venerdì 13 gennaio 2012

Limes libro il mare nostro è degli altri

LIMES – IL MARE NOSTRO E’ DEGLI ALTRI

IL MEDITERRANEO NELL’OCEANO MONDO
Marco Caruso

Per capire come sta cambiando la regione mediterranea conviene anzitutto osservare le trasformazioni del suo sistema portuale, per leggervi  in controluce i nuovi, dinamici profili economici e geopolitici. La riconfigurazione dell’economia mondiale ha infatti comportato negli ultimi anni un notevole incremento degli scambi internazionali via mare. Il trasporto di merci su scala globale è oggi assorbito per l’80% dalla modalità marittima, che si muove su tre principali rotte: translatantica (Europa-Nordamerica orientale); transidiana (Asia-Europa, via Mar Rosso-Mediterraneo-Mare del Nord); transpacifica (Asia-Nordamerica). Negli ultimi dieci anni, con la forte delocalizzazione dei centri produttivi verso l’area dell’Estremo Oriente-Pacifico, il Mediterraneo ha assunto un ruolo di crescente centralità nelle strategie delle compagnie di trasporto marittime (liner shipping companies), che lo considerano un corridoio fondamentale per raggiungere velocemente i mercati di destinazione delle merci imbarcate.

Lo sviluppo del traffico marittimo tra aree geografiche sempre più vaste ha dato un forte impulso alla standardizzazione delle unità di carico (container) e delle relative tecniche, dei processi e delle procedure operative che mirano alla complementarità tra modi di trasporto su distanze molto diverse. Si tratta di organizzare la catena di trasporto facendo leva sull’uso specializzato di differenti vettori, allo scopo di ottimizzare le prestazioni, riducendo i costi, il tempo e i rischi del passaggio da una modalità all’altra. Questo sistema a stella, definito hub and spoke (perno e raggio) presuppone due categorie di navi e due differenti tipologie di porti. La nave madre naviga lungo le principali rotte mondiali, carica e scarica container toccando pochi porti hubs, strategicamente posizionati e ben organizzati. I container depositati negli hubs vengono caricati e scaricati da navi più piccole (feeders), che toccano gli scali minori, fuori dalle rotte principali. Si ottiene così la più efficace toccano gli scambi minori, fuori dalle rotte principali. Si ottiene così la più efficace prestazione complessiva dal punto di origine a quello di arrivo: condizione vincolante per rimanere “nel giro”.
Il settore del trasporto container nel Mediterraneo, considerato dalle compagnie di trasporto un mero sistema di hubs of transshipment (“perni di trasbordo”), ha dunque dovuto affrontare una fase di profonda quanto rapida trasformazione per adattarsi alle nuove esigenze  del traffico globalizzato. La preesistente morfologia di postazioni e rotte di traffico di merci è diventata automaticamente secondaria. Emerge una direttrice di flusso lineare dominante, tra Suez e Gibilterra, nettamente orientata da est a ovest (con una componente limitata di movimento di merci in senso inverso). Questo flusso scorre parallelamente alla costa Sud e tende ad avanzare sempre più rapidamente verso i mercati del Mare del Nord e dell’Atlantico settentrionale, appoggiandosi a una catena  di hubs dove depone parte del suo carico alle navi feeders.
L’uso globalizzato del trasporto container e del sistema hub and spoke ha progressivamente aumentato le dimensioni delle navi: i dati più recenti forniti dai cantieri navali (marzo 2009) fanno capire che per reggere la competizione globale di stivaggio, salendo a 13/14 mila teu, con quel che ne consegue per i complessi portuali mediterranei.
Se il traffico containerizzato ha spinto la società di linea a modificare rotte e criteri di scelta dei porti basandosi sulle performance del commercio asiatico, sono poi i terminalisti a investire in postazioni su cui si assicurano concessioni pluridecennali, funzionali allo scalo di grandi navi, sul modello dei porti iperspecializzati di Singapore, Shangai, Shenzhen e Hong Kong, impostosi dopo il 2002. Anche nel Mediterraneo la raccolta dei container è sempre più affidata a società logistiche internazionali di provata professionalità per garantire un adeguato fattore di carico delle navi. Queste a loro volta convergono verso i porti che garantiscono le interconnessioni porto-territorio e mettono a disposizione distriparks portuali o centri inermodali collocati  strategicamente nel retroterra, anello indispensabili per la fluidità dei trasporti dal mare alla terra e viceversa.
In definitiva, compagnie di trasporto e operatori di terminali  tendono a condizionare i piani nazionali di sviluppo territoriale, in modo che tengano conto delle loro esigenze commerciali. Ma ora il quadro si complica per l’impatto seccamente negativo della crisi economica e del credito sul traffico marittimo mondiale.

2. Fino agli anni Novanta il sistema portuale mediterraneo era centrato sul traffico regionale, di breve raggio, e sui servizi secondari. L’affermarsi del sistema hub and spoke, con l’incremento degli scambi tra Europa ed Estremo Oriente e tra Europa e America, ne ha modificato il ruolo. Per collocazione strategica e proprietà peculiari  dei mercati che lo circondano, è divenuto un bacino cruciale per il trasporto intermodale di lungo raggio. Sottraendo così quote a quelli che fino ad allora erano stati gli unici destinatari delle merci che arrivavano in Europa via Suez: i grandi porti del Northern Range, scaglionati sul Mare del Nord tra Le Havre e Amburgo.
Il recupero di competitività del Mediterraneo nei confronti del Northern Range si è costruito su tre fattori. Anzitutto, l’aumento del traffico, anche a seguito dell’allargamento del Canale di Suez , nonché la possibilità di ridurre i tempi di rifornimento ai mercati delle aree gravitanti sul Mediterraneo e interessate dal commercio proveniente dall’Estremo Oriente. Poi, si è messo a frutto le opportunità insite nello sviluppo degli scambi commerciali lungo la sponda Sud del Mediterraneo, tra paesi del Maghreb e Vicino Oriente. Infine, con una buona dose di ottimismo, si è puntato su uno scenario di crescita economica dell’area del Mar Nero, Turchia compresa, dove per determinate tipologie di merci la via marittima resterà ancora a lungo più vantaggiosa rispetto ai percorsi terrestri, per i collegamenti con i paesi dell’Europa occidentale e mediterranea.
Anche se alcuni parti si sono imposti come fondamenti hubs  di trasbordo sulla direttrice del flusso di container est-ovest assorbendone quote importanti, negli ultimi anni la crescita del movimento sud-mediterraneo ha perso di slancio nei confronti del Northern Range, che ha finito per recuperare il primo assoluto  e relativo.

Nell’area mediterranea vengono movimentati annualmente 35 milioni di container, con un trend in crescita fino al 2008. Ma oggi, con la crisi economica mondiale che ha provocato un crollo del commercio internazionale, si avvertono forti riflessi negativi anche sui flussi di merci nel Mediterraneo.

3. Il commercio mondiale su nave è controllato quasi esclusivamente dai primi venti gruppo specializzati nella movimentazione di container. Il Mediterraneo è il loro “ponte intercontinentale”.

I gruppi  europei più attivi nel Mediterraneo sono nordici, italiani registrati all’estero o filiali di gruppi nordici e francesi. Sono presenti nel Mediterraneo tutti i grandi gruppi del Nord Europa che hanno un’esperienza di lungo tragitto nello shipping. Nati per l’esigenza di commerciare nei grandi porti del Nord, non si sono lasciati sfuggire la possibilità di recuperare fette di mercato mediterraneo.

Sono soprattutto le compagnie cinesi a battere aggressivamente il Mediterraneo in cerca di posizioni da acquisire. Così il gruppo armatoriale cinese pubblico Cosco ha vertiginosamente ingrandito le sue attività con flotte di portacontainer, attività logistiche e terminalistiche, di noleggio e costruzione container. Cosco si è alleata con la Msc per la gestione del terminale di Levante di Napoli e ha trattato, sulla base di un accordo intergovernativo, lo sviluppo di due nuovi terminal e una concessione per 35 anni nel porto del Pireo, apertosi alla privatizzazione.

4. Seguendo la rotta est-ovest che sbocca a Suez e trova le prime postazioni hub d’obbligo sul Mediterraneo egiziano – lo storico Port Said e la più recente Damietta – il flusso in cerca di trasbordi vantaggiosi punta deciso su Malta.

Complementare al ruolo di Malta quello di Gioia Tauro, in Calabria, che ha visto uno straordinario sviluppo negli ultimi anni contenendo il primato di movimentazione container nel Mediterraneo allo storico hub di Algeciras, grazie alla varietà di rotte feeder che afferiscono al suo scalo e lo collegano con 60 porti del Mediterraneo e del Mar Nero.

Da Malta o da Gioia Tauro, un unico balzo porta all’hub di Algeciras, in Spagna, il più importante scalo dell’Europa meridionale per la movimentazione dei container, gestito dalla terminalista Apm del gruppo Moller-Maersk. Poi il flusso si dirama per le rotte atlantiche.
Ma questo era il viaggio di ieri. Nel 2007 è nata una nuova stella in terra d’Africa: Tangeri. E’ stato proprio il grande sviluppo di Algerciras a spingere l’Apm, difronte alla crescente inedaguatezza ricettiva di quello scalo, a espandere le sue attività con un hub completamente a Tangeri, in Marocco. Ottima la posizione geografica: affacciato sull’Atlantico ma connesso in linea diretta con Suez, lo hub marocchino potrebbe convogliare anche le merci che provengono dal Sudamerica e intercettare le nuove rotte commerciali che, favorite dal diminuite costo del greggio, evitano i costi di Suez e le insidie dei pirati del Golfo di Aden circumnavigando l’Africa intorno al Capo di Buona Speranza.

Nel Mediterraneo del Nord i porti che hanno un mercato di riferimento importante alle spalle (i cosidetti “scali a spalle coperte”) si difendono meglio dalla lottizzazione delle compagnie di trasporto e delle società terminaliste. I porti emergenti nel Mediterraneo stanno cercando di ridurre le proprie lacune guardando all’organizzazione e alla progettazione del Northern Range per creare sistemi di collegamento intermodale che permettano di raggiungere nel modo più veloce ed efficiente possibile i mercati europei.

Barcellona e Marsiglia cercano di collocarsi in questa tipologia. Purtroppo il progetto comunitario di fattibilità della rete di corridoi infrastrutturali Ten è un’esercitazione sulla carta, molto carente nell’ipotizzare i reali flussi di traffico e i tempi di realizzazione.

5. Marsiglia e Barcellona danno l’esempio ai porti italiani dell’Alto Tirreno, che con Genova come capofila cercano di seguirli nella tipologia di sviluppo e di organizzarsi per non perdere quote di mercato a vantaggio dei concorrenti francesi e spagnoli. La loro situazione di partenza però è molto meno favorevole. Mentre il corridoio ferroviario Genova-Rotterdam, su cui lo scalo ligure punta per profilarsi come una sorta di sotto-hub del megaporto olandese, resta fuori dal libro verde dell’Ue, i presidenti delle autorità portuali di Genova. La Spezia e Savona evidenziano l’urgenza di intervenire prima che sia troppo tardi.

Per parte loro, i presidenti delle autorità portuali di Venezia, Trieste e Ravenna, in alleanza con Capodistria, hanno stretto un accordo per creare un unico gateway con cui i quattro scali si presentano insieme sul mercato internazionale, puntando sul recupero di sviluppo dell’Europa centrorientale e dei Balcani.

Quanto all’autorità portuale del Levante (Bari, Barletta, Monopoli), segue altri obiettivi di ristrutturazione e sviluppo, galvanizzata dal record storico di passeggeri registrato nel 2008.
Abbiamo già accennato al monopolio Contship (Eurokai-Eurogate) su Gioia Tauro, porto che oggi svolge quasi esclusivamente operazioni di Transshipment e non riesce a esprimere le sue grandi potenzialità perché manca di un sistema logistico adeguato alle spalle. La Contship, o chi per essa, oggi è presente con varie quote partecipative in concessioni per la movimentazione merci anche nei porti di strategie della Contship. Cagliari poi è in una posizione strategica nel centro del Mediterraneo occidentale, lungo la rotta che collega Gioia Tauro con Barcellona, Genova e Marsiglia. Quanto a Taranto, che invece ha le caratteristiche idonee a svolgere un ruolo importante anche per i traffici tra il basso e l’Alto Adriatico, vi opera il gruppo taiwanese Evergreen. Ma anziché che svolgere una funzione complementare, rischia di trovarsi in competizione con Gioia Tauro.
A Napoli troviamo infine due protagonisti del traffico internazionale portacontainer nella partenership paritetica al 46% tra la Msc e la cinese Cosco (China Ocean Shipping Company), costituita con la Conateco per trasformare Napoli in hub di smistamento, in concorrenza con scali mediterranei non italiani. Come per il contiguo porto di Salerno, le possibilità di successo sono scarse se non inesistenti, perché lo spazio a disposizione per la costruzione di nuove banchine è limitato per le caratteristiche della città e i vincoli posti dall’importanza paesaggistica delle zone limitrofe.

6. Tutto il sistema portuale del Mediterraneo, specialmente nella facciata Sud, è un grande cantiere. Almeno una decina sono i progetti in cui si intrecciano investimenti statali e di grandi gruppi privati. Naturalmente questi progetti hanno delle gerarchie: si sviluppano alcune aeree e determinate attività, mentre se ne trascurano altre. Grazie ai soldi del petrolio provenienti da Dubai e dai paesi del Golfo, ma anche ai finanziamenti europei e indiani, la costa meridionale del Mediterraneo è seconda solo alla Cina quanto a investimenti esteri.
TangerMed è il progetto modello di come una grande società terminalista, la Apm del gruppo Moller-Maersk, si inserisce nella progettazione di uno Stato. Il piano originario prevedeva che nel giro di sette anni il porto di Tangeri avrebbe raggiunto la capacità di 8,5 milioni di container all’anno, conquistando così il primato nel Mediterraneo e quasi raggiungendo Rotterdam. Nel dicembre 2008 è stata lanciata la zona franca logistica TangerMed, con l’ambizione di costruire una piattaforma logistica leader in Europa, Mediterraneo e Africa occidentale. Un progetto ispirato dall’araba Dp World di Dubai. La gestione della relativa free zone è affidata alla società Medhub, controllata al 100% dalla Tmsa, agenzia marocchina per lo sviluppo del porto. Attualmente TangerMed ha una capacità di 3,5 milioni di teu a fronte dell’obiettivo previsto per il 2012 di 5 milioni di teu.

Così la Dp World (Dpw) dà le ali agli ambiziosi progetti algerini per lo sviluppo della portualità. Il 17 marzo è stata creata una società di diritto algerino compartecipata al 50% tra Epal (ente algerino per la gestione dei porti) e Dpw, che ha assunto la gestione del porto di Algeri.

Facendo leva sul suo impegno ad Algeri, la società di Dubai ha rinnovato il contratto di gestione di quello che sarà il nuovo porto di Djendjen, concepito come uno hub, da portare alla capacità di 1,5 milioni d teu l’anno.

La strategia di Dpw continua in Tunisia, saltando la Libia, il cui principale progetto è la creazione di una città hub per il business energetico, un centro servizi a livello mondiale. La Tunisia è una piattaforma ideale per i mercati del mondo arabo e del Magreb grazie all’accordo di libero scambio con Marocco, Egitto, Giordania, Libia e Turchia. E’ prevista la realizzazione di un porto “acque profonde” a Enfidha, che potrà accogliere navi container di grandi dimensioni.

L’Egitto ha stanziato 4 miliardi di euro per rinnovare il terminal che sorgerà a Port Said, dove già opera la Moller-Maersk, e intercetterà il traffico che passa attraverso il Canale di Suez. Il progetto East Port Said prevede la costruzione di terminal per rinfuse liquide e di una zone industriale accanto al terminal, Lo scalo raggiungerà nel 2015 la capacità complessiva di 15  milioni di teu.
Damietta è il porto egiziano più dinamico.

7. La portualità del bacino Est del mediterraneo si sta sviluppando in funzione di tre opzioni di traffico, su cui gravano ancora molte incertezze. La prima è il mercato dell’Est Europa e della Russia. La seconda è il mercato che dal Caucaso via Mar nero e Turchia, cerca uno sbocco al Mediterraneo. La terza è la direttrice del Sud-est, ossia dei futuri grandi movimenti di merci che potrebbero essere attivati dall’eventuale reintegrazione di Iraq, Siria e Iran nei mercati mondiali.

8. Nel 2009 il volume del commercio mondiale potrà diminuire almeno del 9% su base annua a causa della recessione economica mondiale.

La crisi potrebbe mettere a seria prova la riacquista centralità del Mediterraneo. Il traffico in questa regione è stato finora indissolubilmente legato ai mercati e alle produzioni orientali e americana: se diminuisce la merce spostata, calano anche i passaggi nei porti del Mediterraneo. Nella minor movimentazione giocano anche il crollo del prezzo del greggio, il fattore Suez e la pirateria nel Golfo di Aden, che spinge molte compagnie a optare per la rotta che aggira il Capo di Buona Speranza.
La crisi del credito, è ovvio, non fa sconti a nessuno: che le compagnie privare siano in difficoltà a mantenere progetti impegnativi con prospettive incerte per il futuro è anche comprensibile. Ma è anche vero che far scontare ai sistemi portuali e ai lavoratori che a essi afferiscono il rischio di una politica anelastica di mera movimentazione merci avulsa da logiche di sviluppo territoriale, è una scelta perdente per tutti. I porti non sono solo un elemento chiave della catena logistica, fanno parte di un sistema integrato di responsabilità istituzionali che deve ricominciare a funzionare. In particolare, il meccanismo delle concessioni alle compagnie non può risolversi in un assegno in bianco, soprattutto se a lungo termine. Deve essere uno strumento di governance attraverso il quale equilibrare gli interessi dei privati e le necessità di sviluppo e di tutela proprie del settore pubblico.
Recuperare il terreno di gestione manageriale perduto dalle autorità portuali, grandi e piccole, non sarà facile. Gli accordi di integrazione verticale tra shipping companies e terminal operators danno infatti alle prime  un controllo totale sui terminali. E quindi aprono la possibilità di accendere tra i porti competizioni insostenibili. Anche in questo senso, la sponda Sud del Mediterraneo potrà rivelarsi più mobile rispetto a noi europei nel reagire alla Crisi.

IL FUTURO  E’ A SUD
Josè Maria Palencia

280 milioni di abitanti , un terzo del commercio mondiale, energia in quantità ed economie in crescita. Il Mediterraneo sudorientale è una sfida lanciata all’Europa, con Spagna e Italia in prima linea. Se non ci muoviamo in fretta, altri lo faranno per noi.

1. Verso la metà di questo secolo, lo spazio economico europeo potrebbe rappresentare il 35% del prodotto interno lordo (pil) mondiale. Ciò significherebbe il raggiungimento dell’obiettivo europeo di unificare in uno spazio strategico i dieci paesi del Sud del Mediterraneo. L’alternativa: passare dal 23% dell’attuale pil mondiale a un meno 15%. Se ciò avvenisse, l’Europa potrebbe perdere definitivamente il suo status mondiale, con conseguenze strategiche imprevedibili. La partita è già iniziata. Tra cinque anni si vedrà il vincitore.
La chiave del successo europeo si chiama Meda: 280 milioni di abitanti, un terzo del commercio mondiale, un enorme quantità di idrocarburi, un’identità politica in piena formazione, un’emigrazione disperata verso le nostre coste e una bomba a orologeria a livello ambientale attendono una risposta da parte nostra. La Francia, con Sarkozy, ha espresso la volontà di fungere da catalizzatore politico ed economico dell’Unione Europea nella zona. Il Regno Unito, nonostante la distanza e la scarsa affinità culturale, ha lo stesso numero di progetti della Spagna e dell’Italia messe insieme. Nel 2008, la Grecia ha superato gli investimenti della Spagna e dell’Italia rimane ultima tra i paesi europei, addirittura dietro a Stati non propriamente mediterranei, come l’Austria, l’Olanda o l’India. Gli italiani e gli spagnoli, nonostante la crisi economica (o proprio in virtù di questa), dovrebbero capire che gli interessi di un paese sono in primo luogo, legati alla sua posizione geografica e, quindi, agire di conseguenza. Spagna e Italia hanno una concreta opportunità di svolgere un ruolo da protagonisti in quest’ambito.
A 15 miglia nautiche da Cadice e 150 dalla Sicilia  si possono vedere le gru del Tanger Med, dove passano ogni anno 3,5 milioni di container. Questo porto ha raggiunto dimensioni superiori a Felixstowe, l’infrastruttura portuale più grande della Gran Bretgna, il che ne fa il terminale principale del Mediterraneo; ma già è in atto la seconda fase dello sviluppo, che lo porterà a breve ai livelli di Rotterdam. Se ciò non bastasse, si tenga conto che porti di capacità simile sono in fase di realizzazione anche in Algeria, Tunisia, Malta ed Egitto. L’afflusso di investimenti cinesi, russi indiani e brasiliani sottolinea ulteriormente il valore strategico del Mediterraneo.

Subito dopo l’elezione di Sarkozy, la Francia ha dimostrato un certo pragmatismo, lanciando nel luglio 2008 l’iniziativa dell’Unione Mediterranea (con l’Italia e la Spagna nel ruolo di comprimarie.

I fulcri dell’iniziativa francese erano l’energia nucleare, la lotta all’inquinamento marino e le infrastrutture portuali: tutti settori in cui l’industria transalpina occupa buone posizioni. A seguito delle rimostranze di Berlino per essere stata esclusa dal progetto, questo da francese è divenuto comunitario, assumendo la più ambigua denominazione di Unione del Mediterraneo. Nella sua nuova veste, l’Unione comprende l’Ue a ventisette e i dieci paesi Meda, senza tuttavia un’agenda definita e, soprattutto senza alcun finanziamento. La situazione parla da sé.

2. L’area mediterranea attira, nell’insieme, più investimenti dell’India o del Mercosur. Con i suoi 60 miliardi di dollari nel 2006, il nostro mare entra in concorrenza anche con la Cina, che nello stesso anno ha attirato capitali esteri per complessivi 70 miliardi. La natura di questi investimenti, oltre alla loro entità, ci consente di comprendere perché, dopo decenni di indiscusso predominio dell’Atlantico, il pendolo degli equilibri economici mondiali è tornato a spostarsi verso il Mediterraneo.
Innanzitutto, un terzo del commercio mondiale passa attraverso le coste di Gibilterra e del Marocco. Si tratta delle merci provenienti dalla Cina e dai paesi del Sud-Est asiatico, dirette verso i mercati europei e nordamericani; ma anche di buona parte del petrolio meridionale, che solca il mare nostrum passando per il canale di Suez. L’importanza strategica dei paesi sponda Sud è ben riassunta dalle parole di Joschka Fischer, ex ministro degli Esteri tedesco, secondo cui “la sicurezza dell’Europa non si definisce più sulle sue frontiere a est, bensì nel mediterraneo orientale e in Medio Oriente.

Che scommette, oggi, sul Mediterraneo? Negli ultimi cinque anni c’è stato un notevole cambiamento nei flussi di Ide verso l’area. Attualmente, l’Europa rappresenta il 40% degli investimenti, seguita dagli Stati Uniti, passati dal 25% al 10%. I paesi del Golfo, invece, sono saliti dal 16% al 30%, mentre le economie emergenti, come il Basile e l’India, hanno moltiplicato la loro presenza e, ormai, rappresentano il 20% del totale. Energia, banche, telecomunicazioni, chimica, metallurgia, turismo e automobili sono i settori in cui si concentrano la maggior parte degli investimenti. Per quanto riguarda i paesi recettori, nel 2008 Turchia, Israele ed Egitto hanno attirato, da soli, il 60% del flusso di Ide verso la regione mediterranea.

L’Ue rappresenta oggi la destinazione di circa il 65% delle esportazioni dei paesi Meda; parallelamente, la sponda Sud del Mediterraneo ha raddoppiato il suo ruolo di mercato di sbocco delle merci comunitarie, passando in 10 anni dal 5% al 10%.

4. Le novità maggiori, come prima accennato, arrivano però dall’Oriente. Nel 2008, l’India ha investito quasi 2 miliardi di euro nel Mediterraneo, soprattutto in idrocarburi (Egitto), costruzione di automobili attraverso il gruppo Tata (Turchia) e fertilizzanti (Tunisia). La Cina, con la sua tipica combinazione pragmatica di sviluppo economico e strategia a lungo termine, è presente da più di dieci anni nella zona, soprattutto in Marocco (costruzioni e infrastrutture), Algeria (industria chimica di base e macchinari industriali) ed Egitto (fabbricazione di televisori). I motivi di questa delocalizzazione risiedono fondamentalmente nella volontà di creare un’immagine positiva del made in China, piuttosto che nel costo della manodopera.

Il mix di investimenti stranieri, valute locali relativamente stabili e sistemi finanziari che, grazie al loro isolamento internazionale, hanno risentito in minima parte della crisi mondiale, consentiranno ai paesi dell’area di sottrarsi all’attuale spirale recessiva.

Ciononostante, con un pil pro capite medio che nel 2007 superava di poco i 6 mila dollari, i paesi Meda sono al livello dell’Europa orientale degli anni Cinquanta o della Romania del 1975. Per la prima volta nella storia delle grandi migrazioni moderne, dunque, il capitale va verso il lavoro. L’emigrazione che giunge in Spagna e Italia dal Magreb (Algeria, Marocco, Tunisia, Libia, e Mauritania), in molti casi non produce alcun impatto economico rilevante sui paesi d’origine.

Le responsabilità e le opportunità di Francia, Italia e Spagna sono, in questo contesto, enormi.

5. La natura dei progetti sviluppati dalla Ue nei paesi Meda è, per questioni di vicinanza geografica e compatibilità dei mercati, la più equilibrata. Per numerose dimensioni, i progetti energetici spiccano al di sopra degli altri: da soli, essi assorbono oltre il 30% degli Ide comunitari. Seguono, in ordine di importanza, i servizi finanziari (15% degli Ide), le telecomunicazioni (11%), cemento, carta, edilizia, infrastrutture e turismo (9-10% ciascuno).
Gli investimenti europei, al pari degli altri, trovano nei paesi Meda un contesto finanziario complessivamente buono, caratterizzato da bassa incidenza dei prestiti ipotecari, crescente accesso della classe media al credito al consumo, indice di fallimenti aziendali complessivamente contenuto e (benedetto paradosso) isolamento dei sistemi finanziari dal resto del mondo.

Questa stabilità valutaria rende abbastanza facile quantificare i futuri flussi di denaro (in euro) provenienti dai progetti europei nei paesi Meda, specialmente quelli dei media entità, accessibili alle piccole e medie imprese (pmi). A mio parere, il vantaggio competitivo più importante di Spagna e l’Italia sta proprio qui: nella possibilità di integrare l’economia della gente comune negli scambi con il Sud del Mediterraneo. Ovvero, nell’opportunità di sfruttare la vicinanza fisica e culturale e l’affinità dei modelli di consumo per valorizzare l’enorme potenziale delle pmi che già operano in ambito Meda.

L’Italia possiede il più ricco tessuto di piccole e medie imprese dell’Unione Europea, con un rapporto dimensioni/eccellenza e una vocazione internazionale che, nonostante l’assedio impietoso della burocrazia più assurda dell’Europa sviluppata, non ha eguali altrove.

Alcuni passi:
·        Selezionare in modo sensato gli ambiti d’azione: ambiente, gestione delle acque, istruzione (non indottrinamento), energia e infrastrutture sono settori adeguati alla Spagna e all’Italia (oltre che alla Francia, come ha sottolineato en passant Sarkozy).
·        Semplificare le procedure,
·        Migliorare il carente coordinamento tra ministeri e agenzie governative, tipico dei paesi in via di sviluppo,
·        Migliorare i due strumenti finanziari basilari per un piccola impresa: l’accesso  al credito e i servizi finanziari complementari.
·        Stabilire una cornice fiscale semplice e stabile.
Nei prossimi dieci anni, una generazione di cittadini del Sud sarà inesorabilmente protagonista della grande “movida mediterranea”. Italiani e spagnoli sono obbligati a partecipare: la geografia ci colloca in prima linea.

FORTEZZA EUROPA: COME CAMBIANO LE ROTTE DELLA DISPERAZIONE
Paola Monzini

La decisione del governo italiano di respingere in Libia le barche dei migranti irregolari apre una nuova fase di una tragica partita. Le logiche economiche e geopolitiche dei flussi di clandestini verso il nostro continente. Quale prevenzione?

Cerchiamo di capire perché gli incidenti sono più frequenti e come mai di recente è aumentato notevolmente il flusso in arrivo in Italia: dai 20,445 sbarchi registrati nel 2007 si è infatti passati ai 36.951 del 2008, e i primi dati del 2009 indicano un’ulteriore crescita. Per un’analisi approfondita occorre andare al di là dei recenti respingimenti  in mare verso la Libia, avvenuti per la prima volta nel maggio 2009.
Il quadro generale in cui si inscrivono questi sbarchi non è di emergenza o di invasione. Al contrario: le analisi più puntuali testimoniano fin dagli anni Novanta una consistente diminuzione del flusso migratorio che attraversa3 il Mediterraneo provenendo per lo più dall’Africa. Secondo i più recenti studi, infatti, nell’ultimo ventennio i flussi di partenza dall’Africa e dal Medio Oriente sono in costante riduzione. L’immigrazione verso di noi è sempre più spesso “bianca”, “ortodossa” ed “europea”: in sostanza arriva dall’Europa orientale. I flussi dall’Africa sono stati contenuti dalle prassi in atto.
E’ ormai chiaro da anni che gli arrivi dal mare hanno contribuito solo modestamente ad alimentare l’immigrazione irregolare. Secondo gli ultimi calcoli del ministero dell’intero italiano, tra gli stranieri senza permesso nel 2007 solo il 13% era arrivato dal mare senza documenti: la maggioranza degli irregolari (64%) era invece composta dai cosidetti overstayers, entrati in Italia regolarmente con un visto e poi rimasti oltre la scadenza, per lo più originari dell’Europa orientale; il restante 23% aveva invece usato la frode per superare i controlli delle frontiere.

Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere esterne della Ue, realizza operazioni straordinarie di carattere multinazionale per pattugliare il mare. Dato che fermare le traversate all’origine è impossibile, le rotte vengono “mozzate”. Si sono levate aspre polemiche da parte degli attivisti per i diritti umani perché nelle acque dell’Atlantico sarebbero stati usati mezzi poco convenzionali, che ledono fortemente i diritti umani dei migranti. L’agenzia Frontex nega. In totale, sulle rotte delle Canerie, Fortress Europe ha registrato 2.625 morti: certamente il numero effettivo è molto più alto. Secondo le stime del direttore della Croce Rossa in Mauritania, il 40% delle traversate verso le Canarie fallisce, e tra il 10 novembre 2005 e il 6 marzo 2006 almeno 1.200/1.300 persone sono annegate.

Gli arrivi si moltiplicano in relazione a eventi eccezionali. La punta di massima incidenza assoluta del fenomeno è del 1999, anno in cui registrano 49.999 persone sbarcate, quasi esclusivamente in Puglia. E’ l’effetto dell’esodo prodotto dalla guerra del Kosovo.

E’ interessante notare che già nel 2002 in Italia arrivano non più solo magrebini, ma anche africani sub sahariani e asiatici (Bangladesh, Pakistan, Iraq). Infatti una volta aperta la rotta, i richiedenti asilo e i migranti di tanti paesi africani, nordafricani e mediorientali si dirigono lentamente, con lunghissimi viaggi a tappe, a Tripoli per cercarvi i contatti necessari a passare in Europa. C’è anche chi arriva in aereo per raggiungere le organizzazioni libiche capaci di programmare il viaggio per mare. Ancora oggi sono i trafficanti libici a offrire ai migranti la possibilità di compiere la parte più difficile del viaggio, che è l’ingresso nell’area Schengen, a un prezzo per molti accessibile.  Attualmente il prezzo per una traversata si aggira intorno ai 1.200-1.500 euro.
Per il viaggio in mare le organizzazioni libiche, diversamente da quelle che operavano in precedenza dalla Tunisia, utilizzano quasi esclusivamente barche o gommoni “usa e getta”: imbarcazioni di medie dimensioni, di pessima qualità e con motori nuovi, caricate all’eccesso di persone (in media 40). In Italia infatti, dopo gli arresti di scafisti, i trafficanti libici decidono di annullare i rischi di arresto, sicché sono i migranti a ricevere rudimentali istruzioni su come dirigere la barca. L’unico strumento di bordo spesso è una bussola per raggiungere Lampedusa da Zuwara, il principale luogo di partenza, si insegna a seguire la rotta 0,05. Soprattutto se i passeggeri sono richiedenti asilo sub sahariani, sui barconi sono caricati anche più di un centinaio di passeggeri. Generalmente il pagamento delle traversate è richiesto in anticipo. Il fatturato minimo annuo, calcolando un prezzo medio di 1.500 euro a traversata per passeggero per 325 mila passaggi, è quindi di almeno 487,5 milioni di euro.
Il traffico in Libia è ormai ben radicato.

La recente decisione del governo italiano, che ha cominciato a respingere gli immigrati in Libia, senza preoccuparsi degli eventuali richiedenti asilo, va contro le convenzioni internazionali. Ma nel lungo periodo potrebbe portare alla diminuzione degli sbarchi in Italia. Molto dipende da cosa farà la Libia. In ogni caso, qualche nuova decisione deve essere presa, e questo sembra essere almeno un sasso gettato nello stagno. E’ infatti in atto una sorta di mattanza, i morti sono centinaia. Questa reazione rappresenta una grande novità in Italia, dove almeno nella fase di prima accoglienza il lavoro delle forze di polizia e il pattugliamento del mare erano sempre orientati anzitutto alla difesa dei diritti umani. Le nuove prassi, al fine di combattere l’immigrazione irregolare, fissano diversi parametri per la protezione dei richiedenti asilo, non applicando le regolamentazioni formali del principio di non respingimento. Recentemente il principio di non.refoulement è sempre meno applicato e già quasi svuotato del suo senso. Anche si levano voci di dissenso all’Onu e nell’Ue, questa progressiva perdita di terreno del non respingimento è un processo storico ormai ben avviato, che certamente non è da condividere, ma da ostacolare.

4. Nel quadro attuale i migranti senza documenti sono vere e proprie “pentole dell’oro”, movimentate o trattenute per fare le fortune di chi riesce meglio a sfruttare la loro vulnerabilità. E’ ormai riconosciuto dagli analisti che i flussi di irregolari sono platealmente combattuti, ma in realtà fanno comodo ai paesi di transito e di destinazione (come il nostro), perché i lavoratori in nero ne nutrono le economie grigie, e al tempo stesso ai paesi di  origine, che ricevono le imprese dei migranti.

La questione della migrazione irregolare è molto complessa e le misure finora proposte, ovvero l’aumento dei pattugliamenti, accompagnato da nuovi spauracchi per i migranti una volta arrivati nei paesi europei (ovvero i 18 mesi di limite massimo di detenzione per chi è in attesa di riconoscimento), non possono risolverla. Attorno ai migranti senza documenti è cresciuto negli anni un notevole indotto, in tutti i paesi di transito e di destinazione. A speculare sulla loro posizione di irregolarità non solo gli organizzatori dei viaggi clandestini, i cosiddetti trafficanti, ma anche i funzionari corrotti, che percepiscono le “mazzette”, e – ancor più – tutti coloro che ne sfruttano il lavoro nero, nei paesi di transito e di arrivo: in Africa, in Medio Oriente, in Italia e negli altri paesi europei. Analizzare in dettaglio l’economia nera e il sistema sociale clandestino che crescono a livello transnazionale attorno a queste figure (le cosiddette bastard institution), cercando di quantificare modalità e giri di affari dello sfruttamento lavorativo, e mettere a punto strumenti per ridurre queste economie parallele, questo sii consentirebbe, nel medio periodo, di ridurre i movimenti irregolari. Insieme, occorre una politica della migrazione regolare che lasci aperte le porte anche a chi parte dall’Africa, non più precludendo a priori alcune destinazioni.



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