venerdì 13 gennaio 2012

DELZIO LIBRO LA SCOSSA

LA SCOSSA
Francesco Delzio


INTRODUZIONE

Ogni POPOLO HA I SUOI MITI. Se invece non ne ha, come le genti del Sud Italia, può dipendere da due cause. La prima: ha raggiunto un altissimo livello di coscienza razionale e di sofisticazione culturale. Non credo sia questo il caso ...
Molto più probabile, purtroppo, la seconda causa: questo popolo non sogna più. Non immagina un futuro collettivo da costruire, una speranza da inseguire, una storia eroica da eguagliare.  
E allora il viaggio sulle strade della rinascita del Sud non , comincia dalla realtà, ma da un'insolita «caccia al mito». Ne propongo uno, forse l'unico possibile: ha quasi 800 anni di vita e - nonostante la vetustà - viene soprannominato «stupor mundi” diventare il mito di un nuovo Mezzogiorno.
E’ Federico II di  Svevia. I meridionali (con qualche lettura alle spalle) lo considerano l'artefice dell'unica «età dell'oro» che il sud abbia conosciuto nell'era post-cristiana. Un personaggio carismatico e affascinante, precursore dei grandi geni rinascimentali fu grande uomo politico, ma anche abile stratega militare, raffinato filosofo, architetto innovativo e colto letterato. Ma la Storia gli riconosce, soprattutto, un merito etnico: Federico II di Svevia riuscì a dare vigore e orgoglio ai popoli del Meridione d’Italia.
Le sue tracce sono visibili in tutto il Sud, dove resistono alla furia del tempo, della modernità e dell'inconsapevolezza. Incoronato Re di Sicilia, Duca di Puglia e Principe di Capua a soli quattro anni, con il sangue indomito dello zio Federico il Barbarossa nelle vene, realizzò nelle terre meridionali una vera e propria rivoluzione dall' alto. I risultati non hanno pari nella travagliata epopea dei terroni: costruì il primo Stato cen­tralizzato - ponendo fine al potere senza regole e senza pace dei feudatari locali - rilanciò l'economia facilitando i com­merci e mettendo in sicurezza le infrastrutture, creò a Napoli la prima Università statale del mondo occidentale e a Salerno la prima Scuola medica, promulgò le Costituzioni che dona­rono alle società meridionali il primo scheletro giuridico pub­blico, impose il rivoluzionario (ancor oggi ... ) criterio di egua­glianza della legge per tutti i sudditi nell' amministrazione del­la giustizia, intraprese una dura lotta contro l'usura nelle gran­di città. Sarebbe un programma valido, per il Mezzogiorno, anche nel Duemila.
La sua vita non fu solo un trionfale cammino di gloria e di luce, naturalmente: alle grandi virtù pubbliche si somma­rono robusti vizi privati, nonché un'incontenibile voglia di belligeranza contro la cristianità e il potere temporale dei Pa­pi - che gli costarono scomuniche e anatemi - nonché contro le comunità ebraiche meridionali. Ma il mito alimenta la leg­genda, cancellando magicamente gli aspetti meno edificanti della realtà e costruendo l'immagine-simbolo del riscatto me­ridionale.
Federico II di Svevia è ancora molto popolare in Puglia, in Sicilia, in Campania: non si contano le strade, le banche, le società, i negozi, le associazioni, perfino le acque minerali de­dicate all'imperatore svevo. E i suoi misteriosi castelli - gioiel­li d'architettura e di stile che dominano dal mare le città del­la Puglia - ne ricordano ogni giorno la grandezza.
Ma Federico II di Svevia è anche un mito «identitario», che segna i confini e le distanze tra civiltà diverse. Nella sua Patria naturale, la Germania, «stupor mundi» viene snobbato: è stato singolarmente rimosso dalla cultura e dalla memoria storica. Mentre nel Nord Italia è ricordato, paradossalmente, come un despota sanguinario e degenerato: la Lega ha costrui­to la propria identità padana proprio sulle radici medievali dei Comuni e sulla loro orgogliosa contrapposizione a Federico Barbarossa e a suo nipote Federico IL A fugare ogni dubbio, del resto, l'indimenticabile prima cinematografica «made in Padania» dedicata alle gesta di Alberto da Giussano - uscita nelle sale (non esattamente a furor di popolo) nel novembre '009 - intitolata proprio al Barbarossa.
Tutto induce, quindi, a fare di Federico II di Svevia il mito esclusivo della gente meridionale. Porta in dote - attraverso i secoli - valori indispensabili al rilancio del Mezzogiorno, e tragicamente carenti nel DNA meridionale: coraggio, ambizione e sogno, legalità e innovazione, proiezione al di fuori dei confini. Per rinascere, il Sud e i sudisti ne avranno un tremendo bisogno.

L’ESPERIMENTO RIUSCITO: DIMENTICARE IL MEZZOGIORNO

Dal sogno SCIVOLIAMO BRUSCAMENTE verso la realtà. Se ci fosse uno spot che descrive oggi l'approccio dell'Italia al suo Mezzogiorno, il suo claim sarebbe: «basta non guardare». Del resto, l’anedottica popolare è ricchissima di espressioni, proverbi, motteggi che spiegano come si fa a non soffrire di fronte a un grosso problema: dallo struzzo che mette la testa sotto la terra, all'intramontabile «lontano dagli occhi, lontano dal cuore». Ma si possono dimenticare nel cuore dell'Europa più di venti milioni di persone?
Nell’Italia del Duemila l'incredibile esperimento è riuscito. Niente più inchieste sui giornali. Niente programmi il solito sud non fa più notizia, meglio un morboso talk show sull’ultima strage in famiglia. Niente più libri, saggi, analisi, intellighenzia  meridionalista. Niente più politica sudista, in tutti i sensi: basta eliminare il Sud dai programmi elettorali prima e dall'agenda politica poi, limitare al massimo i Ministri terroni e comunque scegliere quelli ritenuti più inoffensivi, abolire  qualsiasi riferimento al Mezzogiorno persino nei nomi delle istituzioni politiche e delle loro deleghe.
Non dev’essere troppo difficile, in realtà. Perché l’esperimento è già riuscito più volte: l'hanno compiuto - con eguale successo - sia i governi di centrodestra che quelli di centrosinistra. Non sapendo come risolvere il problema, l’hanno semplicemente dimenticato.
E così il Mezzogiorno è stato abolito - non per decreto, ma per volontà politica - come suggeriva il saggio di un noto economista meridionale. E con esso sono state abolite le spe­ranze, la voglia di riscatto, i sogni di un'intera generazione di giovani terroni, gli «intel-terroni»: costretti a fuggire per rea­lizzarsi, ma soprattutto impossibilitati a tornare, per non di­sperdere gli investimenti fatti sulla loro formazione e per non vanificare le loro aspirazioni. Costretti anche loro, in fondo, a dimenticare il Sud.
Ma nell'estate del 2009 succede qualcosa di imprevisto.
Tre fatti - in rapida successione, curiosamente indipendenti l'un dall'altro danno vita ad una «curva della storia»: il fan­tasma della questione meridionale riemerge prepotentemente dal passato, lacera il silenzio, pretende di nuovo le luci della scena mediatica.
6 luglio 2009: presentazione pubblica del Rapporto Svi­mez sull' economia e sulla società del Mezzogiorno nel 2008. I dati sono strazianti: il divario Nord-Sud si allarga ulterior­mente, la meglio gioventù meridionale è letteralmente in fuga dal Sud, il Mezzogiorno è alla deriva. Ma i grandi media - con qualche lodevole eccezione - staccano la spina: meglio conti­nuare a non vedere, non si possono disturbare cosÌ le sacre va­canze degli italiani.
20 luglio 2009: Raffaele Lombardo, Presidente della Re­gione Sicilia e leader del Movimento per le Autonomie, esprime l'insoddisfazione del suo partito nei confronti del Governo Berlusconi e annuncia il «sostegno condizionato» al Governo. La condizione sospensiva è lo stanziamento di ingenti fondi per il Sud e per la Sicilia in particolare. Evviva Lombardo, che fa ripartire la grande battaglia meridionalista, abilmente colo­rata da roboanti annunci di prossima nascita del «Partito del Sud». Ma i meriti di Lombardo si fermano qui: è una batta glia nuova (nel governo Berlusconi), ma condotta solo per 01 tenere la vecchia spesa pubblica. Viene accontentato, con tan lo di procLlIni di vittoria ad uso TG.
La nuova questione meridionale, in fondo, sembra dura­re non più di un temporale estivo. Il grande esperimento - dimenticare il Mezzogiorno - regge l'urto dei <<nuovi sudisti» e sulle sorti del Mezzogiorno torna a prevalere il placido oblio. All’ estero, tuttavia, l'incredibile esperimento riesce molto meno...
Ferragosto 2009. Un brivido freddo corre sulla schiena di molti «intel-terroni» malati di inguaribile ottimismo verso le sorti della terra natia: l'Economist, il più prestigioso settimanale economico del mondo, dedica un'ampia inchiesta al “caotico Mezzogiorno d'Italia, dove si è persa ogni speranza di rilancio, la metà degli abitanti sono disoccupati e la gran parte sono invischiati nella criminalità organizzata [ ... ]». Un verdetto senza appello. Demagogico forse, ma incontestabile nei numeri. E al tempo stesso inaccettabile, per chiunque sia convinto che il futuro non sia soltanto la meccanica ripetizione del presente.
Dopo ognuno dei tre (imprevisti) bagliori di luce, si scatena un pittoresco dibattito incentrato su ogni genere di fantasia intellettuale: il ritorno alle gabbie salariali, il varo di una riedizione del Piano Marshall dedicata al Mezzogiorno, la nascita di una Lega Sud per contrapporre orgogliosamente la Terronia alla Padania, il commissariamento di massa delle , classi politiche meridionali. E mille altre amenità. Poi - sfogata al meglio l’Italica creatività - sul Sud è tornato a splendere il buio più totale.
La conferma è giunta alla fine dell'estate 2009. Il 29 settembre i vescovi italiani, riuniti nel Consiglio episcopale permanente, abbandonano toni e argomenti tradizionalmente misurati per denunciare  che la questione meridionale «è avvolta oggi in un clamoroso silenzio, pur in presenza di preoccupanti segnali di crisi. Per questo - scrivono nel comunicato finale del Consiglio - occorre fare appello a tutte le forze positive”.
Ma dove sono le forze positive pronte a rispondere all' ap­pello?
A partire dalla fine dell'Ottocento, il filone politico-cul­turale del meridionalismo ha alimentato e coinvolto alcune delle migliori intelligenze del Paese, da cui è scaturito spesso un dibattito autorevole, ricco e fecondo. Analisi, provocazio­ni e proposte sui problemi dello Stato unitario e sul ruolo del Meridione hanno coinvolto l'opinione pubblica e inciso sul­l'agenda politica: il merito è di intellettuali e politici come (tra gli altri) Giustino Fortunato, Gaetano Salvemini, Antonio de Viti De Marco e Manlio Rossi Doria. Ma oggi - di fronte al disastro economico-sociale del Mezzogiorno e al dissolvimen­to delle sue prospettive - dove si sono nascoste le élite cultu­rali del Paese? Chi le ha viste?
«Il governo d'Italia è stato vigliacco, col Mezzogiorno. Sa di poter osare tutto osa quaggiù; e, nel fatto, può tutto osare e tut­to osa quaggiù. Ormai il governo dispone del Mezzogiorno elettorale. In venti anni lo ha, elettoralmente, demoralizzato» scriveva Giustino Fortunato nel 19012. Lucida provocazione, denuncia politica, impeto da battaglia vera per il Sud e per i suoi abitanti, non certo per questa o quella corrente di parti­to, per questa o quella nomina da conquistare.
Non ci è più dato nulla di tutto questo, ormai. Eppure lo spirito dell' antica provocazione del grande meridionalista di Rionero in Vulture corrisponde al sentimentdi molti meridio­nali di oggi: sedotti dalla politica nazionale e regionale in oc­casione d'ogni tornata elettorale, ebbri di promesse e di fasci­nazioni sul futuro delle terre del Sud prima, clamorosamente abbandonati alloro destino dopo la chiusura dei seggi. Nes­suno, però, sembra trovare il coraggio, il rischio politico, la passione per interpretare questo sentiment e tradurlo in pro­posta politica efficace. È un caso - clamoroso - di vuoto po­litico.
Eppure, nel 2010 ricorre il 20° anniversario della riunificazione della Germania. Nel 1990 l'allora cancelliere tedesco Helmuth Kohl si trovò di fronte alla parte Est della Germania, ridotta più o meno come il nostro Mezzogiorno (ad eccezione delle mafie). Decise di legare la storia politica (e i bilanci pubblici) del suo Paese ad un compito immane: parificare le condizioni dell'Est a quelle dell'Ovest. Oggi l' obiettivo è stato in gran parte raggiunto: l'Est ha dimezzato le distanze dall'Ovest in termini di PIL pro capite e di qualità della vita, e tutta la Germania può goderne i benefici. La sfida vinta ha anche un suggello simbolico. È cresciuta nelle campagne a nord di Berlino, nel cuore dell'ex Repubblica Democratica Tedesca, l'attuale cancelliere Angela Merkel, probabilmente la donna più potente del mondo.
Il Mezzogiorno d'Italia non ha anniversari «di rinascita» da festeggiare con giubilo. Celebrerà pro quota - con gli onori e i riti che animeranno il resto del Paese - il 150° anniversario dell’Unità d'Italia. Con la triste consapevolezza, però, che da allora l'abisso che divide Nord e Sud è rimasto sostanzialmente lo stesso. E qualcuno si chiederà, probabilmente, quale maledizione impedisce che la storia tedesca possa ripetersi in un altro angolo così importante dell'Europa unita.

LA STAGIONE PEGGIORE DEL SUD. L’ABBANDONO

IL SUD E’ IN AGONÌA. L’idea che si è fatta strada è che - parafrasando quanto Sciascia diceva amaramente della Sicilia il Sud sia irredimibile»: così recitava l'editoriale in prima pagina di “Avvenire” del 17 luglio 2009, commentando i risultati del Rapporto Svimez 2009.
Il Sud è irredimibile? Di sicuro, il sogno del rilancio del Mezzogiorno è clamorosamente svanito. Nel periodo 1996-2002, il PIL del Mezzogiorno era cresciuto in media tre decimi di punto all’anno in più rispetto a quello del Centro-Nord.
I più importanti parametri economici mostravano nel Sud, trend di crescita migliori  che nel resto del Paese. In Italia e in Europa si era diffusa la speranza, legittima, che fosse iniziata finalmente la grande “rimonta» del Meridione.
Ma la rincorsa è bruscamente terminata, lasciando il posto al passo del gambero. Da sette anni consecutivi il Sud cresce meno del Centro-Nord: è la prima volta che succede dal dopoguerra a  oggi. In particolare , il bilancio della convergenza (mancata) è diventato negli ultimi due anni profondamente rosso: ben un punto percentuale di differenziale di crescita a danno del Sud nel 2007 (pil Sud +0,7% vs PIL Centro-nord +1,7%), mentre nel 2008 la contrazione del PIL meridionale è stata pari a -1,4%, rispetto a -0,9% del Centro-Nord.
Il risultato non cambia affatto se ci affidiamo a parametri meno schematici del l'IL: secondo l'edizione 2009 degli «in­dicatori sintetici di sviluppo» di Confindustria - che oltre al­la misura della ricchezza prodotta utilizzano altri indicatori più innovativi, legati alla qualità della vita - fatta 100 la me­dia nazionale, nel periodo 2007-2008 il Centro Nord regi­stra un indice di 114,9 punti, mentre il Mezzogiorno si ferma tristemente a quota 72,2 punti.
Negli ultimi dieci anni si sta allargando notevolmente an­che il gap tra Mezzogiorno ed Europa: il Sud non ha avuto nel­le sue vele quel potente vento dello sviluppo che ha spinto in avanti le altre aree europee Obiettivo I, cresciute in media nel periodo 1995-2005 del 3% circa (contro lo 0,6% del Sud). Co­me segnala il Rapporto Svimez, «l'interruzione della convergen­za tra aree deboli e forti del nostro Paese costituisce un' anoma­lia nel panorama europeo e richiede una profonda riflessione».
Ma la misura più efficace del divario Nord-Sud è proba­bilmente nel dato del PIL per abitante: nel 2008 è stato di 17.97 euro al Sud, contro 30.681 euro al Nord. Non deve ingannare il fatto che nel 2008 il l'IL pro capite del Sud sia pari al 58,6% di quello del Centro-Nord, in leggero recupe­ro rispetto al 2000 (56,9%)' Il miglioramento è «patologico», perché nasce dall' emorragia di popolazione emigrata da Sud verso Nord (e dall'arrivo maggiore di immigrati nelle regio Il i settentrionali): ogni anno circa 300 mila persone abbandonano il Sud per cercare migliori chances nel resto del Paese. lIll esodo biblico: è come se ogni anno un'intera città di medie di mensioni si trasferisse dal Sud al Nord d'Italia.
I <muovi emigranti» sono soprattutto giovani laureati o diplomati. Quest'ondata è formata per ben 1'80% da persone sotto i 45 anni e per circa il 50% da persone con istruzione superiore: una su quattro è laureata. E se ne vanno sempre di più i laureati con il massimo dei voti: nel 2004 fuggivano dal Sud ben il 25% di loro, tre anni dopo addirittura i1 38%.
Secondo un'interessante indagine Istat del 2007, tra i laureati che hanno un'occupazione a tre anni dalla laurea ben  i1 41,5% lavora in una Regione del Centro-Nord: dieci punti percentuali in più rispetto al 2001. Tra di essi, ben il 40% ha conseguito un voto di laurea pari a 110 o 110 e lode. Allenati alla mobilità, Tuareg per vocazione culturale e per necessita, questi giovani competenti e brillanti non torneranno più indietro: secondo uno studio SVIMEZ, soltanto i1 30% dei giovani meridionali che hanno studiato nel Centro-Nord rientra alla base. In questo modo si dissolve quella Tra emigrazione giovanile e forte calo della natalità, il Sud rischia entro 20 anni il declino demografico: secondo le proiezioni più accreditate, dagli attuali 20,8 milioni di abitanti scenderà a 19,3 milioni. E tra questi, una persona su tre avrà più di 65 anni e una  su dieci più di 80 anni.
Il rapporto Svimez 2009  segnala il peggioramento nel Mezzogiorno (in rapporto al Nord) dei trend relativi a tutti i principali indicatori economici: investimenti, occupazione, tasso di attività. Ma la frattura tra le due italie è ancor più impressionante se si guarda al contesto: infrastrutture, servizi essenziali, qualità della vita. In questi ambiti si materializza, infatti, il “tradimento” dei cittadini meridionali da parte dello Stato, la fuga del pubblico dalle sue responsabilità. E la diversità gografica diventa la matrigna  di un destino completamente diverso: un Nord protagonista nel cuore dell’Europa avanzata, contro un Sud ormai vicino alla sponda settentrio­nale dell'Africa.
In particolare, è sempre più profondo il divario infrastrut­turale: la dotazione di reti di comunicazione fìsica nel Mezzo­giorno è oggi inferiore di 25 punti rispetto alla media nazio­nale. «Di fronte a scambi sempre più fitti tra sistemi a rete (nel mondo), il Mezzogiorno si presenta ancora oggi come un'area periferica e scarsamente connessa, soprattutto per l'insuffi­cienza delle dotazioni, per la loro scarsa qualità e per la scarsa accessibilità delle infrastrutture esistenti» denuncia il Rappor­to Svirnez. Solo il 7,8 % delle linee ferroviarie ad Alta Velocità è presente nel Mezzogiorno (la Roma-Napoli-Salerno) e il di­vario con il Centro-Nord si amplierà ulteriormente, poiché i prossimi investimenti previsti sulla rete dell'Alta Velocità ri­guardano solo tratte settentrionali. Inoltre, all'interno delle opere approvate dal CIPE nell'ambito della Legge Obiettivo, solo il 28,6% è localizzato nel Sud.
Se diamo uno sguardo all'intero quadro dei servizi pubbli­ci, l'idea delle due Italie diventa una realtà molto concreta. La percentuale di famiglie che denunciano irregolarità nella distri­buzione dell'acqua è pari al 21,8% nel Sud, contro il 9% nel Centro- Nord. Il grado di insoddistàzione del servizio elettrico è nel Sud tre volte superiore al Centro- Nord. Negli ospedali, i ricoveri in strutture di un' altra ripartizione geografica sono nel Mezzogiorno sei volte superiori al resto del Paese. Per l'avvio di un'impresa al Sud sono necessari in media ben 24,3 giorni t' nelle Isole addirittura 27,3, contro i 13,2 del Nord Ovest e i 13,3 del Nord-Est.
Chiude la «vetrina dei disservizi» a Sud la giustizia civile: Li durata media dei procedimenti di cognizione ordinaria in primo grado - la maggior parte dei processi civili - è nel Mezzogiorno di 1200 giorni, contro 750 giorni al Centro-Nord. Per le cause di lavoro la durata media è di 1000 giorni al Sud, contro 500 al Centro-Nord. È cosi azzardato affermare che il principio di uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, sancito dall’art.3  della Costituzione, viene violato ogni giorno ai danni dei cittadini del Meridione?
Ma torniamo alla ricchezza prodotta (ed a quella bruciata). Nel 1951 a Sud veniva prodotto il 23,9% del PIL nazionale  il23,8%. In quasi 60 anni - in sostanza - non è cambiato nulla. Tutto ciò nonostante un gigantesco fiume di denaro pubblico, che non si è mai interrotto: l'intervento pubblico straordinario nel Mezzogiorno è stato pari in media allo 0,7% del PIL negli anni Cinquanta e Sessanta, allo 0,9 % negli anni Settanta, allo 0,65% negli anni 1981-1986, allo 0,75% fino al 1993 e allo 0,8% negli anni più recenti.
L’attuale mix di crisi economica e di delegittimazione politica che il Sud sta  attraversando pone ad alto rischio la possibilità di completare la transizione verso un'economia più competitiva”. Al netto delle prudenze linguistiche tipiche dei documenti ufficiali, nel suo rapporto 2009 la SVIMEZ va molto oltre l’elencazione dei numeri e lancia - forse per la prima volta - un messaggio di grandissima preoccupazione sulla politica e sulle politiche per il Sud.
Nella stagione peggiore del Mezzogiorno dal dopoguerra, ,i sta materializzando «l'incubo dell'abbandono»: i governi tradizionali di entrambi gli schieramenti) non credono più nel rilancio del Sud, il Mezzogiorno è scomparso dal1' agenda europea, le menti più giovani e brillanti abbandonano il Sud per sempre. Il pensiero leghista s'insinua nelle menti, nei cuori e negli stomaci, diventa opinione diffusa nel Paese. «La Padania è una realtà politica, culturale ed economica ben nota in tutto il mondo, mentre per noi il Meridione esiste solo come palla al piede, che ci portiamo dolorosamente appresso da 150 anni: la nitida visione del deputato della Lega Nord Mario Borghenzio rischia di diventare patrimonio comune a numerosi italiani d'ogni estrazione.
E chi rimane, ostinatamente, in Terronia ? Perde fiducia in 'se stesso e nel futuro della sua comunità, abbandonandosi a un destino (apparentemente) già scritto.

I FALLIMENTI DIRETTI ESTERI: IL FALLIMENTO DI INVITALIA
STORICAMENTE L'ITALIA È POCO ATTRAENTE per capitali e imprese che girano il mondo alla ricerca dell'allocazione più redditizia. Oggi, però, lo è ancora meno: sul totale degli inve­stimenti effettuati in Italia nel200S, soltanto i16, 6% proven­gono dall'estero contro il 14,6% in Francia e il 32,I% in Gran Bretagna. Nella classifica degli Investimenti Diretti Esteri sia­mo, desolatamente, gli ultimi dell'Europa avanzata.
Ma il dato più clamoroso si scopre esaminando la distri­buzione territoriale degli investimenti: soltanto lo 0,7% de­gli IDE giunti in Italia nel200S è posizionato nel Mezzogior­noI!. Una percentuale risibile ... Va aggiunto - per rendere il quadro ancora più inquietante - che il Sud ha subito negli ul­timi anni rispetto al Centro Nord una drastica riduzione del­la quota di investimenti stranieri, che nel 2000 erano pari nel Sud al 2 d % del totale nazionale. Con conseguenze immedia­te sull' occupazione: nel 200S si è registrata nel Mezzogiorno una riduzione di 7000 occupati nelle imprese a partecipazio­ne straniera.
La realtà è desolante: poche imprese estere sono insediate nel Meridione e soltanto una parte esigua di esse vi ha collo­cato anche la propria sede amministrativa. E non c'è da pre­vedere nulla di buono per il futuro, perché tutta la letteratura scientifica sugli 1 D E sottolinea 1'esistenza di un effitto- valanga: gli investimenti esteri tendono a concentrarsi nelle zo­ne dove operano già altre imprese straniere, per ridurre quei «costi» di informazione e di transazione che sono evidente­mente più alti per un operatore straniero. Un dato per tutti: nel periodo 1999-2005, oltre il 92% del flusso di IDE giunti in Italia si è localizzato in sole otto province italiane e - addi­rittura il68% degli IDE si è concentrato soltanto in due pro­vince. È come se gli investitori esteri che decidono di investi­re in Italia guardassero una mappa sbiadita della nostra realtà industriale degli anni Sessanta, al posto delle filiere dell'im­prenditorialità diffusa del Duemila.
È preoccupante anche la «qualità» degli investimenti che dall' estero approdano nel Sud Italia: soltanto i14 O/il riguarda at­tività high tech, un altro deludente 4 % attiene ad attività di 10­gistica. Eppure dovrebbero essere i due terreni d'elezione per un' area cui la natura ha regalato una posizione di piattaforma nel Mediterraneo strategica sullo scacchiere Ovest- Est, e nella quale scarseggia l'industria manifatturiera ma abbondano le ri­sorse umane.
Secondo una preziosa ricerca condotta dall'Università de­gli Studi di Milano, il Mezzogiorno sconta - rispetto alle altre aree depresse d'Europa - la cattiva performance dei tipici fattori d'attrazione dei capitali su scala internazionale, come il livello di tassazione troppo alto e il malfunzionamento della giustizia. Ma sulla non-scelta di spostare risorse in Italia incidono sopr:11 tutto la carenza di investimenti pubblici e privati nonché 1.1 scarsa presenza di addetti nel settore R&S, oltre alla bassa ClU;1 lità del sistema universitario: nelle aree del mondo in cui ljlll ste risorse abbondano con qualità adeguata, rappresentano I veri «catalizzatori» d'investimenti.
Nonostante questi pesanti deficit - ai quali si aggiunge il fatto che il Mezzogiorno è tagliato fuori oggi dalle grandi di­rettrici di sviluppo europee, che puntano verso i Paesi del Cen­tro e dell'Est Europa - autorevoli indagini di mercato dimo­strano che le Regioni meridionali avrebbero un notevole po­tenziale d'attrazione, pari a più del doppio degli IDE attuali.
A questo punto, una domanda sorge spontanea. Cosa fa INVITALIA? Qualcuno ha notizie del suo impegno nel mon­do per «conquistare» capitali da accogliere nel nostro Paese?
L'Agenzia nazionale per 1'attrazione degli investimenti e lo sviluppo d'impresa - recita la sua «mission» ufficiale - «agisce su mandato del Governo per accrescere la competitività del Paese, in particolare del Mezzogiorno, e per sostenere i setto­ri strategici per lo sviluppo. I suoi obiettivi prioritari sono: fa­vorire 1'attrazione di investimenti esteri, sostenere l'innova­zione e la crescita del sistema produttivo, valorizzare le poten­zialità dei territori».
Nel luglio 2008, in occasione della presentazione dei ri­sultati del bilancio 2007 dell'Agenzia, il ministro Scajola di­chiarava che la nuova missione affidata dal governo Berlusco­ni all' ex Sviluppo Italia è d'ultima chance per la sopravviven­za dell'Agenzia». Il nuovo management si è insediato a marzo 2007. Dai dati disponibili - relativi alla fine del 2008 - ri­sultano in carico ad INVITALIA rr6 tra Consiglieri d'Ammi­nistrazione e liquidatori delle diverse società del gruppo e ben 1050 dipendenti. Nonché, a quanto sembra, un «tesoro» di liquidità stimato in circa 900 milioni di euro, costituito dal­la somma dei fondi di dotazione assegnati dalle Finanziarie degli anni Duemila. Ma oltre alla doverosa e sana «potatura» di numerosi rami secchi dell'Agenzia, realizzata in questi due anni e mezzo, non risultano altri benefici effetti prodotti da questa costosa macchina da guerra.
Quanto è lontana l1rish DeveLopment Ageney ... Un'Agen­zia esclusivamente vocata ad attrarre investimenti di qualità dall' estero, dotata di piena autonomia rispetto alla politica, capace di fornire un servizio «chiavi in mano»: i potenziali in­vestitori devono cimentarsi con un'unica pratica, che racchiu­de in sé ogni adempimento burocratico necessario per inse­diarsi in Irlanda. Un'Agenzia che opera non solo in Patria, ma anche nelle aree del mondo in cui si concentrano i capitali da investire e si formano le decisioni d'investimento: quindici uf­fici dell'IDA sono posizionati nelle regioni più «promettenti» del pianeta. Per questa via l'Irlanda è diventata in pochi anni la culla mondiale del bioteeh, sta spingendo l'accelleratore sul­l'insediamento di industrie farmaceutiche (il Viagra si produ­ce già qui) e di attività high teeh.
«Il tentativo di far svolgere a Sviluppo Italia il ruolo di at­tivatore di investimenti dall' estero è fallito» è il lapidario ver­detto del ministro Brunetta. Constatato il fallimento della missione istituzionale dell'Agenzia e delle relative speranze (politiche), non resta che passare all'esecuzione della senten­za: Sviluppo Italia-INVITALIA addio.

L’INCUBO DI PETRA
PAESAGGI MOZZAFIATO. Vallate remote, battute dal caldo vento della storia millenaria, dove gli unici suoni udibili sono i campanacci delle pecore o le note stridule dei flauti dei pastori.
Un Paradiso in terra, isolato dal mondo: la via di fuga ideale dalla grande corsa dello sviluppo e dai suoi ritmi frene­tici. La meta più ambita dai turisti d'ogni angolo del pianeta, affascinati e sedotti da questo incrocio miracoloso di arte an­tica, di civiltà splendide e sepolte, di natura dolce e selvaggia. Ad accoglierli una massa di beduini, fieri e furbi, compiacen­ti e disincantati: padroni e custodi di un mondo di meraviglie che fu, di un passato su cui vivere di rendita nel presente. Con l'unica certezza che non tornerà più.
Siamo a Petra. La città perduta, una delle otto meraviglie del mondo antico. Prima di Cristo e dell' arrivo dei Romani fu snodo cruciale per le rotte commerciali, ponte strategico tra Nord e Sud, Est e Ovest, oggetto di ammirazione per la sua raffinatezza culturale. Ma dal XIV secolo, nel mondo occiden­tale, non se ne ebbero più notizie. Fu sepolta sotto la polvere dell'abbandono e dell'incuria, dimenticata da Dio e dagli uo­mini. Prima che fosse riscoperta dagli esploratori e dai turisti, che la trasformarono in un gigantesco museo a cielo aperto: patrimonio dell'umanità secondo l'Unesco, scenario ideale di straordinari film kolossal, dove lo splendore dei luoghi è ma­nutenuto ad uso e consumo di ricchi turisti desiderosi di vi­vere una straordinaria esperienza. Nel passato.
Ma il sogno si trasforma presto in un incubo. I colori mu­tano e con essi le immagini, i suoni, i protagonisti. Petra - la meraviglia del Medio Oriente - diventa la metafora di una so­cietà involuta fino alla desertificazione, la proiezione di una clamorosa sconfitta nella storia dello sviluppo occidentale.
E se la Petra di oggi fosse il Mezzogiorno di domani? Le fertili terre si desertificano, le industrie svaniscono, la giostra della vita rallenta il ritmo fin quasi a fermarsi. Fuggono uo­mini, capitali e speranze. Si materializza l'eutanasia di un in­tero popolo che decide di abbandonare il futuro e la speranza dello sviluppo, che sceglie di uscire dalla storia e dalla sua rin­corsa alle «magnifiche sorti e progressive» per ripiegare sul pas­sato. Convinto che il meglio sia decisamente alle spalle.
Cincubo di Petra per il Mezzogiorno d'Italia è pitl vicino e più realistico di quello che si possa credere, e non certo per la desertifìcazione che sta colpendo i Paesi della sponda Nord deI Mediterraneo. Nell' era globale spari re dalle cartine dello sviluppo vuoi dire attirare su di sé le terribili conseguenze del­l~ffètto-irnitazione: se dal Sud sono costretti a fuggire gli stes­si imprenditori meridionali - portando sui propri volti il ca­rico di storie-simbolo, che il villaggio globale rende conosci­bili ovunque - perché mai un imprenditore americano, cine­se o saudita dovrebbe compiere una scelta così rischiosa per i propri capitali? Più facile considerare il Sud una meravigliosA «Disneyland della terza età», calda e accogliente. Da visitare e abbandonare qualche giorno dopo, con lo stesso entusiasmo. La nuova Petra è servita.

LA CENERENTOLA D’EUROPA E LE ALTRE AREE (EX) DEPRESSE: I SEGRETI DELL’IRLANDA
«PARLO IN NAPULETANO». Pausa teatrale, platea con il fiato sospeso. «Vulesse parlà napulitano, nun pe là casino ma pe là capì a tutta l'Europa e prublemi d'o Suti». Il r6 settembre 2009 1'onorevole Enzo Rivellini, primo degli eletti in Campania (dopo Berlusconi) alle ultime elezioni europee, anima la sedu­ta del Parlamento europeo stabilendo un primato da guinness: è il primo eurodeputato che riesce a pronunciare un interven­to ufficiale nel dialetto natìo, per giunta nell' ambito della so­lenne dichiarazione di voto per la rielezione di Josè Manuel Barroso alla Presidenza della Commissione. Nella fredda ri­tualità di Strasburgo, Revellini osa fare ciò che la Lega Nord aveva soltanto immaginato. Prima di lui ci avevano provato baschi e catalani, ma erano stati immediatamente bloccati.
«Ausann nà metajòra putesse dicere che a nostra protesta è comme quanno schizzichea: evitammo carriva 'o pata pata e llacqua» (usando una metafora potrei dire che la nostra pro­testa è oggi come schizzi di pioggerella: evitiamo che diventi un uragano)'. Dev' essere stato difficile per i colleghi dell' eu­rodeputato campano comprendere la lingua, ma molto meno le ragioni di questa singolare perfòmance «etnico-teatrale». Dal r995 al 2005 le Regioni dell'Italia meridionale sono sprofon­date in coda alla classifica europea della ricchezza. Oggi sono collocate tutte tra il r65° e il 200° posto, su un totale di 208 Regioni europee. Il Sud è diventato cosÌ - nel Duemila - la Cenerentola d'Europa.
La mancata convergenza del Sud viene spiegata solitamen­te con chiavi di lettura politico-economiche: il fallimento del­le politiche top down che hanno imposto nel Mezzogiorno modelli di sviluppo industriale di successo al Nord ma diffi­cilmente replicabili al Sud, l'incapacità progettuale delle clas­si dirigenti meridionali che ha impedito di far fruttare al me­glio i fondi europei, il peso eccessivo dell'intermediazione po­litico-burocratica e cosÌ via. Ma forse c'è una spiegazione più profonda e più inquietante, che affonda le radici nei valori do­minanti delle società meridionali.
Lo si può intuire dalla comparazione tra Italia e Spagna.
A grandi linee, si può dire che la parte Sud-Ovest della Spa­gna (l'Andalusia, le due Castiglie, l'Estremadura, la Galizia c la Murcia) corrisponde all'Italia del Sud e alle Isole, mentre il loro Nord-Est assomiglia al nostro Centro-Nord. Il P1L pro capite del Sud italiano ammontava a161% di quello del Noni nel 1960 c, ancora ncl2006, il rapporto è fermo al 67%. 111 Spagna, invece, il P1L pro capite del Sud-Ovest ammontava al 55% di quello del Nord-Est nel 1960, ma è balzato a175% Il,,1 2006. Perché le politiche per la convergenza hanno avuto l'\1 ti cosÌ diversi in Spagna c in Italia?
Una risposta possibile - ancora poco esplorata dagli analisti - è nella diversa dotazione di «capitale sociale»: i livelli di senso civico, di condivisione di valori, di identità collettiva percepita sono molto più alti nel Sud-Ovest della Spagna, che nel Sud dell'Italia. Può sembrare bizzarro citare i risultati deludenti di quesiti come «quanto ti fidi del prossimo?» per spiegare la povertà economica di un'area geografica. Ma il nesso tra lo sviluppo economico e l'esistenza di un sentimento collettivo all'interno di una comunità è ormai scientificamente dimostrato. A tal punto da spingere il Governatore .della Banca d'Italia ad affermare che «alla radice dei problemi del Sud stanno la carenza di fiducia tra cittadini e tra cittadino istituzioni, la scarsa attenzione prestata al rispetto delle nor­me, l'insufficiente controllo esercitato dagli elettori nei con­fronti degli amministratori eletti, il debole spirito di cooperazione» .
In questa logica sono molto interessanti i dati sulle dona­zioni di sangue, attività altruistica e volontaria per eccellenza: il rapporto tra donazioni per abitante nel Sud-Ovest della Spagna e nel Nord-Est iberico è di molto maggiore - intorno al 90% nel 2005 - di quello che si registra in Italia tra Sud e Nord, intorno al 60% nel 2005. Per inciso, anche le indagi­ni sul «grado di fiducia verso il prossimo» danno gli stessi ri­sultati. Il Sud-Ovest e il Nord- Est della Spagna sono sempre stati più omogenei in termini di capitale sociale, rispetto al Sud e al Nord dell'Italia. Lì, non a caso, strategie e investi­menti per ridurre il gap hanno funzionato: i fattori classici di convergenza- come gli investimenti in istruzione e infrastrut­ture - hanno prodotto effetti di sviluppo3. Qui, sembra tutto inutile4.
Ma bisogna volgere gli occhi al freddo e operoso Nord per trovare il caso di rinascita più eclatante in Europa (e nell'inte­ro mondo avanzato). I..:Irlanda ha realizzato negli ultimi vent'anni un vero e proprio miracolo economico e sociale: la sua travolgente «rimonta» è partita nel 1989, nel 1997 il suo PIL pro capite aveva già superato la media europea e nel 1999 la sua economia è cresciuta addirittura del 10,8 %, un ritmo di sviluppo da potenza emergente dell'Estremo Oriente, per poi continuare a espandersi negli anni Duemila a tassi note­volmente superiori alla media europea.
Quali segreti si nascondono dietro questo straordinario successo? Un mercato del lavoro molto flessibile, investimen­ti pubblici sulla formazione scientifica dei giovani e sul long li­]è dei lavoratori che hanno creato un' offerta di capitale uma­no di grande qualità, un'Agenzia per l'attrazione degli investi­menti (come abbiamo già visto) particolarmente efficiente.
Questi fattori sono stati e sono oggi molto importanti per [o sviluppo dell'Irlanda, ma da soli non potrebbero spiegare ['incredibile cavalcata della «tigre Celtica». Il vero segreto è un altro: l'Irlanda ha potuto erogare [e risorse messe a disposizio­ne dall'Unione Europea sotto forma di incentivi fiscali, e non f1nanziari. In altri termini: ha utilizzato i soldi europei per ab­battere la tassazione sulle imprese, piuttosto che disperderli in incentivi a pioggia. A parità di risorse investite, infatti, l'espe­rienza internazionale ha ampiamente dimostrato che gli incen­tivi fìscali sono molto più efficienti ed effìcaci di quelli finan­ziari nel creare «convenienze» d'investimento. Oltre all'Irlan­da, Stati come Portogallo, Austria, Grecia, Spagna, Regno Unito e Regioni come Catalogna e Baleari in Spagna, Lisbona e Algarve in Portogallo, Galles e Scozia nel Regno Unito han­no dato largo uso nelle loro politiche di sviluppo degli incen­tivi fìscali, ottenendo performances importanti di crescita. Dal­l'altra parte, i Paesi e le Regioni che hanno fatto leva su incen­tivi finanziari - come l'Italia e il Mezzogiorno, sia nella fase dell'intervento straordinario che nell' era dell'intervento ordi­nario - hanno fatto registrare risultati molto deludenti.
Le imprese manifatturiere in Irlanda hanno un carico fi­scale pari solo al IO % e l'aliquota media sulle società è pari al 12,5%. I:effetto è stato da manuale (della competitività glo­bale): i tagli delle tasse hanno comportato l'aumento del get­tito fiscale, che è addirittura raddoppiato in dieci anni, grazie al boom di capitali stranieri e di nuove attività imprenditoria­li locali.
Nonostante le difficoltà di riproduzione di questo modello in aree depresse che facciano parte di Stati più ampi, come sarebbe  per il nostro Mezzogiorno, la strategia irlandese e il principale punto di riferimento in Europa per chi voglia rianimare territori ed economie «in coma».
L’unica fase in cui la strategia di crescita del Mezzogiorno ha avuto successo è quella che va dal 1960 al 1975: massicci investimenti di capitali - in gran parte pubblici - dal Centro-Nord al Sud del Paese, sotto forma di investimenti per infrastrutture e di investimenti diretti in attività produttive modernizzarono il Sud e vi crearono una base industriale. Oggi in assenza di capitali pubblici e privati disponibili in Italia, urge attrarre nel Mezzogiorno risorse dall' estero. L’incentivo fiscale è l'unica leva efficace per ottenere questo risultato. Il nuovo Sud deve ripartire da qui.

LIBERIAMO IL SUD. LA RIVOLUZIONE DEL CORAGGIO
DOPO DECENNI DI SPESA PUBBLICA fuori controllo, di in­sediamenti industriali calati dall' alto, di cattiva politica nazio­nale e di pessima amministrazione regionale e locale, di peri­colosa intermediazione, oggi si confrontano (più o meno si­lenziosamente) in Italia due visioni della «questione meridio­nale». Nel Paese dei fascisti e dei comunisti permanenti, po­tremmo dire che sono due veri e propri partiti.
Il primo è il partito della rassegnazione etnica». C'è chi è intimamente convinto, anche all'interno delle élite più modera­te del Paese - ma non PU() dirlo pubblicamente per non essere tacciato di razzismo leghista» - che i terroni non ce la faranno mai. Secondo questa nobile corrente di pensiero, i nati a sud del Tevere sono antropologicamente così diversi dai loro connazio­nali da risultare irrecuperabili: allo sviluppo, alla legalità, alla ci­viltà occidentale. Sul piano culturale non avrebbero mai abban­donato il Franza o Spagna purché se magna», avversi come sono al rischio imprenditoriale e alla voglia di lottare per costruirsi il Successo individuale, troppo adusi al chiagni e Jòtti» per aspira­re ad un sentimento collettivo. Sarebbero solo un popolo di fur­bi incapaci di rispettare le leggi, sempre pronti a succhiare soldi pubblici, desiderosi solo di condurre vite parassitarie all' ombra di un posto fisso statale, regionale o comunale, disposti senza al­t altra remora a spalleggiare la criminalità per convenienza o semplice pavidità. Questa visione modello Piovra dei poveri» non ispira soltanto improbabili sketch da villaggio turistico: è l'idea di fondo che del Mezzogiorno e dei suoi abitanti hanno matu­rato molti italiani e ancor più europei, sepolti sotto tonnellate di luoghi comuni e di retorica anti-meridionalista. Del resto, se Cristo si è fermato a Eboli un motivo ci sarà.
Ma questo è, soprattutto, il Sud più comodo da vedere per la politica: è il Sud che richiede meno investimenti - perché in fondo più soldi pubblici metti in quel calderone e più ne butti, quindi tanto vale investirli altrove - e meno coraggio politico. È il Sud da fiction in cui il tele-popolo può identifi­carsi senza il minimo sforzo intellettuale, una specie di pizza da asporto servita comodamente a casa.
Il secondo è il partito fortemente minoritario della «spe­ranza dal basso»: chi non si rassegna a questo Sud da bar e da barzelletta, chi non crede che la storia dei popoli sia una mec­canica ripetizione di se stessa, chi crede che i terroni non sia­no soltanto merce da esportazione. È il partito di chi si è con­vinto - come me - che in fìn dei conti solo i meridionali pos­sano far rinascere il loro Mezzogiorno. Ma che se la spinta emotiva, l'ambizione del riscatto può nascere solo dentro chi è nato, è vissuto e vive da Lampedusa a Caserta, il terreno di gioco può e deve essere cambiato invece dalla politica nazio­nale con un' operazione top down: una terapia shock che liberi le energie, la creatività, la capacità di intraprendere del Mez­zogiorno e dei suoi abitanti. Cancellando d'un colpo qualsia­si alibi al sottosviluppo, alla rendita pubblica, al compromes­so eternamente al ribasso.
I numeri della finanza pubblica assegnano la vittoria - in­controvertibile - al primo partito. I.:impegno assunto negli ul­timi dieci anni, sia dai governi di centro destra che da quelli di centrosinistra, di destinare al Mezzogiorno il 45% della spesa pubblica in conto capitale non è mai stato rispettato. Anzi, ci si è progressivamente allontanati dall' obiettivo: dal 40 >4 % del 2001 si è passati al 35,3% del 200i. Costringendo l'ultimo
governo Pro di ad abbassare le stime del DPEF dal 45% al 41,4 % (per il biennio 201O-2011) e spingendo il governo Ber­lusconi addirittura a rinunciare all'indicazione di qualsiasi obiettivo nel DPEF del giugno 2008.
Si è materializzato così un Sud low cost: poco costoso - ri­spetto al passato e alle dichiarazioni d'intenti - poco visibile, economicamente marginale, politicamente inconsistente.
Cosa è successo in realtà? Dal 2000, ogni anno, sono sta­ti destinati in media 21 miliardi di euro alla riduzione del di­vario tra Sud e resto del Paese. Ma nessuno dei target di recu­pero che erano stati fissati nel 2000 è stato raggiunto: la spe­sa dei fondi europei e del FAS nel Mezzogiorno è stata un'oc­casione sprecata. La sentenza non è soltanto convinzione pres­soché unanime tra opinion makers ed economisti: è stata ad­dirittura «certifìcata» - nero su bianco - dal Rapporto 2009 sulle Politiche di sviluppo per le aree sottoutilizzate, elaborato dal Ministero dello Sviluppo Economico.
Inoltre, negli anni Duemila i copiosi fondi assegnati dal­l'Unione Europea al Mezzogiorno sono stati utilizzati non in aggiunta alla spesa pubblica italiana - come prevede il detta­to normativo europeo - ma in sostituzione di essa. Fino al grande paradosso verifìcatosi negli ultimi due anni: a causa della grande crisi, il FONDO AREE SOTTOUTILIZZATE ha cambiato radicalmente funzione ed è diventato una sorta di «Bancomat» a disposizione del Ministero dell'Economia per fàr fronte a interventi d'emergenza. In tutti i settori e in tutte le aree del Paese, salvo che nell'unica che avrebbe dovuto be­neficiarne.
Usciti dalla crisi, cosa ne sarà dei 100 miliardi di euro che tra fondi europei (Fondo Sociale Europeo, Fondo Europeo di Sviluppo), FAS e risorse ordinarie dello Stato italiano sono a disposizione del Mezzogiorno nei prossimi 5 anni? E cosa ac­cadrà al Sud a partire dal l° gennaio 2014, quando si sarà pro­sciugato l'ultimo grande fiume di denaro europeo destinato al Mezzogiorno (previsto dal budget comunitario 2007-2013)?
È ancora più sorprendente e preoccupante oggi la situa­zione degli investimenti a Sud, se si considerano le grandi aziende a capitale (interamente o prevalentemente) pubblico: giganti dell'economia che - paradossalmente - usano soldi pubblici, ma adottano criteri privatisti ci di mercato. Ovvero investono laddove si attendono ritorni più alti, abbandonan­do il Mezzogiorno. Il caso più clamoroso è quello delle Ferro­vie dello Stato: nel periodo 1996-1998 le FS destinavano al Meridione il 300/0 circa dei loro investimenti totali, nel 2005 la «quota Sud» si era dimezzata (raggiungendo solo il 14<)1»). Una selezione cosÌ brutale - a danno delle aree depresse - de­gli investimenti per le grandi infrastrutture ferroviarie è pro­babilmente un caso unico in Europa.
Del resto, chiunque può toccare con mano gli effetti di queste scelte. L’Alta Velocità, annunciata dalle Ferrovie dello Stato con squilli di tromba e rulli di tamburi come «la linea che unisce il Paese», in realtà lo divide: tranne che per la Roma­Napoli-Salerno, i Frecciarossa corrono veloci soltanto sulle di­rettrici del Centro- Nord ...
Il Mezzogiorno, in sostanza, è come il protagonista di uno spaventoso thriller noir, in cui tutti continuano a considerar­lo il carnefice» del Nord - perché colpevole di assorbire gran­di quantità di soldi pubblici, sottratti alle operose comunità nordiche che li hanno prodotti e che potrebbero usarli molto meglio - mentre alla fine della storia si scopre, a sorpresa, che è stato la «vittima» di scelte del governo nazionale in senso esattamente contrano.
Questo solo per amor di verità (contabile). Sono assolu­tamente convinto, però, che sia inutile recriminare su scelte sfavorevoli di politica economica e sulla capacità «lobbistica»
della Lega Nord che si specchia nell'inconsistenza degli attori politici che difendono gli interessi del Sud. L’antica «tattica del lamento», da sola, non può pagare.
Anzitutto, perché sono possibili letture diverse degli stessi numeri relativi alla spesa pubblica per il Mezzogiorno. Basta scavare nelle più accurate analisi di settore, adottare parametri diversi e considerare gli anni precedenti alla crisi. Se prendia­mo a riferimento le quote di public capital stock (compresi gli investimenti effettuati dalle grandi aziende a controllo pubbli­co) per occupato, investite Regione per Regione, scopriamo disparità amplissime nella distribuzione delle risorse - a favo­re del Mezzogiorno - negli anni 1996-2003. In questo perio­do a fronte di una media nazionale di 100, al Piemonte sono state destinate risorse pubbliche pari a 79, alla Lombardia 59 e al Veneto 56, contro risorse pari a 140 per la Sicilia, 150 per la Campania, 169 per la Calabria, addirittura 202 per la Sarde­gna e 28O per la Basilicata. Eppure il livello di PIL pro capite del Sud e delle Isole è rimasto sconsolatamente compreso i n una i-ascia tra 62 e 72 -fatta 100 la media nazionale - mentre il Lombardo-Veneto sta tra 116 e 1313.
Ma il vero argomento che spinge a rifìutare la litania del­le lagnanze e dei tradimenti del Sud è un altro: in un conte­sto non competitivo dal punto di vista del ritorno degli inve­stimenti e debole sul piano del capitale sociale, diventa meno rilevante la quantità di capitali pubblici investiti. Perché la scintilla dello sviluppo rischia di non scoccare comunque, a prescindere dalla percentuale di PIL investito. A pesare in mo­do decisivo è probabilmente la carenza di «capitale sociale», di cui si è detto prima, o di «beni relazionali» come li definisce nel suo pamphlet sul Meridione il ministro Brunetta. Da que­sto punto di vista, la questione meridionale è perfettamente
spiegabile dalla teoria delle finestre rotte di Wilson e Kelling: se la finestra dell' abitazione di una qualsiasi città è rotta e non viene riparata, ogni passante si convincerà gradualmente che nessuno se ne preoccupa e che nessuno ha la responsabilità di provvedere alla riparazione. Diventa cosÌ più probabile che a questa finestra rotta se ne aggiungano altre, diffondendo una sensazione di incuria, abbandono, anarchia che avrà conse­guenze negative su tutta la città4.
E allora la via da seguire è tutt'altra: concentrare l'atten­zione non sulle risorse pubbliche, ma su quelle private. Se il Mezzogiorno riuscirà a rinascere, dipenderà in modo decisivo dalla capacità di attrarre capitali privati, di promuovere im­prenditorialità e sviluppo economico «di mercato» e, al tem­po stesso, dalla nascita di un circuito sociale virtuoso. Non di­penderà certo dall' esito di qualche battaglia politica (di retro­guardia) per strappare al governo un miliardo di euro in più.
Bisogna, anzi, dare per scontato che - se anche il governo adottasse da domani la strategia più «meridionalista» possibi­le (ed è una mera ipotesi di scuola ... ) - il gap di infrastruttu­re, di qualità dei servizi pubblici, di capitale sociale tra Sud e resto d'Italia è oggi cosÌ prof<mdo, che non potrebbe mai es­sere colmato nel giro di una o due legislature. L'ambito d'a­zione privilegiato per il rilancio del Sud è quindi il privato, non il pubblico.
Accanto alla «tattica del lamento», sono convinto che sia inutile e pericolosa anche la «strategia della normalizzazione»: l'idea illuministica - sostenuta autorevolmente da numerosi economisti e dal Governatore della Banca d'Italia Mario Dra­ghi - secondo cui «una effìcace azione di promozione dello sviluppo territoriale deve poter poggiare su politiche generali, nazionali, rivolte a tutto il Paese, i cui effetti regionali siano coerenti con essa. In altri termini, una politica di sviluppo ter­ritoriale non può che essere parte della politica economica generale: molti dei problemi del Mezzogiorno si presentano in­fatti come forma acuta di patologie strutturali presenti nella intera economia italiana»5. Una visione molto simile è soste­nuta da un economista di valore come Gianfranco Viesti, se­condo cui «per il Mezzogiorno non c'è da cambiare strategia, non bisogna ripartire da zero: negli ultimi anni sono stati ot­tenuti risultati parziali. C'è da attuare più compiutamente quella strategia, con maggiore qualità, velocità, intensità.
È la tesi dell'abolizione del Sud come categoria «straordi­naria» del pensiero e dell'azione, perché i suoi problemi sareb­bero soltanto una declinazione più grave di quelli comuni al­l'Italia intera. Posizione affascinante intellettualmente e inno­vativa nell'ambito della riflessione meridionalista. Ma al tem­po stesso terribilmente contraddittoria rispetto all'inversione del trend economico nel rapporto Sud- Nord, che ha portato il Mezzogiorno da vagone di testa della (bassa) crescita italia­na nella seconda metà degli anni Novanta a convoglio di co­da negli anni Duemila, rispetto all'andamento sempre pil lne­gativo al Sud dei fattori potenziali di sviluppo - dalla qualità dell'istruzione e della ricerca all'efficienza delle Pubbliche Amministrazioni - nonché rispetto al «clima sociale» che do­mina il Mezzogiorno, terribilmente intriso di sfiducia, rasse­gnazione, voglia d'abbandono.
Si tratta, inoltre, di una tesi «pericolosa» e strumentaliz­zabile sul piano politico: perché - al di là delle nobilissime in­tenzioni di chi la sostiene - rischia di fornire un fantastico ali­bi a chi ritiene che non sia conveniente investire a Sud e sul Sud. Se infatti per risolvere i problemi del Sud è necessario prima affrontare quelli del sistema- Paese, attendendo che le soluzioni nazionali dispieghino i loro effetti sul Mezzogiorno, h «questione meridionale» diventa un problema «di secondo livello», scivolando inesorabilmente indietro nell' agenda po­litica e nelle scelte pubbliche d'investimento. È esattamente ciò che è successo negli ultimi dieci anni.
Occorre, dunque, liberarsi al più presto di quest'idea del Mezzogiorno da «normalizzare» alla stregua dell'Italia intera. In questa chiave, un segnale di svolta è rappresentato dalla neonata Banca del Mezzogiorno. Fortemente voluta dal Mi­nistro Tremonti, è stata criticata da molti economisti sul pia­no «ideologico» più che sostanziale: si muove nella stessa lo­gica che è stata alla base di sessant'anni di insuccesso delle po­litiche per il Mezzogiorno - è stato detto impegnando ri­sorse pubbliche straordinarie che sostituiscono il mercato e i suoi operatori. In realtà, la Banca per il Mezzogiorno rappre­senta teoricamente uno strumento utile per il rilancio dell' e­conomia meridionale, perché nasce proprio dall' oggettiva constatazione del «fallimento» del mercato. Tra il 1990 e il 200 il numero di banche presenti nel Mezzogiorno si è ri­dotto del 46%, contro una diminuzione del 20% nel Cen­tro- Nord, mentre il numero di banche meridionali indipen­denti è letteralmente crollato da 100 del 1990 a 16 del 2004 e, nello stesso periodo, le banche di credito cooperativo si so­no dimezzate (da 213 a Il1). CosÌ come i rapporti della Ban­ca d'Italia sull'andamento del credito nelle Regioni italiane confermano che - stando ai dati disponibili, relativi al secon­do trimestre 2009 - il costo del credito al Sud è significativa­mente più alto che nel Centro-Nord (TAEG sulle nuove ope­razioni a medio e lungo termine: 3,6% al Centro- Nord con­tro il 43% al Sud).
Ma se la nuova Banca rimarrà un'iniziativa isolata, ri­schierà di diventare come l'aspirina somministrata a un mala­to terminale. Perché solo la liberazione delle energie private potrà risvegliare il Sud dal suo coma profondo, come ha scrit­to un autorevole esponente della stessa maggioranza di gover­no, il Vice Presidente dei senatori del PDL Caetano Quaglia­riello:

Ancorpiù che in passato, bisogna liberarsi da un equivoco di fondo: che per superare il ritardo storico del Sud sia necessario compensa­re l'insufficienza dei capitali privati aumentando le risorse gestite dallo Stato e dagli apparati pubblici per la realizzazione di investi­menti produttivi. Quest' approccio dirigista e assistenziale è infatti :d tempo stesso inattuale, ineffìcace e dannoso. Inattuale perché troppo costoso e dunque incompatibile con gli odierni vincoli della finanza pubblica. Ineffìcace perché basato sul presupposto di una pretesa superiorità dello Stato rispetto al mercato nella destinazione delle risorse. Dannoso perché crea dipendenza e dirige le capacità imprenditoriali alla ricerca del sostegno pubblico, e quindi di rendite piuttosto che del giusto profitto di impresa che è fattore determinante dei processi di sviluppo ... Il vero nodo del differenziale di crescita del Mezzogiorno risiede nelle diverse condizioni di redditività che disincentivano gli investimenti produttivi: se non si interviene sulle cause di questo divario, qualsiasi politica di sostegno al Sud destinata al fallimento.
L’unica modalità possibile per affrontare la «questione meridionale» è di tipo emergenziale come dimostra l’andamento di tutti i parametri economici e sociali - altamente simbolico e "rivoluzionario»: solo una strategia di rottura può evita­re che prevalga definitivamente, dentro e fuori il Mezzogiorno, il mix sfiducia- rassegnazione.
E’ necessaria e urgente una rivoluzione del coraggio. Una massiccia iniezione di libertà economica: per ridurre il peso della politica nella società, ridimensionare fortemente l'area dell' asssistenza e dell’intermediazione pubblica, far esplodere il meglio delle molte energie nascoste del Mezzogiorno, attirare nel Sud nuove risorse private e nuovi protagonisti dell'economia.
Non c’è più alternativa. Chi crede davvero nella rinascita del Mezzogiorno, non può che puntare su una strategia che lo liberi dai suoi handicap e dalle sue paure: incentivando con scelte fìscali radicali l'arrivo di ampi flussi d'investimento dal resto dell'Italia e dall' estero, disboscando burocrazia e ineffi­cienze regionali e riportando al centro la regìa dei grandi in­vestimenti, facendo decollare il turismo di qualità, investen­do sulla qualità della formazione dei giovani meridionali e orientando li verso le competenze scientiche e tecnologiche, rendendo più flessibili i contratti e pitl produttivo il lavoro, dichiarando una guerra senza quartiere all'irresponsabilità de­gli amministratori locali.
Al Sud serve disperatamente una «scossa». Ecco sei propo­ste shock per realizzarla.

Zero incentivi, zero tasse per le imprese.
Il Mezzogiorno «No TIX Arca»

Secondo un'elaborazione dello SVTMEZ, dal T95T al 2008 il totale della spesa pubblica «dedicata» al Mezzogiorno è stato pari a 342,5 miliardi: equivalenti, a valori attualizzati, a 6,12 miliardi di euro l'anno. Negli ultimi sessant'anni, dunque tra lo 0,5% e l’1% del PIL nazionale ogni anno è stato «investito» dallo Stato italiano per il Mezzogiorno. È una quantità di de­naro impressionante, che non ha pari nella storia europea (del rilancio di aree depresse). Ma il calcolo non è completo, per difetto: fuori da questa stima ci sono infatti le risorse allocate nel Mezzogiorno nel corso dei decenni dall'IRI dalle altre aziende pubbliche.
Una parte molto importante di queste risorse - ben II4,8 miliardi - sono state destinate a sussidi, agevolazioni, incen­tivi per le imprese private. Con l'enorme massa di denaro erogata alle imprese negli ultimi 50 anni, si sarebbero potuti costruire 23 Ponti di Messina!
Un altro dato-flash, utilissimo per illuminare la notte dei soldi pubblici assorbiti dal baratro del Meridione. Nella famigerata Prima Repubblica, e in particolare negli anni '80, ben 80 euro su 100 della spesa pubblica aggiuntiva (rispetto a quella ordinaria) per il Sud erano destinati allo sviluppo delle infrastrutture e soltanto 20 alle agevolazioni alle aziende. Ne­gli ultimi 15 anni, invece, il rapporto si è quasi invertito: tra il 1994 e il 1998 addirittura il 57% della spesa generale è sta­to destinato ai trasferimenti diretti alle imprese e solo il 43,5 % allo sviluppo delle infrastrutture, mentre tra il 1998 e il 2007 il 44,5% delle risorse sono state assorbite dagli incentivi.
Il 70% di tutte le erogazioni alle imprese del periodo ',000-20°7, inoltre, è stato effettuato in conto capitale. Ov­vero: a fondo perduto.
Nel 2008 sono stati assegnati alle imprese nel Mezzogiorno 5,5 miliardi di euro dal sistema degli incentivi nazionali. Le risorse sono in forte aumento rispetto al 2007, grazie al reddito d'imposta per le aree svantaggiate. A questo fiume di denaro si sommano circa 570 milioni di euro di agevolazioni
concesse alle aziende direttamente dalle Regioni. In totale, quindi, nei bilanci pubblici del 2008 sono stati destinati miliardi di euro a incentivi e agevolazioni a favore delle imprese operanti nel Sud. Il dato è approssimato per difetto perché manca all' appello - rispetto al totale delle agevolazioni dei finanziamenti concessi alle imprese - circa il 9%, che non è c1assificabile rispetto alle macroaree geografìche9. Se allarghiamo lo sguardo temporale, nel periodo 2003-2008 sono stati concessi alle imprese del Mezzogiorno circa 33 miliardi di euro tra finanziamenti e agevolazioni nazionali e regionali. Il picco è stato raggiunto nel 2006, anno in cui sono stati stanziati 9, o 74 miliardi di euro. Le erogazioni ef­fettive nel Mezzogiorno, invece, sono in costante diminuzio­ne e registrano nel 2008 il valore più basso degli ultimi 5 an­ni: soltanto 1,981 miliardi di euro su 6,071 concessi.
Rispetto agli esiti e ai destinatari di questo fiume gigan­tesco di denaro pubblico, ci si dovrebbe interrogare profon­damente su una serie di elementi «distorsivi» dell'azione de­gli incentivi. Primo elemento: gli interventi finalizzati (con­cessi rispetto a obiettivi ben definiti) rappresentano nel Mez­zogiorno soltanto il 16% delle agevolazioni e dei finanzia­menti, contro il 47% nel Centro-Nord. È molto indicativo sull'uso di queste risorse, dunque, il fatto che ben 1'84 % del­le agevolazioni concesse alle imprese del Sud riguardi inter­venti generalizzati, nei quali il legislatore rinuncia a definire la destinazione reale dei finanziamenti. Peraltro il fenomeno fa registrare un trend sempre più negativo: il 2008 nel Mez­zogiorno ha segnato il valore minimo degli interventi finaliz­zati, nonché la massima forbice tra risorse destinate a inter­venti fìnalizzati e quelle destinate a interventi generalizzati.
Rende ancor più fosco il quadro il secondo elemento di riflessione, coerente con il primo: scavando nel sistema degli incentivi si scopre una netta prevalenza degli strumenti di ti­po valutativo, rispetto a quelli automatici. I primi sono 1'83% del complesso degli strumenti di agevolazione (addi­rittura 1'89 % di quelli nazionali) e il contributo in conto ca­pitale è presente nel 59% di questi interventi. Forme di in­centivo che supportano l'imprenditore senza azzerarne il ri­schio - ovvero senza concedere soldi a fondo perduto - co­me il contributo in conto interessi e come gli interventi a ga­ranzia, rappresentano rispettivamente solo il 13% e il 6% del totale degli strumenti.
Riassumendo: il 33 % del totale degli incentivi (più o me­no 2 miliardi di euro, solo nel 2008) sono interventi valuta­tivi, generalizzati e basati sul contributo in conto capitale.
Ovvero: regali alle imprese, intermediati dalle Pubbliche Am­ministrazioni.
Si inseriscono perfettamente, in questo quadro a tinte as­sai fosche, i dati sul credito d'imposta per ricerca e sviluppo: lo strumento agevolativo di maggior «qualità», legato allo svolgi­mento effettivo in azienda di attività ad alto valore aggiunto. Di fronte ai 712 milioni di euro di agevolazioni concesse nel 2008, solo i16% delle domande sono pervenute da imprese del Mezzogiorno.
L’effetto peggiore della natura discrezionale degli incenti­vi al Sud è stato l'attribuzione agli apparati pubblici di un for­te «potere d'intervento» nella selezione dei progetti da soste­nere. Scelta doppiamente infelice: perché si scontra con la mancanza - in molte burocrazie regionali e locali – know-how  necessario per valutare le iniziative imprenditoriali e per­ché aumenta notevolmente il pericolo che si formino «aree grigie» di corruzione. Inoltre, l'aver affidato alla macchina bu­rocratica un ruolo di intermediazione nella gestione delle po­litiche per lo sviluppo del Mezzogiorno ha comportato un au­mento esponenziale dei costi di transazione a carico del siste­ma delle imprese, costrette a dedicare tempo e risorse notevo­li agli adempimenti richiesti dalle strutture pubbliche.
Per completare il quadro accusatorio di questo «processo agli incentivi», è necessario rilevare che le risorse disponibili delle imprese del Mezzogiorno possono arrivare da un'incredibile miriade di strumenti agevolativi: la Relazione sugli interventi di sostegno alle attività economiche e produttive del Ministero dello Sviluppo Economico ne ha classificati nel periodo 2003-2008 addirittura 1 3 07, di cui 9 1 nazionali e 1216 regionali. Nella Relazione sono gli stessi vertici del Ministero, con grande onestà intellettuale, ad ammetterlo: «sono numeri sufficienti ad evidenziare una ridondanza del sistema, fenomeni di sovrapposizione e duplicazione degli strumenti di sovrapposizione, una polverizzazione di interventi che si traduce in diseconomie nell'utilizzo delle risorse finanziarie».
Ma la vera questione di fondo riguarda l'utilità effettiva dello strumento. Gli incentivi alle imprese producono vero sviluppo?
In un esperimento dello psicologo comportamentista Skinner, alcuni topi chiusi in gabbia ricevono un pezzo di for­maggio ogni volta che abbassano una levetta. Vengono cosÌ «incentivati» a tirare verso il basso la leva, per ottenere il cibo quando hanno fame. Ma il punto di vista può essere capovol­to: in una vignetta pubblicata su una rivista americana di psi­cologia, un topo dice all' altro, indicando lo psicologo: «Lo ve­di quello? Sono riuscito a condizionarlo. Pensa che ogni vol­ta che abbasso questa levetta, quell'idiota mi butta un pezzo di formaggio!».
Gli incentivi alle imprese funzionano secondo la stessa lo­gica. La loro ragion d'essere sta nella possibilità di spingere l'imprenditore a compiere un investimento che non avrebbe fatto, o a brio in misura superiore rispetto al previsto. Ma gli imprenditori - absit iniuria verbis - sono come «topi intelli­genti»: possono rovesciare completamente la prospettiva, pro­prio come nella vignetta ironica sull' esperimento comporta­mentista.
Inoltre, in un normale test scientifico il ricercatore formu­la ipotesi chiare su ciò che vuole ottenere e successivamente annota scrupolosamente i risultati, per verificare nella pratica - secondo il metodo galileiano - la congruenza della sua teo­ria. Ma questo finora non è mai accaduto con gli incentivi: sono pressoché privi di valutazioni ufficiali sui risultati otte­nutI.
Da un'approfondita indagine condotta dall'Istituto Ta­gliacarne per conto del Ministero dell'Industria, emerge un ri­sultato «clamoroso»: nell'ambito del campione intervistato, l'apporto di incentivi e agevolazioni è stato indispensabile per realizzare l'investimento imprenditoriale soltanto nel 4 % dei casi! E nell'8o% dei casi l'imprenditore avrebbe effettuato l'investimento ugualmente, anche senza l'agevolazione.
La mia esperienza con imprenditori grandi, medi e picco­li porta alla stessa conclusione. Confermo: non ho mai cono­sciuto un imprenditore che abbia deciso una strategia, un in­vestimento, una nuova iniziativa imprenditoriale (in partico­lare industriale) in virtù dell'esistenza di un incentivo ...
La scarsissima efficacia degli incentivi è in realtà una sor­ta di «verità nascosta»: ben conosciuta da economisti, éLite del­la burocrazia ministeriale ed esperti di politiche industriali, ma fìnora taciuta per carità di Patria assistenziale. Con un'au­torevolissima eccezione. «Le nostre analisi mostrano che i sus­sidi alle imprese sono stati generalmente inefficaci - ha dichia­rato con spietato realismo il Governatore della Banca d'Italia Draghi - si incentivano spesso investimenti che sarebbero sta­ti effettuati comunque, si introducono distorsioni di varia na­tura penalizzando frequentemente imprenditori più capaci. Non è pertanto dai sussidi che può venire uno sviluppo dure­vole delle attività produttive»ro.
Le analisi interne (e riservate) del Ministero dello Sviluppo Economico evidenziano che i principali strumenti agevolativi messi in campo negli ultimi decenni nel Sud d'Italia-legge n. 188, legge n. 388, Patti Territoriali - avrebbero clamorosa­mente mancato il loro obiettivo. Alla prova dei fatti, nessuno di essi avrebbe prodotto un vero flusso aggiuntivo di investi­menti nel Mezzogiorno, ma soltanto «effetti collaterali».
In particolare, nessun effetto aggiuntivo sarebbe stato de­terminato dalla legge n. 388 a regime, ovvero dopo l'introdu­zione (a due anni dall' entrata in vigore) di criteri più restritti­vi per l'accesso all' agevolazione. Gli incentivi previsti dalla legge n. 488 avrebbero avuto soltanto effetti di sostituzione intertempolar (le imprese avrebbero semplicemente anticipato investimenti già previsti) e di spiazzamento (l'aumento ,l'gli investimenti delle imprese sussidiate sarebbe stato compensato, in negativo, da una corrispondente diminuzione de­gli investimenti delle imprese non sussidiate dello stesso set­tore). Infine studi comparativi tra Comuni nei quali sono sta­ti applicati i Patti Territoriali e altri Comuni con caratteristi­che socio-economiche simili non avrebbero evidenziato diffe­renze rilevanti tra gli uni e gli altri - rispetto al volume di investimenti attratto.
Nella stessa direzione si muovono i risultati dell'Indagine sulle imprese industriali realizzata dalla Banca d'Italia nel 200 5: gli investimenti addizionali nel Mezzogiorno decisi dagli im­prenditori che hanno beneficiato degli incentivi sarebbero mo­destissimi, pari al 6% dell' entità degli incentivi stessi.
L:inutilità degli incentivi è una posizione maturata anche ai vertici di Confindustria e del suo Comitato Mezzogiorno, tanto da indurre l'associazione degli industriali ad avanzare proposte pubbliche e strutturate di sostituzione degli incenti­vi con fiscalità di vantaggio.
«La zavorra del Mezzogiorno è costituita da un pachider­mico apparato pubblico capace di alimentare assistenzialismo e clientele e di mettere all' angolo la sana imprenditoria» ha chio­sato Ivan Lo Bello, Presidente di Confindustria Sicilia". Gli in­centivi sono uno degli strumenti preferiti dalla «cattiva politi­ca»: quella dello sguardo corto, del clientelismo come strategia per acquisire consenso, dell' erogazione di «favori» come fìne e mezzo del potere politico. È proprio questo tipo di politica che rende schiavo il Mezzogiorno, costringendolo alla perenne su­balternità economica e culturale.
Se vogliamo davvero liberarlo e lanciarlo nella corsa dello sviluppo globale, abbiamo una sola opzione possibile. Chiu­diamo 1'era degli incentivi, delle agevolazioni, dei trasferi­menti diretti alle imprese: sono inutili.
In cambio azzeriamo l'IRES, trasformando il Mezzogior­no in una grande «No Tax Area». Sarà un grande spot promozionale rivolto ai capitali che vagano nel mondo alla ricerca della migliore allocazione: chi investe nel Sud Italia, non pa­ga tasse sui propri utili d'impresa.
In termini finanziari, questa strategia avrebbe un costo pari a zero per le casse dello Stato. Il gettito IRES proveniente da tutte le regioni meridionali è pari a circa 4 miliardi di eu­ro 1'anno. E gli incentivi alle imprese del Sud quanto valgono? La media degli ultimi dieci anni si aggira esattamente intorno ai 4 miliardi di euro 1'anno.
Una misura così radicale dovrà essere ideata, proposta e applicata rum grano salis, sulla base di tre «clausole». La misu­ra sarà a tempo determinato: una finestra-esperimento di 5 anni, con rientro graduale nei parametri fiscali nazionali nei successivi 5 anni. Dovrà essere applicata soltanto agli investi­menti imprenditoriali, non a quelli finanziari: ne beneficeranno capitali e progetti nei settori dell'industria, dei servizi, dell'agricoltura. Sarà legata, infine, a requisiti che garantisca­no forti contenuti di innovazione tecnologica o comunque di alto valore aggiunto delle attività imprenditorialiI2
In questo modo si elimini l'ebbe il principale freno allo svi­luppo economico del Mezzogiorno, nonché il più potente fat­tore di «inquinamento» della società meridionale: il potere di intermediazione delle amministrazioni locali. Non sarebbero più i signori del voto locale e i satrapi delle tecnostrutture a scegliere il destinatario dell' aiuto, ma si lascerebbe finalmente campo libero al mercato, alla competizione, al merito. E il Mezzogiorno d'Italia potrebbe presentarsi al mondo come la più straordinaria opportunità di investimento del mondo avanzato, con convenienze «orientali» e garanzie di contesto “occidentali”.
La transformazione del Mezzogiorno in una “no Tax Area” è proposta radicale sul piano politico e non facile da realizzare in concreto. Sarebbe sostenuta convintamente dal mondo del­la rappresentanza imprenditoriale, in particolare dalle nuove élite liberali che si stanno formando a Sud: tra le prime propo­ste strutturate di questo tipo è particolarmente interessante quella presentata pubblicamente dai Giovani Imprenditori della Calabria, fondata sulla necessità di combattere ''1'anti­economicità" del fare impresa nel Sud attraverso l'applicazione del modello fiscale irlandese per le piccole e medie imprese".
La «No Tax Area», come è noto, presenta più d'un rischio di incompatibilità con le norme comunitarie in materia di aiuti di Stato. Il placet di Bruxelles dovrebbe essere perseguito e conquistato per via squisitamente politica, al prezzo di una battaglia dura e dall' esito incerto. Ma sulla questione i gover­ni italiani - sia di centrosinistra che di centro destra - sono sempre apparsi timidi e impacciati, quasi rinunciatari: non ri­sulta sia stata mai condotta, finora, un'azione politica decisa in sede comunitaria per ottenere una fiscalità di vantaggio a favore del Mezzogiorno.
Eppure non mancherebbero oggi gli argomenti tecnici né le armi politiche, per chiedere e ottenere che l'Europa ricono­sca l'«eccezione italiana». Il Mezzogiorno è ormai così distan­te sul piano economico e sociale dal Centro-Nord, da poter essere considerato un Paese a sé stante (sarebbe l'ottavo del­l'Unione Europea per ricchezza prodotta).
Il Sud è la grande questione irrisolta dello sviluppo italia­no ed europeo: oggi è la regione arretrata più estesa e più po­polosa dell'area euro. In nessun altro Paese UE esiste una di­sparità così profonda di condizioni economiche e sociali, co­me quella che separa il Sud dal resto d'Italia. Così come in
nessun altro Paese europeo la strategia della «convergenza» è fallita a tal punto da produrre una maggiore «divergenza».
I documenti interni della Commissione Europea, infatti, ascrivono proprio alla condizione del Sud d'Italia il fallimen­to complessivo delle politiche comunitarie di coesione. Da questa sconfitta politica, nasce in realtà per il Bel Paese una grande leva negoziale: se non si avvia rapidamente a soluzio­ne il problema Mezzogiorno e non si raggiungono risultati si­gnificativi entro il 2013, rischia di saltare l'intero impianto eu­ropeo delle politiche di coesione stesse. Ma per risolvere rapi­damente la questione - e poter staccare al Sud la spina dei fon­di comunitari dal I gennaio 2014, senza causare contraccolpi drammatici - non c'è via più effìcace che la creazione di una «No Tax Area» a tempo determinato.
Per l'Italia è la «madre di tutte le battaglie». Deve farsene carico anzitutto il Popolo delle Libertà, che deve proprio al so­stegno degli elettori del Mezzogiorno la sua straripante vittoria nelle politiche 2008. È necessario un impegno straordinario del Premier Berlusconi e del Ministro Tremonti in sede inter­governativa e del PDL - come partito leader tra i Paesi avanza­ti - all'interno del Partito Popolare Europeo. Ma non può man­care neanche quell'unità d'intenti formale e sostanziale tra mag­gioranza e opposizione, necessaria per affrontare le grandi que­stioni di «interesse nazionale».
È giunta l'ora di incamminarsi con decisione per questo stretto e impervio sentiero. Il più confidente è forse il Vice Ministro allo Sviluppo Economico Adolfo Urso, secondo il quale «stavolta ci sono le condizioni per ottenere la fiscalità di vantaggio per il Sud. La recessione ha indotto l'Unione Europa a riconsiderare certe visioni tradizionali».
Tra le macerie della sanguinosa guerra frontale tra maggioranza e opposizione che divide l'Italia politica, s'intravede qualche timido segnale di convergenza sulla questione meridionale. «Senza una forte convenienza per gli investimenti privati, sen­za la capacità di attrarre investimenti dal Nord e dal resto del mondo, il Sud non avrà un processo auto alimentato di svilup­po. È su questo fronte decisivo che si deve concentrare la scel­ta politica europea e nazionale: creare una fiscalità di vantaggio che faccia da leva allo sviluppo» scrive il ministro Brunetta nel suo pamphletdedicato al SudI,. È una posizione molto vicina a quella contenuta nel pacchetto anti-crisi a favore del Sud pre­sentato da Massimo D'Alema: «potremmo aprire con l'Europa una discussione sulla possibilità di applicare politiche fiscali dif­ferenziate, a regime, nel Mezzogiorno. Anche perché siamo in una fase in cui le istituzioni comunitarie, di fronte alla crisi ten­gono ad adottare maggiore flessibilità rispetto alle rigidità del passato. La Corte di Giustizia europea ha ridotto la valenza as­soluta della posizione della Commissione, nel senso che con sentenze relative alle Azzurre nel 2006 e ai Paesi Baschi nel 2008 non ha escluso in maniera assoluta la possibilità di ricor­rere a degli interventi di fìscalità di vantaggio. Queste condizio­ni possono consentire di riaprire il confronto.
È convinto della necessità di una battaglia fiscale a Bruxel­les anche il Vice Segretario del PD Enrico Letta, grande esperto di temi europei (ed ex Ministro alle Politiche Comunitarie): «per lo sviluppo del Mezzogiorno abbiamo bisogno di scelte in­novative, la principale delle quali è l'introduzione di una fisca­lità di vantaggio, che deve essere il tema principale da inserire con forza nel negoziato con Bruxelles». «Una No Tax Area per nuovi investimenti nel Sud» ha invocato parimenti il nuovo lea­der democratico Pierluigi Bersani, proponendo l'introduzione
«per dieci anni di un credito d'imposta stabile e automatico: via le tasse su tutti gli investimenti per l' occupazione».
Qualcuno sostiene che la chiave magica per l'accesso alla «No Tax Area» possa essere il decollo del federalismo fiscale in Italia, attraverso l'introduzione di una architettura dell'auto­nomia fiscale delle Regioni molto sbilanciata verso il decen­tramento, che faccia nascere - in ogni Regione - uno Stato fi­scale a sé stante. È una tesi politicamente pericolosa e tecni­camente improbabile: per dimostrare a Bruxelles che il Sud è un'area-Stato, infatti, dovremmo spaccare il Paese in venti parti con meccanismi di finanziamento delle Regioni talmen­te autonomi da far impallidire i veri Stati fèderali!
Le strade da imboccare per ottenere la «No Tax Area» a Mez­zogiorno sono ben altre. La sentenza della Corte di Giustizia Europea in materia di fiscalità territoriale agevolata nelle Azzor­re può essere un precedente utile, perché abbandona l'imposta­zio ne secondo cui ogni misura riguardante solo una parte del territorio nazionale sarebbe «vietata», indipendentemente dal­l'ente che la adotta e dalla sua autonomia rispetto allo Stato cen­trale. Un altro segnale d'apertura giunge dall' autorizzazione concessa nel 2009 dall'VE all'Italia per la nascita di 22 zone franche urbane - 18 delle quali nel Mezzogiorno - che nel dise­gno originario sono caratterizzate da un' esenzione fiscale e con­tributiva totale (Ires, Irap, lei e previdenza) fino a 14 anni per le imprese fino a 50 addetti, in aree selezionate sulla base di una serie di indicatori di disagio socio-economico. In Italia sono operative dal l° gennaio 2010, ma in realtà si tratta di una so­luzione già sperimentata con successo in Francia (e già autoriz­ata da Bruxelles) sin dal 1997.
Ministero dello Sviluppo Economico, che aggiunge: «l'auto­rizzazione della Commissione Europea è stata ottenuta in tempi molto rapidi (complessivamente, appena 4 mesi)>>. Che la vera battaglia abbia inizio.

La grande chance del Turismo:
dagli sprechi delle Regioni alla burocrazia zero
L’ltalia è il Paese con il maggior numero di siti UNESCO al mon­do: sono ben 43 (su 878) le «meraviglie» dell'umanità localizza­te in casa nostra. Il 33% di questo immenso patrimonio cultu­rale è situato nel Mezzogiorno, dove si sposa magnificamente a condizioni climatiche favorevoli per la gran parte dell' anno. La Campania e la Sicilia (dopo la Toscana) sono le Regioni del pia­neta che possono vantare il maggior numero di siti UNESCO.
Eppure il turismo è l'ennesima - forse la più clamorosa ­occasione di sviluppo perduta dal Mezzogiorno. Il movimento turistico al Sud è meno di un quarto di quello dell'Italia, che a sua volta (dopo continui «sorpassi» in classifica) si colloca sol­tanto al quinto posto nella classifica delle mete turistiche mon­diali dopo Francia, Spagna, Stati Uniti e Cina. Il flusso turisti­co nel nostro Paese è fortemente sbilanciato sulla rotta Vene­zia- Firenze- Roma e lascia ai margini il Meridione, che pure avrebbe potenzialmente l'offerta turistica più completa.
Ma per avere piena consapevolezza del «peccato mortale» d'un tale patrimonio turistico sprecato dal Mezzogiorno, è mol­to interessante confrontare i flussi turistici dei diversi «Mezzo­giorni d'Europa»: nell' era globale la competizione si gioca diret­tamente tra territori simili, con «offerte» in qualche modo para­gonabili. Anche se, tecnicamente, la ricchezza e la varietà di as­set turistici del nostro Sud non hanno paragoni nel mondo.
I risultati di quest'innovativa analisi di benchmark fanno rabbrividire. Nel 2007 il Mezzogiorno ha registrato soltanto 17.985.496 arrivi turistici: meno della metà rispetto alla Francia meridionale, che ha accolto nello stesso anno 41.017417 turisti, e quasi un decimo in confronto alla Spagna mediterra­nea, dove sono approdati la bellezza di 114.2I1.529 turisti!
Sul piano quantitativo, per il nostro Mezzogiorno è una de­bacle cosÌ clamorosa che sarebbe impossibile da comprendere per un alieno capitato per caso nel cuore del Mediterraneo. Non cambia in alcun modo il risultato se si scompongono dal macro-dato gli arrivi di turisti stranieri: nel 2007 in 5 ·329· 542 hanno scelto dall' estero di visitare il Sud Italia, contro i 12.517.417 turisti stranieri accolti dalla Francia meridionale e i 40.364.015 giunti nella Spagna mediterranea'9.
Ma chi doveva promuovere lo sviluppo del turismo al Sud (e l'ha fatto con risultati cosÌ brillanti)?
Nel 2001 la riforma del Titolo v della Costituzione ha sancito la competenza esclusiva in materia di turismo delle Regioni, attribuendo loro una responsabilità decisiva per il decollo (mancato) dell'economia meridionale. È più che op­portuno, allora, approfondire l'indagine sulle risorse messe in campo dalle Regioni e sui risultati ottenuti. Non è un'indagi­ne facile, a causa dell'estrema difficoltà di reperire dati aggior­nati e omogenei. Ma i suoi risultati sono assolutamente ine­diti e così sorprendenti, da mettere seriamente in dubbio la scelta compiuta dal legislatore costituente nel 2001.
Dall' analisi dei bilanci regionali (basata sui bilanci preven­tivi del 2006) si scopre che le Regioni del Sud sono molto at­I ive nella spesa per turismo, molto piti delle altre. Nel 2006 le Regioni meridionali hanno «investito» 629,5 milioni di eu­ro in spese dirette per il turismo, battendo nettamente le ben Ilitl ricche - e ben più frequentate dai turisti - Regioni del Nord (478,7 milioni di euro) e del Centro (197,6 milioni di euro). Nell'ultimo decennio, per esempio, la Puglia ha mol­tiplicato le spese dirette per turismo del 1131% (garantendosi un imbattibile primato nei trend di spesa delle Regioni italia­ne)!. E nell'arco temporale 2001-2006 ben tre Regioni meri­dionali Sicilia, Calabria e Sardegna - si sono piazzate salda­mente nei primi cinque posti della classifica regionale dedica­ta alle spese dirette per turismo.
Ma i soldi investiti dalle Regioni a favore del turismo non finiscono qui. Spulciando attentamente i bilanci regionali, emergono altre risorse dedicate: le cosiddette spese per «attrat­tori turistici» ovvero musei, siti archeologici, manifestazioni culturali, fìere e mercati, industria termale - che, nonostante una diversa classifìcazione contabile, nella sostanza rientrano pienamente nelle azioni di supporto all' arrivo di turisti. Nel ca­so del Sud, si tratta per il2006 di altri 159,6 milioni spesi: ma sia nel 2004 che nel 2005, alla stessa categoria erano ricondu­cibili per le Regioni meridionali spese per oltre 500 milioni di euro. Anche in questo ambito il Sud può vantare dei primati: la Regione Sicilia ha il record di spesa per «attrattori turstici», cui destina ogni anno (nel periodo 2001-2006) circa T51 mi­lioni di euro, più del doppio della seconda e della terza Regio­ne in graduatoria, il Lazio e la Sardegna20
Una simile mole di risorse dovrebbe produrre effetti straor­dinari sulla capacità d'attrazione turistica del Sud. Ma la realtà delude qualsiasi aspettativa: evidentemente, i soldi spesi dalle Regioni meridionali servono a tutto, meno che a promuovere lo sviluppo del turismo.
La dimostrazione arriva dai risultati di un' analisi qualitati­va, anch' essa inedita: se incrociamo i volumi delle spese regio­nali con i flussi turistici per Regione, otteniamo un quadro a dir poco surreale. Considerando il totale delle spese turistiche
(spese dirette più spese per attrattori turistici), le Regioni ita­liane spendono in media 19,3 euro per ogni turista che appro­da nel Bel Paese. Ma nel Sud i turisti sono molto più «cocco­lati» dalle Regioni: in Puglia si spendono 4°,8 euro per turi­sta, che diventano 61,2 curo in Calabria (erano 153,2 nel 2003), 66,9 euro in Sardegna e 69>4 euro in Sicilia (ma era­no 81 nel 2005 e 122 nel 2003).
Fino ad arrivare al paradosso della Basilicata: qui la Re­gione ha «investito» nel 2003 - rispetto ad ogni presenza tu­ristica- ben 193,5 euro. Incrociando questo dato con quello delle spese effettuate nello stesso anno dai turisti stranieri nel­la Regione21, si scopre l'incredibile: nel 2003 la Regione Ba­silicata ha stanziato per attrarre turismo più del doppio (il 25°%) di quanto il suo territorio ha incassato dai turisti stra­nieri! E non è, purtroppo, un caso isolato. Il rapporto tra sol­di pubblici stanziati dalle Regioni per il turismo e spese effet­tuate negli stessi territori dai turisti stranieri, pur diminuen­do negli ultimi anni, è terribilmente alto in tutto il Sud. In Calabria si va dall'84% del 2003 al 39% del 2006, in Sicilia dal 70% del 2003 al 28tX) del 2006. Nel Nord - molto più «attrattivo», anche sul piano turistico - i valori sono comple­tamente diversi: oscillano dal 2% nel 2003 all'l% nel 2006 della Lombardia, dal 6% nel 2003 al4 % nel 2006 dell'Emi­lia Romagna, a12% stabile negli anni della Toscana.
Le prove raccolte sarebbero più che suffìcienti per invoca­re una modifica del Titolo v della Costituzione, che ponga ri­II1l~dio all' evidente «fallimento» delle Regioni in ambito turi­stico riportando al centro (almeno) le competenze normative ,I i cornice ed i relativi budget. Ma la questione delle competenze diventa mera disquisizione giuspubblicistica se, nel contempo, non si definisce una strategia di «lancio» del turismo Il, ,I Mezzogiorno.
Molti invocano l'abbattimento dell'IvA sul turismo: la proposta è diventata una specie di mantra delle politiche di settore, talmente indiscutibile da comparire sia oggi nel pro­gramma del governo Berlusconi che (ieri) in quello del gover­no Prodi. La convinzione diffusa è che possa rafforzare la competitività delle nostre imprese turistiche, determinando una riduzione del prezzo finale per i consumatori e - di con­seguenza - un circolo virtuoso fatto di aumento delle presen­ze turistiche in Italia nonché di maggiori investimenti im­prenditoriali. Ma è un assioma tutto da dimostrare: è molto concreta la possibilità che la manovra si traduca semplicemen­te in un aumento dei ricavi per gli operatori del settore, sen­za alcun abbattimento del prezzo finale dei servizi e quindi senza alcun beneficio per i turisti.
E’ esattamente ciò che è successo in Francia, dove nel lu­glio del 2009 è entrato in vigore l'abbattimento dell'aliquota IVA - dal 19,6% al 5,5,0,,1) - sulle attività di ristorazione, de­ciso dal governo. E dove grande è stata la delusione di Nico­las Sarkozy di fronte agli effetti di tale provvedimento: nei pri­mi quattro mesi di applicazione, i prezzi applicati dai ristoran­ti ai clienti sono rimasti sostanzialmente stabili (con una di­minuzione, risibile, dell'I ,46%) e non c'è stato alcun aumen­to degli investimenti nel settore22
Un provvedimento simile, inoltre, costerebbe alle casse dello Stato almeno 2,5 miliardi di euro all' anno, in uno sce­nario europeo nel quale - con le attuali aliquote IVA sul turi­smo - l'Italia si pone già al di sotto della media europea (in Italia l'IVA su strutture ricettive e ristoranti è al 10%, mentre la media UE è del 10,4 % per le strutture ricettive e del 14,6% per i ristoranti), anche se in Spagna l'IVA nel settore è al 7%.
Persa la sfida della quantità, dev' essere il turismo di qua­lità la bussola del Mezzogiorno nei prossimi anni. Per promuoverlo è assolutamente necessario «industrializzare» il turi­smo e i suoi servizi nel Mezzogiorno, coinvolgendo i grandi imprenditori nazionali e internazionali, nonché i principali operatori del settore in un grande «Progetto Sud». In che mo­do? Invitandoli a cogliere le opportunità d'investimento che sarebbero create da un nuovo strumento: una sorta di «Legge Obiettivo» per il turismo nel Mezzogiorno. Gli imprenditori avrebbero la possibilità di presentare progetti d'investimento da affidare alla valutazione strategica centrale del Ministero del Turismo, in esclusiva e senza necessità di coinvolgere ulte­riori livelli politici e amministrativi. Si potrebbe immaginare una sorta di concorso: 100 iniziative per avviare l'era del tu­rismo di qualità al Sud.
Perché l'idea abbia un senso, è necessario abbattere il «mo­stro» delle burocrazie sovrapposte: quell'incredibile stratifica­zione di livelli politico-amministrativi di decisione e di veto, che oggi scoraggia qualunque imprenditore serio dall'imbar­carsi in intraprese che rischiano di essere bloccate per un de­cennio dal primo Azzeccagarbugli di turno. La soluzione è l m'operazione mirata di semplificazione normativa e burocra­tica, per garantire agli investitori italiani e internazionali - nel rispetto delle norme ambientali - «corsie preferenziali» per la realizzazione del loro investimento, saltando la giungla impe­netrabile della burocrazia regionale e locale. Sarebbe una rivo­luzione, l'unica in grado di donare finalmente al Mezzogior­no i frutti del suo straordinario passato.

Più ingegneri, meno avvocati. «Tax free» per le facoltà scientifiche

Da cinque anni diminuiscono gli iscritti alle Università meridionali. Nell' era della conoscenza, il dato è sorprendente.
Ma è solo il corollario di un altro fenomeno, molto più am­pio e potenzialmente devastante per il presente ed il futuro del Sud: il boom dei giovani «NEET». Ovvero quelli che - alme­no secondo le statistiche -non fanno nulla: non studiano, non fanno training professionale, non lavorano. L’ultimo (inquie­tante) segnale è contenuto nell'indagine Istat sulle forze-lavo­ro del terzo trimestre 2009: nel periodo di riferimento ben 196.000 persone hanno perduto un'occupazione nel Meri­dione, ma il numero di chi cerca un nuovo lavoro è aumenta­to soltanto di 25.000 unità (al Nord, nello stesso periodo, le persone in cerca d'occupazione sono cresciute di 218.000 unità, a fronte di una diminuzione di occupati di 274.000 unità). È doveroso chiedersi, quindi, per capire cosa sta acca­dendo nel Mezzogiorno: dove sono finiti gli altri? Si sta ma­terializzando una realtà con cui i sociologi non avevano mai fatto i conti, almeno su cosÌ larga scala: la totale perdita di fi­ducia, l'assoluto scoraggiamento dei giovani meridionali. È quasi impossibile misurare con certezza scientifica l'ampiezza del fenomeno: i giovani «NEET» per definizione sfuggono al­le rilevazioni ufficiali. Ma una stima verosimile è di almeno 500.000 giovani terroni che si trovano in questa condizione. Una generazione bruciata, uno spreco inaccettabile di capita­le umano e di vite individuali.
Tornando all' ambito accademico, oggi un meridionale su quattro che si iscrive all'Università, lo fa in un ateneo del Cen­tro-Nord: sono circa 156 mila i meridionali iscritti ad una fa­coltà universitaria da Roma in su. Nel 2007, secondo i dati forniti dal Ministero dell'Università, dei rr8 mila laureati me­ridionali circa il 25% ha raggiunto l'obiettivo fuori dalla pro­pria regione d'origine. In Calabria sono stati ben il 43 %, in Basilicata addirittura 1'81%. Si potrebbe dire che il vero Era­smus i giovani meridionali lo fanno in Italia ...
Eppure gli atenei del Sud offrono oggi ben 1480 corsi di laurea. Ma alla grande quantità, corrisponde spesso una qua­lità mediocre. A Foggia si laureano in corso tre studenti ogni mille, a Modena 100 volte tanto. A Bari un iscritto su quat­tro non fa esami per un anno, a Brescia gli studenti «parcheg­giati» sono il 70% in meno. All'Università Orientale di Na­poli ogni docente può disporre di neanche 5 mila euro per la ricerca, nelle Università del Piemonte la dote media è di sette volte superiore. E nella classifica annuale della «qualità» degli atenei - con cui «Il Sole 24 Ore» misura i risultati della didat­tica e della ricerca - solo il Politecnico di Bari e l'Università della Calabria riescono ad entrare nei primi 25 posti.
Oltre alla scarsa qualità, il grande problema del sistema uni­versitario meridionale è la direzione di marcia: un esercito enor­me di allievi, indirizzato verso un obiettivo profondamente sba­gliato. Il tasso di occupazione dei laureati nel Mezzogiorno è molto basso, pari solo al 52,5%. Le città del Meridione scop­piano letteralmente di avvocati, di commercialisti e di architet­ti, ma le scelte dei giovani del Sud continuano testardamente a premiare queste facoltà e, in generale, gli indirizzi umanistici.
L’effetto è scontato: i «nuovi emigranti» da Sud verso Nord sono soprattutto schiere di professionisti molto prepa­rati, ma con scarsissime prospettive perché pagano una scel­ta universitaria «perdente» (in termini di sbocchi lavorativi). Oggi il 40% dei giovani meridionali laureati in giurispru­denza e il 50% di quelli laureati in architettura sono costret­ti a lasciare il Mezzogiorno, mentre dieci anni fa erano sol­tanto - rispettivamente - il 22% e il 17%.
Secondo i dati del MIUR, nel 2008 le Università del Me­ridione hanno «prodotto» soltanto 2360 laureati in materie identiche, il 29,8% del totale nazionale. È un numero de­cisamente troppo basso, sia in rapporto al resto del Paese che Il] valore assoluto.
Il rilancio industriale del Mezzogiorno può passare, infat­ti, soltanto attraverso lo sviluppo dei settori ad alto valore aggiunto, caratterizzati da elevati contenuti di «intelligenza». Lo ha intuito il Presidente della Camera Gianfranco Fini, che in occasione del meeting 2009 dei Giovani Imprenditori di Con­findustria a Capri ha lanciato l'innovativa proposta di «un fondo ad incremento costante - da inserire nelle leggi Finan­ziarie dei prossimi dieci anni - per tutte le eccellenze di tipo tecnologico-scientifico allocate nel Sud d'Italia», con l'obiet­tivo di trasformare il Mezzogiorno in «una piattaforma, un avamposto logistico con cui favorire centri di eccellenza, di ri­cerca scientifica e tecnologica».
Perché investimenti pubblici di questo tipo abbiano suc­cesso, perché si insedino a Sud imprese italiane e straniere ad alta vocazione tecnologica è necessario che si verifichi una condizione fondamentale: ['abbondanza di risorse umane di qualità, specializzate nelle materie scientifìche e tecnologiche, reperibili sul mercato a costi più contenuti che altrove. fù sta­ta questa la leva utilizzata da alcune aree depresse d'Europa ­dall'Irlanda alla Francia meridionale - e dai Paesi emergenti come l'India per innescare il circuito dello sviluppo. E perfi­no nel Meridione c'è già un modello di riferimento: l'Etna Valley, la «valle dei semiconduttori» che si è sviluppata intor­no al gigante STM Microelectronics, nata e cresciuta alle pen­dici del vulcano grazie al ruolo fondamentale dell'Università di Catania. Ma rimasta, al Sud, un caso isolato.
Come si fa ad aumentare il numero dei laureati in materie scientifiche nel Mezzogiorno? Creando una forte «convenien­za» di scelta per i giovani meridionali, le cui famiglie sono più sensibili che nel resto d'Italia agli incentivi di tipo economico. Oltre all'aspettativa di maggiore retribuzione delle occupazio­ni basate su lauree scientifiche - che rischia di essere troppo «lontana» nel tempo per essere apprezzata adeguatamente - bi sogna creare un vantaggio concreto e immediato a monte.
La proposta è di azzerare le tasse universitarie per gli studenti meridionali che si iscrivono alle facoltà scientifiche del le Università del Sud. Il costo per le finanze pubbliche sarebbe contenuto, ma il valore simbolico di questa misura sareb­be molto alto e i vantaggi - in prospettiva - potrebbero esse­re straordinari.
A conforto di questa opzione strategica ci sono i risultati di un' analisi condotta dalla Banca d'Italia. Lo studio ha misura­to, per la prima volta in Italia, il «rendimento sociale» dell'in­vestimento pubblico in formazione (misurato in termini di produttività aggregata). L’esito è sorprendente: il rendimento medio degli investimenti in education è più alto in Italia che al­trove e - a sorpresa - più alto nel Sud che nel resto del Paese.
In particolare, gli investimenti necessari ad innalzare di un anno il livello medio di formazione avrebbero un «rendimen­to sociale» pari al 7,8 % nel Mezzogiorno: è un «ritorno» su­periore a quello derivante dalle infrastrutture, ritenuto nor­malmente l'investimento con l' effetto- moltiplicatore più alto. Secondo lo studio, inoltre, «la maggior spesa pubblica neces­saria a finanziare un aumento del livello di istruzione sarebbe compensata, specie nelle regioni meridionali, dall' aumento delle entrate fiscali e dai minori costi derivanti dall'aumento ,del tasso di occupazione». Perché non provarci?

Contratti (e sindacati) innovati vi:
no alle gabbie salariali, sì al Sud «flessibile»

Se il mondo del lavoro è cambiato negli ultimi anni ad una velocità impressionante, abbandonando gli assetti che avevano caratterizzato l'intera epoca industriale ed entrando in una fase di "individualizzazione flessibile» del lavoro, la contrattazione collettiva in Italia è rimasta invece un'antica fortezza inespugnabile. Il suo fondamento è il centralismo più spinto: un unico contratto nazionale, una retribuzione identica per tutti i lavoratori che appartengono alla stessa categoria, belli e brutti, nordisti e sudisti.
Eppure lo stesso salario ha un valore diverso, nelle mille Italie in cui è diviso oggi il nostro Paese. Un'indagine de «Il Sole 24 Ore» rivela che un edile milanese in media guada­gna 1.478 euro lordi, invece dei 1.651 euro che sarebbero ne­cessari per pareggiare il costo della vita registrato in quella pro­vincia (rispetto al costo della vita medio a livello nazionale). Quell' operaio è costretto dunque a pagare - a causa della rigi­dità della contrattazione nazionale - una «tassa» occulta di 173 euro mensili, che su base annua equivalgono a 2.249 euro: in pratica, una mensilità e mezza del suo stipendio annuale.
Sul versante opposto, il suo collega di Campobasso do­vrebbe percepire I. 3 12 euro sulla base del costo della vita nel­la sua città. Il «guadagno», in questo caso, è di 166 euro su base mensile, pari a 2.158 euro l'anno: l'equivalente di una mensilità e mezza di retribuzione. È come se le «gabbie sala­riali» - abolite da quasi quarant'anni - fossero resuscitate al contrario, penalizzando i lavoratori delle aree nelle quali il co­sto della vita è più alto.
Se le retribuzioni fossero definite sulla base del costo del­la vita, dunque, tra Nord e Sud dovrebbero esserci in media tre mensilità di differenza, a parità di funzione svolta e di sta­tus del lavoratore. Ma non va dimenticato che questo gap vie­ne colmato oggi - almeno per i dipendenti delle grandi e me­die imprese - dagli effetti del secondo livello di contrattazio­ne, applicato molto più nelle aziende del Nord che in quelle meridionali. Come ha rilevato (tra gli altri) Viesti, a partire dalla metà degli anni Novanta i salari si sono differenziati in modo significativo tra Nord e Sud proprio grazie alla diffusione della contrattazione aziendale: nel 1995 la retribuzione netta di un lavoratore dipendente a tempo pieno del Mezzo­giorno era pari a192% di quella di un lavoratore del Centro­Nord con le stesse caratteristiche, mentre nel 2006 il rappor­to è sceso all'85%27. E da un'approfondita indagine di Banki­talia, condotta su un campione di 3000 imprese italiane, emerge che gli impiegati e gli operai dell'industria meridiona­le ricevono in media - rispettivamente - buste paga inferiori del 22 % e del 15% rispetto ai parigrado del Nord, del 12 % e del 9 % inferiori rispetto ai colleghi del Centro.
Sulla base delle differenze di costo della vita e di competi­tività del contesto tra Nord e Sud, autorevoli economisti in­vocano l'applicazione di salari più bassi nel Mezzogiorno. Se­condo Guido Tabellini «bisogna accettare che nel Mezzogior­no il lavoro sia pagato meno che nel resto d'Italia. I problemi non spariranno dall' oggi al domani e inevitabilmente la pro­duttività del lavoro continuerà a essere molto più bassa nelle regioni meridionali. Ma per consentire alle imprese meridio­nali di crescere occorre più differenziazione salariale. Non ba­sta dare più spazio alla contrattazione aziendale, bisogna an­che consentire deroghe ai contratti collettivi nazionali».
Sono profondamente convinto, tuttavia, che non avrebbe alcun senso oggi riportare indietro di quarant'anni le lancette della storia delle relazioni industriali, tornando di fatto alle gabbie salariali». Si rischierebbe soltanto di aggravare il diva­rio di ricchezza Nord-Sud, di deprimere i consumi, forse di stimolare ulteriormente l'emigrazione di cervelli verso il Nord.
Ha senso, invece, innovare il sistema delle relazioni industriali di per rendere più flessibile il lavoro e trasformarlo in una leva di crescita del Mezzogiorno. Oltre alle differenze relative al costo della vita, c'è infatti un gap più importante che divi­de oggi Nord e Sud: la produttività delle imprese. È su que­sto terreno che si gioca la vera partita della competitività del­le aziende che operano nel Mezzogiorno. Se da una parte in­seguire il parametro del costo della vita è tecnicamente molto complesso - perché all'interno di ogni area geografica si regi­strano notevoli scostamenti tra centro e periferia, tra città e campagna, che renderebbero necessario stipulare una miriade di accordi: territoriali, cittadini, addirittura municipali - dal­l'altra parte è possibile, invece, aumentare la produttività del capitale umano, nell'interesse comune di imprenditori e lavo­ratori. Percorrendo con decisione due strade.
La prima consiste nell'incentivare - con significativi sgravi fiscali - l'applicazione dei contratti integrativi aziendali nel Mezzogiorno, per legare parte della retribuzione dei lavoratori alla produttività e ai risultati delle aziende. Questa misura sti­molerebbe impegno, crescita professionale, identificazione dei lavoratori con le sorti della loro impresa, aumentandone la produttività30 e producendo un doppio risultato: renderebbe più competitive le imprese del Sud e al tempo stesso rafforza­rebbe le buste-paga dei dipendenti, sulla base del principio per cui viene distribuita ai lavoratori una parte del plus di ricchez­za che viene prodotto. Sull'utilità di questo strumento - in un mondo avaro di certezze - è ormai amplissima la convergenza della letteratura economica a livello internazionale. Ma oggi il contratto aziendale è un "fantasmà' nel mondo del lavoro me­ridionale: la già citata indagine della Banca d'Italia rivela che ricevono premi aziendali rilevanti al Sud soltanto 1'8% degli operai (contro il 18% al Nord) e 1'8% degli impiegati (contro il 41% al Nord-Ovest e i136% al Nord-Est).
La seconda strada, ugualmente importante, consiste nel rendere più flessibile nel Mezzogiorno la parte normativa dei contratti di lavoro nazionali di categoria. Significherebbe da­re un'arma importante all'imprenditore che investe nelle Re­gioni meridionali, dove i settori labour intensive hanno un'in­cidenza notevole sul sistema economico, e incentivare 1'e­mersione del lavoro nero, che nel Sud coinvolge ben un quin­to del mondo del lavoro (più del doppio che nel Centro­Nord). Tutto questo senza minare i diritti fondamentali del lavoratore.
Lo aveva intuito - già nel 1995 - Luigi Abete. All' epoca Presidente di Confindustria, lanciò ai sindacati confederali la proposta di un «contratto di lavoro straordinario»: una speri­mentazione di cinque anni da avviare nel Mezzogiorno, che avrebbe consentito norme di lavoro più flessibili, in tempora­nea deroga ai contratti nazionali di categoria.
Quasi 15 anni dopo, Confindustria e i sindacati «rifor­ll1isti» hanno compiuto un primo passo ufficiale in quella di­rezione. L'Accordo quadro sulla riforma del modello contrattuale, sottoscritto il 22 gennaio 2009 da governo e parti sociali (esclusa la CGIL), prevede una possibilità di deroga molta profonda ai contratti collettivi nazionali: per «favorire lo sviluppo economico ed occupazionale» di un territorio, i contratti collettivi nazionali di categoria possono consentire alle strutture territoriali delle parti stipulanti di modificare "in tutto o in parte» e «anche in via sperimentale e temporanea» (quindi anche in via definitiva!) «singoli istituti economici o normativi dei contratti collettivi nazionali di lavoro di categoria». È un accordo rivoluzionario - potenzialmente - per il futuro delle relazioni industriali nel Mezzogiorno, perché introduce spazi di flessibilità negoziata che per decenni la rigidità della contrattazione nazionale non aveva consentito neanche di immaginare.  
Innovati i principi, le difficoltà spunteranno come funghi in fase di «execution negoziata» della deroga. Ma sarebbe un peccato mortale se questa parte dell'Accordo del 22 gennaio rimanesse nel cassetto, quasi che il bisogno d'innovazione del­le parti sociali fosse stato appagato da una semplice previsio­ne «di scuola».
I sindacati hanno avuto un ruolo decisivo nello sviluppo economico dell'Italia, nella sua miracolosa trasformazione da terra d'agricoltura in potenza industriale, nella tenuta sociale di un Paese frammentato e spaventato dal cambiamento, nel­la capacità d'uscita dalle grandi crisi che dagli anni '70 hanno colpito l'Italia come e più del resto del mondo avanzato. Og­gi i sindacati devono avere il coraggio di tornare allo spirito innovatore che hanno dimostrato in altre fasi della storia ita­liana, assumendosi la responsabilità di una strategia straordi­naria per la rinascita del Mezzogiorno. A partire dalla CGIL, che non può rischiare di autoemarginarsi al ruolo di mera op­posizione sociale e che - per identità e per tradizione do­vrebbe avere particolarmente a cuore lo sviluppo dell' occupa­zione nel Mezzogiorno e l'inclusione dei giovani meridionali nel mondo del lavoro.
Per raggiungere questi obiettivi è necessario che i sinda­cati italiani rinuncino - paradossalmente - a ciò che li ha re­si fino ad oggi più potenti degli omologhi occidentali: il «mi­to» del contratto collettivo nazionale di lavoro. Non vuoI di­re "suicidarsi", non vuoI dire chiedere al cappone di antici­pare gioiosamente il Natale. Tutt' altro: significa per il sinda­cato far crescere un ceto dirigente diffuso, partecipare alle strategie di sviluppo di un settore o di un territorio, aggiungere alla tradizionale vocazione di difesa dei diritti dei lavoratori quella di sviluppo attivo di nuove opportunità, aiutare a far emergere dall'illegalità lavoratori e posti di lavoro, Prima che sia troppo tardi: anche in questo ambito, il S'ld non può attendere oltre.

Commissariamenti, azioni giudiziarie automatiche, ineleggibilità: guerra totale all'irresponsabilità degli amministratori locali.

Negli ultimi anni sono letteralmente esplosi, nel Mezzogior­no, i bilanci delle Regioni e degli enti locali. Mentre a livello nazionale - da Maastricht in poi - si è realizzato compiuta­mente il principio dell'accountability (verso l'Europa e verso gli elettori), a livello locale sembra dominare l'irresponsabilità verso lo Stato e verso i cittadini. Le Finanziarie degli ultimi anni hanno sistematicamente cancellato la pioggia di sanzio­ni che avrebbero dovuto colpire un gran numero di Comuni e Province meridionali per violazione del Patto di stabilità in­terno, mentre la maggior parte delle Regioni del Mezzogior­no sono impegnate ogni anno a negoziare «sconti di pena» e trasferimenti statali aggiuntivi per ripianare gli stratosfèrici debiti accumulati nella gestione della sanità.
Nel silenzio della politica nazionale e dell' opinione pub­blica si è sviluppato nei decenni un sistema perverso, che rischia di premiare quegli amministratori locali che usano il deficit spending come leva per procacciarsi consenso facile. Oggi l'ente superiore è costretto a pagare il «conto» lasciato da quello inferiore - in una lunga sequenza di lascivia am­ministrativa - fino a scaricare l'intero peso del debito sullo Stato.
Spezzare questa catena non è solo una battaglia di «igiene» della politica. È una delle leve fondamentali per far rinascere il Mezzogiorno.
Dopo decenni di sprechi, dunque, è necessario dichiarare guerra all'irresponsabilità politica e amministrativa. Con tre mosse coraggiose e drastiche, che appartengono al novero di quelle misure che qualsiasi politico approverebbe solo con una pistola puntata alla tempia. Ovvero, soltanto a causa di un pressing dell' opinione pubblica così intenso da costringerlo a compiere atti contrari alla sopravvivenza della «specie».
Chi sperpera il denaro pubblico dev' essere sanzionato sempre e in modo automatico, senza discrezionalità. Introdu­cendo due misure fondamentali: il commissariamento auto­matico delle Regioni, delle Province e dei Comuni per «ecces­sivo defìcit di bilancio» ed un'azione di responsabilità civile automatica contro amministratori politici, dirigenti e funzio­nari spendaccioni.
Ma tutto ciò rischia di non bastare. Perché dall' esperien­za degli ultimi anni emerge che quei politici meridionali che usano il denaro pubblico come leva elettorale vengono spesso premiati dalle scelte compiute dai cittadini nel segreto della cabina elettorale più che opportuna, quindi, una terza mossa: la previsione dell'ineleggibilità automatica degli am­ministratori locali responsabili di dissesto fìnanziario o inca­paci di assicurare i livelli essenziali delle prestazioni, già previ­sta peraltro dalla legge delega al governo in materia di federa­lismo fiscale.
Non è una misura da «caccia alle streghe», come potrebbe obiettare qualche benpensante. Agli amministratori «falliti» non pub essere consentito di fare ulteriori danni, continuan­do la loro brillante carriera di dissipatori di denaro pubblico in contesti democratici opaci.
Se obiettivo di fondo del federalismo fiscale è rendere più trasparente verso i cittadini l'uso delle risorse pubbliche, il va­ro delle norme attuative del federalismo fiscale è occasione im­perdibile per aumentare la «maturità politica» dei dirigenti politici meridionali. i:introduzione dell'ineleggibilità auto­matica per dissesto finanziario sarebbe - in questa direzione­ un'innovazione di portata straordinaria, perché sancirebbe la responsabilità oggettiva degli amministratori per la cattiva gestione dei bilanci dei loro enti. Con due problemi: la sanzione dell'ineleggibilità potrà essere applicata ai Sindaci e ai Presidenti delle Province, non ai Governatori delle Regioni (perché in materia elettorale le Regioni hanno piena autonomia) e soltanto a partire dal 2016, data prevista per l'entrata in vi­gore del federalismo fiscale.
Ma un rapido e simultaneo varo delle prime due misure che ho proposto in attesa della terza - lancerebbe segnali inequivocabili contro la «cattiva amministrazione», avviando la cura contro quel cancro di cui il Mezzogiorno - o almeno quella parte del Sud che vuole guarire dalle piaghe del sotto­sviluppo - deve liberarsi al più presto.
Il fallimento delle Regioni e il nuovo sviluppo dall'alto: il modello della prima Cassa per il Mezzogiorno
L’esempio più clamoroso è stato reso pubblico dall' Associazio­ne Nazionale dei Costruttori Edili. Considerando soltanto Il' risorse destinate a infrastrutture e costruzioni, sono teorica­mente a disposizione del Mezzogiorno nel periodo 2007­-2013 la bellezza di 34,7 miliardi di euro (16,7 miliardi di Fon­,I i Strutturali Europei e r8 miliardi del Fondo Aree Sottouti­lizzate): di gran parte di questi denari, però, il Sud non potrà beneficiare.
Ben 24,6 miliardi di euro - tra FAS e fondi europei - dovrebbero servire a finanziare i programmi regionali. Ma dei progetti da finanziare non c'è quasi traccia: quelli approvati vanno dallo 0,40% della Sicilia al 17,9% della Campania­ - regione «virtuosa» in questa classifica dell'inefficienza amministrativa - e i pagamenti effettuati variano dallo 0,01% della Sardegna al 5,28% della Basilicata. Ciò significherà, in concreto, che il Mezzogiorno perderà la grandissima parte dei 14 miliardi di euro stanziati dalla Commissione Europea per cofinanziare questi programmi.
«È cruciale per lo sviluppo del Mezzogiorno che gli obiet­tivi e i criteri di utilizzazione delle risorse stanziate per gli in­terventi per la coesione siano di stretta competenza dello Sta­to» ha scritto con insolita durezza il Presidente dello SVIMEZ Nino Novacco, nel documento ufficiale presentato alle Com­missioni Bilancio e Finanze della Camera35.
Siamo di fronte, probabilmente, ad una «curva» fonda­mentale della storia dell'intervento pubblico a favore del Mez­zogiorno. La «Nuova Programmazione», avviata da Carlo Azeglio Ciampi a metà degli anni Novanta e realizzata da uo­mini di valore come Fabrizio Barca, nasceva da un'intuizione giusta: non ci può essere sviluppo al Sud senza responsabiliz­zazione delle classi dirigenti locali. A questo puntavano, in particolare, strumenti come i Patti territoriali. Questa strate­gia ha avuto il grande merito di rafforzare la capacità d'utiliz­zo da parte dell'Italia dei fondi comunitari, a partire da quel­li previsti nel bilancio 2000-2006.
Questa esperienza innovativa, tuttavia, dovette scontare le conseguenze negative di un grave errore di valutazione: ci si affìdò totalmente alle Regioni nella reali'n:azione della strate­gia, rinunciando difatto al ruolo di guida e di coordinamen­to del centro. Ne è prova il fatto che, oggi, più della metà del­la spesa in conto capitale nel Mezzogiorno è affidata alla re­sponsabilità e all' erogazione di Regioni ed enti locali36.
Dopo quasi 40 anni di devoluzione dei poteri e delle re­sponsabilità verso il basso, dopo l'applicazione di una strate­gia così marcatamente «regionalista» nella soluzione della que­stione meridionale, non tentare un bilancio (sommario) del­l'utilità per il Sud di queste scelte vuoI dire nascondere la te sta sotto la sabbia. E allora è giusto affermarlo con chiarezza senza timore di smentita: l'assunzione di un ruolo-guida da parte delle Regioni nella promozione dello sviluppo del Mez­zogiorno è stata un clamoroso fallimento.
Una delle tante conferme arriva dall'«indice di buon go­verno» elaborato dal FORMEZ, che valuta politiche di sempli­ficazione, politiche per il lavoro, capacità di rafforzare la com­petitività del territorio e capacità di utilizzo delle risorse finan­ziarie da parte delle Regioni. La classifica definita dall'indice è sconfortante: le Regioni del Sud sono nettamente le peggio­ri, tutte in fondo alla classifica e con valutazione inferiore a 5 su 1O (tranne la migliore del Sud, la Campania, che «vanta» un punteggio di 5,1). Ciò lancia tristi presagi sugli effetti a Mezzogiorno del decollo del federalismo fiscale ...
Il fallimento delle Regioni è però questione non solo po­litica, ma soprattutto amministrativa. Le burocrazie regiona­li del Sud hanno sistematicamente dimostrato di non posse­dere competenze, visione, forse neanche consapevolezza delle proprie responsabilità. Nelle analisi del Ministero dello Svi­luppo Economico - tra le principali criticità delle politiche di sviluppo perseguite fino ad oggi - è individuata con chiarez­za adamantina la «debolezza tecnica, la diluizione delle re­sponsabilità e l'irrazionalità nelle dotazioni di risorse umane» ,delle Pubbliche Amministrazioni meridionali38.
Il Mezzogiorno ha un tremendo bisogno di una strategia , centralizzata: obiettivi e responsabilità definite sul modello ,degli MBO aziendali, pochi decisori con poteri forti e strutture tecniche a supporto che possano muoversi in assenza di condizionamenti politico-elettorali. Sul piano politico, bisogna eliminare l'ormai insopportabile «costo delle mediazioni» orizzontali e verticali: quelle infinite tra il centro e gli altri li­velli di governo, nonché quelle altrettanto complesse tra i nu­merosi Ministeri e le loro strutture. L’unica soluzione possibi­le è concentrare nel cuore del governo il potere decisionale delle strategie e delle azioni per il rilancio del Sud, istituendo una «cabina di regia» limitata ai tre principali player: Presiden­te del Consiglio, Ministro dell'Economia e Ministro dello Svi­luppo Economico.
Ma tutto ciò servirà a poco, senza un ripensamento radi­cale dell' organizzazione delle tecnostrutture. Se non fosse di­ventato fuori moda, potremmo dire che della nuova organiz­zazione dovrebbe essere il modello manageriale della prima Cassa per il Mezzogiorno: i risultati della «prima era» della Cas­sa (anni Cinquanta-Sessanta) sono considerati quasi unanime­mente positivi da economisti e storici. Il meccanismo si rup­pe, invece, a partire dall'inizio degli anni Settanta: per usare l'efficace sintesi di Brunetta «con l'avvento delle Regioni a sta­tuto ordinario, concorrenti in molte materie con la Cassa, e la progressiva limitazione della sua autonomia, derivante dall'in­vadenza del ceto politico centrale e periferico, si iniziarono ad avere insufficienze e falllimenti sempre maggiori».
La Cassa per il Mezzogiorno, in sostanza, ha funzionato fino a quando si è mantenuta l'autonomia professionale di un nucleo di tecnocrati orientati all'interesse pubblico. Quando questa condizione è venuta meno - con la progressiva colo­nizzazione della politica - sono cresciuti sempre più sprechi e inefficienze, si è persa ogni visione generale, si è inquinata la sua operatività con esigenze di tipo clientelare.
È essenziale per il rilancio del Sud recuperare lo spirito, il modello e le competenze che avevano caratterizzato la nascita
della Cassa per il Mezzogiorno, applicandole alla gestione centralizzata dei settori-driver (infrastrutture, turismo, politi­che industriali). Ma poiché non tutto pub essere riportato al centro, il Mezzogiorno ha altrettanto bisogno di rendere piti trasparente e più mobile il putrido stagno delle nomine pub­bliche e delle responsabilità dirigenziali negli enti locali.
L’idea di una «nuova spedizione dei Mille» teorizzata da Brunetta si muove nella direzione giusta, ma non andrebbe circoscritta all'invio nel Sud dei migliori e più motivati magi­strati, poliziotti e carabinieri4!. Perché i limiti delle tecno­strutture meridionali sono molto piti evidenti e pericolosi nel­la gestione delle amministrazioni regionali e locali, piuttosto che nel controllo di legalità. Per usare una metafora impro­pria, ma chiara, dovendo compiere una brutale selezione di priorità (come è necessario in questa f:lse storica) al Sud ser­vono soprattutto motori potenti e innovativi, più che fìeni ef­ficienti.

PARTITO DEL MEZZOGIORNO? NO GRAZIE

«IO CREDO CHE LA COSA PEGGIORE che si possa fare è pen­sare di contrapporci specularmente, con la stessa logica di ri­vendicazione parziale, ad un partito del Nord, fatto di poteri forti e trasversale agli schieramenti politici. La questione me­ridionale non è mai stata la questione delle rivendicazioni cor­porative di pezzi di territorio». La riflessione, nel solco della migliore tradizione meridionalista, è di Nichi Vendola' .
La Lega Nord nacque negli anni Ottanta in un territorio all'avanguardia dello sviluppo, fu costruita dal basso, inventò e promosse un ceto dirigente che oggi appare tra i più giova­ni e i più capaci. La Lega si propose come movimento d'op­posizione al sistema politico della Prima Repubblica e rappre­sentò, in ogni senso, un fenomeno di forte innovazione poli­tica e sociale.
Il «Partito del Sud» sarebbe oggi l'esatto contrario. Rap­presenterebbe i territori meno sviluppati del Paese, si identi­fìcherebbe con esperienze amministrative più o meno falli­mentari, sarebbe costituito da una nomenklatura presente da decenni sul campo, si presenterebbe (lo ha già fatto, in realtà) (omc il partito della più vecchia e deteriore spesa pubblica.
A prescindere dalle sue potenzialità elettorali, non convincono il DNA, la mission e la vision del Partito del Sud.
Un partito che nasce per chiedere più spesa pubblica e più po­tere, all'interno della coalizione di riferimento e nelle nomine pubbliche, è destinato a rappresentare un Mezzogiorno vec­chio e perdente, vocato alla subalternità culturale e sociale, pronto a lottare per la sopravvivenza ma incapace di sognare una vera nascita.
Il «Partito del Sud», insomma, rischia di portare l'intero Mezzogiorno e i suoi abitanti su un binario morto: rinchiuden­doli nei propri confini e nelle proprie paure, mostrandoli al re­sto d'Italia nel volto più stereotipato e più coerente con le bou­tades leghiste. A proposito delle quali, basti pensare a quale faci­le strumentalizzazione si è prestata la rivelazione - contenuta nel­le dichiarazioni rese ai magistrati dal fìglio Massimo Ciancimi­no - secondo cui il “Partito del Sud» comparirebbe addirittura nel «papello» politico- mafioso elaborato nel 1992 da Vito Cian­cimino per negoziare una tregua nella guerra tra mafia e Stato.
Con il «Partito del Sud», infine, si materializzerebbe un altro pericolo (per gli elettori meridionali): il «meridionalismo di professione». Fenomeno deleterio, che per esempio sembra affìorare dietro l'istituzione sia da parte del Comune di Ba­ri che della Regione Puglia - di un Assessorato alla questione meridionale. "
«Un partito del Sud non serve - ha ammonito il Presiden­te della Camera Gianfranco Fini - serve un partito nazionale che faccia davvero gli interessi del Sud».
Il Sud non può e non deve diventare elemento di divisio­ne politica: sarebbe una strategia, per definizione, perdente. Al contrario, il Sud dovrebbe essere considerato il terreno di gioco privilegiato delle proposte di modernizzazione e della volontà riformatrice d'ogni forza politica.
C'è un tremendo bisogno non del «partito del Sud», ma di leader politici meridionali e «sudisti» che s'impongano neipartiti già esistenti e che riescano a far «valere» il peso eletto­rale del Mezzogiorno. Perché il Sud sta vivendo un incredibi­le paradosso: è sempre più decisivo nelle elezioni nazionali, europee e regionali, ma è sempre pill ininfluente nel governo del Paese.

LE ELEZIONI SI VINCONO A SUD
NEL 2008 IL POPOLO DELLE LIBERTÀ trionfò nelle elezio­ni politiche, grazie alla netta scelta di campo compiuta dagli elettori del Mezzogiorno.
Nel 2006 l'Unione vinse le elezioni politiche, ottenendo Una risicatissima maggioranza di voti a Montecitorio: per la Prima volta - nella storia della Seconda Repubblica -lo schie­ramento di centrosinistra raccolse alla Camera un numero di Consensi superiore a quello del centrodestra (24 mila voti in Più). Ma lo spostamento di consensi dal centrodestra al cen­trosinistra si verificò in misura rilevante soltanto a Sud: qui l'Unione raccolse alla Camera molti più voti rispetto al cenrosinistra edizione 2001 e al Senato vinse il premio di mag­gioranza in cinque Regioni su otto.
Ma anche la clamorosa vittoria del centrosinistra nelle regioni regionali del 2005 era stata determinata dalla mobilitazione a suo favore dell' elettorato del Mezzogiorno. Così come, nel 2001, all'origine della grande vittoria del centro-destra c'era stata la netta scelta pro Berlusconi degli elettori meridionali.
Da dieci anni, dunque, il voto meridionale è estremamente mobile e quindi decisivo nel determinare il colore del governo del nostro Paese. Tendenzialmente delusi dalla politica e dalla fiera delle promesse non mantenute, i cittadini meri­dionali sembrano aver intrapreso una sorta di «traversata nel deserto» alla ricerca di una rappresentanza politica. E così nel­l'Italia del Duemila le elezioni - di qualsiasi tipo: europee, na­zionali, regionali - si vincono o si perdono a Sud.
In tutte le aree del Paese, in realtà, si registra la presenza di cittadini che cambiano voto da un' elezione all' altra. Le «fe­deltà ideologiche» sono molto più tenui che nel Novecento, il sistema bipolare favorisce il diffondersi del voto d'opinione: sempre più l'elettore tende a giudicare l'operato di chi gover­na, più che a schierarsi in modo pregiudiziale.
Ma al Sud il numero degli elettori «mobili» è molto più alto: nelle Regioni meridionali è particolarmente rilevante non solo la percentuale di elettori che cambiano partito da una elezione all'altra, ma addirittura di quelli che cambiano schieramento. Clamoroso l'esito di un autorevole sondaggio realizzato nel 2006: su un campione di 12 mila elettori del Sud, circa un terzo aveva cambiato la propria scelta di voto ri­spetto al 2001. Nella stessa direzione l'esito di un'indagine demoscopica condotta ncl2005 dalla SWG su un campione di 40 mila elettori, che dimostrava un travaso di voti dal centro­destra verso il centrosinistra molto più rilevante a Sud che nel­le altre aree del Paese.
Il Mezzogiorno è diventato così - stabilmente - l'uniCI delle quattro aree geografiche della politica italiana in cui l'operato del governo nazionale, l'azione dei governi regionali, le campagne elettorali possono incidere realmente sulla scelta degli elettori, spostando flussi importanti di voti e cambiando maggioranze. Nel Nord-Est, infatti, i due grandi bacini elettorali di Lombardia e Veneto sono blindati in cassaforte, dall'asse Berlusconi-Lega: si è consolidato un blocco sociale ampio e variegato in cui coesistono - uniti dalla fede «pidiel­lina» - i ceti più produttivi e dinamici (dai piccoli imprendi­tori ai projèssionals, dai commercianti alle partite IVA) e l'an­tica classe operaia. In queste terre il PD non ha mai superato il 28% dei voti e l'intera coalizione di centrosinistra non ha mai varcato la soglia del 40%. Nel Nord Ovest il voto è più mobile - come dimostra l'alternanza continua alla guida del­le Regioni Piemonte e Liguria - ma quest' area pesa molto me­no sul piano demografico. Al Centro il PD è forza struttural­mente maggioritaria, in virtù dell'eredità novecentesca del «voto rosso»: in Emilia Romagna, Toscana, Marche e Umbria non si sono registrati - negli ultimi dieci anni - scostamenti di voto particolarmente significativi.
In un Paese nel quale la sinistra sembra avere struttural­mente meno consensi della destra (almeno fino a quando ri­marrà essenzialmente il partito della classe media impiegati­, PD e alleati hanno un'unica vera chance per vincere le elezioni: una netta affermazione nelle Regioni del Sud. Tutto, ciò attribuisce un potere straordinario agli elettori meridiona­li, un potere che oggi non è «esercitato» da alcuno e che soprattutto non ha portato finora alcun vantaggio al Mezzogiorno. Come si diceva prima, nasce da qui il grande paradosso della politica italiana: negli anni in cui il Sud è diventato decisivo per vincere le elezioni, è stato cancellato dall' agenda politica e marginalizzato dalle strategie e dagli investimenti dei governi nazionali.
Per avere una prova ulteriore - e schiacciante – del ruolo decisivo degli elettori meridionali, basta analizzare l’andamento del voto a Sud nelle elezioni regionali nel periodo 1995-2005. Il centrosinistra ottenne il 30,5% dei voti nel 1995, il 32%  nel 2000, il 36,3% nel 2005: lo spettro d’oscillazione dei consensi ottenuti è incredibilmente forte, pari al 20%. Idem dicasi per il centro destra, che conquistò il 29,9% nel 1995, il 30,5% nel 2000, il 25,9% nel 2005: anche in questo caso il range complessivo d'oscillazione è intorno al 20 % e - per di più - il trend non è in alcun modo costante.
Qualcuno riuscirà, stavolta, a capitalizzare questo «patri­monio politico» a vantaggio del Sud?

Appello alla Generazione Tuareg Riprendiamoci il Mezzogiorno

È essenziale nella politica e nell'ammi­nistrazione un rinnovamento generazio­nale, e questo non si decide per decreto ma solo attraverso un vostro sforzo, un impegno, che bisogna a tutti i costi provocare in un sistema che è ancora molto chiuso.
Il Capo dello Stato Giorgio Napolitano agli studenti universitari di Reggio Calabria, 16 gennaio 2009

E’ UN VERO E PROPRIO APPELLO, questo, rivolto alla «meglio gioventù» meridionale. Scritto da un giovane barese emigrato a Roma diciotto anni fa, a caccia di buona formazione e di sogni da inseguire. E che ha trovato quello che cercava, lontana da casa. Ma - oggi - non si rassegna a fare da spettatore alla rapida agonia del «suo» Mezzogiorno.
E’ un appello rivolto ai tanti Conterronei fuggiti da terre inospitali (e terribilmente cafone) e che oggi affollano imprese e banche, ministeri e giornali, università e centri studi, usano liberamented il loro cervello in centri di (vero o pseudo) potere e hanno trovato pure qualcuno che lo riconosca. Ne incontro ogni giorno a bizzeffe, spesso animati da una rabbia sociale sconosciuta ai loro colleghi romani o nordici, talvolta mascherati dietro accenti improbabili, più spesso sufficiente­mente orgogliosi di radici né esibite né celate.
Centinaia di migliaia di giovani meridionali intrapren­denti, preparati, ambiziosi: gli alfieri della Generazione Tua­reg. Forse cantano sotto la doccia «generazione di fenomeni», probabilmente pensano che una vita così - nel paesello - se la sognavano. Sarebbero loro il tesoro nascosto del Sud, se tor­nassero nelle terre d'origine. Peccato che, di solito, non tor­nano.
Non tornano perché il Meridione di oggi offre chances di (inutile) lotta e non di governo. Ma non tornano soprattutto perché la loro fuga con il diploma in mano è stata, in realtà, il rifiuto di una società meridionale meno libera, più corrot­ta, ancor meno meritocratica di quella settentrionale. Per lo­ro, per noi l'emigrazione è stata (anche) un atto di «ribellione intellettuale», l'ambizione di una vita migliore, l'istinto cru­dele della sopravvivenza alla mediocrità soffocante.
Prima o poi, però, l'anima torna prepotente sulla scena del delitto. E fa vincere la nostalgia sull'oblio, insinuando l'idea della diserzione in patria dove c'era solo la gloria della vittoria in trasferta.
Nascono proprio da questo imprevedibile sentimento l'in­tero libello e il suo appello finale. Un appello apparentemen­te senza senso: collettivo per definizione, è rivolto ad una generazione di solisti e solipsisti, di individualisti nati e cresciu­ti al ritmo di spot televisivo. Ma c'è un tempo dell' affermazione individuale ed uno della speranza comune. E la prima rischia di essere svuotata di senso dalla mancanza della seconda, di offrire soltanto vanto senza identità, avere senza essere.
E allora torniamo a (pensare al) Sud. Per restituire, almeno idealmente, qualcosa di ciò che abbiamo preso e portalo lontano.
Chi può torni indietro: se ha la possibilità di assumere responsabilità, di guidare il cambiamento nel pubblico o nel privato, di mettere competenze, passione e cultura dello ,sviluppo al servizio del Mezzogiorno farà qualcosa di straordina­riamente importante e di incredibilmente appagante, anche per se stesso.
Chi non può tornare a Sud - perché significherebbe com­piere una scelta di apparente eroismo e di reale inutilità - può fare ugualmente qualcosa. Includa il Mezzogiorno nei propri orizzonti d'azione, o semplicemente di riflessione. Agisca per il Sud come un vero agit pro, distante ma non distinto né di­stratto. Ci pensi, ne parli, si sforzi di tener viva nella propria piccola o grande comunità l'attenzione su queste terre che ri­schiano oggi non solo la deriva, ma l' oblio del resto del Paese.
Riprendiamoci il nostro Mezzogiorno. È la missione che le generazioni precedenti hanno clamorosamente mancato. La Generazione Tuareg ha strumenti, passione, sta mina sufficien­ti per farcela. O almeno provarci.

L’INNO
ROTOLANDO VERSO SUD
ogni nome un uomo
ed ogni uomo e' solo quello che
scoprirà inseguendo le distanze dentro se
Quante deviazioni
quali direzioni e quali no?
prima di restare in equilibrio per un po'
Sogno un viaggio morbido,
dentro al mio spirito
e vado via, vado via,
mi vida cosi' sia

Sopra a un'onda stanca che mi tira su
mentre muovo verso Sud
Sopra a un'onda che mi tira su
Rotolando verso Sud

Long way home

Continente vivo, Desaparecido, sono qua
Sotto un cielo avorio
sotto nubi porpora
Mille fuochi accesi
mille sassi sulla via
Mentre un eco piano da lontano
sale su... quaggiù
Un pianto lungo secoli,
che non ti immagini
E polvere di polvere...
di storia immobile


Sopra a un'onda stanca che mi tira su
mentre muovo verso Sud
Sopra a un'onda che mi tira su
Rotolando verso Sud

Long way home

Ogni terra un nome
ed ogni nome un fiore dentro me
La ragione esplode
ed ogni cosa va da se
Mare accarezzami
Luna ubriacami
Rio, Santiago, Lima & Holguin,
Buenos Aires, Napoli
Rio, Bahia, Santiago & Holguin,
Buenos Aires

Sopra a un'onda stanca che mi tira su
mentre muovo verso Sud
Sopra a un'onda che mi tira su
Rotolando verso Sud

Long way home

SOL Y SANGRE, SEXO Y SUR

La dignità degli elementi
la libertà della poesia,
al di là dei tradimenti degli uomini
è magia, è magia, è magia...

RIABILITAZION E (LINGUISTICA)
Lo chiamavano «terrone»: sarà risarcito dal «Corriere della Sera», 20 aprile 2005

OGGI LA CORTE DI CASSAZIONE ha ufficialmente ricono­sciuto che tale termine ha un' accezione offensiva, confermando sentenza del Giudice di Pace di Savona e la decisione che la persona che l'aveva pronunciato debba risarcire la persona offesa dei danni morali.
Manuel, un ragazzo di 18 anni iscritto all'ultimo anno delle scuole superiori in un istituto di Savona, la parola «terrone cui un compagno di classe continuava ad apostrofarlo riusciva proprio a digerirla. Per questo aveva fatto ricorso al giudice di Pace ed era riuscito a ottenere un verdetto favorevole, che gli assegnava un risarcimento di 1.000 euro. A distanza di due anni e mezzo, questi soldi potrà riuscirli a incassarli. La Corte di Cassazione ha infatti respinto, dichiarandolo inamissibile, il ricorso che Luigi, il coetaneo che salutandolo si divertiva a sottolineare ad alta voce la sua origine meridionale, aveva presentato subito dopo la sentenza.
Nel XVII secolo con il termine «terrone» (da terone, derivazio­ne di terra) si indicava un proprietario terriero, un latifondi­sta. Tra le Lettere di Francesco Negri ad Antonio Magliabechi dal giugno I678 al giugno I696, l'erudito bibliotecario Antonio Magliabechi (1633-1714) il cui lascito, i cosiddetti Codici Ma­gliabechiani, costituisce un prezioso fondo della Biblioteca Nazionale di Firenze, scriveva: «Quattro settimane orsono scrissi a Vostra Signoria illustrissima e l'informai del brutto ti­ro che ci fanno questi signori terroni di volerei scacciare dal par­tito delle galere, contro ogni equità e giustizia, già che ho la­vorato tant' anni per terminarlo, e ora che vedano il negozio buono, lo vogliono per loro».


Passioni e ringraziamenti
«WE LOVE SUD» s'intitola il convegno organizzato ogni anno dai Giovani Imprenditori del Sud di Confindustria. Potrebbe essere lo slogan della mia generazione di giovani-vecchi meri­dionali, potrebbe diventare un «grido di battaglia» unificabile: buono per quelli rimasti a costruire vite individuali (e spe­ranze collettive) in Terronia, così come per quelli emigrati a taccia di sfide e fortune in terre più prospere.
I love Sud. E ne approfitto per ringraziare appassionata­mente propri i «miei» Giovani Imprenditori del Mezzogior­no - ai quali dedico questo pamphlet- perché molti di loro mi hanno fatto riscoprire quel benedetto orgoglio sudista, quell’insopprimibile senso d'appartenenza ad una comunità sentimentale, furba e creativa (per necessità più che per virtù), quel «richiamo della foresta» che la precipitosa fuga . la lunga lontananza dal Sud rischiavano seriamente di assopire. A loro va la mia stima e il mio affetto, nella speran­za che non s'arrendano.
Un ringraziamento profondo e sincero - ma decisamen­te più «interessato» (perché non perda la voglia di aiutarmi ancora), (Ira) - va a Bruna Pluchino, giovane brillante che ha strap­pato numerose ore al suo tempo libero per inseguirmi in una giostra impazzita di ricerche dati, analisi, commenti, tutti indispensabili per questo libro. Il suo contributo è stato davvero prezioso, la sua pazienza infinita, la sua passione inesauribile.
L’ultimo grazie è per la comunità degli effetti più cari. Hanno dovuto tollerare reiterate latitanze, assenze improvvise, mal mostose disquisizioni sudiste, affaticamenti e cambi d’umore in quantità industriali. Spero ne sia valsa la pena.

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