gli affari e anche per i latitanti che qui continuano a essere arrestati. Un blitz all'alba del 9 ottobre 2007 portò ad esempio all'arresto di un affiliato al clan Santapaola di Catania. Da sei mesi si era sistemato a Pontedecimo e aveva trovato occupazione presso l'impresa edile (guarda caso ancora cemento) di uno zio.
Ma la latitanza in Liguria non è tranquilla solo per gli uomini di Cosa Nostra. Qualche mese più tardi infatti, il4 agosto 2008, nel corso dell'operazione "Uova del Drago", come riporta Il Quotidiano di Calabria del giorno dopo a pagina 12, furono arrestati nel litorale di Genova Voltri due latitanti della cosca Bonavota di Vibo Valentia. Erano di ritorno da una serena e spensierata giornata di mare.
Già nel 2005 - in una delle più approfondite relazione della Direzione nazionale antimafia, l'allora sostituto procuratore Giovanni Melillo scriveva a pagina 306 che per le cosche il riciclaggio va alla grande e così il reinvestimento speculativo, ma fa male leggere degli interessi in attività economiche legali controllate (riporto testualmente) 'attraverso una fitta rete di partecipazioni societarie nel campo dell'edilizia, soprattutto, ma anche dello smaltimento dei rifiuti e del commercio e una spregiudicata pressione usuraria su operatori economici locali funzionale a obiettivi di sostituzione nell'esercizio di imprese in crisi finanziaria”.
Ancora oggi l'edilizia è il nervo scoperto.
Tutte le grandi, medie e opere pubbliche minori - progettate o in fase di realizzazione - passano ormai al vaglio della Direzione investigativa antimafia: da quelle lungo il Lido genovese a quelle del centro storico genovese, passando per i piani di ristrutturazione delle aree dismesse o per la futura Gronda di Ponente. Persino i lavori della metropolitana genovese sono perennemente sotto la lente di ingrandimento. Il 2 luglio 2009 il Secolo XIX a pagina 25 riportò con grande clamore il blitz del giorno prima in cui i contratti di appalti e subappalti erano stati acquisiti dalla Dia. L’anno prima i Pm di Caltanissetta, indagando su vicende isolane, avevano incidentalmente scoperto che rischi di cemento depotenziato potevano esserci anche per i lavori della metropolitana genovese.

Del resto l'overdose di cemento, legale e illegale, che si è abbattuto in Liguria negli ultimi tempi è tale da aver spinto due giornalisti, Ferruccio Sansa e Marco Preve, a pubblicare un libro-inchiesta dal titolo inequivocabile: Il partito del cemento.
Storie e racconti di speculazioni, lottizzazioni e politiche di pianificazione territoriale all'insegna del calcestruzzo e del mattone. È soprattutto la riviera a cadere sotto i colpi dei costruttori: case, alberghi e porticcioli turistici sono l'ossessione delle giunte d'ogni colore politico. Solo per fare un esempio, a proposito di porticcioli turistici - che si sono rivelati dappertutto il miglior grimaldello per urbanizzare le coste italiane - su una lunghezza di 300 chilometri sono previsti una selva di progetti di nuovi moli, per un totale di 325 mila metri cubi di cemento. In tutta la regione si stima che coleranno circa 3 milioni di nuovo cemento, frutto di future costruzioni. "Cemento che - si legge sull' ultimo rapporto Ecomafia di Legambiente - sempre più spesso sa di mafia e criminalità ambientale”.
In questo quadro di illegalità difficile da contrastare e nella quale la criminalità entra a volte nell'intero ciclo cementizio, altre volte solo in alcuni anelli della catena, gli abusi edilizi (che già negli anni del boom economico hanno stravolto la costa ligure) continuano senza sosta. Gli esempi, solo per rimanere ancorati alla cronaca recente, non mancano. A Finale Ligure (Savona), a marzo 2009 i Carabinieri del Noe di Genova hanno sequestrato un cantiere edile di 7 mila metri quadrati, del valore di 10 milioni.
A febbraio 2009, a Lerici (Sp), il Nucleo di polizia ambientale e forestale ha sequestrato due manufatti abusivi in costruzione. Gli agenti hanno scoperto che era in corso la ristrutturazione di un immobile esistente al posto del quale erano stati realizzati senza nessun titolo edilizio sei nuovi locali a uso abitativo. L’area sulla quale insiste la costruzione è sottoposta a vincolo paesaggistico-ambientale e idrogeologico, all'interno del Parco naturale regionale di Montemarcello Magra.
A ottobre a Lerici è stata sequestrata dal Corpo forestale l'area cantiere all'interno di uno stabilimento balneare, dove erano già in corso i lavori di riqualificazione e trasformazione delle cabine in suite alberrghiere. Lavori iniziati nonostante l'inefficacia dei titoli edilizi abilitanti. Lesclusiva spiaggia per vip rientra in un'area di particolare pregio ammbientale (cosiddetto Sic) nota per essere frequentata da personaggi della cultura, dello spettacol e dello sport. Nei giorni precedenti erano state le associazioni ambientaliste a denunciare che le opere edilizie dovevano essere autorizzate anche dal Parco di Montemarcello Magra.

Lo snodo del narcotraffico internazionale

La posizione geografica della Liguria, essenziale punto di collegamento per i suoi scali portuali tra il nord e il sud Italia, pone la Regione quale snodo centrale nel sistema di importazione in Italia degli stupefacenti (soprattutto da Paesi dell'America meridionale e dalla Spagna). Indagini, anche recentissime, hanno posto in luce il ruolo di ingresso, transito e diramazione verso altre regioni dell'Italia del nord di consistenti quantitativi di hashish e cocaina, destinati a essere immessi in molteplici e spesso differenziate reti di spaccio. Altri procedimenti hanno poi confermato la capacità di controllo raggiunta da gruppi criminali di cittadini extracomunitari (per lo più sudamericani e nordafricani), nella gestione del traffico di stupefacenti con riferimento alle aree di Genova e del Levante ligure.
Senza un' apparente suddivisione del territorio, soprattutto nelle zone del centro storico genovese e del ponente cittadino - si legge nella relazione del dicembre 2009 del sostituto procuratore antimafia Canepa - ci sono numerosi spacciatori, italiani, sudamericani, magrebini, tunisini, albanesi, nigeriani e senegalesi. Il mercato degli stupefacenti si presenta variegato e gli interventi della Polizia evidenziano incontri tra soggetti appartenenti alle varie etnie che, essendo ognuno specializzato in un proprio settore, si accordano per effettuare veri e propri "scambi commerciali. Nell'ultimo periodo sulla piazza genovese inoltre si è registrato !'ingresso nell'illecita attività di compravendita di stupefacenti di cittadini senegalesi, solitamente dediti alla vendita di merce con marchi contraffatti. Numerose operazioni di Polizia giudiziaria hanno dimostrato come a Genova riesca a convivere l'acquisita professionalità degli stranieri con l'annoverata esperienza degli italiani spesso organizzata da soggetti appartenenti a sodalizi criminali':
L’armonia è tale che i grossisti presenti nel capoluogo ligure, nel momento in cui intendono acquistare quantitativi nell' ordine di alcuni chilogrammi, si rivolgono dapprima a mediatori residenti e/o provenienti dalle province siciliane o calabresi, e successivamente, o a volte anche direttamente, a trafficanti soprattutto nelle province di Milano, Bergamo e Brescia, ovvero a persone che organizzano importazioni direttamente da Albania, Olanda, Spagna e Sudamerica.

La camorra vuole riprovarci

Sapendo benissimo ciò che scrive, Canepa, uno tra i magistrati più preparati sul fronte della criminalità organizzata, riporta una cosa apparentemente di risulta che, invece, è molto importante soprattutto alla luce delle guerre (fredde o calde) che le famiglie e le cosche combattono per appropriarsi o riappropriarsi di pascoli criminali.
Senza fare nomi e cognomi, Canepa sottolinea un'indagine focalizzata su un soggetto in passato considerato punto di riferimento di esponenti della Camorra nel Ponente ligure insediatisi in quel territorio al fine di gestire e controllare gran parte dei traffici illeciti che lì venivano consumati. "Nella primavera del 2006 - scrive in un burocratese che però si lascia comunque capire molto - l'assetto parcellizzato della camorra organizzata sul territorio dell'estremo ponente ligure ed in particolare della città di Sanremo ritrovava unità nella presenza di alcuni soggetti napoletani che di fatto hanno restaurato il passato. Sulla scena sanremese infatti è ricomparsa la persona del soggetto citato il quale avvalendosi della collaborazione di altri, ha cercato di riappropriarsi del controllo del territorio come nel passato. Nel quadro come sopra delineato si inseriva un collaboratore di giustizia. Le indagini, che ancora devono avere uno sbocco processuale, offrono un interessante panorama in ordine alle molteplici attività illecite poste in essere sul territorio, attività aventi "manifestazioni" tipicamente mafiose (incendi, danneggiamenti, aggressioni alla persona) non riconducibili ad una vera e propria associazione, ma a soggetti operanti, per quello che risulta, in maniera indipendente anche se per alcune vicende contigue”.
Insomma la camorra si ripropone ai più alti livelli per trasferire Gomorra al caldo sole ligure.

Si scrive porteur, si legge ...


"Quanto infine al Casinò di Sanremo, come del resto per gli altri casinò, va rilevato che intorno ad esso prosperano varie attività, che devono necessariamente essere oggetto di controllo preventivo da parte delle Forze dell'ordine, impegnate in particolare ad assicurare la regolarità del gioco e a svolgere un'azione di filtro delle presenze, atteso che spesso dei pregiudicati si recano nella sala da gioco anche con false identità. Di recente sono stati aperti alcuni siti denominati "casinò on line': inaugurati per Venezia e Sanremo, per cui il server del Casinò è collegato con quelli delle varie carte di credito. È proprio grazie a questi controlli preventivi che si scongiura una massiccia opera di infiltrazione della criminalità organizzata. La Direzione distrettuale antimafia di Genova sta indagando su alcuni camorristi che cercano contatti con il Casinò di Sanremo per far assumere alcuni loro porteurs.
Ecco cosa scrive il sostituto procuratore nazionale antimafia alga Capasso nella relazione consegnata a fine dicembre 2009 al capo della Procura Piero Grasso.
Niente di nuovo. Una conferma: intorno ai casinò girano soldi puliti, gira parte dell' economia sana di una città, di una regione e di una nazione ma gira vorticosamente anche un' enorme economia criminale. Quando ha consegnato la sua parte di relazione, Capasso non poteva sapere che, di lì a qualche settimana, un ben più grave scandalo sarebbe andato a finire come una pallina sulla ruota del Casinò di Sanremo, terra di fiori, canzoni e mafie.

Il porteur - in gergo - è colui che procaccia clienti affetti dal vizio del gioco. Detto così fa tanto fine, detto in modo spiccio vuol dire che è un personaggio che va a caccia di giocatori o polli da spennare. Ricavandone, in cambio, provvigioni che arrivano anche a 70mila euro al mese. Non male no!
Ma anche il casinò ha il suo bel guadagno. In media per ogni mille euro di provvigione riconosciuta al porteur, la casa da gioco ne incassa seimila.
Al Casinò di Sanremo però (anche se non ne troverete alcuna traccia sul sito che pure magnifica la grandezza del gioco e le prodezze prossime venture dei giocatori) qualcosa negli ultimi tempi è andata storta. Brava però la direzione ad accorgersene e a far scattare una verifica interna che ha scoperto un ammanco di tre milioni in cassa legato ai debiti di alcuni clienti sulla cui solvibilità i procacciatori d'affari avevano garantito. A differenza delle altre case da gioco in Italia e all’estero, infatti, i porteurs sanremesi percepiscono la commissione sulla base del denaro cambiato e non su quello effettivamente giocato.
Come ha evidenziato il capo della Procura della Repubblica di Sanremo, Roberto Cavallone, titolare dell'inchiesta scattata in Liguria, i giocatori si limitavano a fare il "giro del tavolo" come si dice in gergo: a fronte del deposito di un assegno a garanzia, ottenevano cioè un credito in fiches che solo in minima parte veniva speso in gioco. Poi andavano alla cassa per cambiare le fiches rimaste (circa il 90%) e sparivano nel nulla.
Il presidente del Casinò di Sanremo, Donato di Ponziano, come riporta il Secolo XIX il 21 gennaio 2010, dopo aver denunciato tutto alla Procura della Repubblica ha dimezzato il numero dei porteurs: da 12 a 6. "Un cambiamento epocale- spiegherà al quotidiano ligure il 28 gennaio - perché per la prima volta non sono stai i Pm a piombare al casinò ma siamo stati noi a dire: ecco le carte, indagate. La verità? Avevamo bisogno dell'assistenza della procura. Quel che avevamo visto era così pesante che non ce l'avremmo fatta a venirne a capo da soli, a rimettere ordine.
Alcuni porteurs sono stati cacciati, altri se ne sono andati con motivazioni che, lette con il senno del poi, hanno del ridicolo: non potevano o non volevano firmare (rifirmare) i contratti al quale erano state inserite due nuove clausole: certificazione antimafia e casellario giudiziario. Prima non ci aveva pensato nessuno. Ora hanno tutti scoperto (una bacinella di) acqua calda.
Questa inchiesta ancora in corso - che sta mettendo in subbuglio la città e la regione nel silenzio dei media nazionali, anche perché ha portato ali' arresto di alcuni dirigenti della casa da gioco - sta però svelando risvolti inquietanti i cui sviluppi sono imprevedibili.
n 17 gennaio 2010, pochi giorni prima che scoppiasse lo scandalo, uno dei funzionari fedeli del Casinò, che ha avuto un ruolo determinante per svelare la truffa, è stato minacciato. A verbale il funzionario ha messo che gli era stato intimato di "fare attenzione a non salire troppo in alto perché se ti fanno qualche piattino avvelenato potresti cadere rovinosamente a terra. A lanciare la minaccia, un dipendente stesso della casa da gioco, finito ora nel registro degli indagati.

Il gioco della politica e l'ombra di gomorra

Immancabile l'ingresso della politica. Uno dei tre politici più influenti della regione, l'ex ministro allo Sviluppo economico Claudio Scajola, è stato Il primo a entrare a piedi uniti nello scandalo che, a parte la Liguria, nel resto d'Italia è stato incredibilmente ignorato. Forse perché le sirene che, quasi in ogni angolo d'Italia, richiamano come una manna dal cielo l'apertura di nuovi casinò, ha suggerito alla politica nazionale di non cavalcare un caso in cui malavita, malazione e ingerenza delle politica sembrano legati a filo triplo.
Scajola ha dichiarato testualmente al Secolo XIX il 25 gennaio 2010:
"Non ho seguito particolarmente l'inchiesta". Poi arriva la considerazione sul Casinò: " ... ha dato a Sanremo, credo, più danno che beneficio, perché ha distorto l'economia di questa città, facendola apparire assistita e sviluppando poco le libere iniziative. Oggi che è ulteriormente cambiato il gioco, è diventato ancor più che in passato fonte di inquinamento e di caduta dei valori, chi sbaglia paga, ci deve essere molta attenzione nella gestione di questa casa da gioco. Mi auguro che possa tornare a mettere insieme al gioco anche una qualità sugli investimenti, la cultura e il turismo, che poi sono le motivazioni per cui il casinò è nato. Se diventa una bisca e per di più di quarta fila non interessa nessuno.
Una bisca che qualche anno prima - quando pure le inchieste fioccavano, le voci si susseguivano e bastava metterci piede dentro per capire che atmosfera si respirasse e chi comandava - era una gallina dalle uova d'oro. Per tutti. Da destra a sinistra.
Impensabile però credere che la politica non abbia la sua influenza sulla casa da gioco e infatti, il 26 gennaio, con un' approfondita nuova punntata sulla vicenda, il Secolo XIx titolerà: "La faida nel Pdl all'ombra del casinò - Resa dei conti fra la "cupola" degli affari e la cordata del sindaco - Le manovre e gli intrighi per la gestione della casa da gioco". E cominciano a spuntare le prime intercettazioni che richiamano politici di primo piano.
Per capire gli interessi in gioco il Secolo XIX è andato a cercare e troovare in Francia, a Mentone, dove vive da latitante da 5 anni dopo essersi sottratto alla sorveglianza speciale a Ospedaletti, Gianni Tagliamento. Uno spocchioso latitante 53enne che ha passato 15 anni in carcere per reati di varia natura e che sfida a viso aperto il giornalista che è andato a scovarlo (a proposito, ma per questo pregiudicato al quale nel passato sono stati sequestrati beni mobili e immobili, la Francia prevede una villeggiatura in Costa Azzurra senza alcuna possibilità di arresto o estradizione?).
"Questi signori della Dia - dichiara - mi hanno rotto ... Perché non vengono a cercarmi. Non hanno i coglioni per farlo. E vediamo se lei ha il coraggio di scriverlo, altrimenti non mi cerchi più ... 
Al collega Fabio Pin il coraggio non è mancato e nel corso dell'intervista il "santo" che tale però non si definisce, nega ogni addebito o contatto delittuoso con il vice direttore del Casinò, come pure si potrebbe intendere ascoltando le intercettazioni telefoniche.
In quell'intervista il boss non può negare la sua vera natura e così, tra una smentita e l'altra (ad esempio non aver alcun ruolo sui legami che sembrerebbero emergere tra azzardo, furti ai tavoli verdi e ambienti politici), Tagliamento lancia un' accusa disgustosa che getta volontariamente discredito su chi gli dà la caccia e vede vanificati gli sforzi a causa della sua fuga e della sua latitanza. Rivolgendosi agli uomini della Dia (Direzione investigativa antimafia) dice infatti: " ... danno retta ai . pentiti e siccome pentito io non sono, allora bisogna inventarsi delle cose contro di me... È gente strana, che guadagna una miseria, veste abiti Brioni e gira con fuoriserie da 50mila euro ... ". Il discredito è l'arma preferita da parte di chi vuole mischiare le carte e far girare il fango nelle pale del ventilatore.
La miseria di quelle parole deve essere messa a confronto con il passato di questo uomo, che sale agli onori della cronaca alla fine degli anni Ottanta, in occasione della scalata per il controllo del casinò di Mentone in Francia.
Strumento dell'iniziativa era Sofextour, società costituita da una serie. di prestanome dietro i quali, secondo la magistratura francese, si celavano interessi italiani. Tutte le piste conducevano a Tagliamento come il soggetto attraverso il quale "la malavita organizzata italian intendeva mettere le mani non solo sul casinò di Mentone ma su buona parte dei casinò francesi. L’intento della cricca, secondo gli inquirenti francesi, era quello di utilizzare il gioco d'azzardo per "ripulire il denaro sporco frutto del traffico di stupefacenti e dei proventi "dell’attività . di contraffazione delle griffe d’alta moda':
Tagliamento ha sempre negato di aver avuto un ruolo nella scalata e in effetti quell'inchiesta è finita nella polvere e, dunque, nel nulla. Tagliamento ha sempre negato anche solo l'amicizia con Michele Zaza, boss della camorra morto nel 1994 nel Policlinico Umberto I di Roma. Zaza venne arrestato in Francia nel maggio '93, a Villeneuvebet, con l'accusa di associazione mafiosa finalizzata al traffico di stupefacenti e duplice omicidio.
Nel frattempo, Tagliamento venne arrestato nel corso dell' operazione "Mare Verde" condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Genova. Lunghissimo l'elenco delle contestazioni, compreso il416 bis, associazione per delinquere di stampo mafioso. La magistratura sosteneva che Tagliamento fosse a capo di una ramificata e potente organizzazione criminale dedita al traffico internazionale di stupefacenti. Al maxi-processo, però, il 416 bis venne derubricato e tutto, ancora una volta, si concluse con una bolla di sapone.
Ah Sanremo Sanremo, città in grado di richiamare anche l"'indotto" criminale. Il 29 aprile 2009 a Sanremo b. questura di Imperia diffondeva alle redazioni dei giornali il seguente comunicato: "Dopo aver ottenuto l'autorizzazione all'esportazione di armi a favore di soggetti di cittadinanza francese, producendo documentazione falsificata, i gestori dell' armeria cedevano le armi a soggetti non autorizzati e legati alla criminalità organizzata. Il trucco sarebbe consistito proprio nella esportazione simulata.
Le indagini e l'inchiesta sono ancora aperte ma il riferimento è a commercianti e imprenditori edili (uno di origine siciliana) che nell' area di Sanremo operano stabilmente.

Gli scali liguri e i traffici pericolosi

La Liguria con la sua posizione geografica strategica rispetto all'Europa e un territorio per la maggior parte costiero è - con i suoi porti - da sempre territorio prediletto dall' ecomafia, soprattutto internazionale. Dal porto di Genova Voltri, ad esempio, prendono il largo la maggior parte delle navi porta container responsabili di numerosi traffici internazionali di rifiuti. È principalmente da qui che l'Italia - si legge ancora nel Rapporto Ecomafia 2009 ,di Legambiente - in buona compagnia con altre nazioni europee, esporta illegalmente scarti di ogni genere.
Si spediscono nei paesi asiatici, africani, medio orientali quantitativi impressionanti di rifiuti'plastici, cartacei, elettronici e materiali derivanti dalla rottamazione di autoveicoli. Come è accaduto nell' ottobre 2008, quando i Carabinieri del Noe di Genova hanno sequestrato al porto di Genova Voltri vari container per un quantitativo complessivo di 105 tonnellate di rifiuti metallici destinati alla Cina. Dalla verifica radio metrica è risultato che uno di questi container era posiitivo al torio, una sostanza radioattiva. Sono stati denunciati i legali rappresentanti delle due ditte per aver attestato falsamente il contenuto dei container.
Stessa storia il 15 luglio dello stesso anno, quando gli stessi inquirenti sequestrarono un container destinato all' estero al cui interno risultavano stipati rifiuti speciali pericolosi, costituiti prevalentemente da pneumatici e batterie per autoveicoli usati, in pessime condizioni. Il reato contestato fu traffico illecito di rifiuti.
Il 10 dicembre 2008 è la volta della Guardia di Finanza che sequestra presso i magazzini generali doganali di Genova due container destinati all'Mrica, precisamente in Ghana. Il carico era costituito soprattutto da parti meccaniche di auto usate, batterie di motori provvisti di olio esausto, giunti, ammortizzatori, assali, scatole guida, bombole di gas ecc. Due le persone denunciate all' autorità giudiziaria e anche qui il reato contestato fu traffico transfrontaliero di rifiuti.
Ad Uscio (Genova), 1'11 ottobre 2008, i Carabinieri del Noe di Genova sequestrarono un'area di circa 40 mila metri quadrati in parte adibita a discarica abusiva di rifiuti speciali provenienti da demolizioni. Dalla provincia di Genova a quella di Savona, il4 aprile 2008, a Loano gli agenti del Noe hanno sequestrato un centro ippico contenente 72 mila chilogrammi di rifiuti in plastica triturati, pieni di sostanze pericolose tra cui il piombo. Rifiuti che servivano all' associazione sportiva come riempimento delle piste dei cavalli.
In località Menotti (Savona), qualche giorno dopo i Carabinieri hanno denunciato 6 persone di cui 4 rappresentanti delle ditte che operavano nel settore dello smaltimento dei rifiuti e 2 tecnici. I reati contestati furono: smaltimento illecito, frode, truffa e falso in atto pubblico nell'esecuzione di un contratto di appalto per la bonifica di una discarica abusiva di rifiuti pericolosi. I rappresentanti delle ditte in concorso tra loro avrebbero gestito abusivamente circa 1.700 tonnellate di rifiuti pericolosi, soprattutto terre e rocce da scavo contaminate da idrocarburi provenienti dalla discarica abusiva. La tecnica adoperata era la solita, denominata dai Carabinieri del "giro bolla'. Ai rifiuti veniva dato un codice identificativo diverso - in modo da barare sulla loro pericolosità - perché potessero finire in impianti di trattamento e recupero della regione, altrimenti non autorizzati a riceverli.

A Quiliano (Savona), nel novembre 2008 i Carabinieri del Noe di Genova hanno sequestrato una porzione di cantiere di bonifica dell'amianto di circa 6 mila metri quadrati e una vasca di circa 2 mila metri dove erano depositati ingenti quantitativi di rifiuti pericolosi e non, costituiti prevalentemente da terre contaminate da idrocarburi misti ad amianto. Sei le persone denunciate all'autorità giudiziaria. Spostandoci a La Spezia, il 27 febbraio 2008 i funzionari dell'Ufficio delle Dogane della Spezia e i militari della Guardia di Finanza hanno sequestrato nel porto mercantile circa 3 tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, costituiti soprattutto da parti meccaniche di auto usate. La merce, spedita da una società emiliana e destinata in Tunisia, proveniva da un centro di autodemolizione di Langhirano (Parma), e avrebbe dovuto essere smaltita con particolari procedure, anziché essere spedita all'estero. Intanto a dicembre 2008 è partita la demolizione della Stoppani di Cogoleto (Ge), industria chimica, per la produzione di sodio, potassio, cromo e derivati, chiusa definitivamente nel 2003. L’operazione coordinata dalla struttura commissariale del Ministero dell'Ambiente, si sviluppa su 241 mila metri quadrati. Il danno ambientale stimato ammonta a 1,254 miliardi di cui 900 milioni per la bonifica. "Spese, si fa per dire - si legge nel Rapporto Ecomafia 2009 di Legambiente - a carico dell'immobiliare Val Lerone, società dichiarata fallita nel giugno 2007 Quindi anticipate dal Ministero per poi rivalersi sul fallimento, con minime probabilità di recuperare il denaro. I lavori sono tanti e complessi, si parte dalla messa in sicurezza delle acque di falda e della demolizione degli edifici, per poi seguire con lo smaltimento delle 6 mila tonnellate di solfato giallo e la successiva bonifica dell'amianto. Sul terreno antistante lo stabilimento sono state riscontrate fino a 25 mila particelle per milione di cromo esavalente, circa millesettecento volte il limite di 15 fissato dalla legge. Mentre il valore riscontrato vicino alla foce del torrente Lerone che lambisce la fabbrica è di 10 mila particelle per milione di cromo esavalente, quando il limite massimo fissato dalla legge è di 1.350'~ La demolizione dovrebbe essere terminata quest' anno, ma abbiamo visto che la magistratura ha già alzato le antenne e dunque le indagini potrebbero rallentare i lavori. La bonifica - sempre inchieste permettendo - è attesa per il 2015.
I porti di sbarco della merce contraffatta sono quelli di Napoli, Gioia Tauro, Taranto e Genova, per i prodotti tessili e i giocattoli i primi tre, per il pellame il quarto. Le metodiche utilizzate per evitare il contingentamento previsto per le merci provenienti dalla Cina ... richiedono indispensabilmente la corruzione degli addetti alla dogana e l'accordo con la mafia locale, come è stato accertato esserci stato con la camorra in alcuni procedimenti (ad esempio l'operazione "Gulliver" della Procura di Napoli), che ha coinvolto insieme ai cinesi i camorristi dei clan Mazzarella, Alleanza di Secondigliano e i Casalesi. Negli ultimi anni si è potuto osservare che i containers cominciano ad arrivare anche nei porti di Palermo e di Catania': Questo è quanto scrive - senza peli sulla lingua ðil sostituto procuratore nazionale antimafia Olga Capasso, a pagina 174 della relazione di fine 2009 della Dna. Il porto di Genova, dunque, è un obiettivo sensibile per i traffici illeciti dalla Cina (e verosimilmente anche per la Cina).
L’operazione "Gulliver" della Guardia di Finanza, conclusa ad aprile 2007, ha riguardato il fenomeno delle importazioni dei prodotti dalla Cina e il monitoraggio delle procedure di sdoganamento. Già nel 2004 l'attività investigativa aveva portato alla redazione di un'informativa conclusiva della Dna con la quale si rilevava come tutti gli indagati di nazionalità cinese avessero costituito una sorta di patto funzionale al commercio illecito, sull'intero territorio nazionale (Napoli, principalmente, ma anche Bari, Roma, Milano, Genova), di prodotti dei quali erano vietate importazione e vendita.
Al successo commerciale dei cittadini cinesi coinvolti hanno contribuito altri personaggi italiani, operanti a vario titolo nelle procedure di importazione e sdoganamento, tra i quali numerosi spedizionieri operanti presso le dogane di Napoli, Roma e Genova.
Del resto i cinesi si sono inseriti bene nel territorio ligure. Chi operando legalmente, chi violando le regole. Che ci si imbatta nell'uno o nell' altro caso, il comun denominatore sono gli immensi capitali a disposizione.

A Genova abitano circa 1.300 cinesi (435 iscritti alla Camera di commercio) e quella cinese è la sesta etnia per numero di presenze. Ma per gli investigatori orientarsi nella realtà demografica di questa comunità è difficilissimo. Il capo della Procura delle Repubblica di Genova, Francesco Lalla, il 16 gennaio 2010 spiegherà bene il concetto al Secolo XIX. A pagina 29 del quotidiano si legge che: " ... il problema principale è rappresentato dalle identificazioni e dai repentini cambi di residenza, che talvolta possono far confondere le identità. Ma non ho notizia di fascicoli clamorosi sul fonte della mala cinese':
Lo stesso giorno il Secolo XIX raccoglie anche la testimonianza di un legale, Piergiovanni Iunca che insieme al collega Giuseppe Giacomini ha difeso alcuni imputati cinesi assolti per un caso di violenza a danno di un concittadino. Dietro quel gesto l'ombra della criminalità organizzata cinese. "Attenzione a usare con troppa disinvoltura il termine omertà. Come per gli imputati italiani anche per i cinesi vanno dimostrati fatti e responsabilità precise. E se non ci sono prove, beh credo che tutti concordino sul dovere di assolvere':
Nessun dubbio e tutti d'accordo con illegale. Però ...
Però il processo al quale Iunca fa riferimento dal Secolo XIX fu titolato: "Mafia cinese e omertà, imputati tutti assolti". E nel lungo catenaccio ci sono la spiegazione e l'antefatto: "Una mano mozzata per vendetta e l'ombra delle triadi in città - Ma i testimoni fanno dietrofront e il processo finisce nel nulli'.
Un titolo che vale più di mille commenti anche perche il quotidiano ligure ricostruisce una lunga scia di sangue cinese - con omicidi e vioolenze - da Novi a Genova, che lascia interdetti sulla leggerezza con la quale a volte la stessa magistratura sottovaluta un fenomeno che viene poi contraddetto, come abbiamo visto sopra, dalle analisi finali della Direzione nazionale antimafia.
Intanto i cinesi e i loro capitali sbarcano a Corigliano come, con un titolo a nove colonne nell' apertura della cronaca genovese, riporta ancora il Secolo XIX il 24 febbraio 2010. "Gli orientali si spostano dal Ponente e acquistano appartamenti prestigiosi".
Per carità, gettare la croce addosso a un' etnia che contribuisce comunque anche all' economia legale della regione sarebbe sbagliato. Anzi: sbagliatissimo. Ma non vigilare su chi ha disponibilità, spesso illimitata, di contanti, sarebbe altrettanto sbagliato.

Racket e usura

Chiariamo subito: credere che racket e usura siano fenomeni legati alla Liguria sarebbe ridicolo. In tutta Italia il fenomeno è diffuso (il business per i due crimini si aggira intorno ai 24 miliardi, mentre i commercianti complessivamente colpiti sono oltre 200mila) e in tutta Italia questi due crimini sono in mano, da sempre alla criminalità organizzata. Forse un discorso a parte meriterebbero i cravattari romani e laziali ma, anche nella Capitale e in quella regione, recenti indagini cominciano a testimoniare la mano pesante delle cosche quanto meno accanto alla forza della mala romana.
E allora perché aprire una finestra sul racket e l'usura in Liguria? Perché - è la sensibilità di giornalista a suggerirlo - la sensazione è che la Liguria si stia avviando non più ad avere una percentuale fisiologica (ammesso e non concesso che possa esistere questo concetto) ma patologica. E che l'organizzazione (o le organizzazioni) siano predisposte a fare di questi crimini un business scientifico con regole che non lasciano scampo ai malcapitati. Del resto non va dimenticato che il racket ma ancor prima l'usura rappresentano un ordinario polmone finanziario per clan e cosche, che diventa straordinario in tempi di crisi economica come quelli che l'Italia (e non solo) sta da tempo attraversando.
E a dare - consapevolmente - la riprova di questa sensazione è l'ultimo rapporto Sos-impresa, reso noto da Confesercenti a gennaio 2010 ed elaborato con Libera, l'associazione contro le mafie fondata da don Luigi Ciotti.

Nel Savonese, più precisamente in Valbormida, un gruppo d'imprenditori ha denunciato, nell' agosto 2008, vari tentativi di estorsioni e attentati incendiari, ritenuti dimostrativi, 'a mezzi e impianti. Furti tentati all'interno di abitazioni degli imprenditori dalle modalità curiose: niente soldi o preziosi trafugati, piuttosto uno strano interesse per carte e documenti. I timori degli imprenditori valbormidesi sono condivisi anche da alcuni loro colleghi di Savona, le cui aziende sono a loro volta finite nel mirino dei raid incendiari. I settori maggiormente presi di mira sono stati quelli dei rifiuti, dell' edilizia e dei nuovi business delle bio masse (legno) con progetti e impianti che svariano da levante a ponente della provincia, sino a Ventimiglia e al Basso Piemonte (Mondovì). Scavando a ritroso si trovano anche vecchi casi di estorsioni in Valbormida, culminati con l'arresto di gang e clan di origini calabresi e siciliane che taglieggiavano gli imprenditori della zona.
A Sanremo (Imperia) dietro una lunga serie d'incendi dolosi in bar, ristoranti e altri locali pubblici si nasconderebbero le minacce della criminalità organizzata. Sono stati una decina gli incendi di sospetta natura dolosa avvenuti tra novembre e dicembre nella zona di Sanremo. Il primo episodio risale al 15 novembre 2009: sul lungomare di Ventimiglia brucia la vettura di un operaio; seguono, a Imperia, il furgone di un ambulante straniero; a Vallebona (sopra Bordighera) vanno in fiamme un' altra auto e uno scooter; a Cipressa, brucia l'auto di un agente della polizia municipale. Il 7 dicembre brucia il dehor di una pizzeria, a Vallecrosia; poi prende fuoco la veranda di un bar-pizzeria di Sanremo; il 15 dicembre, in località Villetta, ignoti aprono una bombola del gas in una rosticceria, dopo aver infranto l'ingresso e appiccano il fuoco; a Bordighera viene devastato dalle fiamme un chiosco di fiori appartenente alla figlia di un assessore.
Tutto frutto del caso o della casualità? Se si leggono le cronache locali non sembrerebbe. E come sempre soccorre in aiuto la bibbia pagana del giornalismo locale: il Secolo XIX.
Il 13 gennaio 2007 il quotidiano, nel fornire la notizia di due fratelli che prestavano a commercianti, artigiani e piccoli imprenditori con interessi del 3% al giorno, ricostruì la rete dei "cravattai della Valpolcevera", lamentando il fatto che dopo lo smantellamento. avvenuto a gennaio 2006 a opera dei Ros dei Carabinieri (il Raggruppamento delle operazioni speciali) e la condanna in primo grado di una serie di persone, il processo di confisca dei loro beni non era neppure iniziato. Lo smantellamento della rete della Valpolcevera era partita da una denuncia di un'imprenditrice che, fra il 2002 e il 2005, a fronte di un debito iniziale di appena 19mila euro, si era trovata a dovere restituire agli strozzini, in due anni, due milioni, accumulati al ritmo di interessi di oltre il 35% annuo.
Il 23 ottobre 2008 altra notizia di attualità del Secolo XIX e altra occasione per ricostruire gli episodi più recenti. Già il titolo di apertura della cronaca genovese non lascia dubbi: "Racket: due arresti e l'ombra della mafia - Diciassette casi di pizzo fanno scattare l'allarme criminalità".
Fossi stato il caporedattore addetto a quel titolo avrei usato il verbo "riscattare" anziché "scattare", perché in realtà quello, appunto, era l'ennesimo caso di una lunghissima serie.
Neanche a dirlo o a fare il facile profeta, che il giorno dopo, lo stesso quotidiano, questa volta in apertura di una pagina interna della cronaca, titolerà: "L’ombra del racket anche su Nervi". Quell'''anche'' spiega tutto. Meglio del lungo e dettagliato articolo che corrobora, qualora ce ne fosse bisogno, l'ipotesi di una vera e propria holding della malavita in cui racket e usura sono strumenti che gonfiano il portafoglio dell' economia criminale. E il 5 maggio 2009 Unimpresa sarà costretta ad annunciare un vademecum contro pizzo e usura, confermando che ormai le due piaghe sono dell'Italia intera e non solo del Sud.
Per finire, sempre il Secolo XIX, il IO marzo 20 l O titola su Genova:
"Molotov contro l'agenzia, 1'ombra della' ndrangheta". Questa volta, dopo una lunga scia di fuoco nei negozi dei quartieri Sampierdarena, Struppa, Teglia e Albaro innescata nel luglio 2009, nel mirino entra un negozio di telefonia ancora a Sampierdarena.
La terza via

La terza e ultima storia la scrivono un politico e un magistrato. Anche loro sono una coppia. Ma non lo sanno. Entrambi sono uniti da una passione: la lotta per la pulizia morale, conditio sine qua non per la prevalenza delle regole, della disciplina e, dunque, della supremazia della società e dell' economia sana su quella criminale.
Il primo è il politico Massimiliano Costa, già vicepresidente della Regione Liguria. Nella newsletter che spedisce regolarmente ai suoi simpatizzanti - lui è del Pd - il 25 settembre 2009 scrive letteralmente a proposito dell' approssimarsi delle primarie della sua coalizione: '1 congressi degli iscritti, in molti casi, hanno evidenziato tutta la loro inutilità. Pochissime persone a discutere, molte ore di apertura dei seggi, molti votanti a cui, in molti casi, veniva persino consegnato il fac-simile di scheda (mozione Bmani) perché ignari di ciò che stavano a fare. Molto triste verificare che le nostalgiche operazioni di partiti dell'altro secolo non tramontano mai! Pesantissima la situazione a Genova ove lo stile mafioso di funzionari stabilitisi decenni or sono impedisce la democrazia vera, inutile raccontare gli eventi, ma sono tristi, tristi davvero'~
Mai, prima di allora, era accaduto che un dirigente di partito ligure mettesse nero su bianco "lo stile mafioso di funzionari" di partito. 011tretutto Costa non arretrò di un millimetro dopo quel comunicato e incassò dai suoi stessi compagni di cordata tiepidissime reazioni. La forza di reagire alle accuse, evidentemente, la dà solo una forza uguale e contraria negli argomenti da spendere. Il Governatore della Regione Claudio Burlando parlerà di "eccessi verbali': mentre il suo collega di partito Andrea Orlando inviterà 'Vario Franceschini (all' epoca segretario del Pd) a prendere le distanze.
Considero questo episodio - al di là del merito delle accuse che non competono a chi scrive - di una gravità assoluta perché rende l'idea di un' assuefazione sociale a metodi che dovrebbero invece restare quanto più lontani dalla politica. E quando emergono niente altro sono che la spia di un malessere diffuso e, dunque, di una inconsapevole presa di coscienza.
E c'è un altro nome, un' altra faccia e, dunque, un' altra storia che rischia di dimostrare come la linea della palma (ri)descritta da Leonardo Sciascia a Giampaolo Pansa nel 1970 (vale a dire l'inarrestabile risalire delle mafie verso il Nord così come la palma non cresce e si sviluppa più solo in Africa) sia ormai non solo giunta a lambire ma addirittura a superare ogni latitudine e longitudine.
Il nome e la faccia sono quelle del capo della Procura della Repubblica di Sanremo, Roberto Cavallone. In un servizio pubblicato da Venerdì di Repubblica il 12 febbraio 2010 si legge la seguente dichiarazione a proposito delle imprese incaricate di demolire manufatti abusivi: "Non si trovano ditte che vogliano eseguire i lavori. Siamo stati costretti a contattare l'Esercito':
La stessa cosa - forse lo sapeva Cavallone, forse no - più o meno nello stesso periodo stava facendo il suo collega Salvatore Vitello, da pochi mesi capo della Procura della Repubblica di Lamezia Terme, capitale mancata della Calabria e del suo sviluppo socio-economico. Di fronte al fuggi fuggi generale di imprese e ditte che avrebbero dovuto cominciare ad abbattere centinaia di case e immobili abusivi in una città letteralmente dominata dalla 'ndrangheta e dalla massoneria deviata che di quella indegna speculazione edilizia è artefice e protagonista con la politica inquinata, si era rivolto, con successo, al Genio guastatori di Palermo (si approfondirà il tema nel capitolo sulla Calabria).
Genova, Liguria-Lamezia, Calabria: la linea della palma italiana si è già alzata da tempo. Se ne sono persino accorti la politica e la magistratura.

Vedi Montecarlo e poi muori

San Marino, San Marino, ma mica solo San Marino! A Montecarlo proseguimento geografico della Liguria - dobbiamo andare per seguire l' olezzo degli sporchi traffici delle mafie e la loro capacità di lavare e profumare il denaro sporco. Altro che Monte Titano! Meglio l'acqua del mare per far partire la lavatrice del ricidaggio!

Mentre molti colleghi scoprono in questi mesi le magagne del sistema creditizio di San Marino (il tema sarà approfondito nel capitolo dedicato a questo Stato), nel cuore dell'Italia, con frontiere virtuali totalmente inefficaci contro imbroglioni e affaristi di tutto il mondo, ci si dimentica che da anni un'altra "moscà' geografica (territorialmente parlando), a due passi dal confine ligure, fa quel che vuole in campo finanziario internazionale: il Principato di Monaco. In questo totale e opaco isolamento delle regole le mafie ci si buttano ... a pesce, facendo affari d'oro. Nel 2008 la Direzione investigativa antimafia (Dia) ha continuato a partecipare alle attività e alle iniziative promosse dal Gafi, il Gruppo di azione finanziaria internazionale, vale a dire il principale istituto di lotta contro il riciclaggio di capitali a livello internazionale.
Nel periodo di riferimento, i rappresentanti della Dia hanno partecipato alle riunioni di coordinamento della delegazione italiana, nonché agli incontri previsti all'interno delle sessioni annuali di lavoro dell'organismo. E guarda caso proprio nel Principato di Monaco, il 24 novembre 2008, si è svolta la riunione annuale sulle tipologie di riciclaggio. "Nell'ambito della riunione- riporto testualmente ciò che scrive la Dia - sono state condivise esperienze operative e proposte nuove strategie nell'attività di contrasto al riciclaggio di capitali ed al finanziamento del terrorismo, con particolare riferimento al settore finanziario, bancario e dei titoli quotati nelle borse valori':
Bene, la riunione annuale non l'hanno fatta a San Giorgio a Cremano o a Crevalcore, ma a Montecarlo: un motivo ci sarà o no?
È giusto altresì ricordare che il discorso di apertura del summit è stato tenuto dal Principe Alberto II di Monaco che ha ribadito l'incondizionata collaborazione del Principato alla lotta internazionale contro il riciclaggio (si veda il discorso in francese su www.fatf-gafi.org).
Ma andiamo avanti. Uno si aspetterebbe che, ben sapendo da decenni quanto il Principato di Monaco attiri speculatori, affaristi e mafiosi di tutto il mondo, le Procure italiane si dimenino come salmoni controcorrente per riempire il Principato stesso di richieste di rogatorie internazionali.
Sapete quante erano le richieste che a fine 2008 pendevano nel ricco Principato? No? Ve lo dico io: una. La fonte è ufficiale: la relazione della Direzione nazionale antimafia, la Dna (leggerla per credere). Perché questo accade? A mio parere due motivi: a volte le Direzioni distrettuali antimafia dormono, altre volte, quando sono sveglie, sanno in partenza che si scontrano con territori e governi inviolabili e impermeabili sotto il profilo finanziario. Del resto sono Paesi sovrani che si reggono sulla riservatezza (innanzi tutto finanziaria) e sulla conseguente ricchezza. Chissà in quale albergo monegasco avranno soggiornato i membri nazionali e internazionali del Gafi a novembre 2008 per tenere il loro bel convegno. Sarebbe curioso scoprire che magari ronfavano nella stanza accanto a quella di un camorrista in comoda e agiata trasferta di sopralluogo.
La camorra infatti, a marzo 2009, vale a dire quattro mesi dopo l'assemblea del Gafi, a Montecarlo ha fatto un bel summit, dopo aver mandato alcuni fidati uomini in avanscoperta per garantire la logistica, ovvio. E cosi, dopo le dovute precauzioni, il boss Vincenzo Sarno - ci ricorda Il Mattino di Napoli del 14 aprile 2009 a pagina 35 - ha invitato una cinquantina di pezzi da novanta agli "stati generali della camorra, tenuti in un lussuoso albergo a due passi dal Casinò. Mica pizza e fichi ragazzi. Gli uomini della camorra ci tengono all'apparenza. Ve li vedete voi radunati - infradito, bermuda e canottiera dì ordinanza stretta stretta sulla panza - nella hall di una stamberga di Castellammare di Stabia, con la "mercedesse" parcheggiata fuori? Ma scherziamo, nun-n'è cosa! Il gran cerimoniere del summit, Vincenzo Sarno, di Il a un mese sarà arrestato. C'erano tutti a quella riunione: mancavano solo gli uomini del boss Mario Fabbrocino.
Sulla trasferta - due giorni tutto spesato, fiches da gioco per il Casinò comprese - indaga la Direzione distrettuale antimafia di Napoli che ha avviato la richiesta di rogatoria internazionale e che intanto ha spedito a Montecarlo un gruppo di lavoro che ha portato a casa documenti e carte. Le ipotesi sul tavolo - da gioco mortale - sono due: la ricerca concordata di nuovi equilibri camorristici oppure la necessità di riciclare ingenti proventi illeciti.
Luna ipotesi - oserei dire - non esclude l'altra, come racconteranno le cronache successive.

I forzieri dei clan



A maggio 2009 accade infatti che la Procura di Napoli coadiuvata dal Nucleo tributario della Guardia di Finanza scopre conti correnti e società buone per riciclare denaro sporco. E dove si trovano queste società? A Panama, Isole Vergini, Londra, Barcellona ma soprattutto a Montecarlo dove prestanome dei boss avevano acceso tre conti correnti e due contratti fiduciari con la "Banca Monegasca di gestione". In cella sono finiti anche direttori di banca e l'ex vicedirettore della banca monegasca in questione.
Con un secco ordine telefonico, il boss di turno aveva intimato di girare a Montecarlo i proventi ricchissimi di racket e usura. A chi lo aveva ordinato? A un insospettabile commercialista. E qui - se non ve ne siete accorti - scatta un passaggio vitale. Senza l'aiuto di professionisti, vere e proprie menti finanziarie con amicizie e radici ovunque, non sarebbe possibile riciclare soldi sporchi.
E di questo - che è ormai da tempo un dato assodato per Cosa Nostra, sta entrando anche nel Dna della 'ndrangheta - se ne è fatto portavoce Piero Grasso, Procuratore nazionale antimafia. Commentando il 21 maggio il colpo ai danni degli scissionisti, che nel Principato si sentivano come a casa, dirà al Mattino: "Le inchieste napoletane dimostrano che dopo la borghesia mafiosa è nata una borghesia camorristica. Ci sono persone che mettono al servizio dei clan, in questo caso degli scissionisti, conoscenze e know-how: lauree, professioni, ruoli da dirigenti, tutti al servizio di chi vince, per ripulire i milioni del narcotraffico':
Montecarlo - nonostante gli indubbi passi in avanti e i nuovi accordi internazionali siglati sul fronte fiscale e finanziario - continua a esercitare sui mafiosi e sui loro capitali un fascino ammaliante. Questo immenso parco divertimenti per ricchi viziati, continua purtroppo a rivelarsi anche una gigantesca lavatrice per denaro sporco e un amorevole e omertoso rifugio per i latitanti.
La Dda di Napoli sa per certo che proprio a Montecarlo ultimamente sono transitati o risiedono in incognito decine di boss di camorra. A partire da quell'Antonio rovine, detto '0 ninno, che è latitante da 15 anni, cosi come Michele Zagaria, altro imprendibile capo, detto collo storto. Da lontano (ma quanto geograficamente lontano?) e soprattutto dopo l'arresto di Giuseppe Setola e Michele Bidognetti, i ras del clan dei Casalesi dettano la loro legge anche qui.
E non c'è - ovviamente - solo la camorra all'ombra di Montecarlo. Correva il 1993, per la precisione gennaio, quando due deputati dell'Assemblea nazionale di Parigi, il liberale François d'Aubert e il socialista Bertrand Gallet, denunciarono, dopo tre mesi di inchiesta, la proliferazione di cellule finanziarie di Cosa Nostra a Montecarlo, in Costa Azzurra, a Grenoble e nelle Antille. Il Principato di Monaco con le sue "società anonime monegasche" e l'Isola di Saint-Martin costituivano, secondo i due, piattaforme per il riciclaggio di narcocapitali. L’inchiesta dei deputati - ci ricorda il Corriere della Sera del 4 dicembre 1999 - era nata dal libro-intervista a Giovanni Falcone di Marrcelle Padovani. Secondo i due relatori, per la penetrazione in Francia e a Monaco la mafia italiana usava uomini della finanza. E citarono tre ex dirigenti bancari italiani assurti a responsabili di un potente gruppo di investimenti immobiliari.
Quando capiremo che mentre Alonso, Hamilton o Button girano per tornanti e chicane del Gran Premio di Fl, i mafiosi di ogni razza magari si divertono a vedere altri giri - quelli della lavatrice del denaro sporco - sarà forse troppo tardi.

GUERRE STELLARI NEI TRAFFICI ILLECITI E GUERRE DI MAFIA COME A REGGIO: LA LOMBARDIA SI PREPARA A EXPO 2015

LOMBARDIA

Don Lucchesi, lei è un uomo di finanza e di politica. lo queste cose non le capisco

Le pistole le capisci?


La finanza è una pistola.
La politica è sapere quando devi premere il grilletto

Vincent Mancini (Andy Garcia) nel Padrino parte III

Ogni storia che si rispetti è fatta di facce e nomi. Per raccontarle bisogna partire da qui. Sempre.
In Lombardia il volto e il nome da cui cominciare il racconto dell'economia criminale - e ovviamente ne scelgo uno che non è stato sbattuto in lungo e in largo sulle pagine dei giornali e dei media che, vivaddio, stanno lentamente scoprendo che in Lombardia la mafia esiste eccome! - è quello di Modesto Verderio.
Chi è costui, si chiederà la maggior parte di voi. Seguite mi e lo scoprirete quasi subito. Solo qualche riga di pazienza.
I manager lombardi delle grande imprese si imbarcano a Malpensa per concludere affari in ogni parte del globo e lì, sotto di loro, mentre in volo gli hangar si rimpiccioliscono e le persone diventano formiche la ' ndrangheta li saluta, si sfrega le mani e fa affari d'oro. L’avreste mai immaginato? Indipendentemente dalla vostra risposta, chi lo ha immaginato e ha avuto il coraggio di metterei faccia, cuore e prove è stato, indovinate chi? Modesto Verderio.
È un antiquario, (ex) consigliere leghista di Lonate Pozzolo, in provincia di Varese, 56 anni portati con spavalderia.

Con Malpensa si vola!

Dovete sapere che Verderio - consigliere a Lonate Pozzolo nel cui confine geografico ricadono gran parte delle aree aeroportuali dello scalo internazionale di Malpensa - ha il brutto vizio di fare politica per la gente denunciando ciò che gli altri vedono ma fanno finta di non vedere: le pesanti infiltrazioni della 'ndrangheta nella vita economica, politica e sociale di quella ricca area del Varesotto.
A dirlo sono i fatti oggettivi e non le chiacchiere.
Ecco - testualmente - un passaggio della relazione 2008 della Direzione nazionale antimafia (Dna). Leggete e rabbrividite. " ... La zona a nord-ovest del capoluogo, corrispondente al territorio della provincia di varese, nella quale particolarmente significativa è la presenza di elementi organizzati della 'ndrangheta del crotonese, in particolare provenienti da Cirò Marina, riconducibili alla cosca Fatao-Marincola" .
Non vi fidate dell'ultima relazione? Volete andare indietro con la memoria? Che so, alla relazione della Dna del 2005? Eccovi allora - emuli di San Tommaso - accontentati con un altro passaggio teestuale: " ... Personaggi collegati con le cosche calabresi hanno gestito cooperative di facchinaggio. Nel 2004 fu condotta un'indagine sul ... omissis ... che aveva stipulato una convenzione con Poste italiane, per la gestione anche dei servizi dell'Aeroporto di Malpensa. Alcune cooperative assumono soggetti extracomunitari, sfruttando l'immigrazione clandestina e facendo ottenere permessi di soggiorno a cittadini extracomunitari ':
Potrei andare avanti per ore, a esempio raccontando degli omicidi, tre nel giro di pochi mesi, di uomini appartenenti alle cosche calabresi, trovati morti nel Varesotto. Oppure potrei ricordare le tante indagini (alcune sono ancora in corso) delle Forze dell'Ordine o le inchieste della Magistratura sulle infiltrazioni delle mafie nell' area, ma sarebbe inutile dilungarsi. Molto è stato già scritto, molto è stato già detto.
Resta un fatto: Modesto Verderio ha avuto il coraggio di denunciare ciò che stava accadendo (e ancora accade) intorno all' edificazione dello scalo di Malpensa. Le cosche crotonesi, grazie alla sciagurata politica del confino adottata a partire dagli anni Sessanta, in questa zona si sono costruite nel tempo un diritto di prelazione su tutti gli affari. Con loro bisogna fare i conti. E vedremo - se continuerete a leggere - che i conti li fa anche la politica.
È anche grazie alle denunce messe nero su bianco davanti ai Ros dei Carabinieri da alcuni sindaci del Varesotto, se nell' aprile 2009 la Procura di Milano arresta 40 tra boss e picciotti di un "locale" (vale a dire una cellula strutturata) di 'ndrangheta a Lonate Pozzolo. Tra questi alcuni esponenti della famiglia Filippelli, il cui nome era stato espressamente fatto da Verderio ai Carabinieri, come clan da anni dedito a estorsione, usura e racket. Nessun altro, oltre a Verderio, aveva denunciato e aveva osato fare nomi e cognomi e raccontare fatti.
Lo scopo dell' associazione criminale era quello di entrare nell'hub e gestire affari presenti e futuri: dal racket agli interessi immobiliari. Oltre a continuare a vivere di quelli passati (movimento terra, nolo a caldo e a freddo etc etc nei lavori dell' area aeroportuale). Probabilmente, anche grazie all'impunità interna allo scalo e alla conseguente libertà di movimento, continuavano a seguire traffici di sostanze stupefacenti, merci contraffate e ricettazione.
La rete di protezione scoperchiata da questa indagine - che riserverà ancora sorprese - si estendeva dalla politica alle Forze dell'Orrdine (il sospetto è che ci fossero alcuni poliziotti corrotti e corruttibili), passando attraverso il personale dello scalo (i mafiosi entravano e uscivano dall'hub, per i loro traffici, come e quando volevano grazie a compiacenze e pass) per finire con gli istituti di credito della zona che si prestavano a fornire informazioni riservate sulla solvibilità e sulle posizioni finanziarie di soggetti e imprenditori magari da taglieggiare o avvicinare.
Tutto questo però non sarebbe stato possibile se a Lonate Pozzolo e nei comuni limitrofi - a partire da Somma Lombardo e Ferno - non vigesse un clima di omertà. E a scriverlo chiaro e tondo sono i magistrati. "Sussistono in capo alla generalità dei cittadini che vivono in questo territorio - scrivono i magistrati riferendosi al Basso Varesotto - condizioni di assoggettamento e omertà ... uno stato di sottomissione psicologica nelle potenziali vittime dell'intimidazione derivanti dalla convinzione di essere esposti a un grave e ineludibile pericolo e un rifiuto pressoché generalizzato di collaborare con gli organi di giustizia". A informarci di questo risvolto è, sul Corriere della Sera, Claudio Del Frate, a pagina 12 del 16 maggio 2009.
Ebbene, questo è il dato sconcertante: a Lonate Pozzolo e negli altri comuni confinanti, ma ormai in molte aree della Lombardia, non a Gela, Casal di Principe o Palmi, la gente ha paura di parlare e a sottolinearlo è lo stesso Verderio, che ha condotto una "sconcertante" campagna elettorale alle ultime amministrative, che lo ha visto candidato sindaco: è giunto terzo con il 20,2% dei voti (la Lega Nord ha guadagnato circa 8 punti percentuali rispetto al 2004) e dopo aver seduto per pochi giorni tra i banchi dell' opposizione (ha vinto il Pdl con LUdc) si è dimesso per questioni di incompatibilità con altri incarichi. Giù il cappello ....
Nel suo programma elettorale ha avuto, unico, il coraggio di scrivere: " ... Anche il drammatico aumento della criminalità e dei fenomeni delinquenziali è uno dei problemi che i nostri amministratori non possono esimersi dall'affrontare e contrastare con ogni strumento a loro disposizione. La criminalità, di regola, si sviluppa laddove la società rimane indifferente ad essa. Anche in questo ambito i Comuni possono programmare alcuni interventi ... ".
"La gente - spiegherà anche ai microfoni di Radio 24 nella mia trasmissione Un abuso al giorno - ha paura. l commercianti vivono nell'omertà e le forze amministrative e politiche non hanno il coraggio di intervenire. La 'ndrangheta ha avuto terreno facile perché nessuno ha osato fermarla e spesso la sottomissione a racket ed estorsioni è stata vissuta come una tassa da pagare per vivere più tranquilli ed evitare che i sacrifici di una vita andassero in fumo. Spesso letteralmente.
Ma come è iniziata questa penetrazione? All'inizio estorcendo i distributori di benzina - spiega Verderio - e poi i piccoli esercizi commerciali. Poi non si sono arrestati di fronte a nulla e hanno cominciato anche a rilevare nella zona attività o impiantarne di proprie':
Insomma, un assorbimento vero e proprio che ha fatto seguito a un' azione allo scoperto, senza pudore. "J calabresi malavitosi - dice Verderio - non sottopongono a pizzo o usura solo i conterranei ma tutti, proprio tutti. Il loro potere era fino a poco tempo fà assoluto: si sparavano e si ammazzavano tra di loro e i concittadini erano terrorizzati'~ Anche i segni esteriori del potere vanno in questo senso. "Una statua di San Cataldo - spiega Verderio - per il] O maggio viene portata da Cirò Marina su a Lonate Pozzolo e scalza nelle feste religiose anche Sant'Ambrogio, che infàtti si gira e dice: cos'è che succede qui?" (in reealtà Verderio me l'ha detto in dialetto ma un fiero romano de Roma ladrona come me, trapiantato in Lombardia, a stento l'ha capito, figuriamoci se riesco a scriverlo!).

Controllo del territorio ed elezioni politiche

lo questo lo chiamo controllo del territorio. Non so come altro chiamarlo. Economia piegata, società intimidita, Istituzioni silenti, imprenditoria vessata, magistratura e Forze dell'Ordine impegnate a tutto campo, morti ammazzati. Che cos'è? Ditemelo voi. Controllo del territorio: né più né meno di quanto accade a Cirò (un paesino a 351 metri sul livello del mare con 3mila abitanti, che fino al 1952 ha avuto come frazione proprio Cirò Marina, che conta quasi 21mila anime) dove all'imbrunire neppure entri se non sei autorizzato. E se lo fai è a tuo rischio e pericolo: sei seguito, fermato e rispedito indietro dai quaquaraqua di pattuglia. Non lo racconto per sentito dire: è successo a me con una auto-civetta della Guardia di Finanza in una delle inchieste che ho condotto per il Sole-24 Ore in Calabria.
Verderio non vuole sentire parlare di controllo del territorio. Lo capisco: è dura ammettere che Lonate Pozzolo è in provincia di Crotone e sempre meno in quella di Varese. "Preferisco pensare che i miei concittadini abbiano paura - confida - altrimenti sarebbe la fine.
Sarà anche vero ma l'ultima campagna elettorale di Verderio è tutta da raccontare. Detto del successo che ha riportato in Comune la Lega Nord e del fatto che su tre candidati è arrivato ultimo, il resto è uno schianto.
Verderio ha promosso una fiaccolata (lo racconta 1'11 giugno 2009 Claudio Del Frate a pagina 5 della cronaca lombarda del Corriere della Sera) contro la criminalità organizzata nel suo paese. Fantastica ed entusiasmante l'adesione: 50 persone, nessuna di Lonate. Ne-ssu-na!
Il Pdl in compenso - racconta sconsolato Verderio - ha organizzato una serata con una ex velina, di cui non ricordo il nome. Un pienone.
Il nome glielo ricordo io: Maddalena Corvaglia che, come ci ricorda www.varesenews del 5 giugno 2009, "si è esibita in un siparietto con il sindaco Piergiulio Gelosa ("Lo volete sul palco?" E giù !'inevitabile coro di nooooooY. Ci sono anche 15 foto che la immortalano con tatuaggio ascellare, gonna blu, camicia in tinta e scarpe oro che penalizzano e confondono l'abbronzatura sulle sue splendide gambe. Solidarietà dalla popolazione a Verderio: zero".In compenso - spiega - dopo le denunce, anche di questo triste episodio, sono stato chiamato da amministratori e politici della Lega". Sai che consolazione!
Verderio, si sorprende quando scopre che uno degli arrestati nella maxi operazione di aprile, evidentemente scarcerato o sottoposto a misure alternative, si aggirava tranquillamente sotto i gazebo di un partito! Allegria!
Verderio che non si tira indietro, non fa in tempo a sedersi in consiglio comunale (dal quale poi si dimetterà) che già spara la prima cartuccia della nuova stagione politica. "È ovvio - dice - che le famiglie calabresi hanno avuto, hanno e avranno i loro agganci anche in Comune. E questo da tempo, basta andarsi a vedere alcuni cognomi nelle precedenti amministrazioni".
E annuncia il prossimo business: le aree sottoposte a delocalizzazione. Si tratta di milioni di metri cubi di immobili e centinaia e centinaia di ettari confinanti con le reti aeroportuali che sono state svuotate anni fa quando lo scalo era in costruzione. Circa 400 famiglie furono costrette a traslocare altrove e lasciare ville, appartamenti e verde. Quelle case - alcune delle quali anche di recente costruzione - quegli immobili e quelle aree fanno gola alla 'ndrangheta. "La proprietà - spiega Verderio - è passata dalla Regione ai tre Comuni e bisognerà partire con un progetto di riqualificazione sempre nell'ottica di servizi aeroportuali. Le cosche calabresi hanno già fiutato l'affare e si stanno attrezzando",

Davide Boni, ex assessore al Territorio della Regione Lombardia, anche lui della Lega, conferma che le aree sono definitivamente trasferite ai Comuni di Lonate Pozzolo, Ferno e Somma Lombardo. "Lì - spiegherà ai microfoni di Radi024 - sarà progettata anche la terza pista". E il rischio infiltrazioni? "Certo che c'è - conferma Boni - ma le stazioni appaltanti saranno i Comuni. Noi vigileremo e li accompagneremo per quel che rientra nelle nostre possibilità ma il compito preventivo è loro, oltre che delle Forze dell'Ordine alle quali spetta anche quello repressivo': Le aree delocalizzate sono state cedute ai Comuni che avranno tempo fino al 2012 per redigere il piano di investimenti e destinazioni. Se le amministrazioni locali non riusciranno a programmare, interverrà la Regione.
Insomma, una chiamata di responsabilità diretta per i sindaci e gli amministratori locali. Saranno in grado a Lonate Pozzolo, visto il clima e i precedenti, di resistere e dire di no, come cantava Gigliola Cinquetti?
A giudicare dagli ultimi fatti sembrerebbe di no. O meglio: può farcela solo con l'aiuto delle Forze dell'Ordine e della magistratura affiancate dalla popolazione. Il 26 marzo, infatti, i Carabinieri di Varese hanno sequestrato beni per 20 milioni ai presunti affiliati di una cosca calabrese che aveva messo radici a Lonate Pozzolo. La Direzione investigativa antimafia avrebbe accertato che 17 società operanti nel campo edilizio e immobiliare venivano in realtà utilizzate nell' attività di riciclaggio del denaro sporco proveniente da usura ed estorsioni. Il Corriere della Sera, a pagina 13 della cronaca lombarda titola in un modo inequivocabile: "Malpensa, l'assedio della 'ndranghetà'.
A Verderio (e spero anche ad altri) il compito di informare noi e gli italiani sugli sviluppi in un'area strategica per lo sviluppo socionomico di questo martoriato Paese. Perché la Lombardia non è solo Expo 2015 dove la politica è in ritardo ma le mafie si sono già accordate su come spartirsi la torta miliardaria, a partire dai subappalti.

La telefonata del prefetto

A seguito di alcune polemiche sulla mafia a Milano e dopo aver dato in esclusiva sul mio blog "Guardie o ladri" sull'home page del Solee24 Ore il 27 gennaio 2010, la relazione del Procuratore distrettuale antimafia di Milano Ferdinando Pomarici che, chiaro e tondo, scrive che la mafia a Milano è chirurgica e selettiva e può contare su talpe all'interno delle istituzioni, parlo con il Prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi.
Con Lombardi parlo della sua relazione "La criminalità organizzata in Lombardià'. Data: 21 gennaio 2010. Pagine: 47.
"Secondo la nostra legislazione la mafia - scrive il Prefetto Lombardi - esiste quando esiste un'associazione i cui partecipanti si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento o di omertà che ne deriva per commettere delitti o per acquisire il controllo di attività economiche finanziate da soggetti pubblici o privati
Fatta la premessa vai con la risposta. Milano - al momento - non può dirsi che esistano organizzazioni del genere. .. Si può perciò affermare che - in generale - nel nostro territorio sono presenti soggetti collegati alla mafia che preferiscono fare affari piuttosto che fare i mafiosi. Pertanto se alcuni cognomi evocano collegamenti con famiglie mafiose, ciò non vuoi dire - necessariamente - che a Milano e in Lombardia non esista la mafia.
Se il prefetto avesse subito diramato questo semplice primo foglio, molte strumentalizzazioni sarebbero state evitate anche se, in tutta onestà, se fossi stato un giornalista di agenzia avrei dettato anche io il seguente titolo al mio lancio: "Prefetto Lombardi: a Milano la mafia non esiste".
Credo che davvero ci sia un equivoco di fondo che ha portato a quella sintesi tanto contestata da Lombardi e tanto cavalcata dal resto ... d'Italia.
L’equivoco sta nel fatto che non è più possibile restringere la concezione di mafia a una concezione meramente normativa, legislativa e nominalistica. Norme vecchie, superate. Persino il ministro della Giustizia Angelino Alfano si è accorto che nella nostra legislazione non esiste la parola 'ndrangheta, che ormai a Cosa Nostra gli fa un baffo! Allora che diciamo: fino a che non sarà "registrata' per legge, la 'ndrangheta non esiste!? E la camorra - anch' essa non compare nei codici legislativi nazionali - se l'è inventata Roberto Saviano?

La mafia dei fatti e non delle definizioni

Condello; Ierinò; De Stefano; Ursini-Macrl; Papalia-Barbaro; Troovato; Plachi; Paviglianiti; Latella; Imerti-Condello- Fontana; Pesce; Bellocco; Arena-Colacchio; Versace; Fazzari; Sergi; Giampaololamara- Romeo; Facchineri.
Ma non è finita perché - specificato che la lista è stilata enormemente per difetto - bisogna aggiungerci le famiglie di Cosa Nostra. Quelle, ad esempio, originarie di Salemi e Trapani, gli affiliati al clan dei "cursoti" di Catania, quelli affiliati al clan Fidanzati di Palermo, oltre ai Casalesi campani che da sempre hanno trovato un equilibrio con Cosa Nostra e 'ndrangheta per arricchirsi con il traffico degli stupefacenti.
L’area meneghina, scrive testualmente Lombardi "viene anche considerata un territorio dove è possibile una sorta di cooperazione tra le diverse compagini criminali sia tradizionali che di matrice straniera. In sostanza si preferisce utilizzare il territorio per fare affari più che condizionato con l'assoggettamento mafioso':
Poi il Prefetto, dopo aver ricordato alcune recenti inchieste che hanno messo in luce la collusione tra politica, 'ndrangheta, pubblica amministrazione e imprenditori a malata, passa a suddividere il territorio milanese a seconda delle cosche che dominano.
Morabito di Africo è sempre leader e ultimamente, attraverso soocietà cooperative, ha trovato il trai t d'union con esponenti di spicco di Cosa Nostra. In tale ottica si leggono i rapporti tra Francesco Bruzzaniti, nipote del "tiradrittu"(al secolo Giuseppe Morabito) e Giuseppe Porto, vicino allo storico esponente siciliano Antonino Ruotolo.
Le zone di Milano Barona, Navigli e Corvetto sono sotto il gruppo siciliano Calaiò Nazzareno-Cagnetti Claudio-Perspicace Francesco, che ha mire anche su zone dell'hinterland milanese. "Gli introiti realizzati con le attività illecite del sodalizio sarebbero reimpiegati scrive il Prefetto - nell'acquisto di unità immobiliari nelle zone centrali della città, servendosi di agenzie immobiliari come ... omissis ...
In altre parole, cos1 come la Costituzione materiale previene la Costituzione formale, cos1 quando si guarda alle mafie (non è una sola) bisogna guardare ai fatti e alla sua evoluzione che - questo si - in Lombardia sta portando in alcune aree ad un sempre più veloce controllo del territorio attraverso le attività socio-economiche, elemento richiamato come essenziale dal Prefetto Lombardi per l'ammissione dell' esistenza della mafia.
Quel che riporta il Prefetto è da brivido. Leggete qui tutto d'un fiato quel che riguarda, in generale la Lombardia.
"Nonostante nell'ultimo decennio si siano susseguite vaste e penetranti operazioni di polizia per reprimere i fenomeni - scrive Lombardi - i sodalizi criminali hanno subito mostrato grande attitudine alla riorganizzazione e alla rigenerazione dopo le pesanti perdite subite, grazie all'apporto di nuovi soggetti trasferiti nel nord del Paese qui arrivati per rimpiazzare i membri della struttura criminale colpiti da provvedimenti restrittivi. L'organizzazione si connota nell'accertata capacità di muoversi senza particolari difficoltà sul terreno del riciclaggio, grazie a consolidati rapporti con esponenti del mondo bancario, finanziario e istituzionale. Avvalendosi delle potenzialità fornite dalla prima piazza economico-finanziaria a livello nazionale, la 'ndrangheta, così come altre consorterie criminali, attua il riciclaggio do il reimpiego dei proventi derivanti dalla gestione, anche a livello internazionale, di attività illecite ... inserendosi insidiosamente nel tessuto economico legale, grazie all'esercizio di imprese all'apparenza lecite':
Avete capito: la 'ndrangheta frequenta i salotti, le banche, investe in Borsa, siede nelle Istituzioni, ma la mafia non esiste perché è la legge che lo dice!

I cognomi dell' aggiornata mappa del Prefetto sono molti. Le 'ndrine in Lombardia sono: Morabito-Bruzzaniti-Palamara; Morabitolica; Mancuso; Mammoliti; Mazzaferro; Piromalli; Iamonte; Libri; dove alcuni responsabili sarebbero contigui ai Calaiò e ai Perspicace". Nella fascia est risultano operante Rocco Molluso (nato a Milano ma originario di Oppido Mamertina) e la famiglia Draghi.
Nei comuni dell'hinterland (Buccinasco, Corsico, Trezzano sul Naaviglio, Cesano Boscone) da sempre domina la cosca Barbarolia: droga, movimento terra, controllo cantieri edili, intermediazione immobiliare, appalti opere pubbliche.
Nella stessa zona operano anche famiglie originarie di Platì.
A Cornaredo e Bareggio sono presenti le famiglie Mangeruca di Africo e affiliati alla cosca Morabito-Musitano di Platì: edilizia, mobilifici, esercizi pubblici.
A Pioltello le famiglie di Caulonia Maione e Manno: esercizi pubblici, edilizia, immobili, società.
A Legnano ci sono Cosimo Barranca e Vincenzo Rispoli. A Novate Milanese e a Bollate opera la famiglia Mandalari di Guardavalle (Caatanzaro): edilizia e movimento terra.
Al confine con la provincia di Pavia c'è la potentissima famiglia Valle, originaria di Reggio Calabria che ora, oltre alla storica presenza a Viigevano, si è localizzata a Bareggio, Cisliano e Corsico: nel passato estorsioni, riciclaggio e usura come se grandinasse, oltre a un imponente patrimonio composto di immobili e attività commerciali.
Ma la provincia di Pavia, come ci ricorda un lancio dell'Agi del 16 marzo 2010, da oltre un anno possiede anche, nelle campagne della Lomellina, una sorta di scuola di guerra, con lezioni di tecnica d'uso di armi belliche, come mitragliatori e sostanze esplodenti. Il tutto a spese e per conto della cosca d'appartenenza.
C'è anche questo nel curriculum criminale di Pasquale Manfredi, detto Gaetano, 33 anni, originario di Isola Capo Rizzuto, passato nella notte tra il 15 e il 16 marzo dalla lista dei 100 latitanti più pericolosi al carcere dopo un blitz del Servizio centrale operativo della Polizia di Stato e della Squadra mobile di Crotone. A carico di Manfredi, descritto dagli investigatori come "freddo e crudele sicario della cosca Nicosia': sono stati raccolti "pesantissimi elementi di colpevolezza in ordine a reati gravi come l'associazione di tipo mafioso, traffico illegale di armi da guerra, estorsione" e altro, per un totale di 20 capi di imputazione. Tra questi, anche l'omicidio di Carmine Arena, messo a segno con un bazooka nell' ottobre del 2004, e di Pasquale Tripaldi, il giorno della vigilia di Natale del 2005. La famiglia di "Gaetano" è destinataria di un precisa quota del denaro proveniente dal pizzo e lui si era ritagliato un ruolo di primo piano sia nella riscossione coatta sia negli interventi di intimidazione personale a danno di quanti manifestavano la volontà di sottrarsi al ricatto.
A Monza (e comunque in Brianza) le famiglie Mancuso di Limbadi e Iamonte spopolano e dettano legge nel commercio e nell' edilizia. Salvatore Mancuso è domiciliato a Giussano.
La famiglia Iamonte-Moscato, originaria di Melito Porto Salvo (Reggio Calabria) ha sotto la sua influenza Desio, Bovisio Masciago e Cesano Maderno. E vai col tango! Anzi ... col tanfo!

Cosa Nostra sotto il Duomo

Credere che Cosa Nostra a Milano dorma, sarebbe però un gravissimo errore. Come scrive testualmente il prefetto Lombardi "essa continua a esercitare la propria contenuta e meno visibile influenza, anche avvalendosi di specialisti tributari e del settore bancario per la creazione e lo sfruttamento di idonei circuiti finanziari". Insomma: professionisti, la cosiddetta "zona grigia" che ormai conta quanto e più della zona nera.
Ad aprile 2009, tanto per dare l'idea di quanto camminino velocemente le infiltrazioni, sono stati arrestati due gelesi ritenuti affiliati alla potente famiglia Emmanuello (quella che ha giurato di uccidere l'ex sindaco antimafia di Gela e attuale europarlamentare Rosario Crocetta, per intendersi), "per aver imposto il pizzo anche a una società aggiudicataria dal 2007 della manutenzione ordinaria delle reti dell'acquedotto di Milano per conto della Metropolitana Milanese spa':

Luigi Giovanni Bonanno - riporta il Prefetto - a Milano è l'interfaccia dei Lo Piccolo.
A San Donato, San Giuliano e Melegnano domina Emanuele Argenti detto "u lattaru", ora in carcere. Ha moglie e figli. In zona fortissime sono anche le cosche Emmanuello e Rinzivillo.
San Donato evidentemente attrae: è presente anche la famiglia Iacono, legata alla cosca Dominante-Carbonara di Vittoria (Ragusa). In Brianza degna di nota è la presenza sul territorio di alcuni personaggi riconducibili a Cosa Nostra come Giovanni Agresta, esponente di una famiglia che fa riferimento alla famiglia Sanseverino. Altra famiglia di spessore è quella dei Cannarozzo, legata alla famiglia di Salvatore Ioculano di Gela.
E lasciamo volontariamente da parte le pagine e pagine che fanno poi riferimento a Camorra, Sacra Corona Unita (ma quest'ultima in misura ormai irrilevante), alle mafie sudamericane, albanese, rumena, magrebina, cinese, asiatica, dei Paesi dell'Est, ormai tutte cementate in affari con quelle nostrane.

A bere del whisky ...

In questo capitolo del libro dedicato alla Lombardia -lo avrete capito - voglio raccontarvi ciò che finora non avete letto negli altri libri, altrimenti tanto valeva non scriverlo e non prendere in giro innanzi tutto voi, adorati lettori.
E così vi racconto quella Milano che - per disattenzione di molti è diventata preda di famiglie mafiose che fanno affari e che hanno il pallino fisso dell' edilizia e degli immobili.
Oggi ha cambiato proprietà e nome ma fino a pochi mesi fa aveva il fascino scritto nell'insegna e si rifaceva a una canzone di Vasco Rossi.
Più centrale di così l'esercizio commerciale non poteva essere. Nel cuore della Milano da bere, a due passi dagli uffici che contano: amministrativi e delle grandi banche. A quattro passi dalle vie dello shopping di lusso.
Peccato che fosse di proprietà della criminalità organizzata alla quale lo Stato lo ha prima sequestrato e poi definitivamente confiscato. Il salotto buono di Milano è pieno di imprese sottratte alle cosche e immesse nuovamente nel circolo della società e dell' economia produttiva milanese. A piazza Velasca, proprio sotto la Torre di 106 metri che, con la sua forma a fungo ormai nota in tutto il mondo, ospita uffici e appartamenti prestigiosi, è stato confiscato un altro negozio. Anche questo ha cambiato nome e proprietà.
In via Silvio Pellico, da dove raggiungere la Scala è una passeggiata, sono stati confiscati un ristorante e un bar.
L’elenco delle imprese sottratte definitivamente alle mafie nell'ultimo decennio a Milano e provincia è impressionante: 105. Un numero addirittura superiore a Roma, dove le aziende confiscate sono state 81. È quanto emerge dall' elenco aggiornato a giugno 2009 del Commissario straordinario del Governo per i beni confiscati alla mafia. A inquietare è soprattutto il numero elevato di imprese edili e di società immobiliari.
Partiamo con le prime che testimoniano - qualora ce ne fosse ulteriore bisogno - come la criminalità organizzata da almeno 40 anni si sia progressivamente impadronita del ciclo del cemento: dai materiali alla costruzione, passando per i tanti subappalti.
Proprio in corso di Porta Romana, quindi in una zona centrale molto amata dai milanesi, è stata confiscata un'impresa. Ma il capoluogo è tappezzato di imprese edili che un tempo appartenevano a famiglie e prestanome delle mafie: in via Fiamma Galvano, in Corso di Porta Vittoria, in via Monti evia di questo passo.
La maggior parte, però, aveva la propria sede appena fuori Milano, in quei comuni nei quali da anni le Forze dell'Ordine e la magistratura hanno acclarato che il ciclo del cemento è una questione delle' ndrine calabresi. A Buccinasco - a esempio - o ad Assago (proprio dove sorge il Palaforum e dove passerà il prolungamento della linea metropolitana), o ancora, Cologno Monzese, nota ai più, in Italia, per ospitare gli studi di Mediaset.

Anche molte società immobiliari - spesso legate da un comune e sottile filo rosso alle imprese edili - erano nelle mani delle mafie alle quali sono state strappate. Ancora una volta molte di queste imprese operavano nel centro della città o appena fuori.
Nella lista delle aziende - è curioso rilevarlo - non mancano edicole, ditte di trasporto, alimentari, profumerie, negozi di telefonia, orologerie, autofficine, rimesse per automobili, studi odontoiatrici, negozi per la prima infanzia. È la dimostrazione che ormai il riciclaggio dei capitali sporchi e le coperture invadono ogni categoria merceologica. Un discorso a parte merita la lista degli immobili confiscati a Milano e provincia: complessivamente 109, anche in questo caso un numero superiore alla Capitale, dove nell'ultimo decennio sono stati 100. Una differenza - enorme - con Roma però esiste. Mentre infatti nella Capitale le mafie hanno investito moltissimo in appartamenti, ville e box auto nel centro storico e nelle zone limitrofe, a Milano gli investimenti sono stati più "discreti" e hanno quasi sempre coinvolto le zone semi centrali e periferiche. Ghisolfa, Bovisa sono alcuni tra i quartieri nei quali sono concentrati gli appartamenti confiscati, ma se ne trovano anche al di qua o al di là delle tangenziali. Molti anche i. beni sottratti nel quartiere "cinese" che ruota intorno a via Sarpi.

Quando la musica non cambia

Bastano 35 immobili confiscati per la conferma: Lecco e Brescia, per le mafie nazionali e internazionali, sono sempre più le provincie satellite di Milano nelle quali fare business, investire e riciclare denaro sporco.
Qui - in due delle aree più ricche e sviluppate del Paese - Cosa nostra, , ndrangheta, Camorra e mafia russa hanno messo radici da molto tempo. Al punto che negli ultimi 10 anni, oltre a Brescia, sono stati definitivamente confiscati ai boss case, appartamenti, capannoni industriali e imprese in decine di centri dell'hinterland bresciano e lecchese.
In Lombardia - se si fa eccezione per l'area di Monza solo di recente disaggregata dalle statistiche da Milano, con la quale non esiste soluzione di continuità - secondo le statistiche del Commissario straordinario di governo per i beni confiscati alla mafia, sono proprio quelle di Lecco e Brescia le provincie nelle quali lo Stato ha definitivamente strappato il maggior numero di beni alla criminalità organizzata.
Da notare una curiosità: nelle province di Mantova, Cremona e Sondrio non si registrano confische di beni mafiosi. Questo non vuol dire che siano aree immuni dalla malavita organizzata. Nel Mantovano, ad esempio, da anni magistratura e Forze dell'Ordine colpiscono clan della camorra che si sono impadroniti della vita notturna - con discoteche e locali - di vaste aree. Avevano scelto, a esempio, come comune di residenza Borgofranco sul Po, nella bassa mantovana, due fratelli che la Guardia di Finanza di Bologna, su ordine della Direzione distrettuale antimafia, il 18 marzo 2010 ha arrestato per estorsione. I due fratelli sono considerati tra gli affiliati di spicco del clan dei Casalesi.
Particolarmente grave la situazione nella provincia di Lecco dove, su 18 beni confiscati, 17 sono attività imprenditoriali e commerciali. Nel bresciano le aziende sottratte alle mafie sono lO. In tutta la Regione, a parte Milano e provincia, tra appartamenti, locali, ville e terreni, lo Stato ha strappato 32 beni. Le attività imprenditoriali sono invece complessivamente 44.
Il record di Lecco non deve sorprendere. Nella zona a nord di Milano da decenni operano gruppi di 'ndrangheta. Per l'esattezza la famiglia Coco Trovato è potentissima a Lecco, Mancuso a Monza e Morabito a Como.
La stessa cosa - con accenti ancora più forti vista la posizione strategica sull' asse Milano-Venezia e da qui verso i corridoi dei Paesi dell'Est - si può dire della provincia di Brescia.
Il sostituto procuratore Pier Luigi Maria Dell'Osso, nella relazione della Direzione nazionale antimafia (Dna) presentata a dicembre 2008 non lascia adito a dubbi. Dell'Osso batte l'accento sulla presenza di ' ndrangheta e camorra nell' area del basso Lago di Garda che "condizionava e condiziona tuttora il tessuto sociale e le iniziative di intrapresa finanziaria': "D'altra parte - prosegue il magistrato - è ben nota la massiccia presenza, da decenni, della 'ndrangheta calabrese, nell'area lombarda. L'intensa operatività e pericolosità di sodalizi di matrice 'ndranghetista si è delineata concretamente a più riprese sul territorio bresciano, alla luce delle tante investigazioni sviluppate e condotte a termine".
I numeri sembrano dare ragione a chi da tempo predica che Brescia è la capitale di riserva delle mafie in Lombardia. A fronte dei 184 procedimenti pendenti a fine giugno 2007, la Direzione distrettuale antimafia ha effettuato 49 nuove iscrizioni nel periodo luglio 20077giugno 2008; nello stesso periodo sono stati definiti 62 procedimenti mentre rimanevano pendenti - a inizio di luglio 2008 - 171 procedimenti nei confronti di 2.663 indagati.

In periferia la mafia sciala

Il prefetto Lombardi, nella parte relativa a Bergamo e provincia parte con i piedi di piombo. Allo scopo di fronteggiare "presumibili tentativi di insinuazione della malavita nel flusso degli stanziamenti per la realizzazione delle grandi opere programmate dal Cipe- si legge infatti a pagina 40 della relazione - la prefettura di Bergamo ha intrapreso una serie di iniziative di prevenzione in ambito antimafia che riguardano il monitoraggio di tutte le fasi dei relativi lavori, sia per i progetti che coinvolgono province contermini, quali i collegamenti stradali come la cosiddetta Bre. be. mi (cioè il tratto autostradale Brescia- BergamooMilano n.d.a.) o la Pedemontana (cioè 67 km di autostrada, 20 km di tangenziali e 70 km di nuova viabilità locale, che collegherà cinque province, Bergamo, Monza e Brianza, Milano, Como, Varese, in un territorio abitato da 4 milioni di persone, dove operano e hanno bisogno di muoversi oltre 300mila imprese, n.d.a), sia per opere di rilievo locale, quali la tangenziale Sud di Bergamo, attualmente in corso di completamento':
È scontato che queste opere facciano gola, tanta gola alle mafie che albergano in Lombardia.
La sola realizzazione della Pedemontana richiede un impegno finanziario di 5 miliardi, di cui 4,1 destinati alla costruzione dell'infrastruttura vera e propria, oltre 100 milioni di opere compensative e territoriali ed 800 milioni di oneri finanziari e gestionali nei trent'anni di durata della concessione.
È del 26 gennaio la notizia (si veda www.pedemontana.com) che è stato dato il via libera alla mega gara da 2 miliardi, mentre è del 5 febbraio la notizia che a Cassano Magnago (Varese) è stato aperto il primo cantiere.
La Brebemi (62,1 chilometri che attraversano 5 province) ha un valore di 1,6 miliardi interamente sostenuti dai privati e fino al 2012 (anno in cui i lavori dovrebbero terminare) darà lavorò a circa 30mila persone. La prima pietra è stata posta il 22 luglio 2009, quindi se i tempi saranno rispettati c'è da gioire anche perché (come si legge sul sito www.brebemi.it) i lombardi risparmieranno 6,8 milioni di ore all'anno in ingorghi e ritardi e il relativo incremento del Pil (da risparmi e opera) sarà di circa 382 milioni all'anno.
La stessa società Brebemi spa ha a cuore il tema della legalità se è vero, come è vero, che il 16 gennaio 2010 la società e la prefettura di Bergamo hanno stipularo un protocollo di legalità per evitare infiltrazioni mafiose. Personalmente credo poco ai protocolli di legalità ma almeno sono un segnale di attenzione e la spia che l'infezione esiste eccome!
Come leggo sul Giorno del 17 gennaio a pagina 3, era da tempo che il rischio era stato sollevato dagli stessi sindacati.
La Tangenziale Sud ha un costo di oltre 150 milioni e sulla realizzazione di quest' opera, come sulle altre del resto, sono insorte le associazioni ambientaliste.
Comunque per queste tre sole opere il valore sfiora i 7 miliardi. Volete che non facciano gola ai mafiosi?
E infatti leggete cosa scrive il prefetto Lombardi su questi lavori. "Già dalle battute iniziali delle indagini promosse dal gruppo inter-forze istituito presso la prefettura - scrive sempre a pagina 40 della relazione - sono in effetti emersi alcuni tentativi di infiltrazioni di imprese collegate a cosche mafiose, sia diretti che attraverso sistemi di scatole cinesi che hanno suggerito un innalzamento della soglia di attenzione. A tal fine è stato disposto, con apposito decreto prefettizio, l'accesso da parte del gruppo ai cantieri del costruendo 1 o lotto (Treviolo/Stazzano) della citata Tangenziale. Gli esiti del primo sopralluogo, effettuato congiuntamente il 16 giugno 2009 da parte del personale della Dia (Direzione investigativa antimafia n.d.a.) di Milano, delle forze di polizia territoriali e di funzionari della Direzione provinciale del Lavoro, hanno acclarato il sostanziale rispetto delle norrmative sul lavoro nell'impiego di uomini e mezzi, nonché la regolarità della presenza di operai stranieri. Tuttavia da verifiche incrociate sugli assetti societari delle 13 imprese (compresa la ... omissis ... corrente in Dalmine in veste di subappaltante) le cui maestranze o i cui macchinari erano al momento presenti, sono emersi, in particolare a carico di due di esse, legami con ambienti malavitosi. Si tratta della ... omissis ... sedente in (provincia di Torino n.d.a.) e della ... omissis ... di Caserta estro messe dai subappalti della committente Provincia di Bergamo, la prima a seguito di una segnalazione della Dia e di successiva informativa della prefettura di Bergamo e la seconda in quanto destinataria di un'informazione antimafia atipica della prefettura di Caserta. Una terza ditta, la... omissis... della provincia di Caserta (n.d.a), al centro di intrecci societari con la ... omissis ... già oggetto di interdizione antimafia emessa dalla Prefettura campana, è stata poi allontanata dai cantieri a seguito della segnalazione della Provincia da parte della prefettura di Bergamo. In tutti i casi individuati i subapppaltanti avevano posto in essere un artificioso frazionamento del contratto, allo scopo di sfuggire ai vincoli del Dpr 252/98 che impone, per i subappalti di importo superiore a 150mila euro, l'obbligo di richiedere la certificazione antimafia alla prefettura competente.
Se questi sono i risultati del primo accesso nei cantieri di un' opera minore (rispetto, beninteso, ai lavori autostradali descritti) non c'è da stare allegri e bene faranno committenti, imprese aggiudicatrici e Istituzioni ad aprire gli occhi.

La geografia del crimine provinciale

Rispetto a questa disamina su Bergamo, nuova e inquietante anche perché attualissima, passa in cavalleria l'analisi di tutte le altre province dove, in realtà, c'è molto meno della realtà. Credo che il preefetto Lombardi si sia limitato a descrivere solo gli ultimi mesi di indagini e inchieste perché per il resto rimanda a una mappa e a una biografia delle cosche calabresi, campane e siciliane in grandissima parte conosciute e note.
E - guarda caso - le parti più interessanti sono ancora sulle grandi () medie opere come quando, analizzando la provincia di Lodi il preretto Lombardi, si sofferma sulla ditta ... omissis ... di San Angelo Lodigiano. "La citata ditta - si legge - ha partecipato ai lavori di riqualificazione della ex SS 235 (nel tratto compreso tra Lodi e la barriera dell'Al). Lungo detta tratta è ubicata la cascina Ladina, dove la società in questione ha tutt'ora una porzione di area adibita a deposito di mezzi stradali e materiali dove è risultato essere domiciliato il pluripregiudicato Marcello Coletta, noto personaggio di spicco della mafia siciliana'~
Continuando a privilegiare in questa relazione gli aspetti delle opere pubbliche vale la pena di leggere cosa scrive il prefetto Lombardi su Sondrio: " ... analizzando i controlli effettuati dal gruppo interforze dopo il 24 giugno 2009, relativamente ai lavori del primo lotto della nuova SS 38, si scopre che !'impresa individuale ... omissis ... è stata destinataria di un'informativa antimafia interdittiva della prefettura di Como del 22 dicembre 2008; la società ... omissis ... è stata oggetto di un'informativa antimafia supplementare atipica della prefettura di Varese del 15 luglio 2009; la società ... omissis ... è risultata gravata da precedenti penali ritenuti indicativi di una presumibile ingerenza della criminalità mafiosa". "Sulla segnalazione della prefettura l'Anas - si legge ancora - con ordine di servizio. n. 6 del1'8 ottobre 2009 ha ordinato all'Ati Salini Locatelli (ora Morbegno scarl) l'allontanamento immediato del primo e la risoluzione dei contratti in essere e ha richiesto informazioni dettagliate sulle attività svolte dalle altre società ':
In questa girandola di informazioni fa persino tenerezza scoprire che la provincia di Varese (per la sua vicinanza alla frontiera e per la quarantennale penetrazione mafiosa) ha ben poco da segnalare se non il profondissimo radicamento della 'ndrangheta (in parti colar modo) che mina in profondità ogni attività economica. E in vista di possibili e nuovi lavori nell' area di Malpensa e zone limitrofe, la pancia delle mafie si fa capanna.

A Buccinasco la paura fa novanta

Siete rimasti sconcertati dal fatto che qualcuno possa parlare di controllo del territorio in Lombardia e di controllo dei voti finalizzato agli affari? Beh leggete qui allora ...
Alle 2.30 della notte tra il 17 e il 18 dicembre 2008 mentre probabilmente molti di noi erano al terzo giro di letto e qualcun altro contava le pecore nel tentativo di addormentarsi, il Comune di Bucccinasco terminava il consiglio comunale. E poi qualcuno pensa che gli amministratori comunali fanno una bella vita!
Vorrei vedere voi a stare svegli fino a tarda notte per negare la cittadinanza onoraria del Comune a Roberto Saviano!
E sì, avete letto bene. Il Consiglio comunale - riunitosi alle 18.00 di mercoledì 17 dicembre 2008 - aveva come primo punto all' ordine del giorno la discussione sulla cittadinanza onoraria allo scrittore napoletano, proposta dal consigliere dei Verdi Rino Pruiti, figlio di un poliziotto e lui stesso poliziotto per due anni, che non ha certo bisogno di pubblicità visto che la legge ce l'ha nel sangue.
Cotta e mangiata. In un batter d'occhio - mentre in aula c'erano le telecamere di La7 che riprendevano la scena edificante - la maggioranza in Consiglio comunale ha deciso di soprassedere sulla cittadinanza onoraria pur riconoscendo l'importanza simbolica dello scrittore che continua a dichiarare che ogni segnale di solidarietà gli dà la forza per andare avanti.
Iene: il consiglio comunale di Buccinasco gli ha dato la forza per I;ue un passo indietro e del resto era nell' aria. Non era, infatti, la prima volta che il Comune lombardo affrontava la questione Saviano. Alcune settimane prima - per non affrontare lo stesso punto dell' ordine del giorno - la maggioranza uscì dall' aula e fece mancare il numero legale. Il sindaco - Loris Cereda, a capo di una giunta di centro-destra - ha sempre sostenuto la necessità di scegliere altri Uomini-simbolo da gratificare con la cittadinanza onoraria.
Ora - detto per inciso - io non avrei mai riproposto ciò che ha riproposto Ruiti, non perché non sia dalla parte di Saviano (ci mancherebbe), ma perché - fiutata l'aria la prima volta, nel mese di novembre - in quel Comune avrei giocato in contropiede e proposto qualcosa di ancora più spiazzante: la cittadinanza onoraria alla figlia del giudice calabrese Antonino Scopelliti.
Vi spiego il perché e così, in un modo inusuale dal solito vi racconto come la ' ndrangheta si è ormai radicalmente piantata, partendo proprio da Buccinasco, nel ciclo del cemento lombardo: dal movimento terra, su su fino all' edificazione e al mercato immobiliare.
Per chi non lo sapesse, Scopelliti era un incorruttibile magistrato caalabrese che fu assassinato barbaramente dal fuoco incrociato di , ndrangheta e Cosa Nostra. Insieme il 9 agosto 1991 decisero di freddare colui il quale voleva portare a termine il lavoro iniziato nel maxiprocesso a Cosa Nostra nella sua veste di p.g. della Cassazione, senza guardare in faccia a nessuno. E rifiutando con sdegno un' offerta alla quale in pochi saprebbero resistere: 5 miliardi di vecchie lire per emulare gli "ammazzasentenze".
Bene. La figlia Rosanna ha da poco avviato la Fondazione che porta il nome del padre (www.fondazionescopelliti.it). E nel nome del padre continua a diffondere a piene mani lezioni di legalità. Cosa c'entra Scopelliti con Buccinasco? Tutto e niente. Niente perché quel giudice non se ne è mai occupato, tutto perché da anni Buccinasco viene indicata come la Platì del Nord. Con una sciagurata decisione di uno Stato negato per la legalità, negli anni Settanta furono mandati a Buccinasco uomini della' ndrangheta delle famiglie Barbaro, Sergi e Papalia.
Fu l'apoteosi. Quelle famiglie - e quelle a loro legate, tra le quali Modafferi, Trimboli, Marando e Mondella - si sono impadronite dell' area che comprende anche Corsico e Trezzano sul Naviglio. Stiamo parlando delle porte di Milano
Ancora pochi mesi fa la Guardia di Finanza ha arrestato 31 persone

per un colossale traffico di droga di alcune di queste famiglie nelll'area e ancora pochi mesi fa il Gico (il gruppo della stessa Gdf contro la criminalità organizzata) ha messo il naso (ancora una volta) nelle imprese edili. E sÌ perché a Buccinasco e zone limitrofe non si muove foglia nell' edilizia che l'alleanza calabrese non voglia. E a dirlo sono i magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Milano. Ancora: Buccinasco è il paese dove le aste per gli immobili confiscati alla criminalità vanno spesso deserte e dove i locali sottratti alle cosche restano chiusi e passano anni prima di una nuova destinazione sociale.
Non solo: Buccinasco è il Comune alle porte di Milano dove il precedente sindaco, Maurizio Carbonera, è stato vittima di intimidazioni, proiettili e attentati non portati alle estreme conseguenze. La sua colpa? Rendere impossibile la speculazione edilizia. "E c'è - dichiarò Rini Pruiti - chi vuole sbloccare l'edificazione di 500mila metri cubi': Per carità, non è un reato, ma vigilare sugli appetiti illeciti è doveroso.
Nel ciclo del cemento, prestanome e società di comodo delle cosche di Cosa Nostra e delle'ndrine calabresi operano almeno da 40 anni. Il 29 maggio 2009 è arrivata l'ennesima conferma che Buccinasco, è una delle capitali della ' ndrangheta lombarda che investe e reinveste nell' edilizia. In questo paese "regna un clima opprimente per quanto riguarda tutti i lavori privati e pubblici che riguardano il movimento terra e ci sono attualmente forme di controllo e di imposizioni illegali di tipo mafioso. Rispetto a questo la realtà sociale ed economica percepisce nettamente la pressione e si adatta più o meno opportunisticamente con fare tipico degli ambienti prossimi alla mafia". Ad affermarlo è stato il giudice per le udienze preliminari (gup) Simone Luerti, che così ha motivato la sentenza di condanna col rito abbreviato a sei anni di carcere per associazione a delinquere mafiosa ed estorsione di Pasquale Papali a, figlio del boss Antonio. Riferendosi alle cosche al centro dell'inchiesta, il gup le ha definite "un caso tipico di nuova mafia che sfrutta la propria capacità di intimidazione imponendo il monopolio di fatto e condizionando i prezzi.
Buccinasco è a due passi dai grandi lavori di Expo 2015 per i quali - e a dirlo è il sostituto procuratore nazionale antimafia Enzo Macrì - sono cominciate le mosse di assestamento tra le cosche che vogliono distribuirsi i subappalti miliardari. E le mosse avvengono a suon di omicidi: in Lombardia, non in Calabria!
Sai che schiaffo in faccia alle famiglie Barbaro, Sergi e Papalia se il sindaco Loris Cereda avesse letto pressappoco queste motivazioni in consiglio comunale e poi davanti ai microfoni e alle telecamere: "il. Rosanna Scopelliti, calabrese onesta e testimone della Calabria onesta che lavora ovunque con onestà. Esattamente il contrario di quanto accade con le famiglie calabresi (a discrezione del sindaco trovare il coraggio di nominarle, alla luce delle sentenze passate in giudicato n.d.a) impiantate a Buccinasco, che hanno offeso il Comune, la collettività amministrata e l'Italia tutta con i loro loschi traffici legali e illegali che sdegnosamente rifiutiamo perché non appartengono alla nostra civiltà. Che questa cittadinanza onoraria Le dia la consapevolezza, cara Rosanna, di non essere sola nella sua lotta. D'ora in avanti potrà contare sulla nostra amministrazione comunale e sulla nostra gente.
Bene, bravo, bis, applausi e commozione generalizzata. Ipocrisia delle famiglie di mafia presenti e confuse tra la folla acclamante.

StarWars

Sorpresi del fatto che in Lombardia si possa parlare di "controllo del territorio"?
Beh, allora vi voglio raccontare altre storie sorprendenti che vi daranno il senso della pericolosità e del grado di penetrazione raggiunto dalle cosche in Lombardia. Sono solo "piccole" storie tra le tante che si potrebbero scegliere.
La "monnezza" si differenzia ma di fronte agli affari non fa differenza. Settembre 2008: Gomorra, il film di Matteo Garrone tratto dal libro di Roberto Saviano che ha fatto scoprire agli italiani la violenza dei Casalesi e la storia di un imprenditore senza scrupoli che del traffico illecito dei rifiuti fa una filosofia di vita, viene candidato agli Oscar.
Negli stessi giorni, in silenzio e senza riflettori accesi, il comando della Polizia provinciale di Milano mette il sigillo, dopo IO mesi di complesse indagini, all' operazione" Star Wars".

Ancora un richiamo cinematografico ma questa volta le "guerre stelllari" fanno prigionieri illustri nella 'ndrangheta che corre sull'asse Reggio Calabria-Milano. Nella rete della Polizia cade il superlatitante Fortunato Stillitano, della cosca Iamonte di Melito Porto Salvo, con precedenti per mafia e sottoposto in passato a regime di carcere duro. Con lui altre 8 persone arrestate e 20 indagate.
Il business smantellato dalla Procura di Monza dopo 9mila ore di osservazioni, pedinamenti e controlli, centinaia di ore di intercettazioni ambientali e telefoniche, in Lombardia era impensabile fino a qualche anno fa.
L’organizzazione criminale aveva acquistato o preso in affitto 65mila metri quadrati di terreno nel triangolo Desio-Seregno-Briosco e aveva già interrato 178mila metri cubi di rifiuti tossici e nocivi, carichi di cromo e piombo, in buche profonde fino a IO metri e larghe 50.
Il business non si limitava allo smaltimento illegale: su quelle aree, ricoperte nuovamente di terra, l'organizzazione contava di edificare e, così, riciclare il denaro sporco. Analogie inquietanti con quanto, sempre nello stesso mese di settembre, era stato scoperto a Crotone, in Calabria, dove alcune strade, abitazioni e scuole erano state coostruite con 350mila tonnellate di scarti industriali e rifiuti impregnati di cadmio, zinco, piombo, indio, germanio e mercurio.
Chi aveva edificato a Crotone sapeva, taceva e portava a casa i soldi necessari per sbarcare il lunario. Chi ha sbancato, interrato e ricoperto i terreni in Brianza veniva ricompensato con poco più che un' elemosina in denaro oltre alla cocaina che gli permetteva di sostenere i ritmi disumani, soprattutto nelle ore notturne. Lavoratori avviati _ in un inconsapevole ciclo infernale - a rimettere sul mercato della criminalità il denaro, oltre alla propria vita consumata dalle sniffate. Il 23 aprile 2009 tribunale di Monza ha accolto le richieste di patteggiamento per Fortunato Stillitano, 4 anni, Giovanni Stillitano, 3 anni e 6 mesi, Giulio Bralla, 1 anno e 6 mesi. Rito abbreviato invece per Ivan Tenca, 10 anni.
Il business del solo mercato illegale dei rifiuti speciali è da capogiro. Legambiente lo ha stimato in oltre 4,4 miliardi annui con oltre 19 milioni di tonnellate di rifiuti fatti sparire apparentemente nel nulla: una "montagna' alta 2 chilometri, con tre ettari per base. Le cosche e i clan strutturati con un' organizzazione capillare - che colpisce da Trapani a Caserta, da Marcianise a Torino, da Foggia al Ponente Ligure, da Palermo a Milano - sono una quarantina. Tanti i cognomi di famiglie che sarebbe meglio non avere mai come vicine di casa: Gullace, La Torre, Nuvoletta, Virga, Bidognetti, Emmanuello e via di questo passo. Dal 2002 - anno di entrata in vigore del reato di traffico illecito di rifiuti - a marzo 2008 ci sono state 112 inchieste, 681 ordinanze di custodia cautelare, 2.283 denunce e 551 aziende coinvolte.

L’analisi sugli appalti e il patto generazionale

Se in Lombardia esistesse una cartina di tornasole per riconoscere le infiltrazioni mafiose, sarebbe sicuramente immersa nel cemento. Che gli appalti pubblici siano a rischio, inquirenti e investigatori lo hanno capito da tempo e in vista di Expo 2015 i controlli si rafforzano. La lettura dei dati della Direzione investigativa antimafia, la Dia - rimasti chiusi nelle stanze romane per lungo tempo -lo conferma. Nel 2007 l'Osservatorio centrale sugli appalti della Dia ha effettuato in tutta Italia complessivamente 50 ispezioni, di cui 6 al Nord. Nessuno di questi ha coinvolto Milano.
Roberto Pennisi, sostituto procuratore nazionale antimafia, nella sua analisi della situazione milanese e lombarda, in vista di Expo 2015, resa a fine 2008, è stato ancor più determinato. "Il fenomeno che in passato si era constatato, dell'occasionale coagularsi in Lombardia di gruppi di 'ndrangheta di matrice diversa ed anche contrapposta in Calabria - ha spiegato Pennisi - oggi si è trasformato. Ci troviamo di fronte a corpi separati, provenienti dal medesimo ceppo, che vivono nell'ambito di una coesistenza autonoma ma interattiva. Questo corrisponde, peraltro, all'attuale modo di atteggiarsi del crimine mafioso calabrese che fa i conti con l'era della globalizzazione ed è capace di sfruttarne i vantaggi, spogliandosi degli orpelli che ne appesantivano la struttura':
Anche la relazione sul secondo semestre 2008 della Dia ha dimostrato che la criminalità organizzata è interessata alle imprese edili che operano in Lombardia: direttamente o indirettamente. Le mafie non puntano solo ad aggiudicarsi lavori in subappalto, la movimentazione della terra o il nolo a caldo o a freddo dei mezzi, ma mirano anche ad assorbire, con la violenza, le aziende sane sottoponendole a estorsioni. "Gli interessi in gioco - scrive la Dia - hanno anche fatto saltare, in alcuni casi, equilibri, alleanze e spartizioni territoriali consolidate da tempo, facendo venir meno l'apparente clima di pax criminale che, negli ultimi anni, aveva connotato l'area':
L’allarme degli inquirenti, inoltre, è "collegato" alle amministrazioni pubbliche che, soprattutto nell'hinterland milanese, non sempre riescono ad arginare le complicità interne, politiche e dirigenziali, nel rilascio delle concessioni e delle dichiarazioni. È per questo che su molti tavoli della Procura di Milano è girato un allarmante rapporto del Servizio anticorruzione e trasparenza (Saet) presso il Dipartimento per la funzione pubblica. I dipendenti pubblici denunciati per reati legati alla corruzione nel quinquennio 2004/2008 sono stati 19.019, di questi 1.787 in Lombardia, una quota pari al 9,39% del totale nazionale. Una percentuale inferiore solo alla Campania e alla Sicilia, persino superiore alla Calabria.
Le parole del magistrato antimafia Pennisi sulla crescente autonomia delle 'ndrine lombarde rispetto a quelle della casa-madre calabrese devono rimanere impresse nella testa di chi continua a negare i fenomeni di inquinamento dell' economia lombarda.
Le 'ndrine calabro-lombarde riescono ormai ad affiliare anche alcuni imprenditori calabro-lombardi per garantirsi l'accesso al mercato edile, immobiliare e finanziario ottenendo, attraverso prestanome, mutui e finanziamenti.
Un matrimonio esplosivo - in vista di Expo 2015 - certificato per la prima volta dalla Direzione distrettuale antimafia (Dda) di Milano che, per questo, il 3 novembre 2009 ha iscritto nel registro degli indagati 48 persone, sequestrato 5 milioni in beni ed eseguito 17 ordinanze di custodia cautelare in carcere. Le accuse spaziano dall' associazione mafiosa alla concorrenza imprenditoriale con violenza e minacce.
Con l'operazione battezzata "Parco Sud", sotto scacco, ancora una volta, è finita la cosca Barbaro- Papalia, il cui impero è stato fondato in 40 anni sul ciclo del mattone: dal movimento terra all' edilizia immobiliare, passando per il noleggio dei mezzi e la manodopera. A Trezzano sul Naviglio, Buccinasco, Corsico, fino alla periferia Sud di Milano, da anni non si muove (quasi) foglia che la famiglia Barbaro non voglia e a dare ordini dal carcere, che hanno raggiunto secondo l'accusa anche un perito tecnico del Tribunale di Milano, funzionari comunali e professionisti delle "scatole cinesi", è ancora lui: l"'australiano", Domenico Barbaro, nato a Platì ma trapiantato in Lombardia da così tanto tempo che ormai si può parlare di terza generazione, non più costola ma semplicemente gemellata con la famiglia d'origine.
Quest' operazione rivelerebbe che gli anelli del controllo vanno dalll'inizio alla fine del ciclo del cemento. Gli investigatori hanno svelato, a esempio, che il 50% di Immobiliare Buccinasco srl (valorizzazione e promozione immobiliare di beni propri) era di fatto riconducibile a Salvatore Barbaro (anche se, formalmente, azionista al 90% è Kreiamo spa e al 10% Andrea Iorio). La società, in funzione dal 2003 con un capitale sociale di 10mila euro, appartiene al gruppo Madaffari-Iorio che controlla 18 imprese (che vanno dalla consulenza all'intermediazione finanziaria) attive nel settore immobiliare anche a Castellanza (Varese) e Cusago (Milano). Il fatturato globale del gruppo supera i 7 milioni.
Andrea Madaffari, nato a Milano, e Alfredo Iorio, nato a Cosenza, sono stati arrestati e proprio su queste due figure hanno fatto luce il capo della Procura, Manlio Minale e il sostituto procuratore della Dda Ilda Boccassini. Il primo ha messo in evidenza che gli imprenditori - in un primo momento minacciati e vessati - si sarebbero poi prestati a favorire la famiglia mafiosa. "Per la prima volta - ha scandito Minale - abbiamo nell'associazione degli imprenditori che hanno fiancheggiato il gruppo. Questo è un aspetto pericoloso". Boccassini ha invece detto che "l'imprenditoria sana deve capire che può stare con lo Stato o contro lo Stato e che ha il dovere di denunciare l'intimidazione. Che un imprenditore si avvantaggi di un regime di violenza per propri fini affaristici non può accadere in uno Stato di diritto". Più che a Milano queste frasi si era finora abituati a sentirle a Reggio Calabria, Napoli o Palermo.
Minale ha escluso che, al momento, possano esserci collegamenti tra l'indagine e il futuro di Expo 2015. ma è sintomatico che gli interessi della cosca Barbaro- Papalia travalichino ormai i confini delle zone a Sud di Milano. Nel corso delle attività investigative, la Direzione investigativa antimafia di Milano, la Guardia di Finanza di Milano e i Carabinieri di Corsico hanno infatti scoperto che soggetti vicini alla cosca sono presenti in alcuni cantieri per il raddoppio della linea ferroviaria Milano-Mortara e della tratta ad Alta velocità (Tav). A testimonianza di come il ciclo del cemento sia "impastato" con quello dei rifiuti, gli investigatori hanno svelato che materiali inerti dei cantieri in zona Fiera venivano utilizzati per costruire terrapieni nelle due tratte ferroviarie.

La risposta dell'imprenditoria sana

L’indagine "Parco Sud" condotta dalla Direzione distrettuale antimafia di Milano ha fatto tremare le barriere normative che cercano di sbarrare la strada ai capitali mafiosi, a partire dall' efficacia dei cerrtificati antimafia. Prestanome immacolati e un castello di società riescono infatti facilmente a eludere i controlli. Da tempo la Direzione nazionale antimafia ipotizza nuove strade da percorrere e tra queste la creazione della "white list", ossia imprese e società che, sottoponendosi a specifici obblighi di trasparenza e cooperazione con gli organi investigativi, potrebbero ritenersi esentate dai controlli antimafia.
La white list trova il consenso di Assimpredil Ance (l'Associazione imprese edili e complementari delle province di Milano, Lodi, Monza e Brianza). "Gli eventi di questi giorni - spiegò il 5 novembre 2009 il presidente Claudio De Albertis in un'intervista che mi rilasciò per il Sole-24 Ore - confermano quanto da noi più volte denunciato. L'infiltrazione malavitosa riguarda più che gli appalti prinncipali taluni precisi subcontratti: movimenti terra, smalti mento rifiuti, discariche e cave. Attività più facilmente permeabili perché non soggette a controlli. Per contrastare seriamente il rischio di un radicamento della criminalità organizzata nel nostro territorio è ormai imprescindibile un serio, efficace monitoraggio dei soggetti che operano in queste aree a rischio. Un controllo sia nel momento in cui i soggetti intraprendono l'attività, sia nel corso dell'attività stessa. Al momento, invece, manca qualsiasi filtro o barriera d'ingresso al mercato, non c'è nessun sistema di qualificazione e mancano anche verifiche al momento dell'affidamento dei subcontratti. Per una garanzia effettiva servirebbe la creazione, presso ciascuna prefettura, di un elenco di soggetti operanti nelle attività a rischio, una white list di soggetti preselezionati in ordine ai quali non sussistono nemmeno sospetti di mafiosità.
Le competenze sulla trasparenza delle procedure sono frazionate tra più soggetti istituzionali. Solo le singole stazioni appaltanti, ad esempio, hanno la lista delle imprese espulse dal mercato per aver infranto le normative antimafia.
Le prefetture hanno invece il quadro degli interventi repressivi. Quella di Milano, dal 10 febbraio 2005 a fine 2009 ha eseguito 14 accessi ispettivi nei cantieri di opere pubbliche. "Sei si sono conclusi con provvedimenti interdittivi - spiega il prefetto Gian Valerio Lombardi - sei sono ancora in corso e due non hanno dato luogo a rilievi':
Dal 2005 a oggi le certificazioni antimafia rilasciate sono state 94.700 (in media 20mila all'anno), fra comunicazioni e informative. I dinieghi sono stati 32 e le comunicazioni atipiche (che hanno valore di mera segnalazione, lasciando alla stazione appaltante potere discrezionale sulle iniziative da adottare) appena cinque. I dinieghi di informativa dal 2007 ad oggi sono stati 3. Le informazioni sono state 6. '1n buona sostanza - dice Lombardi - con la certificazione viene attestata la assenza di controindicazioni soggettive. È però evidente che l'accertamento soggettivo non esaurisce interamente il profilo di rischio antimafia. Un soggetto potrebbe essere pulito ma al tempo stesso avere collusioni e rapporti con la criminalità organizzata. Per aggirare gli accertamenti il Prefetto può autorizzare ispezioni ai cantieri e tale attività è quella che generalmente dà i migliori risultati'~
La trasparenza dei lavori di Expo 2015 passa dalla Prefettura di Milano che però non può mettere in campo i principali strumenti contro il rischio di infiltrazioni mafiose: tracciabilità dei flussi finanziari e lista degli imprenditori puliti.
La legge 166/09 pubblicata sul supplemento ordinario 215/L della Gazzetta ufficiale 274 del 24 novembre, prevede che dalla Prefettura passino tutti i controlli nell' affidamento e nell' esecuzione dei contratti pubblici, compresi quelli sulle erogazioni e sulle concessioni. La Prefettura di Milano - emulando quanto già previsto con il cosiddetto "decreto Abruzzo" per la trasparenza della ricostruzione post terremoto -lavorerà in sinergia con la task force del Comitato di coordinamento per l'alta sorveglianza delle grandi opere che sarà istituita a Milano e con il gruppo interforze centrale per l'Expo 2015 (Gicex), istituito invece al Viminale.
I contenitori antimafia, dunque, cosi come è accaduto con L’Aquila, ci sono. Manca il contenuto.
La legge, infatti, rimanda a due strumenti vitali contro il rischio di infiltrazioni che furono già annunciati in vista del Ponte sullo Stretto. Il primo è la tracciabilità dei flussi finanziari, vale a dire la trasparenza di tutte le operazioni finanziarie, in ingresso e in uscita, di ogni imprenditore che avrà a che fare con gli appalti e subappalti pubblici di Expo 2015. Il decreto - lo stesso previsto per l'Abruzzo - non c e ancora.
Il secondo strumento, atteso con lo stesso decreto, riguarda la costituzione, presso la prefettura, degli elenchi dei fornitori e dei prestatori di servizi, non soggetti a rischio di inquinamento mafioso, ai quali possono rivolgersi gli appaltatori. Un elenco, è la cosiddetta white list che -- si badi bene - non sarà obbligatoria, anche se il mancato riferimento all' elenco espone chi ne fa a meno, al rischio di maggiori sospetti e relativi controlli.
Sull' elenco dei forni tori, che viene incontro alla richiesta da tempo presentata dall'Ance (Associazione costruttori edili), il sostituto procuratore nazionale antimafia Alberto Cisterna pone alcuni dubbi. "Nulla da obiettare sulla proposta - dichiara Cisterna - ma mi domando come le prefetture potranno individuare le imprese pulite in un mercato in cui basta un prestanome per rendere immacolato ciò che è sporco. Ci vorrebbero mesi per fare le verifiche e questo non si sposa con le lancette dell'economia.
Il prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, prima di conoscere i contenuti del decreto, lanciò un'idea sulla quale lavorare. "Dobbiamo partire - disse in un servizio che scrissi sul Sole-24 Ore il 27 novembre 2009 - da un elenco volontario di imprese disponibili a riicevere in ogni momento controlli puntuali da parte delle Forze dell'Ordine, anche senza i rituali decreti di accesso e le lunghe procedure amministrative". Come a dire: chi è pulito non ha certo paura della legalità.

Il dado è tratto verso Expo 2015

Se la politica cerca di riempire di contenuti il federalismo, la 'ndrangheta lo ha già fatto. Ha deciso che Milano, che in tempo di crisi vede capitali sporchi entrare e uscire probabilmente anche dal mondo della finanza, è la nuova capitale dell'Italia criminale federata e in vista di Expo 2015 ha anche scelto di rinforzare l'asse con una città ponte verso i ricchi traffici, italiani ed europei, del NorddEst: Brescia. Come sempre, le cosche sono avanti, più avanti di chi dovrebbe sconfiggerle.
A metterlo nero su bianco a fine 2008 e a provocare un putiferio è Vincenzo Macri, sostituto procuratore nazionale antimafia. "Non ci sono più tanti satelliti che ruotano intorno a un unico sole, la 'ndrangheta di San Luca - scrive nella sua relazione consegnata appunto a fine 2008 al suo capo, Piero Grasso - ma una struttura federata, disposta a dialogare con la vecchia casa-madre, ma non più a dipendere da essa, sia quanto alla nomina dei responsabili della periferia dellI1mpero, sia quanto all'adozione delle nuove strategie e alla condivisione dei profitti ':
Sarà verosimilmente per questo motivo che, in un primo momento e per la prima volta la Dna, Direzione nazionale antimafia, decise di secretare l'intera relazione. Quasi 900 pagine chiuse a chiave in pochi cassetti e accompagnate da una lettera del procuratore capo, Grasso, con divieto di divulgazione agli uffici.
Grasso non voleva probabilmente permettere che la relazione - a partire dalle dense e sorprendenti considerazioni sulla 'ndrangheta in Lombardia - uscisse fuori dai confini di chi, ogni giorno, è in prima linea a combattere la criminalità. Grasso non poteva tollerare la diffusione delle pagine dedicate alla ' ndrangheta che con il suo fatturato annuo di 51,5 miliardi (stime Eurispes 2010) è ormai l'orrganizzazione criminale più forte al mondo. Forte dell' asse con i narcos colombiani e sudamericani. Una 'ndrangheta talmente pervasiva che non c'è pagina - nei contributi consegnati dalle 26 Direzioni distrettuali alla Direzione nazionale - che non trasudi di investimenti, prestanome, traffici e corruzioni a opera di esponenti delle cosche calabresi o ad essi vicini. Una 'ndrangheta che compra tutto e, quando non può, delegittima, calunnia e isola. E uccide.
A pagina 117 di quella relazione si legge testualmente che "si è alla vigilia di una vera e propria rivoluzione copernicana... La 'ndrangheta avrà in tal modo completato il suo lungo percorso di occupazione della più ricca e produttiva regione del Paese: la Lombardia.
E non sarà un' occupazione precaria, ma definitiva, con strutture permanenti di direzione, con il territorio rigidamente suddiviso. '1n pratica - secondo la relazione acquisita agli atti della Direzione distrettuale di Milano - corpi separati ma provenienti dal medesimo ceppo e viventi nell'ambito di quella che può definirsi una coesistenza autonoma ma interattiva".
Nel giro di pochi anni - se le indagini dovessero confermare il quadro della Dna, ma appare scontato - i rapporti di forza si ribalterebbero: i centri decisionali si sposteranno sempre di più dalla Calabria alla Lombardia. Non è un caso che i boss Paolo Sergi e Antonio Piromalli siano stati arrestati a Milano, da dove - secondo gli investigatori e gli inquirenti - dirigevano i traffici internazionali di droga e curavano i collegamenti con il mondo politico e delle istituzioni.
Ma se la situazione di Milano e dell'hinterland - come ad esempio Buccinasco, che nella relazione di Macrì viene descritto come un territorio sottoposto passivamente alla conquista delle cosche fin dagli anni 70 - quel che sorprende è scoprire che Brescia e la sua provincia siano entrate ormai a pieno titolo nelle maglie della , ndrangheta. Le cosche "condizionavano e condizionano il tessuto sociale e le iniziative d'intrapresa finanziaria': scrive Macrì. Un assalto in piena regola, agevolato dalla complicità delle mafie straniere, in primo luogo di quella russa. "In particolare- si legge nel contributo messo a disposizione della Direzione distrettuale di Brescia - i calabresi appaiono svolgere il ruolo di procacciatori d'affari per i soggetti stranieri e in tale contesto si è rivelato persino l'interessamento per l'acquisto di una raffineria".
Lallarme della Direzione nazionale antimafia non prescinde da Expo 2015, sulla quale Stato ed enti locali non trovano accordi: la 'ndrangheta si è già piazzata con omicidi (tre in pochi mesi) e spartizioni già decise o in via di definizione. Accordi che lasceranno briciole (sostanziose) anche a Cosa Nostra e Camorra, ormai costrette a venire a patti con chi è più forte di loro. "Gli interessi in gioco con Expo 2015 - si legge nella relazione - sono maggiori persino di quelli ipotizzabili dalla realizzazione del Ponte sullo Stretto di Messina". Anche il prefetto di Milano, Gian Valerio Lombardi, a pagina 31 della relazione consegnata a gennaio 2010 alla Commissione parlamentare antimafia, scrive che "molteplici indicatori segnalano che alcune imprese si stanno orientando verso appalti di importo limitato così da evitare la verifìca dovuta per la certifìcazione antimafia. Nel contempo si registrano ricorrenti aggiudicazioni seria li sotto soglia a livello locale, i cui importi, se globalmente valutati, raggiungono cifre molto considerevoli, spesso superiori alla soglia per la quale è richiesta la certifìcazione antimafia. È altresì emerso che, spesso, società inquinate si servono di imprese sane per aggiudicarsi appalti pubblici e successivamente, tramite queste ultime, subentrano di fatto nei cantieri con propri mezzi o con !'intervento di altre ditte legate a organizzazioni mafiose... Fenomeno diffuso è anche l'aggiramento della normativa antimafia per i sub-contratti in materia di trasporto e movimento terra.
E cosi via con altre minuziose descrizioni dei sistemi mafiosi apparentemente leciti, fino ad arrivare alla nota dolente: Expo 2015. Nero su bianco ecco l'ennesimo grido di allarme del Prefetto Lombardi: "I riscontri dell'attività info-investigativa inducono a far ritenere concreto il rischio di infiltrazioni della criminalità organizzata dell'affidamento e nell'esecuzione dei contratti pubblici che riguardano i lavori, i servizi e le forniture in vista di Expo Milano 2015.

Milano come Reggio Calabria e la mafia chirurgica

Rotto il ghiaccio, anche l'anno successivo, la Direzione nazionale antimafia (Dna) non va per il sottile.
Milano come Reggio Calabria. Sembra il titolo di un film e invece è quanto certifica la Dna nella relazione annuale di fine 2009. Le morti e la violenza per mano delle cosche hanno un solo fine: il predominio economico sul territorio.
Una mafia imprenditrice che preoccupa, scrive la Dna, in vista di Expo 2015. Una mafia che mira, parole testuali, "ad accaparrarsi commesse private e appalti pubblici, utilizzando ditte solo apparentemente appartenenti a persone estranee ad ambienti criminali, allo scopo di aggirare la normativa antimafia.
È quanto accadeva a Reggio negli anni '80 e '90, allorquando la guerra di mafia era guerra di posizionamento e predominio economico e, di conseguenza, sociale. Ora accade a Milano. "La 'ndrangheta - scrive il sostituto procuratore nazionale antimafia Roberto Pennisi - si manifesta e si espande sempre più sul piano nazionale e internazionale, puntando a riaffermare la propria supremazia con immutata arroganza, soprattutto sul piano delle disponibilità finanziarie, che sono ormai illimitate. Milano è solo un anello, oltretutto periferico, delle cosche calabresi di terza generazione, ormai "autonome e interattive "rispetto alla casa madre, "che mirano all'esercizio di un capillare controllo del territorio'~ Nelle province di Varese, Milano e Novara, "diverse decine di associati di 'ndrangheta, attraverso estorsioni, usura, riciclaggio, omicidi e ferimenti, detenzione illecita e porto di armi comuni da sparo, stupefacenti, rapine - scrive Pennisi - sono riusciti ad ottenere il controllo completo del territorio dell'area geografica, imponendo, fra l'altro, regole imprescindibili, quali il pagamento di quote sui ricavi di azioni delittuose, e conferendo agli associati facoltà di mutuo soccorso dirette ad assicurare, con qualunque mezzo, il sostentamento dei sodali anche in caso di detenzione ... Il tutto per conservare la gestione monopolistica non solo delle attività criminose, ma anche di interi settori produttivi della zona':
Ferdinando Pomarici, a capo della Direzione distrettuale antimafia di Milano, il 21 dicembre 2009 ha inviato una relazione alla Commissione parlamentare antimafia (salita quasi in incognito a Milano per sorbirsi poi certe fìlippiche sulla "verginità" lombarda). La presentazione del documento è a cura del capo della Procura, Manlio Minale. Pomarici mette nero su bianco una frase agghiacciante: il modus operandi delle cosche calabresi integra "una forma di controllo sociale ed ambientale correttamente definita nelle sentenze già passate in giudicato come "selettiva" e strettamente funzionale alla conduzione del programma criminoso in un'area geografica diversa per cultura, mentalità, abitudini rispetto a quella di origine del metodo mafioso, ma estremamente pericolosa per la sua occulta pervasività e per gli effetti provocati, oltre che sulle persone, anche sul mercato inteso come regole comunemente osservate nell'esercizio dell'attività imprenditoriale e commerciale, la cui turbativa esercita gravi compromissioni anche sull'economia. La costante infiltrazione ambientale anonima, mimetica, in genere scevra da atteggiamenti che possano destare allarme sociale, con l'abbandono di comportamenti tradizionalmente mafiosi per assumere quelli rassicuranti di lavoratori dipendenti o gestori di apparentemente lecite ed avviate attività imprenditoriali, risulta aver consentito un radicamento ambientale ideale per lo svolgimento indisturbato per anni di illecite attività nei campi più disparati cui di seguito si farà cenno. In tal modo la potenzialità intimidatoria connessa al vincolo associativo risulta essere stata efficacemente utilizzata non solo all'interno dei gruppi al fine di assicurarne la compattezza, ma anche all'esterno per prevenire interferenze sgradite di gruppi concorrenti eo per imporre loro il predominio della attività criminosa nella zona occupata, per ottenere ed imporre utili collaborazioni nel settore della grande o piccola criminalità, nonché per occupare diversi settori economici, alcuni dei quali connotati da difficoltà finanziarie':

Mafia selettiva, vale a dire mafia che "chirurgicamente" sa come e dove inserirsi. Nell' economia, nella finanza e nella società.
E prima, a proposito, del dominio della' ndrangheta a Milano, Pomarici scrive: "sempre più presente ed operativa appare l'attività illecita posta in essere da associazioni criminali che si rifanno alla 'ndrangheta calabrese: infatti risulta accertato che i gruppi qui operanti e che costituiscono articolazione autonoma delle cosche calabresi hanno svolto per anni un'intensa, complessa, attività illecita (soprattutto importazione e commercio di ingenti quantitativi di diversi tipi di stupefacente) con contemporaneo riciclaggio degli altrettanto ingenti proventi illeciti conseguiti, al riparo da reazioni ambientali e controlli delle forze dell'ordine, o da azioni di disturbo dei gruppi criminali concorrenti, infiltrandosi e mimetizzandosi nell'ambiente socio economico della zona di insediamento attraverso condotte ed investimenti apparentemente leciti, con l'utilizzo di attività imprenditoriali e proprietà immobiliari, nonché avvalendosi della rete protettiva rappresentata dai numerosi canali informativi e da supporti operativi acquisiti anche all'interno delle forze di polizia':
Pomarici punta il dito contro le talpe delle cosche nelle forze di polizia. Un dramma, che per la stampa milanese ubriacata dalla Milano da bere passa scandalosamente in cavalleria. "L'attività associativa continua Pomarici - risulta infatti realizzata da gruppi collegati alle cosche di origine avvalendosi della forza intimidatoria soprattutto nei confronti dei gruppi o soggetti in grado di limitare ed ostacolare gli obiettivi programmati, secondo un criterio non solo "economico': ma anche strategico in relazione al contesto sociale nel quale i sodalizi hanno inteso radicarsi':
Ciò che resta della relazione di Pomarici sono "simpatici" numeri sui processi in corso, sui settori in cui le mafie fanno affari (esclusa la rivendita di sigarette usate ai clochard, c'è tutto e di più), sul rafforzamento delle mafie straniere (a partire da quelle albanesi e kosovare) e via dicendo.
Ma c'è soprattutto spazio per lo scoramento che prende chi si danna l'anima dalla mattina alla sera per incastrare questi rifiuti della società che sono i mafiosi di ogni razza e latitudine.
Però che memoria corta i milanesi e i lombardi. Come se Milano, la città dove la 'ndrangheta è giunta ormai alla terza generazione imborghesita e con la pancia mai sazia di sangue e affari e che sarà (anzi: è già) presa d'assalto in vista di Expo 2015 non fosse la stessa città in cui sono stati catturati boss tranquillamente in giro per shopping (e che dunque si sentivano al sicuro grazie alle reti di protezioni mafiose e di pezzi deviati dello Stato). Come se a Milano non fosse mai passato Michele Sin dona, come se a Milano una famiglia mafiosa non comandasse la gestione di centinaia di case popolari, come se a Milano non fosse già un pilastro della città il pugliese Frediano Manzi e la sua associazione antiracket e antiusura lasciata sola da tutte le istituzioni, come se a Milano i capitali sporchi non avessero da decenni inquinato le imprese cotte, decotte o stracotte, come se nell'hinterland milanese non si muovesse foglia che le famiglie 'ndranghetiste originarie della locride e della Piana di Gioia Tauro non vogliano, come se Milano non avesse un ortomercato dove le cosche calabresi sono più fresche dei mandarini della Piana di Sibari come testimonia l'intimidazione, giunta il 27 gennaio 2010 al sindacalista della Cgil Joseph Dioli, come se a Milano .
E come se in Lombardia, a proposito di canovacci e regie, non vivesse da tre anni sotto vigile scorta l'artista Giulio Cavalli - che sta a Lodi e non a Casoria o Rosarno - a causa delle sue denunce teatrali contro il malaffare politico e le mafie in regione.
Senza ricordare tutto ciò che è successo negli ultimi mesi (arresti, inchieste della magistratura, inchieste seppellite e miracolosamente riaperte a Varese a distanza di 19 anni, minacce, intimidazioni) e la scomparsa di collaboratori di giustizia calabrese.
Ah Milano, Milano ...


Nessun commento:

Posta un commento