venerdì 13 gennaio 2012

libro intellettuali e italia scusi lei si sente italiano?

SCUSI, LEI SI SENTE ITALIANO?
Autori Vari

La forma di una scarpa
Proprietà letteraria riservata

«Siamo un Paese che sente di essere nel mezzo di un passaggio assai difficile della sua storia». A quando risalgono queste parole? Sono ritagliate da un quotidiano del 2010 o da una rivista di cent'anni prima? Soluzione complicata. Nel 1912 Benedetto Croce attaccava, dalle colonne della «Voce», certi «moralisti da caffè o da farmacia», pronti ad «annunziare e dimostrare che !'Italia sta per disgregarsi politicamente o fallire economicamente o dissolversi nella corruttela».
Croce aveva torto o ragione? Di sicuro non poteva prevedere la persistenza di un Leitmotiv dalla tradizione già solida, che si sarebbe ostinatamente riprodotto negli anni a venire, prendendo la forma ora di disputa sull'identità in frantumi, ora di polemica parlamentare sul crollo geopolitico italiano, ora di dibattito sul crepuscolo' letterario e artistico dei nipoti di Dante e Michelangelo. Settant'anni dopo le parole di Croce, dal suo «esilio» svizzero Giuseppe Prezzolini - descrivendo un Paese che «fa compassione e disperazione» - concludeva, senza mezzi termini: «Chi sarà il becchino dell'Italia?».
La retorica di una nazione in perpetua dissolvenza ha radici fin troppo lontane. Eppure non invecchia mai. Senso di inferiorità? Insicurezza? Dato caratteriale? Spiegare perché gli italiani, da sempre - come ha scritto Leonardo Sciascia - «così ossessivamente si interrogano, si ritraggono, si autoritraggono nella consapevolezza che non è colpa dello specchio se i loro nasi sono storti», è praticamente impossibile. La mole di articoli, pamphlet, saggi accademici che alimentano il patriottismo alla rovescia è tale da fare spavento.
In un libro del 1995 scritto con Indro Montanelli, Eppur si muove. Cambiano gli italiani?, Beniamino Placido spese una decina di pagine per stilare un elenco di proclami antiiitaliani. Il periodo d'indagine? Appena un anno. Intellettuali pronti a fare le valigie, allenatori sportivi che remano contro la nazionale di calcio, sociologi di pessimo umore. E ancora:

«Il Messaggero» di Roma intervista (15 febbraio 1995) alcuni dei nostri scrittori più giovani, e più promettenti: «Noi ragazzacci dello zoo Italia». Riassume il senso delle loro risposte così: «Questo Paese è malato. Non ci piace, ma ci ridiamo su».
Ancora: il cantautore rock Freak Antoni conferma (all' «Unità», 19 dicembre 1994) un suo motto: «Che cosa ti vuoi aspettare da un Paese che ha la forma di una scarpa?».

Siamo sempre, da sempre, nello stesso recinto. Una nazione divisa tra chi inneggia alla buona cucina, ai musei a cielo aperto, all' arte di arrangiarsi e chi invece si impegna a demolire gli stereotipi di un'Italia giudicata immatura e provinciale. Il vasto campionario di categorie e di maschere con cui da secoli si è provato - e si continua tuttora - a definire l'identità nazionale come «carattere» sembra un fermo immagine. Pronto a rianimarsi soltanto nei sondaggi.
Dagli anni Novanta all'altroieri, l'ampia percentuale di cittadini italiani che si dichiarano orgogliosi di esserlo non ha subìto vistose oscillazioni. Né la difficoltà a spiegare, subito dopo, il perché. Le risposte sono evasive e sempre abbastanza prevedibili. A volte perfino un po' imbarazzate: sillabe spezzate di un discorso confuso, che procede quasi a singhiozzo. Tra i mille esempi possibili, l'amore per la bandiera: quello che, dati alla mano, resta il più difficile da confessare. Colpa - scrive Michele Serra - della retorica risorgimentale e del rancore per cattivi maestri che insegnarono il valore di alcuni simboli insieme a parole obsolete, finite nei mesti bauli dell'Italietta di mezzo secolo fa. Nel rapporto con il tricolore si addensa così lo scetticismo di almeno tre generazioni, allenate e rassegnate ad amare questo Paese dicendone tutto il male possibile. Mentre, per chi compie diciott'anni adesso, il singhiozzo sull'italianità rischia di diventare uno sbadiglio. Forse non per spirito cosmopolita o istanze separatiste, ma piuttosto per banale disinteresse. Difficile sentirsi italiani se l'eredità è una lunga storia di confusione e malumore. E perché mai farsi ancora carico di una staffetta al negativo?
C'è tuttavia chi non smette di essere sorpreso -l'ha notato Beppe Severgnini - «davanti a questa nazione brillante che appare cinica e stanca». Tanto più se le dichiarazioni d'amore - continuano a esserci recapitate, nonostante tutto, da lontani e insospettabili mittenti. Intanto, perché non mancano mai i turisti sentimentali: donne e uomini che - per come li ha raccontati Eugenio Montale nel 1946 - senza il nostro Paese sarebbero stati diversi. Avrebbero pensato, sentito i valori dell'esistenza in un altro modo, non importa quale. C'è poi l'Italia -la ricorda Dacia Maraini - «di figli e nipoti di emigranti che nello sforzo di integrarsi in Paesi difficili hanno perso la familiarità con la nostra lingua, ma si scoprono, alla terza o quarta generazione, innamorati delle loro radici».
E chi rincorre l'Italia come sogno, come salvezza? Chi si mette a rischio pur di raggiungerla? L'approdo può essere disperato: una stanza bianca e blu d'ospedale, come nel reportage di Ezio Mauro che chiude quest'antologia.
Igiaba Scego, nata in Italia da genitori somali, racconta invece una storia più felice, ed è riuscita a rispondere alla domanda «Scusi, lei si sente italiana?» con un elenco che diverte e commuove. E spiazza qualunque italiano nato da genitori italiani. Se ripartissimo da qui?

Mi sento italiana quando: 1) faccio una colazione dolce; 2) vado a visitare mostre, musei e monumenti; 3) parlo di sesso e depressioni con le amiche; 4) vedo i film di Alberto Sordi, Nino Manfredi, Vittorio Gassman, Marcello Mastroianni, Monica Vitti, Totò, Anna Magnani, Giancarlo Giannini, Ugo Tognazzi, Roberto Benigni, Massimo Troisi; 5) mangio un gelato da 1,80 euro con stracciatella, pistacchio e cocco senza panna; 6) mi ricordo a memoria tutte le parole del 5 maggio di Alessandro Manzoni; 7) sento per radio o tv la voce di Gianni Morandi; 8) mi commuovo quando guardo negli occhi l'uomo che amo, lo sento parlare nel suo allegro accento meridionale e so che non ci sarà un futuro per noi; 9) inveisco come una iena per i motivi più disparati contro primo ministro, sindaco, assessore, presidente di turno; 10) gesticolo; 11) piango per i partigiani, troppo spesso dimenticati; 12) canticchio Un anno d'amore di Mina sotto la doccia; 13) faccio altre 100 cose, e chi se le ricorda tutte!
Al riparo da qualunque retorica, parole come queste sono scritte in italiano e tuttavia appartengono a una lingua nuova. Su un piano prima emotivo che intellettuale, senza gerarchie, tutto si mescola e di tutto si ha cura: ogni cosa è illuminata e ribattezzata. Le maschere non sono più solo maschere, gli stereotipi non più stereotipi. Una giornata nel Paese a forma di scarpa può essere fatta anche di questo.
Oppure, di un tram che attraversa il cuore di Milano, in un pomeriggio d'inverno. Due che insieme fanno cinquant'anni discutono di come sia difficile, da italiani, diventare italiani. Qualche mese dopo, il vento primaverile rischia di far volare via parecchie carte. Ritagli di quotidiani e riviste, accostati in modo imprevedibile e un po' spericolato. Le date sono comprese tra l'ultimo decennio dell'Ottocento e il primo del Duemila. Si tratta di voci di scrittori e giornalisti che sembrano voler fare di tutto per diventare o ri-diventare italiani: a malincuore, con allegria, con rabbia, con indignazione, con stupore, con disincanto. Qualche volta, perfino con ottimismo. Sarebbe un peccato non trattenerle. La risposta da fornire all' ennesimo «Scusate, vi sentite italiani?» magari verrà fuori da lì. O magari da un paio di scarpe. Possono andare larghe o strette: dipende anche dai giorni, dai piedi. Però sono nostre e, volendo, portano lontano.
Filippo Maria Battaglia Paolo Di Paolo






Forse si può cominciare da una differenza: sentirsi italiani o esserlo. Una differenza. radicale perché, come ricorda Garboh l'identità nazionale è sempre stata percepita «in termini di orgoglio rivendicativo e rabbioso». Il rischio, nota Flaiano, è che l'italianità diventi una professione, persino intermittente, come scrive Berselli.
Ma qual è allora il modo migliore di amare l'Italia? Malaparte non ha dubbi: raccontare tutta la verità sulle sue pieghe, le sue miserie e le sue vergogne. Di dubi Guareschi ne ha invece più di uno} e parla di un vecchio amore ormai divenuto rimpianto. E se Citati si domanda perché è così complicato essere italiano Croce, caustico, annota: ormai da decenni si parla di un Paese che sta per disgregarsi e per «dissolversi nella corruttela», eppure nessuno dei disastri annunciati è mai accaduto.
Italiani, però, ci si può sentire anche su una piazzola di sosta dell'autogrill, come scrive Scurato e può pure capitare -lo racconta Serra - che la sola idea di vedere il tricolore risulti piacevole nonostante le mille storture di un Paese ossessionato, secondo Manganelh dal reato sintomatico di vilipendio.
La mia patria è l’Italia} grida di rabbia Oriana Fallaci} e aggiunge: non quella di oggi, godereccia e senlanima, ma quella seria, intelligente e dignitosa che sognavo da ragazzina. Attenzione, però, ad alzare il ponte levatoio per sbarrare la via a chi abita al di là della strada: il sentimento di appartenenza al nostro Paese} ricorda Magris} va sempre a braccetto con quello europeo e cosmopolita; altrimenti, rischia di diventare solo una petizione generica.

Benedetto Croce
Ho letto ...

Ho letto una descrizione tristissima, disperata, delle condizioni d'Italia. Una volta, letture di questa sorta mi davano mezze giornate, giornate o settimane di umor nero. Ora non più: esperienza, scienza e sdegno morale mi hanno, verso di esse, fortificato. Esperienza: perché odo ormai da alcuni decenni, di tratto in tratto, qualcuno o parecchi annunziare e dimostrare che l'Italia sta per disgregarsi politicamente o fallire economicamente o dissolversi nella corruttela o essere trascinata in una guerra, che sarà la sua fine come Stato e come N azione. E nessuno dei disastri profetati è mai accaduto, e molti malanni sono spariti (in cambio, è vero, ne è sorto qualcuno nuovo, ma ciò è nell' ordine di natura), e, in complesso, non si sta peggio, e si può dire persino che si sia progredito. Scienza: perché ho appreso che quelle descrizioni pessimistiche debbono di necessità essere esagerate e perciò false, essendo metafisicamente impossibile che una società, anche per un istante, si regga sull'irrazionalità e sul male; e se alcuno non riesce a scorgere la legge razionale di una data configurazione sociale, e se scorge soltanto il male o considera come male la fenomenologia stessa del bene, dia la colpa a se medesimo, che ha mente astratta e non concreta, meccanica e non organica (epperò impotente a comprendere un organismo), analitica, ma di un'analisi senza sintesi. E, infine, sdegno morale; giacché considerare spregiudicatamente e affisare coraggiosamente i duri tratti della realtà per dominarla e operare, è da uomo; ma stare a descrivere il sognato male, così, per descriverlo e per ammazzare il tempo, o peggio ancora per compiacersi di fronte ad esso della propria non meno sognata superiorità, o peggio di peggio, per trame giustificazione ad accomodarvisi (i pessimisti sono di solito accomodantisti), è da pettegolo, da vanesio e da ciacco. Quella maldicenza è propria della gente volgare, del borghesuccio ozioso; e non v'ha circolo di perditempo in cui non si passino a rassegna gli orrori della presente società e non si presagisca il finimondo. In verità, a petto di cotesti moralisti da caffè o da farmacia (e degli scrittori che ad essi corrispondono), non c'è canaglia o imbroglione o ladruncolo, che non s'irraggi di umana simpatia; perché la canaglia, l'imbroglione e il ladro operano, s'ingegnano, si destreggiano e rischiano la pelle o la libertà, e spesso dal male che essi fanno nasce un bene inaspettato; laddove quei moralisti oziano, e non possono ingenerare altro bene che lo sdegno e la nausea, che suscitano, in coloro in cui la suscitano. - Ma da quando in qua non è più lecito effondere la propria tristezza in presenza dei mali del mondo? - Sì, che è lecito, ma al poeta, il quale, come disse un poeta-filosofo, «con la forma distrugge la materia», ossia la rende ideale; non già all'uomo pratico, al quale condannare un fatto non è lecito senza insieme aiutare il sorgere di un altro fatto che sostituisca il primo (che è condannato giustamente soltanto quando è sostituibile); e chi condanna a questo modo, non si può dire che si compiaccia nel chiacchierare ozioso, perché egli, come può, opera, e dunque, se opera, non è pessimista, ma ottimista.
«La Voce», 25 gennaio 1912

Curzio Malaparte
Carità di patria

Non mi stancherò mai di ripetere che vi sono due modi di amare il proprio paese: quello di dire apertamente la verità sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell'ipocrisia, negando piaghe, miserie, e vergogne, anzi esaltandole come virtù nazionali. Tra i due modi, preferisco il primo. Non solo perché a me sembra il giusto, ma perché l'esperienza insegna che la peggior forma di patriottismo è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà, e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a null' altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali.
Né vale la scusa che i panni sporchi si lavano in famiglia.
Vilissima scusa: un popolo sano e libero, se ama la pulizia, i panni sporchi se li lava in piazza. Ed è cosa inutile e ipocrita invocare la carità di patria. La carità di patria fa comodo soltanto ai responsabili delle nostre miserie e vergogne, e ai loro complici e servi, fa comodo a chi ci opprime, ci umilia, ci deruba, ci corrompe. Non è certo con questa specie di carità che si potranno evitare nuovi malanni, e nuovi lutti all'Italia. Se si vuol portare rimedio alle miserie del popolo, se si vuol aiutare gli italiani a conquistarsi libertà, giustizia, leggi oneste e civili, occorre parlar chiaro, denunziare ad alta voce i soprusi, le violenze, le corruzioni, le frodi.
Ho forti dubbi che la patria, per la quale si pretenderebbe invocare tale specie di carità, sia la vera patria degli italiani. Credo piuttosto sia quella che Carducci chiamava «La Patria di lor signori»; cioè l'Italia dei servi e dei padroni, un'Italia che non merita né pietà né rispetto. Essa non ha nulla a che fare con l'Italia vera, umiliata, affamata, tradita. E non si dica che l'Italia è ormai talmente avvilita, che non può sopportare la verità, e ha bisogno della menzogna per vivere e sopravviivere. Se non sopporta la verità, se ne vada al diavolo. lo non so che farmene di una patria che non sopporta la verità.
«Tempo illustrato», 21 giugno 1956

Ennio Flaiano
Più che una nazionalità, una professione

Mi telefona un tale per dirmi che sta facendo una piccola inchiesta e vorrebbe che gli rispondessi a questa domanda: di che nazionalità vorrei essere se non fossi italiano.
Viviamo nel secolo delle domande. Chiudo gli occhi, aspiro profondamente e rispondo: «Prima di tutto bisognerebbe provare che sono italiano. Vediamo di riuscirci, con una dimostrazione per assurdo, ma ne dispero. Dunque: non sono fascista, non sono comunista, non sono democristiano: ecco che mi restano forse venti probabilità su cento di essere italiano. Non scrivo e non parlo il mio dialetto, non adoro la città dove sono nato, preferisco l'incerto al certo, sono per natura dimissionario, detesto il paternalismo, le dittature e gli oratori. Il gioco del calcio non mi entusiasma, lo sopporterei se sul campo i giocatori fossero ventimila e il pubblico ventiidue persone, non ascolto la radio e non guardo la televisione: ignoro perciò gli eroi di queste attività di cui tutti sanno dirvi vita e miracoli. Pago le contravvenzioni, non ho amici negli uffici importanti e mi sarebbe penoso partecipare a un concorso. Non so cantare e non mi piace sentir cantare gli altri, se non a teatro. Non scrivo versi. Sono italiano? Ho conservato sempre gli stessi amici, mi piace viaggiare per l'Italia e quasi ogni luogo mi incanta e vorrei restarci. Sotto quest' aspetto potrei essere un inglese. I grandi problemi mondiali mi lasciano perplesso e non ho per ognuno di essi un giudizio preciso e definitivo: sono forse indiano? Così pure mi stimo abbastanza prudente nel giudicare il prossimo e trovo che la maggior parte delle persone che conosco sono ottime e gli auguro ogni bene. Esquirriese? Leggo libri di autori italiani, classici e moderni, e ammiro i nostri artisti e qui potrei dirmi americano. Adoro il sole, il mare caldo, l'Etruria e la Campania e in questo potrei riconoscermi tedesco. Se visito un museo non parlo ad alta voce e se vado in una biblioteca non tento di portarmi via un libro o le sue illustrazioni. Sono forse svedese? Non mi interessano i processi, la cronaca nera, la vita mondana. Eremita? Non scrivo il mio nome sulle rovine o sui muri dei monumenti. Analfabeta? Pago i miei debiti, anzi evito di farne, non ammiro le grandi qualità dei popoli che non conosco, la morte non mi spaventa, sto volentieri in piedi la notte e una compagnia che superi le quattro o cinque persone mi annoia francamente. Spagnolo? In treno non racconto episodi della mia vita, né do giudizi sull'Italia meridionale, gli uomini mi interessano per il loro carattere, nelle donne ammiro molto anche l'intelligenza, che non mi suscita sentimenti di invidia o di disprezzo. Tuttavia, che io sia italiano potrebbe essere innegabile: infatti mi piace dormire, evitare le noie, lavorare poco, scherzare, e ho un pessimo carattere, perlomeno nei miei riguardi. Bene, se non fossi italiano, a questo punto, non saprei che farci. Probabilmente, non sarei niente e questo dimostra, in fondo, che sono proprio italiano. Allora? La sua domanda è senza risposta. Si consoli pensando che per molti !'italiana non è una nazionalità, ma una professione».
«Il Mondo», 29 gennaio 1957

Giovannino Guareschi
Addio, mia bella signora

Signora,
io l'ho incontrata quarantaquattro anni fa, nel 1914, e per quarantaquattro anni, ho conservato la Sua immagine viva nel mio cuore.
Ricordo ancora i particolari dell'incontro: era una bella giornata d'autunno, avevo sei anni e Lei mi sorrise dalla copertina colorata del mio primo quaderno di scolaretto della prima elementare.
La vidi bella e maestosa come una Regina: mi affascinarono la corona turrita che recava sulle chiome corvine e la grande stella che Le brillava sulla fronte.
«È l'Italia», mi spiegò mia madre.
Fu Lei il mio primo amore, bella Signora, e, ogni volta che sentivo parlare dell'Italia, pensavo a Lei.
La rividi quasi ogni giorno, a incominciare dal 24 maggio dell' anno seguente e fino a tutto il 1918, non solo nelle copertine dei miei quaderni e nelle illustrazioni dei miei libri di lettura, ma nei giornali esposti nelle edicole, nei cartelli che ornavano le vetrine, nei manifesti appesi alle cantonate. Non sorrideva più come il giorno del nostro primo incontro: brandiva una grande spada fiammeggiante e il Suo sguardo era fiero.
Quando appresi che Lei aveva bisogno di aiuto, Le portai il mio salvadanaio di terracotta e, quando «si parlò di tradimento» e di disfatta, io pensai a Lei e dissi: «No: l'Italia non può perdere».
La rividi sorridente e vittoriosa il4 novembre del 1918 e, qualche tempo dopo, ebbi la gioia d'incontrarla in casa mia.
Aprendo «il pacco vestiario» di mio padre, io me la trovai davanti d'improvviso, stampata in nero su un grande fazzoletto di tela gialla.
Oramai diventavo grandicello e, vedendo, fra il '21 e il '22, la canaglia scatenata per le strade, io ripensai a Lei e mi consolai: «No», dissi fra me, «l'Italia non è questa. La vera Italia è l'altra: è la bella Signora con la corona turrita in capo e la stella scintillante in fronte».
Avevo quattordici anni e anch'io volli una camicia di satin nero e un fazzoletto azzurro.
Passarono gli anni e vennero ben presto gli stivaloni, le divise d' orbace e il conformismo: allora riposi nell' armadio della roba smessa la camicia di satin nero e ritornai al mio primo amore: alla Signora che mi sorrise dalla copertina del mio quaderno di prima.

Deluso dall'Italia ufficiale, io collocai ogni mio sogno e ogni mia speranza nell'Italia reale.
Ed ecco il '40, ecco la guerra. L'aveva dichiarata l'Italia ufficiale, ma l'Italia reale era in pericolo e io dimenticai ogni altra cosa e pensai solo a fare il mio dovere d'italiano.
Poi accaddero i fatti del 26 luglio e dell'8 settembre del , 43. Accadde tutto il resto, ma, ogni volta, io pensai a Lei, bella Signora, e dissi: «No, la vera Italia non è questa. La vera Italia è la Signora con la stella in fronte e, al momento giusto, riapparirà e farà sentire la sua voce possente, come fece quando, sguainata la spada fiammeggiante, fermò il nemico al Piave e lo ricacciò indietro».
«No», dissi sempre cocciutamente in seguito, «la vera Italia non è quella crudele della 'liberazione', non è quella barbara di piazzale Loreto, non è quella minacciosa o terrrorizzata.del18 aprile del '48, non è l'ambigua Italia del '53 e non può essere neppure l'Italia conformista e demagogica uscita dalle elezioni del '58. L'Italia reale è l'altra».
Oggi, Signora, non dico più così, né posso più dirlo.
«Candido», 8 giugno 1958

Pietro Citati
È complicato essere italiani

Nella vita d'oggi, ci sono momenti nei quali un popolo come il nostro sembra, all'improvviso, detestabile. Allora studiamo nei nostri volti e nei nostri modi le affinità che ci legano agli altri italiani: con raccapriccio ci scopriamo affini; e vorremmo troncare per sempre questo nodo, cambiando lingua, mente, costumi, e vivendo il resto della vita lungo i canali di Amsterdam o in Tasmania. Sono momenti di stizza, di rabbia, di rancore - tipicamente italiani - che non durano a lungo. Ma da cosa nascono? Perché sono tanto frequenti? Perché è così complicato essere italiani?
Sui «vizi» del nostro popolo esiste una copiosissima letteratura, quasi tutta di terz'ordine. Quando vogliamo averli davanti alla memoria, basta pensare che quell'ignobile attore, quell'astuto evocatore di fantasmi che fu Mussolini seppe individuarli tutti nelle pieghe più nascoste del nostro paese, e li portò ingigantiti sulla scena pubblica: la mediocrità intellettuale, la fragilità nervosa, la bassa furbizia, la vanteria fallica, la presunzione immotivata, la fantasticheria ad occhi aperti, il rozzo buon senso, il disprezzo per le idee, l'arroganza verbale ... Se gli studiosi di psicologia avessero sempre ragione, dovremmo essere grati a Mussolini: egli ha portato alla luce ciò che prima di lui il nostro paese aveva represso, e così abbiamo conosciuto questi peccati, e possiamo liberarcene. Purtroppo, gli studiosi di psicologia non hanno sempre ragione. Gli istinti, i desideri, i. sogni, una volta che si sono scatenati fuori dalle caverne del nostro io, non vi rientrano più: continuano ad aggirarsi per il mondo, si diffondono, si moltiplicano e contaminano le persone più lontane.
Così, una generazione dopo la morte di Mussolini, i vizi che egli ha evocato continuano ad avvelenare l'animo di chi non l'ha mai conosciuto.
Dietro questi vizi, si cela un meccanismo psicologico singolare. Come certi alberi, arrivati ad un periodo del loro sviluppo, accusano un'improvvisa debolezza, si ammalano e presentano a chi li guarda foglie affumicate e chiazzate, così gli italiani non sanno maturare. Nel complesso di azioni e reazioni, che trasforma un giovane in un adulto, un adulto in un vecchio, un popolano in un borghese, un borghese in un «potente», qualcosa si inceppa, si arresta e si ferma. Non sappiamo crescere. Prendo il caso più semplice: il numero grandissimo di talenti, che viene sprecato, sciupato e buttato via in Italia. Giovani intelligenti, pronti e sensibili, in cui sembrava giusto riporre le speranze 'più lusinghiere, si perdono continuamente. Qualcuno di loro ripete per anni le stesse parole, come un malinconico automa. Qualcuno si involgarisce, travolto da peccati mentali, che si annidavano in una parte segreta di lui. Qualcuno si spegne, e nessuno potrebbe immaginare che quell'uomo vuoto, sciocco e arrogante sia stato il ragazzo più intelligente della sua classe.
Altri riescono invece a far maturare il proprio talento: danno rapidamente il meglio di sé; e, a quarant'anni, dirigono industrie, guidano partiti, insegnano all'università, scrivono libri. Ma, un giorno, uno di questi uomini acuti e vivaci si guarda allo specchio e, per qualche misteriosa ragione, si innamora perdutamente di sé. Da quel giorno, quest'uomo è finito. Tutto ciò che è, fa o scrive - persino i vestiti, le scarpe che porta, i cibi che preferisce, i gesti che accenna - diventa enormemente significativo e viene proposto all'ammirazione e all'imitazione degli altri. Non è più un uomo, ma una statua incarnata, un mausoleo vivente, una bandiera che garrisce al vento della Patria. Così il paesaggio italiano si copre di grevi e puerili cariatidi di carne. Stanno dovunque. Fanno i professori d'università, i direttori di giornali, gli amministratori delegati, i banchieri, i dentisti, i giudici, i segretari di partito. Invecchiando, peggiorano. li piccolo abilissimo industriale diventa un goffo Presidente della Confindustria: l'onesto e scrupoloso deputato un mediocre sottosegretario, e poi un cattivo ministro, e poi un infimo Presidente del Consiglio e, infine, al culmine squillante delle sue glorie, un disgustoso Presidente della Repubblica.
Credo che questa difficoltà o incapacità di crescere possa spiegare alcuni paradossi del carattere italiano. Siamo un popolo che apprezza naturalmente la qualità assurda ed eccentrica del riso; e a volte nessuno è luttuoso, tetro, incapace di comprendere l'ironia come un italiano. La nostra tradizione popolare ama il tocco leggero e discreto; e trattiamo le cose irrilevanti come fossero drammatiche faccende di Stato. Siamo misurati, e riusciamo gonfi, esagerati, retorici. Siamo naturali, e sembriamo goffi. Siamo capaci di sopportare, e non abbiamo pazienza. Amiamo la forma, e viviamo nell'informe. Comprendiamo acutamente la realtà; e nemmeno un russo dell'Ottocento, lettore di cattiva filosofia tedesca, e ubriaco, si smarrirebbe nelle più noiose vacuità dell' astrazione come un italiano di oggi, innamorato delle parole altrui prese in prestito.
Chissà se riusciremo mai a crescere. E l'arte più difficile che esista. Non si impara a casa, né a scuola, né sui libri, né dagli psicologi, né sugli articoli di giornale. La vita si rifiuta tenaceemente di insegnarla a chi non la intuisce per proprio conto. Forse impareremo di colpo quest' arte, nel corso di una notte, in una di quelle improvvise drammatiche trasformazioni, che cambiano il carattere delle persone, dei popoli e il volto del mondo.
«Corriere della Sera», 3 maggio 1973

Giorgio Manganelli
Patria

L'italiano medio, scapolo, divorziato o con famiglia, che passi nelle vicinanze di una bandiera italiana, sgargiante nei suoi tre colori, è ammonito di tenere un contegno assolutamente inequivoco; potrà sorridere, ma con rispetto, nei confronti di detta bandiera, e non sguaiatamente, come può accadere di ammiccare ad un compagno di bevute e sconvenienze; gli si consiglia di levarsi il cappello, ma sempre come si usa con i superiori, non, ad esempio, con i condomini; in genere, può eseguire gesti allusivi a trepida devozione, incondizionato assenso, festosità e generico desiderio di morire in modo straziante per la medesima: tanto, egli lo sa, la sua famiglia resterà raccomandata alle cure di quella bandiera, che non dimentica i suoi figli migliori. Questo contegno non esito a giudicare saggio, prudente e, anche se ipocrita, da vero italiano. Infatti, quei tre colori sono protetti dal reato di vilipendio, e pertanto nessuno può usare, nei confronti del bianco, del rosso e del verde, espressioni insolenti, ironiche, ideologicamente daltoniche, sprezzanti. Questo reato di vilipendio fluttua sulla vita nazionale da non so quanti anni, generazioni certo, ed è ormai parte integrante del costume nazionale, come il delitto d'onore, la grassa cucina, il nero ciabattare dei preti, e le guerre perdute, le pensioni a babbo morto. Il numero delle persone ed enti che l'italiano non può assolutamente vilipendere, pena il processo, che da noi è in genere peggio della galera, e molto peggio della multa, è estesissimo: il che fa pensare che il cittadino italiano viva in condizioni tali, e tra istituzioni che egli è desideroso di vilipendere, e che insomma, se appena potesse, l'italiano passerebbe buona parte della sua vita a irridere ministri, deputati, preti, bigliettari, capi di Stato nazionali ed esteri, vigili, santi, re, netturbini, sindaci, metronotte, orfanelle, carristi, carabinieri, dogmi e liberi docenti; temperamenti più laconici e comprensivi potrebbero insultare la nazione tutta o, come s'è detto, prendere a calci la bandiera. Rammento che un tale venne condannato a sei mesi per aver detto, in un contesto di lite doganale: «Mi vergogno di essere italiano». Pertanto, resta acclarato che noi tutti dobbiamo essere sempre fieri della nostra Patria, che ci ha fatto quali siamo. Recentemente, sono accaduti taluni eventi che illuminano di nuova luce questo tema del vilipendio. Un certo Noschese, noto per la sua abilità nel contraffare uomini autorevoli, e pertanto protetti dalle transenne del reato di vilipendio, essendosi divertito, in quel suo modo semplice e ideologicamente affettuoso, a far ridere taluni innocenti imitando il presidente Leone e il Santo Padre, venne denunciato, appunto, di vilipendio: e per buona sorte trovò un magistrato eversivo, che lasciò perdere. Ma quello che è chiaro è questo: il signor Noschese fu spaventato e turbato, come accadrebbe a qualunque italiano, inclusi i martiri di Belfiore e Silvio Pellico, in qualche modo sfiorato dall'occhio malato e vizioso della giustizia. Fece alcune dichiarazioni sacrificali e a scopo propiziatorio: in breve, disse «Amo la Patria e sono cattolico». Ora, Noschese non aveva fatto il verso al Dio dei cattolici che, per la sua curiosa conformazione, mal si presta a codesti giochi; ma solo aveva giocato, alla sua maniera, con il Papa; ma se fossi un giudice, quella precipitosa dichiarazione di cattolicesimo mi insospettirebbe: è facile dire, io sono cattolico; ma che ne pensa del peccato originale, del concilio di Nicea? Ha le idee chiare sui monofisiti? Perché, è ovvio, se il Noschese risultasse un monofisita, un anabattista o un patarino, il suo vilipendio assumerebbe il carattere di un vero oltraggio a carattere eversivo nei confronti della religione dello Stato, quello che si occupa delle sepolture. Diciamolo cattolico incauto e andiamo oltre. E, «amare la Patria»? In
primo luogo, la ama veramente tutta? Ad esempio, posto di fronte a viale Maino, a Milano, direbbe il Noschese «Sì, io lo amo tutto, numeri pari e dispari»? Ama anche la periferia nord di Foggia, le latrine di tutti indistintamente i ristoranti e le tavole calde dell' autostrada? Ama i parafulmini, le scritte «Non lordare», e i gatti che non abbiano attraversato il confine? Se un gatto attraversa il confine per conto proprio, esso infatti cessa di far parte della Patria: e allora, il Noschese cessa di amarlo nel momento stesso in cui quel gatto attraversa il confine, o magari, distrattamente, lo ama anche «dopo»? Perché, in quel caso, avendo trasferito un tipo di amore che spetta alla Patria, a cosa che Patria non è, egli potrebbe essere sospettato di commercio col nemico, esséndo chiaro che la Patria è circondata di Paesi che ne concupiscono, ad esempio, le coste ricche delle nostre impareggiabili merde, ovviamente incluse nel concetto di Patria da amare. Inoltre: ama la Patria ininterrottamente, notte e giorno, sveglio e dormente, o che so io? La ama tutta e sempre? Non vorremmo sentirci dire: veramente, verso le tre del mattino io non amo, anzi assolutamente disprezzo, l'incrocio tra via Makallè e via Asmara a Roma; e quanto alle chiese sconsacrate della Basilicata, Dio mi perdoni, ma una volta la settimana le insulto in modo indecente e prolungato. Infine, di che amore il Noschese ama la Patria? Intende dire: come una donna? Una mamma? Desidera forse accarezzarla con animo pietoso? O forse la ama in modo un poco più torbido, anche solo scherzoso? Le pizzica le colline? O, francamente, la concupisce? Non è impossibile che il Noschese, questo cittadino portato al dileggio, sia incline allo stupro della Patria; ha mai cercato di cogliere alla sprovvista, con intenti lascivi, parti del paesaggio, stazioni ferroviarie, soffioni? O la ama in modo onesto, e desidera sposarla, e seco convivere con la protezione della legge? In tal caso, la sua corte dovrà essere discreta, e aliena da quelle confidenze di cui dà prova nelle sue rappresentazioni. Uno sposo non si fa beffe del suocero o del sacerdote che presiede al sacro vincolo. In ogni modo, in questo concetto di «amare la Patria» io non vedo alcunché di buono, e molto che meriterebbe accurata e severa indagine: oggi i costumi sessuali degli italiani sono incredibilmente depravati. Incidentalmente, m'era parso di leggere che il presidente della Repubblica era stato recentemente incriminato per vilipendio del capo dello Stato, creando una situazione giuridica assolutamente catastrofica: ma può essere che io sia stato informato male.
Nell'ottobre dello scorso anno, un altro incidente, alquanto più plateale, finì sul tavolo del ministro di Grazia e Giustizia; infatti, un tale, multato in quel di Udine da due guardie di pubblica sicurezza, era esploso in una concitata invettiva, forse ideologicamente poco articolata, ma non priva di espressività; di questa esistono, come è stato chiarito, due versioni: una purgata per la Camera dei deputati, ed una, critica ed integrale, per i senatori, uomini rotti ad ogni vizio. Il signore «rivolgeva ... agli agenti suddetti, le seguenti frasi: ... maledetta la Repubblica italiana, io al presidente della Repubblica gli romperei il culo, e così farei con tutti i deputati e senatori, io sono un libero cittadino e voi mi state rompendo i coglioni, porco iddio». Ora, per buona sorte, 1'autorizzazione a procedere non è stata concessa, e se ne può parlare con una certa serenità: se infatti prendiamo la proposizione «romperei il culo a tutti i deputati e i senatori», essa comporta tal uni problemi giuridici. A differenza della Patria, che è sferica e globale, il deputato è protetto in quanto rappresenta, per elezione popolare, la nazione; ma si potrà affermare che anche il culo del deputato sia stato eletto? O in tal caso non cade nel reato di vilipendio del deputato? Il deputato è stato eletto in quanto «corpo» - inclusivo di parti intime e vergognose - o in quanto «persona», anima, psiche? Ma se, tanto per dire, io affermo che anche lo scroto rappresenta la nazione, non mi troverò di fronte ad un reato di vilipendio della nazione tutta? Giacché è noto che lo scroto è in genere tenuto in modesta stima, per non dir di peggio. Da un altro punto di vista è chiaro che il proposito di «rompere il culo
a tutti i deputati e senatori» rivela nel signore in questione una chiara megalomania, un delirio di grandezza confermato dalla frase, che è poco definire scandalosa, «io sono un libero cittadino»; frase che suscita pena e apprensione per i famigliari di costui, invasato da furori giuridici e da affermazioni imperiali, che, non rivelassero una povera mente sconvolta, includerebbero tutti i possibili reati di vilipendio, oltraggio, tradimento, consegna di piani militari al nemico, insulto alla bandiera, linciaggio delle forze armate, stupro del paesaggio, abigeato nei confronti dei leoni del Campidoglio e della lupa di Roma, infine annichilimento, per mera magia verbale, dei carabinieri, dei generali, dei vigili, e dei maestri, professori e presidi di ogni ordine e grado e, a maggior ragione, dei bidelli. In genere la giunta per le autorizzazioni a procedere è indulgente: e motiva codesto lassismo dichiarando che codeste espressioni, per la loro «genericità e non particolare gravità», non concretano il reato di vilipendio. In effetti il signore di Udine, pur nella sua vaniloquenza libertaria, ha aiutato il Parlamento a dichiarare che il culo, genericamente inteso come parte depressa dell' organismo umano, rientra sì nel concetto di Patria, ma non in quello di deputato; e se gli spetta la generale protezione che tocca a tutto ciò che è Patria, non può vantare la specifica tutela che va ai rappresentanti della nazione.
Collocazione incerta (articolo risalente a non prima del 1974)

Claudio Magris
Sentirsi italiani prima di diventare europei

«Italia. / Oh, lo so che ancuo sto nome / i lo fa equivoco. / Che l'Italia xe' par lori / massa piccola». Così dice una liriica di Giacomo Noventa, il grande e appartato poeta che ha scritto in dialetto versi di universale classicità ed è stato uno dei più semplici e profondi lirici del Novecento, un intellettuale complesso e di vasta cultura, radicato nella storia del suo tempo e nelle sue crisi, e uno schietto cantore la cui voce ricorda quella anonima del Lied popolare, con i suoi sentimenti e valori di sempre. Antifascista e per un periodo anche esule a Parigi, cattolico liberale e democratico e dunque avverso ad ogni nazionalismo, Noventa celebrava, con umiltà e pietas l'Italia contro ogni spirito sciovinista, ne celebrava l'unità nel suo dialetto veneto ossia nel linguaggio spontaneo del suo animo, linguaggio dell' amata piccola patria col quale dire l'amore per la patria più grande, che non nega la prima, ma la comprende e le' dà significato. Se l'Italia appariva o appare troppo piccola agli snob che si considerano pateticamente internazionali, oggi essa appare, in una distorsione opposta e complementare, troppo grande a chi vorrebbe ringhiosamente chiudersi nell' angustia della propria cerchia immediata, alzando il ponte levatoio per sbarrare la strada anche a chi abita al di là della strada. Illegittimo, intenso amore per le proprie radici immediate muore di asfissia o si stravolge nell' ansioso astio se non è unito all' amore per il prato o il bosco in cui affondano quelle radici.
Dante diceva che a furia di bere l'acqua dell' Arno aveva imparato ad amare fortemente Firenze, ma aggiungeva che la nostra patria è il mondo, come per i pesci il mare; quelle due acque, il fiume casalingo e l'oceano universale, si integrano a vicenda e ognuna di esse, da sola, sarebbe sterile. La patria è un momento fondamentale di questo legame fra la particolarità del luogo natio e gli orizzonti di civiltà più vaste. Senza il sentimento di appartenere all'Italia non esiste, concretamente, quello di appartenere all'Europa e al mondo, perché esso rimarrebbe una petizione generica.

Il Tricolore, di cui si festeggia il bicentenario, è il simbolo di un'unità che fa sentire realmente fratelli dalle Alpi alla Sicilia, in una fraternità che, solo se autentica e salda, può aprirsi a una ancora più grande. Il Tricolore ricorda anche che i primi fermenti dell'Unità d'Italia sono nati in stretto legame con gli ideali di libertà e con lo spirito cosmopolita di una Rivoluzione che aveva innalzato il Tricolore delle tre grandi parole di libertà, uguaglianza e fraternità. Il pervertimento di quegli ideali, attuato talora anche da coloro che li avevano proclamati, non getta certo alcun discredito sugli ideali stessi, come troppo spesso oggi si è inclini a credere, ma sottolinea invece ancora di più, proprio perché non sono ancora del tutto attuati, la necessità di rivendicarli e di portarli a compimento.
Come Mosè, siamo tutti fuori dalla T erra Promessa, verso la quale tuttavia occorre continuare a camminare; anche la patria, anche l'Italia, è una meta che ci sta davanti, non un monumento del passato cui rendere un doveroso e retorico omaggio. La bandiera è fatta per andare avanti e mostrare il cammino, non solo per pendere da un edificio pubblico. Il bicentenario del Tricolore non è solo occasione di festa, ma soprattutto un monito di responsabilità; come ogni responsabilità, può anche pesare sulle spalle di chi lo porta. La fraternità, che esso addita, non è cosa facile; è una conquista quotidiana più ardua di una battaglia, ma dà senso all'esistenza. Ascolteremo la prolusione di Mario Luzi; non sappiamo cosa avrebbe detto, in questa occasione, Gesualdo Bufalino, il quale, secondo l'idea di Claudio Abbado, avrebbe dovuto salutare questa giornata insieme a me, in un simbolico controcanto di due estreme frontiere d'Italia, e al quale va il commosso ricordo e omaggio di noi tutti.
Un mio avo, friulano, che era stato giovanissimo granatiere di Napoleone, da vecchio, durante una delle guerre d'Indipendenza, aveva organizzato un battaglione guerrigliero, con un Tricolore italiano, sul quale però aveva fatto scrivere, memore della gioire, «diventare italiani per poi diventare francesi». A parte l'infatuazione di quel mio antenato per l'Empereur, oggi potremmo dire «diventare italiani - perché lo siamo, ma dobbiamo anche diventarlo - per diventare europei». Sempreché l'Italia si accorga di questa fedeltà che in questa circostanza le dimostriamo, perché, dice un' altra poesia di Noventa, «la povara Italia / xe' tanto distrata ... ».

«Corriere della Sera», 6 gennaio 1997
Michele Serra
Fratelli d'Italia, evviva il tricolore

Non è affatto un male che gli italiani siano vaccinati contro il nazionalismo (specie di questi tempi, che ogni landa e ogni proloco si improvvisano nazione con una ferinità sconcertante). Anche se non è facile stabilire quanto pesino, in questo distacco sentimentale dal concetto di Nazione, il menefreghismo cinico, e quanto il pudore e la saggezza indotti da una lunga storia di disincanto. Però succede (non solo a me, credo) che l'idea di vedere il tricolore sugli edifici pubblici risulti piacevole. E siccome non si deve essere ipocriti, va subito aggiunto che per una parte considerevole di italiani delle ultime due o tre generazioni (la sinistra, per intenderci), questo piacere è piuttosto inedito. E sospettabile, per giunta, di essere provocato dalla meno disinteressata delle ragioni: e cioè il pur rispettabile brivido di essere, per la prima volta, al governo di quei palazzi e quegli edifici sopra i quali la bandiera dovrebbe sventolare.
È vero, il tricolore è stato, eccome, anche dei partigiani.
Occhieggiava, nel simbolo del vecchio Pci, dietro la bandiera rossa: ma dietro, appunto. Nelle sezioni comuniste si insegnava con orgoglio la «via nazionale al socialismo», e si spiegava come il cambiamento di sigla (da Partito comunista d'Italia a Partito comunista italiano: cioè da sede periferica di un organismo con sede a Mosca ad autonoma organizzazione nazionale) indicasse un' emancipazione culturale e politica tipicamente nostrana. Però permaneva nella base, fortissima, l'idea che tra identità popolare e Nazione il nesso fosse provvisorio - in attesa dell'internazionalismo proletario - e peggio fraudolento, perché nazioni e bandiere erano sempre servite a spedire al fronte i poveracci per difendere gli interessi dei ricchi.
Specchietti per le allodole, insomma: perché le sole frontiere che contavano erano quelle tra le classi.
Alla incerta fama del tricolore - di quei tricolori, almeno, che non fossero stati ribattezzati dal sangue partigiano - contribuiva poi, almeno tra gli spiriti critici, lo scempio che ne faceva la scuoletta di allora. La retorica risorgimentale -la sola ammessa - non era meno insopportabile di quella resistenziale. E se per la seconda era agevolmente possibile rimediare leggendosi Vittorini, Pavese, Fenoglio, Calvino, per la prima non erano disponibili decenti consolazioni letterarie (Nievo e le Confessioni di un italiano, per dirne sol<;> una, nei programmi scolastici morivano asfissiati tra il moralismo manzoniano e il trombonismo carducciano. Poi arrivava Verga con i suoi maledetti lupini, poi le tamerici salmastre e arse di D'Annunzio, poi le vacanze estive e ciao). C .. )
Bastava Marzo 1821 del Manzoni (<<Non fia luogo ove sorgan barriere / tra l'Italia e l'Italia, mai più»!) a dissuadere i giovani dal nazionalismo ben più di quanto possano oggi le campagne anti-droga o anti-Aids. Per dire che, almeno secondo me, la diffidenza ideologica si accaniva contro simboli già minati dalla decrepitezza dei concetti e del lessico che attorno al tricolore, appunto, «garrivano». E anche se ancora oggi non ho capito se a garrire siano, di preferenza, le bandiere oppure le rondini, certo non posso imputare solo al frantismo della mia generazione lo scadentissimo spirito patrio: ha già spiegato bene Eco che quando Franti viene deportato con la sua intera classe scolastica al cospetto di un corteo di militi mutilati, e per giunta sotto la scorta crudelissima della prosa di De Amicis, non ride perché è cattivo, ma perché cerca di difendersi.
Ora, non è che siamo diventati tutti Garrone: lo dico anche nel disperato tentativo di sottrarre almeno questo pezzetto di discussione nazionale all'inquisizione anti-buonista. No, siamo rimasti, almeno io, ugualmente diffidenti, molto blandamente fratelli d'Italia, molto italianamente alieni dal fanatismo tutto sangue e suolo che appartiene ad altre storie, altri popoli, altri spiriti. Però, ecco, molte, forse troppe delle cose che ci sono accadute ultimamente (l'orribile stagione del terrorismo; Tangentopoli; gli sdoganamenti vari, non tutti con le opportune bolle sul pacchetto, ma insomma meglio così che spararsi come cinquant' anni fa, e picchiarsi come vent' anni fa; la fine del tribalismo politico; infine il ritorno, con la Lega, del tribalismo politico) ci suggeriscono qualche domanda, qualche riflessione e qualche autocritica sul significato del nostro esistere proprio qui e proprio ora. Ci aiutano a mettere in secondo piano il sacrosanto rancore per i cattivi maestri che ci insegnarono il tricolore insieme a «gheriglio» e «pàmpino», parole mai più usate nella vita civile e riposte ormai, insieme a quel tricolore, nei mesti bauli dell'Italietta che ci vide nascere. Che questa riflessione avvenga all'ombra della bandiera italiana è molto naturale. Un atto di riconciliazione con noi medesimi per il quale forse non è nemmeno necessario scomodare la Storia «<l'han giurato! altri forti a quel giuro / rispondean da fraterne contrade»), basta quel briciolo di spirito di comunità che si è riusciti a mettere insieme raccogliendo i cocci. Quanto agli internazionalisti più riottosi, basta in fondo un appello al buon senso. TI tricolore indicava, allora, qualcosa di troppo piccolo, di troppo angusto rispetto ai nostri orizzonti di gloria. Oggi indica qualcosa di infinitamente più grande degli staterelli ringhiosi, con i confini di filo spinato, che qualcuno minaccia di fondare. Non so se la Lega rappresenti <<la secessione dalla civiltà» (Salvatore Veca) o la forma moderna del fascismo (Ottiero Ottieri). Ma sono certo che, al suo cospetto, il tricolore parla di una vastità territoriale, e pure spirituale, che merita di essere riconosciuta. Quello dei partigiani non è quello dei repubblichini, quello dei fratelli Bandiera non è quello delle Sorelle Bandira. Però hanno un vantaggio: sono fatti con la stessa stoffa, e gli stessi colori. Una comodità della quale sarebbe molto stupido non approfittare.
«la Repubblica», 25 luglio 1997




Cesare Garboli *
Italianità

«Perché non esiste l'amor patrio negli italiani? Lei mi pone una questione un po' insidiosa ... ». Cesare Garboli inarca le sopracciglia sotto il cappello color tortora, mentre ti accoglie nel giardino della bella casa che l'ospita alle porte di Roma. Siamo venuti a trovarlo per capire le ragioni di un malessere sempre più diffuso, lo scarso sentimento nazionale che avvolge un'Italia minata dal serenissimo secessionismo.
Un'Italia a «rischio Bosnia» (il timore è stato espresso nei giorni scorsi da Scalfaro). «È un tema», continua Garboli, «che rischia di sollevare un polverone di luoghi comuni. V Offrei evitare di percorrere questa strada, ma è quasi impossibile. Mi risparmi almeno di denunciare la mancanza nei secoli di una lingua nazionale, che è ciò che rende veramente unito un popolo».
Dopo pochi minuti è chiaro che il timore dell'ovvietà è un vezzo d'artista. Ai percorsi più piani Garboli preferisce le montagne russe del paradosso. E dalla patria risaliamo ad Enea, unico vero eroe tricolore su cui lo studioso progetta di scrivere il suo «libro più importante». Per poi precipitare vertiginosamente verso Efebo, un' «Italia efebica di stordente bellezza dentro cui tutti gli altri Stati hanno voluto godere». Non ci si aspetti un inno patriottico.
Piuttosto il documento di come un intellettuale italiano tra i più raffinati e imprevedibili legge la storia d'Italia.

" Intervista di Simonetta Fiori.

Garboli lei si sente italiano?

Mi sento profondamente italiano. Sono figlio di una madre sabina, nata in un paese di miseria ma con una particolarità: in Italia la miseria ha per compenso di essere pittoresca. Pitttoresca e storica. Pensi a Napoli, alla Sicilia, alle Puglie e perfino alle Marche. lo vengo da parte di madre da un paese in cui non c'è niente, neppure il pittoresco. Lo zero sociale. Mi sento italiano per questo: perché mi sento niente nel mondo.

Quando ha provato questo sentimento di nullità?

La prima volta che sono stato a New York. Mi sentivo una pulce, non avevo nessuno che mi rappresentasse culturalmente. Nessuno tra gli italiani. Per sopravvivere in una città che mi schiacciava da ogni lato, ho pensato a De Gaulle: si, da lui mi sentivo rappresentato.

S'avverte già un atteggiamento sminuente verso la propria identità italiana.

Ma no, è un dato di fatto. A partire dal Cinquecento l'Italia ha perso il potere nel mondo, diventando un' entità trascurabile. Ma vorrei aggiungere un elemento sul mio essere italiano. Lei avrà notato che in un francese, inglese o spagnolo tra il sentimento dell'identità nazionale e la sua presenza nel mondo non c'è scollamento. Il francese rimane francese ed essere umano. Per l'italiano non è così. L'italiano, se si sente italiano, diventa subito fascista.

Che cosa vuol dire?  

L'identità nazionale è sempre sentita in termini di orgoglio rivendicativo e rabbioso. Senza pace, senza naturalezza, senza semplicità.

Non avrà ragione Gian Enrico Rusconi quando lamenta il vezzo «cosmopolitese» dell' intellettuale italiano) incline a valorizzare ciò che avviene altrove?
C'è del vero. Ma !'intellettuale italiano viene dalla Chiesa, ha una tradizione talare, è un abate, un prete, parla latino ed è risucchiato dall' antichità. Ed è quindi naturale che ¨per svecchiarsi - guardi a dei prototipi usciti dalla Riforma e dall'Illuminismo, cioè ai veri intellettuali nei quali l'interesse letterario coincide con quello politico. lo però penso che la mancanza di amor patrio non sia affatto imputabile al ceto intellettuale, il quale è semmai responsabile di un'idea retorica e letteraria dell'unità d'Italia, un'idea che ci ha perseguitato da Petrarca in poi, forse anche da Dante in poi.

Eppure da noi manca un'epica nazionale, il Risorgimento ad esempio non s'è mai tradotto in un grande romanzo.

C'è qualche opera, ma non è questo il punto. Sono persuaso che il ceto intellettuale c'entri poco o niente. La mancanza del sentimento di identità nazionale proviene da quel groviglio di contraddizioni e falsificazioni che è stata la storia del Risorgimento. Una realtà malinconica che pochi studiosi sono disposti ad accettare. li Risorgimento è stato la conquista militare e politica - della penisola che chiamiamo Italia - da parte di uno Stato, il Piemonte, che ci ha governato come si amministra una colonia. Un paese che non aveva per noi alcuna curiosità se non letteraria: lo si sente leggendo la Vita di Alfieri.

Insomma: appena nati e già vassalli?

Noi siamo stati il giardino dell'Impero, come diceva Dante. Siamo simili a un Efebo dentro al quale tutti gli altri Stati hanno desiderato stare, ammirati della sua bellezza. Quando abbiamo smesso di essere un bel ragazzo che l'ha preso nel sedere, abbiamo fatto la faccia feroce, per poi sbagliare tutto

Garboli, a dire il vero non paiono argomenti molto forti contro la predicazione dissennata di un Bossi.

Io penso che le tesi di Bossi siano la caricatura imbarbarita e corrotta, la parodia plebea e tipicamente italiota di un grande fondo di verità. Posso spiegarglielo con una metafora?

Prego.

Nel 1944, in piena guerra civile, con la penisola occupata dai tedeschi, si trovavano a Firenze, ignote l'una all'altra, due personalità intellettuali: uno vecchissimo, Bernard Berenson, nascosto nelle colline fiorentine perché ebreo e americano; l'altro giovanissimo, collaboratore d'un settimanale repubblichino, fascista e razzista: Spadolini. Nello stesso momento, entrambi scrivevano le loro riflessioni sull'Italia: esattamente simmetriche e speculari.

Che cosa dicevano?

Spadolini sosteneva che la politica di Mussolini non era che la prosecuzione storica e ideale dei valori risorgimentali e unitari. Berenson scriveva nel suo diario di non riuscire a capire perché un paese culturalmente ricco come l'Italia non avesse accettato il suo destino federalista e si fosse imbarcato in avventure guerresche così poco congeniali alla sua tradizione. Chi dei due aveva ragione? Chi dei due amava di più il nostro paese?

Lei vuole dire che in Italia è stato' tradito il naturale destino federalista?

Vede, lei sta riducendo a termini politici uni questione un po' più complessa. La vocazione del nostro paese è una vocazione servile, nel bene e nel male. Non è solo una vocazione ignobile, può anche essere di segno contrario. Noi abbiamo servito tutti i popoli della terra. Greci, bizantini, barbari, francesi, spagnoli, inglesi, austriaci, persino russi e infine i piemontesi.
Credo che sarebbe interessante decifrare che cosa c'è di unitario e di profondamente culturale in questa vocazione.

Perché, c'è una nobiltà nell' essere servi?

Il servilismo può avere due facce. Agisce in esso un conflitto drammatico tra nobile e ignobile. Anche qui vorrei ricorrere a una metafora. Il fondatore del nostro paese è un eroe che aspetta ancora di essere scoperto. Si chiama Enea. Ha fondato l'Impero e il Papato ed è noto che lo spirito unitario dell'italiano è dato molto di più dall' appartenenza alla Chiesa che non dall' appartenenza allo Stato.

Ma che c'entra Enea?

Enea è il nostro archetipo nazionale: noi ne siamo la parodia, la caricatura degradata. Mi segua con attenzione. Esistono due grandi testi in cui si iscrive il mito di Enea, a parte l'Iliade: l'Eneide e quella specie di Eneide rivisitata che è la Divina Commedia. Enea è il personaggio straniero, il primo étranger di tutte le letterature. Un étranger da cui discendono innumerevoli vizi derivati e storici del carattere degli italiani. È un eroe passivo, che fonda un impero quasi a malincuore perché la storia è già scritta e tutto è già avvenuto con la distruzione e l'incendio di Troia. Nulla lo commuove e tutto lo commuove. Scetticismo, cinismo, religione, pietà: questo è il carattere di Enea e questa è l'antichità congenita al carattere degli italiani e alla loro letteratura. L'italiano colto si comporta come se tutto fosse già avvenuto.

Lei vuole dire che per gli italiani la storia rimane ferma, immobile?

Sta ferma perché il passato riempie il presente e questa eterna ripetizione è sentita in termini provvidenziali, cioè servili. C'è anche un aspetto sublime nel servilismo, congeniale a un popolo eternamente invaso da eserciti stranieri. E questo aspetto sublime è la pietas, la religione di Enea. Figli di Enea, ci sentiamo depositari di un messaggio universale ed ecumenico, superiore ai conflitti e alle lacerazioni tra popoli e Stati.

A questo punto parlare di patriottismo mi sembra inopportuno.

Senta, nei secoli gli italiani hanno imparato ad arricchirsi quasi di frodo all' ombra dei governi e dei vicereami stranieri. Oggi questa tendenza è diventata una realtà politica. L'italiano preferisce vivere in uno Stato corrotto che gli garantisca ricchezza piuttosto che in uno Stato normale dove si rispetta la giustizia e si obbedisce alla legge.

Servili.. talari… cinici; ladri ... Se ripenso alle sue parole, gli italiani non ne escono molto bene. E l'Italia ancor peggio.

Può darsi. Ma è indubbio che l'Italia si sia degradata nei secoli. TI nostro paese, ai primordi dell' età medievale, era fatto di municipalità, di comuni, principati e signorie. A un tratto ha perso importanza, soldi e potere. È rimasta Ìà Chiesa. C'è stato il Risorgimento e io credo che sia un fenomeno storico che aspetta ancora di essere decifrato. C'è stato il fascismo e dopo il fascismo un cinquantennio di regime democristiano. È come dire che il Piemonte e la Chiesa si sono divisi l'Italia. Intanto è emerso un terzo potere, la criminalità organizzata. Piemonte-Chies a-criminalità organizzata: non è questa l'Italia?
«la Repubblica», 7 giugno 1997

Oriana Fallaci
Io sono italiana

lo sono italiana. [ ... ] Quando ascolto l'Inno di Mameli mi commuovo. [ ... ] a udire quel Fratelli-d'Italia, l'Italiasta, parapà-parapà-parapà, mi viene il nodo alla gola. Non mi accorgo nemmeno che come inno è bruttino. Penso solo: è l'inno della mia Patria. Del resto il nodo alla gola mi vien pure a guardare la bandiera bianca rossa e verde che sventola. Teppisti degli stadi a parte, s'intende. lo ho una bandiera bianca rossa e verde dell'Ottocento. Tutta piena di macchie, macchie di sangue, tutta rosa dai topi. E sebbene al centro vi sia lo stemma sabaudo (ma senza Cavour e senza Vittorio Emanuele II e senza Garibaldi che a quello stemma si inchinò noi l'Unità d'Italia non l'avremmo fatta), me la tengo come l'oro. La custodisco come un gioiello. Siamo morti per quel tricolore, Cristo! Impiccati, fucilati, decapitati. Ammazzati dagli austriaci, dal Papa, dal Duca di Modena, dai Borboni. Ci abbiamo fatto il Risorgimento, con quel tricolore. E l'Unità d'Italia, e la guerra sul Carso, e la Resistenza. Per quel tricolore il mio trisnonno materno Giobatta combatté a Curtatone e Montanara, rimase orrendamente sfregiato da un razzo austriaco. Per quel tricolore i miei zii paterni sopportarono ogni pena dentro le trincee del Carso. Per quel tricolore mio padre venne arrestato e torturato a Villa Triste dai nazi-fascisti. Per quel tricolore la mia intera famiglia fece la Resistenza e l'ho fatta anch'io. Nelle file di Giustizia e Libertà, col nome di battaglia Emilia. Avevo quattordici anni. Quando l'anno dopo mi congedarono dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, mi sentii così fiera.
Gesummaria, ero stata un soldato italiano! E quando venni informata che col congedo mi spettavano 14.540 lire, non sapevo se accettarle o no. Mi pareva ingiusto accettarle per aver fatto il mio dovere verso la Patria. Poi le accettai. In casa eravamo tutti senza scarpe. E con quei soldi ci comprai le scarpe per me e per le mie sorelline.
Naturalmente la mia Patria, la mia Italia, non è l'Italia d'oggi. L'Italia godereccia, furbetta, volgare degli italiani che pensano solo ad andare in pensione prima dei cinquant' anni e che si appassionano solo per le vacanze all' estero o le partite di calcio. L'Italia cattiva, stupida, vigliacca, delle piccole iene che pur di stringere la mano a un divo o una diva di Hollywoood venderebbero la figlia a un bordello di Beirut ma se i kamikaze di Osama Bin Laden riducono migliaia di newyorchesi a una montagna di cenere che sembra caffè macinato sghignazzan contenti bene-agli-americani-gli-sta-bene. L'Italia squallida, imbelle, senz' anima, dei partiti presuntuosi e incapaci che non sanno né vincere né perdere però sanno come incollare i grassi posteriori dei loro rappresentanti alla poltroncina di deputato o di ministro o di sindaco. L'Italia ancora musssolinesca dei fascisti neri e rossi che ti inducono a ricordarè la terribile battuta di Ennio Flaiano: «In Italia i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti». Non è nemmeno l'ltalia dei magistrati e dei politici che ignorando la consecutio temporum pontificano dagli schermi televisivi con mostruosi errori di sintassi. (Non si dice «Credo che è»: \ animali! Si dice «Credo che sia».) Non è nemmeno l'Italia dei giovani che avendo simili maestri affogano nell'ignoranza più scandalosa, nella superficialità più straziante, nel vuoto. Sicché agli errori di sintassi loro aggiungono gli errori di ortografia e se gli domandi chi erano i Carbonari, chi erano i Liberali, chi era Silvio Pellico, chi era Mazzini, chi era Massiimo D'Azeglio, chi era Cavour, chi era Vittorio Emanuele II, ti guardano con la pupilla spenta e la lingua pendula. [. .. ] No, no: la mia Italia è un'Italia ideale. È l'Italia che sognavo da ragazzina, quando fui congedata dall'Esercito Italiano-Corpo Volontari della Libertà, ed ero piena di illusioni. Un'Italia seria, intelligente, dignitosa, coraggiosa, quindi meritevole di rispetto. E quest'Italia, un'Italia che c'è anche se viene zittita o irrisa o insultata, guai a chi me la tocca. Guai a chi me la ruba, guai a chi me la invade.
«Corriere della Sera», 29 settembre 2001




Edmondo Berselli
Orgoglio che va, orgoglio che viene

Dirsi orgogliosi dell'Italia o degli italiani: una parola. Perché di solito si può nutrire orgoglio di un momento particolare: una vittoria sospirata come quella di Vittorio Veneto, dopo la cataastrofe di Caporetto, con la possibilità di gridare al Risorgimento completato. Oppure, più modestamente, e con meno spallate e tragedie alle spalle, dopo un titolo mondiale di calcio, sotto il fascismo o al Santiago Bernabéu con il tifo di Sandro Pertini.
Ma per essere orgogliosi, ci vuole «qualcosa»: un' entità t almeno un'identità. E qui le cose si complicano, perché bisogna sempre ricordare ciò che diceva il sociologo Zygm t Bauman: «L'identità viene evocata quando la comunità crolla». Discorso particolarmente complicato, allora, per l'Italia, perché la penisola è una somma di entità, e di conseguenza il riflesso di cento identità, grazie ai suoi cento campanili. Sicché bisognerebbe essere capaci di essere soprattutto orgogliosi delle differenze. Essere capaci di trattarle come un valore, e non come una nevrosi: anche se ci sono fior di movimenti politici che hanno investito, ultima la Lega, sull' avversione interna, sulla differenza percepita come una leva di animosità intestina.
Tanto più che se si vuole prendere l'identità italiana contemporanea non ci si può limitare a elencare tutti i tasselli del puzzle: oggi infatti l'identità è data anche da ciò che pensano gli altri, di noi. E basta scorrere qualsiasi giornale straniero per ritrovare ogni volta i soliti luoghi comuni. Magari con la differenza stressante che lo stereotipo viene intensificato o illuminato dalla presenza politica di Silvio Berlusconi.
Insomma, l'orgoglio per l'Italia sembra essere un sentimento che va e viene, registrabile solo da un oscilloscopio. E come tutti i movimenti tellurici sfugge alla razionalità: dovessimo elencare i parametri fondamentali su cui si viene giudicati, da Maastricht alla produttività, dal rispetto delle regole al civismo, finiremmo nella parte bassa della classifica.
E allora si tratta di osservare selettivamente il patrimonio di conquiste e di traguardi raggiunti. Che non mancano mai sotto il profilo sportivo, per esempio, e tengono botta sul piano artistico e sul terreno del design, dell'intrattenimento, del savoir vivre, del/un. Ma che invece latitano non appena si sfiorano classifiche di altro tipo, per esempio quelle dell' efficienza della giustizia o il rispetto delle clausole fiscali.
Viene così da chiedersi se poi vale davvero la pena di essere orgogliosi di qualcosa. Perché l'orgoglio tende a valorizzare quelle caratteristiche che non è detto contribuiscano alla qualità di una collettività. Lo spirito di tolleranza può significare superficialità civica, la capacità di arrangiarsi si sovrappone all'improvvisazione e all'incapacità a programmare, l'ottimismo sconfina spesso in un atteggiamento da cicale.
Meglio essere orgogliosi più selettivamente. Tanto per dire, dell'inventiva degli stilisti o della qualità della Ferrari rampante. Ma evitando, per carità, che il merito degli uni si trasferisca sulla comunità intera. Alla fine, l'individualismo degli ultimi decenni, quelli post Reagan e Thatcher, dovrebbe averci vaccinato sulla qualità dei grandi aggregati sociali. La Thatcher diceva: «Quella cosa chiamata società non esiste». Ecco, il fatto è che esistono diverse, forse infinite Italie, non un'Italia sola di cui essere più o meno orgogliosi. L'Italia dei rifiuti, e prima del colera, e l'Italia della bellezza, dell' arte, dell'industria, per esempio. Forse conviene scegliere dal catalogo possibile un paio di Italie decenti, e limitare l'orgoglio a quelle.

«la Repubblica», 16 marzo 2008
Antonio Scurati Fratelli d'Italia all'autogrill

Su una piazzola di sosta ti può capitare di sentirti italiano. Sei lì che risali la penisola estiva con l'auto carica di vivande e masserizie, costretto a fermarti ogni due ore per allattare o placare il pianto della bambina, all' affannosa ricerca di un'ombra stenta da pompa di benzina, la canottiera e i calzoni corti zuppi di sudore, sei lì che con il tuo corpo cerchi di schermare tua figlia dal vento di scirocco e dai rombi dei Tir che sull' Autostrada del Sole sfrecciano verso i valichi del Nord e, d'un tratto, vieni colto dal sentimento nazionale.
Vedi attorno a te questa gente tornata proletaria sotto la spinta compulsiva all'esodo di Ferragosto, li vedi come te affannosi, sudati, ossessivamente prodighi di cure per l'infanzia, li vedi sbracati, caciaroni e sanguigni tanto)i Caianello quanto a Panzano o a Roncobilaccio. Ovungue--avverti il nucleo simbolico di una nazione irradiare dalle pile di bestseller dedicati al nostrano sistema criminale, o ai vizi pubblici e privati dell' arcitaliano leader nazionale, irradiare dalla mercificazione su grande scala della tipicità locale (le olive di Oneglia, il pane di Altamura o gli amaretti di Saronno ma tutti rigorosamente della linea mass-market «Terre d'Italia»), dai cofanetti platinum collection del meglio di Rino Gaetano o di Eros Ramazzotti, dai panini ultimo modello far citi con il prosciutto di San Daniele e la bufala campana a denominazione d'origine protetta. Vedi tutto questo, tutta quella gente che supera a destra e piscia regolarmente fuori dalla tazza ma non lesina una carezza ai bambini, li vedi e, a un tratto, non dubiti più che l'Italia esista, a un tratto svaporano le polemiche sul divario Nord-Sud, sulle gare d'ignoranza tra campani e veneti, su un sistema scolastico franante che si aggrappa alla facezia dei maestri di dialetto. Sparito tutto questo nel miraggio di una canicola agostana ai vapori di benzina, d'un tratto ti dici: sono tutti italiani, sono la mia gente.
Certo, lo sai, la tua è commozione da autogrill. È l'inveterata inclinazione plebea a sentire, in compagnia degli umili, «farsi più puro il cammino dove più turpe è la via». Certo, lo sai, è una rivalutazione pelosa di un nucleo identitario antropologico cui paghiamo da sempre un tributo pesante: ci sentiamo una famiglia più che una nazione, ci aggrappiamo a tutto ciò che nel carattere nazionale ci allontana dalle istituzioni e ci spinge verso il sentimento o senso comune (a cominciare dall' arte di arrangiarsi) perché ciò ci esenta dal senso civico o da quello dello Stato. Certo, lo sai, abbandonarsi all' afflato verso il Paese tutto cuore oltre l'ostacolo e parenti al seguito, il Paese tutto genio e monnezza, è come accettare che l'Italia non debba esistere se vogliamo che esistano gli italiani. Gli Italiani sono forse l'unico popolo al mondo che si autocelebra discreditando le proprie istituzioni: per noi italiani, l'Italia è lo straccio da piedi del sentimento nazionale.
Sai pure che di questo afflato mistico verso una Patria immaginata nella fantasmagoria del miraggio vacanziero di un italiano che si scopre tale solo in mutande - non è forse finita la gloriosa parabola del Made in Italy in una coppia di stilisti famosi nel mondo per una linea di mutande vistosamente griffate? -, di questo essere popolo soltanto al fondo delle proprie miserie, fa parte anche l'odiosa rilettura della storia nazionale come immane impresa criminale. Quella pseudosapienza cinica tutta spallucce e strizzatine d'occhi secondo la quale il Risorgimento sarebbe stato, alla fin fine, una prevaricazione violenta delle élites sul popolo, la prima guerra mondiale soltanto un' enorme, insensata carneficina, il fascismo la presa del potere di una specie di alieni venuti dallo spazio, la Resistenza una guerra per bande di feroci assassini, il boom economico un prodromo del consumismo e della crisi dei valori e tutto questo il paravento dietro cui sempre si agitarono le ombre degli interessi criminali.
Ti ribelli a questo dotto disfattismo civile che si nasconde dietro l'alibi della denuncia indignata, eppure ti tieni stretta la tua commozione da autogrill che gli giunge pericolosamente vicina. T e la tieni stretta perché in principio l'Italia fu precisamente questo: una Patria immaginaria. Un meraviglioso racconto di finzione che per credersi vero, e dunque divenire realtà, ebbe bisogno di un generoso eccesso d'emozione. Te ne stai lì su quella piazzola di sosta surriscaldata e il pensiero va, posandosi sul Paese riunificato dagli autogrill, all'inizio della sua storia. L'eco della prima insurrezione contro lo straniero giunge fino a te nel vagito di tua figlia come una vibrazione sorda della terra avita.
Il 18 di marzo del 1848, quando insorsero contro gli austriaci, i milanesi erano un popolo pressoché disarmato, estraneo alla guerra da due generazioni e dominato da una guarnigione di 20.000 uomini del più efficiente esercito del tempo, asserragliato in una fortezza imprendibile. Eppure, soltanto cinque giorni più tardi, quella rivolta che sembrava destinata a finire in un massacro di cittadini inermi si era trasformata in una gloriosa vittoria di popolo. Porta Tosa ribattezzata Porta Vittoria, gli austriaci di Radetzky in fuga e Milano che dava inizio al Risorgimento nazionale. L'Italia non esisteva nell' esperienza di nessuno di quegli aristocratici, borghesi, popolani, uomini, donne, vecchi, giovani, laici e preti che si erano battuti fianco a fianco sulle barricate. Ma tutti avevano per un istante creduto all'Italia che musicisti, pittori e poeti avevano immaginato per loro come donna amata e violentata dallo straniero. E così, nel miracolo mitopoietico di una politica profondamente erotizzata, quella Patria immaginaria aveva cominciato a esistere davvero.
Sarà forse la canicola mediterranea, ma la mia commozione da autogrill mi suggerisce che, se proprio si deve scegliere una nuova data per la celebrazione dell' anniversario della Patria, quella data dovrebbe essere cercata in quel bagliore dell' origine, in quel sentire assoluto che si dà solo prima che tutto abbia inizio. Il 18 di marzo del 1848.
«La Stampa», 17 agosto 2009



Parte seconda Ricominciare si, ma da dove?
Gli italiani e il loro passato

Guardarsi alle spalle non è mai facile. Può dare le vertigini. Produce malumon; fraintendimenti, divisioni. Il ricordo del passato, scrive Emilio Gentile, ha sempre diviso gli italiani. E se proprio lui da storico, propone ironicamente una Commissione per l'Oblio, uno scrittore come Arbasino punta invece il dito contro l'amnesia collettiva, regolata - dice - da scuole e quiz televisivi. «La nostra capacità di dimenticare è quasi sublime», sostiene Vassalli: il problema è che le rimozioni sono causa di eterni - e pericolosi - ritorni. Cosa aspettano gli italiani? Il mostro, il messia, il salvatore della patria? È una storia, la nostra, di speranze disattese o sbagliate, per come la legge Montanelli: fitta di date inaugurali di una «vita nova» che non è mai iniziata.
Si sta su un ponte traballante, senza sapere come passare dall' altra parte. La meta/ora è di Bobbio, che con cauto ottimismo si domanda: «ricominciare Sta ma da dove?». Magari proprio dalla parola Italia, come suggerisce Enzo Siciliano: «non credo sia soltanto '/latus vocis'.
La sfiducia, il pessimismo sono tuttavia gli umori più diffusi: ne dà conto, tra gli altri; Eugenio Scalfari. Bacchelli rimprovera chi si lamenta: «L'Italia di oggi non è peggiore dell'Italia del secolo scorso, o del '700 o di quella di Dante». Forse è una sempre-Italia romanzesca: il Paese «irrazionale, individualista, energico» che già Stendhal aveva compreso, specchiato - come nota Alberto Moravia - nelle «trame tenebrose» della «Certosa di Parma».

Riccardo Bacchelli*
L'Italia non va in rovina

Da che cosa nasce la condizione dell'Italia d'oggi? Da errori. A chi imputarli? Alla modernizzazione, forse. Intanto, bisogna tener conto che gli avvenimenti dolorosi sono nell' ordine naturale delle cose. Furbizia, rivolte, imbrogli? Ci sono anche negli altri popoli. Con una differenza. Gli Italiani li ammettono e, spesso, stupidamente, se ne vantano anche. È una forma eccessiva di sincerità. Ma noi abbiamo, in più, ingegno e carattere duttile, siamo industriosi. In certe cose possiamo essere paragonati ai Greci cui, si diceva, gli dèi hanno dato ingegno e povertà. Una cosa che, invece, non abbiamo è la disciplina. Da qui, una certa debolezza che ci fa passare da uno stato di delirio dannunziano ad un avvilimento senza limiti. Nondimeno, la fiducia negli italiani non mi ha mai abbandonato, anche se il destino è nelle mani di Dio.
Certo, in molte cose siamo andati verso un imbarbarimento e una grossolanità enormi. Ci si rattrista, ma poi si pena, che è sempre stato così. L'Italia di oggi non è peggiore dell'Italia del secolo scorso, o del '700 o di quella di Dante. I vecchi come Prezzolini dovrebbero lamentarsi di meno. Tutto crolla. Ma che cosa? Si regredisce. Perché? Nel 1915, con la guerra, si pensava che prima si stava in paradiso. Se si guarda bene, ci si accorge che le premesse del crollo erano già state poste prima. La guerra, il crollo quindi, non erano altro che una conseguenza.
Quando avevo vent' anni, il Paese si rinnovava continuamente. Cominciava l'epoca dello sviluppo industriale per la politica lungimirante di Giolitti. Anche allora la gioventù era inquieta. I costumi erano sobri, ma la sobrietà si perse con la Grande guerra.
Io ho visto tante guerre, ma non mi reputo competente a definire i fenomeni collettivi. La storia non è altro che la spiegazione del perché non sono accadute le cose che sarebbero dovute accadere.
Violenza spicciola, sequestri, terrorismo sono cose difficili da reprimere anche per questioni tecniche, meccaniche. Il mezzo d' 6ffesa è più efficiente della difesa. La violenza e il terrorismo ci sono sempre stati. Forse oggi non sono altro che il surrogato della guerra. In passato c'erano molte virtù. C'era un'Italia paziente, intelligente e laboriosa. Solo che talvolta è stato fatto un cattivo uso di queste doti. Ma s'è trattato, quasi sempre, di periodi transitori.
Valga per tutti l'esempio del fascismo: è durato alcuni anni ma, alla fine, ne siamo usciti.
Quello che, invece, mi pare manchi oggi è l'autocritica.
Soprattutto nei giovani. Si gonfiano il petto e sono presuntuosi. Nella mia gioventù ci avevano insegnato a giudicarci, almeno alla fine della giornata.
Vale la pena tenere duro. Ripeto, sono solo momenti transitori. La vita d'oggi è migliore d'una volta. Allora c'era più miseria. Erano pochi quelli che stavano bene. Tanti morivano di fame.
L'angoscia. L'angoscia è nata con l'uomo: ricordate Bellerofonte, l'eroe di Omero che girava rodendosi il fegato senza una vera ragione? Una volta l'ideale dell'uomo era la sua forza d'animo. Confessare l'angoscia equivaleva ad ammettere la propria debolezza. Oggi, al contrario, la si ostenta. La gente non sa guardare al passato, ai grandi del passato, per fortificarsi. Ma questo non significa che l'Italia va a rotoli, che è votata al suicidio collettivo. Le congiure sono sempre esistite. Da noi come negli altri Paesi. E così pure la vita pericolosa.
Una volta si uccideva per un sacchetto di monete d'oro o d'argento; il viandante veniva aggredito mentre viaggiava sul suo cavallo. Adesso si assalta una banca per decine di milioni. È cambiata la tecnica, ci sono più mezzi, ma il risultato è uguale.
Non ci sono becchini in attesa di portare via il cadavere del Risorgimento italiano. Era grande l'Italia di Dante, di Galileo, di Vico? I «signori» d'una volta, che sono i politici d'oggi, si occupavano dell' arte, della cultura? Dionigi di Siracusa imprigionò il poeta Filosseno perché questi aveva osato criticare i suoi versi. Qual era l'atteggiamento di Mussolini con Benedetto Croce? E verso i pittori? Visitando una mostra di Giorgio Morandi disse: «Quando la finirà di dipingere bottiglie?».
La violenza è un fatto molto complesso. Neppure la filosofia ha detto l'ultima parola. Neppure la scienza. Forse l'unico a spiegare che cosa essa sia è stato il Vecchio Testamento dove è scritto che l'uomo comincia con una infrazione e continua con un fratricidio.
In assoluto, l'Italia di oggi non è peggiore o migliore di quella d'una volta. È diversa, frutto consequenziale del mondo di prima. L'uomo d'oggi ha imparato a non fare più la guerra sui campi di battaglia; per ragioni patriottiche. Ha imparato a fame un'altra, forse meno cruenta e più permeata di scetticismo. C'è da essere pessimisti? Sì, ma bisogna anche sapere sperare.
«Corriere della Sera», 18 marzo 1981

Alberto Moravia
Italia stendhaliana

Come è abbastanza noto, il romanzo «italiano» di Stendhal, La Certosa di Parma, è ispirato dal sentimento dell'esotismo. In che cosa consiste l'esotismo di Stendhal? Nel vagheggiare e situare in un determinato paese personaggi ed avvenimenti che non è possibile immaginare nel proprio. La Francia della Restaurazione era imbelle, ragionevole, conformista? Ed allora ecco Stendhal scoprire nel suo capolavoro l'energia italiana, l'irrazionalità italiana, l'individualismo italiano. Diciamo pure, se si sta ai fatti che vengono narrati nella Certosa, la criminalità italiana.

La Certosa è piena di violenza, di trame tenebrose, di abusi del potere, di ricchezze mal guadagnate. È il trionfo del conte Mosca, di cui, alla fine del romanzo, Stendhal parla come di un uomo immensamente ricco e definitivamente potente. Come abbiamo detto, Stendhal riesce a vedere energia, individualismo e irrazionalità là dove c'è invece crudele criminalità, grazie all' esotismo.
Stendhal è un europeo stufo dell'Europa, che si compiace di dipingere favorevolmente un paese criminale perché esso non ha nulla di europeo. Un paese, è giunto il momento di dirlo, non già criminale ma pittoresco, originale e, insomma, «esotico». Cioè, in termini più spicci, un paese che, appunto perché non è il proprio, alla fine, invece che detestabile, risulta amabile. A che cosa si deve questa amabilità dell'Italia stendhaliana? Ad una trasmutazione in qualche modo alchimistica dei valori. Quello che è moralmente condannabile, nell'Italia di Stendhal viene invece assolto, anzi, addirittura approvato perché «caratteristico». Ma caratteristico di che cosa? Appunto di un paese irrazionale, individualista, energico.
Da ultimo in Italia sono accadute cose che, secondo i non molti italiani solleciti del buon nome della patria, si possono e si debbono chiamare «scandalose». Prima ci fu lo scandalo dell' architetto dal computer indiscreto, con le tangenti pagate ad uomini politici attraverso forniture che la stampa ormai per buffa consuetudine definisce «auree»: lenzuola d'oro, carceri d'oro, uffici d'oro, treni d'oro ecc. ecc. Poi ci fu lo scandalo siciliano delle lettere anonime scritte da un ignoto giudice ad altri giudici, su uno sfondo di morti ammazzati, Gon quegli animali simbolici (la piovra, la talpa, il corvo e, dal nome di uno dei magistrati, il falcone) nei titoli di testa dei giornali.
Infine, recentemente, c'è stato lo scandalo della tragedia dell'ex presidente delle Ferrovie, Lodovico Ligato, assassinato con trentaquattro colpi di pistola sotto gli occhi della moglie. Perché diciamo che questa tragedia è uno «scandalo»? Perché l'inchiesta sul misterioso delitto ha circondato di un'aria di sinistro mistero non soltanto i colpevoli ma anche la vittima.
Si noterà a questo punto che questi scandali presentano tutti senza eccezione alcuni tratti che bisogna pure chiamare «nazionali», dando a questa parola il senso di «autentico». Certi oggetti grondano addirittura di autenticità: il computer chiacchierone, versione sofisticata della voce popolare; le lettere anonime, così deliziosamente provinciali; infine la cena, alla quale l'ex presidente delle-Ferrovie partecipò poco prima di essere assassinato, cena a cui l'inchiesta attribuisce un'importanza fondamentale perché è con simili conviti che si decidono spesso in certi paesi del Mezzogiorno la vita e la morte degli stessi convitati. Cena che ebbe, manco a dirlo, un pretesto gastronomico: la pasta al sugo di capra, nonché la capra stessa con olive, capo collo e sottaceti.
Perché notiamo con tanta pedanteria i tratti autentici di eventi altrimenti banalmente criminali? Perché sono gli stessi tratti che - insieme a tanti altri (per esempio lo zabaione di cui si parla nella Certosa di Parma) ai quali si sarebbe appigliato Stendhal per mettere in atto quella trasmutazione di valori - permisero allo scrittore francese di dipingere l'Italia criminale del suo tempo come il paese dell'individualismo, dell'irrazionalità e dell' energia.
Stendhal avrebbe trovato senza dubbio molto «nazionali» il computer spione e le tangenti politiche; avrebbe ammirato la mirabolante complessità dell'intrigo delle lettere anonime; infine avrebbe ravvisato nell'assassinio di Ligato quella drammaticità machiavellica che caratterizza talvolta la lotta per il potere in Italia.
Ma i giornalisti solleciti del buon nome della patria non la intendono affatto come Stendhal. Nei loro articoli di fondo essi tuonano contro la corruzione, chiamano «scandali» gli scandali. Noi leggiamo questi articoli tutti benissimo scritti e argomentati, e invariabilmente li approviamo. È vero, l'Italia è un paese nel quale le cose non vanno bene e si ha ragione di dirlo.
Sennonché, ad un certo punto, anche gli articoli di fondo diventano tratti autentici di un certo carattere nazionale, a causa del ripetersi imperterrito degli scandali che denunziano. Si ricava insomma l'impressione che tutti recitano la loro parte: i criminali negli scandali, i galantuomini sulle pagine dei giornali. Un' aria di nascosta normalità sostituisce l'atmosfera di pesante anormalità in cui crediamo di vivere.

E allora ci viene fatto di domandarci se per caso non avesse ragione Stendhal nella sua lettura romanzesca delle cose d'Italia. E diciamo, a nostra volta: «Perché non ci 'stendhalizziamo'?». Cioè non cerchiamo di mettere tra virgolette gli scandali, vedendo ci soltanto le manifestazioni pittoresche della complessiva vitalità nazionale?
Oltre tutto, il moralismo inoperante non fa che riconfermare la nostra impotenza. Mentre invece, chissà, la «stendhalizzazione», forse, potrebbe ispirare a qualche nostro narratore un romanzo bello quanto La Certosa di Parma.
«Corriere della Sera», 17 settembre 1989

Norberto Bobbio
Cinquant'anni e non bastano

Sono passati cinquant' anni dall'uscita del primo numero del «Ponte». Un tempo astronomico per la durata media delle nostre riviste di attualità. E l'amino col badile in maniche di camicia è sempre lì, sul ponticello, che è poi un ponte collocato provvisoriamente tra due arcate semidiritte. L'aveva fatto disegnare lo stesso Calamandrei per presentare la volontà di ristabilire una linea continua con il passato e l'avvenire al di sopra della voragine scavata dal fascismo. Scriveva: «e se la nostra opera, per la sua modestia, sarà piuttosto quella di chi lavora a ricostruire l'arco semplice di un ponticello sopra un torrente, piuttosto che quella di chi innalza le arcate maestose di un ponte monumentale su un grande fiume, non per questo ci sarà meno cara la nostra fatica, se servirà a riaprire un varco che permetta il passaggio di qualche uomo verso l'avvenire».
Ma come? L'amino è ancora allo stesso punto di quell' asse traballante, non è ancora passato dall' altra parte, il ponte non è ancora stato ricostruito e il fragile pezzo di legno che l'aveva sostituito non è ancora stato rimosso, le due arcate sono ancora in rovina?
Che cosa sia successo in tutti questi anni è presto per raccontarlo da storici, soprattutto da chi, come me, questo mezzo secolo di eventi ha vissuto con maggiore o minore partecipazione secondo le diverse stagioni e situazioni dal principio alla fine, in prima persona. Siamo troppo a ridosso degli avvenimenti per dare un giudizio credibile. Siamo però nello stato d'animo di chi a poco a poco si è reso conto che è venuta l'ora di ricominciare. Si è chiuso un ciclo storico durato mezzo secolo, esattamente come era durato mezzo secolo il periodo trascorso tra l'Unità e l'avvento del fascismo.
Ricominciare sì, ma da dove? Allora, quando questo secondo ciclo ha avuto inizio dopo la catastrofe della seconda guerra mondiale, quel passante sapeva da dove era partito e dove bisognava andare, o almeno credevano di saperlo colui che lo aveva fatto disegnare e gli amici che egli aveva chiamato intorno a sé per dar vita alla rivista. Sull'altra sponda, da raggiungere faticosamente, c'era un mondo di pace, nonostante le vestigia della guerra, dove ci si aspettava che avremmo trovato più libertà e forse anche più giustizia per tutti coloro che durante la loro misera vita sono costretti ad alzare gli occhi per vedere in faccia i potenti e ad abbassarli quando i potenti si degnano di guardarli.
Ora lo sappiamo un po' meno. Siamo sempre sullo stesso ponte, diventato, se mai, col passar del tempo più insicuro. Non solo non sappiamo se riusciremo davvero a passare dall' altra parte. Ma non sappiamo neppure che cosa troveremo qualora riuscissimo a varcarlo.
Fuor di metafora, la repubblica, la «nostra repubblica», è finita male, anche se non nella violenza delle opposte fazioni, come spesso ci era accaduto di temere è finita nel disonore, non di fronte al Tribunale della Storia, come finiscono le grandi epoche nel bene e nel male ma, caso senza precedenti, credo, di fronte a un tribunale di uomini, in carne e ossa, dove giudici e avvocati si accapigliano sull' applicazione di questo o quell' articolo del codice penale. È finita peggio di quel che anche i più severi denigratori avessero mai previsto. Eppure era cominciata con le «grandi speranze». Nel momento in cui sembra che una Seconda repubblica stia per cominciare non molte sono le speranze che sentiamo aleggiare intorno a noi. Serpeggiano, anzi, timori. Tutt'altro che fondati.

Non ho difficoltà ad ammettere che sin dall'inizio la repubblica non aveva corrisposto a tutte le nostre grandi aspettative. Non era passato molto tempo e già Calamandrei aveva coniato la parola «desistenza» da contrapporre a «resistenza». L'amico suo Jemolo, ambìto collaboratore della rivista, aveva rimproverato De Gasperi di «avere spento il roveto ardente». Ma pur dobbiamo riconoscere che il nostro Paese era cresciuto lungo gli anni in pace, in libertà e in benessere. Se degenerazione c'è stata, sino alla situazione attuale di insopportabilità, questa è avvenuta con moto sempre più accelerato negli ultimi anni: motus in fine velocior. Tra il punto di partenza, pur con tutti i suoi limiti, e il punto cui siamo arrivati, per quel che riguarda la qualità della classe dirigente, il divario è sin troppo visibile. Penso a Parri, a Einaudi, a De Gasperi, a Nenni, a Togliatti, a La Malfa, per nominarne solo qualcuno. Non mi pare che tra gli entrati in scena oggi per traghettare, come si dice con altra immagine, il Paese da un regime all' altro, né tra i superstiti dei vecchi partiti che cercano di rinnovarsi né tra i nuovi che stanno sorgendo, vi sia qualcuno che possa reggere il confronto con coloro che abbiamo chiamato, se pur con una certa enfasi celebrativa, i padri della repubblica.
Ma se siamo arrivati dove siamo arrivati, pur avendo compiuto i primi passi guidati da una classe dirigente degna di questo nome, mi domando con una certa apprensione dove andremo a finire cominciando il nuovo cammino da molto più in basso. Non da terra, ma addirittura dal sottosuolo, mi pare uscito l'incantatore plebeo cui si accompagnano i grandi demagoghi e i grandi contestatori in nome, udite!, della liberaldemocrazia. L'unica speranza che ci rimane è che più in basso di così non si possa scendere, e che, una volta toccato il fondo, e non l'abbiamo ancora toccato, sia possibile risalire compiendo nel corso della Seconda repubblica il cammino inverso rispetto alla Prima.
Non mi avventuro in previsioni. Nella mia lunga vita ho assistito a tre grandi rotture: quando ero ragazzo, alla fine dell' età giolittiana e alla nascita del fascismo; in età adulta, alla caduta del fascismo e alla instaurazione del governo democratico; ora, entrato nella vecchiaia, nell' età in cui ogni giorno che passa si ha sempre più l'impressione di essere dei sopravvissuti, alla fine ingloriosa anche della Prima repubblica. Preferisco non fare previsioni, anche perché non c'è bisogno di conoscere in anticipo che cosa accadrà per continuare a battersi per vecchi, e non invecchiati, ideali.
Intanto continueremo a restare su quel ponticello sul quale non ci siamo lasciati buttar giù in tutti questi anni anche se non siamo mai stati dalla parte dei vincitori e il non saper con sicurezza che cosa ci sarà al di là,-come invece sapevamo allora, non è una buona ragione per rinunciare a cercare ancora una volta di raggiungere la riva.
«li Ponte», gennaio 1994

Sebastiano Vassalli*
Carissimi italiani, non vi salverà un Messia

Impasto di vizi e virtù, per Vassalli il carattere nazionale è una specie di Giano bifronte. «Prendiamo l'attitudine mafiosa», spiega. «Non è altro che il risvolto negativo di un fatto di per sé positivo, la solidarietà. Il fatto che non ci sarà mai un barbone sufficientemente repellente da non trovare qualcuno che gli paghi il cappuccino è una caratteristica bella e buona di questo paese. Ma è anche all' origine di più di un male. Se quando vado per strada un altro automobilista mi lampeggia per segnalare la presenza della polizia, ecco che la solidarietà diventa già complicità».

Da qui alla mafia però ce ne corre.

Questo è l'inizio della mafia, che nasce da un eccesso di volersi bene. In Sicilia ogni anno muore ammazzata tanta gente quanta nella guerra per le Falkland. E sa perché? Perché i siciliani si vogliono troppo bene. In Sicilia c'è più affetto per sé, per la propria terra e i propri amici di quanto ce ne sia a Helsinki o a Stoccolma. Ma proprio per questo c'è anche la mafia.

Il suo è un paradosso.

Non amo il paradosso in sé, cerco di capire perché la nostra storia è diversa.

In una vecchia intervista lei aveva azzeccato un' altra previsione: la nascita del «partito del mostro». Cioè l'avvento di un «monstrum»: di qualcuno che, venendo dal nulla, sull'onda di un fatto di notorietà, avrebbe dato vita a un partito nuovo ...

Mi sbaglierò, ma credo che solo gli italiani manderebbero in Parlamento uno come Vittorio Sgarbi. La politica presenta ovunque margini di irrazionalità, l'ho sempre detto tirandomi dietro improperi e compatimenti. Qui da noi questi margini sono un po' più alti. Siamo un bel paese anche per questo. Gli altri sono, banalmente, un po' più seri e un po' più odiosi. Odiare gli italiani è più difficile. Nella nostra letteratura non c'è un autore che abbia odiato i suoi connazionali quanto Bernhard ha detestato gli austriaci o Osborne gli inglesi...

Non mi pare però che la nostra letteratura sia poi cos1' indulgente verso i vizi nazionali.

Questo dovrebbe far parte del mestiere degli scrittori. Però insisto nel dire che appaiono più indulgenti, se non altro su base regionale. Per poterne parlare male, gli scrittori siciliani devono amare la Sicilia e la mafia. lo che non sono siciliano mi sono trovato in mezzo a tremende polemiche solo perché ho parlato della mafia senza volerle bene. Nel nostro condominio nazionale, uno scrittore può essere critico purché metta l'immondizia due porte più in là della sua. È per questo che le critiche di solito sono scarsamente costruttive.

Vuol dire che gli scrittori strizzano sempre un po' l'occhio ai vizi che contestano?

Esattamente. Attorno allo scrittore italiano c'è sempre un particulare. E penso all'uso che di questa parola ha fatto Guicciardini. Nell'appartenenza alla nazione negata (contro la quale si può dire qualunque cosa perché tanto non c'è) sopravvive un microcosmo intoccabile di sacralità e di affetti,
dato dall' ambito di riferimento sociale, regionale o dalla città in cui si vive.

Tornando al «partito del mostro», recentemente lei ha scritto una lettera aperta a Pacciani invitandolo a fondare un suo partito ...

Quando l'ho scritta pensavo che Pacciani, in assenza di prove, sarebbe stato assolto. Così lo invitavo a non buttare via la notorietà ottenuta come «mostro di Firenze», che avrebbe potuto fruttargli la conduzione di un programma televisivo o addirittura un ministero. La notorietà oggi è come la pecunia di Vespasiano: non olet. Intendiamoci, questa non è una caratteristica italiana: il signor Bobbitt, evirato dalla moglie, ormai è una star della Tv ... Ma negli altri paesi la notorietà, che è merce delle merci, è spendibile con qualche limitazione. In Italia, invece, siamo ancora su quel fragile crinale che può consentire al «mostro di Firenze» di diventare ministro.

Lei crede che questo sia dovuto a una sorta di «primitivismo» nell'uso delle tecniche della comunicazione?

No, penso si tratti della coniugazione di due caratteristiche italiane: cinismo (cioè la convinzione profondamente radiicata per cui la politica non può essere onesta e pulita) e attitudine per lo spettacolo. Quella che l'occhio disincantato di Goethe aveva già individuato due secoli fa.

Lei pensa che l'attualità sia in qualche modo già scritta nella nostra storia?

Un dato del carattere nazionale è la mancanza di memoria storica. Gli italiani riescono a ripetere gli stessi errori con un entusiasmo degno di miglior qusa. Dal mio ultimo libro, Il Cigno, si ricava l'idea che cent'anni fa sulla mafia si sapeva già tutto. Eppure siamo riusciti a scordarcene e a riscoprire
il «fenomeno» negli anni Cinquanta di questo secolo, equivocandolo quasi come un elemento di folklore regionale. La nostra capacità di dimenticare è quasi sublime.

Nel suo discorso corre una sensazione di ambivalenza: come se un vizio nascondesse sempre una virtù e viceversa.

Saper dimenticare è una cosa bella e terribile. Basti pensare a cosa è successo in Italia dopo l'ultima guerra: qui da noi i tedeschi hanno fatto cose assai peggiori di quelle che sono accadute in altri paesi d'Europa, eppure nel 194 7 -48 erano già a Riccione e a Lignano a fare i bagni ... Nell'Oro del mondo ho già raccontato la grande rimozione della guerra avvenuta tra il 1945 e il '50. Non è mica un caso che la prima edizione di Se questo è un uomo Primo Levi dovette stamparsela quasi a sue spese: nessun editore, allora, voleva storie come quella. Del resto, poco prima si era realizzato il grande capolavoro attraverso il quale gli italiani si erano persuasi di non essere mai stati fascisti.

Un capolavoro?

Sì, prima di tutto linguistico. Quando in Sicilia sbarcò un esercito di occupazione fatto di inglesi e americani, noi eravamo un paese vinto e loro gli alleati. Ma alleati tra loro, non nostri. Eppure noi siamo corsi loro incontro a braccia aperte chiamandoli alleati. Questa piroetta linguistica, che trasforma un esercito di occupazione in esercito amico, contiene un bel po' del carattere nazionale.

Venendo al futuro, secondo lei che cosa ci aspetta? La fine dell' anno ci ha consegnato un conflitto aspro, dal quale sembra difficile uscire in assenza di grandi ammortizzatori; ruolo per lungo tempo svolto dalla Dc.

La cancellazione del fascismo e della guerra è stata la rimozione del carattere nazionale degli italiani. Gli intellettuali, scottati dal nazionalismo, hanno negato la nazione consegnandola alla destra per cinquant' anni. Ma la guerra era stata un evento talmente catastrofico da condurre il paese devastato sul punto di perdere la propria identità. Il prezzo dell' azzeramento, dell'ora legale scattata tra il 25 luglio del 1943 e il 25 aprile del , 45, è stato questo. Pulcinella è diventato amico degli ex nemici a prezzo di uno sbandamento da cui ci ha tirato fuori la Chiesa. Quell' operazione si è chiamata Democrazia cristiana, ma l'ha fatta l'Oltre Tevere attraverso un uomo che presto sarà santo: Alcide De Gasperi, grande traghettato re su sponde più sicure di milioni di fascisti diventati nessuno. Questo ci ha consentito la ricostruzione, ma prima o poi doveva finire.

E adesso?

Riemerge il carattere nazionale. Lo stesso che ha sostenuto, col maggior consenso popolare mai visto, un regime durato vent' anni e poi bollato come feroce dittatura. Ora il richiamo della foresta fa sì che, nel profondo, questo paese attenda di nuovo l'Uomo con la U maiuscola.

Lei pensa che Berlusconi abbia tentato a suo modo di rispondere a questo bisogno?

Nell'operazione tentata da Berlusconi c'era qualcosa di geniale; del resto, le circostanze avrebbero portato se non lui qualcun altro a tentare la stessa impresa. Il fatto che Berlusconi si sia poi rivelato non all'altezza della situazione non significa che qualcun altro non ci riproverà, magari con successo. Aver sbagliato Messia acuisce l'attesa di un paese frustrato.

«l'Unità», 31 dicembre 1994

Indro Montanelli
Il rimpianto di una Patria

Questo volume segna il capolinea della nostra Storia dell'Italia contemporanea. Mario Cervi, di parecchi anni più giovane di me, potrà, se vorrà (e io spero che lo voglia), continuarla da solo. lo debbo prendere congedo dai nostri lettori. E non soltanto per ragioni anagrafiche, anche se di per sé abbastanza evidenti e cogenti. Ma perché il congedo l'ho preso negli ultimi tempi dalla stessa Italia, un Paese che non mi appartiene più e a cui sento di non più appartenere.
È stato proprio l'impegno profuso nella stesura di questi volumi, nei quali la Storia si confonde con la testimonianza diretta, anche questa condivisa pienamente da Cervi, a rendermi consapevole che quello nostro era qualcosa di mezzo tra il resoconto d'un fallimento e l'anamnesi di un aborto. Uno dei primi volumi usciti dalla nostra collaborazione, nonostante il titolo L'Italia della disfatta, reca i segni della speranza e delle illusioni con cui ne avevamo vissute le drammatiche ma esaltanti vicende. Credemmo che l'Italia avesse liquidato, sia pure a carissimo prezzo e grazie a forze altrui (ma questo è il Leitmotiv della nostra Storia non soltanto di questo secolo), un regime che le aveva impedito di essere se stessa. Ed invece gli eventi che abbiamo seguito passo passo coi volumi successivi ci dimostravano che non era affatto cambiata col cambio del regime. Erano cambiate le forme, ma non la sostanza. Era cambiata la retorica, ma era rimasta retorica. Erano cambiate le menzogne, ma erano rimaste menzogne. Erano soprattutto cambiate le mafie del potere e della cultura, ma erano rimaste mafie.
Al referendum istituzionale del 2 giugno' 46, Cervi ed io ancora non ci conoscevamo, e ci trovammo su posizioni opposte. Cervi si pronunciò per la Repubblica, io per la Monarchia. Ma entrambi eravamo convinti che quella fosse la data d'inizio di una «vita nova», molto diversa da quella che avevamo vissuto, o meglio subìto; e di questa grande speranza fummo entrambi (anche se io forse un po' meno di Cervi) partecipi. Essa ci sostenne, e in certi momenti forse anche ci esaltò, fino agli anni del «miracolo», che furono i primi Cinquanta. Poi ...
Noi questo poi lo abbiamo vissuto da giornalisti militanti, entrambi al «Corriere della Sera». Entrambi assistemmo e fummo i cronisti della rapida degenerazione della democrazia in partitocrazia, cioè in un oligopolio di camarille e di gruppi che esercitavano il potere in nome della cosiddetta «sovranità popolare»; in realtà nel solo interesse di quei gruppi e camarille, che d'interesse ne avevano uno solo: che il potere restasse «cosa nostra», come infatti per quasi cinquant'anni è stato, e come seguita ad essere anche ora che ha cambiato titolari, ma sempre restando «cosa nostra».
In questo sistema abbiamo visto corrompersi tutto, a cominciare dallo Stato. Lo Stato che il fascismo aveva trovato quando assunse il potere non era gran che. Però una categoria di funzionari abbastanza onesti e ligi ad un certo rigore e decoro di comportamenti nei pochi decenni di Storia unitaria si era formata. E Mussolini la rispettò. Ne mise tutto il personale in camicia nera, ma non ne toccò i posti, le carriere e le competenze. Anche in periferia, il Prefetto, organo dello Stato, prevalse sempre, o quasi sempre, sul Segretario federale, organo del Partito. E questo atteggiamento fu particolarmente visibile nel campo della giustizia. Per perseguire il delitto di opinione, il regime dovette istituire una sua Magistratura di partito perché quella ordinaria si rifiutava di considerare l'opinione un delitto, e il regime rispettò questo rifiuto.
Anche la Repubblica, «nata dalla Resistenza», com'era d'obbligo chiamarla, riconobbe ed anzi enfatizzò l'indipendenza della Magistratura dal potere politico. E per meglio garantirla, la dotò di un organo di autogoverno, il Consiglio superiore della magistratura, riservandosene però una componente '«laica», cioè di non magistrati nominati a quei posti dal potere politico, e per esso dai tre maggiori partiti, che se lo contendevano, o meglio se lo spartivano. Ma la contaminazione non si era fermata qui. Aveva investito tutta la Magistratura dividendola in «correnti» - ognuna delle quali faceva capo ad un partito o ad un' area.

È questo che spiega l'impunità con cui le forze politiche poterono compiere la loro opera di corruzione, che non consisteva soltanto nel prelievo dei pedaggi imposti a tutte le attività economiche pubbliche e private - le famose «tangenti» - ma anche nell' annessione e addomesticamento di tutti quegli organi di controllo - Corte costituzionale, Corte dei Conti, Consiglio di Stato, Ragioneria generale - che alla corruzione avrebbero dovuto porre un freno e che invece ne diventarono lo strumento.
La corruzione non è un fenomeno soltanto italiano. Clemenceau diceva che non c'è democrazia che ne sia al riparo. Ma quella che aveva sotto gli occhi lui, in Francia, si limitava alla classe politica, forse non molto migliore della nostra. Ma a sbarrarle la strada c'era uno Stato che dai tempi di Colbert era servito da una vera e propria casta di commis, di funzionari rigorosamente selezionati in scuole speciali ed alla corruzione impermeabili. La burocrazia italiana non disponeva di un personale di altrettanto livello e non oppose resistenza al potere politico che se l'annesse distribuendo favori soprattutto di carriera agli arrendevoli e castighi a chi non si adeguava. I due milioni di miliardi e passa di debito pubblico non si possono spiegare che come il frutto di un reticolo di complicità fra classe politica e classe amministrativa che rese del tutto vano il disposto costituzionale secondo cui lo Stato non poteva procedere a spese che non fossero coperte da adeguate entrate. Gli organi cui era affidata l'osservanza di questa regola ne avallarono tutte le contravvenzioni, richieste, ed anzi imposte, da un potere politico che badava soltanto a sopravviversi distribuendo favori e indulgenze.
Di questo processo di corruzione potrei citare infiniti altri casi con prove e dettagli. Ma lo ritengo non solo superfluo, visto che è sotto gli occhi di tutti, ma anche fuorviante in quanto può rafforzare nel lettore la convinzione che sia dovuto soltanto alla classe politica. Non è così. Che la classe politica che ha esercitato il potere negli ultimi trenta o quarant'anni sia stata, nel suo insieme, corrotta e corruttrice, è vero. Ma è altrettanto vero che al potere è sempre rimasta col nostro voto. Perché, si usa dire, l'unica alternativa erano i comunisti che avrebbero fatto dell'Italia una succursale dell'Unione Sovietica. Ed anche questo è vero. Ma i voti ai comunisti, chi glieli dava? Ed ora che l'incubo del comunismo (piaccia o non piaccia al «compagno» Bertinotti) è finito, forse che le cose sono cambiate e la classe politica è migliorata?
L'anagrafe mi ha consentito, o forse mi ha condannato, a partecipare a tutte le grandi speranze di questo secolo italiano.Studente negli anni Venti, ho sognato, come tanti, quasi tutti i miei coetanei, di contribuire a fare del Fascismo una cosa seria, e automaticamente ce ne trovammo emarginati. Ci schierammo con le poche forze liberaldemocratiche della Resistenza, e ce ne ritraemmo vedendola trasformata in uno strumento di partito e ridotta a grancassa della sua propaganda col consenso - o la sottomissione - della maggioranza degl'italiani. La speranza di contribuire a qualcosa di buono si riaccese subito dopo la Liberazione sotto la guida di pochi vecchi uomini del prefascismo, presto anch' essi emarginati dalle nuove leve di mestieranti della politica, abilissimi nei giuochi di potere, ma soltanto in quelli. E da allora cominciò la degenerazione mafiosa della democrazia sotto gli occhi indifferenti, o ipocritamente indignati, di una pubblica opinione alle mafie assuefatta da secoli.
Oramai sono giunto alla conclusione che la corruzione non ci deriva da questo o quel regime o da queste o quelle «regole», di cui battiamo, inutilmente, ogni primato di produzione.
Ci deriva da qualche virus annidato nel nostro sangue e di cui non abbiamo mai trovato il vaccino. Tutto in Italia ne viene regolarmente contaminato. Se ci danno la democrazia, la riduciamo a partitocrazia, cioè ad un sistema di mafie. E la cultura, da cui avrebbero potuto e dovuto venirci moniti ed esempi, si è adeguata, come del resto volevano le sue origini.
La cultura italiana è nata nel Palazzo e alla mensa del Principe, laico o ecclesiastico che fosse, e non poteva esser altrimenti, visto che il Principe era, in un Paese di analfabeti e quindi senza pubblico mercato, il suo unico committente. Mentre la Riforma aveva sgominato l'analfabetismo facendo obbligo ai suoi fedeli di leggere e d'interpretare i testi sacri senza la mediazione del Pastore autorizzato a dare solo qualche consiglio, la Controriforma, che faceva del prete l'unico autorizzato innterprete delle Scritture, dell'analfabetismo era stata la fabbrica, che lasciava l'intellettuale alla mercé (in tutti i sensi) del suo patrono e protettore. Il quale naturalmente se ne faceva ripagare non solo con la piaggeria, ma anche con la difesa del sistema su cui si fondavano i suoi privilegi. Così si formò quella cultura parassitaria e servile, che non è mai uscita dai suoi circuiti accademici per scendere in mezzo al popolo a compiervi quell' opera missionaria, di cui le è sempre mancato non solo la vocazione, ma anche il linguaggio. In Italia il professionista della cultura parla e scrive per i professionisti della cultura, non per la gente. E istintivamente cerca ancora un Principe di cui mettersi al servizio. Scomparsi quelli di una volta, il loro posto è stato preso dai depositari del potere, cioè dai partiti. E questo spiega la cosiddetta «organicità» dell'intellettuale italiano, sempre schierato dalla parte verso cui soffia il vento. Se è vero che l'ambizione di ogni intellettuale è di diventare il direttore della pubblica coscienza, l'intellettuale italiano la serve all'incontrario: mettendosene al rimorchio e facendo la mosca cocchiera di tutti i suoi eccessi e sbandate.
Ecco il motivo per cui ho deciso di rinunziare al seguito di questa Storia d'Italia (che del resto rischia di avvilirsi a cronaca giudiziaria). Ho smesso di credere all'utilità di una Storia scritta al di fuori di tutti i circuiti della politica e della cultura tradizionali. Anzi, ad essere sincero sino in fondo, ho smesso di credere all'Italia. Questo volume, che include la sceneggiata di piazza San Marco, include anche la convinzione di uno dei suoi due autori che in un'Italia come questa anche una sceneggiata può bastare a provocarne la decomposizione. Sangue non ce ne sarà: l'Italia è allergica al dramma, e per essa nessuno è più disposto a uccidere e tanto meno a morire. Dolcemente, in stato di anestesia, torneremo ad essere quella «terra di morti, abitata da un pulviscolo umano», che Montaigne aveva descritto tre secoli orsono.
O forse no: rimarremo quello che siamo: un conglomerato impegnato a discutere, con grandi parole, di grandi riforme a copertura di piccoli giochi di potere e d'interesse. L'Italia è finita. O forse, nata su dei plebisciti-burletta come quelli del 1860-61, non è mai esistita che nella fantasia di pochi sognatori, ai quali abbiamo avuto la disgrazia di appartenere. Per me, non è più la Patria. È solo il rimpianto di una Patria.
«Corriere della Sera», 23 novembre 1997

Eugenio Scalfari
Questo Stato senza fiducia

Fino quasi all' altro ieri e a partire dalla fondazione dell'Italia unitaria di 140 anni fa, la borghesia laica sostenne che i cattolici non avevano e non potevano avere il senso dello Stato per la semplice ragione che il loro cuore e il loro cervello obbedivano a un potere spirituale collocato oltre Tevere, come si diceva, e spesso in profondo conflitto con quello che a tutti gli effetti rappresentava la nazione. Ma neanche al movimento socialista nato un secolo fa fu riconosciuto il senso dello Stato; in quel caso cuore e cervello erano al servizio d'una classe e si riconoscevano assai poco nelle istituzioni. Con l'arrivo in campo del Partito comunista il dubbio che le masse proletarie fossero molto più sensibili all'ideologia e alle concrete direttive di Mosca divenne certezza. Per una ragione o per l'altra insomma, e lungo un arco di tempo che copre i nove decimi della nostra storia unitaria, una parte fortemente minoritaria degli italiani è rimasta convinta dell' estraneità del popolo alle sue istituzioni, monarchiche prima, repubblicane poi. Ma anche questa parte a sua volta è stata sospettata d'essere assai poco identificata con le istituzioni, essendo principalmente formata da quella borghesia produttiva che poneva cuore e cervello più nelle imprese e nei loro interessi che nel cosiddetto interesse generale del paese. Sicché alla fine, laicizzatosi il sentimento religioso, cadute le ideologie totalizzanti, accresciutosi in tutti lo stimolo a perseguire l'interesse proprio, l'analisi sociologica e antropologica è facilmente arrivata alla conclusione che gli italiani tutti, quale che sia la loto matrice culturale e la loro posizione sociale, sono privi del senso dello Stato, reputano anzi lo Stato come un' entità nemica o quantomeno inaffidabile dalla quale occorre difenndersi e della quale è opportuno eludere le regole e le pretese.

La più recente di queste analisi è stata resa nota qualche settimana fa dal giornale economico «Il Sole 24 Ore»; è stata condotta su un campione rappresentativo della popolazione e con metodi di sondaggio molto sofisticati.
I suoi risultati non hanno avuto nei «media» l'eco che meritavano. A torto, poiché si tratta di risultati e di motivazioni abbastanza sconvolgenti anche se largamente prevedibili da chi segue con attenzione l'evolversi (anzi l'involversi) dello spirito pubblico degli italiani. Ilvo Diamanti, il ricercatore che ha guidato l'indagine di cui parliamo, così ne sintetizza i risultati: «Tre cittadini su quattro dichiarano molta o abbastanza sfiducia nello Stato e nel governo (che di solito identificano senza percepire alcuna differenza tra queste due entità); circa metà dei cittadini non sono disposti a compiere sacrifici per la patria; un terzo degli intervistati si dichiarano lontani dalla politica e da tutti i partiti. Infine i servizi pubblici xsia quelli prodotti dal governo centrale che, ancor più, dagli enti locali e massimamente da quelli regionali - ottengono la massima sfiducia». Tuttavia le persone intervistate non si dichiarano in maggioranza favorevoli alla privatizzazione dei servizi essenziali, soprattutto quelli della scuola, della sanità e della previdenza; li vorrebbero più efficienti ma non soppressi. Alla sfiducia si accompagna cioè una sorta di attaccamento alla permanenza del pubblico servizio, il che mette in rilievo un aspetto in qualche modo paradossale: la maggioranza dei cittadini si lamenta delle pubbliche prestazioni ma non intende rinunciarvi in favore di chi potrebbe gestirle con finalità di lucro. Questo atteggiamento largamente maggioritario è così commentato nell'indagine in questione: «L'insoddisfazione nei riguardi dello Stato e dei servizi pubblici, ma insieme il basso orientamento alla privatizzazione, non esprimono soltanto il convincimento che ci vuole una protezione pubblica efficiente dai principali rischi; forse rivelano anche una certa dose di opportunismo, proprio di chi vuole diritti e vantaggi ma senza accollarsi costi e doveri». E più oltre: «Tangentopoli non è stata solo la conseguenza d'una classe politica corrotta, ma anche di una società civile moralmente debole e sfibrata che accetta la concussione e la corruzione come pratiche
- normali. Da questo punto di vista alcune tendenze rilevate nel sondaggio debbono essere valutate con molta preoccupazione». Infine i soggetti ai quali rivolgersi quando !'individuo abbia bisogno d'un aiuto per superare una sua situazione di difficoltà: anzitutto la famiglia (90% degli intervistati), e poi gli amici (68%), i vicini di casa (50%), la parrocchia (49%), le associazioni di volontariato (43%). Stato ed enti locali seguono con lunghissimi distacchi. L'inchiesta cosÌ sintetizza: «Solidarietà corte, istituzioni lontane».
Si pongono a questo punto due domande, riflettendo sui dati dell'indagine in questione: 1. L'atteggiamento che alla fin fine si può definire come debole anzi debolissima identiità nazionale è un dato tipicamente italiano o è ampiamente diffuso nell'Occidente industriale sul bordo del terzo millennnio? 2. Per quanto riguarda l'Italia quali ne sono le cause? Non c'è dubbio che in tempi di globalizzazione economica e d'integrazione culturale e politica i sentimenti d'identità nazionale si vadano indebolendo e tuttavia il fenomeno italiano ha una sua propria specificità. Esso tra l'altro ha allle sue spalle una storia molto più antica e non può quindi essere connesso alle recenti trasformazioni economiche e sociali di dimensioni planetarie. Il «familismo» italiano, la tendenza a riconoscersi nel proprio gruppo e ad affidare a esso la propria protezione e i codici di comportamento, il localismo come valore e limite sono altrettanti impedimenti all' affermarsi dell' identità nazionale e altrettanti stimoli verso forme di anarchismo nei confronti dello Stato e delle norme che esso emana. Ovviamente la gracilità e l'insufficienza delle classi dirigenti e la loro storica vocazione a chiudersi in vere e proprie «nomenklature» ha contribuito a esasperare il ripiegamento degli italiani su se stessi e sul proprio «particulare», ma il circolo in tal modo instaurato è quanto mai vizioso se è vero che ogni paese ha la classe dirigente che ne riproduce mediamente le qualità e i difetti. Noi (e con questo si risponde alla seconda domanda) abbiamo avuto per secoli classi dirigenti politiche ed economiche furbe, arroccate ai propri privilegi, castali, sostanzialmente incolte e prevaricatrici: non una «classe generale» consapevole di servire lo Stato e di affermarne il concetto, ma vogliosa di utilizzare le istituzioni a vantaggio proprio e del proprio gruppo. Le eccezioni, naturalmente, vi sono state ma la regola è stata questa. Armando Massarenti, commentando !'indagine che abbiamo qui utilizzato come spunto di riflessione, ha citato il Leopardi del Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl'Italiani del 1824 e alcuni passi dello Zibaldone. Lo farò anch'io poiché nulla mi sembra più appropriato che concludere con quelle parole. «Gli italiani non hanno costumi, essi hanno delle usanze. Poche usanze e abitudini hanno che si possano dir nazionali, ma quelle poche sono seguite piuttosto per sola assuefazioone. A prevalere sono soltanto l'abitudine e il conformismo, non la moralità perché l'Italia è, in ordine alla moralità, più sprovveduta di fondamenti che alcun' altra nazione europea e civile». Purtroppo, a oltre 170 anni di distanza, la situazione non è granché mutata e semmai in peggio.
«la Repubblica», 2 agosto 1998


Enzo Siciliano
La parola Italia

Appartengo a una generazione che per lo più ha appreso a dare nel tempo dell' adolescenza, della giovinezza, correndo la fine degli anni Quaranta e i Cinquanta, alla parola Risorgimento il significato esistenziale che le diede Leopardi nella sua serena esperienza pisana.
Mi convinsi che il sorriso della vita è stato offerto al nostro paese una prima volta dal Va' pensiero di Giuseppe Verdi, quindi restituito dall'arrivo degli Alleati in Sicilia con gli accenti del boogie-woogie (ogni secolo ha il proprio ritmo, e il proprio destino). Sul quel ritmo Rossellini passò da un film come Un pilota ritorna a Roma città aperta, e la cultura letteraria italiana da Melafumo di Antonio Baldini a I sentieri dei nidi di ragno di Calvino, al Conformista di Moravia, a La ragazza di Bube di Cassola, a Fenoglio, a Bassani, a Pasolini eccetera.
Quel che allora, dopo aver letto Gobetti e Gramsci - non scorciando le differenze che li dividevano, ma pensando di utilizzarle in una sintesi possibile -, chiamavamo, per niente sfiorando ancora i vent'anni, nuovo Risorgimento aveva in parte già concluso un processo difficile suggellandosi nella carta costituzionale della repubblica, una repubblica finalmente fondata sulla libertà e sul lavoro. (C'è chi pensa che questa sia un'ovvietà ormai da trascurare: io penso di no, proprio perché c'è chi crede sia un'ovvietà ecc.)
TI processo era stato travagliato - una lunga catena di eventi tragici - ma per via di esso la parola Italia veniva ad avere finalmente concretezza civile e democratica -la parola sognata da Dante e Petrarca, da Machiavelli e Guicciardini, da Foscolo e Leopardi, da De Sanctis e Benedetto Croce cui sembrava però mancasse un ulteriore contenuto meglio saldato alla contemporaneità. Concretezza civile, ma anche concretezza vitale: era un'unità finalmente compiuta non in nome di astrattezze concettuali né di una utopia negativa quale poté essere quella che in modo sostanziale stava al fondo del cosiddetto Stato Etico rielaborato dal fascismo.
So bene che non mancano coloro per i quali quest'idea di unità non avrebbe alcuna concretezza. Anzi, ne parlano come di un' astrazione, di una illusione anche nociva.
Era, dicono, un'idea calata dall'alto di concezioni del tutto intellettuali - e che l'Italia popolare casomai era nata altrove, per vie recondite, nelle migliaia di piccole parrocchie sparse lungo gli Appennini, nella pianura padana, nelle valli delle Alpi, giù giù fino ai calanchi della Calabria, nell' arsura della Murgia, in Sicilia: l'Italia popolare si sarebbe formata impalpabilmente sulla lingua giaculatoriale del catechismo - ancora sarebbe nascosta là.
La chiesa cattolica ha svolto un' attività unificante dalla controriforma in poi: fu un processo parallelo di cui i cristiani democratici si sono fatti portavoce ma non come di un processo esclusivo o più vero o più reale, ma di un processo che con l'altro non poteva che andare in sintonia, con esso fondersi. E così fu - alla costituzione di un patto, di unfoedus, che materiò di sé proprio la costituzione repubblicana del '46 (libero Stato e libera Chiesa).
In quella costituzione, libertà e giustizia avevano radici nella storia - una libertà e una giustizia pari per tutti. Cosicché, se il partito fascista con i suoi rituali e le sue formule fu dichiarato in costituzionale, un partito nuovo che si ispirava alla concezione sociale del fascismo entrò in parlamento ed è stato parte integrante della vita della repubblica nonostante larghe porzioni di esso si dichiarassero e agitassero da anti-Stato.
Di sicuro la guerra fredda congelò la naturale dinamica di cui la nuova carta repubblicana aveva bisogno per realizzarsi nella sua interezza - quella guerra congelò al fondo dell' animo del paese anticaglie antropologiche, e un forte spessore di conservatorismo. Questo non mancò di farsi sentire, di affiorare con intenti spesso torbidi, dai contorni tuttora non chiariti del tutto. Ma il patto comune tuttavia tenne, e la stessa lotta politica non volle mai negarlo, non si spinse mai a scioglierlo. (Fu salvata la «democrazia possibile», o qualcosa di più? Credo qualcosa di più.)
Con gli anni Novanta, però, si scoprì che i valori fondanti il foedus del '46 non erano più condivisi.
La lingua del paese era diventata progressivamente una certo, con i modi accidentati con cui una lingua diventa una, non sul filo di progetti elaborati dai lessicografi. Era diventata una lungo gli spuri canali della televisione o attraverso gli slogan pubblicitari, attraverso i giornali, attraverso i testi delle canzoni e anche nel romanzo italiano del secolo, un romanzo ignorato, svenduto per poche lire - ricco invece di una complessità prospettica tutta ancora da scoprire.
Ma al di là di questo evento decisivo - il consolidarsi di una lingua omologata, diceva Pasolini -, cosa era il mondo italiano nella spirale dei suoi ideali e in quella dei suoi nuovi bisogni?
Dal sonno dogmatico imposto dalla guerra fredda ci siamo svegliati divisi da una insopportabile violenza parolaia - persino sotto l'ombra di un populismo etnico fino ad allora sconosciuto alla nostra cultura.
Il terrorismo, conclusa la stagione del sangue, restava, è restato negli stracci di una lotta generazionale istituzionalizzata attraverso i veicoli dei media, droga necessaria a una sopravvivenza che specchia una progressiva paralisi morale, culturale.
L'escogitazione di una Padania che non fosse per niente Italia - anzi, pensata come germe dissolutorio e liberatorio, scambiando il Carroccio per un simbolo razzialmente localistico - sembrò la metastasi di un rancore le cui radici affondavano chissà in quale feuilleto12, certo non nelle pagine ancora stupefacenti per intelligenza e bellezza di un Cattaneo o comunque in una storia vissuta nel vero e dal vero.
Eppure quella metastasi deve essere osservata come sintomo d'un male congenito e diffuso, che riguarda tutti noi italiani, un male che ha lentamente roso vitalità, speranze e le ha deviate, fatte impazzire - un male la cui radice sta nelle paure di un ceto anche felicemente, rapidamente arricchitosi, ma che teme, proprio nel confronto con l'Europa, di smarrirsi fisicamente, conscio come è di non avere elaborato identità alcuna al di là di quella che può offrire un rotolo di denaro messo sotto il materasso secondo alcuni vecchi e miopi, mai smaltiti costumi contadini - sia pure nei travestimenti della new economy.
Da italiani, dunque, cosa portiamo in Europa: i nostri mali o i nostri valori? Portiamo la forza di una tradizione forte perché fortemente elaborata o portiamo la risulta di paure arcaiche?
Per motivi di schieramenti elettorali abborracciati in questi ultimi mesi alla Padania è stata messa la sordina, anche se il seme dell'intolleranza alcuni frutti li ha lasciati maturare.
Si sente invece molto parlare di un'idea di patria e di Italia in cui tutte le vacche sono grigie - dove i valori della democrazia sono residuo di una melassa senza storia. Nessuno sembra più abbia combattuto o sia morto per essi - quando invece è stato tragicamente necessario combattere, e i morti ci sono stati, da Duccio Galimberti a don Minzoni. Piuttosto, si tende a dire che i morti ci sono stati in parti uguali sui due fronti, nobili entrambi.
Il dolore di fronte alla morte, per quel che esso significa nella vita, non ha colori. Ma l'autenticità esistenziale della buona fede non cancella il senso storico dei fatti. Nella storia di un'idea di patria non tutte le vacche sono grigie. E un'idea di patria vive e ha valore soltanto se si riconosce che chi è morto per essa lo ha fatto per la conquista di quei beni generali che hanno nome di libertà e giustizia.
«Nuovi Argomenti», gennaio-marzo 2001


Alberto Arbasino
Le amnesie di un Paese senza storia né memoria

Da bambini, fra gli interrogativi tragici del dopoguerra, si imparava nelle scuole che per i peggiori guai dell'Italia vi erano lunghe e dotte polemiche, fra i nostri vecchi saggi. Corsi e ricorsi storici, quindi già cicli e ricicli, per il sommo Giambattista Vico, fin dal Settecento. E macché tragedie che si riciclano in farse, come sostenevano altri sommi: talvolta succede il contrariò, si lamentano oggi in molti. Macché: trattasi di caratteri costanti, antropologici ed etnici, talvolta riaffioranti come i classici fiumi carsici, secondo un filone patriottico e dunque deluso. Realisti e pessimisti, come Salvemini e Gobetti e numerosi esuli che nella «malattia italiana» vedevano una ~~tabe dell' anima» proprio nostra, esclusiva. Soprattutto a proposito del fascismo. «Inopinato bubbone in un corpo fondamentalmente 'sano?». Uhm. E allora, il nazismo e il coomunismo, in Paesi ben più disastrati che l'Italia di Vittorio Veneto e della borghesia di Giolitti? Benché concittadino del Vico, Benedetto Croce definì il fascismo come «un cattivo sogno dileguato si al primo raggio di luce». Beato lui. E i primi raggi dei bombardamenti che massacrarono gli inermi italiani «civili» nelle loro case? Mah.
Si usarono per un pezzo, fra le macerie e le tessere del pane, gli elevati dibattiti sul fascismo come «rivoluzione» contro un mondo di ieri» nostalgicamente celebrato dai massimi scrittori e pensatori borghesi della Belle époque. Oppure come «rivelazione» di una «natura italiana» bigotta e reazionaria e ,servile e fanfarona, contro cui Giustino Fortunato e parecchi w; altri vedevano solo il rimedio di una Destra moralistica in nome dei Valori più tradizionali. Fascisti e nazisti e (molto dopo) anche i comunisti venivano definiti «bande d' avventurieri senza radici riel passato» dai vecchi intellettuali elitari e liberali «in baffoni e doppiopetto». Quando i cabarettisti radiofonici Nizza & Morbelli canticchiavano: «Van le Katchen con le Gretchen a passeggio sotto i tigli - Professori in tuba e occhiali vanno a spasso con i figli».
Ma subito dopo la guerra, con che velocità i più compassati professori diventavano tutti «anti». Di colpo! Noi bambini si restava allibiti. Intanto, ogni richiamo favorevole al Passato, e ai suoi Valori, e alle loro radici, caldeggiate da Croce e Meinecke e Ortega e Huizinga e altri Grandi Anziani, diventava sempre più dubbio, ed equivoco, in una fase storica entusiasta solo del Progresso, e poi dello Sviluppo industriale, capitalistico, soprattutto dopo il tramonto di ogni «sol dell' avvenir». Ma una generazione dopo le sfilate progressiste al canto dell'Internazionale, ecco le manifestaazioni avanguardiste per contestare le Multinazionali. Mentre la Falce, tolta dagli stemmi della Sinistra Riciclata, avanza identica negli stendardi dell'Islam. (Qui però chiamata «mezzaluna», che è un nonsenso meteorologico.)
Si prospettano allora dei vantaggi culturali o economici, in un Paese così smaccatamente senza Storia e senza Memoria (collettiva, in casa e in società), al di fuori dei non molti Comuni, come Siena o Pisa, che vivono una propria identità non retriva o tribale, almeno dall'anno Mille? Gli ebrei sono ovviamente un caso «top», nella continuità della propria memoria storica. Ma anche parecchie nazioni europee vanno curando il proprio lungo «vissuto», con amor proprio e dignità. Se non altro, per usare l'esperienza del déjà vu in vista dei prossimi programmi e progetti, sia pure senza il tradizionale senso dello Stato. Nel nostro «Paese senza» pare invece normale e regolare l'Amnesia, a partire dalle scuole e dai popolari quiz in tv.
Invano Gramsci richiedeva di farsi almeno «intellettuali organici», ovvero funzionari del Potere (malgrado ogni «cortigiani, vil razza dannata» di Rigoletto) come già presso i signorotti-mecenati rinascimentali, o sotto il Duce e i vari regimi successivi. Mezzo secolo fa, i cortigiani organici denunciavano innumerevoli «lacchè». Ma oggidì, fra gli iPod, quanti ragazzini capirebbero termini già diffusissimi come «bolscevichi», «miliziani», «popolani», «coloni», «ascari», «bifolchi», o appunto «lacchè»?
Attualmente, obiettivamente, gli antropologi alla LéviStrauss possono piuttosto rilevare e registrare le incessanti manifestazioni di un colonialismo italiano passivo, come neanche nelle ex colonie inglesi o francesi o russe. Incominciando dai supremi organi e cariche. La suscettibilità dei «vertici» ad ogni minimo giudizio positivo o negativo impartito da qualunque insignificante giornalista estero su qualche «prestigiosa testata» del suo Paese, nei nostri confronti. Mentre gli stranieri «se ne fottono» di qualunque nostro autorevole giudizio sulle loro politiche o i loro costumi. E invece, quante patetiche confessioni dei nostri autorevoli che non riescono a spiegare a un Amico Straniero le complicate bassezze della nostra politica casereccia, coi bisticci o baciozzi funerari fra i Vecchi della Tribù corpulenti e tinti. (Forse è più semplice compilare tascabili «per spiegare Dio a mia nonna» o <<la Giustizia al mio frugolino».)
Né il colonialismo passivo si limita ai nostri turisti provinciali che temono di non venire considerati abbastanza chic oltreconfine. Nel campo della Cultura, l'eventuale antropologo può sempre compilare statistiche sugli spazi e rilievi e titoli occupati dalle novità e figure e polemiche letterarie e artistiche e accademiche e di spettacoli dei principali Paesi, nei nostri media, e proporzionalmente dei nostri eventi e personaggi culturali (non di sport o cucina o moda) sui vari media stranieri. Se allora chiama qualche ragguardevole amico «di frontiera» - che ci capisce sempre meno - come deve fare un quasi ottantenne italiano per spiegargli non solo i problematici Giovani, ma addirittura i suoi imbarazzanti coetanei? Tornerà comodo il «latinorum» del solito Vico?
«Verum et factum convertuntur» secondo i tascabili: «si conosce solo ciò che si fa». O magari: «detto, fatto»? «Si fa, ma non si dice»? E andrebbe magari citato, quando (a proposito di declino o degrado) si discorre degli attuali «inopinati bubboni» o «cattivi sogni», o «corsi e ricorsi», o «costanti etniche» impietose e scomode?
«la Repubblica», 2 febbraio 2008


Emilio Gentile
Una giornata dell'Oblio

Da un paio di secoli, la nazione è divenuta il principio supremo che legittima l'unione di una popolazione nel territorio di uno Stato indipendente e sovrano. Su questo principio è nato nel 1861 lo Stato italiano e su questo principio è stato ricostituito dopo il 1945. Il presupposto dello Stato italiano è l'esistenza di una nazione italiana. Ma oggi molti cittadini dello Stato italiano pensano che una nazione italiana non sia mai esistita, e perciò non dovrebbe esistere neppure l'unità di uno Stato italiano. Gli italiani vivono oggi in uno stato di crescente disunione, simbolizzato dalla guerra delle immondizie. L'unico fattore che unisce oggi tutti gli italiani è la carta di identità. Ci sono alcuni fatti che sembrano confermare questa situazione. Vediamone alcuni, prima di avanzare una modesta proposta per tentare di sanarla.
La nazione, secondo la celebre definizione di Ernest Renan, è un plebiscito di tutti i giorni. In Italia, nell'ultimo mezzo secolo, le elezioni politiche, per frequenza quasi annuale e altissima percentuale di votanti, potevano essere simili al plebiscito di Renan. Ma quasi tutte queste elezioni hanno fomentato le divisioni fra gli italiani fino alla soglia di una guerra civile. E le divisioni si sono moltiplicate negli ultimi quindici anni, con la frammentazione dei partiti, la municipalizzazione della politica, la proliferazione di minoranze etniche e religiose, la diffusione di guerre culturali fra principi non negoziabili.
Renan diceva inoltre che la nazione è una «grande solidarietà, costituita dal sentimento dei sacrifici compiuti e da quelli che si è ancora disposti a compiere insieme. Presuppone un passato, ma si riassume nel presente attraverso un fatto tangibile: il consenso, il desiderio chiaramente espresso di continuare a vivere insieme». I cittadini dello Stato italiano non hanno mai avuto il sentimento comune di un comune passato di glorie e di sofferenze. In passato, il ricordo del passato ha sempre diviso gli italiani. Nel presente, solo l'oblio del passato potrebbe forse unire gli italiani in una grande solidarietà. Molti lo pensano e lo auspicano. Molti praticano l'oblio ed esortano a praticarlo. Lo stesso Renan sosteneva che l'oblio è «un fattore essenziale nella creazione di una nazione», mentre, aggiungeva, la ricerca storica può essere un pericolo «perché riporta alla luce i fatti di violenza che hannno accompagnato l'origine di tutte le formazioni politiche», anche quelle considerate benefiche. Per usare l'oblio come fattore di unione degli italiani sarà però opportuno addomesticare la ricerca storica. ./
Un' apposita Commissione per l'Oblio potrebbe dire agli storici cosa si può ricordare e cosa si deve dimenticare, adattando continuamente il passato alla necessità di una storia comune. Anche se non si potranno istituire Giornate dell'Oblio, come qualcuno ha suggerito, perché tutte le Giornate sono istituite per ricordare e non per dimenticare. Oppure, sarà forse più pratico ed efficace fare a meno della storia, e abituare i cittadini dello Stato italiano a vivere come gli animali, che l'uomo invidia, secondo Nietzsche, perché dimenticano subito. E vivono in un perenne presente senza storia.
«Il Sole 24 Ore», 17 febbraio 2008


Parte terza
Volti e maschere

Stenterelli che si lisciano «con aria di gravità la pancetta accademica» o piccoli eroi «senza smancerie e leziosaggini»? Il ritratto degli italiani è racchiuso nella frenetica oscillazione tra due archetipi a prima vista inconciliabili. In mezzo al guado, la borghesia: «chiacchierona, vanitosa e vuota» per Gramsci responsabile e instancabile per Ansaldo. E se per Gobetti il «nuovo tipo morale di italiano» deve ancora nascere, per Savinio il vecchio italiano non morirà mai: è un dio immortale che non ha passione «in combustibile come il tegamino di coccio refrattario».
In realtà, lo incalza Brancati a dominarlo non è la paura della morte ma il terrore per il «travaglio di coscienza» e per la «controversia faticosa»: l'italiano, dunque, è innanzitutto un uomo d'ordine. Del resto, gli fa eco Barbara Spinelli, la democrazia non è altro che questo: un metodo «che consente alle famiglie dei Montecchi e dei Capuleti di competere l'una contro l'altra senza spargimento di sangue».
I contorni, a ben guardare, non sono però così definiti. DIfficile allora stabilire chi sia la vittima e chi il prevaricatore. Prendete don Abbondio e il suo «sempre disposto all' obbedienza»  ricordano Sciascia e Placido - e troverete in un solo personaggio gli stessi contraddittori tratti di un Paese da secoli immutato.
Ma allora quali maschere indossa quotidianamente l'italiano? Quelle di Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella, come scrive La Capria, oppure quella di Alberto Sordi che - secondo Merlo - presta benissimo la sua faccia «tanto alla romanità del parastato quanto al padroncino di Varese»? E ancora: chi prevarrà tra il «fesso onesto» raccontato da Pontiggia e i furbissimi gatto e volpe evocati da Bodei?

Antonio Gramsci
Stenterello

Osservate il come si viene atteggiando e componendo attraverso la storia la borghesia politica ed intellettuale italiana. Constaterete questo fatto. Sono nati e si sono formati in Italia dei geni altissimi, dei veri creatori, che hanno assunto valore e fama mondiale, ma essi non hanno avuto un ambiente, non hanno avuto la fortuna di poter formare una scuola, di essere circondati da un numero anche mediocre di individui che li comprendessero, e ne attuassero gli insegnamenti e i princìpi. È mancato sempre, o quasi, in Italia, un ambiente di serietà, di lavoro effettivo e dignitoso intorno ai luminari della scienza, della politica, della vita morale, della cultura, che pure sono nati in Italia, e in italiano hanno scritto e parlato in buon numero.

Dietro l'avello
Di Machiavello
Giace lo scheletro
Di Stenterello.

Questi versi si potrebbero ancora maggiormente rendere significativi. È tutta una caterva di Stenterelli, quella che circonda la persona di un solo Machiavello. Stenterelli che urlano, sbraitano, si lisciano con aria di gravità la pancetta accademica, esaltano le virtù della stirpe, 1'alto sapere degli antenati, ma essi stessi non fanno nulla, non lavorano, non sono produttori di una idea, di un fatto. Stenterello non è neppure un uomo: è una scimmia. Stenterello è il prototipo della borghesia italiana, chiacchierona, vanitosa, vuota, che non vuole adattarsi al lavoro modesto, ma fecondo della collettività anonima, e si trastulla sempre a suonare il chitarrino per lodare i grandi fatti degli antenati, dei quali egli altro non è che il molesto pidocchio.
Stenterello, dopo che è scoppiata la guerra, si è straordinariamente moltiplicato. A Torino gli Stenterelli si sono agglomerati intorno alla Lega antitedesca. La nostra città non è come altre italiane. È una città dove si lavora. È una città che sa realizzare, che sa foggiarsi un avvenire col proprio lavoro. Ma anche nel suo seno non mancano gli Stenterelli. Anzi, perché sia più sensibile il distacco dal resto della cittadinanza, essi sono più Stenterelli che mai. Infatti la Lega antitedesca di T orino è la più rumorosa d'Italia, quella più prolifica di ordini del giorno, di affermazioni verbose d'italianità. Quella che maggiormente esalta le virtù dei grandi morti, appunto perché i suoi componenti sono i meno capaci di lavorare sul serio, di produrre qualche cosa che dia un qualche lustro alloro nome e alla collettività che ha avuto la mala sorte di esprimerli dal suo seno.
La Lega antitedesca di Torino ha pubblicato in questi giorni uno zibaldone, La riscossa italica, che è il prodotto più raffinato dello stenterellismo italico. Il sommario si pregia di più di 40 nomi di illustri viventi, che dovrebbero onorare il paese. Due o tre nomi di persone intelligenti, abusivamente riprodotti; contorno di una trentina di Stenterelli che si riiattaccano a Mario, il vincitore dei Cimbri e dei Teutoni. E le persone intelligenti si sentono a disagio in mezzo a questa canaglia di scaglionati, e si scusano di essere state accomunate ad essa.
Chi lavora sul serio non vuole essere confuso con Stennterello. Chi lavora sul serio non ha bisogno di attaccarsi alla guaina della daga di Mario romano, né alla carmagnola sdrucita di Mario Giada, il bevitore di sangue di vitello. Lavora, non urla. Lavora, e perciò è solo uomo, non scimmia antitedesca. Lavora, e perciò produce, e si oppone ai tedeschi nel solo modo ragionevole e umano: innalzando accanto all' edifizio della cultura, della scienza, della vita morale tedesca, un altro edifizio che sia attualmente vivo di vita propria e originali.
Stenterello è testa vuota, e perciò non capisce che a una forma di vita si deve opporre un'altra forma di vita. Che al lavoro si oppone altrettanto lavoro, e più e meglio se è possibile. Ma Stenterello è anche truffaldino e imbroglione. Lui è il professore sempre bocciato ai concorsi; è il 'poeta che non trova lettori; è l'industriale che vuole arricchirsi poltrendo; è il commediografo che il pubblico fischia; è il nobile avariato che non trova più chi si scappella dinanzi alla sua maestà. E l'antitedeschismo per Stenterello significa in questo caso: il professore diventi professore d'università, perché è tradizione del Risorgimento mandare all'università chi ha fatto le schioppettate, e ... chi le ha lasciate fare agli altri; l'industriale abbia la protezione doganale che proibisca l'introduzione della merce tedesca, e gli permetta, potendo, di arricchirsi dissanguando i suoi concittadini; per il commediografo, l'obbligo alle compagnie di rappresentare solo i suoi drammi, solo perché italiani, anche se il pubblico italiano li fischia.
E così via.
[Nove righe censurate.]
Stenterello non si accontenta di essere il pidocchio dei morti Machiavelli; vuole essere la sanguisuga vorace anche dei Pantaloni viventi. È una scimmia pratica, Stenterello; ma la sua filosofia della pratica è quella contemplata dal Codice penale.
«Avanti!», 10 marzo 1917




Pietro Gobetti
L'esule in Patria

Il nostro programma di oppositori leali e irriducibili è chiaro e semplice: esilio in patria. Solo quando ogni condizione obbiettiva di attività ci venga tolta accetteremo !'ipotesi di ripetere la sorte degli esuli del Risorgimento. Prima non sarebbe esilio, ma diserzione. Non riusciamo a concepire l'idea di un' opposizione al di là della frontiera; nella situazione presente oppositore vuol dire l'uomo che paga di persona, che non solo non si arrende al nemico, ma neanche alla possibilità di una vita più facile.
Se il nuovo tipo morale di italiano deve nascere: !'italiano che non se la intende col vincitore, che combatte alla luce del sole non con la complicità delle sette e delle camorre, che conosce il disprezzo delle sagre, dei gesti, che non si arrende alle allucinazioni collettive, che non ha bisogno di chiamare eroismo la sua ferma coscienza morale, che aspetta impassibile le conseguenze delle sue azioni, che preferisce il sacrificio alla furberia e al dinamismo - questo è il cimento definitivo.
«La Rivoluzione liberale», 28 giugno 1925

Alberto Savinio
L'immortale

Odo voci preoccupanti. «Potranno gli Italiani sopravvivere al disastro che li ha colpiti?». Per me questa domanda non ha senso. Anche mortalmente colpito, l'Italiano non muore. Non riuscirebbe a morire anche se lo volesse. L'Italiano è nella medesima condizione in cui era il centauro Chitone, e che a costui era tanto venuta a fastidio: è immortale. Per poter morire, anche l'Italiano, come Chitone, dovrebbe chiedere licenza. Ma oggi a chi si chiede licenza di morire? Del resto nulla dimostra che l'Italiano abbia desiderio di morire. E se l'Italiano, diversamente da Chitone, non sente desiderio di morire, è perché non sente noia della sua immortalità. E se l'Italiano non sente noia della sua immortalità, è perché di questa sua immortalità egli non è cosciente. Non l'avverte, come non avverte il fluire del suo sangue nelle vene. Perché l'immortalità degli Italiani non è acquisita ma connaturata: è una immortalità/in dalla nascita.
Quello che gl'Italiani in massima non avvertono, io per me ho modo di avvertirlo. Per certo quale possibilità che io ho di staccarmi dalla mia propria natura e vederla in prospettiva. Come uno che può vedere se stesso mentre dorme.
Quando siamo soli tra noi, questa nostra condizione così singolare non è facile scoprirla. Solo chi conosce il «mistero degli Italiani» sa come va interpretata quella certa quale «noia» che noi sentiamo stando tra noi. E sapendo che questa noia è il segno appunto della nostra condizione di «immortali», non la disprezza ma la onora. Chiara invece appare la singolare condizione degli Italiani per effetto di raffronto, come al buio un corpo fosforescente tra corpi spenti. Chiarisssima mi apparve in Macedonia, ove io fui militare tra il 1917 e il1918, e che in quel tempo era come un enorme campo di studi comparativi tra i vari popoli della terra.
Immortale.
Quel tanto di greco che è in me, mi salva dal cadere nella superfetazione «spirituale» delle parole. È spaventosamente ridicolo quello che la gente pensa alla parola «immortale». «Immortale» rientra nelle comuni possibilità umane. Si tratta di non perdere il gioco oggettivo delle parole. Per aumentare la loro portata - e per ambizione -le parole vanno molto più in là del loro significato. Anche parlando, si dice «cento» per intendere «dieci». «Immortale» non è colui che non muore mai, ma colui che, in mezzo alla morte, sente la possibilità di non morire.
L'Italiano dunque.
Di questa continua «presenza» degli Italiani, non si parla né come né quando si dovrebbe. La dimenticano gli altri e la dimentichiamo noi. Ma come non avvedersi - come «fingere» di non avvedersi che les peuples s) en vont et les Italiens restent? Questa straordinaria «presenza», il solo Pasquale Villari, per quanto io mi sappia, l'ha espressa con parole da storico, quando fa l'elenco di tutti i popoli che sono nati alla civiltà, ne hanno scalata la vetta, e di lassù sono precipitati a spegnersi nel buio, mentre gli Italiani assistevano come dèi tranquilli al compiersi della parabola altrui. A nessuno come agli Italiani si addice il nome di Testimoni.
Ma questo dono di «immortalità» si paga. Si paga con un meno di vivacità, con un meno di carattere scavato, con un meno di originalità e di suggestività. Il carattere dell'italiano è disteso. Come una corda lunga e lenta. Pallido di tono. Tenue di sonorità. Diciamo la parola giusta: è grigio, sordo. Ormai anche i più restii a conoscerci avranno capito che diversamente da come credono gli ingenui, gli Italiani non sono un popolo allegro; non sono un popolo focoso; non sono un popolo passionale. Per una ragione naturale: perché gl'Italiani non hanno passioni.
E come potrebbero avere passioni? Le passioni bruciano, e l'Italiano è in combustibile come il tegamino di coccio refrattario.
La verità è che se gli Italiani dovessero vivere secondo la loro vera natura, ossia secondo questa loro natura refrattaria alle passioni e incorruttibile al tempo, essi vivrebbero inerti, impassibili e in istato di perfetta vegetatività. Ma implicati come sono nel consorzio umano, e per tanto tempo collocati nel centro del mondo civile, e anzi maestri essi stessi e dispensatori di civiltà, è necessario a questi «immortali» fingersi simili ai mortali e vivere apparentemente la costoro vita. Si capisce così quel che di «mimetico» è nelle cose degli Italiani, talvolta di «eccessivo», come spesso in quello che si fa riflesso e non per propria ispirazione.
Nel nostro Mezzogiorno i dolori e la morte sono accolti con manifestazioni smodate e gridi altissimi - appunto per meglio «nascondere» l'impassibilità dell'immortale di fronte al dolore e alla morte. Dal lato opposto, le eccessive manifestazioni di gioia dei nostri fratelli meridionali non sono se non la «maschera di gioia» di chi, essendo immortale, non è nelle necessarie condizioni di sentire la gioia.
Il Meridione.
Le province settentrionali sono più umanamente attive e utili, e agli occhi dell'Estero fanno più bella figura, ma s'intende che la vera natura degli Italiani è nel Centro e nel Mezzogiorno. S'intende che l'influenza che il Meridione esercita sul Settentrione è, malgrado le apparenze, più forte e più profonda dell'influenza che il Settentrione esercita sul Mezzogiorno. E più preziosa. Perché se il Settentrione largisce al Mezzogiorno i beni della vita mortale, il Mezzogiorno di rimando largisce al Settentrione il dono dell'immortalità.
Penso al mio amico Carrieri e alla sua vita così intensa che brucerebbe in pochi mesi l'uomo di qualunque altra razza, e invece non intacca minimamente la fondamentale «indifferenza» di lui italiano e meridionale. Ricordo le furie spaventose di mia madre, dalle quali indi a poco e senza transizione essa si ricomponeva nella calma e nel sorriso.
Un giorno, a Parigi, una mia amica francese mi annunciò un suo prossimo viaggio, ma poiché io non capivo se fosse avviata in Italia o in Spagna, essa mi rispose: «In Spagna naturalmente», e soggiunse «con dispetto», «le n'ai pas assez de force pour supporter votre sublime». Questa risposta mi è rimasta impressa nella mente, e soprattutto l'irritazione che la coloriva. Quella mia amica, inconsapevolmente, aveva espresso nella parola «sublime» il dispetto che ai popoli «mortali» fa la nostra «immortalità», e tanto più in quanto essa è vestita di povertà, di debolezza, di mancanza di materie prime, ecc. ecc. Di colpo mi si chiarì l'aridità della nostra politica, le difficoltà della nostra politica estera, quel che d'incongregabile distingue l'Italia in seno ai consessi internazionali. Anche sotto il travestimento meglio imitato, l'immortale non sfugge alla maligna vigilanza del mortale.
Bastano ormai poche parole a dimostrare che la nostra vita di nazione (la nostra vita di mortali, la nostra vita «simile alla vita altrui»), anche se accuratamente studiata, anche se perfettamente imitata, è azione riflessa. Poiché altri popoli hannno formato degli stati forti e conquistato degli imperi, anche gli Italiani ... ; poiché altri popoli hanno fatto delle rivoluzioni e hanno parlato di tempi nuovi, ora anche gli Italiani... Non si parli di superficialità, sÌ di azione «in superficie», ossia di azione che varia e passa, senza né trarre dal fondo proprio degli Italiani, né influire affatto su esso fondo. Superficiali, sono tremila anni che gli Italiani sarebbero stati spazzati via dal vento.

L'errore nella conoscenza degli Italiani deriva dalla errata conoscenza degli dèi. Si crede che un dio debba per forza essere la quintessenza dello spirituale ... Domandate a Giove se è «spirituale».
Uomini come Anthony Eden, ex studenti di Oxford e abituati agli ambienti di Proust, sono urtati forse da certa quale ruvidezza degli italiani. Essi non hanno pensato probabilmente alla figura che Vulcano, o Mercurio, o lo stesso Apollo farebbero nel salotto della duchessa di Guermantes.
Bisogna abituarsi agli dèi, e soprattutto a riconoscerli. lo entro da Aragno e vedo un uomo seduto a un tavolino. Creedo di salutare il mio amico Francesco Trombadori, e costui invece è un dio.
A simili incontri bisogna abituarsi con gli Italiani - con tutti gli Italiani.
Scriveva Erasmo da Rotterdam al suo amico Tommaso Moro: «Gl'Italiani sono tutti atei».
Sfido io! Loro stessi sono iddii ...
«Domenica», 10 dicembre 1944


Vitaliano Brancati
L'uomo d'ordine

Gl'italiani sono andati in proverbio come gli uomini intolleranti di disciplina, ripugnanti alla solidarietà, remoti ciascuno dall'altro, litigiosi, rissosi, ribelli. Stendhalli dipinge così, e tutti i viaggiatori stranieri dell'800, camminando per le strade d'Italia, si voltano a guardare ogni italiano come un modello singolare, essendo gli abitanti di questa terra simili unicamente nel fatto di essere dissimili.
Tuttavia questo popolo rumoroso, litigioso, ribelle, individualista, teme profondamente e come per istinto la Rivoluzione e le Riforme morali. Non è la paura della morte, che moltissimi sono pronti ad affrontare anche per inezie, né tanto meno la paura dei fastidi e disagi, nei quali tutti sono abituati a trascorrere i giorni, ma soltanto la paura di dover sottoporre a una penosa critica personale i propri costumi e atti, e di svegliare un mostro che le campane di migliaia di campanili hanno l'ufficio di addormentare col loro canto serotino: la coscienza.
L'ordine, che ama un certo uomo d'ordine in Italia, è quello che tiene a bada la coscienza e assicura all'ingiusto il «sonno del giusto». Non è vero che egli sia esclusivamente un conservatore di beni materiali, un avaro, un gretto, un egoista; in talune regioni e famiglie, lo si trova pronto a cambiare stato e condizione sociale, purché il cambiamento non accada in seguito a un travaglio di coscienza, a una condanna morale, a una controversia faticosa. Anche una società comunistica gli riesce gradita, a patto che 1'ordine nuovo sia già un fatto compiuto e non presupponga e includa un' aspra critica a talune forme di vita.
I critici, i moralisti, i riformatori sono per lui il disordine, e non gli bastano mai i corpi di polizia a cui affidare il mandato di cattura per siffatti signori.
Se i politici abusano per un poco di critica e di dubbi, egli li chiama con disprezzo politicanti; se i discorsi alla Camera si prolungano troppo, egli chiede con violenza che sia chiusa la Camera, e assapora con la mente una frase del '22: «Avrei potuto fare di quest'aula sorda e grigia un bivacco di manipoli»; e questo non perché ami le poche parole e i fatti, ma perché teme che, a furia di parlare, si trapassino i termini della discussione tecnica e si vada a finire nella critica del costume e del moralismo. La politica deve stare, secondo lui, il più possibile lontano dalla moralità (come se le rivoluzioni non fossero anch'esse politica), e cita a ogni passo Machiavelli per ammonire i suoi concittadini a tenersi stretti alla realtà, e a fare esclusivamente buona amministrazione (non si comprende poi perché i concittadini gli debbano fare buona amministrazione, se i principi del far bene e del far male sono totalmente trascurati nella sua politica).
Viene ad accordi anche coi briganti, ma in nessun caso con uno spirito protestante, onesto, inquieto e inquietante. il signor G.T. di Palermo ha trascorso una sera felice ospitando nella sua villa in campagna un famoso bandito col quale, sparecchiata la tavola, conversò fino alle tre del mattino. L'ospite alluse ai suoi delitti con molto spirito, e il signor G.T. gongolava di voluttà al pensiero che un uomo così terribile gli chiedesse scusa ogni volta che, per accendere la pipa, strofinava lo zolfanello sul pavimento. Esattamente un anno dopo, lo stesso signor G.T. trascorse una sera infelicissima a Palermo ospitando un professore di filosofia il quale, in un punto della conversazione, dichiarò che una patria sotto la tirannide non può considerarsi una patria e non ha più il diritto di pretendere amore e rispetto dai suoi figli. Senza dubbio, il professore avrà messo troppa gravità nella sua dichiarazione, perché i moralisti italiani hanno la disgrazia di diventare «marmorei» nel momento in cui fanno una dichiarazione solenne, ma in fin dei conti era un uomo onesto, povero, diritto, e non aveva ucciso nemmeno una mosca. È un po' strano che il signor G.T. abbia regalato proprio a questo brav'uomo la qualifica di «criminale», mentre continuava a considerare il bandito, autore di venticinque delitti, un «uomo di spirito». D'altro canto il giorno che subì un furto da parte di un pastore agl'inizi della carriera di ladro, egli si recò da un deputato suo amico per pregarlo di fare un discorso alla Camera in difesa della pena di morte contro le persone che rubano «in un periodo così delicato com'è quello che segue a una guerra disastrosa».
L'unico foglio stampato, che rassereni oggi il suo viso, è il settimanale «L'Uomo qualunque» che, con foga e brutalità, scopre o inventa le macchie di uomini che sono reputati o si dichiarano senza macchia. Egli non ammette che esistano uomini senza macchia; è questa una presunzione che lo manda subito in bestia. Gli eroi della moralità, se pure hanno visto la luce qualche volta, sono tutti morti da secoli; egli ha fretta di sapere che attorno a lui non ce n'è nemmeno uno, che i suoi concittadini ritenuti tali nascondono anch' essi la loro macchia e sono dunque simili a lui. Il settimanale «L'Uomo qualunque» lo serve con molto scrupolo e minuzia in questo suo desiderio sì da spezzargli l' orizzonte di qualsivoglia minima ombra o sospetto di onestà e dignità. La lettura delle colpe di coloro che si ritengono incolpevoli lo manda in estasi. Dopo questa lettura, dal punto in cui egli sta seduto a quello in cui il cielo si confonde col mare, tutto è diventato fango e vergogna, e dunque non può chiamarsi nemmeno fango, ma è la vita stessa (qui l'uomo d'ordine diventa patetico), la povera vita umana, spogliata di ogni menzogna e velleità. «Così sono fatti gli uomini, questa è la loro natura, chi cerca di riformarli è un pazzo criminale che si propone di turbare l'ordine. Venga fuori la polizia! Si accenda il rogo! Lo si bruci e disperda!».
Un simile modo di considerare le cose del mondo è assai vicino alla comprensione del filosofo, dello storico e del poeta, e tutte le volte infatti che riesce a purgarsi di qualunque egoismo è fonte di pensiero e poesia. Ma sfortunatamente queste volte diventano in Italia sempre più rare: la disonestà, che si ripara dietro siffatta riluttanza a venir criticati e riformati, diventa sempre più grave; la corruzione, che non vuole essere disturbata e interrotta nel suo processo distruttivo, sempre più nera.
E a questo punto, chi ci ha portato? Vizi e virtù uniti insieme: lo scetticismo, l'umanesimo, la comprensione, la fede, la stanchezza, la saggezza, la misericordia e l'egoismo, virtù e vizi che si danno a vicenda la mano e si mettono d'accordo ora per generare I promessi sposi o L'Orlando furioso, ora per aggravare la disonestà, in un patto che da alcuni anni pende troppo a favore del male. Non credo che quest'ultima diffidenza per la riforma morale sia da imputarsi alla Chiesa cattolica, la quale ha prodotto solitari moralisti e accoglie nel suo seno l'incitamento di san Francesco, il più forte che abbia dato l'Italia nel campo della moralità. Piuttosto alla società italiana stessa è da imputarsi la Chiesa cattolica quale massima rappresentante di questa diffidenza contro il Pensiero, la Critica, la Riforma.
Né l'uomo d'ordine che teme le inquietudini della coscienza si trova unicamente nella classe borghese. Si può dire anzi che questo tipo d'uomo, assai frequente nell' aristocrazia feudale e in un certo popolo che volentieri le obbediva (il popolaccio napoletano che mandò al patibolo i rivoluzionari del '99), fu diminuito di autorità e merito dai borghesi del Risorgimento, e quasi debellato dai socialisti dell'ultimo '800, ma è riapparso nel '900 sotto la forma del capo e del popolo che volentieri gli obbedisce (la massa dei gregari).
La ripugnanza per la critica, la libera stampa, le due Camere, il teatro di costume fa che l'uomo d'ordine chieda in ogni momento la censura preventiva. Per chiedere questa legge straordinaria, egli sceglie l'occasione di una menzogna o di una calunnia o di una sconcezza, ma in effetti è impaziente di applicarla contro la scottante Verità, la fastidiosa Critica, la noiosa Ironia.
Quando poi la ripugnanza per la riforma morale si unisce all'avarizia (cosa che accade oggi in parecchi possidenti), e nell'ordine che difende l'uomo d'ordine vengono inclusi le ballerine, il gioco d'azzardo, il diritto di far valere la propria ignoranza più della cultura, il proprio ozio più del lavoro, la propria arte d'imbrogliare più del genio, quando al timore della moralità, l'uomo d'ordine cessa di essere qualificabile e finisce a meravigliare e quasi incantare le menti che s'inchinano a tutto quanto è contraddittorio, mostruoso e inspiegabile: talmente in lui la mollezza del locale notturno si mescola e confonde con la bestialità delle selve preistoriche.
«Il Tempo», 12 dicembre 1946

Giovanni Ansaldo
Il piccolo borghese

L'ora della fiducia, per noi (vogliamo dire l'ora in cui lo «scivolamento» nel comunismo ci appare più improbabile, l'ora in cui la guerra civile ci appare più lontana, l'ora in 'cui vediamo più sereno nell'avvenire del paese), sono le otto del mattino, quando ci capita di arrivare a Milano con uno dei diretti della notte, e ci facciamo a piedi il tragitto dalla stazione a piazza Aspromonte, dove abitano certi nostri parenti; attraversando così una zona abbastanza vasta della città.
Allora Milano ci appare in tutto il suo vero e schietto splendore. La gente che a quell' ora è in piedi, e va al lavoro, è, in genere, molto bene aggiustata di vestiti. Il livello di vita raggiunto dalla grande città padana risalta, molto meglio che dalle toilettes delle serate della Scala, dalla quantità di piccoli tailleurs seri e ben fatti, portati dalle ragazze che vanno in ufficio, e dalla quantità di tute blu, proprie e pulite, degli operai che vanno in fabbrica. Più ancora poi che questa testimonianza di un certo margine di prosperità materiale, ci colpisce il passo di tutti, che non sapremmo definire meglio che con l'aggettivo «alacre»;· un passo che rivela una accettazione volenterosa del programma di attività della giornata, una certa soddisfazione di sé e del proprio lavoro, una generale e diffusa volontà di -fare qualche cosa, di andare avanti, di progredire nella vita. Ci sono certe mattinate di queste, in cui ci fermiamo a guardare il modo in cui la gente prende il tram, o ne scende; ci sentiamo riconfortati da quello spettacolo banalissimo, cui nessuno, di solito, fa attenzione, ma che, osservato bene, rivela assai più cose sul carattere di una popolazione, di quante non si possano sospettare.
Ma la categoria di gente che suscita di più il nostro silenzioso e contento entusiasmo, è quella dei padri di famiglia che accompagnano i ragazzi a scuola. Ce n'è ancora una quantità fortissima. La vista, la semplice vista di tutti quei padri che fanno coincidere l'ora di andare in ufficio con l'ora di accompagnare i ragazzi, e camminano accanto a loro senza smancerie e senza leziosaggini, e fanno loro segno di montare svelti in tram senza fare le marmotte, e li congedano alla porta dell'istituto con un segno del capo che riassume tante cose; la vista, la semplice vista di tutti quei ragazzini ben lavati, ben pettinati, con le scarpe bene allacciate e i cappottini o i grembiulini bene abbottonati, esercita su noi un effetto corroborante. Ci compensa delle impressioni tremende che abbiamo avuto poche ore prima dall' aspetto dei gabinettisti romani seduti in scranna, o dei faccendieri viaggianti in pullman; ci ristora delle amarezze e del disgusto determinati in noi dalla osservazione, pur così facile, in altri ambienti e in altre ore della giornata, di tanti aspetti dello spappolamento sociale, di cui Roma offre, più che ogni altra città italiana, i segni trionfali. E ci rivela un dato di fatto; che cioè, tra tante discussioni sulle colpe e le responsabilità politiche e sociali della borghesia, anzi dopo tante discussioni su ciò che sia borghesia, c'è ancora una grande quantità di case piccoloborghesi in cui la sera si mette la sveglia e la mattina ci si alza presto, tutti quanti, e si mettono in ordine i ragazzi, e si controlla se si sono lavati i denti e il collo, e si fa la verifica della cartella per vedere se hanno preso i libri di testo occorrenti e il foglio di carta protocollo e la biro, e si ricomincia la vera e grande battaglia della vita, che è quella di portare avanti seriamente una famiglia, senza stare a far tanta letteratura sui problemi sociali, sul problema della libertà e sulle «istanze sociali», care a coloro che hanno sempre trovato modo di avere uno stipendio senza doversi alzare alle sette, o magari fanno accompagnare i loro figlioli in macchina ...
Ed è in quell' ora che ci appare più chiaro un fatto: ed è che l'Italia, nonostante due guerre in un trentennio, e la conseguente duplice svalutazione liquidatrice del vecchio risparmio ereditario; nonostante una corruzione e un rimbecillimento del costume portato prevalentemente dal cinema e dalla radio, ma favorito anche dalla stoltezza del ceto politico; nonostante una legislazione che pare fatta apposta, ed in parte lo è, per proletarizzare quanta più gente sia possibile, è ancora piena di piccolo-borghesi, o di aspiranti piccolo-borghesi. Perché va bene che noi facciamo, quando ci capita, quelle nostre osservazioni, in quartieri centrali di Milano; ma badate che, verso la stessa ora, lo stesso spettacolo si presenta anche nei quartieri periferici di Milano, anche negli agglomerati inndustriali e operai. Inutile contare storie: molta della gente che va al lavoro a Sesto o alla Bovisa potrà darsi tutte le arie che vuole di proletaria; ma a quell'ora è piccolo-borghese; ed è piccolo-borghese perché quella è l'ora dei progetti, dei piani, delle ambizioni, e tutta questa roba, che ciascuno porta nel segreto della sua testa, si appunta a un obiettivo solo, vero, essenziale: raggiungere un livello di vita piccolo-borghese. E l'uomo è ciò che aspira a diventare. L'attenzione, la cura, l'orgoglio familiare in cui tanti, tantissimi operai accompagnano, appena possono, i loro bambini a scuola, la dicono lunga a chi sa guardare con i raggi spettroscopici nel cervello della gente, prescindendo dalle classificazioni delle statistiche sindacali, o dei risultati elettorali. Ma c'è di più; lo stesso spettacolo si presenta, sia pure attenuato e ridotto, in tutte le città d'Italia, anche in quelle che sono lontane dall' avere raggiunto il livello di vita di Milano. Volere o non volere, l'Italia è piena di gente che, verso le otto di mattina, imita inconsapevolmente i piccoli borghesi di cui è piena Milano, e che ha in capo le stesse aspirazioni familiari e sociali. Si può dire, con certezza, che tutti gli italiani che valgono quattro soldi, e che contano qualcosa nella vita del paese, a quell' ora hanno una venatura di somiglianza con i borghesi milanesi che incontriamo andando dalla stazione verso via Borghetto, o altrove. Poi, nelle ore che seguono, molti di essi si diranno, e crederanno di essere proletari, e compreranno «l'Unità», e avranno per la borghesia il più grande disprezzo possibile; ma non importa. Essi sono stati piccoli borghesi, nell'ora più importante della loro giornata ... li paese sta in piedi per loro.
Più esattamente. Dietro a tutta la scrocconeria di grossi guadagni realizzati da certi ceti borghesi conIa complicità di un'alta burocrazia, che è l'erede più diretta e legittima della prelatura profittatrice della curia romana; dietro a tutto lo scarso rendimento di grandi masse di popolazione operaia e contadina, nelle cui teste ormai è entrata l'idea che per fare la rivoluzione sociale bisogna lavorare poco, e la convinzione che per essere un buon comunista bisogna essere sfaticato; dietro il «facilismo» di cui è pervasa e corrosa la vita sociale italiana, e per cui si potrebbe assumere come motto da metttere sullo stemma della repubblica, il «tanto fa lo stesso» di tutti gli abborracciatori e i fannulloni, c'è pure una quantità di piccoli borghesi o aspiranti tali, che tengono ancora duro sulle linee di resistenza della morale sociale che, tanto per darle un nome che tutti capiscono, si può chiamare la morale sociale dei nostri padri. Di questi piccoli borghesi irriducibili ce n'è dovunque. Se vi presentate alla biglietteria di una stazione per fare un biglietto, voi trovate molto spesso impiegati pigri e pasticcioni, che vi servono di malavoglia, facendovi capire che sono stati veramente disgraziati a finire lì, perché il loro mestiere vero era quello di fare il reddituario; ma vi trovate anche impiegati rapidi e precisi, che vi servono in un batter d'occhio, sono contenti anche di rispondervi «prego», se voi gli dite, come è vostro dovere, «grazie». Se voi entrate in un grande magazzino, voi trovate, sì, la maggioranza delle commesse che, dal modo in cui vi rispondono, si vede subito come esse sognino ben destini somiglianti a quello luminosissimo di Anna Maria Caglio; ma ne trovate anche molte altre che per un biglietto da mille al giorno stanno lì in piedi dalla mattina alla sera, e hanno anche la forza di incartarvi a modo i vostri acquisti, e di presentarvi il pacchettino con una cortesia, come se intascassero esse quello che voi pagate. Se voi portate una lettera da battere a macchina in una copisteria, voi avete, si, una forte percentuale di probabilità di trovare dattilografe avventurose, che tirano via senz' altra preoccupazione che di arrivare alla fine della giornata, e vi consegnano un dattiloscritto da schiaffi; ma ne trovate anche di quelle che hanno l'amor proprio della copia precisa, e stanno cinque minuti con la gomma a grattare un errore per cui voi le avete pur detto: «Non importa». E avanti così. Questo, intendiamoci, avviene un po' in tutti i paesi del mondo, perché dovunque sono i meno quelli che tirano il carro, e i più quelli che ne profittano. Ma questo è vero soprattutto in Italia; e in nessun paese, come nel nostro, è cosÌ vivo lo stacco della minoranza che lavora seriamente, dello sfondo della maggioranza; che fa finta di lavorare e assume come gran principio di condotta pratica quello di buttarsi «all'imbraca» come dicono a Livorno.
E se voi ponete mente, vi accorgerete di un fatto stranissimo. Questi piccoli borghesi, che tengono in piedi il paese, lungi dall' essere lodati e ringraziati con il cappello in mano del servizio che essi ci fanno a tutti, sono severamente criticati. Cominciamo noi, proprio noi «nominati» (vero, Longanesi? vero, Montanelli? vero, Canino?) a canzonarli, perché spesso il loro gusto non è molto sicuro in fatto di arte, di cinema, di abitazione, di ammobigliamento, o di moda, e perché, di solito, i loro piani di avvenire non vanno molto più lontano dell'acquisto di un appartamento in cooperativa, o di un frigorifero pagabile a rate. Poi continuano a biasimarli severamente tutti gli spacciatori di carta (male) stampata di cui è sÌ ricca l'Italia, i quali trovano che essi leggono troppo poco, e non hanno cura della loro cultura, e non tengono dietro alle novità letterarie, e trascurano di fare uno sforzo per elevare la media della produzione libraria italiana. Poi arrivano, più severi di tutti, gli impresari di ideologie politiche o, più semplicemente, di elezioni; i quali rimproverano agli ultimi buoni e seri e laboriosi borghesi italiani di non occuparsi abbastanza di loro e di non dedicare una sufficiente attenzione alla lotta di tendenza nel prossimo congresso democristiano, di non rendersi conto dell'enorme importanza del movimento europeistico, di non capire tutta l'importanza della posizione rigidamente centrista del partito liberale, e cose simili. Sissignori, in questo strano paese, tutte le migliaia di addetti agli «uffici stampa» delle imprese più svariate, cioè tutti i profittatori dichiarati dell' attività pratica dei piccolo-borghesi che lavorano, rimproverano severamente a costoro di non badare abbastanza ai loro discorsi e ai loro programmi; cioè, in buona sostanza, di lavorare troppo, e troppo seriamente. E la grande accusa che tutti i mantenuti della politica, cioè i falliti delle professioni serie, rivolgono a coloro i quali hanno invece una professione che dà loro un guadagno, e la esercitano seriamente, è l'accusa di «qualunquismo»; cioè l'accusa di non badare sufficientemente a loro ...
Ora, noi, invece, vogliamo cominciare con il fare ammenda di quei pochi scherzucci da dozzina che, di tanto in tanto, rivolgiamo ai piccolo-borghesi; e ne facciamo ammenda sia a titolo personale, sia a nome e per conto di tutti gli amici che redigono questa rivista; assicurando a tutti i piccolo-borghesi che ci fanno l'onore di leggerci che le nostre critiche, caso mai, sono sempre ispirate dall'amore, dalla voglia che abbiamo di vedere la piccola borghesia italiana, di cui siamo figli, sempre più rispettabile e degna. E poi incitiamo come meglio sappiamo tutti i piccolo-borghesi italiani a non lasciarsi per niente impressionare dalle critiche degli altri, di coloro che non chiedono loro scusa. Continuino, li scongiuriamo, a darci dentro più che possono nel loro lavoro, con il miraggio, sissignori, dell' appartamento costruito a cooperativa e con il frigorifero pagabile a rate. C'è più vera resistenza contro il comunismo in questi loro piani, che in tutti i discorsi ventosi di coloro che rimenano il «problema della libertà» come se fosse la pasta all'uovo lavorata sulla madia; ma non ne cavano tagliatelle, o per lo meno non ne cavano tagliatelle altro che per loro ...
Qualche settimana fa, un nostro figliolo, che va a una scuola media, ritornò a casa di malumore. il malumore dipendeva dal fatto che le prospettive dello sciopero dei professori, bandito per l'indomani, non erano per lui e per la sua classe ridenti promettitrici di vacanza, come per le altre classi dell'istituto. La sua professoressa, infatti, aveva avvertito lui e i suoi compagni di badare bene, all'indomani, di recarsi puntualmente a scuola, perché essa non intendeva fare sciopero. «lo sono contro allo sciopero, e sarò in classe; quindi ci dovete essere anche voi, se no vi tolgo la media della condotta». Questo era stato il succo del suo brevis sermo.
Ci parve un succo nutriente. E pochi giorni dopo, incuriositi di conoscere una professoressa così corrispondente ai nostri segreti ideali, andammo all'istituto per chiedere notizie del nostro figliolo.
Ci presentammo all' ora dovuta, nella saletta dei professori. La signora ci accolse in piedi, con cortesia, ma senza 1'ombra di un complimento. Si vedeva benissimo che il fatto che noi dirigiamo il più grande giornale della città non influuiva per nulla sul suo atteggiamento, e che essa, in certo qual modo, teneva a farci sentire che eravamo in casa sua. Non ci rivolse nessunissimo complimento per i nostri articoli; pareva che non ne avesse letto mai uno, e che ignorasse completamente che noi ne fossimo fabbricanti piuttosto accreditati. Ci fossimo presentati con il nome di Gennaro Esposito anziché con il nostro nome, il suo trattamento non avrebbe potuto essere diverso. Saputo lo scopo della nostra visita, prese dal tavolo il suo registro, lo aprì, ci comunicò i punti toccati al ragazzo nelle ultime interrogazioni, ci diede sinteticamente la sua valutazione, piuttosto severa, dell'interessato. E siccome noi, vili come tutti i padri in queste circostanze, cercavamo di raggiungere una leggera consolazione chiedendo se, in relazione ai compagni, il ragazzo era almeno un tantino migliore, la professoressa ci troncò subito ogni speranza. «SÌ, qualche linea. Ma che cosa vuol mai! Sono differenze infinitesimali. Non mette conto di parlarne. La verità è che tutta la classe è giù, perché 1'asinità dilaga, come diceva Ferdinando Martini ... ».
E con questa citazione del Martini, che rivelava in lei letture piuttosto passate di moda, la degna signora ripose il registro sul banco, e ci congedò. Noi, scendendo le scale, non sapevamo se essere malcontenti delle cattive notizie avute sulla carriera scolastica di nostro figlio, o soddisfatti di sapere che il ragazzo aveva da fare con una insegnante così simile a quelli con cui abbiamo avuto, un tempo, da far noi; e come ce n'è, ancora, e più di quanti non si creda, nelle scuole italiane. E finimmo per deciderci per la soddisfazione ...
Auguriamo a tutti i padri che vediamo accompagnare a scuola i loro figlioli, quelle mattine in cui ci capita di arrivare a Milano da Roma in uno dei diretti della notte, e facciamo a piedi il tragitto dalla stazione a piazzale Aspromonte, un insegnante così. I loro ragazzini, ben lavati, ben pettinati, con le scarpe bene allacciate e i cappottini o i grembiulini bene abbottonati se lo meritano.
«Il Borghese», 18 giugno 1954

Leonardo Sciascia
Don Abbondio

Nel capitolo VIII dei Promessi sposi - quello in cui Renzo e Lucia si introducono con uno stratagemma in casa di don Abbondio a che, suo malgrado, li faccia marito e moglie - nel descrivere la confusione che ne segue per la pronta reazione di don Abbondio, Manzoni dice: «In mezzo a questo serra serra, non possiamo lasciar di fermarci un momento a fare una riflessione. Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s'era introdotto di soppiatto, e teneva il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l'apparenza d'un oppressore; eppure, alla fin de' fatti, era l'oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato, mentre attendeva tranquillamente a' fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo ... voglio dire, così andava nel secolo decimo settimo».
La battuta ironica che conclude la riflessione dice della ragione stessa che l'ha suscitata: Manzoni non sta parlando soltanto del secolo decimo settimo, ma anche del suo, del nostro, dell'Italia di sempre. E del resto tutto il romanzo ma non so quando si capirà appieno e, soprattutto, quando in questa chiave lo si farà leggere a scuola - è un disperato ritratto dell'Italia.
«Corriere della Sera», 3 agosto 1985

Barbara Spinelli
Montecchi e Capuleti

Di punto in bianco si sta scoprendo che la Gente in Italia non è il cosmo rotondo e perfetto che fu vagheggiato all'inizio di Tangentopoli. Non incarna il bene, né il vero, né il bello. Non è il popolo buono che si oppone ai politicanti malvagi, e che impone giustizia e buon governo là dove c'erano ingiustizia e malaffare.
Di punto in bianco si scopre che la società civile è forse un'invenzione, una beffa, una trappola. Aveva suscitato tante speranze, questa società civile. Tutti si precipitavano ai suoi piedi, tutti la carezzavano, tutti volevano averla come ospite, nelle cene. Ed ecco che d'un tratto la Gente appare diversa, come smascherata dopo il successo di Berlusconi, della Lega e dei neofascisti: da bella è diventata bruttissima; da civile è diventata massimamente incivile. E non solo incivile ma idiota: improvvisamente gli italiani sono descritti come un popolo di pecore che si fa suggestionare dagli spot televisivi, e non sa usare il suffragio universale che inavvertitamente gli è stato concesso.
Sembra una fiaba con fine infelice: in principio c'era il principe, e nelle ultime righe si apprende che invece era un rospo. Così si è passati dalle enormi illusioni a un disinganno non meno enorme, non meno definitivo, perentorio. Non c'è motivo alcuno di sperare negli italiani, conclude Eugenio Scalfari, sulla «Repubblica» di domenica: gli italiani sono sempre stati così, divisi per bande, senza senso dello Stato, senza morale. Incapaci di affratellarsi, di celebrare le Pasque e comunicare in esse. Ineluttabilmente le cose dovevano concludersi come si sono concluse: il male è storico, e inestirpabile.
Abbiamo nel sangue i cromosomi dei Montecchi e dei Capuleti, e questa è la ragione sufficiente che spiega tutti i nostri mali, del passato e del presente. Disingannato, Panngloss scopre che il mondo va nel peggiore dei modi possibili, ineluttabilmente: la favola di Voltaire si rovescia, non è più fede positiva ma negativa: tuttavia fede resta, candida fede in una storia ineludibile, lineare, teleologica. Questa delusione da parte di chi ha perso le illusioni, oltre che le elezioni, è l'as12etto più triste della politica italiana all' indomani del voto. E triste non a causa del disinganno, che è sempre salutare. Non a causa della tristezza in sé, più che giustificata in chi ha perduto. È triste perché le elezioni del 27 e 28 marzo [1994 N. d.R. ] sono vissute e presentate come Ultima Guerra, come Madre di tutte le battaglie, come una sorta di '14-'18 che inghiotte per intero la civilizzazione. Come se non potesse accadere più nulla, dopo simile voto: come se non esistessero altre elezioni in futuro, da preparare e da vincere.
Come se fossimo entrati in un nuovo regime, per altri cinquant'anni: senza possibilità di ricambio, di alternanza, senza ulteriori occasioni in cui poter giudicare i governanti, per promuoverli o bocciarli. Da un popolo così mostruoso non ci si aspetta più nulla: né capacità di giudizio, né attitudine a cambiare opinione, la prossima volta. Lo stesso suffragio universale è svalutato, a causa del disinganno, e non ci sarà una prossima volta: dentro le urne è avvenuta l'apocalisse, la fine della storia. Le urne stesse sono mostruose, urne fatali. Se un partito totalitario volesse prendere il potere in Italia, in questo momento, potrebbe farlo tranquillamente perché gli sconfitti già hanno incrociato le braccia, disgustati o impauriti dalla gente che li ha colti di sorpresa. Invece in democrazia non c'è mai un ultimo turno, c'è sempre una prossima volta: proprio perché l'elettore è mutevole, e una volta promuove e più volte ancora censura. E soprattutto in questi ultimi tempi la gente oscilla, ovunque in Occidente: sono troppi i motivi d'inquietudine, troppi i mali di cui soffre, troppe le paure, per restare aggrappati per lungo tempo a un partito, per fissarsi durevolmente su un leader. Balladur fu molto popolare tra i giovani francesi, all'inizio della legislatura. Poi si è visto che neppure lui aveva ricette per combattere la disoccupazione, e gli stessi giovani sono scesi in piazza e ne hanno piegato le volontà.
La democrazia .cl' altronde non è altro che questo: è un metodo per evitare le urne fatali, è una procedura che consente alle famiglie dei Montecchi e Capuleti di competere e lottare l'una contro l'altra senza spargimento di sangue. La democrazia non nasce quando le società sono già pacificate, e hanno già il senso dello Stato, della comunità. In genere anzi si indebolisce, quando c'è questo tipo di consenso e tutti sono d'accordo. La democrazia è guerra civile quotidianamente superata, ed è nata nell'Europa del XVI secolo a causa delle guerre di religione, precisamente perché non esisteva più alcun senso della comunità. La democrazia non è una Pasqua, non è una comunione. Non è la trasposizione delle perfezioni celesti nel mondo terreno. Non è neppure quel che dice il presidente Scalfaro: «Convincere l'avversario»; è stato così nella democrazia consociativa, per tanto tempo, e il risultato è stato che l'Italia non ha avuto un' opposizione efficace, e che i comunisti sono stati visti dalla gente come partito di governo. Con l'avversario si entra in conflitto civile, non lo si persuade né lo si coopta. La democrazia è la vittoria delle procedure sulle convinzioni, del metodo sulle fedi e le famiglie contrapposte. È governare la gente a dispetto della sua inestinguibile litigiosità, è scommettere sempre di nuovo sul suffragio universale, pur conoscendone le trappole e le mostruosità.
«La Stampa», 5 aprile 1994

Beniamino Placido
Il maturando

Che senso ha fare sempre (e soltanto) la boxe con l'ombra, o la boxe allo specchio? O menare grandi pugni contro un innocente punching ball? Non sto parlando del pugilato. Sto parlando dei temi che sono stati assegnati quest' anno (anche quest'anno: sarà vero che sarà l'ultimo?) agli esami di maturità. Intendiamoci: il temutissimo tema - che ogni anno viene discusso e preparato in gran segreto, poi chiuso in una busta sigillata col cemento, poi seppellito nel caveau del Ministero della Pubblica Istruzione e guardato a vista giorno e notte da carabinieri a cavallo (nessuno deve saperne nulla, nessuno deve conoscerlo prima' del tempo) - questo tipo di compito scritto appartiene a un preciso genere letterario. Fermo e immobile come il sonetto, come il poema cavalleresco in ottave, come il romanzo storico. Ha le sue regole, il genere letterario «tema per la maturità», e vuole vederle rispettate. Appartiene al genere letterario-sportivo «boxe con l'ombra». O allo specchio. O col punching ballo Esercizi di preparazione dove il pugile in doveroso allenamento per il prossimo incontro somministra un mucchio di cazzotti al suo immaginario avversario. Che però non c'è, non può rispondere. Vero è che anche questo tipo di allenamento ha la sua utilità funzionale, molte volte me l'hanno pazientemente spiegata.
Ma sta di fatto che il boxeur si allena veramente, seriamente, soprattutto quando affronta avversari veri. Quando sale sul ring insieme ai suoi feroci sparring-partners che non si risparmieranno e non lo risparmieranno. Ne prenderanno da lui, ma gliene daranno anche. E di santa ragione. Così i riflessi gli si fanno acuti. Così la cute gli si ispessisce e sarà davvero pronto al combattimento, per il giorno fissato. Il nostro giovane maturando si sta preparando (così si dice, così gli si dice) a quel gran combattimento che è la vita, e lo si fa allenare soltanto con la sua ombra. O con lo specchio di casa. O tutt'al più con un inoffensivo punching ballo Non gli si presentano alternative. Avversari veri non ne vede mai. Vediamo i tre temi, quelli fondamentali perché generali assegnati quest'anno. Il primo riprende da Cesare Pavese l'idea che «quando un popolo non ha più un senso vitale del suo passato si spegne». Che bello! Che colpi, che finte, che schivate si possono improvvisare di fronte a un tema siffatto. Lo svolgerei volentieri anch'io. Ma dov'è l'avversario? Dov'è la tesi opposta? Non era il caso di accennarla? Non era il caso di dire che alcune esperienze storiche di non poco rilievo `la formazione degli Stati Uniti d'America, intanto - si sono basate proprio sul progetto di liberarsi dal passato europeo (basta con i vostri castelli, le vostre torri, le vostre corti) in' quanto giudicato ingombrante, paralizzante? Più interessante il secondo tema. Dai Promessi sposi. Dal confronto fra don Rodrigo (i suoi bravi) e don Abbondio. Sul «sempre disposto all'ubbidienza», pronunciato da quest'ultimo. Ma anche qui, troppo facile. È boxe con l'ombra, quella che si propone di fare all' esaminando.
Chi è che non preferisce (nei compiti in classe, si capisce) la disubbidienza civile alla ubbidienza passiva? Eppure di recente si è riflettuto - e non poco - sulla cosiddetta «zona grigia» della società. Che ha i suoi demeriti, certo: non si ribella mai. Però anche i suoi meriti, modesti ma non trascurabili. Ammaccata, indolenzita, umiliata, tira avanti. Indomita in modo passivo ma indomita, conserva la vita: come può, finché può. La si può «eroicamente» condannare, senza fare nessuno sforzo per capirla, questa parte così ampia della nostra società: di più, della nostra umanità? Più semplice il terzo compito. Sulla rivoluzione industriale dell'Ottocento. E sul ruolo che vi ha giocato (quando l'ha giocato) l'Italia.
Tuttavia anche qui è implicita nella «traccia» del tema una concezione tutta positiva del fenomeno. Avervi partecipato è bene, non avervi partecipato, o avervi partecipato con ritardo, è male. Così si blocca in anticipo ogni possibilità di svolgimento (del tema) sui risvolti negativi della rivoluzione industriale medesima. Eppure pare ci siano anche quelli. Con questo, ci pare di aver svolto il nostro compito annuale. È un compito «in classe» anche questo nostro, costretti ogni anno a commentare le tracce dei temi della maturità assegnati. E a criticarne, a stanarne i difetti. È un genere - non letterario certo, ma giornalistico - anche questo. Sinceramente vorremmo esserne liberati. È troppo sperare che con il prossimo anno veramente l'esame di maturità cambierà? Non sarà più il consueto esercizio di virtuosismo eseguito in virtuosa difesa delle virtù civili che ci vantiamo ogni anno, in questo periodo, di praticare? Per iscritto?
«la Repubblica», 27 giugno 1996

Giuseppe Pontiggia
Il fesso

Fesso, in Italia, è una parola chiave. Non c'è aggettivo che lasci tanto trasparire controluce, nella sua ascesa tra Otto e Novecento e nel suo attuale declino, la storia di una nazione.
L'etimologia di fesso è debitamente oscena. Fessa, da fendere (cioè dividere, spaccare), era nei dialetti meridionali l'organo genitale femminile. Per quel percorso mentale tipicamente umano e particolarmente italiano, che consiste nello svalorizzare ciò a cui si dà più valore, fesso, come minchione, è passato a ingrossare la prolifica famiglia dei genitali che si aggirano, tra orgogliosi e umiliati, nell' area semantica di stupido. Plebiscitario, ben oltre i limiti regionali, il successo di fare fesso, cioè ingannare, truffare, frodare.
Attenzione però. Fesso ha connotazioni complesse, non prive di nobiltà, tanto che Panzini, nel suo Dizionario moderno del 1905, afferma che «vale stupido, di buona fede e poi gentiluomo». Mi viene in mente il ma collocato strategicamente da Manzoni in un giudizio di don Ferrante (<<galantuomo sì, ma acuto») che corregge mentre afferma e afferma correggendosi: salva il galantuomo, ma insinuandoci un dubbio letale.
Una conferma la troviamo nel Grande dizionario della lingua italiana del Battaglia, in corso di completamento presso la Utet, che alla consueta sequela di contumelie riservata al fesso, aggiunge: «che non sa o non vuole approfittare delle facili e vantaggiose occasioni; che è incapace di farsi valere, spesso per mantenersi fedele ai propri ideali di giustizia e di onestà (per lo più usato come ingiuria)>>.
Sempre illuminanti le espressioni idiomatiche:fare il fesso, cioè fingere, se si è in difficoltà, di non sapere niente; e, C0111 locuzione esortativa, non fare il fesso, invito ad approfittarvi, senza troppi scrupoli, di una opportunità vantaggiosa. Immagino che l'appello sia diventato pleonastico tra i politici.
Ai primi del Novecento però, in un periodo in cui ci si illudeva ancora, dopo aver fatta l'Italia, di fare gli italiani, si capisce che fesso sia uno snodo cruciale. Giuseppe Prezzolini lo pone al centro, in antitesi con furbo, del suo Codice della vita italiana, pubblicato in volume dalla «Voce» nel 1921 e riproposto nel 1990 dalla Biblioteca del Vascello. Il tono di Prezzolini appare esacerbato e sarcastico, come è destino della satira, frutto tossico di un amore tradito.
L'esordio ha l'inesorabilità della fine: «I cittadini italiani si dividono in due categorie: i furbi e i fessi». Non si può definire il fesso. Però, se tra i suoi comportamenti: «dichiara all'agente delle imposte il suo vero reddito; mantiene la parola data anche a costo di perderci, eccetera, questi è un fesso». L'articolo 4 del Codice puntualizza con astuta finezza: «Non bisogna confondere il furbo con l'intelligente. L'intelligente è spesso un fesso anche lui». Quanto all' antiquato dovere: «è quella parola che si trova nelle orazioni solenni dei furbi quando vogliono che i fessi marcino per loro». E l'articolo 10, nella sua brutale rusticitas, ricapitola una esperienza sedimentata: «L'Italia va avanti perché ci sono i fessi. I fessi lavorano, pagano, crepano. Chi fa la figura di mandare avanti l'Italia sono i furbi che non fanno nulla, spendono e se la godono». Sulla possibilità di un riscatto, Prezzolini non indulge alla speranza: «Ci sono fessi intelligenti e colti, che vorrebbero mandare via i furbi. Ma non possono: 1) perché sono fessi; 2) perché gli altri fessi sono stupidi e incolti, e non li capiscono». Gli articoli finali sono una summa dell'agire politico nell' ambito dell' economia: «Il fesso si interessa al problema della produzione della ricchezza. Il furbo soprattutto a quello della distribuzione». Ma solo l'ultimo spiega il successo di cui hanno goduto i politici più furbi, se vogliamo esercitare una charitas lessicale: «L'Italiano ha un tale culto per la furbizia, che arriva persino all' ammirazione di chi se ne serve a suo danno».
Sulla fortuna calante dell' aggettivo fesso, che non so quanto statisticamente fondata, ma che mi sembra vera, si potrebbero avanzare alcune ipotesi. Una è che l'espressione «Ca' nisciuno è fesso» è qualcosa di più che una frase idiomatica, è diventata una bandiera. Poi l'associazione con fessa esercita probabilmente meno fascino che in passato. Caduti certi tabù sessuali che ne esasperavano il desiderio, l'offerta si è ampliata per una parte sempre più ridotta e inibita della popolazioone maschile. E quanto al sarcasmo alle spalle del fesso onesto, scarseggiano evidentemente i riscontri contemporanei.
Altri aggettivi si impongono con un'attualità più incalzante, come stupido e idiota. Al Ritorno del Cretino Fruttero & Lucentini hanno dedicato una trilogia memorabile.
Una osservazione generale. Non sarà, credo, senza significato che una folla così copiosa di aggettivi si raccolga intorno alla scarsa intelligenza. Al confronto, l'intelligenza si trova piuttosto isolata, con pochi ma buoni compagni. Le bastano.
«Il Sole 24 Ore», 5 ottobre 1997

Francesco Merlo
Alberto Sordi

Ci piaceva perché ci compiacciamo, e non Ci piaceva perché non ci piacciamo. In ogni personaggio di Alberto Sordi, amatissimo gestore del luogo comune e della retorica nazionale, c'è il nostro destino più goffo. Di sicuro c'è Sordi nei nostri ospedali, dove il dotto l' Tersilli, con una marcetta per colonna sonora, continua a ricoverare i sani a pagamento e a mandare a casa i malati senza soldi. C'è Sordi a Montecitorio, in ogni onorevole spocchioso e sospettabile di corruzione. E c'è Sordi persino nei politici che stanno organizzando, domani in piazza San Giovanni, un altro funerale di propaganda, manifesto programmatico di un'identità.
Alberto Sordi, con tutti i suoi film, ha incarnato, come nessun altro, l'antropologia italiana della rinuncia, la stessa del nostro calcio sconfitto dalle Coree, la stessa della nostra lunga e terribile storia militare, da Lissa a Caporetto. Sordi ha trasfigurato in spettacolo il carattere irresoluto e furbastro che è dei Trapattoni e che fu dei Badoglio, ha trasformato in cinema la paura privata e la sguaiatezza pubblica di un popolo, quella stessa che solo sul palcoscenico diventa polvere di stelle. Difatti Sordi è anche la prova che non basta una risata per guarire da se stessi. Ancora oggi noi siamo, con lui, la parodia e la smorfia dell' americano, pasticcio e prodigio maccheronico goliardico, masticatura malinconica di una modernità dalla quale mostriamo la distanza orecchiando e storpiando lingue e costumi. I Nando Moriconi di ieri sono i pretesi kennediani di oggi, e sono anche quelli che riducono una cultura nobile come l'Atlantismo all'eccitazione dinanzi alla bandiera, all'emozione di ascoltare la canzone New York) New York: uatzamerican. Ebbene, questo uatzamerican di Sordi a Roma è come il noio di Totò e Peppino a Milano, espressioni di subalternità e di estraneità: dell'italiano dall'Italiano e del filoamericano dall' America.
Persino quando il pericolo, la morte o la più terribile delle disgrazie, quella dell'eroismo, ci prendono in contropiede, allora noi diventiamo il Sordi soldato della Grande Guerra, che muore senza tradire, o il Sordi padre e borghese piccolo piccolo che surroga la giustizia e si mette a sparare. Perrché sempre l'aspetto tragico della commedia italiana viene fuori nell'inaspettato confronto con i bravi di don Rodrigo, quando don Abbondio «non potendo schivare il pericolo vi corse incontro». È difficile incontrare un italiano anglofilo, uno dei tanti, e non ritrovarvi il Sordi di Fumo di Londra, non sorridere e al tempo stesso non immalinconirsi e non irritarsi dinanzi alla sfrontatezza del posticcio, alla bombetta indossata come una maschera, alla lingua esibita come il suono di una distinzione sociale. Capita, sempre e dovunque, di incontrarne qualcuno, per strada, in tv, nelle università e nei giornali: sono gli italiani camuffati da inglesi che ovviamente mai somigliano agli inglesi, ma sono i soli che, su un ponte di Londra, proprio come nel film, piacciono agli altri italiani: «Ecco finalmente un vero inglese, fammi una foto con lui». Allo stesso modo gli italiani, con Sordi, fanno ancora il ridicolo saltello del goffo disinvolto che nasconde la pancetta in un respiro, e si rifugiano nel tono gradasso e nelle invettive sentenziose, ma sono pavidi e solo in fondo, ma molto in fondo, sono di buon cuore.
Infine gli italiani di Sordi non sono, come vorrebbe l'onorevole Speroni, «er core de Roma». Sordi prestava benissimo la sua faccia tanto alla romanità del parastato quanto al padroncino di Varese: la grettezza è la stessa, perché non c'è una vera differenza tra l'arciromano e l'arcilombardo. Del resto, come quasi tutti i grandi attori italiani, Sordi non aveva bisogno di recitare né di ricorrere ai travestimenti o ai nasi finti: gli bastava essere se stesso. Come la Loren che è naturaliter la popolana in carriera. O come Gassman, narciso anti-italiano nel Paese che è un giardino di narcisi. O come Volonté, che era l'italiano arrabbiato e fragilissimo. Così Sordi era il simpatico che vuole piacere a tutti, che sogna una regina ma consuma velocemente e per tutta la vita cameriste, attrici e donne del varietà come beni di conforto, sincero e perfetto idealtipo dell'ordinario italiano, quello che appunto non piace all'italiano che non si piace, che non sa ridere dell'italianità, perché è un difetto che non vuole avere, che spera di non avere.
«Corriere della Sera», 26 febbraio 2003


Remo Bodei
Il Gatto e la Volpe

«Una d'arme, di lingua e di cor»: questa l'Italia sognata dai patrioti del Risorgimento. Quando l'unità fu raggiunta, al prezzo di sangue e di compromessi, difficile fu però «fare gli Italiani». Se ne accorse Collodi scrivendo Pinocchio, uscito in volume nel 1883. Il burattino di legno è l'emblema dell'italiano grezzo e pieno di difetti che deve essere educato e trasformato in bambino in carne e ossa. Allegoricamente, un cittadino consapevole dei principi e delle regole della convivenza. A modo suo, il libro è, insieme, un romanzo di formazione individuale e la metafora delle tentazioni e delle prove che un giovane Stato deve superare per uscire dalla fame, dall' autoritarismo, dagli imbrogli e dalla corruzione. Il burattino deve così abituarsi a evitare gli sprechi (a mangiare le bucce e i torsoli delle pere), imparare a lavorare «girando il bindolo» per tirar su anche cento secchi d'acqua in cambio del bicchiere di latte che l'ortolano Giangio gli dà per Gepppetto convalescente.
Pinocchio deve poi guardarsi dal Gatto e la Volpe, che non sono certo la personificazione del principe di Machiavelli, della golpe e del lione. Il loro scopo non è, infatti, quello di far uscire il popolo dalla decadenza e dal degrado, se necessario, per mezzo di rimedi estremi, ma di turlupinare gli ingenui a proprio vantaggio con raggiri, belle parole e promesse assurde (come quella di far crescere e moltiplicare gli zecchini d'oro).
Viene da chiedersi quante incarnazioni del Gatto e della Volpe gli Italiani hanno conosciuto nella loro storia e quanto spesso hanno ceduto alle loro lusinghe, condividendo i loro miraggi. Può un Paese di furbi - come talvolta ci consideriamo - diventare vittima della propria presunta astuzia? Nei colloqui con Emil Ludwig, Mussolini aveva notato la disponibilità dell'uomo moderno a credere all'incredibile, una credulità che gli permetteva di plasmare la massa degli Italiani secondo i propri progetti, servendosi, come disse nel 1933, di «due redini: entusiasmo e interesse. Chi si serve soltanto di uno dei due corre pericolo. Il lato mistico e il politico si condizionano» .
Nei totalitarismi del secolo scorso la disponibilità a credere l'incredibile ha condotto a immani disastri. Sono peraltro sempre esistite minoranze virtuose di «apoti» (coloro che non bevono i proclami della propaganda), di persone capaci di resistere alle seduzioni delle ideologie. Se, indubbiamente, nelle democrazie la coscienza critica si è enormemente acuita, è davvero venuta meno la disposizione di molti a credere ai sogni preconfezionati e a rinunciare al principio di realtà in favore del principio di piacere? E noi Italiani siamo più soggetti di altri popoli al fattore G & V (Gatto e Volpe)?

Nelle Conversazioni a tavola del 1942, fra le stravaganti e funeste teorie che Hitler discute con i suoi commensali vi è quella per cui in futuro sarà costretto a far guerra all'Italia, in quanto il Duce ha deciso di piantare trentacinque milioni di alberi in modo da rendere più freddo il clima e così temprare e indurire il carattere degli Italiani. In tal modo tuttavia argomenta il flihrer - il clima della Germania peggiorerà, diventando assai più nebbioso e umido. Bisogna dunque impedire questo rimboschimento. Servirà la Forestale a fare gli Italiani?

«Il Sole 24 Ore», 17 febbraio 2008


Raffaele La Capria
Arlecchino, Pinocchio, Pulcinella

Quale popolo ama parlar male di sé autodenigrandosi appassionatamente più del popolo italiano? E in quale popolo il sentimento della patria è meno orgogliosamente esibito, fino al punto di mostrare una certa riluttanza a cantare l'inno nazionale nelle pubbliche manifestazioni (per esempio, una partita internazionale di calcio)? E non abbiamo spesso letto sui giornali dichiarazioni come «mi vergogno di essere italiano» fatte con supponenza e come vantandosi?
L'Italia è un Paese che non si ama e ci sono buone ragioni storiche (e recenti e recentissime) per non amarsi. Meglio però sarebbe darsi da fare per migliorare con le opere e i comportamenti il sentimento verso il proprio Paese e il suo buon nome, perché dopotutto ci conviene. Nell'Europa delle patrie, chi non ha una patria diventa vittima delle patrie altrui, e queste sono ben determinate a difendere non solo l'onore, ma insieme anche i loro interessi economici e commerciali. Detto questo, quale Paese è stato più genialmente «creativo» nel denigrarsi? Quale Paese ha più genialmente capovolto il senso di questa autodenigrazione, trasformandola in una allegra, benché impietosa, teatrale forma d'arte? E quale ironica e profonda cognizione di sé radicata nell' anima popolare ha prodotto tre archetipi, tre suoi rappresentanti, tre personaggi più veri di Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella? Provenienti dal Nord, Centro e Sud del Paese, essi sono nati dalla prodigiosa fantasia del nostro popolo. La piccola borghesia, se così si può chiamare quella dei commerci e mestieri d'una volta, produsse anch'essa i suoi campioni, ma Brighella e Pantalone non sono grandi come i tre che ho nominato. Con quei tre è come se l'Italia si fosse guardata allo specchio non ignorando i propri vizi e difetti, e senza troppo moralizzarci sopra com'è sua abitudine inveterata, ma obbedendo al motto: «Sii profondamente superficiale», perché è vero, spesso la profondità si nasconde in superficie.
Ma torniamo ai nostri tre campioni, agli italianissimi Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella, il primo e l'ultimo maschere della Commedia dell' arte, e Pinocchio che non è una maschera ma è altrettanto rappresentativo.
Arlecchino con la sua veste dai molti colori (che sono altrettante toppe e rammendi) è simbolo della rappezzata Italia delle molte diversità, l'Italia delle cento città e dei mille paesini, dei numerosi dialetti e delle tante culture, l'Italia delle infinite opinioni contrastanti, l'Italia divisa e sempre impegnata in un feroce disaccordo con se stessa. E però da un altro punto di vista, non è unico e meravigliosamente appariscente il vestito di Arlecchino? E non è unica e di colori splendida la lingua italiana, unica e unificante ancora prima di ogni unità politica? Non sono uniche e meravigliosamente multicolori la Natura, l'Arte e la Lingua del Paese e la vivacità dei suoi abitanti?
È vero, Arlecchino con le sue piroette nasconde l'astuzia e il finto ossequio verso l'eterno padrone, lo deride, e anche in questo rivela la natura servile degli oppressi dalla storia, una storia di cui è inconsapevole. «Ahi serva Italia di dolore ostello!». Fu la storia che la rese divisa e serva, e il vestito di Arlecchino viene da lì. Una storia secolare coi suoi cicli e le sue leggi del contrappasso, padrona ieri serva oggi. Ma quando arrivarono i barbari, l'Italia, come la «Graecia capta», li vinse con la Commedia divina, col Canzoniere dell'Amore, con la Scienza Nuova di Vico e Galileo. Ed è su questo maestoso fondale che si muovono le maschere dell' eterna Commedia all'italiana, e i nostri Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella. L'Italia vinse i barbari con questa musica: «Voi che ascoltate in rime sparse il suono / di quei sospiri ond'io nudriva il core / in sul mio primo giovanile errore / quand'era in parte altr'uom da quel ch'i'sono ... ». L'Italia li vinse con la Bellezza. Cosa c'è di più bello di questa santa lingua unificante? Anche Arlecchino, a modo suo, fa parte di questa Bellezza. Col suo vestito, le sue piroette, e la fame atavica che lo rende servile, egli danza la danza della vita.
E Pinocchio, con tutti i suoi vizi ingenuamente scoperti e così visibili, pur non essendo una maschera ha lo stesso estro e la stessa danzante levità, perché è infantile, è intraprendente e pieno di desideri naturalissimi, e non disdicevoli quanto gli rimprovera il Grillo parlante. Il Gatto e la Volpe ci fanno capire quanto grande è la sua ingenuità e quanto lui è indifeso. Il suo naso è lungo, e appunto si vede, e tutti si accorgono quando s'allunga che Pinocchio sta dicendo una bugia, tranne lui stesso. E però povero Pinocchio, le prende sempre! Tutti si approfittano della sua sventatezza. E quando infine ammazza il Grillo parlante e mette a tacere il conformistico moralismo delle buone cause (e della superiore coscienza) a pensarci bene non ha torto, la sua è una rivolta contro un moralismo che nel nostro Paese spesso è strumentale ed oppressivo.
E infine Pulcinella, che viene dal profondo Sud, dagli inferi, che combatte col diavolo, con la Morte (e la uccide!), sempre perseguitato dalla fame divorante e guidato dall'istinto di conservazione, Pulcinella che dà mazzate e le prende di santa ragione, a tutto sopravvive perché lui è un «eroe di sopportazione». E mentre Arlecchino si finge una lauta cena con pezzi di carta disposti come pietanze, Pulcinella è più impulsivo e non si permette queste raffinatezze, ha una natura ferina, e quando gli capita afferra con le mani gli spaghetti e s'ingozza. Sa che non sono molte per lui queste occasioni.
Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella sono l'Italia del popolo, che si rappresenta, si denigra e si riscatta con la felicità che trasmette questo trio. Un'Italia del passato, ma che si può riconoscere oggi dovunque. Tre personaggi ma anche «maschere», che non sono cioè tutto quello che dicono e ch
fanno, perché recitano se stessi, perché hanno teatralizzato le loro debolezze e il loro slancio vitale. Ed è questo uno sdoppiamento che solo le grandi civiltà si possono permettere. Parlar male di sé, come noi italiani facciamo, può dunque avere molteplici e complicati risvolti, e può anche essere inteso come una terapia di chi sa di essere malato, ovvero anomalo, ma sa anche che alla fine ce la farà. E questo ci dicono Arlecchino, Pinocchio e Pulcinella.
«Corriere della Sera», 21 novembre 2009

Parte quarta
Una giornata da italiano

Una giornata da italiano può cominciare con una parola qualunque. Sarà una parola «italiana». Pronunciata in questa lingua dalla storia difficile, su cui si interroga Pirandello appena trent'anni dopo l'Unità nazionale. Una giornata da italiano è fatta di cose piccole ed enormi. La scoperta e riscoperta di un paesaggio che può incantare (la «bella, bellissima Italia» di Anna Maria Ortese), o degli «odori buoni» rievocati da Parise.
Può capitare - testimonia Longanesi anno 1948 - di salire su un rapido Milano-Napoli «col biglietto pagato in tasca», trovare uno scompartimento vuoto e scoprire che è riservato ai deputati e alle loro famiglie. Può capitare, scendendo dal treno, di scontrarsi in modi diversi con questo «ente metafisico» che è lo Stato (Arrigo Benedetti). Può capitare di vivere un disagio permanente, una sensazione di rabbia, che - riflette Enzo Biagi - è più forte di qualunque ideologia. Può capitare di trovarsi a Stellata di Bondeno, provincia di Ferrara, nel 1996 e di assistere - come fa Veronesi - a una dichiarazione di indipendenza padana, che forse da quella rabbia deriva.
Può capitare di visitare l'Italia da turisti sentimentali e diventare più italiani degli italiani (l'Abuelo descritto da Montale). Può capitare di pensarla da lontano: è !'Italia fatta di figli e nipoti di emigranti osservata da Dacia Maraini.

Può capitare di inseguirla come un sogno, ascoltando venti volte al giorno - ad Asmara, Eritrea - una canzone di Ramazzotti. Tutti parlano bene dell'Italia, le mail che arrivano. I biglietti con i soldi di chi ha trovato un lavoro. Per raggiungerla - scrive Ezio Mauro - ci vogliono 21 giorni interi su un gommone nero, che semina cadaveri in mare.


Luigi Pirandello
Come si parla in Italia?

Da una bizzarra, interessante raccolta di colloqui, con moderni letterati italiani, testé mandata a stampare dall' amico Ugo Ojetti, apprendiamo, con vivo compiacimento, che Ferdinando Martini lavora intorno a un vocabolario italiano della lingua parlata. Potrà parer forse strano; ma, accogliendo questo annunzio, io mi son tosto domandato: e qual è la lingua italiana parlata in Italia? Consimile domanda pare abbia rivolto l'Ojetti, a nome degli scrittori drammatici italiani, al Martini; poiché questi così riprende i suoi colleghi di teatro, rispondendo all' interlocutore:
«Manca il linguaggio? Oh, in grazia, e noi che lingua parliamo? Che io mi sappia, ella ora mi parla in lingua italiana, e io le rispondo in lingua italiana».
Questa, a mio modo di vedere, non è una prova, né una ragione contro 1'asserto, il Martini essendo, essendo l'Ojetti, nelle debite proporzioni, non solo due persone colte, ma anche due letterati di professione.
Esiste veramente, nelle varie regioni della penisola, l'uso comune della lingua italiana? A parte, adesso, le persone colte, le quali per altro fra loro, a Torino, a Milano, a Venezia, a Napoli, a Palermo, tranne rarissime eccezioni, parlano anche in dialetto; poniamo, per esempio, un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sin tattico particolare. Orbene, il siciliano e il piemontese, messi insieme a parlare, per intendersi, non essendo due diplomatici che hanno per loro il francese, non essendo due dotti che hanno il loro latino, sentiranno, naturalmente, il bisogno di appigliarsi a una favella comune, è vero? Alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti gli italiani, poiché l'Italia è unita, alla lingua italiana, perbacco! Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? In Sicilia? In Piemonte? No, davvero! Si parla, o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, fiorettando qua e là questa che vuol essere la lingua italiana parlata in Italia, delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.
Lo stesso, su per giù, io notavo, parecchi anni or sono, su un periodico settimanale fiorentino, scrivendo un articolo intorno alla prosa moderna; e aggiungevo, che alcuni scrittori di novelle e di romanzi, detti di costume, in cerca d'una prosa viva e spontanea, non scrivono diversamente dal modo su accennato l'italiano. Dirò un' altra volta per qual ragione questo tentativo meriterebbe lode, ove però fosse attuato con più senno, con più coscienza del valore che dovrebbe e potrebbe avere l'opera propria, ove cioè i nostri scrittori non fossero così digiuni, come spesso sono, di filologia.
«La Critica», 12 agosto 1895

Luigi Pirandello
Come si parla in Italia?

Da una bizzarra, interessante raccolta di colloqui, con moderni letterati italiani, testé mandata a stampare dall' amico Ugo Ojetti, apprendiamo, con vivo compiacimento, che Ferdinando Martini lavora intorno a un vocabolario italiano della lingua parlata. Potrà parer forse strano; ma, accogliendo questo annunzio, io mi son tosto domandato: e qual è la lingua italiana parlata in Italia? Consimile domanda pare abbia rivolto l'Ojetti, a nome degli scrittori drammatici italiani, al Martini; poiché questi così riprende i suoi colleghi di teatro, rispondendo all' interlocutore:

«Manca il linguaggio? Oh, in grazia, e noi che lingua parliamo? Che io mi sappia, ella ora mi parla in lingua italiana, e io le rispondo in lingua italiana».
Questa, a mio modo di vedere, non è una prova, né una ragione contro 1'asserto, il Martini essendo, essendo l'Ojetti, nelle debite proporzioni, non solo due persone colte, ma anche due letterati di professione.
Esiste veramente, nelle varie regioni della penisola, l'uso comune della lingua italiana? A parte, adesso, le persone colte, le quali per altro fra loro, a Torino, a Milano, a Venezia, a Napoli, a Palermo, tranne rarissime eccezioni, parlano anche in dialetto; poniamo, per esempio, un siciliano e un piemontese, non del tutto illetterati, a parlare insieme. Ciascun dialetto ha il suo tipo fonetico, il suo tipo morfologico, il suo stampo sin tattico particolare. Orbene, il siciliano e il pieemontese, messi insieme a parlare, per intendersi, non essendo due diplomatici che hanno per loro il francese, non essendo due dotti che hanno il loro latino, sentiranno, naturalmente, il bisogno di appigliarsi a una favella comune, è vero? Alla nazionale, a quella che dovrebbe unir tutti gli italiani, poiché l'Italia è unita, alla lingua italiana, perbacco! Ma dove trovarla, dove si parla questa benedetta lingua italiana? In Sicilia? In Piemonte? No, davvero! Si parla, o si vuol parlare nelle scuole, e si trova nei libri. E il siciliano e il piemontese messi insieme a parlare non faranno altro che arrotondare alla meglio i loro dialetti, fiorettando qua e là questa che vuol essere la lingua italiana parlata in Italia, delle reminiscenze di questo o di quel libro letto.
Lo stesso, su per giù, io notavo, parecchi anni or sono, su un periodico settimanale fiorentino, scrivendo un articolo intorno alla prosa moderna; e aggiungevo, che alcuni scrittori di novelle e di romanzi, detti di costume, in cerca d'una prosa viva e spontanea, non scrivono diversamente dal modo su accennato l'italiano. Dirò un' altra volta per qual ragione questo tentativo meriterebbe lode, ove però fosse attuato con più senno, con più coscienza del valore che dovrebbe e potrebbe avere l'opera propria, ove cioè i nostri scrittori non fossero così digiuni, come spesso sono, di filologia.
«La Critica», 12 agosto 1895

Eugenio Montale
Qualcuno soffre perché ci ama

Gli amici d'Italia sono in lutto in questi giorni. Quanti sono? E dove possiamo trovarli? Non siamo in grado di censirli né d'indicare con certezza qual è la regione dell'orbe terraqueo che ne ospita maggior numero. Tuttavia, per eliminazione, scartando, escludendo, dicendo a se stessi: «zona interdetta, cerchiamo altrove, out of bond» si può giungere a delimitare il campo delle ricerche. Non farei entrare nel conto, naturalmente, i cittadini stranieri di origine italiana, troppo spesso soggetti agli umori, alle oscillazioni, ai rialzi e ai ribassi di quel complesso d'inferiorità che ha tormentato i loro padri fin dal primo giorno dell' esilio; e nemmeno andrei in estasi per quei forestieri che avendo comprato in gioventù una leaning tower in miniatura alla stazione di Pisa si san poi sentiti per tutta la vita, chissà perché, legati alle fortune, e più alle sfortune, del nostro Paese. Scarterei dal buon numero anche quei felici mortali che un prolungato soggiorno ad Asolo, a Fiesole o a Positano ha reso particolarmente sensibili alle attrazioni della terra benedetta che ha sempre, secondo il librettista italiano di Mignon, «di porpora il ciel». (L'accento sbagliato è di rito per ragioni metriche.) Amici veri dell'Italia non mi paiono neppure quei turisti sentimentali, quei preti in pantaloni corti, quelle zitelle in vena di arricchire il loro album di snapshots del Palio o della Festa del Redentore che s'incontravano una volta in Camollia o alle Zattere. Si tratta tutt'al più di gente acritica e destituita di vera comprensione, che dopo aver violentemente «simpatizzato» per il signor Mussolini - molto becoming, molto adatto agl'indigeni d'Italia - hanno poi mandato grida di sdegno quando l'eroe in ghette e bombetta s'è rivoltato contro di loro. Non fra questa gente, che oggi vorrebbe riabilitarci ovvero rimetterci in sesto ai fini del proprio interesse, si debbono cercare gli amici in lutto ai quali mi rifèrisco. Chiamo invece amici d'Italia coloro, fra i non italiani, per i quali l'Italia è stata il fatto centrale, cardinale della loro vita: coloro che senza il nostro Paese sarebbero stati diversi, avrebbero pensato, sentito, intuito i valori dell'esistenza in un altro modo, non importa quale. Che ognuno di noi cerchi dentro di sé e dica poi se cotesta ricognizione è avvenuta senza frutto e senza qualche possibilità di luce e di conforto. Nella mia lista, abbastanza lunga, l'uomo che nasconderò sotto lo pseudonimo di Abuelo terrà certamente il primo posto. Americano di origini europee non lontanissime (prima o seconda generazione), con qualche goccia di sangue ebraico e di vecchia cultura austriaca, venne in Italia col corpo di spedizione che partecipò a quella che fu detta per molti anni la Grande Guerra: e in Italia è poi sempre rimasto, pur con qualche poco fortunato tentativo di rimpatrio.
Allo scoppio della guerra nuova -la grandissima - dev' essere stato l'ultimo a imbarcarsi. È andato a Fiume con D'Annunzio, ha appreso la nostra lingua quasi meglio della sua, ha diviso con noi - Jifty fifty - tutte le nostre illusioni e delusioni. Anzi, non tutte, per essere esatti. Non ha, per esempio, amato il nostro «regime forte» quando la stampa del signor Hearst lo esaltava; ha scosso il capo quando fu decisa l'impresa etiopica e non ha creduto giusto che l'Italia «facesse esplosione», mettendosi così sullo stesso piano dei popoli ch' essa pretendeva di superare in civiltà. Ma in tutto il resto ha capito e amato il nostro Paese più di troppi nostri connazionali. Della sua vita non conosco che spicchi, episodi. Ha fatto il giornalista, l'antiquario, il rentier, quando il cambio lo favoriva; ha abitato le più strane torri di Firenze e della riviera ligure, ha adottato un orfano italiano ed ora ch' è tornato agli Stati Uniti tenta di sposare per procura, by proxy, la vecchia serva ottantenne che è rimasta a guardia dell'ultima torre e del bambino. L'ho incontrato dovunque, ho stretto amicizia con lui, così diverso da me, per ragioni che sfuggono a qualsiasi analisi razionale; forse perché ho riconosciuto nel falso nonno o abuelo del piccolo Maurizio un disperato e assoluto asssertore della dignità umana, un uomo che non stritola sotto lo schiacciasassi dell' homo oeconomicus le ragioni più alte della vita. Un cattivo americano, forse, ma un cuore sincero e un amico provato. Era difficile frequentarlo senza attirarsi taccia di stravaganza, dilettantismo o peggio. Eppure due volte ho violato le soglie dei suoi sempre provvisori e sempre patetici rifugi: una volta a c., nella sua casetta sul pendio scosceso che porta all'ammazzatoio, tra bassi alberi d'orto, al rezzo d'un vecchio fico ospitale. Tortore ingabbiate tubavano là all'ora angosciosa dei due crepuscoli, nidi di topi neonati si scoprivano fra cataste di stipa o nei sottoscala, e le cene preparate dalle inette mani di Cesira Vulpius, la sposa d'oggi, affumicavano la cucina per ore e ore. Leggero e quasi alato il soriano Malfusso, oggi seppellito appiè del fico, faceva la sentinella fra la casa e il paese, portando sul muretto della via maestra il tintinno del suo campanellino d'argento.
Un altro nido di Abuelo era R., in cima a un' alta torre piena di vecchi libri, di stampe, di cimeli bellici e di fotografie. Il mare che spaziava di là dai tondi oblò era oceanico, non rivierasco e familiare, la vita che conduceva Abuelo - pochi passi a triangolo fra la zanzariera, lo schedario e la spinetta, per mesi e mesi - era addirittura claustrale e faceva pensare piuttosto a un Montserrat che a una Geenna della cultura contemporanea, anche se lo strano monaco della torre si vestiva talora da cardinale, con lo zucchetto rosso e un' aquila d'oro, da aviatore, sul petto, al posto della Croce. Aveva volato Abuelo da giovane? Non lo so ma i suoi amici erano caduti in fiamme, il suo mondo era in dissoluzione e solo panoplie d'armi e vecchie lettere sottovetro ne davano ancora una fioca immagine; il ritratto del padre di Maurizio, autografi di Gide, lettere di morti, libri di sconosciuti, libri di Abuelo stesso: un romanzo scritto in francese, una raccolta di poesie epigrammatiche - qualcosa tra Landor e i Rubaiyat - scritte in inglese e dedicate agli happy few, agli uomini e alle donne che per lui avevano costituito un incontro, una tappa. Letteratura, dite? Se la letteratura vissuta fino a questo segno può chiamarsi ancora così, vada per la definizione: ma come son rari allora i letterati a questo mondo! E come Abuelo, il pazzo, sentiva avvicinarsi la procella, come sentiva scricchiolare l'impalcatura tarlata della vecchia Europa, lui europeo mancato, americano provvisorio, chierico senza fede e musicista senza il conforto dell' espressione! Resistette fino all'ultimo nel suo nido di falchi; poi quando vide che restare significava per lui internamento e una clausura ben peggiore partì per il continente della sua infanzia e per anni non dette più notizie di sé. Ora finalmente si fa vivo e le sue parole mi raggiungono in Versilia.

«Perché» dice «vi siete attesi, voi amici Italiani, di vedermi sbarcare tra i primi? Potevo io giungere con i nemici d'Italia?». (E qui egli, più Italiano di noi, vede le cose con diversa prospettiva e dimentica che per il malato non sempre il cerusico rappresenta un nemico; dimentica o vede le cose col senno del poi ... ) E prosegue: «il dopoguerra è stato così diverso da quel che ci siamo sognati! lo prevedo rovine, l'Italia un campo di battaglia fra le grandi Potenze, Firenze in polvere come Cassino ... » (C'è mancato poco, Abuelo, vieni a vedere.) «Giorno e notte sogno l'Italia. Ho sul muro una fotografia del promontorio di Portofino e del ponte a Santa Trinita. Rivedrò almeno il primo? Ho saputo che gli amici tornano al Forte e che vi paagano dieci dollari al giorno. Ripenso al canale di Viareggio, alla casetta della Duse alla Fossa dell' Abate, al castello di Sarzana e alla trattoria, come si chiamava? Plaisir, Volupté? A Bocca di Magra». (Si chiama Sans façon, Abuelo, non esageriamo.) «E certi alberi a Ruta e il carcere di Rapallo e il cimetière marin di Camogli dove almeno voglio riposare morto».
A parte le previsioni catastrofiche per le quali possiamo far gli scongiuri del caso, è ben chiaro da queste parole che gli amici d'Italia spersi per il mondo sono in lutto, e che se non possono più vivere con noi, nemmeno riescono a fame a meno. Nec tecum nec sine te ... Purtroppo la scoperta non è tale da ripagarci di quanto dovremo gettare sulla bilancia di Brenna. Ma i valori morali, i fatti pertinenti al mondo della cultura, gl'imponderabili della vita dello spirito pesano anche al di fuori di questa bilancia, e più peseranno il giorno inevitabile in cui la forza della materia e del denaro farà orrore all'uomo. Qui può cominciare fin d'ora l'opera nostra; e questo ciascuno di noi che abbia un Abuelo inerme e scoraggiato di là delle Alpi, di là dai mari, deve sforzarsi di ripetergli e di scrivergli, se può: collaborando così, nel suo piccolo, a quell' opera di restaurazione spirituale senza di cui non solo l'Europa senza pace, ma il mondo intero (ormai in costringibile nelle paratie e negli scompartimenti stagni delle frontiere) andrà perennemente alla deriva.
«Corriere della Sera», 18 agosto 1946


Leo Longanesi
Noi e lo Stato

Sì, lo so: so che non bisogna indebolire lo Stato; so che lo Stato è un principio, un'idea, o quel che volete d'altro; so che lo Stato lo abbiamo comperato già fatto, su misura, a doppio petto, da Hegel; so che lo Stato è al di sopra di noi, e noi, bene o male, siamo lo Stato; so tutto questo, ma io vi dico, cittadini, che è giunta l'ora di fare i conti con lo Stato e di vedere se, davvero, non si possa fare a meno di Lui.
Ecco, dunque, come stanno le cose. Parto da Milano, con mia moglie, diretto a Napoli. Salgo sul rapido, col biglietto pagato in tasca, ma non trovo posto. Percorro tutti i vagoni: non c'è assolutamente modo di sedersi; ma ecco che scopro uno scompartimento vuoto. Mia moglie si siede ed io sto riponendo le valige sulla reticella, quando il controllore mi dice:
«Questi posti sono riservati ai deputati e alle loro famiglie».
«Noi non abbiamo parenti in Parlamento, nemmeno un secondo cugino, ma il biglietto lo abbiamo pagato», dico.
«Non conta, signore, questo scompartimento è riservato», dice il controllore con voce sicura: una voce che gli esce non dalla bocca, ma dai galloni d'oro del berretto. È quella, cittadini, la voce dello Stato. E non c'è nulla da fare; siamo costretti a rimanere in piedi nel corridoio.
Certo, noi dobbiamo rispettare, amare, onorare lo Stato come un vecchio genitore, ma mia moglie ed io non possiamo sederci e, col biglietto pagato in tasca, pensiamo a Hegel.
Arriviamo a Roma. Depositiamo la valigia ed entriamo in una sala d'aspetto, nuovissima, che odora ancora di vernice fresca. L'avete mai veduta, cittadini, quella sala?
Non la si può immaginare, non si può descriverla, bisogna vederla coi propri occhi: qualcosa che sta fra la tomba e la macelleria: una prigione di macigno con quattro sgabelli. Ma sgabelli di marmo, tre grossi tronchi di colonne sui quali hanno fissato tre cuscini di velluto color castagna. E non crediate che quegli sgabelli si possano muovere; no, miei cari, quegli sgabelli sono murati al pavimento per l'eternità. E davanti a quei tre mozziconi si stende un vasto tavolo di marmo, spesso quattro dita, che par fatto apposta per allinearvi sopra filetti di bue e teste di maiale. E i viaggiatori, poveretti, stan lì in quel sacrario fermi, scomodi, avviliti, con gli occhi che cercano di capire: cercano di capire quel che nessuno sa, da anni, ormai; di capire perché lo Stato scelga sempre lo stile più scomodo e costoso; cercano di capire perché lo Stato non riesca a costruire una sala d'aspetto dove il cittadino possa attendere il treno comodamente, in pace.
Ma continuiamo. Mia moglie vuole bere un caffè: cerchiamo un bar. Sotto una lunga tettoia, ecco il ristoratore; non è ancora terminato. Vorrei descriverlo, ma come fare? Con quali parole posso illustrarvi la cappa del camino che scende come un incubo sul bancone del buffet? Una cappa di marmo color lonza, che sale fino al soffitto e resta sospesa nel mezzo della sala; una cappa lunga almeno venti metri e alta sette, una cappa sotto cui si possono cuocere balene ai ferri. Certo, si pensa, saranno tanti gli agnelli e i maiali e i tacchini che si arrostiranno lì sotto, che per raccogliere tutto il fumo dei fornelli occorre una cappa così vasta. Ma vi ingannate, perché quella è una cappa finta, senza sfogo, senza tiraggio, come dicono i fumisti: è un camino decorativo, un capriccio. Ed io, cittadini, io vi domando: «Ma perché lo Stato si permette questi scherzi di marmo? Perché getta via i nostri quattrini in questa maniera?».
Voi non lo sapete; io non lo so; nessuno lo sa. Lo Stato, in Italia, è davvero un ente metafisico che nessuno controlla, una grande nube che si stende sulla nostra testa, una nube ora rossa ora nera, con fulmini e tuoni e lampi.
Ma continuiamo: mia moglie ed io raggiungiamo il deposito dei bagagli, un vasto salone con porte strettissime, e qui incontriamo un amico. Egli ci parla della calda stagione, dei suoi figli e delle bellezze della natura.
«Vengo dall'Alto Adige», ci dice, «perché laggiù ho un lavoretto: sto estraendo del marmo scuro per il grande saerano».
«Quale sacrario?», domando.
«Quello delle Fosse Ardeatine. Un'opera colossale, bellissima, originale, che sorgerà nella via Appia. Si tratta davvero di un'idea nuova; trecento e tante casse mortuarie, scolpite in marmo nero, comporranno una specie di piramide. lo sto in Alto Adige appunto per estrarre il marmo che servirà a questa grande opera». Dice l'amico, e ci saluta.
È inutile, cittadini, è inutile ch'io vi dica quel che ho pensato in quell'istante; è inutile ch'io vi dica quel che costerà allo Stato quel mausoleo; è inutile ch'io vi dica che i martiri delle Fosse Ardeatine si possono onorare con una lapide ben scritta, ben incisa, ben collocata; è inutile ch'io vi dimostri che trecento e tante casse da morto in marmo nero sono un'idea peregrina, perché voi, cari amici, già lo sapete. E allora? Allora come possiamo difenderci da questo Stato che amareggia la nostra esistenza? lo ci ho pensato a lungo, cittadini, ho trascorso notti insonni, tormentate dal dubbio, dallo sconforto, dalla paura; ho sentito la voce cavernosa dello Stato Etico e quella flautata della Libertà; ho udito la grandine totalitaria contro il vetro della finestra, ed ho sognato Tommaso Campanella e Fourier, e Bakunin che rincorreva Marx; ho trascorso, ripeto, notti interminabili, chiuso in un tunnel senza uscita. Ma oggi, oggi io vi dico, cittadini, che è giunta l'ora della grande riscossa; io vi dico che non dobbiamo più pagare le tasse; se lo Stato spende, noi risparmieremo. A lui il marmo nero, a noi la cartastraccia: e vedremo.

Ma il vento, ma il vento Che piega i cipressi,
perché non solleva, Gesù Maria,
la vecchia bandiera dell'Anarchia?!
«Gazzetta del Popolo», 17 settembre 1948




Arrigo Benedetti
Io e lo Stato


Caro Direttore,
l'impiegato del registro seguì, avendo sulle labbra un malizioso filo di sorriso, il movimento della mia destra; lasciò che togliessi di tasca la penna, e che con l'altra mano libera tirassi fuori il libretto degli assegni, anzi, proprio mentre stavo per deporre questo oggetto sulla scrivania: «Ah, no - disse - ah, no, caro signore. lo, lo Stato, non accetto che denaro contante, o al massimo, un assegno circolare a me debitamente intestato ... ».
Siccome ero l'ultimo cittadino entrato quella mattina nell'ufficio, e forse anche perché mezzogiorno era suonato da alcuni istanti, l'impiegato s'alzò e cominciò ad abbottonarsi la camicia fino ad allora aperta sul petto bruno. In piedi, perdeva gran parte della sua solennità, che subito ritrovò quando, a prevenire le mie obiezioni, allungò un braccio, quasi intendesse tapparmi la bocca, dicendo: «Oh, la prego, non s'offenda. lo non la conosco, posso dubitare di lei e della sua solvibilità, ma anche se la conoscessi e la sapessi solvibilissima, non accetterei nessun assegno da lei firmato. lo, lo Stato, non accetto assegni...».
Quando disse: «lo, lo Stato», con una comica solennità, il funzionario del registro cui m'ero rivolto per pagare il plus valore d'un frammento di pineta, aveva l'aria di chi, ostentando l'assurdità di un meccanismo sociale, tenta di giustificarsi. Infine, la vicinanza dell'ora di colazione rendeva l'uomo incline alla confidenza. Infatti, costringendomi a seguirlo fino alla finestra dell'ufficio, m'indicò la strada deserta e assolata dicendomi a bassa voce, quasi non volesse farsi udire proprio dal fantomatico Stato che ci sovrastava ora entrambi: «Stia a vedere ... ».
Apparve in quel momento, uscito dal portone dell' edificio pubblico, un uomo piuttosto grosso, alto, col cappello, nel . quale riconobbi subito il cittadino che m'ero trovato di fronte prima d'essere ammesso nella stanza per negoziare l'imposta al pagamento della quale ero stato convocato. Ricordai che l'uomo, entrando, aveva sbandierato un assegno bancario dicendo: «Così va bene?». Segno che non era la prima volta che veniva e che, l'antecedente, era stato rimandato indietro per qualche irregolarità.
«Quello», mi disse l'impiegato chinato con me ad osservare il contribuente che s'allontanava sull'asfalto senz'ombra, «quello è Paolo G., proprietario d'una grossa tenuta nelle bonifiche del lago; uomo solvibile non soltanto per le terre, le case che possiede, ma perché esce da una famiglia di gente onestissima che, come lei ha visto, cura gli affari da sé, non attraverso commessi o fattorini. Ebbene se fosse venuto col libretto degli assegni, lo, lo Stato, gli avrei detto: Indietro! Anche se so che con la sua firma su un pezzo di carta si potrebbe comprare metà della nostra provincia».
Ogni italiano che abbia un minimo di sensibilità civile e di suscettibilità personale troverà nei suoi ricordi materiale numeroso e adattissimo a documentare come assurdamente si svolgono le relazioni tra il cittadino e lo Stato. Come se i pubblici impiegati, gli impiegati, le mezzemaniche, gli imbrattacarte che stanno di là dallo sportello non fossero uomini della nostra nazione, ma agenti d'un esercito d'occupazione che applicano in territorio occupato le loro leggi, né si sentono in obbligo, data la condizione d'occupanti, di spiegarcene il meccanismo, di giustificar cene la stranezza. A questo proposito, anzi, ogni italiano, in mezzo a molti altri amari ricordi, ha dell' occupazione militare angloamericana che il nostro paese ebbe a sopportare tra il 1944 ed il 1945, l'impressione d'un meccanismo amministrativo affidato al buon senso e ad una reciproca umana cordialità. Trovo anzi nel taccuino delle mie rimostranze contro lo Stato e contro i pubblici enti del mio paese, due aneddoti. Scappato da Roma in Emilia e poi in seguito a certi casi fuggito dall'Emilia in Toscana, allo scopo di ritrovarmi il più presto possibile in territori non sottoposti alla dura occupazione tedesca, venni nel settembre del 1944 nella mia città natale. Appena liberato, mi recai in municipio per la carta d'identità, sottrattami in alcune traversie da agenti della ;Repubblica di Salò. Sarà spicciativo, pensavo, farmi riconoscere; ed anzi il riconoscimento mi parve facilissimo quando mi trovai di fronte un compagno delle elementari, di buona famiglia, ridotto a scribacchiare. Non so se davvero, sul momento, io non sia stato da lui riconosciuto; ma il riconoscimento non poté mancare dopo che io ebbi declinato le mie generalità. M'osservò comunque con sospetto, mi fece notare che nella confusione della guerra non era detto che i miei dati anagrafici potessero essere rinvenuti, lì nel municipio in cui ci trovavamo, in sole ventiquattr'ore, e che semmai avrei dovuto addurre testimoni. Quali? Domandai guardandomi in giro e ritrovandomi assediato da sconosciù. Allora il mio compagno di scuola elementare ricorse al buon senso: «Ma diamine - disse - ci sarà pur qualcuno che è disposto a testimoniare che tu sei lucchese, nato qui fra noi ... ». Finì che accettò la testimonianza di due o tre sconosciuti che affermarono che sì non ero una faccia nuova anche se ignoravano chi fossi.
La stessa scena si svolse, ma con diverso andamento, poche ore dopo nell'ufficio alleato che dava permessi a coloro che volevano raggiungere Roma. Un ufficiale americano non mise in dubbio che io avessi casa nella capitale; soltanto quando io ebbi spiegato che venivo dall'Emilia, m'osservò con un'ombra di sospetto. Mi disse poi: «Parola d'onore?». Alla risposta affermativa mi consegnò il «pass» aggiungendo allegramente un «Buon viaggio!».
Invece da noi quell'impressione di sottostare alle regole d'un popolo estraneo è costante, ogni volta che s'accosti l'impiegato d'un ufficio pubblico. Nel maggio scorso, per esempio, avvicinandosi gli scrutini, allo scopo di giustificare le assenze dal corso di ginnastica di mia figlia, ottenuto da un medico un certificato, corsi al municipio, in via Larga, per una vidimazione che mi era stata detta indispensabile. Certo, dicevo tra me, avvicinandomi all'ufficio comunale, mi domanderanno se, sul serio, mia figlia è cagionevole di salute, e avendo davanti a me l'immagine di lei, grazie al cielo, robusta, mi confondevo. Non era possibile (ragionavo tra me e me avvicinandomi all' edificio pubblico, prossimo al Lirico) spiegare che avendo sostenuto oltre al peso dei normali corsi della sua scuola, lezioni di lingue straniere, non aveva materialmente trovato il tempo per recarsi in palestra. A rigore, si poteva parlare anche d'un certo deperimento, dovuto forse più che agli studi al cattivo inverno da noi sofferto in Lombardia; ma per quanto cercassi d'essere persuasivo, mi pareva che messo alle strette avrei dovuto convenire che la fanciulla, con maggior buona volontà e sacrificio, avrebbe potuto benissimo farsi vedere più spesso dal maestro d'educazione fisica.
Davanti allo sportello, mi trovai preceduto da sette o otto persone tutte con certificati in mano. Ci vorranno, stavo per calcolare, dieci minuti a persona; ma non arrivai a fare il conto del tempo che sarebbe occorso per sbrigare la mia pratica perché la fila cominciò a sgranarsi con inaspettata rapidità. Un tonfo, un fruscio di passi ed una voce monotona, accidiosa che dice: «Il seguente!».
Così non eran trascorsi cinque minuti dal mio ingresso che già ero in strada avendo sul certificato, la cui autenticità rimordeva la mia coscienza, un timbro ancor umido. Né la soddisfazione d'essermela cavata con pochi istanti durò a lungo, anzi svanì subito, lasciandomi addosso un curioso malessere: il disagio che si ha davanti al capriccio d'una autorità che obbedisce a leggi per noi incomprensibili. Non m'avevano domandato bolli che richiedessero lo sborso di denaro; non m'avevano interrogato sulle ragioni della mia richiesta di vidimazione, non s'erano interessati né a mia figlia, né a me; soltanto avevano voluto un mio gesto di sottomissione, costringendomi ad arrendermi al meccanismo d'un ritual" privo perfino di quella dignità che talvolta rende accettabile suggestivo ciò che avviene in una chiesa anche agli occhi degli scettici. Non reggeva neanche la vecchia giustificazione dello Stato costretto a tenere in funzione un complicatissimo meccanismo allo scopo di dar da mangiare ad alcuni milioni di italiani. Dietro lo sportello avevo intravisto un uomo umiliato, stanco di somministrare timbri dalla mattina alla sera. Sono sicuro che se avessi attaccato discorso non avrebbe avuto nemmeno il coraggio di tapparmi la bocca con un sonoro: «lo, lo Stato ... » o, in questo caso, «lo, il municipio ... ». Mi sarei visti addosso due occhi carichi di antica tristezza; quella dell'uomo che paga con l'umiliazione il diritto di respirare.
«Il Mondo», 19 ottobre 1954




Anna Maria Ortese
Bella, bellissima Italia

Così, ciò che ricordiamo di quella prima tappa, che per il Giro era la settima, continuò ad essere ammirazione e spavento, L'Italia davanti a noi ... E un muro sottile e variamente colorato che saliva come un serpe per quei monti verdi, fino a quel cielo, e si perdeva nei boschi dove i boschi cominciavano, e riappariva lungo il mare dove le spiagge balenavano, e diventava folla acclamante nei paesi (folla e banda e bandiere), e ritornava estatica siepe lungo le strade, in fondo ai boschi e alle valli inondate dalla primavera. Muro di donne, di ragazzi, di uomini, contadini e borghesi, artigiani e signori, marinai, preti, maestri e maestre di scuola con la scolaresca al completo. Vedemmo un domenicano abbagliante. E tutti, al passaggio del Giro, come mossi da un vento, si piegavano avanti, e in quell' attimo si udivano risa di gioia e grida e voci che chiamavano con amore, e incitavano, e subito dopo più niente: come un film vive solo in quell' attimo che attraversa lo schermo, quel muro diventava umano solo nel tempo ch' era illuminato dal Giro. Poi ritornava muro, vento, memoria.
Ma quegli attimi! Ricordiamo certe facce pallide e impazzite di dodicenni, gli occhi bruciati dall'attesa, e le mani ansiose di quell' età aprirsi un varco nella folla, buttarsi avanti con un nome, che era Coppi, o Magni, o Nencini, e ritornare nell' ombra, le mani al petto, stupiti. Ricordiamo donne vecchie piangere e ridere come guardando figli. Ragazze portarsi avanti, e splendere amorosamente nella fronte e negli occhi, come alla vista del proprio uomo. E uomini di ogni classe guardare ai corridori, quando apparivano, come a fortunati e cari fratelli. E c'era tutto in quegli occhi, mentre le macchine correvano sotto il sole, ogni condizione umana, ogni desiderio, e anche stanchezze formidabili e sogni finiti per sempre. Ma quegli uomini che correvano, quei ragazzi neri, quasi tutti figli del popolo, usciti molto spesso da case povere e tristi, muti e seri come le generazioni che li avevano preceduti, quegli uomini, quei ragazzi che improvvisamente avevano scoperto la forza delle proprie gambe, e con quell'unica forza si buttavano sulla nave della vita, per salire a bordo e finalmente riposarsi; quei ragazzi gettati alla conquista di un bene continuamente negato alle loro generazioni, decisi a conquistarlo a costo di ogni umiliazione o pericolo, quieti di fronte alla possibilità di morire, risoluti mitemente a morire pur di uscire dal niente, quegli uomini giovanissimi, quasi adolescenti, dalla parola dura e lo sguardo fisso, ardente, erano ancora una speranza per tutti, un ritratto della gioventù di ciascun cittadino, proiettato nel tempo. Passione e memoria insieme.
Poi c'era il pericolo.
Improvvisamente apparve il pericolo, e allora capimmo quest' altro vento che agitava le folle.
Il Giro sfiora spesso le rive dolci e smemorate della morte, ma nessuno lo sa, di ciò non si dice niente. Non ne parlano i «ragazzi» né gli uomini del seguito, per pudore o altro, e chiunque finge di ignorarlo, o realmente lo ignora.
Al Passo del Bracco, il cielo si oscurò leggermente, forse faceva freddo, certo qualcosa non andava più bene. La testa girava e il cuore batteva terribilmente.
Pareti di montagna apparivano e scomparivano, come se la montagna si buttasse continuamente in ginocchio e si rialzasse e comunque girasse vorticosamente per scrollarsi di dosso tutti noi.
La strada non era più una serie di svolte, ma un solo nodo, una furia che scendeva. Da una parte la montagna; in fondo, sulla destra, un luccichio obliquo.
E la radio di bordo: «Accelerare, accelerare». Guardavamo le mani dell' autista, per non vedere altro: tremavano. «Ora il volante gli sfugge», dicevamo, «bene». Guardavamo anche lo scrittore toscano: calmo.
Guardavamo dietro di noi: precipitavano le biciclette. La folla era sparita.
Tutto questo non durò mezz' ora, né un' ora, ma molto di più. Ogni tanto ci sfiorava e ci sorpassava una macchina piena di uomini pallidi, qualcuno curvo ad accendere una sigaretta. Svaniva.
Non c'era più sole, né niente.

Volanti che tremavano per sfuggire alle mani, mani chiuse orribilmente intorno al volante, volti impalliditi o tesi, capelli che si alzano immobili al vento, e, dietro gli occhi fermi, lo sguardo che va segretamente alla casa, ai ragazzi, ai rumori e alle voci note.
Vento. Buio.
Più tardi (il paesaggio è mutato) la costa toscana, aspra e piana tra le rive imbiancate dalle onde, e le Apuane nude e ferme come pensieri, è un premio. E un premio è questa gente scamiciata e dura che aspetta il Giro ai margini di una strada diritta, bellissima, illuminata dal sole vicino al tramonto. Gente senza cerimonie, con sorrisi neri, mani calde. Gridano con gli occhi: «Come state?» a tutti.
«Bene, stiamo, tra voi». «Bravi! Benvenuti!».
Marina di Carrara, Marina di Massa, Forte dei Marmi, Viareggio.
La stessa folla, lo stesso grido, «bravi, benvenuti», e il cuoore che riprende vita, caldo, amore.
Bella, bellissima Italia!
Come una musica appena triste, forte, gli italiani.
«L'Europeo», 5 giugno 1955


Goffredo Parise
VECCHIA ITALIA DEGLI ODORI BUONI

C'è un vino chiamato Campofiorin che è una cosa meravigliosa. Sull'etichetta c'è una frase latina che gli sta a pennello: Nectar angelorum hominibus. Nettare degli angeli per gli uomini. La bottiglia è bella, per cominciare; marron, con una etichetta stampata in carta di Fabriano, sicuramente un'acquaforte, ben specificata, molto ben leggibile, con caratteeri eleganti e ben in rilievo. Ma non si sospetta nulla fino a quando non si è aperta la bottiglia da cui emana subito un profumo intenso e amaro di bacca, di ciliegia marasca, di sambuco. Il sapore poi, sostenuto dai suoi tredici gradi e mezzo e la sua sostanza appena liquorosa, ma non nel senso dello zucchero, bensì della densità, del tono, del timbro, come si dice di una voce.
Campofiorin aggiunge qualcosa alla nostra vita, come un bellissimo libro, come un verso di Omero, come il peso di un " ,:,; ,;;, grappolo d'uva nella mano, come un intero ananas mangiato in quei climi caldi e umidi che sono il Sud-Est asiatico, con Una leggera innaffiata di kirsch sopra. Campofiorin, che è un nome che ricorda la prima guerra mondiale, non bisogna dimenticarlo. Se uno è nei pressi di Verona deve chiedere il Valpolicella e lì cercare quel vino Campofiorin dal signor Masi, se lo trova.
Non bisogna farsi scappare nulla dalla vita, qualunque cosa dica Sua Santità il Pontefice, bisogna gustare tutto finché si ha la salute di farlo. Bisognerebbe per esempio non dimenticare e non far dimenticare dai nostri figli certi odori di cutina che uscivano da alcuni ristoranti della stazione, quando c'erano le stazioni e andare o partire dalla stazione era di per sé una cosa importante e abbastanza rara.
Ma i ristoranti della stazione, come per esempio il Grand'Italia di Padova, erano luoghi di lusso quando l'Italia era povera e solo molto raramente una buona famiglia si permetteva di andarvi a mangiare. C'erano tovaglie bianche molto pulite, con tovaglioli molto grandi e se si andava prestino, verso mezzogiorno, mezzogiorno e mezzo, si poteva trovare il padrone, molto ben vestito con gilè, camicia bianca, cravatta e giacca a doppio petto, con il panama d'estate seduto fuori che mangiava da solo col tovagliolo infilato nel gilè. Tutte cose da non dimenticare e da non far dimenticare. Faceva un cenno del capo ai clienti alzandosi appena dalla sedia e badava al suo pasto. Di solito era domenica e non mancava mai il bollito misto che bisogna descrivere bene perché non sia dimenticato almeno nel ricordo .

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Il bollito misto aveva il suo forte in un pezzo di manzo, anzi di bue, animale oggi impossibile da trovare dovunque; bue scuro, grasso e magro, vale a dire con una zona di magro e una zona più sottile ma ugualmente spessa di grasso e veniva tagliato come si trattasse di burro e aveva un sapore di carne bollita e fumante ma nel suo brodo, cioè sostanziosa e forte. Tutto il bollito misto insieme ad altri cibi dava quell'odore particolare da acquolina in bocca che stagnava sempre nei ristoranti della stazione mai pieni, mai zeppi, sempre poco e ben frequentati da famiglie.
Quella era l'Italia e nessuno lo dovrebbe dimenticare e chi la conosceva dovrebbe ricordarla e descriverla minuziosamente a chi non ha più potuto vederla perché poi è arrivata la riccona America.
Fare i raccoglitori di macchine antiche non serve a niente se non si riesce a trasportare oggi tale e quale che nel passato l'odore di pegamoide nera e di benzina che stava dentro il taxi verde e nero che di solito era una Balilla. Se non c'è quell' odore non si ricostruisce un bel niente. Fortunatamente è rimasto il vino come Campofiorin e attraverso Campofiorin si può ricostruire, dal nome, molte cose della prima guerra mondiale, e dal sapore i ristoranti della stazione o altri ristoranti eleganti o ritenuti per allora eleganti delle città.
Le cose della prima guerra mondiale che si possono ricostruire da Campofiorin sono dei prati con rocce affioranti sull' Altopiano di Asiago, dove grattando un poco per terra si trovano bossoli e cartucce e pezzi di mortaio e qualche volta piastrine di riconoscimento e oggetti personali di ex soldati. Da Campofiorin si può ricostruire anche una strada di campagna e mescolando il tutto con lo sterco di cavallo delle carrozze vicino al ristorante della stazione si può immaginare il tessuto di lana delle divise da ufficiali di quella guerra e anche tutte le cose di cuoio come gambali, scarpe, scarponi, fasce, elmetti e cinghie da elmetto. Un poco perché l'odore del cuoio è un odore antico, un poco perché il cavallo sa di cuoio, e così facendo e ricordando si ritorna a ricordare e a tenere bene a mente e poi a poter raccontare e descrivere nei più minuti particolari il pranzo al ristorante della stazione che, nonostante i camerieri fossero lì velocissimi e a disposizione, sembrava non finire mai quando invece oggi un pranzo sembra finire in un minuto e non si sa il perché.
Tutto questo non in memoria dei bei tempi antichi ma per suggerire e insegnare l'esercizio dell' attenzione nelle cose della vita che i letterati spregiano tanto, a meno che non siano raccontate da altri letterati che le hanno lette da qualche altro letterato precedente. Invece la cultura della vita è quella di porgere molta attenzione, ogni giorno, non soltanto al passato, ma anche al presente sulle cose che hanno un valore e saaper distinguere soprattutto tra le cose che hanno un valore e quelle che non ce l'hanno. Noi viviamo in mezzo a un sacco di cose che non hanno nessun valore e molti cretini che credono alla pubblicità pensano che abbiano valore. Perché? Perché non sanno riconoscere il cuoio dall' odore, la carne di manzo da quella di vitello (visto che il bue non si può assolutamente più trovare in commercio), il pomodoro tiepido dell'orto da uno un frigorifero, e via dicendo.
Se uno comincia a prendere il vizio di riconoscere le cose è lo stesso lavoro di una expertise e mai si accontenterà di una stoffa sbagliata che sia mezzo lana mezzo nylon e farà dei viaggi in Inghilterra per procurarsi quella stoffa e quella lana come è disposto a fare un viaggio a piedi dentro una casa di sconosciuti in campagna se sa che lì c'è quella cucina o quell' odore particolare che magari, per sua disgrazia, egli ha dimenticato e non può più ricostruire. Dicono che nel Medioevo i fraticelli trascrivessero le opere dei classici e purtroppo non c'è stato nessun fraticello che ha lasciato scritto esattamente come era l'odore della cacca del cavallo nel 1300, oppure un certo cibo e una certa cucina o l'odore dei fiori e quello dei prati d'erba in pianura, in collina e in montagna.
Anche i libri avevano un odore e una sostanza prima ancora di dirci qualche cosa con le parole stampate. I più belli in Italia erano le opere complete di Benedetto Croce, con una carta meravigliosa, con una copertina meravigliosa ma tutto ciò non corrispondeva all'interno perché erano bellissimi, profumatissimi e illeggibili anche se si leggevano. Anche i libri di Salgari in Edizione Bemporad erano belli per la copertina a colori e per un odore un poco acido di cancelleria e a tutti si tagliavano le pagine. Non c'erano libri rilegati, se si voleva rilegarli si andava dal rilegatore. E anche lì c'erano odori di colla e di carta, odori secchi e sostanze secche, come lo spago, la resina, la colla e i fogli di carta. I libri più buoni ai sensi erano quelli francesi, semplicissimi e ancora oggi uguali ma con odore diverso. I libri americani già allora avevano l'aspetto di spazzatura, di scatole di cioccolatini, erano rilegati, non erano né bue né manzo, né vitello, né cacca di cavallo, niente di niente. Quelli inglesi, invece, pure essendo rilegati avevano qualche cosa di aristocratico come le selle dei loro cavalli o come i loro cavalli o le loro scarpe.
Quello che voglio dire è che bisogna stare attenti, dare molto peso all'attenzione e non badare se gli altri sono disattenti ma essere sempre attenti anche nel coraggio, nell' onore e nella dignità. Anche queste sono cose, non virtù morali, sono cose come il cuoio, il manzo, il vino Campofiorin, i residuati di guerra, sono cose che hanno una loro vita organica e che della vita organica comunicano ai nostri sensi qualche cosa che se noi siamo abituati all' attenzione non dimenticheremo mai più. Anche a New York ci sono le carrozzelle e i cavalli ma non hanno nessun odore di cacca di cavallo né di cuoio né di cavallo. E le donne non sanno di donne e gli uomini non sanno di uomini. Qualche volta sanno di profumo, altre volte di sangue o di rotaia. Come mai questa storia?
Il coraggio, la dignità e l'onore anche queste sono cose e hanno un loro sapore e odore e profumo e via dicendo. Basta usare l'attenzione, si riconoscono negli uomini e nelle donne, anche se oggi tutti dicono di sì e se uno è offeso nel suo onore fa finta di niente perché bisogna esser politici, anzi ringrazia e china il capo perché è più conveniente. In questo modo si finisce per sentirsi feriti nell' onore se uno ti sorpassa in automobile e questa è una cretineria per se stessi, non una offesa degli altri al tuo onore. E via dicendo.
«Corriere della Sera», 9 febbraio 1985

Enzo Biagi
La rabbia del Bel Paese

Diffido di chi dite: «Gli italiani sono fatti così». Così come? I miei concittadini resistono a ogni assalto, e di ogni guaio danno la colpa alla fatalità. Saltano dighe, straripano fiumi, falliscono banche, evadono mafiosi e dinamitardi, delude un risultato elettorale: la responsabilità è del destino che, secondo un vecchio presidente della Repubblica, oltre ad essere cinico è anche baro. Non va dimenticato che siamo i padri del melodramma. Anche i grandi della Patria avevano qualche dubbio sui loro connazionali, e Giuseppe Mazzini, quando rimpatriò dall'Inghilterra per andare a morire a Pisa, passando da Roma rifiutò di uscire dalla stazione «per non vedere» spiegò «la città dei miei sogni». Il conte di Cavour confessò a un intimo: «Che fortuna avere conosciuto l'Italia dopo averla fatta».
È anche piena di contraddizioni: è la sola nazione al mondo che include nel proprio territorio due altri Stati: il Vaticano e San Marino. E generalmente considerata «la terra del sole»: e Manchester ha un clima più mite di Milano, e Venezia è più fredda di Londra e più calda di Casablanca. Abbiamo nella Marsica gli orsi, come nei Carpazi, in Sardegna le foche, come sulla banchisa polare, a Siracusa il papiro come in Egitto.
C'è anche chi parla del «Bel Paese»: dovrebbe difendere trentamila chiese, ventimila castelli, settecento musei, migliaia di monumenti e di centri storici. Ma con pochi miliardi: intanto, secondo gli appelli, «Venezia muore», vacillano il Colosseo e l'Arco di Costantino e le gallerie e le pinacoteche sono di solito chiuse quando arrivano i turisti.
Proprio il «New York Times» parlò una volta di «suicidio all'italiana».
Adesso siamo in crisi: e quella morale è anche più devastante di quella economica. Si è scoperto che la politica viveva di due finanziamenti: uno pubblico corretto, e uno illegale. Per anni i partiti hanno incassato miliardi, e non si è mai stabilito quanti soldi sono stati investiti in congressi, manifesti, o spot televisivi, e quanti sono finiti nelle tasche di onorevoli, mediatori, segretari, opportunamente definiti «portaborse». Ma la legge, da noi, è come il barometro: quasi sempre sul variabile. E così il ministro della Giustizia, per non provocare troppi dolori agli inquisiti, ha inventato un decreto [poi bloccato dal presidente della Repubblica, N.d.R. ] per liquidare Tangentopoli: non va più in galera chi ha violato le antiche norme che dovevano garantire la democrazia, perché ha commesso un illecito, e non un reato. I colpevoli dovrebbero restituire i soldi che, per l'opinione pubblica, hanno semplicemente rubato, e poi sparire dalla circolazione: mi pare improbabile questo recupero. Anche chi ha firmato assegni a vuoto se la caverà con una multa. Questo provvedimento è destinato a far felici le imprese: molte, specie quelle edilizie, erano paralizzate dalle pendenze giudiziarie. Abbiamo tanti disoccupati, e presto la colpa dei guai sarebbe stata appioppata ai giudici. I quali avvertivano che il male della corruzione è così diffuso che i processi sarebbero andati avanti quasi all'infinito. Adesso stop. Si sbrigheranno più in fretta, e peggio per chi è caduto nella rete. Ci sono anche i sette morti di Tangentopoli, e per suicidio. E c'è una novità, perché nessuno vorrà negare che siamo geniali, il Consiglio dei ministri cancella anche le violazioni del passato perché, almeno da queste parti, la legge può avere addirittura effetto retroattivo.
Che cosa dirà la gente? Penso che cresceranno il disgusto e l'indignazione, e le fabbriche che chiudono potrebbero anche incoraggiare un nuovo terrorismo. Nato dalla rabbia più che dalle ideologie. La classe dirigente si è accorta che le carceri sono disumane quando sono finiti dentro alcuni alti funzionari. Si è parlato, nientemeno, di Cislapo quando è stato condotto in aula con le manette il portavoce dell'ex segretario della Democrazia cristiana, accusato di falsa testimonianza. Per una stupida crudeltà, che si esercita, di solito, senza che nessuno protesti, anche ai pacifici detenuti. Misero le catenelle anche ad Enzo Tortora, un presentatore televisivo. Sono stati, ovviamente, puniti per l' «arbitrio» tre poveri carabinieri. Proteste clamorose del Parlamento, e basta d'ora in poi con gli obiettivi dei fotografi e delle telecamere al Palazzo di Giustizia di Milano: stanno scoprendo la dignità umana.
Qui si condona, si esonera, si appella, si grazia. Non si previene mai, se va bene si risana. li bilancio, il fiume inquinato, la finanza pubblica. Una volta Bettino Craxi, ex presidente del Consiglio ed ex guida dei socialisti, oggi sotto inchiesta dei magistrati, disse: «Non ci sono più ideali, si gestiscono interessi. Le conseguenze si vedono». Già. E nel caos ritrovi personaggi e vicende di vent'anni: società segrete, banchieri dalla morte misteriosa, burocrati avidi, imprenditori disinvolti, tanti simboli del potere, e anche autorevoli rappresentanti della Chiesa. Nella confusione delle sigle che rappresentano molte disoneste aziende pubbliche: Anas, Enel, Eni, Sea, imprese che hanno rifornito il banchetto dei ~~bustarellari», è entrato anche lo 101', braccio affaristico della finanza vaticana. Evidentemente per fare del bene occorre concedere un certo spazio al male.
E se oltre a quello delle tangenti, si affrontasse un tema, non meno nefasto: la lottizzazione? Si sono vendute anche le carriere. Prezzo: una tessera, e l'adesione totale agli ordini dei capi. La raccomandazione, che non rispetta i meriti, è diventata una necessità. Ma forse è una tradizione. Anche ai santi si domanda di intercedere. Perfino Dante andava in giro con lettere commendatizie, e Alessandro Manzoni chiese al governo se poteva evitare il trasferimento del genero. Pare che allora fossero capaci di rispondere di no. È venuto il momento di ricominciare. Qualcuno dice che siamo i più corrotti d'Europa. Non credo: i più in difesi. Ma forse dopo l'operazione «Mani pulite», anche se non del tutto, è sperabile che se non fiorirà la virtù almeno si imponga un po' di paura. E che non siano sempre gli stessi a rappresentare la malattia, il medico e la cura.

«Corriere della Sera» e «New York Times», 1 O marzo 1993

Sandro Veronesi
Domenica di secessione sulle sponde del Po

Quando incomincio a incrociare per le sponde del Po, sul confine tra Veneto e Emilia, alle dieci di domenica mattina, la Radio Nazionale (Repubblica Italiana) ha già dato il via a un capillare intreccio di collegamenti in diretta, per uno speciale non-stop che potrebbe benissimo chiamarsi «Tutta la secessione minuto per minuto». Apprendo, dunque, che il catamarano «Virgilio» è ripartito da Boretto senza Umberto Bossi, che Cito è dovuto scendere a Rovigo dal suo treno speeciale Anti-Lega per via della segnalazione di una bomba, che Nando Dalla Chiesa si è già insediato sul ponte di Piacenza con la sua contro-catena umana in difesa dell'Unità Nazionale, e che l'appena annunciata Guardia Nazionale Padana ha già fatto la sua comparsa nelle postazioni lungo il fiume, all'insaputa dello stesso Maroni, in una sorta di spontaneismo domestico che ha spinto i più impazienti a farsi cucire nottetempo il nome della Brigata sulla camicia verde. Dunque sta accadendo davvero ...
La domenica è calda e luminosa, l'ideale per una scampagnata sul fiume, e l'unico elemento che stacca sulla quinnta sfumata del mattino padano è la gran quantità di forze dell' ordine schierate in assetto antiguerriglia. A Ferrara mi unisco al mio amico B., che lascerò anonimo perché non si sa mai, il quale mi porta notizie fresche con l'edizione ferrarese del «Resto del Carlino», secondo la quale Bossi è atteso per mezzogiorno e mezza alla Rocca medievale di un paese chiamato Stellata di Bondeno. Così attraversiamo il Po per poi costeggiarlo diretti verso est, tenendo d'occhio le sponde per cercar di avvistare qualche anello della famosa catena leghista. Ma è dura, è un po' come andare a funghi: è tutto un «Là, un gruppetto!», «Laggiù, una bandiera!», «Un gommone!»; ma non si fa mai in tempo a fermare la macchina che la visione è bell' e svanita. Sbagliamo anche strada due o tre volte, soprattutto perché i nomi di questi paesi sono troppo lunghi e sulla cartina che ho avuto in omaggio col cambio dell' olio sono scritti tutti a cavallo del fiume, senza che sia chiaro su quale sponda stanno. Ma alla fine, dopo avere ammirato il campanile di Ficarolo (più storto della torre di Pisa, una vera scoperta), e accolti dall'insegna volante di una sorprendente «Festa dell' Anatra», arriviamo a Stellata di Bondeno, la cui Rocca ha un nome accattivante, Rocca Possente, e forse è anche per questo che Bossi l'ha scelta per la sua sosta: un mas" siccio bastione in laterizio, risalente al XVI secolo, quadrato e ben restaurato, se non fosse per la paranoia di cavi elettrici che lo imbrigliano come fosse un insaccato, deturpandolo. Di gente ce n'è un po' di più, stavolta, tra secessionisti e indigeni curiosi, ma proprio per questo anche le forze dell' ordine sono proliferate ulteriormente, il che, come nota il mio amico B., genera il classico effetto più trappole che topi. Chissà che la discordanza sulle cifre registratasi nei giorni scorsi non nasca proprio da questo: forse i leghisti contavano anche i poliziotti, e i giornalisti italiani no.
Sull' erba, tra gli alberi, nello sventolio delle bandiere, si affollano le camicie verdi: di un verde strano, per la verità, non il verde bandiera che mi aspettavo, ma una specie di verde USL da gabbana dei portantini d'ospedale, molto meno epico. In effetti su alcune si legge la scritta d'oro «Brigata Leon» e «Brigata Cinghiale» cucita sul petto, all' altezza del cuore: nessuna traccia, invece, della «Brigata Vipera», i temibili Tonnton Macoutes personali del Senatùr, che evidentemente bazzzicano da altre parti. La composizione dell' assembramento è molto assortita, sembra una campionatura delle Stirpi e delle Etnie di cui parla l'articolo VIII della Costituzione Provvisoria della Repubblica Federale Padana: si sente parlare veneto e lombardo, soprattutto, ma anche arabo - il che significa che c'è qualche bergamasco: semmai è il ferrarese a latitare, ma è normale, dopotutto, dato che da queste parti la Lega non arriva al due per cento. Molte sono famiglie di picnickers professionisti, con gli sgabelli pieghevoli ultraleggeri e il kit della formaggeria da sbarco, mentre dal punto di vista razziale il tipo fisico preponderante sembra quello degli addetti agli skilift delle località sciistiche: zazzerette biondo-polenta, carnagione abbrustolita, zigomi scarlatti decorati di mille venuzze viola e liquidi occhi alcolici dall'iride celeste su bulbo rosa. In mezzo al prato, davanti agli alberi, biancheggiano due tende a pianta quadrata: una è la famigerata «gabina», dove chiunque può votare quante volte vuole per sostenere la nascita della Padania, e l'altra è lo spaccio dello scarno merchandising leghista, il cui pezzo forte è la banconota da «cincentmila» raffigurante Umberto Bossi e Alberto da Giussano, «pagabil a vista al portadur», firmata dal «governadur» e controfirmata dal «caser» della Banca della Padania Libera e Indipendente. Costano mille lire l'una. Vistosissimo in un completo nero, si aggira per la postazione anche un meridionale, talmente tale, nella lingua, nei gesti, nell' anello al dito e nei calzini rosa, da far pensare che sia stato ingaggiato: una specie di scout, che le camicie verdi potrebbero avere assoldato come le Giubbe Rosse facevano con gli Irochesi rinnegati, e il cui ruolo, allora, oltre che dimostrare la tolleranza del popolo padano, dev' esssere quello di esca per stanare i terroni veri che volessero infiltrarsi nella truppa.

Naturalmente la partecipazione di popolo tocca la sua acme a mezzogiorno e mezza, l'ora fatidica: tre o quattrocento persone, ormai, si stanno stringendo intorno alle due tende in attesa del Grande Arrivo - dal cielo, per di più, perché ormai è ufficiale che Bossi, oggi, si muove in elicottero. Invece arriva solo il segretario provinciale della Lega, Teodori, 27 anni, candidato Pro console delle Stirpi Estensi, che arranca fin sopra l'argine con la sua Alfa 33 comprata a Rovigo - c'è l'adesivo dell'autosalone. Parcheggia proprio accanto a noi e scende sorridendo nella sua camicia verde nuova di zecca: vi si distinguono ancora le pieghe orizzontali della confezione. Ruzzola fino alle tende mentre noi sbirciamo dentro la sua macchina: un nastro degli Eurythmics sul cruscotto, un pulcinotto giallo appeso al retrovisore, un cambio di vestiti casual sul sedile posteriore - come Eltsin all' epoca dei suoi trionfanti comizi dell'89. L'indizio più interessante, comunque, è il «Resto del Carlino» sul sedile passeggero, aperto alla pagina dello sport locale, ancora caldo. Titolo: «Spal, tre punti d'obbligo».
Comincia cosÌ una delle ore e mezza più sublimi che mi sia mai capitato di trascorrere. Nel giorno della seccessione, seduuto sul cofano della sua macchina, ascolto il comizio di un funzionario indipendentista che scalda la folla in vista dell' avvento del leader maximo, atteso «a momenti» visto che la scorta è già arrivata e Lui, ha detto Teodori, «arriva sempre un quarto d'ora dopo la scorta». Nel cielo comincia un'accesa schermaglia propagandistica, col mitico Cesna del senatore Berselli (l'Italo Balbo delle Valli) che si trascina dietro la provocatoria scritta «Viva l'Italia», al quale risponde il Piper leghista, munito di sirena, che staglia nell' azzurro il suo «Padania libera». Dopo il terzo passaggio di Berselli la voce di Teodori, al miicrofono, si fa largo tra i fischi e gli improperi, ricordando che la «Lega con Alleanza Nazionale non ha nulla - pausa - a cui spartire». Anche B., mi accorgo, è estasiato: «Non credevo», dice, «che nella mia vita avrei potuto vedere tutto questo». In ritardo, quando ormai gli altri due velivoli stanno già spernacchiando su Pontelagoscuro, passa anche l'aeroplanino dei Verdi, che sventola con orgoglio il suo «Padania? No grazie»: nessuno lo considera, e il comizio va avanti.
Il fatto è che Teodori, alla sua grande occasione, ha ordine di tenersi sul lungo perché Bossi tarda ulteriormente, ma verso l'una gli abitanti del luogo cominciano a sentire il richiamo di un altro rito sacro della domenica padana, quello che si officia con le ginocchia sotto il tavolo grattugiando il parmigiano sul cappelletto fumigante: e allora, per tamponare l'emorragia degli indigeni, con cinque ore di anticipo rispetto al proclama di Venezia, Teodori si lancia nella spericolata dichiarazione di secessione di Stellata di Bondeno dalla Repubblica Italiana. Sono le 13 e 12 quando questo paesotto di settecento anime viene solennemente sganciato dallo Stato centralista, andando a costituire, in attesa dello Stato Padano, la più piccola entità politica indipendente sulla faccia della Terra: e sarà dura anche per la Lega, ora che ha assaggiato questa ebbrezza, farlo rientrare nei ranghi di una Repubblica Federale.
Un elicottero atterra, a un chilometro di distanza, e per un istante temo che Bossi arrivi per davvero, a sciupare la poesia di questo momento: ma ridecolla subito dopo, e se c'era veramente Lui, a bordo, dopo aver saputo in quanti eravamo rimasti ad aspettarlo deve aver deciso di darci il bidone. Ma Teodori continua a crederci, e insiste nel giustificare il ritardo del Capo raccontando aneddoti sulla Sua proverbiale generosità, che lo spinge a prolungare molto più del previsto ogni incontro con il Suo popolo. Ne esce il ritratto dell'uomo più inattendibile del mondo, dal quale, in pratica, è sovranamente vano attendersi il rispetto di qualsiasi impegno: non credo fosse quello che voleva Teodori, ma la situazione ormai gli è sfuggita di mano. Per due volte conclude il comizio al grido di «Padania Libera!», e per due volte, sfumati gli applausi, è costretto a continuarlo. Ormai gli argomenti scarseggiano, fisco e meridionali sono già stati abbondantemente sviscerati, e dopo il terzo finale arriva la resa: purtroppo Bossi non verrà, si è attardato troppo a Castelmassa, ed è già ripartito per Chioggia. C'è anche un riferimento all' elicottero «finito fuori pista» che non so come interpretare, forse è una metafora per gli addetti agli skilift, i quali per parte loro non si perdono d'animo e in quattro balletti allestiscono un agile banchetto cisalpino - a base di vino, più che altro. Per me e B., che non abbiamo la spudoratezza di favorire, c'è il furgone delle piadine saggiamente appostato sull'argine, che deve fare affari d'oro, col fixing del salsicciotto salito fino a ottomila lire.
Gira voce che il proprietario sia un meridionale, ma non è confermato.
Poi, d'un tratto, immediatamente dopo che Teodori ha invitato. tutti a rimanere fino al giuramento delle sei, la diaspora si fa precipitosa. Due eventi incombono, del resto, a svuotare la scena: uno è la partita Spal-Pistoiese allo stadio Mazza di Ferrara (i famosi «tre punti d'obbligo»), che risucchia via il furgoncino delle piadine insieme alle forze dell' ordine e agli ultimi indigeni, compresi il mio amico B. e, ci scommetto, Teodori stesso, improvvisamente scomparso - e me lo vedo, che si cambia in macchina mentre guida, rischiando l'incidente, per presentarsi in borghese nella sua poltroncina autorità a partita appena cominciata; l'altro è la citata «Festa dell'Anatra», prevista in serata e per la quale incominciano degli allegri preparativi di sinistra che scacciano le Etnie venete e lombarde verso altre meno promiscue postazioni. In breve l'argine di Stellata di Bondeno, dichiarato indipendente tre ore fa, si ripopola della sua consueta fauna domenicale in tuta di felpa: ciclisti, passeggiatori di cani, tifosi con la radiolina sparata sulle partite di calcio. In camicia verde è rimasta solo una famiglia di vicentini, strenua sotto un alberto a cantar cori e a urlare «Viva Bossi», finché ad annichilirla arrivano i gol di Balbo e Fonseca, con i quali la Roma espugna Vicenza proprio nel momento in cui i capi secessionisti, a Venezia, si stanno facendo il nodo alla cravatta.
Mancano dieci minuti alle sei quando Bossi fonda ufficialmente la Padania, e questo fantastico nulla diventa irreversibile: sarà guerra, immagino, nelle redazioni di tutti i giornali del mondo, per ottenere il privilegio d'essere inviati in missione a raccontarlo.
«l'Unità», 20 settembre 1996


Dacia Maraini
Quell'Italia in esilio che guarda avanti

A volte allontanarsi dal proprio Paese aiuta a capirlo meglio. Per esempio si può scoprire che esiste un'altra Italia, molto più grande di quella che siamo abituati a pensare chiusa nei suoi confini. Una Italia senza frontiere, molto diversa da come ci immaginiamo noi italiani. Una Italia fatta di figli e nipoti di emigranti che nello sforzo di integrarsi in Paesi difficili hanno perso la familiarità con la nostra lingua, ma si scoprono, alla terza o quarta generazione, innamorati delle loro radici, curiosi di una lingua dimenticata ma presente da qualche parte nella memoria sotterrata, pronti a creare nuovi legami col passato.
Ascoltando e interrogando si scopre così una propaggine del nostro Paese che non conosciamo, una Italia che nella immaginazione si associa ancora troppo spesso con le varie Little Italy che appaiono nelle foto ingiallite: quartieri popolosi di grandi città straniere, bottegucce dai nomi dialettali, affreschi di cristi e madonne paesani con accanto il ritratto ingrugnato di Mussolini. Certo ci sono ancora tracce di quell'Italia povera e ignorante della vecchia emigrazione, ma nel ricambio delle generazioni le cose si sono modificate a tal punto da essere irriconoscibili.
Questo popolo in esilio, ora che si è profondamente integrato, ora che ha preso a fare carriera nei Paesi di elezione, si sente libero di guardarsi indietro, di scoprire le meraviglie di una storia antica e piena di sorprese, di appartenere a una cultura che ha condizionato il mondo con le sue idee, le sue scoperte, i suoi travagli mentali, le sue spericolate immaginazioni. È un popolo che non legge i nostri giornali, non vede (potremo dire per fortuna?) le nostre televisioni, si nutre attraverso la rete, si riconosce nei film, nelle canzoni e nei libri italiani che circolano per strade non istituzionali. La nuova identità comporta qualche rischio per 1'equilibrio psichico, ma i giovani sono pronti a correre questo rischio perché ne vale la pena. Non che siano meno americani o meno brasiliani o meno argentini, ma sono intenti a costruire un tessuto connettivo che nel mondo della globalizzazione ha qualche ragione di essere. Guai però a pensare che si tratti di un ricco vivaio in cui andare a pescare voti. Sarebbe un errore volgarissimo e controproducente.
Questa Italia che sta cercando mentalmente casa, che è curiosa e aperta, seria e disposta a mettere in discussione molte sicurezze, ha forme nuove, inattese e imprevedibili. Comunque si tratta di persone che non sono interessate all'Italia dei campanili, e nemmeno a un parlamento asfittico e litigioso, ma cercano una Italia nuova, tutta da costruire, anche con la loro partecipazione. Una Italia che si riconosce nella memoria consapevole del suo creativo e fertile passato e vuole primeggiare ancora, ma sul piano delle idee e delle scoperte, come è accaduto in tanti momenti felici della nostra storia.
«Corriere della Sera», 28 luglio 2009

Ezio Mauro
Un anno, quattro mesi, ventuno giorni.

Viaggio dalla morte all'Italia

L'Italia? È una stanza bianca e blu, la numero 1703, pneumologia 1; primo piano dell'ospedale «Cervello».
Un tavolino con quattro sedie, due donne coi capelli bianchi negli altri due letti, dalla finestra aperta le case chiare del quartiere Cruillas, le montagne di Altofonte Monreale, il caldo d'agosto a Palermo. Sui due muri, in alto, la televisione e il crocifisso, una di fronte all' altro. È quel che vede Titti Tazrar da ieri mattina, quando apre gli occhi. Quando li chiude tutto balla ancora, ogni cosa gira intorno, il letto è una barca che si inclina e poi si piega sulle onde. Titti cerca la corda per reggersi, d'istinto, come ha fatto per 21 giorni e 21 notti, con la mano che da nera sembra diventata bianca per la desquamazione, una mano forata dalle flebo per ridare un po' di vita a quel corpo divorato dalla mancanza d'acqua.
La gente che ha saputo apre la porta e la guarda: è l'unica donna sopravvissuta - con altri quattro giovani uomini - sul gommone nero che è partito dalla Libia con un carico di 78 disperati eritrei ed etiopi, ha vagato in mare senza benzina per 21 giorni, ha scaricato nel Mediterraneo 73 cadaveri e ha sbarcato infine a Lampedusa cinque fantasmi stremati da un mese di morte, di sete, di fame e di terrore. Quei cinque sono anche gli ultimi, modernissimi criminali italiani, prodotto inconsapevole della crudeltà ideologica che ha travolto la civiltà dei nostri padri e delle nostre madri, e oggi ci governa e si fa legge. I magistrati li hanno dovuti iscrivere, appena salvati, al registro degli indagati per il nuovo reato d'immigrazione clandestina, i sondaggi plaudono. Anche se poi la vergogna - una vergogna della democrazia- darà un calcio alla legge, e per Titti e gli altri arriverà l'asilo politico. Scampati alla morte e alla disumanità, potranno scoprire quell'Italia che cercavano, e mcommC1are a Vivere.
Un'Italia che non sa come cominciano questi viaggi, da quanto lontano, da quanto tempo: e come al fondo basti un richiamo composto da una fotografia e una canzone. Titti ad Asmara aveva un' amica col telefonino, e ascoltavano venti volte al giorno Eros Ramazzotti nella suoneria, con L'Aurora. In più, a casa la madre conservava da anni una cartolina di Roma, i ponti, una cupola, il fiume e il verde degli alberi. Tutti parlavano bene dell'Italia, le mail che arrivavano in Eritrea, i biglietti con i soldi di chi aveva trovato un lavoro.
Quando la bocciano a scuola, 1'undicesimo anno, e scatta l'arruolamento obbligatorio nell' esercito, Titti decide che scapperà in Italia. E dove, se no? Fa due mesi di addestramento in un forte fuori città, soldato semplice. Poi, quando . torna ad Asmara, si toglie per sempre la divisa, passa da casa il tempo per cambiarsi, prendere un vestito di scorta, una bottiglia d'acqua più la metà dei soldi della madre, delle cinque sorelle e del fratello (200 nakfa, più o meno 10 euro), e segue un vecchio amico di famiglia che la porterà fuori dal Paese, in Sudano Prima viaggiano in pullman, poi cresce la paura che la stiano cercando, e allora camminano di notte, dormendo nel deserto per sette giorni. Senza più un soldo, Titti va a servizio in una casa come donna delle pulizie, vitto e alloggio pagati, così può mettere da parte interamente i 250 pound sudanesi mensili. Quando va al mercato chiede dove sono i mercanti di uomini, che organizzano i viaggi in Europa. Li trova, e quando dice che vuole l'Italia le chiedono 900 dollari tutto compreso, dal Sudan alla Libia attraversando il Sahara, poi il ricovero in attesa della barca illegale, quindi il viaggio finale. Ci vuole un anno per risparmiare quei soldi. E quando si parte, sul camion i mercanti caricano 250 persone, sul fondo del cassone dov'è più riparato dalla sabbia ci sono con Titti due donne incinte e una madre col bimbo di tre mesi. Lei ha due bottiglie d'acqua, le divide con le altre, ci sono i bambini di mezzo, non si può farne a meno. Prima della frontiera con la Libia li aspettano, tutti guardano giù dal camion, temono un posto di blocco, invece sono gli agenti locali dei mercanti, li guidano per una strada sicura e li portano nei rifugi, disperdendoli: parte ammassati in un capannone, parte nei casolari isolati, soprattutto le donne. Le fanno lavorare in casa e negli orti, cibo e acqua sono come in galera, il minimo indispensabile. Trattano male, fanno tutto quel che vogliono. Dicono sempre che la barca è pronta, che adesso si parte, ma non si parte mai. Intimano alle donne di non uscire di casa e Titti diventa amica di Ester e Luam, che abitano con lei per quasi quattro mesi. Chi ha parenti in Europa deve dare l'indirizzo mail, in modo che i mercanti scrivano, chiedano soldi urgenti per aiutare il viaggio, per poi intascare la somma quando arriva al money transler, da qualche parte sicura. Invece un pomeriggio alle cinque tutti urlano, bisogna uscire, sembra che si parta davvero. Le ragazze dicono che non hanno niente di pronto, non hanno messo da parte il pane e nemmeno l'acqua dalle porzioni razionate, non sapevano: possono avere qualcosa da portare in barca? Non c'è tempo, alle sei bisogna essere in mare, via con quello che avete addosso, e tutti lontani dalla spiaggia che possono arrivare i soldati, meglio nascondersi dietro i cespugli e le dune, forza.
La barca è un gommone nero di dodici metri, che normalmente porta dieci, dodici persone. Loro sono 78, nesssun bambino, 25 donne. Non riescono a trovare spazio, c'è qualche tanica di benzina sotto i piedi, stanno appiccicati, incastrati, accovacciati, qualcuno in ginocchio, altri in piedi tenendosi alle spalle di chi sta sotto, nessuno può allungare le gambe. Ma ci siamo, è l'ultimo viaggio, in fondo a quel mare da qualche parte c'è l'Italia; Titti a 27 anni non ha la minima idea della distanza, pensa che arriveranno presto. Ecco perché è tranquilla quando arriva la prima notte, lei che è partita solo con dieci dinari, i suoi jeans, una maglia bianca e uno scialle nero. Nient' altro.
«Adei», madre, sto andando, pensa senza dormire. «Amlak», dio, mi hai aiutato, continua a ripetersi mentre scende il freddo. A metà del secondo giorno, quando le ragazze pensano già quasi di essere arrivate, la barca si ferma. Il pilota improvvisato dice che non c'è più benzina. Schiaccia il bottone rosso come gli ha insegnato il trafficante d'uomini, ma non c'è nessun rumore. Adesso si sente il rumore delle onde. Nessuno sa cosa fare. Gli uomini provano col bottone, danno consigli, uno scende in mare a guardare l'elica. Le donne si coprono la testa con gli scialli. Si avverte il caldo, nessuno lo dice, ma tutti pensano che l'acqua sta finendo. Chi ha pane lo divide coi vicini. Un pizzico di mollica per volta, facendo economia, allungandola nel pugno chiuso per farla bastare fino a sera, cinque, sei bocconi.
La notte fa più paura. Non c'è una bussola, e poi a cosa servirebbe, con il gommone trasportato dalle onde, spinto dalla corrente, e nessuno può fare niente. Finiscono i fiammiferi, dopo le sigarette, non si vede più niente. Tutti a guardare il mare, sembra che nessuno dorma. La quarta notte spuntano delle luci a sinistra, poi se ne vanno, o forse la barca ha girato a destra. Era una nave? Era un paese? Era Roma? Cominci a sentirti impotente, sei un naufrago.
All'inizio ci si vergogna per i bisogni, fingi di fare un bagno attaccato con una mano alla corda, chiedi per favore di rallentare, e fai quel che devi in mare. Poi man mano che cresce l'ansia e anche la disperazione, non ti vergogni più. Chi sta male, chi sviene dal caldo e dalla fame, i bisogni se li fa addosso. Quando la situazione diventa insopportabile tutti urlano in quella parte del gommone: «Giù, giù, vai in mare, vai». Ma il settimo giorno i problemi cambiano. Muore Haddish, che ha vent'anni, ed è il primo. Continua a vomitare da ventiquattr'ore, sta male, si lamenta prima della fame poi solo della sete. «Mai», acqua. Lo ripete continuamente. Anche Titti ripete «mai» nella testa, c'è solo acqua intorno a loro, eppure stanno morendo di sete, non riescono a pensare ad altro.
Due ragazzi, Biji e Gbenè, si danno il turno a sorreggere Haddish, altri fanno il turno in piedi per lasciargli lo spazio per distendersi, uno sale persino sul motore. Dopo il tramonto tutti lo sentono piangere, urlare, gemere, poi non sentono più niente e non sanno se si è addormentato o se è morto. «È arrivato - dice all' alba Ghenè - noi siamo in viaggio e lui è arrivato». I due giovani prendono Haddish per le spalle e per i piedi, dopo avergli tolto le scarpe, e lo gettano in mare. Le ragazze piangono, una donna canta una nenia sottovoce. Yassief si è portato in barca una Bibbia. La apre, e legge i Salmi: «Quando ti invoco rispondimi, Dio, mia giustizia: dalle angosce mi hai liberato, pietà di me, ascolta la mia preghiera». Titti piange per il ragazzo morto, e pensa che non si poteva fare altrimenti. Adesso ha paura che il viaggio duri ancora giorni e giorni, che il mare li risospinga indietro verso la Libia, non possono viaggiare con un cadavere, e poi hanno bisogno di spazio.
«Meut», la morte, comincia a dominare tutti i pensieri, riempie «semai», il cielo, verrà dal mare, «bahari». Le donne si coprono la testa, il sole stordisce più della fame, tutto gira intorno, la nausea cresce, salgono vapori ustionanti di benzina e di acqua dal fondo del gommone. A sera, ogni sera, Yassief leggerà la Bibbia, Giosuè, Tobia, i Salmi, e cercherà di confortare i compagni: noi stiamo morendo, ma qualcuno ce la farà. Muore qualcuno ogni giorno, ormai, e il numero varia. Uno, poi tre, quindi cinque, un giorno quattordici e si va avanti così.
Dicono che i primi a morire sono quelli che hanno bevuto l'acqua di mare, Titti non sapeva che era mortale, non l'ha bevuta solo per il gusto insopportabile, si bagnava le labbra continuamente. Poi Hadengai ha l'idea di prendere un bidone vuoto di benzina, tagliarlo a metà, lavare bene la base e metterla sul fondo della barca, dove i morti hanno aperto uno spazio. Spiega che dovranno raccogliere lì la loro orina, per poi berla quando la sete diventa irresistibile, pochi sorsi, ma possono permettere di sopravvivere. Lo fanno, anche le donne, però di notte. Titti beve, come gli altri. Potrebbe bere qualsiasi cosa: anzi, lo sta facendo.
Dopo quindici giorni, appare una nave in lontananza.
Sembra piccolissima, ma tutti la vedono, c'è. Chi ce la fa si alza in piedi, si toglie la maglia ingessata dal sale per agitarla in alto, urla. A Titti cade lo scialle in mare, l'unica protezione dal freddo, l'unico cuscino, la coperta, l'unico bene. Yassief e un altro ragazzo sono i soli che sanno nuotare: lasciano la Bibbbia a una donna che ha la borsa con sé, si tuffano, è l'ultima speranza, torneranno a salvarli con la nave e li prenderanno tutti a bordo, dove c'è acqua e cibo. Tutti si alzano a guardarli, ma il gommone va dove vuole, dopo un po' nessuno li ha più visti, e pian piano la nave lontana è scomparsa, loro non ci sono più. L'acqua è un' ossessione e intanto pensi al pane, al riso, alla carne, scambi i frammenti di legno per briciole, sai che è un inganno ma te li metti in bocca. Senti le forze che vanno via, vedi buttare a mare i cadaveri e non t'importa più. Ora quando arriva la morte butteranno giù anche me, pensa Titti, spero che mi chiudano gli occhi. Non sai i nomi dei tuoi compagni, conosci solo le facce. Al mattino ne cerchi una e non la vedi più, oppure ne trovi una che avevi visto calare in mare, non sai più dove finisce l'incubo e comincia la realtà.
Ma adesso in barca tutti sanno che le due amiche, Ester e Luam, sono incinte, anche se non lo dicevano perché la gravidanza era cominciata in Libia, nella casa dei mercanti d'uomini, tra le minacce e la paura. Tutti lo sanno perché loro stanno male e parlano dei bambini. Gli altri ascoltano, la pietà è silenziosa, nessuno litiga, qualcuno sposta chi gli cade addosso dormendo. Anche se non è dormire, è mancare. Non sai quando svieni e quando dormi. Ora allunghi le gambe sul fondo, i morti hanno lasciato spazio ai vivi. Titti è più forte delle amiche. Quando Ester perde il bambino, è lei che getta tutto in mare, poi lava il vestito, e pulisce il gommone mentre tiene la mano all' amica, che dice basta, tutto è inutile, vado. Muore subito dopo, Titti non piange perché non ha più le forze; quando muore anche Luam due giorni dopo, lei si lascia andare. Pensa solo più a morire, scuote la testa quando la donna con la Bibbia ripete quel che ha sentito da Yassief, ed ecco, noi stiamo morendo ma qualcuno arriverà. No, lei adesso rinuncia. Non pensa più all'Italia, non sa dov'è, non la vuole. Non ha più nessuna paura. Ripete a se stessa che dev' essere così in guerra, nelle carestie. Basta, vuoi finire, vuoi solo arrivare al fondo della fame, della sete, di questo esaurimento, non hai il coraggio o l'energia o la lucidità per buttarti e lasciarti andare, affondare sott' acqua e sparire, ma vuoi che sia finita.
Persa l'Italia, il gommone adesso ha di nuovo uno scopo: diventa un viaggio per la morte, e va bene cosÌ. La diciassetttesima notte, forse, Titti si separa da tutto e raduna tutto, la madre e Dio, il cielo, il mare e la morte, «Adei, Amlak, semai, bahari, meut». Rivede suo padre accovacciato, che fuma conntro il muro la sera. Si accorge che la sua lingua, il tigrigno, non ha la parola aiuto.

Si accorge dalle urla, all'improvviso, che c'è una barca di pescatori e li ha visti. Arriva, e nessuno ce la fa più a gridare. Accostano, ma quando vedono sette cadaveri a bordo e quegli esseri moribondi hanno paura e vanno indietro. Allora i due ragazzi si avventano, non lasciateci qui. La barca si ferma, lanciano un sacchetto di plastica, ma finisce in acqua. Si avvicinano, ne lanciano un altro. Hadangai lo afferra e mentre lo aprono i pescatori se ne vanno, indicando col braccio una direzione. Dentro c'è il pane, con due bottiglie. Titti beve, ma afferra il pane. Appena ha bevuto ne ingoia un morso, ma urla e sputa tutto. Il pane taglia la gola, non passa, lo stomaco e il cuore lo vogliono ma il dolore è più forte, ti scortica dentro, è una lama, non puoi mangiare più niente. Ma con l'acqua l'anima comincia a risvegliarsi. Forse siamo vicini a qualche terra. Sia pure la Libia, basta che sia terra. Ed ecco un rumore grande, più forte, più vicino, poi sopra, davanti al sole. È un elicottero, si abbassa, si rialza. Arriva una motovedetta di uomini bianchi, non vogliono prenderli a bordo, ma hanno la benzina, sanno far ripartire il motore, dicono ai ragazzi come si guida e il gommone li deve seguire. Un giorno e una notte. Poi l'ultima barca. Questa volta li fanno salire.
Sono rimasti in cinque: cinque su 78. Chi ce la fa ancora va da solo, Titti la devono portare a braccia. Non capisce più niente, tutto è offuscato, c'è soltanto il sole e lo sfinimento. La siedono. Poi le buttano acqua in faccia. Lì capisce di essere viva. Non chiede con chi è, né dov'è. Che importanza può avere, ormai? Forse non è nemmeno vero, basta chiudere gli occhi per rivedere la stessa scena fissa di un mese, gli odori, gli sbalzi, il rumore delle onde. Così anche in ospedale, dove le visioni continuano, volti, cadaveri, immagini notturne, incubi sul soffitto e sul muro bianco e blu. Ma se allunga la mano, Titti adesso trova una bottiglietta d'acqua. Attorno non muoiono più. Ieri le hanno dato una card per telefonare a sua madre ad Asmara, le hanno detto che è in Italia. Le persone entrano e le sorridono. Due ore fa un medico le ha raccontato in inglese che hanno perso l'altro naufrago ricoverato al «Cervello», Hadengai, in camera non c'è, l'hanno chiamato per una radiografia e non si è presentato, hanno guardato sulle panchine nel giardino ma nessuno sa dove sia. Lei non vuole più pensare a niente. Tiene una mano sulle labbra gonfie, con l'altra mano, dove c'è un anello giallo alto e sottile, tira il lenzuolo per coprire la piccola scollatura a V del camice. Ha paura che sapendo della sua fuga all' Asmara facciano qualcosa di brutto a sua madre e alle sue sorelle. E però vorrebbe dire a tutti che ha fatto la cosa giusta, anche se adesso sa cosa vuol dire morire: ma oggi, in realtà, è la sua vera data di nascita. Quando non ci sperava più ce l'ha fatta, è arrivata. Non ha più niente da dire, può solo aspettare.
Poi si apre la porta, e arriva Hadengai. Ha una tuta da ginnastica nera, con la maglietta bianca, cammina lentamente incurvando tutti i suoi 24 anni, e spinge piano il vassoio col cibo che vuole mangiare qui. Ci ha messo un po' di tempo ad arrivare, si è perso, è tornato indietro, guardava senza capire tutte quelle scritte, la sala dialisi, le proposte assicurative in bacheca, i cartelli dell' Avis, la macchinetta al pian terreno che distribuisce dolci e caramelle e funzionava da punto di riferimento. Poi ha trovato la camera di Titti. Si è seduto sul bordo del letto della paziente accanto, che sotto le coperte si è fatta un po' più in là. I due naufraghi parlano sottovoce, lui assaggia qualcosa del pollo con patate che ha sul vassoio, non apre nemmeno il nailon del pane, lei taglia in quattro un maccherone. Ma va meglio, ormai.
Non hanno un'idea di che cosa sia davvero l'Italia 2009, fuori da quella porta. Ma prima o poi capiranno che sopra l'ascensore numero 21, proprio davanti a loro, c'è scritto «la vita è un bene prezioso».
«la Repubblica», 26 agosto 2009


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