venerdì 13 gennaio 2012

libro claudia petraccone

FEDERALISMO E MEZZOGIORNO

Prefazione

GIUSEPPE GALASSO"

Da quando, agli inizi dell'aprile 2008, si tenne il convegno sul Mezzogiorno a cura del Coordinamento provinciale del Partito Democratico di Napoli ad oggi parecchie cose sono cambiate. Sulla scena del mondo (basti pensare alla elezione, all'insediamento e alle prime mosse del nuovo presidente degli Stati Uniti), sulla scena italiana (basti pensare al risultato delle elezioni del giugno 2008), sulla scena del Mezzogiorno e di Napoli (basti pensare al modo come si è superata la crisi dei rifìuti e alle successive vicende della Giunta comunale napoletana). Nell'economia (basti pensare al ritmo poco meno che incalzante e alla dimensione e profondità assunta dalla crisi economica mondiale) e nella politica internazionale (basti pensare al conflitto fì'a Israele e Hamas nella Striscia di Gaza, che ha provocato un riallineamento di tendenze e di posizioni di cui gli effetti si riveleranno appieno solo dopo qualche tempo).
Sarebbe, naturalmente, inverosimile, o, peggio, affermare che tutto ciò non abbia, e ancor più, non avrà i suoi effetti anche sul Mezzogiorno. E tanto più inverosimile in quanto di tali effetti si hanno già nelle prime settimane del 2009 vistose e rilevanti manifestazioni. E, tuttavia, non ce la sentiremmo di affermare che qualcosa di stravolgente e di profondamente mutato si debba ugualmente già registrare per quanto riguarda il Mezzogiorno, o, per meglio dire, per quanto riguarda i termini dei problemi del Mezzogiorno. Siamo sempre al punto per cui nel discutere di Mezzogiorno - in polemica contro i pretesi modi tradizionali di vedere il Sud come un monoblocco depresso - si invoca un "nuovo racconto" dello stesso Sud. Siamo sempre al punto per cui si delineò poi, e viene tuttora ripetuto, l'opposto motivo della critica al Sud silente e passivo. Siamo sempre al punto per cui tutto quel che accade nel Mezzogiorno di negativo assume sempre una dimensione addirittura ingrandita rispetto al profili di cose di per se stesse già gravissime e negativissime; e per cui dalla messa a fuoco di questa maggiorazione dell'immagine deriva un corrispondente e perfino sproporzionato deterioramento della già negativissima immagine dei meridionali e del Sud: basti pensare agli effetti delle vicende giudiziarie abruzzesi, calabresi, napoletane etc. nel corso del 2008.
I meridionali sogliono spesso sottovalutare questi andamenti critici e polemici, che pur li riguardano in primissima persona. Farebbero meglio a regolarsi precisamente all' opposto. Se mai è stata largamente recepita la famosa definizione che la questione meridionale non è che la questione dei meridionali, oggi ben si può dire che essa è diventata il modo quasi esclusivo di guardare a questi problemi fuori del Mezzogiorno, nel resto d'Italia (e non solo). Un modo che porta a ribadire qualcosa che non è affatto una novità, e cioè che, all'entrare del 2009, più che mai, nell'Italia che conta, l'idea stessa di Mezzogiorno e la considerazione dei meridionali in quanto tali hanno assunto un significato negativo, quando non sono venute del tutto meno anche come problema.
Questo è, quindi, oggi, il punto vero della questione, ed è, come ben si intende, un problema essenzialmente politico. Si tratta di ridare al Sud una voce che da ormai un quindicennio non ha più. E, dicendo "politico", non ci riferiamo affatto alla sola classe politico-amministrativa, bensì a tutta la classe dirigente del Sud, alla quale più che mai è richiesta una permanente ed efficace mobilitazione. Sulla base, però, di una chiara premessa: e, cioè, che la chiave dei nostri problemi sta anzitutto nel Mezzogiorno e nei meridionali. Se non si parte di qui, varrà a poco sostenere, ove che sia, le ragioni del Sud.
Non è più tempo di leggi speciali e di connessi fìnanziamenti straordinari, bensì di politiche nazionali (ed europee) in cui il Sud riceva una sufficiente attenzione. È il tempo del federalismo fiscale e della prova che si dovrà dare di sapersi amministrare secondo le esigenze che ne derivano. È il tempo, fìno al 2013, degli ultimi (pare) fondi europei, nel cui uso le Regioni meridionali non si sono per nulla distinte. È il tempo in cui è riemerso in piena luce il problema della scuola fra quelli prioritari della condizione meridionale. È il tempo in cui il problema della malavita oscilla tra spiragli promettenti (come in Sicilia la rivolta di alcuni imprenditori al "pizzo") e momenti ancora più sconfortanti del solito (come da ultimo in Campania). È il tempo in cui la congiuntura fa parlare di politica antirecessiva senza che si veda ancora nulla di una considerazione dei problemi del Sud, e, nello stesso tempo, più che mai si impone di rispondere alla sfìda tecnologica, culturale e politica della globalizzazione, la cui risposta non è affatto demandabile per principio all'azione e alla spinta pubblica. È il tempo in cui il discorso sull'''assenza dello Stato" va decisamente supplito con quello della "presenza nostra", ossia di ciò che vogliamo fare e che, in effetti, facciamo. Ed è il tempo di tanti altri problemi che certo non sfuggono a nessuno, anche quando li si fraintende o li si falsa o li si tace, e dei quali la seconda metà del 2008 ha allungato di non poco la lista e ancora accresciuto la portata, la gravità e l'urgenza dei problemi meridionali in generale.
È, perciò, decisiva nell'immediato futuro la prova delle Regioni e degli Enti locali del Mezzogiorno, e dei parlamentari e degli esponenti meridionali delle forze politiche e sociali a tutti i livelli. Continuare a battere le strade degli ultimi anni davvero non si può. E non si dica che mancano idee e prospettive. Idee e prospettive ci sono. Quel che serve è scegliere e agire con la capacità di concludere' e di realizzare. Si potrà, certo, riuscire di più o di meno, meglio o peggio, ma l'attuale stasi, l'attuale momento da vicolo cieco in cui tutto e tutti sembrano ritrovarsi sarà stata superata, e si potranno fare altri discorsi. E, detto fuori di ogni, sia pur lTIlmma e lontana, tentazione di autocompiacimento, ci sembra che la sua pietruzza in questa direzione il convegno organizzato dal Coordinamento provinciale del Partito Democratico di Napoli l'abbia portata, e che perciò rileggerne gli atti aiuti nella stessa direzione.

Ricominciare.
Il Mezzogiorno, le politiche, lo sviluppo

PAOLA DE VIVO"

1. Introduzione

Da più parti si osserva che nei contenuti dei programmi elaborati dai due maggiori schieramenti politici per affrontare le imminenti elezioni, il Sud è assente. In effetti, è così e non si tratta di una novità recente. Dalla chiusura dell'intervento straordinario ad oggi l'interesse politico per il tema dell' arretratezza economica e sociale del Mezzogiorno è andato scemando. La discontinuità nella politica di intervento è costata molto alle regioni del Mezzogiorno sotto il profilo economico e finanziario ed è stata altrettanto dannosa sul piano sociale, con la legittimazione di un modello scarsamente solidale, fortemente improntato ad una logica quasi darwiniana, di scontro tra le popolazioni del Nord e quelle del Sud del paese.
Alla percezione della serietà e della profondità dei problemi di arretratezza che aveva - ed ha - quest'area del paese si è sostituito il fastidio che si avverte ad ogni tentativo di riproposizione della questione, sino a giungere ad una sua completa rimozione, che ha fìnito per determinare una falsifìcazione della realtà: è come se i problemi del Mezzogiorno appartenessero soltanto a quest'ultimo. Essi, al più, destano un tiepido interesse nell'altra parte del paese, alle prese essa stessa con un declino economico che ne minaccia la prosperità raggiunta e perciò ancor meno disposta a comprendere e a condividere fino in fondo le diffìcoltà delle popolazioni del Sud.
Così, mentre la classe politica nazionale abdicava al suo compito di governo dell'intero paese, si è generato un confine invisibile ma percepibile nel reciproco disconoscimento delle ragioni dell'una e dell'altra parte, giungendo alla fine ad una loro incomunicabilità, incomprensione e diffìdenza. Il Nord ed il Sud, ormai in perenne contrapposizione, sono l'espressione di una miopi a politica e della convinzione, errata, che l'Italia può competere senza essere, al suo interno, coesa socialmente.
Quali che siano state le cause del progressivo distacco che si è consumato tra il Nord ed il Sud dell'Italia, c'è da chiedersi se resta qualcosa da fare per ridare una dignità scientifìca ed una capacità di rappresentanza politica ai problemi dello sviluppo meridionale, per contrastare, cioè, la posizione di marginalità a cui è ormai relegata una parte del paese.
C'è bisogno di dimostrare, mediante una rinnovata lettura dei principali temi - federalismo, crescita ed investimenti, riforma e qualità della pubblica amministrazione ... - che attraversano lo scenario del cambiamento italiano che essi sono strettamente interconnessi con le prospettive dello sviluppo meridionale.
Una rivisitazione critica dei problemi del capitalismo italiano, in chiave meridionalista, serve a modificare una rappresentazione della realtà in parte distorta e a sostenere lo sforzo di quella parte della popolazione meridionale che si impegna e produce allo stesso modo di quella del Nord, nonostante le difficoltà.
Dalla fine dell'intervento straordinario sono trascorsi ormai più di quindici anni, ma rileggendo i contenuti della proposta di politica economica dei governi nazionali che si sono avvicendati nel tempo, ben poche sono le iniziative che si rintracciano in merito alla definizione di un piano, coordinato e continuativo, di sostegno allo sviluppo dell'intera area meridionale.
La diagnosi, nessuno qui lo nega, sia dei mali che affliggono il Meridione sia delle risorse disponibili nei suoi territori, è ormai talmente nota che si rischia di apparire - e magari si è effettivamente - ripetitivi nel volerla ad ogni costo riprendere. Ma è un rischio che vale la pena correre, quello di continuare ad interrogarsi sulle contraddizioni del suo sviluppo, e, soprattutto, sulle cause e sui modi per rimuoverle; anzi, di più, è quanto mai necessario insistere sulla ricerca di un nuovo protagonismo del Mezzogiorno, che smuova uno scenario politico e culturale tendenzialmente refrattario ad occuparsi del suo rilancio economico e sociale.
Le coordinate per inquadrare sotto il profì1o scientifico la "questione" meridionale sono cambiate, arricchendo d'altri contenuti le teorie ed i modelli di spiegazione di natura macro-economica su cui si sono fondate tradizionalmente le interpretazioni circa l'arretratezza del Sud dell'Italia. Nel tempo gli assetti politici, la struttura economica e la stessa società meridionale si sono trasformati, richiedendo l'uso di più puntuali e innovative categorie analitiche.
La riflessione sull'arretratezza meridionale va oggi compiuta alla luce di quel dibattito, da tempo in corso, che si arrovella sulle strategie di intervento da adottare per far fronte ai deludenti risultati economici conseguiti dall'Europa, e, ancor più, dall'Italia. Se, però, è vero che il rilancio della crescita economica deve stare ai primi posti dell'agenda politica nazionale e comunitaria, allo stesso modo il complesso tema del mantenimento della coesione sociale va posto come una priorità ineludibile nel novero delle iniziative da intraprendere. In un'Europa che viaggia a due distinte velocità, come testimoniato dalla persistenza di ampi divari regionali al suo interno, si ripropone la problematica del dualismo, dell'incompiuto sviluppo capitalistico italiano, della mancata convergenza tra le due aree del paese. La storica peculiarità del caso italiano trova una nuova conferma nella persistenza di una forbice, di una frattura tra il Nord e il Sud dell'Italia, dovuta all'inarrestabile crescita delle disuguaglianze, al sistematico acuirsi dei processi di esclusione e di marginalità sociale.
Basti osservare, a tale proposito, l'andamento di alcuni indicatori. Si può cominciare dal PiI per abitante, nel Mezzogiorno di 16.272 euro a fronte dei 26.985 di quello del Nord, specchio della Clisi che interessa, più in generale, l'economia meridionale. Analogamente, sul fronte del mercato del lavoro, i segnali sono poco promettenti. La disoccupazione è di circa tre volte superiore (14,3%) a quella del Centro-Nord (4,8%). La dinamica dell'occupazione registra sistematici rallentamenti e si accentua la tendenza alla riduzione del numero di persone in cerca di lavoro. Di conseguenza, riemerge un "effetto scoraggiamento", che inibisce soprattutto le donne a partecipare attivamente al mercato del lavoro e costringe giovani e disoccupati a trovare rifugio in occupazioni irregolari (del tutto o parzialmente). Riprende quota un fenomeno, che sembrava del tutto in declino, quello dell' emigrazione, principalmente di giovani, spesso laureati, verso le regioni del Centro e del Nord dell'Italia. Ancora, vi è l'emergenza povertà, concentrata prevalentemente nel Sud, dove una famiglia su quattro vive in condizione d'indigenza.

Soltanto dall'analisi di questi sintetici dati, ben s'intuisce come le molteplici opportunità di sviluppo di questa parte del paese rimangono, almeno per ora, solamente allo stato potenziale, ed anzi esse coesistono, purtroppo, con fenomeni diffusi e capillari di esclusione e di marginalità sociale, di disoccupazione e di sommerso, di bassa vivibilità dei territori, che si traduce in una scadente qualità della vita. Con la criminalità che continua ad agire indisturbata e ad espandersi attraverso la gestione di attività economiche illecite, da cui recupera risorse finanziarie che, riciclate ed 'immesse nel circuito economico di realtà territoriali con tratti tipici dell'arretratezza, non solo alimentano mercati surrettizi, ma finiscono per legittimare anche culturalmente pratiche comportamentali prevaricatrici. Una patologia sociale, quella della criminalità, che per alcuni rappresenta l'ultima chance di riscatto sociale, tanto da essere accettata come una "normale" modalità di regolazione e riproduzione della vita collettiva.
Eppure, il peso dei problemi delle popolazioni del Sud è sempre meno sostenibile per la finanza pubblica, in un contesto di arretramento continuo dell'economia italiana ed in una cornice di stentata capacità di regolazione della politica economica, fortemente indebolita dai processi di ridefìnizione che investono la sfera statuale. Il Mezzogiorno sembra progressivamente destinato a soccombere; a veder persa, in altre parole, la battaglia, in parte compiuta, verso il progresso e la modernizzazione della sua vita politica, economica, sociale. Quest'area arretra nuovamente e sembra aver smarrito quell' energia, anche morale, che ha caratterizzato e rappresentato la spinta al cambiamento dei primi anni novanta. Al punto in cui siamo, non è esagerato affermare che la storia più recente del meridione è addirittura riassumibile in un'idea di fallimento totale dell'azione pubblica, sedimentata nell'opinione pubblica e persino nella stessa classe politica. La rappresentazione che prevale è che qualsiasi siano le modalità di intervento adottate - dall'alto o dal basso - nel Sud nulla cambia. Né dall'alto né dal basso, in definitiva, si è capaci di smuovere, di rivitalizzare, forse addirittura, di rifondare una società che sembra inamovibile nei suoi caratteri di arretratezza sociale ed economica.
Ma è veramente così? Non c'è davvero più niente da fare? In tanti si pongono inevitabilmente interrogativi di tal genere, che rimandano ad una chiave di analisi più operativa, al che cosa cioè è necessario fare - al come occorra agire - affinché il Sud possa riprendere la strada dello sviluppo. Perché, pur tralasciando qui di insistere sulle cause per cui è accaduto, è un fatto assodato che è fallita anche la principale scommessa su cui puntava il disegno delle politiche territoriali, vale a dire la responsabilizzazione e lo sviluppo di autonome capacità di governo da parte degli attori e delle istituzioni locali. Di cambiare, cioè, il Mezzogiorno dal suo stesso interno, rimuovendo tramite le politiche per il territorio le condizioni vincolanti che ne hanno storicamente ostacolato il decollo.
Quale può essere, allora, in una situazione che diviene, di giorno in giorno, per i cittadini del Mezzogiorno sempre più difficile da sostenere, il reale contributo che i Fondi Strutturali possono apportare alla risoluzione delle' problematiche contingenti e ai nodi di carattere strutturale del mercato del lavoro, i segnali sono poco promettenti. La disoccupazione è di circa tre volte superiore (14,3%) a quella del Centro-Nord (4,8%). La dinamica dell'occupazione registra sistematici rallentamenti e si accentua la tendenza alla riduzione del numero di persone in cerca di lavoro. Di conseguenza, riemerge un "effetto scoraggiamento", che inibisce soprattutto le donne a partecipare attivamente al mercato del lavoro e costringe giovani e disoccupati a trovare rifugio in occupazioni irregolari (del tutto o parzialmente). Riprende quota un fenomeno, che sembrava del tutto in declino, quello dell' emigrazione, principalmente di giovani, spesso laureati, verso le regioni del Centro e del Nord dell'Italia. Ancora, vi è l'emergenza povertà, concentrata prevalentemente nel Sud, dove una famiglia su quattro vive in condizione d'indigenza '.
Soltanto dall'analisi di questi sintetici dati, ben s'intuisce come le molteplici opportunità di sviluppo di questa parte del paese rimangono, almeno per ora, solamente allo stato potenziale, ed anzi esse coesistono, purtroppo, con fenomeni diffusi e capillari di esclusione e di marginalità sociale, di disoccupazione e di sommerso, di bassa vivibilità dei territori, che si traduce in una scadente qualità della vita. Con la criminalità che continua ad agire indisturbata e ad espandersi attraverso la gestione di attività economiche illecite, da cui recupera risorse finanziarie che, riciclate ed 'immesse nel circuito economico di realtà territoriali con tratti tipici dell'arretratezza, non solo alimentano mercati surrettizi, ma finiscono per legittimare anche culturalmente pratiche comportamentali prevaricatrici. Una patologia sociale, quella della criminalità, che per alcuni rapppresenta l'ultima chance di riscatto sociale, tanto da essere accettata come una "normale" modalità di regolazione e riproduzione della vita collettiva.
Eppure, il peso dei problemi delle popolazioni del Sud è sempre meno sostenibile per la finanza pubblica, in un contesto di arretramento continuo dell'economia italiana ed in una cornice di stentata capacità di regolazione della politica economica, fortemente indebolita dai processi di ridefinizione che investono la sfera statuale. Il Mezzogiorno sembra progressivamente destinato a soccombere; a veder persa, in altre parole, la battaglia, in parte compiuta, verso il progresso e la modernizzazione della sua vita politica, economica, sociale. Quest'area arretra nuovamente e sembra aver smarrito quell' energia, anche morale, che ha caratterizzato e rappresentato la spinta al cambiamento dei primi anni novanta. Al punto in cui siamo, non è esagerato affermare che la storia più recente del meridione è addirittura riassumibile in un'idea di fallimento totale dell'azione pubblica, sedimentata nell'opinione pubblica e persino nella stessa classe politica. La rappresentazione che prevale è che qualsiasi siano le modalità di intervento adottate - dall'alto o dal basso - nel Sud nulla cambia. Né dall'alto né dal basso, in definitiva, si è capaci di smuovere, di rivitalizzare, forse addirittura, di rifondare una società che sembra inamovibile nei suoi caratteri di arretratezza sociale ed economica.
Ma è veramente così? Non c'è davvero più niente da fare? In tanti si pongono inevitabilmente interrogativi di tal genere, che rimandano ad una chiave di analisi più operativa, al che cosa cioè è necessario fare - al come occorra agire - affinché il Sud possa riprendere la strada dello sviluppo. Perché, pur tralasciando qui di insistere sulle cause per cui è accaduto, è un fatto assodato che è fallita anche la principale scommessa su cui puntava il disegno delle politiche territoriali, vale a dire la responsabilizzazione e lo sviluppo di autonome capacità di governo da parte degli attori e delle istituzioni locali. Di cambiare, cioè, il Mezzogiorno dal suo stesso interno, rimuovendo tramite le politiche per il territorio le condizioni vincolanti che ne hanno storicamente ostacolato il decollo.
Quale può essere, allora, in una situazione che diviene, di giorno in giorno, per i cittadini del Mezzogiorno sempre più difficile da sostenere, il reale contributo che i Fondi Strutturali possono apportare alla risoluzione delle problematiche contingenti e ai nodi di carattere strutturale che frenano lo sviluppo del Meridione? La nuova programmazione per il 2007-2013 riuscirà ad evitare gli errori e, al con tempo, a valorizzare gli aspetti positivi del precedente ciclo? Quale sarà, in defìnitiva, l'impatto dei fondi comunitari sulle condizioni di vita delle popolazioni meridionali? Le ulteriori risorse finanziarie stanziate serviranno stavolta a rilanciare le regioni - e le ragioni - del Sud? Oppure, ancora una volta, il bilancio che ne faremo a posteriori sarà negativo?
Non è ancora maturo il tempo per cercare di rispondere puntualmente agli interrogativi appena posti; è presto per conoscere come sarà giocata e, soprattutto, quali esiti produrranno la partita della programmazione regionale. Ciononostante, alcuni spunti per stimolare qualche riflessione già emergono. Per esempio, un'analisi dei contenuti del Quadro Strategico Nazionale può divenire una chiave di lettura utile a ricercare quali sono i riferimenti teorici ed operativi del modello di sviluppo e della strategia d'azione perseguite dal governo centrale e comunitario a favore delle regioni del Sud.
A questo scopo, si osserva come la matrice teorica su cui è fondata l'impostazione del QSN sia intrinsecamente "ibrida", dato che se si prova a ricomporre i vari segmenti dell'offerta di policy, ciò che emerge è un modello di regolazione ispirato ad una combinazione tra un approccio micro ed uno macro. Nella sua articolazione complessiva viene, infatti, recuperata la dimensione territoriale come fattore di competitività per lo sviluppo delle regioni meridionali, sebbene vengano, al contempo, individuati dei Macro-obiettivi, con le relative Priorità da conseguire, quasi a voler sottolineare la volontà di riprendere un discorso unitario sui problemi dell'arretratezza del Sud. È il trionfo di quella che si può definire una "terza via", una via che permette di coniugare le diverse e contrapposte posizioni emerse dall'aspro dibattito suscitato, in Italia, dall' adozione di politiche territoriali. Una scelta, quella di mantenere entrambi gli approcci, che ha reso possibile il delicato compromesso con i seguaci delle correnti di pensiero in contrapposizione.

Quanto alle scelte strategiche, esse si fondano essenzialmente su due direttrici: la prima è in linea di continuità con alcuni degli interventi già previsti nella precedente programmazione per il 2000-2006; la seconda se ne discosta, perché imprime un significativo cambiamento nell'azione pubblica a sostegno dello sviluppo regionale, ridefìnendo contenuti, norme e procedure d'attuazione.

2. Nuova programmazione 2007-2013 e Mezzogiorno

Dopo una lunga e intensa false preparatoria siamo giunti alle porte della concreta attuazione della programmazione dei fondi strutturali europei per il 2007-2013; si tratta di una fase propizia per rimettere al centro del dibattito pubblico la questione del Mezzogiorno e per dimostrare l'effettiva capacità delle nostre amministrazioni nazionali e regionali di recepire nel migliore dei modi quello che si prospetta essere l'ultimo contributo sopranazionale per il suo sviluppo. Riuscirà la politica di sviluppo e coesione dell'Unione Europea a dare un forte contributo alla ripresa della competitività e della produttività dell'intero Paese? Sapremo cogliere quest'ennesima occasione per affrontare la persistente sottoutilizzazione di risorse del Mezzogiorno, agendo soprattutto sul potenziamento dell' offerta di servizi di pubblica utilità e sul più generale miglioramento delle condizioni di vita della cittadinanza meridionale? Per raggiungere questi risultati nei prossimi anni, la politica regionale, comunitaria e nazionale, potrà trarre puntuali lezioni dall'esperienza innovativa realizzata nel 2000-2006, marcare continuità e discontinuità, e perseguire le priorità strategiche emerse secondo le indicazioni dei Documenti Strategici preliminari elaborati nel 2005 e nel 2006 dai diversi livelli istituzionali e confluiti successivamente nel cosiddetto Quadro Strategico Nazionale.
L'intento è, in ogni caso, quello di porre un freno a tutti quei fenomeni, comportamenti e tendenze negative che si vanno progressivamente accentuando nella società e nell'economia meridionale. Rilancio delle attività economiche e produttive e parallelo sostegno all'azione di contrasto alla criminalità, alla disoccupazione, alla povertà sono i cardini dell'intervento comunitario, che mira sostanzialmente a rimuovere i vincoli di contesto alle attività imprenditoriali. La consapevolezza cui si è giunti, anche alla luce degli insegnamenti emersi dal precedente ciclo di programmazione, è che il requisito principale intorno a cui impostare una politica pubblica capace di innescare nuovamente una crescita nell' economia regionale - per "tornare a crescere" e a convergere - si identifìca innanzitutto nel ripristino, nei territori meridionali, di condizioni di legalità e di fiducia. Ancora una volta, si prende atto che è questa la vera sfida che occorre vincere per arginare quella perversa spirale, fatta di corruzione, malaffare e mancanza di senso civico, che sta avviluppando, quando non bloccando del tutto, il normale svolgimento della vita economica e sociale delle popolazioni che risieedono nelle regioni del Sud dell'Italia.
La struttura concettuale che sorregge i contenuti del QSN si fonda sulla convinzione che per realizzare il progetto politico di costruire una società che abbia tra i suoi principali valori l'equità, la solidarietà e la dignità sociale occorra stimolare intensivamente quei fattori - capitale, lavoro, produzione - che permettano di allargare la base di mercato e di aumentare lo stock di risorse disponibili. Si lavora per rimuovere una cultura dell'assistenzialismo che si è generata e radicata nel tempo, attraverso generose forme di distribuzione delle risorse pubbliche, nella convinzione che l'inclusione sociale si accresce quando la crescita economica produce dei buoni esiti, poiché di questi possono beneficiare più soggetti sociali.
Il nucleo dell'azione gravita pariteticamente sui fattori materiali dello sviluppo e su quelli immateriali, ed anzi favorisce moltissimo l'avanzamento della conoscenza, di base e avanzata, in tutti i campi di attività e trasversalmente ai vari assi di intervento, attribuendole il compito fondamentale di motore propulsivo della crescita economica e del progresso sociale. L'obiettivo è di rafforzare !'inclusione sociale creando un sistema di "opportunità", nel campo dell'istruzione e della formazione, che faciliti l'avanzamento e la mobilità sociale, soprattutto dei soggetti svantaggiati. Ampliando e potenziando la struttura di mercato, si dovrebbe limitare il ricorso a meccanismi di redistribuzione "a pioggia", tipici nel sistema di welfare italiano, divenuti troppo onerosi da mantenere per la finanza regionale e nazionale.
Mentre è vero che l'Italia ha superato il traguardo dell' approvazione del QSN, altra storia sarà l'adozione di una simile strategia nelle regioni meridionali. Basti osservare la micidiale combinazione di problematiche sociali e le peculiari modalità di funzionamento della pubblica amministrazione per rendersi conto delle insidie che si incontreranno nel percorso di attuazione.

3. Disuguaglianze sociali e rendimenti della pubblica amministrazione

Le condizioni d'esistenza di alcune fasce della popolazione del Mezzogiorno sono veramente drammatiche ed il fatto più grave è che le loro problematiche, invece di essere risolte, sono acuite dai rendimenti delle pubbliche amministrazioni, incapaci spesso di assolvere anche i compiti più elementari, come la fornitura e l'erogazione di servizi essenziali. In Italia, la pubblica amministrazione, malgrado gli sforzi compiuti negli anni per riformarla, continua ad essere accomunata da un problema di arretratezza gestionale e, in alcuni casi, politica, ma è nel Sud, vale la pena ribadirlo, che essa è del tutto carente nell' espletamento delle sue funzioni.
Sotto questo profilo, il paese risulta veramente diviso in due parti. Lo stato di inefficienza in cui versa il settore pubblico nel Sud, il suo generale degrado, fermo restando la presenza di alcune "isole" positive, è testimoniato dalla lunghezza dei tempi di risoluzione delle controversie giudiziarie, dalla scadente organizzazione dei servizi ospedalieri, dalla insufficiente dotazione di strutture scolastiche, dalla incapacità di gestire e smaltire i rifìuti. Ed è superfluo, bisogna per onestà dirlo, continuare con il ritornello che le risorse finanziarie ed umane sono inadeguate. Il Sud, certo per cause storiche, dispone di più personale pubblico del Nord e l'afflusso di finanziamenti statali ed europei, sebbene con dei picchi riguardo all'ammontare degli stanziamenti, dovuti a circostanze politiche (si pensi ai primi anni novanta, appena a ridosso della fine dell'intervento straordinario), ha consentito, in fondo, di avere una disponibilità di spesa sul piano degli investimenti pubblici di tutto rispetto, con esiti però negli impieghi classificabili al di sotto di una soglia di efficacia accettabile. A questo punto, c'è da chiedersi se l'analisi di un tale problema di inefficienza debba spostarsi su di un versante più culturale, ovvero, vanno comprese le ragioni per cui la gestione delle risorse pubbliche nel Sud fìnisce, alla fìne, per richiamare - sempre, comunque e indipendentemente dalle coalizioni di governo nazionali e locali che si sono avvicendate - un concetto di appropriazione privatistica.
Il vero segnale di un ritorno al dualismo tra Nord e Sud del paese è nuovamente in questa debole capacità di regolazione da parte dello Stato del bene collettivo e l'effetto più perverso di una tale debolezza dell'azione pubblica nella vita associata è, in fin dei conti, la negazione stessa di alcuni diritti fondamentali. Una negazione che colpisce ancora più duramente soggetti sociali più vulnerabili, cittadini deboli che per riaffermare le proprie domande finiscono per alimentare, a loro volta, una distorsione nell'uso delle risorse pubbliche, spesso attraverso l'attivazione di canali clientelari (o, nei casi peggiori, facendosi proteggere da esponenti di gruppi criminali). Sino al punto che il persistere di comportamenti di tal genere innesca una spirale negativa, capace di "svuotare" il concetto di cittadinanza dei presupposti civici su cui è fondato: l'equità, la neutralità e la trasparenza dell'azione pubblica.
È in questo senso che le disuguaglianze territoriali si acuiscono, in virtù di una mancata garanzia e tutela dei diritti, che si estrinseca concretamente in un'incapacità di produzione e di erogazione di servizi pubblici ancora essenziali, quasi elementari, ma necessaria per la riproduzione individuale, familiare e collettiva di una larga componente di popolazione meridionale. Anzi, è questo stato di necessità che genera, in definitiva, una profonda divisione all'interno della società meridionale, foriera di ulteriori forme di disuguaglianza, quella tra coloro che dispongono di risorse - economiche, sociali, culturali per sfuggire ad una simile situazione e coloro, invece, che ne sono privi.

Il Mezzogiorno è da sempre caratterizzato da una struttura sociale molto diversifìcata nei suoi caratteri costitutivi, ma la sua tipicità è tutta nella forbice che divide in termini di ricchezza e povertà la popolazione. Una forbice da misurare con cautela, superando i limiti di un approccio strettamente economico; in altre parole, dando rilievo al modo in cui le differenze di natura economica si rapportano ad altre dimensioni extra-economiche, quelle che investono la sfera sociale, culturale ed istituzionale.
Entrare nel merito di questioni così complicate, come un' analisi sull'interpretazione dei caratteri della struttura sociale del Sud, esula da un contributo che è, in verità, molto più circoscritto. Senza pretese di completezza, è però opportuno accennare alla complessità degli strati medi e alti che continuano a vivere dell'arretratezza del Mezzogiorno: ricavandone occasioni di reddito, di lavoro, di incarichi professionali e politici. Si tratta di quella fascia di borghesia media ed alta che è la base sociale della nuova struttura di potere al Sud, anche se in tutta una serie di ambiti decisionali può essere scavalcata e, Cl sua volta, dominata dalle azioni predominanti del grande capitale nazionale ed internazionale. Essa controlla realmente il potere a livello locale e regionale - in conto proprio o per altri - ed il ruolo di questa borghesia di fatto si accresce, grazie agli scambi di diversa natura che essa riesce ad intessere con la sfera pubblica. Il sistema d'interessi che si genera coinvolge, per scelta o per necessità, una larga parte del tessuto economico meridionale e della stessa società civile.
Ai nostri fini, è quasi banale limitarsi all'osservazione che si è in presenza di una ramificazione del potere politico in numerosi campi della vita sociale e alla costituzione di un elitè sociale che abbraccia, a più vasto raggio, componenti della classe dirigente imprenditoriale, amministrativa, sindacale, universitaria. In una società complessa, è fisiologica l'aggregazione di gruppi sociali affini intorno a nuclei di interessi comuni (siano essi interessi reali, culturali, ideologici). È un modo per riconoscersi e, in fondo, per costruire e trovare un'identità collettiva. Il punto è, invece, che il confine che chiude i nuclei di appartenenza può divenire talmente invalicabile da generare una limitazione all'ingresso di altri soggetti, ed è qui che nasce una "questione sociale", nei meccanismi di esclusione, nella scarsa mobilità, nell'incapacità di riconoscere il merito e di premiarlo, tutto ciò in funzione della conservazione di privilegi e di posizioni di rendita.
Così aumenta la forbice cui si è accennato, con una fascia di popolazione che diventa sempre più "questuante", una fascia che sperimenta condizioni di vita al di sotto di quelli comunemente stabiliti come standard minimi ed accettabili; una folla di soggetti accomunati da fenomeni di svantaggio lavorativo, economico; di status e, in una prospettiva più ampia, da una perenne diffìcoltà di partecipazione alla vita sociale. E si giunge, in ultima istanza, all'affermazione di un modello di società dove il godimento di alcuni diritti è negato ad una parte dei suoi cittadini dalla loro stessa incapacità ad accedervi e/o di riconoscerli.
La riproduzione sistematica dei caratteri di disagio genera, in sintesi, una struttura sociale che tende ad acquisire una forma estremamente statica nei suoi meccanismi di progressione, anzi, talvolta essa finisce per determinare delle dinamiche di cristallizzazione dell' esclusione in specifici segmenti di popolazione, per la concentrazione in essi di più fenomeni negativi (disoccupazione, bassi livelli d'iistruzione, povertà, tossicodipendenza ... ). Queste forme estreme di disagio sono una delle cause dei problemi di convivenza collettiva che viviamo nel nostro paese e abbassano irrimediabilmente la soglia minima della sicurezza dei cittadini. Ma di chi è la responsabilità?

4. QSN e meccanismi di attuazione

Sino a che punto la strategia di sviluppo generale perseguita tramite il QSN può contribuire al contenimento delle problematiche sociali appena evidenziate? Va detto che la scelta di rafforzare negli indirizzi programmatici gli interventi per l'inclusione sociale, per la sicurezza, la qualità della vita, per l'ambiente, va nella direzione di provare a costruire una base per l'esercizio di un più forte diritto (e dovere) di cittadinanza al Sud. Rimane, però, il problema della "traduzione concreta" di queste opzioni strategiche sul piano dell' attuazione, attraverso la fase di realizzazione delle opere pubbliche e la riqualificazione delle strutture e dei servizi pubblici. Per questo bisogna adoperarsi sin d'ora affinché la strategia disegnata dal QSN non divenga per il Sud .un'operazione meramente di facciata, quasi di alta ingegneria istituzionale, che mette a punto nel dettaglio il "che cosa fare", mentre tralascia il "chi" ed il "come" farlo. Per (ri)dare concretezza al signifìcato del concetto di cittadinanza nel Sud e per recuperare la sua dimensione di centralità, è ovvio che occorre fare molto di più che impegnarsi in una programmazione settennale che si incardinerà sui problemi strutturali di cui si è già detto. Il pregresso peserà, e molto, sul percorso di attuazione; eppure è un'occasione da non sprecare, anzi, è il motore da cui ripartire per trovare il coraggio di innovare pratiche di azione e di governo amministrativo, costruendo una combinazione adeguata tra il rafforzamento dell'azione ordinaria e quella indotta dall'intervento comunitario.
Sono queste la ragioni per cui, al più presto possibile, vanno posti sotto stretta osservazione le modalità di gestione ed i percorsi di attuazione del prossimo ciclo di programmazione. Occorre sollecitare e preparare sul piano tecnico le amministrazioni competenti a lavorare, con largo anticipo, in questa direzione per evitare di ripetere errori già commessi nel recente passato. La debolezza nelle forme di regolazione della vita associata di cui si è discusso, implica, tra le altre cose, che si agisca sui meccanismi di funzionamento degli enti locali, in primis sulla burocrazia regionale, tuttora contraddistinti da un approccio organizzativo tradizionale, incentrato cioè su settri di intervento rigidamente stabiliti nelle loro funzioni e competenze. Va rafforzata quella spinta al cambiamento amministrativo innescata dal progetto riformistico dei primi anni novanta. Essa non è riuscita del tutto a consolidarsi, ma è servita in ogni caso a lasciare una traccia sotto il profìlo culturale. Si è aperta una possibilità per strutturare un percorso d'azione alternativo nelle pubbliche amministrazioni, oltre che a diffondere un orientamento ed una logica manageriale nell'azione pubblica. Si è puntato sullo sviluppo di una razionalità complessa nella risoluzione dei problemi collettivi da affrontare, la sola capace di trasformare mere politiche redistributive in politiche integrate. Sia qui chiaro però, anche da quanto sinora esposto, che non si è di fronte soltanto ad un problema di metodo. Rimane fondamentale disporre di adeguate forme di controllo, formali e sostanziali, della spesa e della qualità degli investimenti pubblici.
Vi è una necessità ed un'urgenza nel Sud: quella di riavviare un ciclo d'investimenti pubblici che diventino un volano per l'economia, sempre più provata e condizionata dalla tendenza negativa che colpisce anche il Nord del paese. Si tratta di una priorità da inserire nell'agenda governativa, e, tuttavia, va ripreso il tema della qualità della spesa, un aspetto quest'ultimo che certamente non può essere percepito come secondario o marginale per il recupero della competitività del Mezzogiorno.
Uno dei passi da compiere, se veramente si è intenzionati a rilanciare lo sviluppo economico delle regioni del Sud, è quello di agire sul fronte amministrativo ed organizzativo, per dotare la pubblica amministrazione di risorse umane che abbiano competenze, capacità e comportamenti eticamente compatibili rispetto ai ruoli e alle funzioni ricoperte. Si tratta di un passo che serve anche a recidere i legami perversi che si sono instaurati in questi anni tra politica e amministrazione. Quando cade l'argine tra esse, la commistione che si genera produce scambi impropri, clientelismo, corruzione. Soltanto recidendo tali legami si può contenere quel fenomeno molto radicato nelle pubbliche amministrazioni, specialmente del Mezzogiorno, della ricerca di un facile consenso politico impostato su una gestione delle risorse pubbliche esercitata in maniera poco selettiva (quando non dispersiva), scongiurando il rischio di ottenere un effetto contrario al principio di riaffermazione di un diritto di cittadinanza reale, tanto stressato dallo stesso documento di programmazione. In fin dei conti, da quanto sinora descritto, è evidente che il principale ostacolo da superare nelle problematiche dello sviluppo meridionale rimane la debole formazione di una classe dirigente politica ed amministrativa adeguata ai compiti da svolgere, soprattutto nell'amministrazione ordinaria.
Resta perciò il problema di come adoperarsi per dare consistenza e rafforzare quel progetto di cambiamento culturale che sorregge la prossima programmazione, ovvero, la scommessa che tramite i fondi comunitari si sta facendo ancora una volta sul Mezzogiorno e sulla sua classe dirigente. Una scommessa che prosegue nel tentativo di responsabilizzare soprattutto la classe politica ed amministrativa locale, affinché si possano ricreare le condizioni, allo stato attuale del tutto mancanti, per stabilire un patto fiduciario tra quest'ultime e la cittadinanza. Molto tempo è trascorso da quando Putnam 2 (1993) ha elaborato la tesi che spiegava l'importanza dei rendimenti istituzionali ai fini dello sviluppo economico, eppure l'accento sulla carenza di senso CIVICO nel caso del Mezzogiorno è ancora una chiave di lettura convincente. Come si fa, però, a "produrre" capitale sociale è una delle questioni rimaste irrisolte, forse è anzi la sconfitta più grave subita, negli anni più recenti, sul fronte della modernizzazione del Mezzogiorno; una questione con cui saremo ancora costretti in futuro a cimentarci. In definitiva, dietro ogni scelta pubblica, la domanda che mai dovrebbe mancare nell' orientare le decisioni da assumere, e, quindi, nel realizzarle, è a che cosa essa serva, a quali bisogni della cittadinanza risponda. Smarrito il senso di una tale domanda, resta soltanto da chiedersi a quanto ammontano le risorse di provenienza europea o nazionale, dimenticando che il fine politico ultimo per cui esse vanno allocate e distribuite è quello di contribuire a generare dei processi di inclusione sociale. È questa la misura ultima ed il concreto banco di prova dell'efficacia dei programmi pubblici. Ed è questa la responsabilità che, in fondo, il prossimo ciclo di programmazione per ilzo07-z013 attribuisce al nostro agire collettivo, sia in qualità di amministratori sia di cittadini.
Voglio chiudere dicendo che un regime democratico non può vivere senza affrontare le disuguaglianze sociali. Ma la solidarietà che si allontana a lungo dall'effìcienza, cioè dalla capacità di stimolare uno sviluppo autonomo, fìnisce per non essere tollerata e per minare le basi stesse della democrazia e dell'identità nazionale. I segni che qualcosa del genere si stia manifestando anche nel nostro paese sono sempre più evidenti.
Per questo la risposta politica deve essere forte e capace di ricostruire una visione unitaria del problema meridionale. È questo il compito che i cittadini assegnano ad una forza di sinistra riformista e progressista.

Fare un po' il punto sul Mezzogiorno
GIUSEPPE GALASSO'

Non dovrebbe essere difficile, tutto sommato, fare il punto, oggi, sul Mezzogiorno. Gli studi e le informazioni statistiche, sia sul piano economico che sul piano sociologico e culturale, non scarseggiano (semmai, sono ridondanti fìno al punto di possibili svia menti o confusioni delle analisi che ne dipendono). Anche sul piano delle idee la condizione prevalente è, non senza una nota di paradossalità, piuttosto quella di un sovrabbondanza che di una scarsezza, e la condizione degli studi sul Mezzogiorno è senza dubbio di molto più avanzata e più ricca di quella della ripresa meridionalistica all'inizio del periodo post-fascista. Perciò il problema non è, quindi, quello di una certa pochezza culturale che alcuni pensano di poter imputare alla discussione meridionalistica attuale, anche se di questa discussione non poche appaiono le deviazioni distorcenti e fuorvianti, e anche se casi di vera e propria pochezza cullturale non vi mancano affatto (ma distorsioni, fuorviamenti e pochezza non mancavano affatto neppure nel "vecchio", né mancano mai in qualsiasi moto di cultura).
Il problema essenziale appare, dunque, perciò, da tempo quello delle scelte necessarie per operare sulle basi cognitive di cui oggi si dispone. Appare, cioè, essere il problema della politica che opera più di quella che si informa, studia e riflette, pur restando del tutto pacifico (e non varrebbe neppure la pena di precisarlo) che informazione, studio e riflessione non si intendono, con ciò affatto conclusi, essendo anch' essi una dimensione imprescindibile della politica che sceglievo opera, e anzi un suo accompagnamento indispensabile al suo farsi e nel suo prendere consapevolezza dell' azione che svolge e dei relativi esiti. Né ha, perciò, molto senso che si distingua fa la politica o le scelte generali, che sarebbero petizioni poco concrete e poco vicine alla realtà, cosa più da politici e da intellettuali che da effettivi e pratici operatori sul campo, e le richieste particolari e specifiche che vengono formulate da tali effettivi e pratici operatori. Dovrebbe, infatti, essere chiaro che le richieste particolari e concrete hanno diritto alla massima possibile comprensione e a ogni appoggio possibile, ma sempre nel quadro di un senso generale di governo e di disegno politico e amministrativo, economico e sociale, del quale nessun tipo di politica degna di questo nome può f~1re a meno. E proprio l'esperienza, innanzitutto, insegna che il "concretismo", così come il particolarismo, può generare inconvenienti per nulla minori di quelli tanto spesso attribuiti o attribuibili all' astrattismo e alle genericità delle dottrine e degli intellettuali.
È ormai acquisito sul piano statistico che i principali indicatori socio-economici concordano nell'indicare al 60% il livello complessivo di sviluppo dello stesso Mezzogiorno rispetto a quello della restante Italia. Da questo punto di vista dovrebbe anche essere pacifico che si tratta di un livello non superiore a quello di cinquant'anni fa, intorno al 1960. Livello che aveva fatto registrare dopo di allora un progresso, sia pure sempre entro margini ristretti, poi riassorbito nelle vicende degli ultimi decenni. Ugualmente acquisito dovrebbe essere che le politiche tentate nella ormai non breve storia dell'Italia repubblicana ai fini dello sviluppo del Mezzogiorno non sono approdate al conseguimento del loro scopo. Il Mezzogiorno si è trasformato nel sessantennio repubblicano molto di più di quanto non si fosse trasformato nel sessantennio tra l'unificazione politica del paese e l'avvento del fascismo, ma il divario di condizioni tra la parte più sviluppata e la parte meno sviluppata della nuova Italia, di cui dopo i primi venti o trent'anni di unità si prese piena coscienza, non solo si è gradualmente consolidato, ma è andato addirittura ampliandosi. Ed è anche da dire che l'area più avanzata dello sviluppo del paese, inizialmente limitata al triangolo Genova-Torino-Milano, si è trasformata in un molto più esteso poligono irregolare che va dalle province pre-alpine alla maggior parte di quelle dell'Italia centrale, e comprendendo in sé, in ultimo anche, dopo più di un secolo di unità, le provincie del Nord-Est, a lungo rimaste in condizioni di poco migliori di quelle del Mezzogiorno, e, come quest'ultimo, terra di povera e poverissima emigrazione. Altrettanto, malgrado la «politica speciale» a suo favore, non è accaduto per le regioni meridionali e insulari, che pure, come già abbiamo notato, non sono affatto rimaste immobili e hanno fatto anch'esse registrare mutamenti cospicui.
La negatività di queste constatazioni è accresciuta, poi, dal fatto che per alcuni versi il divario ha le due Italie è stato peggiorato, per così dire, nella qualità, pur nella staticità tendenziale delle sue dimensioni statistiche; e a nostro avviso questo criterio del "peggioramento qualitativo" è un punto nuovo che bisogna far valere con la massima chiarezza e i dovuti approfondimenti nei discorsi sul Mezzogiorno.
Intendiamo riferirci con ciò innanzitutto al peso assunto dalla malavita organizzata nella vita sociale e morale, oltre che economica, delle regioni meridionali. Questo peso configura ormai non più soltanto una patologia sociale, ma una vera e propria degenerazione sia del tessuto sociale che delle sue dinamiche attuali e tendenziali. In altri termini, la malavita si configura da un lato, come sistema dell'antistato e alternativa dell'illegalità che si oppone alla legalità tutelata dallo Stato; e, dall'altro lato, come una deviazione che allontana inevitabilmente da una normale logica di sviluppo e condanna a un'accumulazione di risorse che si risolvono in rendite parassitarie invece che in elementi e fattori di sviluppo (il che, contro ogni apparenza in contrario, è vero anche quando si parla di malavita imprenditrice e capitalista).
Un secondo piano di peggioramento qualitativo è ormai rappresentato dal sistema scolastico e formativo. Su questo piano la situazione è addirittura paradossale. I meridionali fuori del Mezzogiorno si impongono con più che ordinaria frequenza quali elementi di prim'ordine a ogni livello, con grandissima capacità di conseguire e superare qualsiasi grado di istruzione e di formazione venga richiesto e con corrispondenti capacità di gestione e di conduzione anche in organismi dalle molteplici funzioni. Il Mezzogiorno stesso, a sua volta, presenta al proprio interno livelli di eccellenza scolastica e formativa, oltre che di ricerca e di attività scientifica e culturale, sia nelle sue Università che fuori di esse. Tuttavia, la media del sistema scolastico e formativo nel suo insieme non è affatto soddisfacente. Inchieste recenti, che non indulgono affatto all'ottimismo nei riguardi del sistema scolastico italiano, rilevano concordemente per il Sud un livello più basso, quantifìcabile, secondo le diverse valutazioni, in 20, e anche molti più, punti percentuali in fatto di qualità e di rendimento scolastico. Si tratta, certo, di materia in cui le quantificazioni sono oltremodo difficili, e sempre discutibili. Si avrebbe, tuttavia, torto a sottovalutare l'indicazione da trarne al di là di ogni difficoltà o discutibilità dell'indicatore. Del resto, non è accettabile che si faccia gran festa e molto rumore ogni volta che in graduatorie nazionali o internazionali si ottiene il minimo riconoscimento per le qualità del sistema scolastico e formativo del Mezzogiorno, e, viceversa, quando le indicazioni sono negative, ogni pretesto è buono per invalidarle o per dubitarne. Se si pensa che in molte zone del Mezzogiorno, tra cui Napoli, si registra ancora una non lieve evasione dell'obbligo scolastico, e che questo dato è pur esso un indicatore di primaria importanza sociale, sarà ancora meno facile sottovalutare il peso dell' elemento che andiamo prospettando.
Un terzo piano - nello stesso ordine di problemi di cui qui discutiamo - riguarda la classe politicostrativa. Era stata generale, non si dice la speranza, ma l'impressione che il terremoto politico-giudiziario dei primi anni '90 avrebbe dato luogo a un netto miglioramento della situazione, specialmente meridionale, anche e proprio sul piano della classe politico-mministrativa. A distanza, ormai, di circa un quindicennio bisogna pur cominciare a dire molto apertamente che così non è stato; o che lo è stato tanto poco da indurre perfino a chiedersi se in quel terremoto politico-giudiziario non vi fosse qualcosa di sbagliato. Dagli Abruzzi alla Sicilia gli aspetti e le fasi di rinnovamento, che certo non sono mancati, appaiono ormai, da qualche anno, non solo esauriti, ma addirittura largamente invertiti di senso. Lo scarso rilievo della rappresentanza meridionale a livello parlamentare e di governo negli ultimi anni è stato la traduzione, al maggiore livello istituzionale, di tale deterioramento, che ha contribuito a determinare nell'opinione pubblica quel senso di vuoto deluso e paralizzante che molti analisti politici hanno rilevato. E se si dirà che questa notazione non vale solo per il Mezzogiorno, perché si può bene estendere all'Italia in generale, si dirà qualcosa su cui non si potrà essere in dissenso. Ma rimarrà pure indubbio che si tratta di qualcosa di molto più diffuso e, altresì, di molto più importante per ciò che riguarda il Mezzogiorno.
È chiaro, almeno per noi, che il triplice piano del peggioramento qualitativo a cui ci siamo riferiti, richiede - che si condivida o non si condivida il giudizio di peggioramento - un'attenzione del tutto prioritaria anche ai fini delle scelte della politica più auspicabile dal punto di vista meridionale. Non vale chiedersi il perché di un tale peggioramento. Se ci si vuole stare alle diagnosi antropologico-culturali, si ha solo l'imbarazzo della scelta, dal "familismo amorale" di Banfield all'assenza di civismo e di morale civica di Putnam e, in ultimo, alle delizie del "pensiero meridiano". Altrettanto può dirsi delle interpretazioni vetero-classiste, e ancora di più di quelle revisionistiche in senso filo-borbonico e antirisorgimentale. U n secolo fa era di moda pure la spiegazione razzista, che ai nostri giorni è in qualche modo adombrata dai ripetuti sproloqui del movimento politico dei lwnhard. Sarà, invece, il caso, forse, di rimettersi alla considerazione storica sia sul piano del bilancio dell'azione condotta per il Mezzogiorno e della generale linea politica italiana nei suoi effetti sullo stesso Mezzogiorno, sia sul piano di come il Mezzogiorno ha vissuto quell'azione e questa linea politica.
Su questo secondo piano un'indicazione valida può essere probabilmente dedotta dal considerare che i valori della civiltà industriale e moderna sono stati e sono presenti, e sono stati e sono realizzati, nel Mezzogiorno assai più come valori di importazione e di imitazione che come valori propri per la loro genesi e per il loro vissuto. Il Mezzogiorno non vi è affatto refrattario per una qualsiasi ragione antropologica, come dimostrano le ampie presenze della modernità nel contesto meridionale e le loro vicende, finora volte a un complessivo, benché saltuario, disorganico e frammentato, incremento. Ne può derivare, perciò, che più si promuove la produzione e la crescita spontanea, diretta, non indotta dall' esterno, dei valori della modernità nel Mezzogiorno, più ci si avvicina al superamento della condizione tuttora deprecata e deprecabile dello stesso Mezzogiorno nel contesto italiano.
Sul piano della politica per il Mezzogiorno e delle sue implicazioni italiane e meridionali, il discorso è molto complesso e andrebbe partitamente articolato. Qui ci limitiamo a qualche considerazione più essenziale.

Ricordiamo innanzitutto, che la "politica speciale" per il Mezzogiorno ha praticato varie vie, fìno al momento in cui si è esaurita l'esperienza della Cassa per il Mezzogiorno.
Tra queste vie ci sono state in un primo momento le scelte: 1) di dotare le regioni meridionali di quelli che all'inizio furono definiti pre-requisiti dello sviluppo e, in particolare, dell'industrializzazione; 2) di accentuare, in seguito, questo sforzo di dotazione con la politica delle infrastrutture' che puntava su quella dei pre-requisiti, considerati, per così dire, più generali e meno specifici dal punto di vista meridionale; 3) di assegnare a questa politica risorse aggiuntive per il Mezzogiorno rispetto a quelle disponibili nell'ordinario processo della vita economica e del governo delle risorse del paese; 4) di fidare che da pre-requisiti e infrastrutture sarebbe stato sollecitato un moto spontaneo di sviluppo, anche industriale, delle regioni meridionali; 5) di aggiungere particolari forme di incentivi al fine di accelerare e di favorire questo moto spontaneo.
In un secondo momento, poiché questo moto spontaneo non si manifestava se non in misura del tutto esigua, si passò a una fase di diretto intervento pubblico nella iniziativa economico-imprenditoriale con l'impianto di iniziative industriali in settori strategici quali la siderurgia, la meccanica, la chimica, a cura dell'allora cospicuo Ministero delle Partecipazioni Statali e di altre istanze pubbliche. Anche in questo nuovo momento permaneva la supposizione che le nuove iniziative avrebbero determinato di per sé un indotto ampio e significativo di iniziativa imprenditoriale meridionale, più semplice e più praticabile di quel che a questo fine richiedeva il livello dei prequisiti e delle infrastrutture. Allo stesso Hne fu moltiplicato e molto articolato il sistema degli incentivi, e si ebbe, inoltre, un ricorso alla cooperazione con enti pubblici quali le Regioni e con le forze sociali (imprenditori, sindacati), passando spesso anche a sistemi e prassi di concertazione o di accordi periferici e locali.
I risultati furono ancora una volta scarsi, e si cercò di ovviarvi ricorrendo a un incremento massiccio delle risorse messe a disposizione della "politica speciale", fìno a quando, anche per la sproporzione crescente ha queste incrementate risorse e i sempre scarsi risultati che se ne ottenevano, fu deciso di sopprimere la Cassa per il Mezzogiorno e di chiudere, in pratica, la "politica speciale". Subentrarono allora varie fasi negli atteggiamenti e nelle procedure seguite a favore dello stesso Mezzogiorno: la fase già accennata addirittura di liquidazione di ciò che avevano significato la stessa "politica speciale" e la tradizione del pensiero meridionalistico da cui essa aveva tratto l'impulso; la perfino di negazione della specifìcità e problematicità della "questione meridionale"; la fase di ottimismo circa le tendenze manifestate dal Mezzogiorno nel senso di un organico e generale avvio al riequilibrio del divario con l'altra Italia. In questa fase non si riuscì a inventare un gran che in materia di strumentazione e provvedimenti per una tale politica di riequilibrio e di sviluppo. Cabina di regia, incentivi, infaastrutture, concertazione e simili sono stati parafrasi di ciò che si era pensato, detto e fatto nella fase della "politica speciale". Il frutto più nuovo è stato, forse, quello della politica dei "distretti", non sempre, peraltro, intesa e praticata con rigore di idee e di azione. Contemporaneamente, si avevano la liquidazione del sistema creditizio meridionale, assorbito, per oltre il 99%, in quello centrosettentrionale; un eguale fenomeno in varie branche produttive, sebbene in forma meno massiccia; la progressiva riduzione del peso politico del Mezzogiorno nel Parlamento e nel governo; una vera e propria impennata del fastidio dei "nordici" per i "sudici" querimoniose, " eludenti e spreconi; un oblio completo di quanto delle risorse messe a disposizione dei "sudici" sia rifluito al Nord con grandi vantaggi di sue aziende e di varie posizioni produttive, grazie ad appalti di impianti, servizi e forniture; un oblio ancora maggiore, se possibile, di quel che la "politica speciale", malgrado tutto, aveva pur fatto e realizzato o signifìcato; una completa ignoranza degli impieghi assistenziali ben più cospicui (a livello di scala) per alcune zone del Nord (Valle d'Aosta, Trentino-Alto Adige); un'uguale ignoranza della complessiva esiguità delle risorse destinate al Mezzogiorno in termini di investimenti netti a fine produttivo, come già si faceva notare da più parti alla fine degli scorsi anni '70 (anche se non può essere ignorato il discorso sulla resa proporzionalmente minore in loco dei fondi destinati al Mezzogiorno, che costituisce un grave handicap di ogni richiesta meridionale nel gioco politico nazionale).

La situazione attuale offi'e un panorama caratterizzato dalle macerie sia della hlse precedente che della fase recente. Con l'inserzione, però, intanto, di alcuni altri elementi da considerare e valutare attentamente.
Il primo è il nuovo contesto europeo. Esso ha implicazioni e interferenze molteplici coi problemi del Mezzoogiorno. Di solito è sulla questione dei fondi europei che si appunta l'attenzione generale; e nulla bisogna a questo riguardo aggiungere a quanto già è stato ampiamente scritto e detto nelle cronache politiche e giornalistiche, a cominciare dalla scarsa capacità di utilizzazione di quei fondi dimostrata dalle Regioni meridionali per fìnire alla concorrenza nell' assegnazione degli stessi fondi da parte di paesi di nuovo ingresso nell'Unione Europea, che hanno maggiori titoli in materia e che fanno pensare ai fondi per il 2007-2013 come gli ultimi di cui si potrà fruire da parte italiana, con il conseguente problema di massimizzare in tutto e per tutto la loro gestione fino a quando vi saranno. Ma l'incidenza dell'Unione non è limitata a questo. Essa, investe un ampio fronte di norme, interventi, pianificazione, regolamenti e altro, per i quali certo non possono essere le Regioni gli interlocutori competenti e appropriati, poiché si tratta di materie di schietta pertinenza dei governi nazionali. È, però, anche questo un fronte sul quale va misurata la capacità delle Regioni, specialmente nel Mezzogiorno, di essere validi interlocutori del proprio governo. Finora questa capacità ha conosciuto momenti migliori e momenti peggiori. Nel complesso non si può dire, però, che la conferenza Stato-regioni, organo principale ai fini predetti, abbia davvero decollato come strumento dell'attività politica, legislativa, amministrativa in Italia. Si deve, perciò, portare la Conferenza Stato-Regioni a un alquanto maggiore grado di funzionalità politica e operativa. Ancora di più, però, dev'essere potenziato e migliorato il coordinamento delle regioni meridionali, che finora è stato, a dirla hancamente una completa delusione non solo su,l fronte dei rapporti con lo Stato e con la Conferenza Stato-Heligioni, bensì, e ancora di più, sul fronte della cooperazione fra le stesse Regioni meridionali nei più varii campi delle loro competenze e della loro attività politica, normativa, amministrativa.
Un secondo elemento da tener presente è che, mentre nel Mezzogiorno si avevano gli sviluppi qui sommariamente riassunti, anche nelle restanti parti del paese si avevano modifìcazioni e sviluppi di primario rilievo, che non vanno in alcun modo confusi con le più che opinabili questioni fatte disordinatamente valere dalla Lega Nord. Ora si parla, a ragione, di <<l1uove domande del Nord», ossia di una serie di richieste avanzate e moderne, da cui dipende l'avvenire, oggi messo seriamente in discussione, dell'Italia come paese tra i più sviluppati d'Europa e del mondo. Di queste <<l1UOVe domande del Nord" il Sud si deve fare alltrettanto deciso e intransigente sostenitore. È su questo piano che si misurerà in gran parte la rinnovata capacità - se vi sarà - delle classi dirigenti meridionali di mantenere, e rendere ancor più evidente, il carattere nazionale del problema del Mezzogiorno. È vero: l'Italia è andata avanti pur trascinandosi dietro la palla di piombo della "questione meridionale". Ma oggi siamo in grado di apprezzare meglio una notevole permanenza di precarietà dello sviluppo italiano; e possiamo anche apprezzare li, glio quanto più consistente e più solido lo sviluppo dell'Italia sarebbe stato, se il problema della palla di piombo dell'arretratezza o del molto minore sviluppo del Mezzogiorno fosse stato tempestivamente risolto. È, questa, una grande carta politica da fare, evidentemente, valere e rendere una carta di successo a breve termine, perché il ritmo di sviluppo delle cose appare tale da indurre a credere che, chiusasi l'attuale congiuntura, si avranno condizioni ed equilibri, in cui sarà oltremodo difficile affermare, insieme con quelle comuni con il Nord, le specifìche domande del Mezzogiorno, a loro volta irrinunciabili, ma che potranno riuscire tali solo se sapranno assumere tutti i caratteri di domande elaborate e formulate in un'ottica sempre nazionale, e per nulla con grettezza e parzialità soltanto meridionale. Non va, infatti, mai dimenticato che un crollo del livello di sviluppo e di collocazione internazionale della parte più avanzata e di punta dell'economia italiana, quale è quella collocata in così larga misura nel Nord del paese, coinvolgerebbe il Sud con effetti disastrosi. E oggi siamo al punto che in questo senso si teme molto per l'Italia, con la generale stagnazione del suo tasso di sviluppo, con la prospettiva di diventare essa tutta quanta una specie di Sud dell'Europa, con la previsione che entro un decennio o poco più essa si possa ritrovare raggiunta e collocata allo stesso livello di paesi come la Romania. Temi, questi, ai quali si lega anche la questione del "federalismo fiscale" e del "federalismo solidale", che rappresentano indubbiamente una nube piuttosto scura sul futuro del Mezzogiorno anche a breve termine.
A un terzo elemento accenneremo appena. È quello costituito dall'immigrazione di ormai vere e proprie masse allogene in Italia. Nel Mezzogiorno, più povero e con una domanda di lavoro molto minore che altrove, l'immigrazione è molto meno cospicua che nell'Italia del Nord. È, però, già oggi un problema di dimensioni non trascurabili, che si aggiunge ai molti già da affrontare, specialmente per quanto riguarda il governo delle aree urbane e quello di determinate attività economiche (edilizia e agricoltura, in primo luogo).
Un ultimo elemento, che qui vorremmo far presente in forma altrettanto sintetica, riguarda la riqualificazione e riformulazione delle domande del Sud: beninteso delle "nuove domande del Sud", da affiancare, come si è detto, a quelle del Nord, in parte coincidendo con esse e in parte aggiungendosi ad esse in quanto specifiche del Sud. È superfluo sottolineare l'importanza del tema, sul quale corrono molte, ma non tutte chiare, e soprattutto, disorganiche opinioni: servizi, infrastrutture, credito etc. etc., e specialmente "fìscalità di vantaggio", come ora si chiamano gli incentivi. È chiaro, invece, che si tratta di un quadro da considerare nella sua tradizionale triplice dimensione: nazionale, meridionale e Regione per Regione in modo da risultare compatibile e sinergico; un quadro da delineare e realizzare con il massimo di disegno organico e previsionale possibile, benché senza mai cadere, da un lato, nell'ottica ingannevole e infeconda di pretenziose programmazioni onnipervasive e onniprevidenti, e, dall'altro lato, nella tentazione delle dispersive serie di interventi a pioggia, dettati più da visuali politiche corporative c municipali che da un criterio di sana politica economica c sociale. E anche da questo punto di vista una riconsiderazione dell'azione e del ritorno a una relativamente maggiore responsabilità da attribuire allo Stato nei confronti di Hegioni e di enti locali appare come un punto sul quale richiamare la massima attenzione.
Il disegno al massimo possibile organico e previsionale, ma senza alcuna intenzione di tradizionali pianificazioni o programmazioni, al quale ci riferiamo comporta oggi, peraltro, come ben si sa, anche una quarta, ulteriore e condeterminante dimensione, rappresentata dall'Unione Europea, i cui interventi in materia delle politiche di sviluppo delle aree meno avanzate comprese nei suoi ormai molto ampi confini hanno assunto una natura e una consistenza tale da farne (soprattutto per quanto riguarda fondi ad hoc, incentivi, fisco, scambi all'interno e all'esterno della stessa Unione) un riferimento primario e crescente delle politiche nazionali di sviluppo relative a quelle stesse aree. L'Unione pensa, invero, al Mezzogiorno come a un naturale trampolino di lancio della sua proiezione nel Mediterraneo e verso la sponda meridionale del grande Mare Interno.
È una visione conveniente anche al Mezzogiorno per ragioni geografiche, storiche ed economiche che non c'è bisogno di ricordare, ma che hanno, però, bisogno di essere integrate organicamente con l'esigenza, da sempre prioritaria per il Mezzogiorno. L'esigenza, cioè, di legare il proprio destino e il proprio sviluppo civile innanzitutto all'Europa avanzata, all'area dell'Occidente europeo. Ciò è da sempre accaduto, più che in ogni altro campo, per quanto concerne vita e cultura intellettuale, e a questo riguardo si è visto spesso il Mezzogiorno in primo piano. Non altrettanto si deve dire in termini di civiltà e cultura materiale, di struttura e attrezzatura e relativa dinamica economica e tecnica, di equilibrio socio-economico, di costume e disciplina sociale, di regime di sicurezza e legalità, secondo il disegno di rincorsa e di svincolamento all'Europa che fu fin dall'inizio quello del maggiore meridionalismo (e di Giustino Fortunato in testa a tutti), ma che appare ancora non vicino a una sua non si dice piena, ma almeno soddisfacente realizzazione. E per ciò, senza entrare qui nei dettagli necessari a questo riguardo, ci limitiamo a notare che, come quella nazionale, così anche la dimensione europea delle vedute meridionalistiche deve ricevere un'attenzione specifìca e crescente. Bisogna evitare, in sostanza, che cessa si riduca soltanto alla richiesta di fondi strutturali e di incentivi o facilitazioni particolari, e curando, invece, che comprenda, in primo luogo, gli interessi e le prospettive più specifìche del Mezzogiorno nella considerazione complessiva delle politiche generali (e quelle di sviluppo in primo luogo) dell'Unione.

Sarebbe presuntuoso, se non sciocco, pensare che il punto sul Mezzogiorno oggi, che ci eravamo proposti qui all'inizio, sia tutto presentato e svolto in quanto abbiamo detto qui. Nessun dubbio è, tuttavia, possibile che l'essenziale e ciò che più è determinante risulti senz'altro da quanto si è detto. E ne discende, a nostro avviso, un problema di fondo: chi può o deve essere il soggetto politico protagonista, oltre che promotore, dell' azione politica conforme alle nuove necessità e domande del Sud? quali gruppi sociali sono da mobilitare più specificamente, allo stesso fìne, nell'ambito più generale dell'opinione nazionale e meridionale, oggi molto disinteressata e poco sensibile alle tematiche meridionali? quali sono i piani e i modi più idonei a conseguire mobilitazioni e consensi intorno alle nuove necessità e alle nuove domande del Mezzogiorno?
È a questi interrogativi che si deve rispondere, in primo luogo, dalla classe politica italiana, poiché nazionale (c'è bisogno di dirlo?) e non macroregionale del Sud, è la questione di cui si tratta. Ma si deve poi, in effetti, rispondere innanzitutto e soprattutto dalla classe politica meridionale. Solo così si potrà trasformare la paralizzante impasse, nella quale da una quindicina o ventina di anni si è imprigionato e sterilizzato il discorso sul Mezzogiorno, in una piattaforma di lancio di una nuova, più positiva e più risolutiva stagione del problema aperto rappresentato dal Mezzogiorno; in una nuova e più viva e vivifìcante stagione del meridionalismo; in un'occasione felice e feconda di risultati sia nella politica italiana che in quella europea. È inutile parlare di "nuovo Mezzogiorno" o di "nuovo discorso sul Mezzogiorno", se non si parte di qui.
È sempre vero, infatti, che il "problema del Mezzogiorno" è innanzitutto il "problema dei meridionali". E non lo si deve mai dimenticare. La rappresentazione settentrionale e corrente del Mezzogiorno come grande e costosa "area assistita" del paese è davvero semplicistica e fuorviante. Ma se si pretende di parlare dello stesso Mezzogiorno come di una risorsa oltre che come di un peso per il paese, e se non si pretende che il paese debba sopportare questo peso (in quanto però - sia chiaro - effettivamente sussiste) non solo per ragioni di equità e di diritto costituzionale, ma perché quell' asserita risorsa dimostra di essere tale e di produrne gli effetti, allora è dal Mezzogiorno stesso che deve partire la prima e maggiore scintilla di un nuovo suo sviluppo. Non si può parlare in eterno delle virtù e delle potenzialità nascoste o sottoutilizzate del Mezzogiorno senza rendersi del tutto incredibili a questo riguardo. Non c'è nessuna ragione di pudore nel riconoscere, e chiedere che venga riconosciuto, che il Mezzogiorno può' e deve essere aiutato a trovare la via di un vero e defìnitivo superamento del divario, soprattutto, ma non soltanto, socio-economico, con la restante Italia. È altrettanto, e anzi ancor più chiaro, che l'aiuto presuppone, e in ogni caso impone, la responsabilità della propria iniziativa, di un proprio integrale impegno di azione in tal senso.
Le prospettive non sono le migliori. Essere il Sud di un'Italia che figuri tra i 70 8 Grandi del mondo non è piacevole. Essere il Sud di un'Italia che sia essa stessa, come abbiamo detto, un Sud dell'Europa sarebbe assai meno gradevole. Noi non siamo affatto pessimisti per ciò che riguarda l'Italia. Siamo, anzi, per essa decisamente ottimisti, e pensiamo che, con qualche fatica e, ancor più, con qualche l'aggiustamento, l'Italia potrà mantenere, nella sostanza, la sua attuale collocazione internazionale di paese avanzato. È per il Mezzogiorno che continuiamo ad avere perplessità, e ci appare perciò decisivo che alle questioni, di cui abbiamo cercato qui di illustrare i termini essenziali, si risponda - da parte delle classi dirigenti (e in particolare dalla classe politico-amministrativa) e della società italiana, e innanzitutto e soprattutto da parte del Mezzogiorno stesso - nei modi e nei tempi che allo stato delle cose sembrano prevedibili, e che non appaiono parrticolarmente generosi.

Federalismo: lucciole e lanterne
ADRIANO GIANNOLA"

Il Nord è "stanco di correre con le catene ai piedi"; lamenta che "non si può rinforzare il debole indebolendo il più forte".

Questa ansia di liberazione ha prodotto il disegno di legge presentato al Senato nella passata legislatura, (Atto n. 1676) per iniziativa (sostanzialmente unanime) del Consiglio regionale della Lombardia contenente "nuove nonne per l'attuazione dell'art.ll della Costituzione".
L'approvazione di questo disegno di legge - già ripresentato dal senatore Bossi - è un preciso impegno assunto nel programma elettorale del PDL.
Di che si sta parlando
L'articolo 119, nel testo del nuovo titolo V della Costituzione, fìssa i meccanismi finanziari del rapporto tra Stato ed Enti territoriali disegnando l'impianto di quello che viene definito federalismo fìscale.
Fin dal suo apparire è stato oggetto di contorti esercizi interpretativi, nonostante la sua articolazione e struttura consenta un'interpretazione letterale logica, semplice ed armonica.
I primi tre commi dell'articolo, individuano nei tributi ed entrate proprie; nella compartecipazione al gettito di tributi erariali riferibili al territorio dell'Ente; nel fondo perequativo per i territori con minore capacità fiscale per abitante, le fonti di finanziamento delle attività degli Enti territoriali (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni) e il quarto comma "chiude" stabilendo in modo vincolante, a chiare lettere, che "le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai C01nuni, alle Province, alle Città metropolitane ed alle Regioni di finanzia're integralmente le funzioni pubbliche a loro attribuite",
Questa chiara norma costituzionale, individua anche un modello operativo chiaro e preciso. Essa ribadisce il principio che le risorse "standard" disponibili siano adeguate al fabbisogno finanziario che risulta dall'esercizio, a livello normale, delle funzioni attribuite a ciascun Ente territoriale, ed impone perciò al legislatore di costruire un sistema tale che ciascun Ente (applicando l'aliquota standard dei tributi ed il livello standard delle tariffe) sia nelle condizioni di fornire alla comunità locale amministrata un livello appropriato di servizi.
Quale sia il livello appropriato dei servizi, e - soprattutto - chi sia legittimato a deliberare in proposito, risulta dal disposto dell'art. 117 (comma 2 m) ove è detto che lo Stato ha legislazione esclusiva nella "detenni nazione dei livelli essenziali delle prestazioni con cementi i diritti civili e soC'iali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale", ed in cui è scritto (comma 2 p) che spetta alla legislazione esclusiva dello Stato la disciplina delle Jimmzioni fondamentali di Regioni, C01nuni, Province Città metropolitane. È bene anche ricordare che - sempre nel citato articolo 117 (comma 2 e) - lo Stato ha competenza esclusiva in materia di perequazione delle 'risorse finanziarie.
Dalla logica stringente dell'art. 119 discende con chiarezza anche il meccanismo (non necessariamente l'unico ma certamente il più "effìciente" e diretto) secondo il quale costruire e rendere operativo il fondo di perequazione senza vincoli di destinazione previsto dal terzo comma. È, questo, un aspetto delicato perché risolve alla radice lo spinoso problema del rapporto tra regioni sedicenti donatrici e regioni beneficiarie; un problema inesistente in uno schema di federalismo effettivamente "verticale" .
La fìnzione delle compartecipazioni va ricercata all'interno del percorso logico tracciato nei commi 2, 3 e 4 dell'art. 119: la finalità è di concorrere a 'finanzia're integralmente", dato il livello standard delle entrate proprie e a fronte di costi standard dei servizi, le funzioni attribuite alle Regioni.
Perciò, la dimensione della compartecipazione, per le Regioni più ricche, non dovrebbe eccedere quanto necessario per il soddisfacimento del fabbisogno definito "esogenamente" (dallo Stato) sulla base del criterio di garantire i livelli essenziali di assistenza e di servizi. Ed al contempo la consistenza del fondo perequativo dovrebbe complessivamente attestarsi sulla dimensione necessaria e sufficiente a garantire quanto previsto dal quarto comma (cioè concorrere al finanziamento integrale delle funzioni attribuite),
Seguire questo principio significa realizzare la salvaguardia del federalismo fiscale di stampo cooperativo (verticale), assicurando processi di perequazione garantiti dallo Stato e non affìdati a relazioni di tipo contrattuale tra regioni (federalismo fiscale di stampo competitivo). Per reaalizzare tale obiettivo, allora, è logico concludere che la dimensione della compartecipazione ai tributi erariali deve essere tale da garantire solo alla regione più ricca quanto necessario al fabbisogno "esogenamente" definito.
In tal modo, coerentemente ai principi del "federalismo cooperativo", attraverso la opportuna, facilmente realizzabile, definizione di una appropriata quota percentuale delle compartecipazioni previste, lo Stato sottrae alle Regioni più ricche - e anche a quella più ricca - il ruolo di "donatrici", eliminando contestualmente ogni pretesa di incidere sui diritti costituzionali dei cittadini delle Regioni che attingono al fondo di perequazione.
Dunque, l'aliquota "ideale" di compartecipazione per il nostro modello sarà quella che consente la COpe1"tura del fabbisogno regionale solo per la regione più ricca.
In tale caso è l'operare del "fondo perequativo senza vincoli di destinazione" (comma 3 dell'articolo 119) a garantire a tutte le restanti regioni il principio della sufficienza delle risorse.
Tutto ciò è rigorosamente coerente con quanto stabilito dall'arto 3 della Costituzione, secondo il quale lo Stato ha l'obbligo di assicurare, in condizioni di uguaglianza, a ciascun cittadino dovunque egli risieda un ammontare congruo di servizi.
Inoltre, proprio perché il fabbisogno viene commisurato a predefìniti standard di costi e di tariffe, questo modello di federalismo fiscale consente di introdurre un forte controllo di efficienza e di stabilire possibili sanzioni per chi non riesce a gestire le risorse secondo criteri ed obiettivi condivisi a livello nazionale. Al contempo questa metodologia non è imputabile di privilegiare una propensione "livellatrice" che inibirebbe la espressione e lo sviluppo delle autonome aspirazioni dei diversi territori. Infatti, una volta definita la consistenza del fondo perequativo e quanto necessario a finanziamento delle residue finzioni svolte in esclusiva dallo Stato, il "surplus" di risorse da imposte erariali riferibili al territorio potrà essere disponibile nei territori di riferimento. Queste risorse - e l'esercizio dell'autonomia impositiva - potranno sostenere l'aspirazione a costruire quella "diversità" di modelli regionali, non lesiva dei diritti di cittadinanza, che dovrebbe essere l'anima del cosiddetto federalismo solidale.
Il comma 5 dell'art. 119
Si è argomentato che il "normale esercizio" delle funzioni attribuite agli Enti territoriali potrebbe anche essere finanziato con le risorse di cui al comma 5, inteso così come "ruota di scorta" se non addirittura fattore sostitutivo del fondo perequativo stesso.
Il che è decisamente da escludere.
Gli interventi previsti nel comma 5 sono del tutto estranei alla logica di fìnanziamento delle funzioni pubbliche attribuite agli Enti territoriali, esulando dalla possibilità di riferirsi al "normale esercizio delle loro funzioni".
Gli interventi considerati sono definiti "speciali" e le risorse che li realizzano sono defìnite "aggiuntive" e non riguardano la generalità degli Enti territoriali che non coprono con le loro risorse "ordinarie" le funzioni normali, ma soltanto "deterrninati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni". Né la gestione di questi interventi sul territorio é di competenza degli Enti territoriali visto che si prevede che "lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali".
In conclusione, simmetricamente a quanto già rilevato per il fìnanziamento delle funzioni pubbliche attribuite agli Enti territoriali, anche il comma 5 dell'articolo 119 conferma l'intento del legislatore di perseguire un modello di federalismo fiscale con perequazione verticale che, in questo caso, si sostanzia nel riservare allo Stato il compito complessivo di "promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solida'rietà. sociale". Un compito non certo marginale in un sistema che manifesta proprio a livello territoriale macroscopici squilibri strutturali.
L'alternativa lombarda alla Costituzione
I principi ispiratori del disegno di legge del consiglio regionale lombardo sono radicalmente contrari alla torma ed allo spirito del titolo V della Costituzione; di conseguenza la proposta di attuazione dell'art, 119 ha ben poco a che con quanto esso prevede nei suoi quattro commi (per non parlare del quinto che la Lombardia sopprime).

Eloquente l'assunto ispiratore " ... Oggi i nostri cittadini pagano le tasse, creano ricchezza ma i trasfe-rimenti vanno ad altri. Questo rischia di compromettere non solo la locomotiva lombarda ma l'intero sistema economico italiano". Ne consegue l'arrogante impazienza a realizzare per via fiscale l'inversione del temuto "declino" italiano che, con comoda scorciatoia, viene attribuito al gorgo meridionale accusato di ingoiare (e sperperare) fiumi di trasferimenti assistenziali.
Con questa diagnosi, non meraviglia la terapia proposta. In sostanza si rovescia l'ispirazione "verticale" per proporre una versione di federalismo "orizzontale" particolarmente estrema. E quanto alle risorse da incamerare, esse sono tali che non assomigliano lontanamente alle "compartecipazioni" del 119; è semmai lo Stato ad essere ridotto al rango di compartecipante minore delle imposte erariali. Le regioni divengono i titolari dell'80% dell'Iva riscossa sul proprio territorio oltre a prelevare un'imposta regionale sul reddito in sostituzione dell'IRPEF regionale con un'aliquota base uniforme per tutte le regioni del 15%. Si aggiungono poi i gettiti delle accise, imposte tabacchi e giochi riferibili al proprio territorio.
Con questa ardita impostazione si trasforma un imposta sul consumo come l'IVA in una (finta) imposta sulla produzione. Ne deriva una rendita colossale proprio per la Lombardia (e per le regioni "esportatrici interne", cioè il Centro-Nord) che pretende di incamerare quanto pagato a Napoli (e nelle regioni "importatrici interne", cioè al Sud) dal consumatore di prodotti lombardi. Un' assurdità tecnica con un risvolto redistributivo pesantissimo che - si stenta a crederlo - viene salutato da autorevoli commentatori meridionali come un ovvio doveroso tributo alla "locomotiva" lombarda da assolvere, forse in espiazione dei misfatti meridionali.
Non manca certo qualche concessione alla perequazione - vigilata dalle regioni donatrici (eufemisticamente dette "affluenti"). Ma la perequazione, non può e non deve proporsi di garantire il finanziamento delle funzioni attribuite alle regioni "traenti", quali che siano i servizi da assicurare con le nuove competenze acquisite.
Bontà loro i lombardi concedono che il testo proposto è " ... suscettibile di emendamenti ma ... rappresenta una base concreta di discussione". Ed il rischio concreto è che il Governo, sensibile agli impegni sottoscritti dal PDL, non potrà non fare riferimento a questa "base concreta di discussione", anche perché la forza di persuasione della componente federalista della maggioranza è oggi cresciuta a dismisura.
La verifìca di se e quanto sarà forte la propensione a percorrere una strada che guarda nella sostanza al benchhmark lombardo più che alla Costituzione sarà presto resa pubblica dal Governo obbligato a presentare un suo disegno di legge.
Ma le avvisaglie che la sponda costituzionale sia non tanto un approdo quanto un porto da cui partire per una traversata che può davvero portare lontano ci sono e non provengono solo dall'attuale esecutivo.
Una soluzione fiscale alla "questione settentrionale" è stato oggetto del disegno di legge presentato dal Governo Prodi, che disattende ampiamente quanto previsto dal comma 4 del 119 e nel quale troviamo già codifìcato il principio che la perequazione deve tendere " ... all'obiettivo di ridurre le differenze di gettito per abitante rispetto al gettito medio nazionale per abitante" secondo una percentuale lasciata indeterminata e comunque tale da non turbare, salomonicamente, l'ordine delle Regioni rispetto alla media nazionale. La conseguenza implicita di questa stravaganza è che qualcosa sarebbe sottratto a chi sta sotto la media e qualcosa aggiunto a chi sta sopra la media.
Ma c'è di più, il- decaduto - disegno di legge sanciva che - fatti salvi, sanità ed assistenza - non sussistono motivazioni di ordine politico e sociale tali da richiede1-e omogeneità nella distribuzione territoriale delle risorse finanziarie disponibili. Con buona pace del principio di uguaglianza dei punti di partenza, (e presumibile entusiasta adesione dei lombardi), il Governo Prodi affermava la sostanziale irrilevanza di un'omogenea disponibilità di servizi concernenti la formazione, la ricerca, il capitale umano, l'inquinamento ambientale, ecc. cioè di quei fattori (economie e diseconomie esterne) essenziali per lo sviluppo economico e sociale.

Con questi presupposti, l'esito del confronto che parte dallo spirito della proposta lombarda potrà realizzare il paradosso di una formale quadratura del cerchio che nei fatti relegherà come "irrealisticamente estremista" il dettato della costituzione e lavorerà a vestire di panni decenti la ricetta lombarda. Una ricetta rozza nei suoi presupposti (ormai popolari anche al Sud) tanto radicati quanto infondati che alimentano la pericolosa illusione di rivivifìcare il sistema Italia con terapie di "disintegrazione per parti" che alle robuste trasfusioni alla locomotiva padana fanno corrispondere la lenta eutanasia del Mezzogiorno.

Differenze e convergenze

Quale che sia il cocktail che verrà servito nell' attuazione del 119, la differenza - temo - sarà solo di grado, non di natura. E ciò per la convinzione assai popolare che uno "shock da federalismo" faccia bene al Sud. Una opinione condivisibile se il federalismo fosse la lineare applicazione del11g capace di rappresentare, come già detto, un positivo contributo alla responsabilizzazione nella gestione delle risorse con la possibilità di garantire i fondamentali diritti di cittadinanza lasciando spazi affinché i più ricchi, e anche i più effìcienti, possano realizzare un percorso autonomo.
L'applicazione eventuale della proposta lombarda (ed in misura più timida quella del precedente Governo) verrrebbe invece alimentata in misura consistente da una ingiustifìcabile compressione dei diritti di cittadinanza delle aree fiscalmente più deboli.
Come a più riprese argomentato nel quaderno SVIIMEZ n. 12, la pretesa lombarda muove da due principi fondamentali:
a. teoria del trasferimento implicito (ed indebito)
b. conseguente diritto di assicurarsi la "restituzione" dei trasferimenti indebiti.
Per il PRINCIPIO della RESTITUZIONE le somme pagate dai singoli cittadini per le imposte erariali appartengono in realtà alle collettività territoriali le quali quindi hanno diritto a vedersele - in quanto comunità - restituite pro quota.
Alla base di questo presunto diritto sta il fuorviante richiamo al principio del TRASFERIMENTO IMPLICITO.
Se ciascuno paga le imposte a seconda della sua ricchezza (anzi progressivamente rispetto ad essa, art 53 2° comma della Costituzione), il gettito raccolto nei diversi territori (ad esempio Regioni) ed anche all'interno di essi (ad esempio province, comuni, quartieri, condomini, ecc.) dipende ovviamente dal reddito dei contribuenti. Se il reddito dei contribuenti è diverso ed i servizi sono finiti in condizioni di uniformità di standard (o di minor diversità rispetto alla diversità dei redditi) si genera un "guadagno" ritenuto illegittimo per i territori a minore ricchezza (trasferimento implicito) e di conseguenza la "legittima" pretesa ad una restituzione.
È evidente come questa argomentazione assegni al territorio un diritto sulle risorse del tutto scisso dai diritti dei singoli cittadini. In realtà c'è una definizione strumentale di territorio come "comunità rilevante" (nel caso specifico la Regione) che serve a definire confìni, al cui interno, invece, torna a prevalere la logica dei diritti e doveri in capo ai singoli cittadini: ciò evita che San Babila possa accampare pretese sulle relativamente povere periferie meneghine.
Questa procedura è profondamente errata e non a caso non trova spazio nella nostra Costituzione e nella più accreditata ed ortodossa tradizione scientifìca ed accademica che, unanimemente, convengono che il principio di uguaglianza concerne le persone; il che non solo è del tutto compatibile ma necessariamente determina un'articolazione territoriale (regionale, cittadina, di quartiere, condominiale, ecc.) in forza della quale in questi diversi ambiti territoriali il residuo fiscale (entrate meno uscite) sarà diverso.
L'unico possibile legittimo argomento a sostegno dell'impostazione del "trasferimento implicito" e del conseguente diritto alla restituzione si avrebbe se fossimo di fronte a un "eccesso" di trasferimenti ai cittadini del Sud. Sarebbe legittimo in tal caso il diritto dei contribuenti del Nord ad una adeguata ristoro.

Di qui la importanza di portare il discorso nel merito delle risorse, non per lamentarsi o "piangere miseria", bensì per sgombrare il terreno - almeno - dalla poco dignitosa rappresentazione (accettata con rassegnato senso di colpa) di un Sud parassita nazionale.
A ben vedere, l'assunto che accomuna molti osservatori al Nord e al Sud è proprio la preanalitica condivisione dell'idea che il Mezzogiorno sia stato in questi anni (o da sempre) "sommerso" di trasferimenti. A chi obietta invitando a fare qualche conto, si replica che le risorse sono anche troppe; anzi sarebbe addirittura auspicabile ridurle.
Mi sembra, invece, che di fronte a queste auliche scempiaggini sia proprio il momento di parlare di risorse contribuendo a una corretta informazione in modo da rispondere alla stucchevole retorica secondo la quale " ... Oggi i nostri cittadini pagano le tasse, creano ricchezza ma i trasferimenti vanno ad altri. Questo rischia di compromettere non solo la locomotiva lombarda ma l'intero sistema economico italiano".
I cosiddetti trasferimenti sono la evidenza contabile di una concentrazione - rispetto alla media - di cittadini "più abbienti" al Nord e di cittadini "meno abbienti" al Sud. Se i "più" e i "meno" fossero equamente ripartiti sul territorio, gli stessi prelievi e la stessa spesa destinata agli stessi utenti non farebbe comparire, a livello territoriale, nessuna traccia di trasferimenti. In presenza della storica polarizzazione dei livelli del reddito nelle due aree del Paese, la contabilizzazione dei trasferimenti dal Nord al Sud per questo fine perequativo, nulla ha a che fare con una allocazione assistenziale delle risorse.
A questi "pseudo trasferimenti" - è affìdato infatti il compito di assicurare la fruizione di quei diritti (sociali e civili) di cittadinanza definiti nella I parte della Costituzione. Se questi sono i "pseudo-trasferimenti", i trasferimenti "veri", costituzionalmente legittimi, sono invece solo quelli attivati per far fronte a quanto previsto dal comma 5 del llg. Essi non attingono ad un qualche fondo perequativo, bensì sono alimentati dalla destinazione che lo Stato fa di una parte delle risorse fiscali in eccesso rispetto alla soddisfazione di quanto previsto nei primi quattro commi del llg.
È invece legittimo definire davvero Assistenziali quei trasferimenti che, non motivati dal finanziamento di politiche di sviluppo, fossero in eccesso rispetto alla fornitura dei servizi costituzionalmente garantiti sul livello normale.
L'identificazione delle risorse riferibili alle realtà locali (Regioni, ecc.) eccedenti rispetto a quanto assorbito dalla corretta applicazione di tutti i cinque commi del ll8, può finalmente intendersi come il perimetro legittimo nel quale si esplica la "diversità" e l'autonomismo che, impropriamente, si usa oggi chiamare federalismo.

Qualche dato

L'agevole evidenza di quanto "assistenziali" siano i trasferimenti al Sud la forniscono i conti territoriali del Dipartimento per le politiche di sviluppo del Ministero dell'Economia. Si comincia dall'elusione del dettato cosituzionale concernente l'applicazione del comma 5 del llg. Il DPS nel defìnire il programma di spesa per investimenti pubblici - proprio richiamandosi al dettato costituzionale - pone per il Sud l'obiettivo di una quota di spesa in conto capitale per investimenti pubblici pari al 45%·
I consuntivi mostrano che tra il Igg8 e il 2006 la quota di spesa in conto capitale, declina dal 41% al 37%. E la quota di spesa per investimenti pubblici dal 34% al 31,3%, a fronte di una quota di popolazione meridionale pari a circa il 36%. Questa evidenza è messa in ancor maggior risalto dai dati sulla spesa pro capite "connessa allo sviluppo" dai quali risulta la crescente distanza degli investimenti pubblici pro capite rispetto al Centro Nord per ciò che riguarda le infrastrutture sia materiali, che immateriali, con livelli di spesa pro capite in settori cruciali come la sanità o l'ambiente in caduta assoluta al Sud contro l'incremento assoluto del Centro-Nord.
All'erosione della garanzia dei diritti costituzionali contribuisce in modo occulto ma sostanziale anche l'onere che la gestione del debito pubblico pone a carico dei soggetti a minore capacità fiscale fin dall'inizio degli anni Novanta e che si manifesta con una pesante redistribuzione finanziaria alimentata dai colposi surplus primari necessari a stabilizzare il rapporto debito pubblico e prodotto interno lordo.
La realizzazione di ingenti avanzi primari ottenuti con la riduzione della spesa (distribuita in proporzione della popolazione) e con l'aumento delle entrate (in proporzione del reddito) in contemporanea con una distribuzione territoriale del debito detenuto dai residenti squilibrata a favore del Centro-Nord, in misura ben maggiore dello squilibrio in termini di reddito (il 90% dei titoli pubblici detenuti dalle famiglie residenti fa capo a quelle settentrionali) determina una dinamica dei flussi finanziari a sfavore dei contribuenti meridionali. Ovviamente - come per i "pseudo-trasferimenti" - ciò rappresenta la manifestazione geografica dell' onere che la politica di rientro pone a carico dei non detentori di titoli pubblici, quale che sia la loro residenza. In altri termini, l'effetto redistributivo della manovra, colpisce i non detentori (o, meglio, i detentori minori) di titoli pubblici. Il contemporaneo operare del "principio di equivalenza ricardiana" abbinato all'articolazione duale dell'economia determina una naturale concentrazione degli effetti sui residenti meridionali.
La redistribuzione di risorse fìnanziarie a sfavore del Mezzogiorno era dell' ordine di un miliardo di euro nel 1992, di oltre 3 miliardi di euro nel 1993 quando il meccanismo degli avanzi primari va a regime. Non certo per caso da quando si realizzano signifìcativi surplus primari, il cuore delle importazioni nette meridionali (proxy dei traferimenti) in percentuale del PIL regionale cade di oltre sette punti (dal 25% del 1991 al 16% del 2006): non si tratta di un virtuoso riscatto dalla dipendenza, bensì della meccanica evidenza territoriale di un razionamento che pesa sistematicamente a sfavore del Sud.
A riprova di ciò, consideriamo, infìne, il risultato di un semplice esercizio che può essere definito di finanza pubblica "neutrale". Il residuo fìscale (escludendo la spesa per interessi) è calcolato per il Mezzogiorno e il Centro-Nord come differenza tra entrate totali e uscite totali a livello nazionale ripartite tra le due ripartizioni in proporzione rispettivamente del proprio reddito e della propria popolazione residente. Dal confronto con il dato effettivo del residuo fìscale si evince che il Centro-Nord dal 1998 in poi è stato sì fornitore netto di risorse, ma in misura ben inferiore rispetto ad una situazione defìnita "neutrale", ovvero quella che si sarebbe dovuta verificare se entrate e spese della pubblica amministrazione fossero state ripartite rispettivamente in base alla capacità contributiva e alla popolazione delle sue aree. Una volta detratto il pagamento degli interessi effettivi dal residuo fìscale "neutrale" (residuo fiscale-fìnanziario), il risultato oltre ad essere confermato è - a motivo della ben più sperequata distribuzione territoriale della detenzione della ricchezza fìnanziaria dei residenti - macroscopicamente accentuato.

Le ansie ed i crucci della locomotiva lombarda non nascono dal flusso dei trasferimenti al Sud.

Per concludere è comico - ma al contempo tristemente tragico - sentir dire con foga che "fa saltare i nervi" la richiesta che le funzioni attribuite siano debitamente finanziate (cioè chiedere il rispetto della Costituzione). Forse è già pronto il recinto ove confinare questo insopportabile estremismo.
Sul federalismo si scambiano molte lucciole per lanterne; facendo appello ad una non meglio giustificata ragionevolezza, si consolida un conformismo che lavora alacremente alla disarticolazione del sistema. E questa "soluzione fìnale" non realizzerà certo l'ottimo paretiano.

Incentivi fiscali e Mezzogiorno
AMEDEO DI MAiO"

La storia spesso prosegue per agevoli sentieri che collegano luoghi comuni. Tutti gli altri luoghi sono raggiungibili solo percorrendo sentiero impervio Chi li intraprende si sente solo e raggiunto il luogo non comune scopre, come elemento magico, che la sua dimensione varia al variare dei viandanti che vi giungono.

La dimensione di questi luoghi è oggi in Italia pressoché nulla, perché sembra non esserci politico che spinga la moltitudine ad abbandonare la via maestra che conduce alla mediocrità e al declino e ad intraprendere la strada irta della complessità e della effettiva modernità.
Il Mezzogiorno d'Italia è un territorio costellato di luoghi comuni e i luoghi reali hanno quindi perduto la loro effettiva dimensione. Inoltre, le politiche economiche sono famiglie che vivono in un unico luogo comune denominato liberismo.
Tratteremo, in questa breve nota, di questi due soli luoghi comuni, Mezzogiorno e liberismo, con il tentativo, da un lato, di dimostrare l'inutilità delle politiche che su di essi si basano e, dall'altro, di individuare strategie più effìcaci nel contribuire allo sviluppo di questa vasta area del Paese.
a) Primo luogo comune: il fisco neutrale. È un luogo comune che ha assunto le sembianze di un morbo liberista che ha intaccato soprattutto la Commissione dell'Unione Europea. Come avremo modo di vedere meglio in seguito e come spesso succede nei sistemi fiscali, osserviamo una "neutralità non neutrale" che ha penalizzato il Mezzogiorno d'Italia.
In estrema sintesi, neutralità delle imposte significa, da un lato, che il comportamento efficiente dei contribuenti-operatori non dev'essere influenzato dall'esistenza del tributo e, dall'altro, che l'imposta non deve violare le condizioni di un mercato concorrenziale.
Gli economisti liberisti hanno sempre un unico vero obiettivo (che contiene tutti gli altri), espresso tanto in forma esplicita quanto implicita: fare in modo che le condizioni di mercato tendano a quelle della concorrenza perfetta. Per far ciò bisogna eliminare gli ostacoli che non lo consentono e tra questi le imposte distorsive appunto della concorrenza. Distorsive, non su ciò che esiste ma su ciò che si vorrebbe esistesse! Non è questione da poco. Raramente si costruisce eliminando qualcosa, anche in economia probabilmente nulla si crea, nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. ]~ solo apparente, pur nella grandezza di un Michelangelo, la liberazione dei Prigioni, nella realtà egli li scolpisce.
Questo principio basilare della neutralità urta tuttavia con la fiscalità di vantaggio. Infatti, un incentivo fiscale non può essere, per defìnizione, neutrale. Gli incentivi fìscali nascono come scelte di politiche di sviluppo di particolari aree o settori. Anche la politica deve rispettare il principio di neutralità? Se lo facesse, smentirebbe se stessa, la sua natura. La tassazione è uno strumento della politica. Perché dev'essere allora neutrale? Posto che lo debba essere, la sua applicazione è ben strana. Ad esempio, in un mondo che si dichiara ad ogni piè sospinto globalizzato, l'Irlanda, grande quanto, se non meno, del Mezzogiorno d'Italia, può applicare imposte sull'utile delle società particolarmente basse e tali, a parità di condizioni, da attrarre investimenti diretti esteri. Nel caso dell'Irlanda, si tratta di una politica fiscale neutrale perché non discrimina a vantaggio di una sola parte delle imprese nazionali. Per il Mezzogiorno, questa politica non potrebbe essere attuata perché riguarderebbe imprese collocate e collocabili in una parte soltanto del territorio nazionale.
b) Secondo luogo comune: l'efficacia della fìscalità di vantaggio. In economia si ragiona spesso assumendo parità di condizioni (coeteris paribus). È la logica della statica comparata. Data una situazione che si compone di più aspetti, se modifichiamo uno solo di questi, quale sarà la nuova situazione? In termini di fiscalità di vantaggio, il ragionamento sintetico è il seguente. Le imposte costituiscono un costo per l'investitore, nel senso che riducono, a parità di condizioni, la convenienza di una intrapresa economica. Se Osserviamo che in un dato territorio A la redditività degli investimenti è di un certo ammontare, superiore a quella ottenibile mediamente in un altro territorio B, assumendo assenza di costi di transazione, non può che accadere nel tempo che nel territorio A si localizzeranno gli investimenti, mentre in B tendono a delocalizzarsi o almeno a non nascerne di nuovi. È un problema di "concorrenza territoriale", scrivono i soliti liberisti, per analogia alla concorrenza tra le imprese nel mercato. Ne discende che il territorio B deve migliorare le condizioni di concorrenza, dev'essere maggiormente attrattivo. Si guardi all'Irlanda (non più il paese dai cieli solcati da meravigliose nuvole, della musica celtica e della Dublino di Joice, ma il paese del 1O%!), luogo comune che si ricorda sempre, quando si discute di fìscalità di vantaggio. In quel paese, l'imposta sul reddito netto dell'impresa ha una aliquota particolarmente bassa ed è generale, nel senso che è applicata a tutte le imprese, indipendentemente dalla forma giuridica, dalla dimensione o da qualsiasi altro elemento (compresa la nazionalità del soggetto proprietario). Il successo di questa politica è oggettivo e discende anche dalla particolare dimensione ridotta della popolazione e quindi delle attività economiche. Tuttavia, questo successo non deve condurre ad osservare che, quindi, dove si applica la fìscalità di vantaggio, si può ottenere il medesimo risultato. La scelta di dove investire dipende da un insieme di variabili e la variabile fiscale è una di queste. Contano i servizi (ad es., trasporti, comunicazione), la cultura (la lingua parlata, i comportamenti medi della gente), la sicurezza (l'assenza di malavita organizzata e/o diffusa, le condizioni igieniche e sanitarie), la professionalità media (il livello qualitativo delle scuole e dell'università), la tassazione (sia in termini di aliquote, sia di costi di adempimento, questi ultimi comprensivi di eventuale corruzione dell'amministrazione pubblica).
Ne discende, che in termini di pura razionalità, la scelta localizzativa degli investimenti dipenderà solo e solamente dal sistema impositivo se tutte le altre variabili assumono un valore relativo positivo (inteso come preferibile rispetto agli altri territori considerati). Può, naturalmente, accadere che si preferiscano territori che si connotano per condizioni sociali non positivi, tuttavia sarà possibile solo se l'imposta tende a zero o se i disvalori sociali presenti in quel territorio sono tali da consentire signifìcativi risparmi in altri costi della produzione (il costo del lavoro, comprensivo della sicurezza nel lavoro, basse tutele nel mercato del lavoro, assenza di leggi o di controlli sugli effetti ambientali, ecc.).
È forse sufficiente una comparazione di massima tra l'Irlanda ed il Mezzogiorno d'Italia, per comprendere che la sola variabile fìscale non risulta suffìciente per incentivare la localizzazione degli investimenti.
D'altro canto, il Mezzogiorno d'Italia rappresenta un eccezionale laboratorio per chi volesse studiare l'analisi degli effetti degli incentivi fiscali. Infatti, questo territorio, dal secondo dopoguerra, è stato quello su cui sono state applicate le più svariate forme di incentivi agli investimenti (il contributo a fondo perduto, la detassazione degli utili, ammortamenti particolarmente accelerati, fiscalizzazione degli oneri sociali, credito di imposta, ecc.), anche cumulati. Tuttavia, i risultati attesi non si sono avuti e ciò dovrebbe indurre alla ovvia riflessione della effettiva incidenza della sola variabile fìscale.
c) Terzo luogo comune: la misurazione dell'efficacia dell'incentivo e la considerazione solo positiva degli investimenti esteri. L'incentivo fiscale si rivolge a due soggetti economici: !'investitore interno all'area, l'investitore esterno. Non è facile capire quanta parte dell'investimento complessivo aggregato di ongme interna all'area si sarebbe non realizzata, in assenza dell'incentivo e bisognerebbe indagare sull'effettiva vita economica degli investimenti incentivati, per capire se essi sono serviti a rendere possibile l'ottimizzazione della scelta ad investire o più semplicemente a cogliere l'occasione per comportamenti alla Woody Allen ("Prendi i soldi e scappa").
Più semplice è tentare di stimare l'effetto dell'incentivo sull'investimento di provenienza esterna. L'idea comune è che quanto maggiori sono questi investimenti (la loro variazione rispetto al passato), tanto maggiore è il benessere per la collettività dell' area. Soprattutto i politici, incentivati dal pensiero unico e debole continuamente diffuso dai giornali e dai mezzi di comunicazione, dimenticano la rilevanza dei processi di accumulazione del capitale. Questi processi hanno rilevanza sia economica, sia politica perché incidono crucialmente sui meccanismi di decisione economica e politica. Senza entrare nei dettagli, dovrebbe comunque apparire evidente che quanto più l'accumulazione del capitale prodotto in loco si trasferisce altrove, tanto più aumenta il grado di dipendenza dell'economia locale, e quando si riduce la forza dell'economia è diffìcile pensare che non diminuisca anche quella politica locale, destinata ad assumere le sembianze di un effettivo nuovo colonialismo. Questi rischi sono tanto più elevati, quanto maggiore è la possibilità della mobilità dei capitali fisici, oltre che fìnanziari.
d) Quarto luogo comune: la non rilevanza delle regole istituzionali sull'efficacia dell'incentivo fiscale.

Un'assunzione implicita è che l'incentivo possa produrre gli effetti sperati, indipendentemente dalle regole istituzionali presenti nell'area che dovrebbe benefìciarne. Esiste ormai una vasta letteratura di economia delle istituzioni che riconosce la non validità di predetta assunzione. Ne discendono raccomandazioni volte a modifìcare le istituzioni in modo tale da renderle adatte alle nuove policy.
In Italia il politico sceglie la strada opposta. Scriveva Lionello Rossi che il politico meridionale rinuncia a partecipare alla scelta della politica industriale del Paese in cambio del trasferimento di un postino. Questa sia pur miope e incolta politica nasce comunque dalla necessità di cercare il consenso ed è possibile che lo si trovi non solo attraverso i trasferimenti dei dipendenti, ma anche individuando le forme di incentivo economiche più gradite alla imprenditoria locale.
Oggi il deputato non ha più bisogno di cercare il consenso, per via del sistema elettorale feudale che si è di recente istituito in Italia. È suffìciente che il deputato vassallo venga scelto dal feudatario. Può accadere e sovente accade che il rappresentante in parlamento sia votato in un collegio del tutto estraneo alla sua vita fisica e politica o che siano del tutto ignorate le sue scelte pubbliche o che lo stesso in fondo non si sia posto il problema di averle. Certo, in tal caso si ridurranno i trasferimenti dei dipendenti pubblici ma aumenterà anche il potere oligarchico. Questo tipo di potere ama particolarmente viaggiare per luoghi comuni.
e) Quinto luogo comune: incentivo fìscale e sistema fìscale complessivo.
Senza scomodare Adam Smith, non v'è dubbio che l'incentivo fìscale costituisce un vantaggio per l'investitore che lo intende utilizzare e tuttavia non conduce automaticamente a ritenere che l'interesse individuale si trasformi, attraverso mano invisibile, in interesse collettivo. La vasta letteratura dell'economia del benessere afferma che il benessere collettivo è aumentato se è stato esaudito l'interesse anche deJ!'unico investitore che ha utilizzato l'incentivo, se il benessere di tutti gli altri è rimasto quantomeno immutato. E ciò potrebbe, ad esempio, essere congetturato con l'assunzione di invarianza legislativa (e appurato l'assenza di effetti distributivi dell'incentivo).
Immaginiamo, pensando all'ipotesi di federalismo in salsa leghista, che i trasferimenti verso le aree più deboli del paese si riducano sensibilmente. L'investitore beneficiario dell'incentivo potrebbe al netto (vale a dire rispetto alla situazione ex ante il "federalismo") ritrovarsi in una situazione peggiorata (minori beni pubblici locali). A maggior ragione il cittadino comune.
Non è certo contando sulle "illusioni fìnanziarie" (causa rilevante di numerosi luoghi comuni) che si dimostra essere un buon politico. In altre parole, non è attraverso la concessione di un credito di imposta automatico e retro attivo che si attua una seria politica di sviluppo territoriale, soprattutto se non si contrasta il disegno di un iniquo sistema di redistribuzione territoriale dei trasferimenti.
f) Sesto ed ultimo luogo comune: l'efficienza dell' economia privata vs l'ineffìcienza dell'intervento pubblico.
È questo il cuore del problema. Le aree economicamente e socialmente deboli hanno bisogno di interventi pubblici forti. La decadenza dell'intervento pubblico non è neutrale. Chi auspica Bocconi al sud, genera equivoci pericolosi. Un territorio ricco può permettersi una efficace ed effìciente università privata, un territorio debole ha bisogno della difesa delle istituzioni pubbliche necessarie al crescere civile ed economico.
Come è noto, è stata abolita la legge 488 ed introdotto il credito di imposta sugli investimenti in macchinari ed attrezzature. Immaginiamo un caso, a nostro avviso, non limite. Un imprenditore del settore della grande distribuzione (insomma, un proprietario di un grande ipermercato localizzato in una qualunque landa deserta del nostro Mezzogiorno, tra vulcani naturali e vulcani in calcestruzzo) investe in macchinari (frigoriferi e sollevatori per il trasporto merci). Se l'investimento è effìciente, si tradurrà in una maggiore offerta di beni di consumo. Che vantaggio può mai trarre il Mezzogiorno dalla presenza di un ennesimo ipermercato? Non sarebbero preferibili incentivi selettivi, sebbene non neutrali? Ad esempio, incentivi a favore di imprese che producono alta tecnologia?

Piuttosto che inseguire la chimera dell' emersione dell'economia in nero (per la quale occorrerebbero aliquote fiscali pari a zero e totale deregolamentazione .del mercato del lavoro) non sarebbe preferibile che il politico scommettesse sulla ricerca di base e su quella finalizzata, concentrando le risorse verso l'università ed i centri di ricerca, pubblici e privati? Scommettere! La scommessa contiene il rischio, avviene in tempi rapidi, la posta in gioco è chiara. La scommessa è fare politica. Ma non si è mai visto un "ministro contabile" scommettere. Eppure scrive Keynes, nel 1933 che "una volta che ci sia concesso di disubbidire al test di profittabilità di un contabile, cominceremo a cambiare la nostra civiltà".
Il l'D in campagna elettorale ha saputo scommettere e la non vittoria è dipesa più dal tempo delle non scommesse e dei ministri contabili, piuttosto che dal tempo delle urne sul tappeto verde delle elezioni dalle incerte regole democratiche.

Una strategia di sviluppo per il Mezzogiorno Banche e crescita economica
MASSIMO Lo CICERO"

In Campania, e nel Mezzogiorno, il tema del rapporto tra banche e crescita economica può essere osservato da due prospettive.
Da una parte deve essere preso in esame il divario che si è creato tra banche ed imprese nel Mezzogiorno grazie alle trasformazioni intervenute nel sistema bancario dopo la grande e traumatica crisi di degli anni novanta.
Da un'altra prospettiva, ed in una dimensione analitica legata ai modi ed alle articolazioni in cui si è andata evolvendo la politica di sviluppo per il Mezzogiorno, bisogna riflettere sul ruolo che in queste nuove dimensioni della politica di sviluppo avrebbero potuto svolgere le banche ed a quello, assai più limitato, che hanno effettivamente svolto.
Partiamo dalla prospettiva di sistema: leggendo quale e quante siano state le modifìcazioni strutturali, nel rapporto tra banche ed imprese, indotte dalla crisi degli anni novanta.
Sulla fenomenologia della crisi, accusata negli anni novanta, esiste, ormai, un giudizio ampiamente condiviso. Dopo il trauma valutario del 1992, che richiese la maximanovra fìnanziaria di stabilizzazione progettata e realizzata dal Governo di Giuliano Amato, l'economia meridionale subì gli effetti di una drastica riduzione della spesa pubblica, della cessazione defìnitiva dell'intervento straordinario e del blocco, per alcuni anni, di ogni regime di agevolazione, finanziaria o fìscale, agli investimenti del sistema delle imprese. Parallelamente la forte svalutazione della lira aiutò la ricostituzione di margini di profìtto e di spazi per le esportazioni per l'insieme delle imprese preesenti sulla scena del mercato mondiale ed integrate negli scambi che davano corpo al commercio internazionale dell'Italia. Un insieme profondamente radicato nell'Italia centrale e settentrionale ed evidentemente estraneo al tessuto dell'economia meridionale.
Il pesante clima deflattivo, creato da questa combinazione di effetti, nel Mezzogiorno ridusse drasticamente i livelli di attività ed i profitti delle imprese. Derivò da queste circostanze una generica incapacità di fare fronte, per quelle imprese, al servizio dei debiti ed al rimborso degli stessi. La crisi economica, in cui versavano le imprese, si trasformò rapidamente in una crisi fìnanziaria del sistema bancario locale. Le banche meridionali subirono pesanti conseguenze economiche dovendo abbattere e dichiarare inesigibili i propri crediti. Il ricorso alla legge Sindona, mediante la creazione di bad banks, che consentisero un rimborso dilazionato nel tempo ed agevolato nel costo dello stesso, ha permesso di accertare che, a queste condizioni, larga parte dei fondi mutuati siano stati recuperati dal sistema bancario. Nel durante di questa operazione tuttavia, le banche meridionali erano state rilevate a prezzi ridimensionati, in ragione della crisi che esse attraversavano, dalle banche nazionali ed erano diventate una delle componenti più rilevanti del processo che conduceva alla formazione di tre banche di signifìcative dimensioni alla scala europea e nazionale: Intesa, Unicredit e Monte dei Paschi. Le prime due avendo rilevato, rispettivamente, il gruppo San Paolo, che aveva precedentemente incorporato il Banco di Napoli, rilevandolo a sua volta dalla BNL, alla quale esso era stato ceduto, ed il Banco di Sicilia. La terza avendo rilevato l'Antonveneta, dopo che essa era stata rilevata dal gruppo ABN Amro e successivamente ceduta al gruppo spagnolo Santander.

In effetti, mediante un vero e propri risiko europeo, le banche meridionali sono entrate in grandi gruppi che si presentano oggi adeguati alle dimensioni del mercato europeo, integrati e trasformati in sistemi di reti commerciali che coprono l'intero mercato nazionale ma che presentano solo nel nord del paese una dimensione signifìcativa e strategicamente rilevante della propria capacità organizzativa. Non si può dire la medesima cosa quando si osserva il sistema delle imprese meridionali.
Anche perché le dimensioni dell'impresa si adeguano a quelle del mercato. Il mercato bancario europeo ha una dimensione che impone alle banche italiane di adeguarsi alla scala della stessa.
Il mercato di riferimento delle imprese meridionali è piccolo, per capacità del potere di acquisto locale, e per la sua mancata integrazione che lo priva della dimensione delle esportazioni per le imprese meridionali. Ne segue che le imprese locali, nel Mezzogiorno, restano piccole e confuse, ne patrimonio, con la persona fìsica del proprietario o con il patrimonio della famiglia che ne detiene il controllo.
La settima edizione dell'indagine, che Mediobanca ed Unioncamere conducono da anni sulle medie imprese manifatturiere, ci offre, sulla loro natura e le loro dimensioni, un insieme di serie storiche che vanno dal 1996 al 2005, articolate per settori e localizzazione territoriale 1 • L'indagine riguarda un insieme aperto, rispetto alle rilevazioni annuali, di imprese manifatturiere indipendenti: società di capitali che dispongano di una forza di lavoro compresa tra 50 e 49 dipendenti e realizzino un fatturato tra 13 e 290 milioni di euro. Al 2005 l'insieme osservato conta 3984 imprese. Per fatturato ed esportazioni la parte prevalente appartiene ai mercati del made in Italy. Il 30% delle imprese si trova in Lombardia ed il 90% nel centronord. Nel Mezzogiorno sono localizzate solo il 10% del totale. Mentre la popolazione del Mezzogiorno è superiore al doppio di quella della Lombardia. Le imprese prese in esame presentano debiti a breve eccedenti, rispetto a quelli delle imprese multinazionali, italiane ed europee. Ma anche debiti a lungo termine più contenuti, come percentuale della struttura fìnanziaria. Sono meno liquide ma con una dimensione patrimoniale più robusta rispetto alle multinazionali. Subiscono una pressione fiscale effettiva (tassazione su profitti lordi) superiore di dieci punti percentuali a quella delle grandi imprese italiane e di venti rispetto alle multinazionali. Presentano un margine operativo netto sul fatturato superiore, a quello delle grandi imprese italiane, ma inferiore a quello delle multinazionali. Hanno un roe (return on equity) mediamente superiore di 3,6 punti base al tasso di rendimento privo di rischio.
La localizzazione in un distretto riguarda solo il 40% ma, essendo il 80% delle imprese localizzato al Centronord, sono forti le esternalità da contiguità e prossimità. Larghissima parte sono diventate medie, nel periodo 1999/z005· Chi è diventato medio proveniva dal Centronord.
Con tutte le luci e tutte le ombre, compresa la ridotta attitudine tecnologica e l'eccesso di pressione fiscale, queste imprese rappresentano davvero cosa sia, e cosa sia capace di realizzare, il capitalismo privato italiano. Per differenza, viene voglia di commentare, la loro concentrazione territoriale al di fuori del Mezzogiorno mostra cosa non sia stato capace di fare l'intervento pubblico: favorire e sostenere lo sviluppo dell'impresa privata nella parte più debole del paese. Circostanza che, al contrario, ove si fosse realizzata, avrebbe ridotto sia il dualismo tra le due Italie che la fragilità sociale e la squilibrio nella distribuzione del benessere che le dividono. Bisogna, di conseguenza, ricordare, la nota opinione di Enrico Cuccia sulla maggiore forza espansiva che avrebbe avuto l'industria italiana, se non fosse stata drogata dagli incentivi finanziari. C'è anche un secondo motivo per diffidare di una economia dove il dualismo territoriale rappresenta la linea di confine tra pubblico e privato, tra inefficienza ed efficienza. Esaurita la stagione dell'intervento straordinario, e degli incentivi alle imprese, si è aperta, subito dopo l'assestamento della prima metà degli anni novanta, del quale abbiamo già detto, la stagione dei fondi "europei": gestiti sempre dalla pubblica amministrazione. Con un ruolo crescente di regioni ed enti locali rispetto ai Ministeri.
È, purtroppo ed ormai, abbastanza evidente che questa ulteriore distribuzione di risorse finanziarie sia stata frammentata in una miriade di microinterventi, che non avevano la dimensione minima necessaria per produrre capitale fisso sociale o riqualifìcare capitale umano. Mentre l'unica opzione alternativa alla pioggia diffusa era una mimesi, ancora più inefficiente per la scala alla quale era praticata e la bassa tecnicalità degli enti erogatori, degli incentivi fìnanziari gestiti dal Governo e dal sistema bancario. Sui quali, come abbiamo detto, pesa comunque la opinione liquidatoria di Enrico Cuccia. A questi due limiti si aggiunge la eterna rincorsa, tipica delle amministrazioni italiane, tra il troppo tempo necessario per gestire, maldestramente, la programmazione degli interventi e l'affannosa corsa fìnale per realizzare, costi quel che costi, le opere e collaudarle. Nella ricerca di un risultato contabile - la spesa delle risorse assegnate - piuttosto che di un risultato economico: l'irrobustimento patrimoniale e la dilatazione economica delle forze produttive locali.
Esaurito il tempo della campagna elettorale, ed essendo in carica un Governo diverso per struttura ed orientamento strategico, sarebbe interessante che la sua politica economica fosse capace di ribaltare il dualismo che relega al Sud l'indiscussa egemonia e la inefficienza degli enti pubblici, come fossero una sorta di complemento rispetto alla media impresa privata, arroccata nel Nord.
Mentre, alla fìne del 2007, dalle colonne de Il Sole 24 ore Carlo Trigilia e Pier Luigi Bersani avevano ripreso polemicamente il discorso sul Mezzogiorno. Citandosi reciprocamente. Trigilia lo h1Ceva indirettamente, citando le politiche che avrebbero dovuto dipendere dalle scelte di Bersani. La tempestiva replica del quale, ed il merito della stessa, come sempre molto puntuale, mostrano una sintonia ed un coordinamento oggettivi, anche se non intenzionali o coordinati ex ante. Positivo il fatto di riprendere l'iniziativa politica sullo sviluppo meridionale, ed uscire dalla tenaglia della priorità politica della questione settentrionale, ma singolare che questo avvenga parlando, dopo molti mesi di silenzio, dei mitici 100 miliardi di euro, annunciati da Pro di nel conclave di Caserta, nella primavera del 2007. Sulla programmazione dell'uso di quelle risorse, nei mesi che separano Caserta dalla discussione autunnale di Trigilia e Bersani, non si è vista una ragionevole, anche se non travolgente, attenzione da parte dello stesso governo ed è stata rilevata anche una certa fiacchezza delle iniziative da parte delle Regioni interessate.
Non parliamo poi degli adempimenti burocratici, necessari, connessi allo sviluppo delle complicate e tortuose procedure che collegano le esigenze locali, ed il loro censimento, alle scelte di spesa e, finalmente e forse, alla gestione intelligente dei fondi assegnati. Notiamo, per prima cosa, che proprio questo tratto burocratico, attento alle procedure ed alla concertazione, "neutrale" sia che si parli della Romania che si debba decidere di Rionero in Vulture, o del Mezzogiorno nel suo insieme, è proprio il lato oscuro, e negativo, di questa - benedetta per la dote fìnanziaria che ci assegna - relazione con le regole delle politiche di coesione. Giunte, per il nostro paese, al quarto e davvero ultimo ciclo settennale. Il Parlamento italiano, nel medesimo periodo, aveva invece sviluppato una discussione, attraverso una campagna di audizioni, che non ha avuto molta eco, sulla qualità necessaria, e quella possibile, delle politiche di sviluppo e coesione. Alla quale avevano contribuito Nino Novacco e Luigi Buggeri. Presidenti, rispettivamente della Svimez e dell'Istat. Il secondo, mostrando con molta efficacia (la sua relazione è disponibile sul sito web dell'Istat) che cosa si intenda affermare quando si parla di dualismo italiano, proponendo ed applicando un metodo quantitativo per misurarlo. Se si confronta l'analisi di Bigeri ed il leit motiv di Trigilia e Bersani si nota immediatamente una certa differenza. Trigilia attira la propria attenzione sulle dimensioni finanziarie della spesa possibile, evoca il rischio della "pioggia" contro una razionale programmazione, denuncia il mancato coordinamento - meglio sarebbe dire la mancata attribuzione di responsabilità precise derivante dal regime di confusa sovrapposizione dei ruoli, che si definisce, nel linguaggio di Bruxelles, "governance multilivello" - indica, infine, nell'attenzione elettorale, di destra e sinistra, alle opinioni del ricco Nord la ragione prevalente del disinteresse per un tema strategico, di lungo periodo ed estraneo ad una logica dettata da eventuali tornate elettorali intermedie. Tutte cose ragionevoli e giuste. Non a caso Bersani replica denunciando la scomparsa della fiducia, ed il riaffiorare del ribellismo. Ma anche affermando "che esiste una nuova reciprocità Nord Sud" perché la modernizzazione del paese che egli sta realizzando, con una politica di liberalizzazioni, serve anche al Sud. Ma che quella "modernizzazione non avviene se il Nord non si sente pienamente in campo ... c'è dunque l'esigenza di una politica di riforme e di reciprocità che sia pronunciata con le stesse parole al Nord ed al Sud". La sua naturale conclusione è che servirebbe "una cabina di regia politica ed istituzionale bipartisan (maggioranza ed opposizione, Parlamento, Governo e Regioni). Sarebbe da ingenui immaginare che un problema di dualismo, cioè di differenza strutturale crescente e paralizzante, alla scala locale dell'Europa come a quella del mercato mondiale, non debba essere affrontato in una logica nazionale. E che quella logica nazionale non debba tenere conto degli interessi e dei comportamenti della parte forte e strutturata del paese. Il punto, quindi, non è tanto la necessita di fare del dualismo - che ha una faccia negativa, la fragilità e !'impotenza di un Sud lasciato a se stesso, ed una positiva, la forza del Nord che supera anche la lunga stagnazione decennale in cui abbiamo vissuto - una questiona nazionale.
Ma questo lo dicono anche i meridionali quando affermano che la questione meridionale è ancora un problema nazionale. Il fatto è che si deve andare a verificare se esista davvero uno Stato - un insieme di istituzioni affidabili, consapevoli e capaci di rendicontare il proprio operato - del quale la nazione si possa fìdare affidandosi alle politiche che quelle istituzioni sappiano realizzare. È evidente che questo non è il caso italiano. Non sono la condivisione e la stima delle istituzioni che legittimano lo Stato verso i cittadini. Le organizzazioni pubbliche, e la spesa che esse gestiscono, rappresentano, nel "migliore" dei casi, solo la stampella per le corporazioni e le reti di interessi che quelle corporazioni aggregano.
Questa è la verità interna di Bersani e Trigilia: se parliamo solo di spesa ricadiamo nel baratro inconsistente dei decenni alle nostre spalle, nel Mezzogiorno ma anche in . Italia. E finiamo a rincorrere il debito pubblico che la sostiene: trasformandolo, prima o poi, in pressione fiscale sulle generazioni successive a quelle che beneficiano della spesa. Ma se pensiamo di risolvere il problema solo con le procedure della programmazione europea, o rincorrendo la frantumazione degli interessi locali, incitandoli ad occuparsi solo del loro piccolo profitto, non andiamo proprio da nessuna parte. Dovremmo, tutti, cominciare dall'analisi di quello che è accaduto e stabilire se, per come sono andate le cose, negli ultimi quaranta anni, si debba provare rimorso o rimpianto. Se sono più pericolose ed insidiose le cose che abbiamo fatto o quelle che non siamo stati capaci di Lue. E perché questo sia accaduto. Solo rimettendo radicalmente in discussione il passato si può capire cosa fare oggi e come farlo in maniera che serva a qualche cosa. Biggeri spiega che il dualismo è fatto di aggregazioni urbane, che non hanno niente oltre la densità demografica alloro interno, di un apparto produttivo fragile ed organizzato secondo modalità precapitalistiche, in assenza di finanza e di società di capitali. Troppo denso di piccoli attori privati senza organizzazione. Con un tasso di attività, così basso rispetto alla media nazionale, da essere il segnale di una marcata ipotrofia del mercato del lavoro moderno e della diffusione di una extralegalità che non potrebbe non tracimare nella illegalità. Nino Novacco spiega che i contenuti di una politica vanno individuati prima delle procedure: perché sono loro che guidano l'efficacia dei comportamenti e non il rispetto in se delle regole. Infatti, le regole servono se si capisce, prima di applicarle, perché dovrebbero essere efficaci e si cambiano quando, applicandole, si capisce, agendo, che quella spiegazione ex ante era sbagliata. Il problema contro il quale bisogna agire, secondo Novacco, è la tenaglia tra nuovi Stati, omogeneamente de-. boli, che accedono all'Europa e nuove economie extraeuropee, che sono oggettivamente capaci di competere con il Mezzogiorno stesso, che, considerato come uno Stato nazionale, sarebbe l'ottavo, in Europa, per peso demografico! È vero che l'Italia non può crescere se non cresce il Mezzogiorno, come sostiene anche Mario Draghi, ma è difficile credere che una politica economica, fondata solo sulla dipendenza dalla spesa pubblica, possa essere utile ed adeguata per la crescita del Mezzogiorno.
E non si possono risolvere questi problemi "con la scomparsa politica dell'Italia Stato nazione, quale esso diventò un secolo e mezzo Ll, allo l'quando tale era e fu il sogno dei ceti medi dirigenti dei piccoli Stati che preesistevano, e che è assurdo pensare oggi che possano essere ripristinati". Lo scrive, di nuovo, Nino Novacco - in polemica con la centralità presunta della questione settentrionale e del federalismo fiscale - in un documennto, inoltrato al Parlamento appena insediato. Non si risolvono i problemi del Mezzogiorno se non si parte dal risana mento del regime democraatico e da una politica economica amica dei mercati e della internazionalizzazione dell'economia meridionale. Questa mancata soluzione pregiudica il futuro del paese intero.

Una ultima considerazione deve essere formulata in ordine alle politiche per gli incentivi alle imprese, in Italia e nel Mezzogiorno.
Le inchieste della stampa e delle reti televisive presentano gli incentivi alle imprese come una delle molte tipologie di saccheggio delle risorse pubbliche. Enfatizzando i legami tra la criminalità mafiosa di Calabria e Sicilia e gli interessi locali della politica come architrave di questa spoliazione dello Stato, con il concorso di professionisti privati, funzionari infedeli delle banche ed esponenti della stessa pubblica amministrazione.
I fatti raccontati frequentemente sono veri e preoccupanti ma non sono il principale problema che deriva dall'applicazione di questa legge.
La dimensione dei reati, in collusione con la camorra e la mafia e con la complicità di molti criminali settentrionali che agiscono come lievito dei costi da fare agevolare, rappresenta una frazione ma non la totalità degli effetti della legge. Il fatto davvero preoccupante è che l'effetto lecito della legge, anche dove non esistano organizzazioni e trame criminali, è molto deludente. Dunque la cosa da comunicare non sarebbe la patologia del furto di stato - che diventa una conferma della notte in cui tutte le vacche sono nere, in particolare nel Mezzogiorno - ma le ragioni che generano risultati perversi nonostante la buona intenzione del Parlamento: aiutare con sussidi pubblici la realizzazione degli investimenti. Di questa circostanza c'è piena evidenza. La Banca d'Italia ha pubblicato nel 2006 una valutazione analitica dell'impatto della legge, ripresa, nel medesimo anno, anche da una rivista accademica internazionale, il Journal of Urban Economics.
Partiamo dalle origini. La legge 488 nasce nel 1992 - non per caso l'anno della grave crisi da cui prende le mosse anche la crisi delle banche che conduce agli esiti di cui si è detto più sopra - dalle intenzioni di Ciampi e Savona, allora insieme nel Governo italiano, di dare una organizzazione effìcace al rapporto tra banche, imprese e contributi pubblici in Italia.
Essa evolve nel tempo ridimensionando le ambizioni iniziali. Non è una legge che voglia sostituire la liquidata Cassa del Mezzogiorno ma una legge che interviene su tutte le imprese italiane e non solo nell'industria. L'idea era rinnovare radicalmente l'impianto di base degli incentivi, introdotti nella cultura economica italiana da Pasquale Saraceno e dai padri fondatori della economia pubbblica, che non erano affatto una banda di malfattori. La loro convinzione era che le imprese subissero dei limiti di carattere ambientale e dimensionale: non disponevano di infrastrutture adeguate e non avevano, in ragione delle dimensioni, la possibilità di investire in ricerca e sviluppo. Questi handicap erano considerati diseconomie esterne, costi aggiuntivi che aumentavano i costi aziendali ed impedivano di praticare prezzi competitivi sui mercati.
Gli incentivi, cioè una riduzione del costo del capitale, erano come i dazi ma agivano su un altro fronte. Un incentivo riduce, anche fino a zero, con i contributi in conto capitale, il costo del denaro e protegge l'impresa, consentendole un contenimento del prezzo pur in presenza delle diseconomie esterne. Il dazio innalza il costo di ingresso dei concorrenti per difendere il prezzo sul mercato protetto.
Purtroppo l'incentivo è come il metadone: consente anche ai drogati da bassa produttività di sopravvivere e non educa alla competizione. Quindi deve essere, come i dazi, limitato nel tempo. È un analgesico e non una terapia che estingue la bassa produttività. La legge 488 introduceva un elemento di competizione nella distribuzione degli incentivi: una procedura ad asta, che li assegna a coloro che ne chiedono meno, offrono più posti di lavoro ed aggiunngono capitali propri ai fondi che chiedono allo stato.
L'asta simula il mercato ma non è il mercato. E, nelle procedure di asta, si possono comprare i giudizi dei banditori (banche, professionisti ed uffìci dello stato) o si possono ingannare costoro. O si possono fare entrambe le cose. La stampa racconta solo la patologia criminale che vede, come era naturale, la collusione tra esperti truffatori del Nord, mafìosi, politicanti del Sud ed opportunisti locali, che si dicono imprenditori e sono, di volta in volta, strumenti o registi di tutte le parti in causa.

La verità è che, anche nella sua fisiologia, la legge non genera risultati accettabili. Dice la Banca d'Italia che le imprese, che ottengono, lecitamente i fondi, accelerano investimenti che avrebbero realizzato comunque più lentamente e, per un lungo periodo successivo, non investono di nuovo. C'è un picco di investimenti ma dopo c'è una valle profonda di spese per la crescita. L'incentivo diventa un analgesico ma non una leva per lo sviluppo. In alternativa, se il mercato di riferimento è piccolo o è alta la competizione tra poche imprese, !'incentivo diventa un metodo i fare dumping verso gli altri imprenditori. Ci perde la concorrenza che, al contrario, è il sale della crescita. Se questi sono i "benefìci" del processo, viene voglia di chiedersi se valga la pena di spendere molti soldi, per remunerare banche, grandi apparati pubblici e professionisti privati, ed avere un flaccida produttività industriale. Ricevendo anche una spinta alla trasformazione sempre più meccanica dei processi produttivi. Se macchine ed immobili industriali costano poco, perché costa poco o niente il capitale finanziario per acquistarli, non si assumono lavoratori al posto delle macchine anche quando, a prezzi di mercato, questo fosse conveniente.
La conclusione è chiara, Bersani e Montezemolo, ma anche il nuovo governo e Giulio Tremanti lo hanno capito e detto chiaramente da tempo. Meglio agire sul credito di imposta, cioè non fare pagare le tasse a chi guadagna, che tenere in piedi un sistema complicato che non genera crescita, anche quando funziona onestamente sul piano del rigore personale di ogni attore, ed è questa la maggioranza dei casi. In effetti sarebbe ancora meglio ridurre la pressione fiscale, comprimendo iva, imposte sul reddito d'azienda ed irap nelle regioni a lenta crescita e con bassa densità industriale. Ma questa è un'altra storia, che richiederebbe una stato slim & smart: ridotto nelle dimensioni fìnanziarie e più efficace in quelle operative. Nel 2007 la World Bank pubblica un documento dal titolo molto chiaro: Managing the vVawes oI Globalisat'ion. Nei primi mesi del 2008 il blog degli economisti del Financial Times ospita fìrme come Alan Greenspan e Larry Summers: per valutare gli effetti ed i limiti delle overdose di regulation, sui mercati reali come su quelli finanziari.
Giulio Tremanti riflette sulle paure e le speranze che accompagnano la convivenza con la globalizzazione dei mercati. I mercati internazionali si interrogano sugli effetti reali, in termini di trasformazione dei prezzi relativi, della strana distribuzione degli avanzi e dei disavanzi di parte corrente, che sono alimentati da un rapporto squilibrato tra il dollaro e l'euro: i due grandi protagonisti del teatro monetario internazionale.
Un fatto è certo. Dopo l'implosione dell'Unione Sovietica, larga parte della quale dipende dalla incapacità di una economia pianificata di rispondere davvero alle aspettative ed ai bisogni della popolazione che di quella economia deve vivere, non esiste alcuna possibilità di considerare in termini alternativi la dinamica dei mercati e la gestione di piani, che siano sostituti imperfetti dei mercati. I fallimenti del mercato, che tutti sappiamo riconoscere, sono, in fin dei conti, meno devastanti degli errori e delle degenerazioni che la politiche di Governi troppo pervasivi sono in grado di generare. Dopo la crisi di Enron è stata prodotta una vasta letteratura sui limiti tecnici e l'azzardo morale dei gatekeepers, i guardiani delle dinamiche commerciali nelle economie di mercato - auditor, amministratori, consulenti di strategia, certifìcatori  che, in ogni caso, sono spesso travolti dai medesimi vizi e dalle medesime forme di opportunismo che praticano pianifìcatori e governanti dei paesi autoritari, quando pensano di potere e dovere imporre le proprie opinioni come soluzioni per una ottima ed equa distribuzione delle risorse e dei loro effetti in termini di benessere. Managing the wawes of globalisation traduce bene questo stato d'animo. Perché indica la vitalità del mercato come una forza che bisogna sapere utilizzare ma che non è facile da governare. Così come non è facile, per il timoniere delle barche a vela, governare la forza del mare e quella del vento e condurre la barca dove vuole andare il timoniere e non dove la porterebbero, alla deriva, le forze del mare e del vento, che esistono a prescindere dall'esistenza del timoniere. Servono timonieri e servono navi per solcare le onde degli oceani. Ed il regno Unito crebbe e prosperò proprio perché aveva vele, cannoni e mercanti che sapevano come dare alla espansione dei flussi internazionali degli scambi una adeguata piattaforma comune di riferimento. La paura e la speranza, per tornare al volume di Tremonti, presentano in modo parzialmente deformato il senso delle sue riflessioni. La paura nasce dalla consapevolezza della propria incapacità di aggredire il problema che ci fronteggia, dunque nasce e viene alimentata dalla ignoranza, che si traduce in una caduta della fiducia nelle proprie capacità: proprio perché si sopravaluta l'avversario da affrontare. La speranza è un fervore che rischia di chiudere il cerchio. Perché il fervore verso le prospettive salvifiche offerte da un protettore che, lui solo davvero, sarà capace di sconfiggere l'avversario è il lievito della speranza come liberazione dal male. La speranza - come traguardo comune e condiviso di una comunità razionale, che si interroga e trova la sua coesione sulle cose da ottenere, attraverso gli scambi, di opinioni e di merci reciprocamente realizzati - è la forza delle società aperte che credono nei mercati. Ed è questa la speranza che muove il mondo anglosassone verso la convinzione di avere informazioni e le capacità per sapere gestire le forti onde della globalizzazione per migliorare il tenore di vita della popolazione mondiale. Dice Greenspan, dalle colonne del blog del Financial Times, che nessuna regulation deve essere cosÌ pervasiva da distruggere il vero lievito della crescita: la competizione e la voglia di agire nonostante l'incertezza del contesto. Un atteggiamento che rappresenta la vera sfida contro le forze oscure del tempo e dell'ignoranza, la leva per gestire il rischio degli investimenti, senza i quali non esiste la crescita e non si può distribuire benessere. Lo squilibrio tra euro e dollaro, ha osservato Gianngiacomo Nardozzi su Il Sole 24 ore, ha generato due conseguenze importanti.
Le imprese europee, messe alla frusta da un euro forte, hanno accettato la sfida competitiva ed affrontato il cambiamento e l'innovazione con successo. Le imprese americane, sostenute da un dollaro debole, hanno ricevuto un sostegno compensativo dei propri limiti competitivi sui mercati internazionali. Ma i mercati domestici americani sono adulti e vaccinati mentre quelli europei, ed in particolare quelli italiani, sono solo degli adolescenti. Un ricomposizione unitaria delle relazioni economiche e politiche tra America ed Europa diventa, in altre parole, una combinazione idonea ad affrontare le onde della globalizzazione. A condizione che la seconda rinunci ai suoi rimpianti pianificatori ed alla rigidità degli interessi costituiti, che ha generato il suo regime di welfare tendenzialmente corporativo. E la prima sappia aggredire e ridimensionare l'opportunismo dei banchieri, e dei manager delle grandi imprese, che, come ogni gerarchia, utilizzano il proprio potere per il proprio vantaggio diretto, e non nell'interesse delle organizzazioni che governano. Come fanno anche i pianificatori ed i governi troppo invasivi. Il mondo presenta una distribuzione della popolazione che non coincide puntualmente con la mappa delle risorse necessarie per il proprio sviluppo. Secondo Larry Summers serve un nuovo modello di commercio internazionale, per favorire scambi equilibrati ed effìcienti, competizione e specializzazione delle produzioni. Il futuro della politica economica richiederà autorità capaci di difendere la competizione ed il libero scambio ma anche entità capaci di coordinare tra loro le politiche economiche. Gli stati, i governi dei quali sapranno per prima rinunciare al fascino indiscreto della pianificazione come alternativa ai mercati, saranno i protagonisti di questa nuova stagione dell'integrazione economica e della crescita mondiale. Ridimensionando la disintegrazione della politica, e la sua riduzione alla mera produzione di beni pubblici territorialmente individuati. Anzi, riconvertendola creando strumenti ed agenzie inedite, o ridisegnando quelle esistenti, come la World Bank,perché riconoscano l'autonomia dei mercati e sappiano estrarre da quella autonomia tutti i vantaggi che essa è capace di alimentare. Una politica per la crescita che, come si legge facilmente, è cosa molto diversa dalla dipendenza secca dalla spesa pubblica che affligge le regioni italiane meridionali da molti anni. Anche se cambia, di volta in volta, la fonte, nazionale od Europea, da cui arrivano le risorse per alimentarne la dipendenza.

L Introduzione

In un recente articolo di Nicola Rossi si legge: "Il Mezzogiorno d'Italia è oggi il luogo dove - più che altrove, più che in altri comparti o settori - più signifìcativo e imperdonabile è lo spreco di risorse pubbliche. Dove - al di là delle intenzioni, spesso nobili, di tanti - lo sforzo collettivo ha raggiunto dimensioni inusitate senza conseguire risultati apprezzabili. E dove, al tempo stesso, un uso, per così dire, particolarmente "disattento" di consistenti risorse pubbliche si associa a gravi carenze nella forni tura dei servizi che dovrebbero costituire invece la stessa ragion d'essere del settore pubblico. Dove, in altre parole, ogni fonte di fìnanziamento - ogni euro, ogni centesimo di euro - dovrebbe essere allocata e spesa come se fosse l'ultima e viene invece utilizzata come se fosse solo una parte di una serie mai terminata e che mai terminerà."
Gli anni sembrano essere passati, peraltro, pressoché invano. La debole crescita meridionale degli ultimi anni si rivela infatti come sospinta da una spesa pubblica di bassa qualità che non riesce a tradursi in Llttore strutturale di crescita e in potenziale di sviluppo. Una crescita in termini pro capite dovuta in larga misura all'operare, da qualche anno, di processi migratori interni di significativa intensità e non lontani, nell'ultimo quinquennio, da quelli registrati negli anni Cinquanta. Una crescita addirittura inferiore a quella che la stessa "nuova programmazione" stimava come probabile in assenza di un miglioramento della qualità degli investimenti pubblici.
Le distanze fra il Centro-Nord e il Sud del paese sono rimaste, nel complesso, inalterate (e, se qualcosa è accaduto, è che l'economia meridionale è diventata, in questi anni, molto meno competitiva e un po' meno dipendente). Se ci si aspettava che gli interventi adottati nell'ambito delle azioni previste dal Piano di sviluppo del Mezzogiorno - in cui, nel 1999, si tradusse formalmente la "nuova programmazione" - inducessero visibili elementi di discontinuità nel contesto socio-economico meridionale, ebbene, si è atteso a vuoto. Se ci si aspettava che la politica degli investimenti pubblici avesse un impatto significativo sulle "variabili di contesto" in modo tale da modificare strutturalmente il processo di accumulazione del settore privato, ebbene ciò non è avvenuto.
Sotto tutti i principali punti di vista, il Mezzogiorno è e rimane, oggi come ieri, il "malato d'Italia". La differenza - se se ne vuole trovare una, e non piccola - è che oggi, diversamente da ieri, l'Italia è il "malato d'Europa".
Dopo dieci anni segnati dalla retorica del defìnitivo superamento dell'intervento straordinario, da un lato, e dei Mezzogiorni, dall'altro, forse è arrivando il momento di riconoscere le difficoltà che questa ha generato: la frantumazione dell'intervento pubblico, la moltiplicazione dei livelli di intermediazione, la sproporzione fra l'impegno massiccio di energie e di risorse e l'esiguità dei risultati. Forse è arrivato il momento, prima ancora che tornare a discutere delle politiche per il Mezzogiorno, di mettere in discussione il nostro stesso modo di guardare al Mezzogiorno. I
A questa tesi spesso si contrappone un'altra (spesso sostenuta dalla Svimez e da Viespoli) basata sulla considerazione per cui gran parte della spesa in conto capitale determinata dalla nuova programmazione è stata in realtà sostitutiva e non aggiuntiva alla spesa ordinaria e che comunque la spesa ordinaria in conto capitale resta ben al di sotto di quel 30% ritenuto equa via di mezzo fra quota Sud della popolazione e del prodotto (dif1ìcile condividere l'idea che la quota debba essere solo proporzionale al prodotto); quindi la spesa aggiuntiva nazionale (FAS, a norma del 11g.V Cost) è solo sostitutiva di mancata spesa ordinaria; "l'unica spesa aggiuntiva è quella dei fondi europei. Quindi la quota totale Sud è al 38% quando dovrebbe essere, DPEF alla mano, 45%. Ma metà è fatta da incentivi (un quarto al Centro-Nord). Quindi la spesa pro capite per investimenti pubblici è inferiore alla media nazionale. E il gap territoriale nei beni e servizi pubblici si allarga."2
In ogni caso, resta difficile negare che la nuova programmazione non ha addotto i benefici che si riprometteva e che il processo di convergenza tra economie del CentroNord e del Sud sia troppo lento (anche ammesso che esista).

2. Le spiegazioni correnti

Le spiegazioni comunemente avanzate per spiegare il fatto che negli anni non si sia risusciti a colmare il gap suddetto sono di diversi tipi:
a) Il primo tipo si rifà alla misura quantitativa dell’intervento: si sostiene che in realtà l'ammontare di risorse investite in questo obiettivo non sia stato così rilevante come appare a prima vista. Molte di queste risorse hanno prodotto un effetto di "spiazzamento" delle spese ordinatie e di conseguenza non si è riusciti ad aumentare la dotazione di stock di capire e di infrastrutture nel Mezzogiorno dell'ammoonatre necessario a spostare la sua economia su una traietttoria di sviluppo autonomo sostenibile.
b) Il secondo tipo di spiegazioni si richiama alla presenza di esternalità negative molto rilevanti nel Mezzogiorno i cui effetti sulla produttività totale dei fattori non riescono ad essere compensati dalla somma delle spese, delle tax expenditures e degli incentivi alle imprese. La scarsa dotazione infrastrutturale, la presenza di criminalità organizzata, ecc. causano esternalità negative tanto rilevanti da non poter essere compensate dagli interventi di spesa pubblica. Una versione più radicale di questa tesi vede addirittura buona parte del settore produttivo espressione stessa delle esternalità negative e, di conseguenza, gli interventi a favore della produzione come spese che finiscono per alimentare tali "esternalità" negative. La criminalità organizzata, la sua partecipazione al mondo delle imprese e i conseguenti fenomeni di corruzione vengono così spiegati, almeno in parte, con il flusso di spesa pubblica nel Mezzogiorno.
c) Una terza spiegazione rinvia al tipo di politiche di intervento: la programmazione negoziata, per sua natura, prevede la partecipazione di molteplici soggetti spesso con interessi contrapposti. Il meccanismo decisionale implicito in questi processi non può che dare luogo ad equilibri in cui la spesa viene parcellizzata tra numerosi obiettivi e attori. Da qui fenomeni di spesa a pioggia, che non permettono l'avvio di un processo di sviluppo duraturo specie in un contesto di economie in fase di globalizzazione.
d) Infìne, un quarto tipo di spiegazioni si rifà a fenomeni culturali e alla qualità delle istituzioni. Nel Mezzogiorno tradizionalmente esiste poco capitale sociale; i fenomeni di cooperazione basati sulla fìducia sono ristretti alle cerrchie più familiari o di gruppo che al contesto pubblicoistituzionale. Nella funzione di produzione, di conseguenza, l'input "capitale sociale" è scarsamente presente e tale mancanza rende la produttività globale di fattori (a parità di fattori fisici impiegati) più bassa. Tale fenomeno è riscontrabile anche per quella parte del capitale sociale che è determinato della qualità delle istituzioni.

3. Alcuni dati

a) La Spesa Pubblica in conto capitale. Nel rapporto Svimez 2007 si legge:
Probabilmente in tutte le spiegazioni avanzate c'è qualcosa di vero, anzi può essere la compresenza di tutti i suddetti fenomeni che rende il problema di così difficile soluzione.
In quanto segue si riporteranno dei dati che sembrano confermare questa compresenza e ci si concentrerà in più dettaglio sull'ultima delle cause indicate che di solito viene trascurata in letteratura.
"Dai dati desumibili dal Quadro Finanziario Unico presentato nell'ultimo Rapporto del Dipartimento per le Politiche di Sviluppo, emerge come la quota di spesa pubblica in conto capitale effettuata nel Mezzogiorno sul totale nazionale, pur mostrando un modesto recupero nel 2006 (dal 35,9% al 36,3%), sia diminuita, soprattutto se la si confronta con la percentuale del 40,6% registrata nel 2001 (v. Tab. l). Si tratta di una incidenza della spesa in conto capitale ben lontana dall'obiettivo del 45% indicato nei documenti governativi.
Per la spesa aggiuntiva, si rileva che essa è aumentata nel Mezzogiorno passando, in valori 2006, da 9,8 miliardi di euro nel 2005 a 11,4 miliardi nel 2006, mentre si è ridotta nel CentroNord. La quota del Mezzogiorno sul totale si è così accresciuta, arrivando all'81 %. Va tenuto presente al riguardo che l’indicazione programmatica decisa in sede di Conferenza Stato-Regioni prevede la destinazione delle risorse per 1'85% al Mezzogiorno e per il 15% alle aree sottoutilizzate del Centro-Nord: il mancato raggiungi mento di tale quota può derivare dal mancato rispetto dell'accordo sulla ripartizione delle risorse o da una minore capacità di spesa nel Mezzogiorno o da entrambe tali cause. La questione della quota destinata al Sud va comunque riferita ad un ammontare di spesa aggiunti va complessiva, comprensiva delle risorse comunitarie, che non supera 1'1% del PIL. Escludendo le risorse europee dei Fondi strutturali, la spesa effettuata a valere su risorse nazionali è stata pari nel 2006 a 8 miliardi di euro a fronte di pagamenti, ad esempio, di parte corrente e in conto capitale del solo Stato per attività ricreative, culturali e di culto pari nel 2005 a 12,4 miliardi di euro.
Quanto alla spesa ordinaria, essa è diminuita in valori costanti sia al Nord che al Sud del Paese ma con intensità maggiore nell'area meridionale dove si è localizzato nel 2006 solo il 22,3% della spesa complessiva. Siamo ben lontani sia dalla quota minima da considerare necessaria per far fronte alle esigenze normali dell'area pari a circa il 38,5% (espressa come media tra il peso del Mezzogiorno in termini di popolazione e il suo peso in termini di superfìcie), sia dall'obiettivo del 30% indicato nei documenti governativi.

Con riferimento alla ripartizione della spesa in conto capitale tra spesa per investimenti e spesa per trasferimenti, dai Conti Pubblici Territoriali elaborati dal Dipartimento per le Politiche di Sviluppo si rileva come la spesa per investimenti in infiture materiali e immateriali sia più elevata in pro capite nel Centro-Nord piuttosto che nel Mezzogiorno dove maggiori sono le carenze, che condizionano le possibilità di sviluppo dell'area. In base a questa considerazione il CIPE ha deciso di perseguire, nell'attribuzione delle risorse al Mezzogiorno, un progressivo riequilibrio tra le due componenti di spesa. Gli effetti di tali decisioni sulla ripartizione della spesa complessiva nel Mezzogiorno non sono ancora visibili anche per i tempi di realizzazione più lunghi che caratterizzano le infrastrutture rispetto alla concessione di incentivi. I dati mostrano anzi un peggioramento negli ultimi anni: la quota del Mezzogiorno sul totale è scesa nel zo06 al 31,3% (3z% nelzo05), risultando nettamente inferiore al peso demografìco dell'area (35,o%) e al livello massimo raggiunto nel ZOOI (35,9%)

4. Altri dati. Gli effetti della criminalità

Nel medesimo volume si sostiene che, mentre l'incidenza della criminalità comune non presenta sostanziali differenze fra le diverse zone del paese, l'incidenza e i condizionamenti della criminalità organizzata sono molto maggiori nel mezzogiorno provocando seri effetti sul tasso di sviluppo economico dell'area.

"Nel 2005, ultimo anno per il quale sono disponibili dati ufficiali, a livello nazionale il numero delle denunce è risultato pari ad oltre z,5 milioni, con un incremento del 6,7% sull'anno precedente; la crescita è stata maggiore nel Centro-Nord (7,5%) rispetto al Mezzogiorno (4,6%). Minore è la diffusione della delittuosità rilevabile - con riferimento al complesso dei reati e, quindi, prescindendo dalla loro tipologia - per l'area meridionale, dove, nel zo05, si sono contati 35 delitti ogni 1.000 abitanti, contro i 49 nel resto del Paese.
Nel 2005, è proseguita la tendenza al calo degli omicidi volontari consumati (circa il 16% in meno rispetto al zoo4 in ambedue le ripartizioni), anche se ad essa, limitatamente all'area meridionale, ha fatto riscontro un incremento dei tentativi di omicidio (8,7%, a fronte di una stabilità nel resto del Paese) (v. Tab. 2). In rapporto al numero di abitanti, la frequenza degli omicidi, sia consumati che tentati, è maggiore nel Mezzogiorno.
Riguardo alle violenze sessuali, le denunce nel 2005 sono state 4.020, con un aumento del 7,7% rispetto all'anno precedente. Esso è interamente imputabile al Centro-Nord, dove si è registrato un incremento del 10,9% (2.930 casi nell'anno), mentre nel Mezzogiorno si è avuta una leggera flessione (-0,3%). Il reato in oggetto è caratterizzato da una altissima quota di sommerso, che l'ISTAT in una recente indagine quantifìca, a seconda della gravità del fatto, da un minimo dell'86% ad un massimo del 97% dei casi. Detta indagine, svolta su un campione di 25 mila donne tra i 16 e i 70 anni, conferma, comunque, per il Mezzogiorno, una minore diffusione delle violenze contro le donne, sia che ci si riferisca all'intero corso della vita delle intervistate, sia con riferimento all'ultimo anno (2006).

Per quanto riguarda i furti, reato caratterizzato da una scarsa propensione alla denuncia nel 2005 le denunce sono ammontate a circa un milione e mezzo nel complesso del Paese, di cui 372 mila (un quarto) nel Mezzogiorno, che presenta una incidenza sulla popolazione assai inferiore a quella del Centro-Nord.
Variazioni poco signifìcative nel 2005 si sono avute per le rapine (-2,4% nel Mezzogiorno e +1,2% nel Centro-Nord), che costituiscono un tipo di reato nettamente più diffuso nell'area meridionale, dove si concentra oltre il 50% di tutte le rapine commesse nel Paese.
Reati in sensibile crescita sono .i sequestri a scopo estorsivo, in particolare nel Mezzogiorno, e le truffe e frodi informatiche che sono aumentate di oltre un terzo in ambedue le aree.
Scendendo al dettaglio regionale per alcune delle più gravi tipologie di reato, si rileva che in Campania sono stati commessi, nel 2005, 128 omicidi volontari (di cui 88 nella sola provincia di Napoli), pari al 37% di tutti gli omicidi commessi nel Mezzogiorno; rispetto all' anno precedente la regione ha registrato comunque una significativa riduzione (50 in meno) (v. Tab. 3). Le denunce per omicidio risultano numerose anche in Calabria (69; 7 in meno) e Sicilia (70; 5 in meno); nel Centro-Nord il numero di omicidi è elevato soprattutto in Lombardia (65, 26 in meno). Gli omicidi rconducibili alle varie mafie sono stati, nel 2005, 109 in tutto il Paese e, tranne uno avvenuto in Lombardia, sono stati tutti commessi nel Mezzogiorno. I 108 omicidi dovuti alla criminalità organizzata spiegano il 33% del totale degli omicidi volontari consumati nell'area. Nel corso del tempo il numero degli omicidi in oggetto si è fortemente ridimensionato, a dimostrazione di un cambio di strategia operato dalle associazioni criminali: nel 1990 gli omicidi nel Mezzogiorno furono ben 506, scesi poi a 230 nel 1995 e a 141 nel 2000.
Per quanto riguarda le rapine, la regione di gran lunga più colpita è la Campania che, con quasi 16 mila denunce (come nel 2004), rappresenta il 66% del totale del Mezzogiorno e il 34% del complesso del Paese. A distanza, seguono la Lombardia (circa 7 mila rapine), il Lazio (poco più di 4 mila) e la Sicilia (circa 3,9 mila).
I dati sulle estorsioni mostrano come al Sud il fenomeno tenda a colpire in misura assai elevata la Campania (956 casi), la Puglia (635), la Sicilia (668) e la Calabria (351), cioè le quattro regioni in cui è radicata la presenza della criminalità organizzata; ovunque si è avuto un aumento tra il 2004 e 2005.

I condizionamenti da parte della criminalità organizzata

Sono  2007 i Comuni colpiti da provvedimento di scioglimento, dall'approvazione della legge 221/1991, sono saliti a quota 171: 75 in Campania, 49 in Sicilia, 37 in Calabria, 7 .in Puglia, cui se ne aggiungono altri tre in Basilicata, Lazio e Piemonte. In 24 dei 171 casi la misura è stata reiterata (14 volte in Campania, 7 in Sicilia e 3 in Calabria). .
Le estorsioni si confermano come il reato tipico della criminalità organizzata e, nonostante la tendenza a brevi richieste più sopportabili, il costo del "pizzo" rimane comunque opprimente. Secondo le stime di Confesercenti, in Italia sono circa 160.000 i commercianti taglieggiati. Quasi un terzo di questi sono in Sicilia, dove è coinvolto il 70% delle imprese; quota che sale all'80% a Catania e Palermo. In Calabria le imprese che pagano il pizzo sono 15.000, la metà del totale, con una punta del 70% a Reggio Calabria. A Napoli, nel nord Barese e nel Foggiano il 50%' con punte, nelle periferie e nell'hinterland di queste città, che toccano la quasi totalità delle attività commerciali, della ristorazione, dell' edilizia.
Il numero dei commercianti coinvolti in rapporti usurari viene stimato, nel complesso del Paese, in oltre 150.000 unità, di cui almeno 5°.000 sono indebitati con associazioni per delinquere di tipo mafioso. In Campania, Lazio e Sicilia si concentra quasi la metà del totale dei commercianti coinvolti in tutto il Paese. In rapporto al numero di attivi, il valore più alto si riscontra in Calabria (30%), seguita da due regioni non caratterizzate da radicamento mafioso; si tratta del Molise (28%) e del Lazio (29%).

Tornano ad aumentare le infrazioni accertate dalle Forze dell'ordine riferibili all'intero ciclo illegale del cemento: sono state 7.038 nel corso del 2006, con un incremento di circa 1'8% rispetto al 2005; un dato che risente del numero, crescente, di cave e attività estrattive illegali sequestrate. Nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa si riscontra quasi la metà (49%) delle illegalità "cementizie", con la Campania al primo posto, seguita da Calabria, Sicilia e Puglia.
Sono ancora le stesse quattro regioni ad occupare le prime posizioni della classifica dell'abusivismo edilizio costiero in Italia. In questi territori si è consumato quasi il 61 % delle violazioni accertate dalle Forze dell'ordine ed è stato effettuato ben il 63% dei sequestri.
Il giro d'affari proveniente dall'attività di contraffazione nel nostra Paese è stato valutato tra i 3,5 e i 7 miliardi di euro, di cui il 70% si riferisce al Mezzogiorno. In tale ripartizione, il settore più importante è quello della moda, con un fatturato di 2,55 miliardi di euro, pari a oltre la metà del totale; seguono elettronica (1,05 miliardi), giocattoli (0,49), beni di consumo (0,35), farmaci e cosmetici (0,35)".

5. Capitale sociale e qualità delle istituzioni/politiche

Questo paragrafo fa riferimento al lavoro di sistemazione di Sabatini cui si rimanda per ulteriori approfondimenti.

Interventi diffusi e a pioggia
a) La rilevanza "economica" del capitale sociale
Esistono diverse ragioni per considerare il capitale sociale come un fattore produttivo alla stregua del capitale fìsico e del capitale umano. Un ambiente ricco di opportunità associative che consentono alle persone di incontrarsi spesso costituisce un terreno fertile per la coltivazione di valori comuni e la diffusione di norme di reciprocità. Cresce la probabilità di reiterazione deiI'interazione tra qualsiasi coppia di agenti, determinando un aumento dell'importanza della reputazione. Il comportamento altrui diviene più facilmente prevedibile, a causa della migliore diffusione delle informazioni e del costo più elevato associato ai comportamenti opportunistici. Ne deriva una riduzione dei costi di monito raggio e quindi dei costi di transazione, che favorisce gli scambi e stimola infìne gli investimenti e la produzione.
Il capitale sociale migliora quindi le possibilità produttive delle imprese, e i suoi servizi dovrebbero essere considerati come un input nelle singole funzioni di produzione. A livello aggregato, questo meccanismo influenza il processo di sviluppo, e può fornire una spiegazione convincente dei differenziali di crescita che caratterizzano aree geografiche tra loro simili riguardo la disponibilità degli altri fattori produttivi.
In realtà su quest'ultimo punto ormai concordano quasi tutti gli studi e le analisi realizzati a partire dalla nuova fase di programmazione; anche nella nuove linee di programmazione 2007-2013 viene riconosciuto questo elemento come caratterizzante della fase 2000-2006. Conviene tuttavia sottolineare che il suddetto fenomeno non ha caratterizzato soltanto la programmazione e la spesa locale ma anche quella decisa e programmata a livello nazionale.
L'analisi della distribuzione territoriale delle opere di infrastrutturazione previste dalla legge obiettivo, ad esempio, evidenzia innanzi tutto una forte concentrazione finanziaria nel CentroNord, con 70,9 miliardi di euro, contro 17,4 miliardi del Mezzogiorno; questa sperequazione non si rileva nel numero dei progetti, che sono 63 per il Mezzogiorno e 73 per il Centro-Nord. Ciò evidenzia un differente dimensionamento medio delle opere, che complessivamente risulta di 649 milioni per opera nel Centro-Nord e di appena di 276,8 milioni per il Mezzogiorno.

b) Il concetto di capitale sociale in Economia

Per comprendere meglio la rilevanza del concetto di capitale sociale ai fini della produzione di benessere e dell'analisi dei processi di sviluppo, è utile descrivere il dibattito in corso su questo tema nelle diverse scienze sociali da più di un decennio. La grande eterogeneità delle ricerche sulla materia impone una scelta tra diversi possibili criteri di classificazione.
L'approccio delle scienze politiche considera il capitale sociale soprattutto come partecipazione sociale e diffusione della fiducia. I contributi della sociologia concentrano l'attenzione soprattutto sulle reti di relazioni interpersonali, e si possono distinguere nei due mondi della sociologia della scelta razionale, che ha in James Coleman il suo principale esponente, e nel percorso seguito dalla nuova sociologia economica, sviluppatasi negli anni ottanta a partire dal lavoro di Mark Granovetter.
L'orientamento dell' economia è largamente influenzato dall' approccio della teoria neoclassica, rappresentato in primo luogo dagli studi di Gary Becker sulle interazioni sociali. Tale impostazione si differenzia radicalmente da quella delle altre discipline perché non coglie la dimensione collettiva della produzione e del consumo di capitale sociale, considerato invece come una risorsa esclusivamente individuale. Nel campo dell'analisi economica neoclassica si colloca anche il lavoro di Douglass North, che concentra l'attenzione sul ruolo delle istituzioni formali e informali, considerate come le regole del gioco di una società. Sono infine da prendere in considerazione alcuni approcci recenti che impiegano i concetti di capitale sociale come strumento per l'analisi degli aspetti qualitativi dei processi di crescita e sviluppo. Diversamente dalla teoria neoclassica, tali studi sono integrati nel dibattito in corso nelle diverse scienze sociali, e traggono ampi spunti dai risultati acquisiti dalla sociologia e dalle scienze politiche.
Tuttavia, solleva molte perplessità, sia dal punto di vista del metodo, sia per quanto riguarda l'interpretazione dei risultati. In particolare, colpisce il fatto che la differenza nelle dotazioni di capitale sociale registrata nelle regioni italiane sia attribuita esclusivamente a fattori storici, mentre il nesso causale che collega la ricchezza dell'ambiente sociale con la qualità dell'amministrazione locale viene analizzato in una direzione soltanto. Nonostante l'evidenza empirica mostri che le regioni dell'Italia centrale e settentrionale sono più ricche di capitale sociale, il ruolo delle politiche pubbliche viene sistematicamente trascurato. A partire dalla seconda metà degli anni novanta, il dibattito sulla capacità dello stato di rinforzare il senso civico e la partecipazione sociale ha ricevuto nuovo vigore, ponendo le basi per la rapida affermazione di un ampio e fertile monte di ricerca sulla produzione di capitale sociale. Proprio in risposta allo studio di Putnam, diversi autori hanno riaffermato la complementarietà dello stato e della società civile ai fìni della diffusione di norme sociali di fiducia e reciprocità Ad esempio Sides nel 1999 ha mostrato l'esistenza di una forte relazione tra le dotazioni di capitale sociale, misurato come livello di diffusione della fiducia, e l'estensione dei diritti politici e delle libertà civili in un determinato paese.
Regimi democratici ben funzionanti invece riscuotono più facilmente la fiducia della popolazione, rendendo gli individui parzialmente responsabili delle scelte collettive. La sensazione di poter influenzare dal basso l'azione di governo contribuisce alla diffusione della fiducia nei confronti delle istituzioni pubbliche e del resto della popolazione.
c) Il capitale sociale come fiducia. Il ruolo dello stato (e dello stato sociale) nella produzione di capitale sociale.
Il concetto di capitale sociale come fiducia è stato prevalentemente analizzato da Putnam. La sua ricerca, coordinamento, ed esercita un'influenza determinante sulle attitudini degli agenti nei confronti dell'azione collettiva. Dove la qualità dei servizi pubblici è elevata, le persone saranno quindi più propense a coordinarsi tra loro per perseguire interessi specifici e risolvere i prooblemi della comunità (Cecchi, 2003).
Queste considerazioni sono confortate da diverse verifìche empiriche. Sulla base di dati tratti dal World Values Survey per 25 paesi, Letki (2003), mostra che l'estensione della fiducia non è influenzata dalla vitalità della società civile, misurata dalla densità delle organizzazioni volontarie, e dipende invece significativamente dalla percezione del funzionamento delle istituzioni amministrative e burocratiche da parte dei cittadini. Il meccanismo causale viene ricostruito da Rothstein (2003) attraverso una approfondita analisi dei dati raccolti da indagini campioni Cnie svolte presso la popolazione svedese. Quando è nota la scorrettezza dei funzionari pubblici, gli agenti sono generalmente tentati di trarne vantaggio. La diffidenza nei confronti dell'imparzialità dei burocrati si proietta sugli estranei, presso i quali, grazie al cattivo funzionamento delle istituzioni, è mediamente più elevata la probabilità di comportamenti opportunistici. Se invece i casi di parzialità e corruzione sono rari ed efficientemente sanzionati, è molto più facile avere fìducia nella disponibilità altrui a tenere comportamenti cooperativi. La doppia direzione del nesso causale è illustrata da diversi studi sulla relazione tra capitale sociale e corruzione. Bj0rnskov (2003) mostra l'esistenza di una significativa e robusta correlazione tra lo stock di capitale sociale, misurato come diffusione della fiducia generalizzata, e il grado di corruzione della pubblica amministrazione in 68 paesi, sulla base di dati tratti dal World Values Survey, dall'Euuropean Values Survey e dai rapporti nazionali elaborati da Transparency I nternational.
Tuttavia, secondo Uslaner (2002), la struttura istituzionale dello stato non è di per sé sufficiente a spiegare il livello di diffusione della fìducia, che dipende invece in modo critico dall'intensità delle disuguaglianze economiche e sociali. Alesina e La Ferrara (2002) impiegano dati forniti dal GeneraI Social Survey per verificare la relazione tra le disuguaglianze e la diffusione della fiducia negli Stati Uniti nel periodo 1974-94. I risultati dell'indagine empirica mostrano che i più forti fattori di riduzione della fiducia nei confronti degli estranei sono:
- l'appartenenza a categorie sociali storicamente discriminate, come le minoranze etniche;
- l'intensità delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della segmentazione
- etnica e sociale della popolazione;
- condizioni personali di svantaggio riguardanti il livello del reddito e il grado di istruzione, soprattutto rispetto ai valori mediamente registrati dall'ambiente sociale circostante.
Dal momento che la distribuzione del benessere intesa nella sua accezione più ampia come distribuzione del reddito, delle opportunità di mobilità sociale, e di sicurezza in termini di protezione contro i rischi di malattia, infortunio e vecchiaia - dipende in modo critico dall'assetto del welfare state, molti autori hanno indagato sul ruolo di quest'ultimo nell'accumulazione di capitale sociale Il risultato è confermato da diverse altre indagini empiriche.
La sensazione di ricevere un trattamento equo infatti esercita un'influenza fondamentale sulla costruzione della fiducia. Questa spiegazione dà rilievo a un filone di ricerca affermatosi nella psicologia sociale a partire dalla seconda metà degli anni settanta, che individua nella giustizia procedurale (procedural justice) un fattore chiave della coesione sociale (Thibaut e Walker, 1975, Lind e Tyler, 1988). Il disegno di politiche redistributive in grado di ridurre le disuguaglianze nel reddito e nell'accesso agli schemi pubblici di 'protezione sociale sembra pertanto la strategia più efficace per stimolare la diffusione della fiducia e l'accumulazione di capitale sociale, con conseguenze positive sulle attività economiche e sulla sostenibilità della crescita (Uslaner, 20(2). La maggioranza delle verifiche empiriche basate sul confronto internazionale tra diversi sistemi di welfare fornisce una sostanziale conferma di questa ipotesi.
Le dotazioni individuali di capitale sociale, con particolare riferimento per la fiducia nei confronti degli estranei e delle istituzioni, risultano significativamente influenzate dalle caratteristiche degli schemi di welfare: sistemi universali e poco discriminanti incoraggiano l'accumulazione di capitale sociale. Al contrario, programmi di welfare che discriminano tra gruppi sociali, sottoponendo i cittadini alla prova dei mezzi, creano incentivi, tra la popolazione, a investire risorse per assicurarsi trattamenti di favore o per proteggersi da trattamenti penalizzanti. Ne risulta un indebolimento del sostegno della società alle istituzioni e un deterioramento della fiducia tra gli individui, stimolato dalla proliferazione di attività di rent seeeking (Bruni e Zamagni, 2004).
Le istituzioni formali comprendono invece le regole politiche e giuridiche, quelle economiche e i contratti, e hanno la funzione di completare e accrescere l'effìcacia dei vincoli informali nel facilitare gli scambi politici o economici, attraverso la riduzione dell'incertezza e la diffusione delle informazioni.
Anche le organizzazioni offrono una struttura alle possibilità di azione e di relazione tra gli individui, ma nel ragionamento di North sono distinte dalle istituzioni, e consistono negli apparati politici (i partiti, le assemblee rappresentative e le agenzie pubbliche), negli apparati economici (le imprese, i sindacati e le cooperative), negli apparati sociali (organizzazioni religiose, culturali, sportive, di volontariato) e negli apparati educativi (le scuole, le università e i centri di addestramento professionale). Il contesto istituzionale influisce in modo determinante sulla nascita e sull' evoluzione delle organizzazioni, ma queste ultime, nello sforzo di realizzare i loro fini, sono il soggetto più attivo nella realizzazione del cambiamento istituzionale. In questo schema, il capitale sociale può essere identificato con le istituzioni e le organizzazioni; la sua produzione avviene collettivamente, ma è molto difficile per il policy maker esercitare su di essa un'influenza concreta nel breve periodo.

d) Il capitale sociale come istituzioni

Buona parte della letteratura empirica sul ruolo del capitale sociale nel processo di sviluppo economico definisce il capitale sociale facendo riferimento all'effìcienza e alla trasparenza delle istituzioni formali. I punti di riferimento teorici di questo filone di ricerca sono costituiti soprattutto dagli scritti di Putnam e dal lavoro di Douglass North sul rapporto tra istituzioni e andamento dell'economia. North si propone di integrare nella teoria neoclassica le istituzioni, considerate come vincoli che definiscono e limitano l'insieme delle scelte individuali, arricchendo l'ipotesi di razionalità «con altre ipotesi molto più realistiiche, ricavabili dai diversi schemi mentali che guidano il processo decisionale» (North, 1993, 159)·
Le istituzioni sono descritte come «le regole del gioco di una società o, più formalmente, i vincoli che gli uomini hanno defìnito per disciplinare i loro rapporti. Di conseeguenza danno forma agli incentivi che sono alla base dello scambio, sia che si tratti di scambio politico, sociale o economico.
Antoci, Sacco e Vanin (2002) mostrano, nell'ambito di un 1110dello di crescita con accumulazione di capitale sociale e capitale privato, che queste due variabili possono essere correlate sia positivamente che negativamente, secondo i valori che assumono i parametri dell' economia. L'analisi concentra l'attenzione sul rapporto tra capitale sociale e beni relazionali: l'assunzione di partenza è che più elevati livelli di capitale sociale aumentano la redditività del tempo speso nella partecipazione sociale e incentivano il consumo di beni relazionali, mentre una maggiore partecipazione sociale ha come effetto collaterale l'accumulazione di capitale sociale. Nel modello esistono tre beni: un bene di consumo privato, usato per soddisfare i bisogni di base, un bene relazionale e un secondo bene di consumo privato che può fungere da sostituto per il bene relazionale. Secondo le ipotesi adottate dagli autori, il consumatore può decidere come allocare il tempo a sua disposizione tra il lavoro, che determina un aumento di reddito e delle opportunità di consumo privato (che per ipotesi non richiedono tempo), e la partecipazione sociale. Pertanto una riduzione della partecipazione sociale determina simultaneamente un aumento dell'offerta di lavoro e una sostituzione dei beni privati ai beni relazionali nelle decisioni individuali di consumo, portando infine a un aumento della produzione dei beni privati che favorisce la crescita del reddito. Questo processo genera esternalità negative sulla produttività della partecipazione in termini di produzione di beni relazionali, danneggiando nel lungo

e) Il ruolo del capitale sociale nella comprensione degli aspetti qualitativi dello sviluppo.

Le righe dedicate ai lavoro di Becker e di North hanno mostrato come l'approccio dell'economia alla ricerca sul capitale sociale sia rimasto a lungo ancorato all'uso degli schemi analitici tradizionali dell' ortodossia neoclassica. La scarsa permeabilità degli studi economici rispetto alla grande varietà di impostazioni prodotte dalle altre discipline sociali, e la diffidenza degli economisti nei confronti di argomenti difficili da modellizzare, hanno relegato per molto tempo l'analisi economica ai margini del dibattito sul capitale sociale.
Tuttavia, negli ultimi anni, sta guadagnando attenzione crescente una serie di studi che impiegano i concetti di capitale sociale, fìducia, altruismo e reciprocità come strumenti per l'analisi degli aspetti qualitativi dei processi di crescita e sviluppo, sia nell'ambito di schemi analitici tradizionali, di stampo neoclassico, sia mediante l'uso di schemi e metodi alternativi.
Gli autori afferenti a questo filone di ricerca avvertono il pericolo di un impoverimento sociale delle economie avanzate, dovuto alle caratteristiche strutturali del modello.

3) infine il tempo necessario alla implementazione delle politiche risulta essere superiore a quello medio nazionale del 62%. Un buon indicatore di quest'ultimo (anche se non l'unico) si riferisce al tempo di emissione dei mandati di pagamento. Nel 2006 in Campania il tempo medio era pari a 183 giorni.

Per una conclusione ...

Nel Mezzogiorno la qualità delle istituzioni e delle relative politiche ai fìni della costruzione di capitale sociale è particolarmente carente. Da uno studio recente del Polo sud dell'Università di Napoli Federico II sulla qualità delle politiche pubbliche, ancora in corso, risulta evidente che esistono problemi relativi sia alla efficienza che alla efficacia del processo decisionale; per di più, la percezione dei cittadini sugli obiettivi e gli effetti delle politiche è fortemente di storta verso motivazioni di carattere di scambio politico o economico.
I risultati di questo lavoro saranno disponibile entro la fine dell'anno. Ma da una prima analisi dei dati risulta che: 1) il tempo di "ricognizione" da parte delle istituzioni di un particolare evento o bisogno è superiore nel mezzogiorno a quello medio nazionale del 34%; 2) il tempo "decisionale" per prendere provvedimenti o approvare linee di intervento è mediamente superiore a quello medio nazionale del 42%;

Postfazione

EMMA GIAMMATTEI  

Sembra che il tempo del settentrione sia venuto. [ ... ] il settentrione è propriamente fatto per tenere il di sopra ne' tempi della natura de' moderni.

G. LEOPAHDI, Discorso sopra lo stato presente del costume degli italiani

Il libro che qui si presenta raccoglie gli atti del seminario di studi "Economia, sviluppo e nuova questione meridionale", tenutosi a Napoli presso la Stazione Marittima il 7 aprile 2008. Accanto ai relatori, eminenti rappresentanti del mondo degli studi, tra i più esperti sul tema trattato, intervennero personalità politiche, quali il ministro per la funzione pubblica, Luigi Nicolais e il ministro per l'attuazione del programma Giulio Santagata. Si era al culmine della campagna elettorale, anzi ad appena una settimana da quelle elezioni politiche che avrebbero deecretato la vittoria della coalizione guidata da Berlusconi. Ci sembrò opportuno, allora, dare una confìgurazione in qualche modo immediatamente utilizzabile al seminario, il quale era stato pensato, in verità, con intento diverso, e soprattutto secondo una diversa, più distesa temporalità: vale a dire come una delle questioni rilevanti da studiare e approfondire in modo sistematico, per contribuire alla individuazione di un nucleo tematico denso, capace di fornire una persuasiva identità ideografica, se non ideologica, al nascente Partito Democratico, con particolare orientamento verso la condizione del Mezzogiorno.
Da coordinatore provinciale del PD sentivo profondamente l'esigenza di affrontare i problemi su una aggiornata base cognitiva, in ciò confortata dall' appoggio dell' esecutivo, della maggioranza del partito, e dal consenso di larga parte della società civile e intellettuale a noi vicina, in quel periodo pionieristico e a suo modo vitale. Infatti quell'incontro concludeva una serie di riunioni sui temi dell'economia e del Mezzogiorno, organizzate presso la sede della segreteria del PD provinciale di Napoli, (nel fumoso e gremito rez-de-chaussée di via S. Tommaso dAquino), sotto la guida dalla prof.ssa Paola de Vivo, membro autorevole e presenza fattiva dell' esecutivo. Il gruppo di lavoro che aveva partecipato al tavolo preparatorio era costituito da rappresentanti del mondo delle banche, da professori e da giovani ricercatori in politiche pubbliche e in politiche per lo sviluppo, in un approccio integrato e multidisciplinare ai problemi.
Il senso di tale iniziativa, sicuramente tra le più rilevanti e tempestive di quelle realizzate dal coordinamento provinciale - insieme con i seminari e il tavolo permanente con i sindaci, nel primo tempo, drammaticissimo, dell'emergenza rifiuti - consisteva nel tentativo di inaugurare o almeno prefigurare il ritorno alla realtà, ai problemi reali, alla politica come risposta adeguata ai bisogni dei cittadini. Tentativo necessario e non differibile per un partito che si voleva nuovo, ma in gran parte ancora rappresentato, a Napoli più che altrove, da una vecchia classe politica, impegnata nella definizione della identità partiitica soltanto nei termini strategici di riposizionamento deegli antichi tronconi .
Di certo, dagli interventi dei relatori, Ciuseppe Caalasso, Paola de Vivo, Amedeo di Maio, Adriano Giannola, Massimo Lo Cicero e Massimo Marrelli, emergeva una analisi storica, sociologica, economico-finanziaria, articolata su molti versanti, e perciò assai utile, come decisivo «punto sul Mezzogiorno» in rapporto al federalismo, dal quale ripartire per un'azione politica efficace.
Tanto più che la questione del Mezzogiorno non occupava un posto significativo nell'Agenda del programma elettorale del PD, così come non era stata, in verità, all'ordine del giorno nel governo Prodi. E, si deve oggi aggiungere, con l'avvento in atto del federalismo fiscale risultato dal confronto tra maggioranza e opposizione, quel seminario lungimirante, con i problemi messi sul tappeto, le diagnosi proposte, per lo stesso taglio, spregiudicato e scevro da conformismi, conserva oggi una straordinaria attualità. Di qui la decisione di pubblicare gli Atti, pur in una situazione tanto mutata; del resto, per riprendere quanto ha scritto, al solito benissimo, Calasso nella preazione, ai mutamenti nazionali e internazionali che pure incidono sulla situazione del Mezzogiorno, corrisponde sul territorio un immobilismo degli assetti preesistenti, e di conseguenza uno stallo del discorso politico sui temi di specifìco interesse meridionale a livello istituzionale, sia locale che nazionale.
In effetti, la questione meridionale, per qualche decennio colpita da una capziosa e confortevole forma di negazionismo, come non-esistente, oggi ritorna nella sua colposa drammaticità e urgenza. Eppure, nello stesso tempo, ecco, essa diviene insostenibile (come argomento e come petizione economica) e, di più, indicibile, persino dinanzi ad un allarmante federalismo al buio, il quale per ora, è stato detto, «non ha i numeri».
E la ragione di questa difficoltà della rappresentazione del Sud, il fatto che la questione meridionale sia venuta meno, non già nella realtà, ma nella memoria normativa della Nazione, appaiono dovuti alla perdita di credibilità morale prima ancora che di autorevolezza politica, delle amministrazioni locali. A tutti i livelli, all'esterno e all'interno, sembra che si debba essere ridotti al silenzio, quasi schiacciati da inefficienza e corruzione, per sovraccarico divenute presto, nel discorso nazionale, dannose generalità di uso corrente.
Non siamo dunque capaci, per ora, di quella <<Nuova narrazione» che da più parti si auspica e che vediamo, ad esempio, incarnata, sulla scena internazionale, in leaders come Zapatero e Obama. E non stupisce: la legge elementare di ogni racconto, si sa, è il passaggio, almeno, da una situazione A ad una situazione B. Quando alle parole non corrispondono le cose e le azioni, c'è l'inconcludenza, sia di chi simula il cambiamento limitandosi a pronunciarne il nome, sia di chi lamenta e deplora, come mostra tanta recente pubblicistica sul «male di Napoli» tutto sommato parassitaria.
Per queste considerazioni, mi sembra oggi più che mai opportuno proporre ai lettori non solo meridionali le solide analisi e le puntuali argomentazioni dei competenti, espresse molto per tempo e come contributo disinteressato, con l'augurio che esse prendano il posto delle opinioni e delle approssimazioni, in vista di una diversa attiva stagione, di un altro Mezzogiorno.

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