venerdì 13 gennaio 2012

ERNESTO GALLI DELLA LOGGIA libro

Ernesto Galli Della Loggia
L’IDENTITA’ ITALIANA

Capitolo primo
UNA STRAORDINARIA POSIZIONE GEOGRAFICA

Non meraviglierà alcuno che per cercare d’intendere l’identità italiana si cominci con la geografia della penisola. Se per ogni paese, infatti, i dati geografici sono sempre significativi al fine di dare conto di aspetti importanti della sua civiltà, della sua storia, della sua antropologia, nel caso dell’Italia tale significatività raggiunge un vertice non facilmente eguagliabile.
Ciò è dovuto al carattere si può ben dire straordinario della posizione che sulla carta geografica occupa il nostro paese, nonché degli aspetti che per conseguenza ne derivano. L’Italia si distingue innanzi tutto per la sua centralità nell’insieme del continente europeo. La sua parte settentrionale, la pianura padana, costituisce il tramite più breve, ed assai facilmente transitabile nell’accesso da oriente, tra la penisola balcanica da un lato e dall’altro la grande propaggine franco-iberica, vale a dire tra il mondo danubiano, il Mar Nero e le grandi pianure dell’est che su di essi gravitano, da un lato, e dall’altro il mondo atlantico. Contemporaneamente, la penisola italiana, con la sua forma allungata costruisce una sorta di grande strada che dalle regioni alpine centro-europee attraversa tutto il Mediterraneo giungendo a breve, o addirittura brevissima, distanza dalle contrade dell’Africa settentrionale e del Levante.

Dalle coltivazioni alimentari al lessico, dalle forme architettoniche agli usi quotidiani, l’Italia ha ricevuto dalla sua peculiare posizione geografica una vastissima molteplicità di apporti, potendo godere tra l’altro, in tempi diversi, della prossimità geografica con i centri d’irradiazione di alcune tra le più importanti forme di civilizzazione dell’emisfero settentrionale: la Grecia classica, Bisanzio, il mondo arabo islamico. Non stupisce che in tanti ambiti sia stata proprio l’Italia il tramite primo, il punto di transito, grazie al quale sono giunte all’Europa continentale cose, conoscenze e culture di origine non europea (tra le quali il pensiero corre subito, naturalmente, alla massima di esse, vale a dire al cristianesimo.

Se dunque è fin troppo ovvio dire che ogni paese è (anche) la sua geografia, nel caso dell’Italia questa constatazione ha però un carattere specialmente vero, principalmente a motivo di una non comune centralità spaziale all’origine di una potenziale latitudine di contatti esterni e di una conseguente molteplicità di apporti, distesi sull’arco di secoli, che non hanno eguali.

Ma tanto più è stata operante questa molteplicità di apporti esterni in quanto ha avuto modo di combinarsi con un altro aspetto della specificità geografica italiana, vale a dire la straordinaria varietà dei quadri ambientali della penisola.
La pur esigua estensione del suo territorio non impedisce infatti all’Italia di avere accanto alla zona alpina e alla montagna appenninica, con temperature minime invernali inferiori spesso a quelle di molte località dell’Europa centro-settentrionale, lunghe fasce subtropicale; di ospitare insieme una grande pianura di tipo continentale con la vocazione alla coltivazione intensiva irrigua ed altrettanto ampie zone collinari dove trovano ricetto ideale le culture tipicamente mediterranee della vigna e dell’ulivo.

L’articolata frammentazione morfologica del paesaggio italiano se è certamente tra le premesse che più hanno contato nel determinare, con la frammentazione antropologica dei tanti gruppi sociali e delle tante società della penisola, anche la frammentazione della sua storia, tuttavia ha rappresentato un motivo capace come pochi di favorire l’arricchimento e la dialettica culturali: si pensi solo alle diverse capacità lavorative e adattative umane che tale diversità di clima e di ambienti ha richiesto, alle diverse forme di vita e di mentalità, di oggetti d’uso quotidiano e di tipologie urbane, che essa ha sollecitato nel corso del tempo.
Non vi è dubbio che la principale  diversità di origine geografica che caratterizza l’Itala sia quella tra il Nord e il Sud della penisola. E’giusto discutere se possano rintracciarsene altre di pari, o almeno paragonabile, importanza, ma la diversità Nord-Sud è di sicuro quella che più immediatamente colpisce l’osservatore e che ha dimostrato anche una più forte capacità di produrre effetti e significati simbolici così marcati e polarizzati da far pensare assai spesso ad una fratture insanabile. Torneremo su tutto ciò in un altro capitolo. Qui ci preme solo sottolineare come proprio la particolare conformazione-collocazione geografica dell’Italia abbia esposto queste sue due parti, pur distanti tra loro solo poche centinaia di chilometri (tra Bologna e Napoli c’è più o meno la stessa distanza che tra Parigi e Lione o tra Amburgo e Stoccarda) ad una pronunciatissima differenza di influenze esterne destinate in certa misura a caratterizzarne per sempre la storia.

Egualmente da sud, dall’oltremare, e più o meno in coincidenza con la nascita della Magna Grecia, giunsero sulle coste dell’Alto Lazio e della Toscana quegli elementi che, innescandosi sulla preesistente cultura villanoviana, diedero vita alla civiltà etrusca destinata, si, a spingersi con alcune punte fino alle rive del Po, ma che si diffuse soprattutto in Toscana, lazio e in Campania, dove si congiunse con la colonizzazione greca. Si formò così quella che uno studioso ha chiamato “una koine culturale greco-tirrenica germinante sotto la comune influenza ionica”.

La causa dell’inclinazione longitudinale dell’asse della penisola, il suo sud è in realtà un sud-est. E dunque è anche un oriente.

L’orientalità geografica del Mezzogiorno italiano dovrebbe forse indurci a pensare in termini di scansioni storiche diverse da quelle cui siamo abituati: per esempio potrebbe indurci a considerare i 2000 anni che vanno dal 1000 a.C. al 1000 d.C. come uno blocco di secoli che vedono, in quelle contrade, 6-7 secoli di dominio romano contrapporsi a ben il “doppio circa di dominio greco prima e bizantino poi (arabo per la Sicilia).

“La Italia è primamente in due parti divisa, cioè nella destra e nella sinistra, secondo il giogo dell’Appennino”.
In realtà, l’idea di un ruolo divisorio forte dell’Appenino non può che tornare di continuo ad affacciarsi essendo fondata su una constatazione geografica e storica indiscutibile, come innanzi tutto è quella circa la difficoltà di comunicazioni tra i due versanti appenninici e la scarsità di rapporti tra la costa adriatica e quella tirrenica.
Le due sponde d’Italia intrattengono relazioni e scambi più frequenti con i paesi rivieraschi stranieri dirimpettai che tra di loro. Livorno è ben più proiettata verso la Spagna, la Francia o il Nord Africa che non, poniamo verso Venezia, così come da sempre Ancona intrattiene rapporti di ogni tipo assai più intensi con la costa dalmata e con l’Egeo che con Napoli. Un’identica peculiarità accomuna infine sui due versanti marittimi l’esperienza di Genova e di Venezia, cioè dei due massimi centri marinari italiani: il fatto è che entrambe rimasero assai a lungo staccate dal proprio retroterra il quale ne alimentò i traffici in misura assolutamente irrisoria.

D’altra parte, solo Venezia e Genova con la loto proiezione marittima erano obiettivamente in grado di offrire al Nord direttrici espansive – una danubiano-balcanica e verso il Levante, l’altra verso lo stesso Levante e poi, a partire dalla seconda metà del ‘500, verso la Spagna – che la presenza di forti statualità immediatamente oltre le Alpi rendeva impossibile cercare altrove. Insomma, fino all’inizio dell’età contemporanea è stato solo grazie alle sue due città mediterranee aperte sul Mezzogiorno che il Nord italiano ha potuto avere l’occasione di partecipare a strategie economico-politiche di grande respiro, ha potuto entrare in circuiti di economie-mondo.

Già l’antico rapporto privilegiato di Roma con il Mezzogiorno, nonché gli ancor più antichi legami in età preromana della Magna Grecia con il mondo etrusco avevano dato una forte spinta allo spostamento verso sud del baricentro della penisola. Ora, in età medievale e moderna, a tutto ciò si accompagna la pronunciata mediterraneizzazione dell’Italia continentale in virtù della crescita di potenza e di dinamismo economico-politico, alle sue estremità orientale ed occidentale, dei due centri rivieraschi della Serenissima e della Dominante.

Proprio il ruolo centrale svolto da Veneto e Liguria in questa peninsularità mediterranea rende quanto mai superficiale l’ipotesi, che oggi soprattutto si va diffondendo, di una distinta vocazione geografica del Nord e del Sud del paese, di un loro supposto e contrapposto destino storico. Invece, se mai vocazione e destino indicano qualcosa essi indicano mille ambiti di interdipendenza e di integrazione. Le diversità, le pur fortissime diversità che in queste stesse pagine sono state sottolineate, lungi dal contraddire tali interdipendenza e integrazione ne sono viceversa la necessaria premessa.

Da una parte considerevole delle classi dirigenti postutinitarie la mediterraneità italiana è stata considerata, infatti, non tanto e non già come un prezioso retaggio di rapporti con la penisola balcanica e quella iberica, non tanto e non già come un’indicazione a fare del legame con il mare un momento importante dell’identità del paese, e neppure come l’esigenza che la penisola si sforzasse di rappresentare più e meglio di altri paesi il volto e insieme il braccio mediterraneo dell’Europa. Quella mediterraneità è stata sentita invece come richiamo ai miti del “mare nostrum” e della “quarta sponda”, come un invito impellente ad uscire dal nostro continente e a spaziare tra l’Africa, Mar Rosso e Medio Oriente all’inseguimento di progetti colonial-imperialistici; come la vocazione a lasciarsi l’Europa alle spalle e a trovare fuori di essa il senso più vero della propria storia.

L’Italia non ha mai avuto la fortuna di essere occupata per intero da un medesimo invasore.
La pertinenza del suo pur così limitato spazio a due universi geografici diversi – quello continentale e quello mediterraneo – ha avuto come risultato, infatti, che invasioni da nord si siano giustapposte a invasioni da sud, che sfere d’influenza transalpine (francese o austriaca) si siano contrapposte a sfere d’influenza d’origine trans marina (spagnola), in una perenne in componibilità geopolitica.

In Italia, l’accessibilità umana e la permeabilità culturale, unendosi alla incomparabile varietà delle morfologie geo-ambientali ed al precocissimo immane, deposito storico culturale, hanno prodotto piuttosto una capacità di adattamento, una plasmabilità e ricettività dei quadri mentali e dei modi espressivi, una propensione al sincretismo, una mobilità dello spirito, una disponibilità a immaginare e a trovare (e però subito dopo anche ad abbandonare ciò che si è appena trovato), che ne bene e nel male – nel molto bene e nel non poco male – possono essere considerati tutt’insieme un tratto dell’identità del paese.

Ma via via che ci sia allontana nel tempo dal mondo classico e dalla sua influenza, e che sull’Italia si posa lo sguardo degli uomini del Nord, degli uomini che vengono dalle grandi pianure, dall’ubertosa Europa dei fiumi l’immagine cambia. L’Italia non appare più alla stregua del paese fortunato e ricco sopra ogni altro, bensì una contrada tutt’altro che fortunata: e di ciò suona ora conferma quell’affermazione famosa di Guiacciardini, pur fatta a suo tempo a vanto, che l’Italia già da generazioni fosse coltivata fin sul dorso dei monti. Ora, fuori dalle chiese e dai palazzi sontuosi, accanto ai miracoli d’arte custoditi nelle città, si apre lo spettacolo della povertà italiana, tanto più forte ed evidente quanto più il resto del continente si avvia allo sviluppo che culminerà nell’industrializzazione.
Il centro di questa povertà è occupato – e lo sarà sempre di più con il passare del tempo – dalle condizioni dell’agricoltura dai contadini che l’avarizia dei suoli, la durezza dei rapporti di proprietà e il generale malgoverno dei piccoli e grandi signori della penisola, rende assai spesso simili a una plebe spoglia e brutali.

E’ un’immagine in cui la povertà naturale è insieme causa e effetto di quella socioculturale e si combina ad essa inestricabilmente. Un’immagine che assimila ma a propria volta modella anche, e rafforza in misura potente, il dato geografico, ad esempio fissando la contrapposizione nord-sud in uno stereotipo della coscienza nazionale con tutto ciò che ne segue; il Mezzogiorno, e dunque il mediterraneo, come destino negativo della vicenda italiana, dal quale fuggire.

Nell’Italia meridionale e in alcune grandi isole del Nord tocca dunque l’apice la povertà italiana, le cui radici affondano nella scarsità delle produzioni agricole e nella piccola quota di surplus che anche in ragione dei rapporti di proprietà remunera le classi contadine. Essenzialmente è una povertà contadina e di contadini, e tale resterà fino alla metà di questo secolo. Oltre che l’immagine essa segna nel profondo l’identità del paese e l’antropologia dei suoi abitanti. La presenza di un contesto agricolo capace di produrre un surplus ma in larga parte solo con un duro intervento dell’uomo, per esempio sollecita da un lato l’emergere di capacità manipolative, le conoscenze diffuse delle tecniche e dei materiali, di inventiva, che sono all’origine di certa tradizionale eccellenza italiana nelle attività artigianali e nel disegno, dall’altro una, anch’essa tutta italiana, “arte di arrangiarsi” cioè la consapevolezza di dover contare al massimo grado, se non esclusivamente, sulle proprie personali doti di immaginazione e sulle proprie risorse.

La realtà e l’immagine di un’Italia povera e contadina, di un “umile” Italia, costituiscono una delle raffigurazioni (e auto raffigurazioni) del paese di maggiore fortuna e diffusione.

Come si è detto sopra, oltre la povertà c’è un altro aspetto assai importante dell’identità italiana connesso strettamente alla conformazione fisica della penisola: la bellezza. L’Italia è il “bel paese” per antonomasia; “ .. il talian giardino chiuso d’intorno dal suo proprio mare” scrive all’inizio dell’era volgare Bindo di Cione del frate, mentre per una celebre enciclopedia medievale, quella di Pierre d’Ailly, l’Italia è la “terra pulcherrima, soli fertili tate pabilique ubertati gratissima”, la terra bellissima, piacevole per la fertilità del suolo e l’ubertosità dei suoi pascoli.
Innumerevoli sono sin dai primordi gli osservatori e i visitatori cui viene spontanea sulle labbra, parlando dell’Italia, la metafora celeberrima del giardino che per l’appunto farà dell’Italia stessa “il giardino d’Europa”: “percorrerò la divina penisola rapidamente … come un uccello su un giardino” – annota lo scrittore nicaraguense Ruben Dario al principio di questo secolo.

Va annoverato innanzi tutto la straordinaria, avvolgente molteplicità dei paesaggi più diversi, così rapidamente avvicendantisi gli uni agli altri, talora nello spazio di pochi chilometri. Specie nel rapporto acqua terra il contrasto può raggiungere effetti di grande impatto visivo ed estetico.

Ma per quanto possa poggiare su un fondo naturale drammatico, la bellezza del paesaggio italiano trova una misura così sua di raddolcimento, che ne afferma e proclama il carattere benigno, nell’antropomorfizzazione dei quadri ambientali.

E proprio a ciò il paesaggio della Toscana deve il suo eccezionale prestigio: all’apparire l’esempio perfetto di una natura benigna all’uomo e alle sue opere, di una natura che sollecita ed integra la civilizzazione, non la contrasta; sicché il rapporto tra città e campagna vi appare quasi sempre composto in una prospettiva di sostanziale armonia e di reciproco arricchimento anche estetico.

L’incontro tra natura e storia dà alla prima una qualità del tutto speciale conferendole un’aura “colta” che mentre ne accresce le valenze estetiche ne dilata altresì gli echi psicologici.

Capitolo secondo
QUEL CHE RESTA DEL TEMPO: L’EREDITA’ E IL RETAGGIO CATTOLICO

Nulla ha segnato così profondamente e definitivamente l’identità italiana – tanto la fisionomia fisica del paese e il suo volto esteriore, quanto la sua anima e la sua cultura – come la concomitante presenza nella penisola di Roma e della sua eredità, da un lato, e della sede della Chiesa cattolica dall’altro.

Il sovrapporsi di civiltà romana e di cristianesimo cattolico sul suolo della penisola hanno rappresentato per l’Italia un deposito storico di tale spessore e prestigio da riverbarsi sulle sue vicende in modo e misura assolutamente unici e decisivi.

E’ accaduto così che per secoli e secoli – e fino al punto di ricavarne una sorta di vera e propria identità originaria – la cultura italiana e le traduzioni politiche cui essa di volta in volta ha messo capo e ha ispirato, si siano dibattute nel compito impossibile di pensare un’Italia “in grande” che fosse degna erede del suo passato

E’ comunque al di là certamente delle mitologie colte e dei loro vari esiti che si colloca l’ispirazione principale proveniente dal passato romano, rappresentata dalla coscienza dell’unità non meramente geografica della penisola.

Un lascito culturale romano, qualcosa che proviene direttamente dalla sua tradizione, è per l’appunto la coscienza che la penisola costituisca qualcosa di unitario.

Mise radici l’urbanizzazione della penisola, connotato unificante dell’Italia destinato a restare tale fino ai giorni nostri. L’immagine dell’Italia femminile e turrita (a mura di città), di un’Italia urbana.

Naturalmente, quello urbano è un connotato unitario e unificante, ma – come accade sempre nel nostro paese – anche diviso. L’Italia delle “cento città”, che risale a Roma e soprattutto alle massicce opere di urbanizzazione del I secolo a.C., è si un insieme ma un insieme che rimanda anche, contemporaneamente, l’immagine di una forte segmentazione e distinzione delle varie parti.

Il retaggio romano appare determinante riguardo all’identità italiana.
Ma esso va ancora oltre, molte oltre. Tocca per esempio l’ambito cruciale della più intima espressività rappresentato dalla liguria. L’italiano non è certo l’unica lingua romana, ma sicuramente è quella che intrattiene con il latino un rapporto culturalmente più intenso in ragione del rapporto forte tra la cultura italiana e il retaggio classico.

E’ dalla scoperta del diritto romano che ha inizio in Occidente l’uso politico-amministrativo della legge da parte dello Stato quale strumento per la definizione e risoluzione del conflitto, e comincia pertanto il rapporto d’integrazione tra giustizia e potere politico.

Nell’Italia popolare, nel suo immaginario simbolico, la legge rimarrà sempre cosa da Azzeccacarbugli. Linguaggio criptico, e perciò bugiardo, di un potere rivolto solo a ingannare e spogliare i deboli. Ogni moderna cultura democratica troverà sulla propria strada il macigno di questa immagine tenace, il cui esito obbligato sarà, insieme all’illegalismo – o forse meglio, alla legalità di massa, una diffusa concezione anarchicheggiante, consistente nell’idea che il potere rappresenti inevitabilmente qualcosa di cattivo che per il principio va contrastato, e da cui comunque è meglio stare alla larga.
Se sugli strati inferiori della società così agisce il lascito di una pratica della legge che si presenta come astratta e lontana dall’esperienza quotidiana, non meno negativo è l’effetto sugli strati superiori, sulle classi dirigenti. Qui la tentazione a travestire di legge il proprio arbitrio si mischia e fa tutt’uno con l’arroganza classista di chi sa essere padrone di uno strumento di dominio sociale che egli solo detiene.

Entrata sulla scena della grande storia con questo viatico, la fede cristiana nella sua confessione cattolica ha rappresentato, per un lungo numero di secoli, l’unico tratto effettivamente comune all’intera umanità italiana e quindi, si può ben dire, l’unico aspetto unificante della penisola, l’unico elemento davvero “italiano”.

Esso ha avuto modo d’influire tanto sull’atteggiarsi dei costumi popolari, sulla più minuta quotidianità delle vaste masse, che sui modelli di pensiero ed i comportamenti dei gruppi dirigenti. In un ambito come nell’altro, il cattolicesimo ha determinato tratti decisivi della visione del mondo, del sentimento della vita, della sensibilità morale, del gusto.

Il nesso particolarmente stretto tra la Chiesa e l’Italia ha un suo snodo cruciale nel fatto che per ben 700 anni circa – per il lungo arco di tempo che va dalla metà del secolo alla fine del XII, cioè dalla caduta dell’impero d’Occidente all’emergere pieno nel Nord del potere comunale – l’organizzazione cattolica incarna il solo potere pubblico di origine e struttura indigena esistente nella penisola.

L’effettiva cristianizzazione dell’Italia, cioè della campagne, avviene specialmente grazie ai monaci e ad una rete capillare di chiese – le pievi, dal latino plebs – adibite a tutti gli uffici e le funzioni della cura animarum a cui le altre chiese non erano autorizzate, e appositamente destinate alle zone rurali.

Nell’esperienza comunale italiana il cristianesimo assume valore e significato di religione civica, si compenetra di politica, è motivo e pretesto di unità e insieme di spirito di fazione (si pensi alla storica divisione tra guelfi e ghibellini).

Su questa presenza della Chiesa e del cristianesimo che per sedici secoli aveva avuto modo d’intrecciarsi così strettamente e in un così alto numero di forme con l’identità italiana, sopraggiunse la Controriforma.

L’azione di disciplinamento cui essa sottopose la vita quotidiana delle classe popolari, nonché il richiamo da essa rivolto a una certa decenza di comportamento nelle classi dirigenti, non furono cose in sé negative. Tutt’altro! Negativi, invece, assai negativi, furono i modi sociali e psicologici attraverso i quali ciò avvenne – la paura del castigo, il prevalere dell’obbedienza sulla coscienza, cioè l’abitudine ad assentire senza consentire, dunque alla doppiezza e alla dissimulazione – e il carattere che da quei modi derivò assai a lungo al cattolicesimo italiano; il carattere di una religiosità perlopiù formale, ritualistica, deresponsabilizzata, alla fine vuota.

A tale proposito sono stati più e meno direttamente imputati, di volta in volta, il ritardo dell’unità nazionale e la debole moralità pubblica degli italiani, la loro irreligiosità mascherata di superstizione e l’inclinazione bellettristica mascherata di superstizione intellettuali, la “decadenza”, e molte e molte altre cose ancora.

Capitolo terzo
LE MILLE ITALIE

Il 20 settembre 1870, allorchè le truppe del regno d’Italia, costituitosi neppure un decennio prima, entrarono in Roma ponendo fine al dominio temporale dei Papi, terminò anche la condizione di frantumazione statale e di profonda instabilità geopolitica che si era aperta con le invasioni barbariche e che aveva caratterizzato la penisola per circa quindici secoli.
Questa condizione di mancata unità, o per dir meglio di divisione, ha avuto un’importanza enorme, come si sa, nel fondarne l’identità, tanto più che essa si è accompagnata fin dall’inizio all’immagine di un paese aperto alle invasioni esterne, facile preda per chiunque desiderasse stabilirvi il suo dominio, proprio perché costui avrebbe sempre potuto contare su qualche alleato dentro la penisola pronto a spalancargliene le porte.

Divisione, ingerenza straniera e ruolo del Papato si sono così venuti a saldare nell’immagine complessiva dell’Italia come teatro di una vera e propria catastrofe geopolitica; la quale non sarebbe altro, in un certo senso, che la prosecuzione, l’effetto prolungatesi nel tempo, di quell’altra e originaria catastrofe rappresentata dalla caduta dell’impero romano.

L’Italia tuttavia alla fine fu creata, fu creato cioè uno Stato unitario più o meno corrispondente all’intero spazio geografico italiano. Ma proprio le modalità di tale processo rivelano in pieno, grazie al loro carattere singolare, quanto colma d’incongruenze fu l’unificazione e perciò quanto stentata e faticosa doveva essere la vita.

Da un punto di vista geolitico il nostro processo di unificazione si realizza, invece, a partire da un bordo estremo della penisola, da quel Regno di Sardegna che addirittura, con Nizza e Savoia, gravita ancora in parte verso la Francia (il cui aiuto diplomatico militare, non si dimentichi, si rivela decisivo: è un caso di intromissione dall’esterno negli affari italiani sui generis, se si vuole, ma sempre di intromissione trattasi, e conferma anche nel momento della sua indipendenza la forte assenza di autonomia geopolitica della penisola).

La statualità si costruisce per l’appunto lungo un asse tirrenico, tra Torino e quello che ormai da secoli era il “Regno” per antonomasia, il Regno del Sud. E’ nel saldarsi di tale asse grazie alla spedizione dei Mille da piemontesi - che risiede il fulcro degli eventi il cui precipitato inarrestabile è l’unità. Ciò vale dunque sul piano geopolitico ma anche per ciò che riguarda le culture politiche e giuridico-amministrative. Piemontesi, è vero, sono i codici, l’insieme delle strutture burocratiche e tante altre cose, ma si pensi all’importanza  dell’hegelismo napoletano per tutto il liberalismo post-cavouriano, o più in generale a quella cultura “alta” dello Stato, e insieme dello Stato forte - dunque non scevra di fremiti autoritari - così tipica della tradizione meridionale e che, grazie specialmente al siciliano Francesco Crispi, animerà istituti, comportamenti amministrativi e produzioni legislative, d’importanza decisiva per l’Italia unita.
Proprio l’accenno a Crispi suggerisce un ulteriore parallelo tra le due culture dello Stato che vedono la luce della penisola. In entrambi i casi - Torino e Napoli - si tratta di monarchie alla cui crescita di cultura giuridica ed amministrativa, di sapere statale, se così può dirsi, non è estraneo il rapporto di dominio da esse stabilito con le due grandi isole italiane, rispettivamente la Sardegna e la Sicilia (a sottolineare, tra l’altro, la valenza “tirrenica” del loro incontro nel 1860). E’ come se in entrambi i casi il rapporto con una realtà diversa da quella dei possedimenti di terraferma, unito alle multiformi esigenze di controllo sociopolitico, avesse avuto una parte non trascurabile nello sviluppare una capacità di produrre strumenti conoscitivi e di regolamentazione nonché procedure operative d’intervento, di valore strutturante ai fini della formazione di una statualità.

Anche il comunismo italiano nasce nel Regno di Sardegna. Torino ne è la culla, con il gruppo dell’Ordine Nuovo, e anche’esso diventa davvero cultura nazionale grazie all’incontro che riesce a realizzare con un elemento napoletano, vale a dire con Benedetto Croce, custode simbolico della cultura dello Stato propria della Destra storica e della tradizione risorgimentale. Il Partito Comunista, con il suo forte orientamento alla statualità, è per l’appunto il frutto dell’amalgama tra la tradizione ordinovista-leninista torinese (Togliatti) e l’idealismo di matrice crociana disancoratosi dall’approdo liberale (Giorgio Amendola).

Ma non solo l’unificazione italiana si compie senza un centro; non appena compiuta essa cominciò subito ad apparire un edificio senza solide basi per la troppa diversità delle sue parti costitutive e in specie del Sud rispetto al Nord. Nella celebre esclamazione che in una lettera del 27 ottobre 1860 a Cavour esce dalla penna di Luigi Carlo Farini, da pochissimo giunto nell’ex Regno di Napoli che egli si appresta provvisoriamente a governar come Luogotenente di Vittorio Emanuele: “Che Barbarie! Altro che Italia! Questa è Africa: i beduini a riscontro di questi cafoni, sono fior di virtù civile”, in questa esclamazione, dicevo, ci sono già tutti gli elementi che formeranno lo stereotipo antimeridionale che il resto del paese applicherà al Sud, ricambiato da quest’ultimo, del resto, se non del medesimo disprezzo, certamente del medesimo sentimento di estraneità.
Un’estraneità che certo era esasperata e destinata ad apparire irrimediabile anche per effetto della contrapposizione violenta subito sorta tra il nuovo stato sabaudo e larga parte delle masse contadine meridionali, ma che poggiava comunque su una reale, ampia, diversità di natura, di costumi, di storia.
Sta di fatto che, sorta da tale drammatica diversità immediatamente la bipolarità Nord-Sud, con la sua altissima potenzialità disgregativa dell’unità appena realizzata e dunque con l’allarme che suscitava, valse a cancellare, a rendere del tutto secondaria, e perciò inesistente come problema, tutta la variegata molteplicità italiana che era confluita nella costruzione unitaria, tutto l’imponente fenomeno di policentrismo urbano-regionale che in tale costruzione pure si ritrovava con l’intero peso della sua tradizione antichissima.
Si delinea in tal modo un fatto decisivo: la tendenziale cesura tra l’identità nazionale e l’identità italiana, cioè tra il modo di nascita e di essere dello Stato nazionale e il passato storico del paese, divenuto la sua natura.

Anche per questa via, dunque, l’incontro-scontro tra le due macro diversità rappresentate dal Nord e dal Sud annulla e mette a tacere tutte le altre minori diversità (e idiosincrasie). Non da ultimo perché solo quella si associa fin dall’inizio alla percezione di una diversità erico-antropologica così radicale da farne il punto critico per antonomasia della problematica identità nazionale italiana.

Già ho detto della oggettiva frattura tra identità nazionale e identità italiana che ha prodotto questa cancellazione di fatto della diversità legata allo straordinario policentrismo urbano della penisola.

Il localismo, ad esempio, è stato rifiutato e sacrificato, ma il centralismo, a sua volta, poggiando su basi fragili, per certi versi addirittura inesistenti, non ha avuto modo di affermarsi davvero e ha dato vita a contraddizioni senza fine. Esso si è rivelato un centralismo in larga misura per modo di dire, ma proprio per questo, come ha acutamente osservato Raffaele Romanelli, la pubblica opinione, rimasta organizzata attorno a valori e interessi “locali”, ha sentito (e denunciato) come viepiù intollerabili gli sforzi di nazionalizzazione compiuti al centro, destinati a ben scarso successo. La forza tuttora vivissima dell’impronta locale sulla vita italiana la sua crescente combattività politica dimostrano che l’unificazione della penisola è stata “contemporaneamente così debole da risultare in gran parte inefficace e così energica da moltiplicare l’avversa reazione del paese e da rafforzare i secolari sentimenti particolaristici.

L’unità della penisola, stabilitasi con il dominio romano (anche se in maniera assai meno lineare e coerente di quanto di solito si creda) si rompe con la crisi di tale dominio, e immediatamente si crea quello che sarà il segno più evidente e duraturo della divisione geopolitica italiana: il distacco del Sud dal destino del resto del paese (o il contrario naturalmente, se si preferisce), distacco che acquisterà carattere radicale allorché nel 1130 la neo arrivata dinastia normanna, dopo aver messo fine ai processi bizantini ed arabi risalenti a cinque o sei secoli prima, nonché ai ripetuti tentativi degli imperatori tedeschi di porre sotto il proprio dominio anche l’Italia meridionale, riesce a riunire in un solo regno la Sicilia, la Calabria e la Puglia. Da quel momento in avanti, fino al 1860, l’intero Mezzogiorno d’Italia conserverà, a parte la parentesi aragonese in Sicilia, una sua omogenea identità politico-amministrativa. Esso sarà “il Regno” per antonomasia, diventando a scadenza fissa terra d’insediamento di qualche casata straniera o, dalla metà del ‘500 alla metà del ‘700 circa, possedimento della corona di Spagna, e perciò senza riuscire ad apparire mai suscettibile di rappresentare il nucleo di una potenziale monarchia nazionale. Infatti, per far fronte al potere baronale ed alle sue pretese, i centri urbani meridionali – comunque, col tempo assai meno floridi, sviluppati e numerosi di quelli del centro-nord – si abituano a vedere nel potere centrale l’interlocutore ad essi favorevole. Nel Mezzogiorno, dunque, il municipalismo non ha modo di mettere radici; al posto di un’ideologia dell’autogoverno cittadino e delle sue prerogative, le oligarchie locali sviluppano piuttosto un’ideologia di ceto centrata soprattutto sulle professioni giuridiche, con uno spiccato orientamento allo Stato spesso non immune da un vivo senso di fedeltà dinastica. E’ per l’appunto questo l’insieme di modelli sociali e culturali che nel 1860 mostreranno di potersi combinare abbastanza bene con quelli sabaudo-piemontesi entro la cornice dello Stato unitario.
Nulla di analogo accade invece per il localismo sviluppatosi nell’area centrale e soprattutto settentrionale della penisola, e che, come è noto, si manifesta per larga parte nell’esperienza della civiltà comunale, vale a dire in una delle massime peculiarità dell’identità storica italiana.

Il potere di autogovernarsi che comunque caratterizza il Comune non andò mai disgiunto insomma, né dall’esercizio oligarchico del potere né dall’articolazione fazionale e dal vincolo di consorteria.

In conclusione, il Comune – o per dir meglio la città organizzata al suo interno secondo il modello comunale, ed egemone rispetto alla campagne circostanti, sottratte al feudalesimo imperiale per essere assoggettate ai signori fondiari cittadini – tale città rappresento senza dubbio un momento cruciale nella formazione della moderna identità italiana, la risposta prima e più incisiva alla catastrofe geopolitica determinata dalla caduta dell’Impero romano. Si trattò di una risposta che, lungi dall’andare in senso contrario alla frantumazione della penisola inauguratasi tra il V e il VI secolo, ebbe l’effetto di accentuarla ulteriormente, contribuendo non poco a renderla definitiva.

Allora, essendosi fatte le città d’Italia oltremodo temerarie a causa dell’assenza del re, presero furiosamente a combattersi veneziani contra ravennati, veronesi e vicentini contro padovani e trevigiani, pisani e fiorentini contro lucchesi e senesi, mettendo a soqquadro quasi tutta l’Italia con stragi, saccheggi ed incendi.

Il localismo dell’Italia centro-settentrionale prese avvio e si mantenne in questo quadro di lotte intestine e tra confinanti, in un ridda di leghe, alleanze e contro-alleanze, finché la pressione espansionistica proveniente dagli attori esterni alla penisola ben più forti ed agguerriti, non ebbe su di esso la meglio, come prima o poi non poteva accadere. Rovinoso dunque come soluzione del problema geopolitico italiano, il localismo centro-settentrionale costituì però un momento alto, assai alto di accumulazione di risorse e di conoscenze, di costruzione culturale, e infine di sviluppo di un’identità civica.

Grosso modo da Roma in su l’Italia è dunque una terra di città, ognuna legata intimamente al proprio contado in un vincolo di identità e di cultura civica comuni, disposta ognuna a guardare a sé come al centro di un mondo, come al centro del mondo.

Questo fa che gli uomini non si possano facilmente disgregare da quei loro centri naturali. Chi in italia prescinde da questo amore delle patrie singolari seminerà sempre nell’arena”. Un’osservazione, questa di Cattaneo, che se contrasta radicalmente con ogni ipotesi e realtà centralistica, si contrappone anche, a ben vedere, al regionalismo. Invero, alla luce delle secolari vicende della penisola le regioni tranne casi rarissimi, non sembrano possedere molte maggiori realtà e spessore storici di quanto possa vantare lo Stato unitario. E’ la città con il contrado, dunque è semmai la provincia la vera e originale cellula storica dell’aggregazione socio-territoriale italiana: quella provincia che però, paradossalmente, oggi non sembra stata a cuore ad alcuno dei tanti “federalisti” e decentratori d’accatto di cui sono piene le cronache politiche.
Comunque l’unificazione del 1861 fu realizzata prescindendo da ogni patria singolare. L’asse Torino Napoli, lungo il quale essa vide compiersi l’ultimo e decisivo suo atto, costituiva anzi, in certo senso, proprio l’alternativa storica all’Italia delle città, e cioè le due esperienze che a loro modo più potevano considerarsi simili a quella delle grandi statualità europee e certamente più lontane dall’esperienza urbano-comunale.

Le élite settentrionali, e di quest’area specialmente, si sono dimostrate nel lungo periodo troppo attratte e distratte dalla forte e lucrosa autopropulsività economica del loro territorio per decidere di allocare tempo e risorse in modo non episodico in altre attività .

In Italia, dunque, geografia dello Stato e geografia della società non si incontrano. In generale, tutta l’offerta di novità politiche degli ultimi centoventi anni appare concentrata nell’area centro-settentrionale del pluricentrismo urbano (a cominciare dalle culture politiche per così dire “storiche” della modernità italiana – socialismo, cattolicesimo, fascismo – fino alla Repubblica e in tempi più vicini a noi della Lega) ma questo pluricentrismo non sa, non vuole, e comunque non riesce a “farsi Stato”: certamente per propria incapacità a pensare in termini adeguati la dimensione di una statualità diversa, ma anche per la resistenza passiva che il mezzogiorno si è ogni volta mostrato capace di opporre.

Milano però – come dimostra tutta la sua moderna vicenda culturale nei suoi punti alti – da Gioia a Romagnosi, a Cattaneo – anziché credere alla “grande” politica, alle sue capacità mediatrici e allo Stato, appare sempre tentata dall’utopia di una totale riduzione della società politica nella società civile, all’insegna naturalmente della produzione e della buona amministrazione. Appare credere, semmai, all’antipolitica.

Il venir meno per ragioni diversissime – e con modalità ed effetti anch’essi naturalmente diversissimi – di Milano e di Roma in un loro potenziale ruolo di saldatura tra asse tirrenico e triangolo padano-orientale ha contribuito non poco a lasciare aperto nella vicenda italiana un vuoto assai ampio tra la sfera della statualità e quella della politica.

Capitolo quarto
UN INDIVIDUO TRA FAMIGLI E OLIGARCHIA

L’individualismo ma insieme anche un radicato, radicatissimo, familismo, sono questi i due principali caratteri del modo sociale d’essere degli italiani che ci vengono più frequentemente rimandati dallo sguardo dell’osservatore straniero e al tempo stesso da una lunga tradizione di autocoscienza nazionale.

Questo italiano sarà dunque individualista – perché l’individualismo è per l’appunto l’espressione più ovvia dell’immediatezza e della spontaneità – ma al tempo stesso amante del gruppo chiuso (della famiglia, del ceto, della corporazione) dominato da regole antiche.

Dopo Leonardi, constatare l’assenza dell’individuo moderno dal panorama italiano è diventato un autentico leitmotiv della nostra autocoscienza nazionale (si pensi alla centralità del problema nella Storia di De Sanctis).

E’ la politica – cioè l’immissione nell’agire politico di masse consistenti di uomini e di donne – l’aspetto peculiare della modernità che ha fatto difetto all’Italia.

Nei secoli successivi, infatti, con l’inizio della preponderanza spagnola nella penisola, l’irrigidimento controriformistico, il decadere delle attività mercantili e la conseguente riconversione della ricchezza alla proprietà terriera, il potere italiano si restringe e si concentra, la vecchia tradizione oligarchica si rafforza, viene cancellata ogni residua presenza “popolare” negli ordinamenti cittadini.

La decadenza economica e la sostanziale, generale, perdita d’indipendenza degli Stati italiani spinge i patriziati urbani, le schiere sempre più folte dell’aristocrazia terriera, i gruppi burocratico-militari e finanziari fiduciari della Spagna a cercare di allargare ancor più il proprio comando per allargare ulteriormente i margini del proprio reddito e del proprio prestigio sociale.

Questo modo d’essere della politica è l’esatto opposto del machiavelliano “vivere politico”, ed è questo che fa terribile difetto nell’esperienza italiana: la politica pensata ed agita come definizione (e realizzazione) dell’interesse collettivo, naturalmente attraverso la composizione di una serie di interessi particolari.

Vengono a mancare, dunque, per conseguenza, il retroterra di socialità, le esigenze di mobilità, di studio, di scambio, che rappresentano il necessario corollario della politica intesa come “vivere politico”.

Insieme all’assenza della politica, l’assenza di un secondo fattore decisivo la cultura.

Un paese senza grammatiche né vocabolari, senza storie, senza atlanti, senza cioè nessuno degli strumenti elementari per conoscere e capire se stessi e il mondo.
Sulla scena italiana, dunque, si sommano, sostenendosi e rafforzandosi a vicenda, due storiche assenze; quella della politica e quella della cultura.

La non avventura rottura di cui ora si è detto, questo mancato passaggio tipico della modernità, sono destinati a segnare l’identità italiana: in Italia l’evoluzione storica lungi dal liberare gli individui (e creare la loro socialità), li lascia veceversa per così dire rinchiusi in due strutture tipicamente ascrittive che sono ancora oggi bene al centro del nostro panorama sociale: l’oligarchia e la famiglia.

E’ proprio nell’ambito della città comunale, peraltro, che ha modo di manifestarsi quella che può essere considerata l’altra faccia in certo senso inevitabile dell’oligarchia e anch’essa non a caso tipica della vita italiana: la situazione fazionale, che ha nei Guelfi e Ghibellini una sorta di paradigma permanente.

L’oligarchia italiana, infatti, è sempre un’oligarchia di famiglie, fa corpo con la struttura familiare, confermando l’assoluta centralità di tale struttura nel panorama sociale della penisola. Si può anzi dire che l’oligarchia non sia altro, in un certo senso, che la prosecuzione coerente sul terreno del potere di una società articolata.

Il modello di un piccolo gruppo sociale, coeso, legato da vincoli di fedeltà personale che affondano, o trapassano, nella consanguineità di vario livello, fino al madrinaggio o al semplice patronage.
In un contesto giuridico, ma non solo, reso tradizionalmente incerto dalla storica latitanza di una forte autorità statale, nonché da un’accentuata frantumazione della sovranità, il piccolo gruppo coeso di cui la famiglia è il prototipo e l’esempio massimo si rivela, per l’individuo, una sorta di struttura di servizio tuttofare di enorme valore, che conserverà tale caratteristica nei contesti più diversi e fino ai giorni nostri.

La famiglia rappresenta quello che potrebbe essere definito il massimo spazio vocazionale dell’agire collettivo italiano, che in questo si adegua certo ad un modello diffuso in tutto il bacino mediterraneo, ma con una multifomità e vastità di applicazione altrove sconosciute.

E’ in questa dimensione, della famiglia, della banda, dei rapporti formali, tipica delle grandi organizzazioni, che essi si sentono in genere sollecitati a dare il meglio di sé, probabilmente trovando in quella dimensione l’equilibrio più appropriato e congeniale tra il principio gerarchico da un lato e la preservazione dell’individualità dall’altro.

La straordinaria capacità di combinazione e di adattamento dimostrata per secoli in Italia da queste tre strutture – la famiglia, l’oligarchia, la corporazione – illustra aspetti decisivi dell’identità della penisola, radicare predisposizioni storiche della società italiana.

La forza della struttura familiare oligarchico-corporativa dipende, e insieme testimonia, del maggiore valore che la società italiana è storicamente disposta ad attribuire alle norme di quel tipo, ed emanare in quell’ambito, anziché a quelle di derivazione statale.

Anche da questo punto di vista lo Stato, insomma si conferma come il grande assente della scena italiana.

Se è vero che nell’Italia attuale si può benissimo essere familisti e moderni, localisti e ispirati alla più adamantina coscienza civile, tuttavia è disgraziatamente anche vero che si può essere le due cose (cioè moderni e orientati al civismo) senza tuttavia sentirsi per nulla italiani, vale a dire senza provare la minima identificazione con le istituzioni e con il sistema politico del paese.

Alla fine si ripropone sempre la domanda: a cosa far risalire a loro volta limiti e contraddizioni della statualità italiana se non all’ambiente sociale nel quale essa vide la luce e fu costretta a muoversi?.

In Italia la dimensione moderna dello Stato rappresentata dallo Stato unitario ha trovato per l’appunto un limite invalicabile nei tenaci modi d’essere della socialità della penisola, incardinati nei diversi particolarismi, in quello geografico come in quelli socioculturali.
Nell’unificazione e nei suoi processi si è rispecchiato in maniera esemplare il rapporto con la politica della tradizionale socialità italiana imperniata sulla triade famiglia oligarchia-corporazione; e tanto più ciò è accaduto quanto più l’unificazione, almeno potenzialmente sembrava mettere in questione proprio il particolarismo urbano-centrico che costituiva insieme l’esito e la premessa della socialità di cui sopra.

Anche la socialià boghese, infine, nasce in Italia riprendendo il contenuto oligarchico di quella aristocratica, al più limitandosi a tradurlo nei termini all’apparenza aggiornati del notabilato. Tutto sembra indicare, insomma come in Italia vi sia stata una complessiva forte subalternità del modello borghese a quello nobiliare, una continuità, un osmotico travaso dall’uno all’altro, di cui potrebbe essere considerato quasi il sombolo la corsa al titolo nobiliare, verificatasi ben addentro al ventesimo secolo, da parte perfino di borghesissimi capitani d’Industria.

Ancora oggi nella penisola i partiti ed i sindaci, l’industria, la cultura, l’informazione, presentano in genere, ai propri vertici, gruppi di comando di tipo fortemente notabiliare, vale a dire cooptati assai più che eletti o designati attraverso l’accertamento del merito, spesso in legami familiari tra di loro, utilizzati a vita per incarichi talora più diversi.

E’ a questo insieme di cause che si deve de l’Italia è un paese afflitto, come dicono i sociologi, da rilevanti fenomeni di ereditarietà sociale (dove ad esempio i filgi di imprenditori, liberi professionisti e dirigenti posseggono oggi in media, possibilità di permanere nelle privileggiate posizioni dei loro padri quasi 15 volte superiori a quelle dei soggetti proveniente da altre classi) o da un tasso d’immobilità di carriera che non ha confronto fuori dai nostri confini (sono pochissime, cioè, le persone che nei vari lavori riescono a salire dai livelli inferiori a quelli superiori).

Sicchè se un “uso” massiccio della politica è stato semmai fatto, dai singoli che l’hanno potuto, è stato quello di usarla come chiave di accesso al conferimento di status sociali tradizionali (diventare un aristocratico, un borghese, un proprietario, un ricco.

Capitolo quinto
L’ASSENZA STORICA DI STATO

Con ogni probabilità, nel corso degli ultimi secoli nessun aspetto dell’immagine dell’Italia, dell’identità italiana, è stato – e continua ad essere – oggetto di un giudizio negativo da parte sia degli stranieri che degli italiani stessi come quello rappresentato dalla duplice dimensione dello Stato e della politica: e si tratta di un giudizio che, naturalmente, finisce per coinvolgere l’intera società, gli uomini e la storia che hanno visto la luce nella penisola.

“Gli Italiani non sono capaci di governarsi”, “in Italia non funziona mai nulla”. “governare l’Italia non è difficile, è inutile”: ecco le formule più consuete che ognuno ha mille volte udito (e mille volte ha probabilmente lui stesso adoperato) quando il discorso è caduto su questi temi.

E’ il paragone con l’Europa che ci abbassa e ci schiaccia, facendo emergere per l’appunto, nella nostra storia, i molti motivi di “ritardo” e di “assenza”, i quali poi concorrono a formare la complessiva inadeguatezza italiana nel campo della statualità e della vita collettiva.

Nel campo della statualità e della politica soprattutto l’identità italiana è prigioniera di un meccanismo comparativi stico perché in tale campo come in nessun altro l’esperienza storica della penisola, a dirla in breve e crudamente, non ha prodotto alcunché di significativo, non ha anticipato, né seguito esemplarmente, né portato al massimo compimento, alcun percorso vuoi ideologico, vuoi sociale, vuoi istituzionale: non ha “inventato” nulla.

Alle spalle dell’Italia e delle sue fortune nel presente si leva così l’ombra schiacciante di un passato troppo grande e troppo lontano per essere recuperabile, ma anche troppo vicino  e troppo presente per poter essere dimenticato. Roma e il suo dominio si avviano in questo modo ad essere “il passato che non passa” degli italiani, che ancora di più lo sentiranno tale dopo che l’Umanesimo offrirà la riconferma dell’enorme prestigio della cultura classica.
E’ a questo nesso tra retaggio imperiale, mito di Roma, cultura classica e civiltà letteraria italiana, che va fatto risalire uno dei tratti più singolari dell’identità storico-politica italiana, vale a dire il posto assolutamente centrale che nella formazione di tale identità nella discussione intorno ad essa, nell’elaborazione della sua vicenda, hanno occupato – si può dire fino ad oggi – gli intellettuali letterati e la loro produzione.




 Inevitabilmente, infine, questo intellettuale letterato sarà un moralista. Ancora una volta è l’immenso Dante che inventa  ed anima il prototipo: il moralismo è il  porto diretto della prospettiva all’insegna del declino entro la quale la storia d’Italia viene fatalmente a trovarsi iscritta  una volta che ne è concettualizzata la sua derivazione da Roma. Declino che, profondamente connesso com’è alla scomparsa della potestas, non può che dare luogo alla discordia rissosa del particolarismo, al disordine, alla guerra civile.

Dante fonda il modello che vuole perlopiù inseparabili la riflessione storico-politica sulla penisola e la rampogna della “corruttela” italiana.

Da Petrarca a Macchiavelli, da Alfieri a Gobetti, da Manzoni a Pasolini, si dispiega per secoli, sulle orme di storico-politico italiano, e la fortissima presenza, al suo interno, di questo punto di vista moraleggiante a carico dell’”Italia” e degli “Italiani”.

Dall’epoca pre-moderna tutta rivolta, sulla base di un’immagine ipervalutativa del passato antico, a rimpiangere l’assenza nella penisola di potestas e di impero, la scomparsa delle antiche “virtù” romane, fino all’epoca moderna, volta a lamentare, invece, l’assenza di borghesia, o di rivoluzione o di sviluppo industriale, il discorso è in grado, come si vede, di mutare del tutto i propri contenuti, conservando però la medesima struttura formali.

L’assenza evocata di volta in volta è un disvalore etico (sua premessa o effetto), è servita a ribadire la necessaria funzione del “moralismo” degli intellettuali e per questa via il loro ruolo.

E’ noto come le ultime pagine del Principe machiavelliano si chiudano, per l’appunto, come l’immagine di un’Italia “sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa”, e perciò “tutta pronta e disposta a seguire una bandiera, pur che ci sia uno che la pigli”, tutta in attesa di “uno suo redentore”.

Viceversa, l’idea, ricordata sopra sempre a proposito di Dante, della sovranità temporale della Chiesa come causa principale, se non unica, di una specifica minorità politica italiana.

Ancora nel 1995, in due libri sulla storia italiana postbellica usciti in Inghilterra, si poteva leggere – a riprova della forza e della continuità nel tempo di questa immagine dell’identità politica italiana – che “il Vaticano” sarebbe “responsabile di alcuni dei peggiori aspetti dell’Italia moderna”, nonché “la causa prima della debolezza dello Stato”.

La costante, tendenziale, riduzione del problema storico-politico della penisola ad una “questione  morale” e/o ad una questione di “carattere”, il concepire se stessi, in quanto colti, come rappresentanti-interpreti elettivi di un retaggio vincolante del passato e di un interesse generale di tutta la collettività, cos’altro è, infatti, se non la traduzione antagonista sul terreno laico del ruolo della Chiesa  e dei suoi sacerdoti, del loro modo di porre le cose?

Da questo punto di vista, più che di una tradizione laica in senso proprio bisognerebbe forse dire che si tratta di una tradizione intellettuale d’ispirazione chiesastica ma rovesciata di segno.

In realtà, poche vicende storiche come quella del rapporto tra Italia e Santa Sede e dunque, inevitabilmente, tra l’Italia e la Chiesa, manifestano un carattere così drammatico come è proprio del rapporto tra esigenze assai difficilmente conciliabili.

Sebbene sul piano religioso il temporalismo abbia indubbiamente comportato dei prezzi – e non esigui -, appare più che fondato ritenere che la Chiesa d’Occidente è stata in grado di diventare una grande organizzazione religiosa libera e padrona di sé, e quindi che il cattolicesimo è stato in grado a propria volta di alimentarsi liberamente altrettanto liberamente la cultura e lo spirito d’Europa, proprio in virtù del temporalismo.

Il complesso rapporto che la storia ha voluto s’instaurasse tra l’Italia da un lato, e la Santa Sede nonché, inevitabilmente, la Chiesa dall’altro, unendosi a propria volta in modo inestricabile al problema della minorità politica italiana, è stato l’elemento che forse ha più contribuito a modellare l’identità ideologico politica della penisola.

Restano assenti cioè l’individuo come titolare di diritti naturali, la società civile come espressione originaria e prioritaria della vita collettiva, la concezione dello Stato come frutto in certo senso artificiale e volontario di un contratto, subordinato e non sovraordinato a questa società, infine il parlamento come rappresentanza tendenzialmente sovrana di essa.

Contrariamente ad una certa vulgata storiografica, non è solo il modello rivoluzionario-parlamentare di origine protestante, ma anche quello monarchico-assolutistico di ispirazione cattolica, non è stata solo la confessione cristiana di Calvino, di Lutero o di Knox, ma anche quella di Roma, ad avere avuto parte della nascita storica della moderna cultura politico-statale in Europa, ad avere aperto la via alla moderna integrazione delle masse nello Stato.
Sfortunatamente, all’Italia è mancato il primo modello, ma è mancato pure il secondo. Di fatto, quindi, la separazione tra intellettuali e popolo, per via della loro lontananza sul terreno religioso, ha fatto tutt’uno con quella tra Stato e sudditi realizzatasi a causa specialmente della debolezza estrema con la quale si è presentato nella penisola l’assolutismo.

Ciò vale a indicare con sufficiente compiutezza in quale ambito si è prodotta la vera rottura tra l’identità politica italiana e la modernità: essa si è verificata nell’ambito della ideologia e della costruzione dello Stato.

Del vuoto su cui poggia la statualità italiana fa parte, in certo senso, anche l’assenza di grandi fenomeni di conflitto che agirino la società specie nei suoi strati inferiori e ne rompano l’immobilità. In una società premoderna, com’è quella di cui stiamo parlando ciò vuol dire soprattutto assenza del protagonismo sociale da parte dei contadini: ben esemplificata dallo scarso rilievo in Italia di quelle grandi ondate di rivolta che dalla Spagna alla Germania spazzano, viceversa, le campagne europee.
I contadini, in Italia, sono oggetto di uno stretto controllo politico-sociale che risulta tanto più efficace in quanto esso non sembra esercitato in modo primario dall’aristocrazia feudale (secondo il modello classico europeo) bensì dalle città e dalla Chiesa. Si tratta cioè in entrambi i casi di un controllo che – pur poggiando su evidenti rapporti di forza o ad essi direttamente connettendosi – tuttavia affonda le sue radici e le sue ragioni più salde in un terreno culturale. Esso si lamenta  del prestigio che circonda l’autorità del Comune nei confronti del contado, nonché della capacità della Chiesa – in specie attraverso la presenza conventuale e gli ordini monastici – di stare vicino alle comunità rurali e, dividendone la vita, di tenere e bada le punte  di ribellione.

E’ la piena sottomissione culturale che consegna i contadini, oltre che ad uno stato di irrilevanza politica, ad un vero e proprio discredito antropologico di cui si trova eco amplissima ed assai precoce nel folklore e nel lessico di tutta la penisola:l dispregiativo “villano” per contadino è attestato nella forma di “villanus” fin dal XII secolo.

Ne è una conferma l’assenza dall’esperienza storica della penisola di quella  tipica emergenza forte della modernità che è la rivoluzione: assenza riassuntiva e simbolica di tutte le altre fin qui enumerate, ma che andrebbe, forse, definita più appropriamente come un vero e proprio introiettato rifiuto di ogni rottura effettiva, di ogni cambiamento radicale, di ogni svolta senza ritorno, che sembra caratterizzare la società italiano e la sua vicenda fino ai giorni nostri.

Non sfidare da rivoluzionari, non agitate da movimenti sociali né da conflitti religiosi, non impensierite da pericolose alleanze tra intellettuali e popolo, non stupisce che le élite italiane abbiano potuto godere di un’assoluta continuità che ha conferito per l’appunto alla storia d’Italia quel duraturo carattere oligarchico destinato ad acquistare, dal conto suo, ancora maggiori radici e maggiore vastità di significato venendo a fare tutt’uno con la preminenza dei centri urbani; in forza dell’antica egemonia patrizia sulle città della penisola.

Inutile aggiungere che assegnare un ruolo siffatto agli intellettuali letterati in un’età ormai di masse e nel quadro altresì di forme di governo fondate sul consenso equivaleva per forza ad enfatizzare ancor di più il già implicito contenuto pedagogico del loro ruolo.

Si tratta anzi, a ben vedere, di un lascito solo, con alcuni corollari. Principalmente è l’idea che l’identità politica italiana sia, in sostanza, rappresentata dall’identità antichiesastica e “nazionale” dei suoi intellettuali letterati; che l’identità politica italiana, cioè, si formi e di collochi in via prioritaria entro uno spazio ideologico e culturale, e che dunque anche i problemi concreti che ad essa si ricollegano, le realtà concrete in cui essa prende forma, ripetano codesto carattere, siano anch’essi, alla fin fine, di natura ideologico culturale e dominabili con strumenti di tal fatta.
Il corollario che discende dal primo presupposto – la sovrapposizione dell’identità politica italiana con la tradizione antichiesastica e “nazionale” di una specifica linea culturale assunta a “cultura nazionale” tout court – consiste, tale corollario, nell’irrimediabile frattura che così si stabilisce, tra siffatta identità e una parte rilevantissima di italiani. E, ineluttabilmente, l’idea delle due nazioni: da un lato quella “buona” dei colti illuminati, che si riconosce nella tradizione culturale di cui sopra, che per meglio dire sono quella tradizione, dall’altro lato la nazione “cattiva” dei semplici, delle masse popolari, le cui azioni e i cui valori avrebbero rappresentato storicamente la base di tutto ciò che dell’Italia non fa parte. Dal che discendono, a loro volta, due ulteriori corollari. Il primo è quello di una identità politica che incorporando un fortissimo principio di delegittimazione, in un certo senso basandosi addirittura su un discrimine legittimazione/delegittimazione, rende per ciò stesso quanto mai ardua qualunque effettiva unità ideologica-culturale del paese. Il secondo corollario  è l’idea che, se le cose stanno come si è detto, allora è naturale che gli intellettuali “nazionali” finiscano per considerarsi alla stregua di una vera e propria minoranza con funzioni pedagogiche, una minoranza di stranieri profeti in patria, i quali alquanto plausibilmente, si considerano però gli unici rappresentanti ed interpreti autorizzati  di questa stessa patria.

Egualmente, non ci si è accorti che per modificare le ossificate strutture sociali del paese, per rompere la tendenza delle oligarchie a imporre i loro interessi attraverso le collaudate strutture familistiche, localistiche o corporativistiche, l’arma risolutiva non poteva certo consistere nell’imporre a quella oligarchia una qualche (sia pure “innovativa” o “rivoluzionaria”) opzione ideologico-politica, perché – come è di fatto puntualmente avvenuto – esse si sarebbero immediatamente appropriate  di qualunque di tali azioni e così facendo le avrebbero piegate tutte invariabilmente alle proprie necessità.
Liberali, fasciste, democristiane, socialiste o uliviste, le oligarchie italiane hanno abbracciato ogni volta il partito che conveniva loro, certo non per questo hanno cessato di essere oligarchie.

Capitolo sesto
IL TRAVAGLIO DELLA MODERNITA’ E IL PROBLEMA DELL’IDENTITA’ NAZIONALE

“Sai cosa mi sembra l’Italia? Un tugurio i cui proprietari sono riusciti a comprarsi la televisione”: così si confidava nel gennaio 1963 Pier Paolo Pasolini in un’intervista ad Alberto Arbasino.

La prima volta a lamentare la permanente mancanza in Italia di una “reale” modernità, e la seconda volta, viceversa, a denunciare il carattere eminentemente distruttivo che la medesima modernità (proprio perché non reale?) avrebbe  avuto nella penisola. Troppo poco moderna, insomma, l’Italia, incapace di esserloo, ma al tempo stesso, però,  moderna in modo cieco e perciò radicale e assoluto. Comunque, quel che risulta sempre sottolineato è un rapporto dell’Italia con la modernità che fa apparire questa come qualcosa non nostra e non fatta per noi, come qualcosa di puramente importato, che dall’esterno c’imporrebbe dei doveri troppo difficili, cui non ci riesce di adempiere, o a cui adempiremmo fuori misura, in modo sempre maldestro e distruttivo.

Il modo stesso della nascita dell’Italia dell’Italia unita ha rappresentato il primo dei fattori iperpoliticizzanti, chiamiamoli  così. Creata da una rivoluzione dall’alto – cioè dalla più forte e più tipica delle decisioni politiche immaginabili – l’Italia ha avuto da questa sua nascita la spinta decisiva sulla via della iperbolicità. La politica ha supplito dove la storia non è arrivata. Mancando, ad esempio, di una qualunque tradizione o cultura in questo campo, anche la sua articolazione istituzionale di Stato moderno dovette essere importata da fuori, con una decisione esclusivamente politica: dallo Statuto Albertino al modello di amministrazione centrale, al sistema dei prefetti a quello universitario, tutto fu ripreso o ricalcato dall’esperienza belga, francese o di qualche altro paese europeo, per volontà ed esigenza dettate dalla politica.

Il punto è che in realtà, se si prescinde dalla politica, la statualità italiana non ha mai avuto alcuna base propria e autonoma su cui poggiare.

L’enorme rilievo della politica, insomma, ha prodotto una politica troppo fissata su stessa, in certo senso ammaliata dal proprio potere autoreferenziale, e per conseguenza digiuna di amministrazione, nel profondo incurante di ogni autonoma dimensione e di ogni autonomo sapere della statualità nonché dei valori di questa.
Dunque nell’esperienza complessiva del paese, a partire dalla sua unità, molta politica e poco Stato, molta ideologia e poca cultura dello stato.

Nel caso dell’Italia un ulteriore elemento ha poi contribuito con forza a porre l’accento sul ruolo della politica e a spingere  questa a valersi dell’intervento statale: è stata la sostanziale povertà del paese, i grandi bisogni insoddisfatti di tanta parte della sua popolazione, l’esigenza sentita dai più di colmare il divario creatosi nell’industrializzazione rispetto a molti altri grandi paesi europei.

Lo dimostrano lo statalismo schietto o la sostanziale deriva stato centrica di tutte le culture politiche italiane, comprese quella liberale della Destra storica e quella cattolica, che certo muovevano da premesse ben diverse.

In parte considerevole, dunque, l’identità dell’Italia – come quella di molti altri Stati come lei poveri e di origine rivoluzionaria – è stata costruita sulla pietra angolare della politica, intesa sia come animatrice di passioni che come erogatrice di risorse: passioni e risorse suscitate dalla politica che hanno rappresentato insieme, per un gran numero di italiani, la principale via d’accesso alla modernità.

Ma come si è già detto, caratteristica italiana è stata una disgiunzione netta della sfera della politica da quella dello Stato e delle istituzioni.

Voglio dire cioè che l’identità dell’Italia moderna – nonostante, o proprio in ragione della forte centralità della politica – non è riuscita in alcun modo a riempire quel vuoto storico di statualità e di civismo, prodotto nel corso dei secoli dall’assenza di un vero assolutismo e di anelito religioso nel pensiero sulla società. Lo stato, le istituzioni e il loro ethos, sono rimasti qualcosa di estraneo, di calato dall’alto, e ciò anche per effetto deciso della politica che – proprio per questa perdurante latitanza della dimensione statale e civica – ha potuto invece fare tutt’uno con quello che a ragione può essere considerato uno dei tratti più spiccati e più antichi dell’antropologia italiana: la propensione alle appartenenze circoscritte, al gruppo, al clan, alla consorteria, alla fazione.

Per molti, moltissimi italiani, nelle mille realtà locali della penisola, essere socialisti o fascisti, neutralisti o interventisti, comunisti o democristiani, ha voluto dire principalmente la conferma di una solidarietà, la speranza di un piccolo beneficio, un modo di difendersi o di sopraffare, la conseguenza obbligata di un vincolo personale.

La debole incidenza dello Stato rispetto al ruolo strabordante della politica ha voluto dire l’impossibilità che in Italia nascesse mettesse radici e si sviluppasse una cultura dunque, come si capisce tendenzialmente opposta all’inevitabile, necessaria, arbitrarietà della decisione politica.

Più in generale, questa fortissima incidenza della politica sulla società italiana ha reso difficile, se non impossibile, la formazione e l’ascesa ad un ruolo d’influenza significativa di qualsiasi gruppo sociale, di qualsiasi corrente ideale, che non si ricollegasse in qualche modo alla politica, dove con questa parola s’intende, come si capisce: la politica del partito, il vincolo delle appartenenze, degli equilibri e degli schieramenti politici.

Assenza di autonome élite amministrative, culturali e sociali, scarsa incidenza del merito e della dimensione cetuale: questi fattori contribuiscono altresì a dar conto di un ulteriore tipicaf caratteristica dell’esperienza unitaria italiana a cui si è già fatto riferimento: l’assenza in tale esperienza di un effettivo polo di segno conservatore.

La recente origine dello Stato, il carattere non autoctono dei suoi istituti, la sua assenza di legami con la tradizione, la sua natura politica e ideologicamente rivoluzionaria, tutto ciò, insieme alla connessa assenza di un tratto conservatore, serve almeno in parte a spiegare un aspetto assai importante dell’esperienza unitaria: la mancata trasformazione delle antiche oligarchie italiane in  nuove élite nazionali.

Il fatto è che – simbolicamente ma non solo – la politica rappresentava per antonomasia il potere, e le oligarchie italiane decisero di affidare alla contiguità con esso, all’investimento diretto del potere, la possibilità di continuare a svolgere la propria funzione di comando nella società.

Non in italia; nell’Italia unita l’alta burocrazia, l’accademia, l’ufficialità, l’alta borghesia delle professioni e delle industrie, non avendo istituzioni salde ed antiche a cui appoggiarsi, tanto meno lo Stato, non riusciranno mai a produrre alcun saldo orientamento conservatore, alcuno stile di vita, alcun modello comportamentale di questo tipo.

E’ proprio questo vuoto verificatosi nella costruzione dell’identità italiana contemporanea sul crinale tra la società e lo Stato che spiega – o almeno contribuisce a spiegare – l’influenza, il prestigio e la popolarità simbolico-ideologica che nella vicenda dell’Italia unita si sono guadagnati, e attraverso tutti i cambiamenti di regime continuano a godere, la Chiesa con il clero da un lato, e l’arma dei Carabinieri dall’altro.

La fragilità storica della struttura statuale-istituzionale, la mancanza di un principio conservatore e di vere élite,  tutti questi elementi che hanno caratterizzato per così dire “in alto” la modernità italiana, hanno corrisposto “in basso” ad una legittimazione dello Stato unitario che si è mantenuta costantemente problematica e incerta.
La debolezza dell’identità nazionale implica comunque il problema storico della scarsa legittimazione popolare dello Stato italiano, risalente alle sue origini risorgimentali. Pochi elementi più di questo – della sua oggettiva gravità, e forse ancor di più del modo in cui tale gravità, è stata percepita – hanno determinato i caratteri della moderna identità italiana, a cominciare da quello importantissimo, della centralità strabordante della politica, sulla quale ci siamo già in parte intrattenuti.

E proprio quanto ora detto spiega il carattere spiccatamente religioso-fideistico di tanta ideologia politica italiana e, insieme, la forte natura identitaria e militante delle appartenenze da tale ideologia suscitare, il loro permanere, nonostante il mutare delle condizioni economiche del singolo, il loro frequente tramandarsi di padre in figlio.
E’ difficile non vedere come tali caratteri tipici dell’accumulazione politica delle masse italiane si ricolleghi direttamente alla specifica qualità della legittimazione dello Stato nazionale. Questa, come del resto tutta la sfera della politica e della statualità moderne, erano venute costruendosi, in Italia, all’insegna della più completa assenza di elemento religioso. Nella penisola la religione e la politica erano rimaste due entità istituzionalmente ostili.
Inutile aggiungere – perché lo abbiamo già detto – che proprio questa separazione antagonistica, escludendo di fatto dalla fondazione ideologica dello Stato italiano tutta la tradizione cattolica ed i moltissimi che vi si riconoscevano, fu certo di non poco conto nel restringere la base di legittimazione dell’italia unità.

Ci deve essere una ragione, insomma, se proprio l’Italia è stata la patria del fascismo e del più grande partito comunista dell’Occidente, se in Italia hanno avuto così largo successo le due più importanti religioni secolari del ventesimo secolo: ebbene, questa ragione è forse da ricercare proprio nel fatto che, espulso dallo Stato e dalla sua legittimazione, l’elemento religioso è massicciamente rifluito nella politica, ha trovato qui il campo dove rivendicare il proprio indistruttibile nesso con le paure e le speranze degli uomini.

In Italia, il carattere immediatamente ideologico dello Stato (a causa della sua origine da una rivoluzione/guerra civile), e il carattere immediatamente politico delle élite legate ad esso, nonché la inadeguatezza degli strumenti nazionalizza tori (si pensi alla lentissima diffusione dell’istruzione obbligatoria), hanno impedito all’ambito della statualità di essere quel fattore decisivo per la crescita dell’identità nazionale che esso è stato solitamente altrove.

In complesso, dunque, né lo Stato e le sue istituzioni, né la politica sono riuscite a rappresentare i presupposti  adeguati per la crescita nei cittadini (del Regno prima e della Repubblica poi) dell’identità nazionale e del relativo sentimento di appartenenza come fatto in sé positivo.

La debole identità nazionale italiana è da riconnettere innanzi tutto alla storica debolezza dello Stato: alla scarsa efficienza delle sue strutture amministrative, all’aspetto disordinato e disorganizzato che la sua immagine (e spessissimo, ahimé, la sua realtà anche) sempre si porta dietro, all’assenza diffusa di cultura e valori – dallo Stato stesso promossi e alimentati – che assegnino all’interesse generale, alla legge e al servizio pubblico, un ruolo anche simbolicamente eminente, infine all’assenza o all’esiguità di élite amministrative e statali dotate di autorevolezza e prestigio.

Infatti, come abbiamo avuto noi stessi modo tante volte di notare, l’enorme spessore storico della penisola italiana, la varietà dei suoi quadri ambientali, l’amplissima molteplicità dei rapporti e degli apporti esterni, hanno reso il nostro paese una galassia di esperienze, di tradizioni, di vita, di cui è difficile trovare l’uguale. Ma una galassia  non è un ammasso di parti, un’accozzaglia, una caotica presenza eterogenea: è un’insieme. Ci sono tante Italie: questo è certamente uno dei tratti essenziali dell’identità italiana – ma è pur vero che esiste un’Italia, che esiste una realtà e un’identità unica di Italia, che tiene insieme e comprende tutte le altre. Il fatto è che la storia ha sì prodotto la molteplice diversità, ma ha prodotto anche l’amalgama. Non c’è parte d’Italia che non abbia avuto rapporti intensissimi con altre parti vicine o lontane della penisola, sicché per quanto possano essere stati numerosi o importanti gli apporti che il Friuli o il Salento, la Valtellina o il Logudoro hanno ricevuto nel corso dei secoli, vuoi dall’Europa vuoi dal Mediterraneo, questi saranno sempre di numero e di rilievo minori di quelli venuti a loro dalle altre terre e città d’Italia.
E’ proprio questa straordinaria struttura di “rete”, così tipica dell’identità italiana, grazie alla quale ogni parte è parte di tutte le altre, e con esse interagisce, è questa natura che fa di tale identità qualcosa di difficilmente definibile (appunto perché tessuta di mille aspetti, di mille umori, immagine rifratta di mille volti e mille storie) ma non perciò meno riconoscibile. L’Italia non può essere confusa con niente altro, perché ogni sua plaga, è vero, ha assorbito tanti influssi ma di questi la maggior parte, alla fine, sono venuti da altre plaghe della stessa Italia. Catalani e spagnoli hanno certo lasciato la loro orma in Sardegna, ma le grandi chiese romaniche di influsso pisano e lombardo che da Porto Torres ad Oristano, da Ardara a Sassari si stagliano contro i cieli luminosi del maestrale parlano di altre orme più numerose e più profonde. E così, egualmente, nell’aria e nei palazzi di Venezia si potranno certo sentire mille fremiti di Oriente, scorgere mille memorie di Bisanzio, e le sue chiese potranno certo – caso unico nella penisola – intitolarsi a insoliti nomi di santi veterotestamentari e di profeti (Geremia, Zaccaria, Moisè, Giobbe e tanti altri), ma non sarà senza significato se nel 1967 il futuro doge Giuseppe Pesaro, dovendo convincere il Senato a non cedere all’impero ottomano l’isola di Candia in cambio della pace, lo farà scongiurando di non cedere al Turco, a nessun costo, “le chiavi d’Italia”: segno di un’avvertita appartenenza a qualcosa che andava oltre la serenissima, oltre la grande patria cittadini.
Una rete di influssi, di combinazioni, di prestiti, di contaminazioni, tuttora all’opera con mille varietà di esiti, ma resa possibile dall’esistenza di un unico, antico, terreno comune su cui tutto è costruito: il retaggio romano e quello cristiano-cattolico; le città e la bellezza dei luoghi moltiplicato dalla versatilità dell’arte; una povertà elusa dalla fatica dell’ingegno, talora anche dall’astuzia e dalla forza più ribalde; l’intreccio anche soffocante dei legami tra le persone, e la forza dell’individualità; infine una dura, lunga, divisione tra i gruppi sociali, tra pochi e molti.
E’ l’esistenza di questo comune terreno storico – certo: non presente dappertutto con la stessa misura degli stessi elementi, ma dappertutto, dalle Alpi alla Sicilia, presente sempre con questi elementi – che dà il senso e insieme indica il meccanico dell’identità italiana: una molteplicità fortissima tenuta insieme da un’origine comune altrettanto tenace, ma in qualche modo occultata della sua antichità. Un terreno storico comune, di fecondità straordinaria, da consentire per l’appunto la molteplicità ora detta, nonché le sue mille e mille combinazioni; e insieme anche di straordinaria forza, sì da mostrarsi in grado di riportare tutto a se stesso, di evitare una dispersione irrimediabile, dando una specifica impronta sua, italiana, a tutto ciò che da esso è nato.
L’identità italiana è data dal sovrapporsi di questa molteplicità su questo fondo unico; è una varietà di forme di vita e di esperienze che affondano però le radici in un terreno comune, ha anch’essa alla fine un accento solo, dal momento che comuni ed eguali sono gli elementi che entrano nelle sue pur molteplici combinazioni. Proprio perciò essa sembra debole: perché la parte più importante di questa identità – ciò che per l’appunto è uguale e comune, ciò che è identico, e che conta che sia tale – è la parte nascosta nelle viscere del tempo. Ma il fatto di essere nascosta non significa che non ci sia. 
Forse adesso s’intravede con qualche maggiore chiarezza il nodo del problema che travaglia la modernità italiana e insieme – perché sono al dunque la medesima cosa – cosa significhi il problema di una debole, troppo debole identità nazionale. Riuscire a rendere visibile ciò che è nascosto, riuscire a comporre la sfaccettata, molteplice realtà delle molte Italie in un volto solo, che ne salvi le vocazioni così specifiche e gli estri così preziosi, ma che al tempo stesso esprima il fondo unico da cui le une e gli altri provengono, sapendogli dare la necessaria forma moderna: è questa la difficile opera di sintesi che l’identità nazionale italiana è chiamata a rappresentare e a realizzare.
Avere un’identità nazionale degna di questo nome dovrebbe dunque significare prima d tutto rifare nostro il nostro passato, da quello più antico a quello più recente, coninciliandoci con esso ed accettando di riconoscerci in esso, senza più la preoccupazione di scartare ciò che ci appare buono da ciò che ci appare meno buono: che è premessa impossibile per una qualunque identità condivisa.
Certo, anche nel passato ci furono il bene e il male, ma entrambi sono passati, appunto; non esistono più con le passioni e gli odi che furono allora capaci di suscitare e chiedono solo, perciò, di essere compresi per ciò che vollero dire e seppero fare e per i problemi che ci hanno lasciato.
A risolvere i quali ci servono quello Stato e quelle classi dirigenti che sono – e non possono non essere – il fulcro di una moderna identità nazionale. Questa deve precisamente servire ad organizzare e comporre le molteplici forme della “semplice” identità italiana, in una moderna compagine all’insegna della salvaguardia dell’individuo, della tutela dell’interesse generale, del rispetto delle leggi, sicché quelle forme stesse possano, alla fine, produrre più fecondi indirizzi di vita, alimentare personalità più libere, più complete, più umane, radicare nella collettività un sentimento di solidale benevolenza; possano far sorgere, cioè, quella patria italiana che ancora ci manca.  


     


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